teresa, giovane monaca trappista

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teresa, giovane monaca trappista
TERESA, GIOVANE MONACA TRAPPISTA
Seguimi! E’ la parola soave e forte che Gesù rivolge a tutti. E’ la parola che Gesù ha rivolto anche a
me, non in modo strano o meraviglioso, ma nella normalità della mia vita; ma in modo così
convincente che a un certo punto ho lasciato tutto per seguirlo nella vita monastica contemplativa.
Per me è stato uno sviluppo del tutto normale, anche se non facile, del battesimo, favorita
dall’ambiente della mia famiglia, cui devo un’esperienza religiosa forte, intessuta di gioie ma anche
di sofferenze. In parrocchia, dove facevo l’animatrice, ho sempre sperimentato la bellezza del
donarmi agli altri e di vivere la mia esistenza per Cristo.
Arrivata a 25 anni dovevo però scegliere, anche se non ho paura di dirvi che i motivi della mia
scelta, più che in me stessa devo cercarli nella volontà di Dio, nella persona di Gesù. Infatti in alcuni
momenti del mio servizio ho intuito come la disponibilità per gli altri, in nome di Gesù e del
vangelo, era fonte di felicità. Ho così sperimentato come allargando la mia disponibilità cresceva
anche la mia vita interiore. Ma vi confesso che aumentavano anche dentro di me i grandi
interrogativi della vita e della mia realizzazione personale: come essere veramente felice? Come
dare senso pieno alla mia esistenza? E ancora di più: come rispondere alla chiamata di Dio che
sento dentro di donare la mia vita per Cristo e per i fratelli? Domande che mi sono portata dentro
dai 17 anni e che man mano che crescevo diventavano sempre più forti e chiedevano una risposta.
Con la preghiera e con l’aiuto di una buona guida spirituale – il mio don – in un caldo giorno
d’estate, durante un campo scuola decisi: mi farò suora di clausura! Ma come, molti mi hanno detto
e qualcuno di voi mi dirà, suora di clausura? Se volevi servire i fratelli potevi farti suora in una
parrocchia o missionaria; perché proprio di clausura? Perché fare una scelta non solo difficile ma
incomprensibile, arcana? Cosa farai rinchiusa, isolata da tutto e da tutti?
Devo confessarvi che all’inizio quella grata anche per me era una barriera che mi nascondeva
realtà imperscrutabili. Avevo letto molto sulla vita di quante si sono ritirate nel silenzio e nella
preghiera, ma non le avevo mai conosciute. E poi la mia vita sembrava tutto l’opposto: vivace,
spensierata, sempre di corsa per gli altri. Eppure Dio mi ha fatto capire, mi ha chiesto di scegliere il
centro di ogni vocazione cristiana: l’unione con Lui, cercata, coltivata con cura; il raccoglimento
interiore; la capacità di ascolto della Parola di Dio nella Bibbia e negli avvenimenti, nelle persone
che incontro e che si sono a me affidate.
Ecco quello che mi ha fatto capire il Signore: la chiamata a vivere nascosta con Cristo in Dio, porta
con sé anche molta gente vicino. E’ una vita incentrata sul primato di Dio: Dio amato con tutto il
cuore, con tutta l’anima e con tutta le forze; ma proprio perché Dio è al centro, sono facilitata a
scoprirlo presente in tutte le circostanze, in tutte le persone.
Quello che all’inizio mi faceva più paura si è trasformato nella realtà più bella: un nuovo rapporto
con le cose e le persone per mezzo di uno sguardo contemplativo della realtà, vedendola così come
essa realmente è, con gli occhi di Dio.
Vi confesso che non è sempre facile vivere così, che ci sono ancora momenti di dubbio, di paura…
ma sento di vivere ogni giorno le bellissime parola del documento del Concilio sulla Chiesa: ‚Le
gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti
coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di
Cristo‛ (Gaudium et Spes, 1).
MONICA, NOVIZIA SAVERIANA
Mi chiamo Monica, ho 26 anni, sono nata a Reggio Emilia e il 15 settembre 2003 sono entrata
come postulante nella famiglia delle Missionarie di Maria Saveriane. Quando mi hanno chiesto di
scrivere questa testimonianza una delle prime cose che mi è venuta in mente è che ogni vocazione è
un dono di Dio e più passa il tempo più cresce in me la consapevolezza: ciò che il Signore ha
voluto donarmi chiamandomi alla vita religiosa e missionaria è un miracolo. Un miracolo del Suo
Amore, io mi sento amata da Dio ed è questo Suo Amore che mi ha fatto dire ‚Sì‛. Ho conosciuto
tante persone che in tanti modi me ne hanno parlato, ma è stato soprattutto nei momenti di difficoltà,
in particolare quando ho perso una persona che amavo moltissimo, in cui tutto sembrava un po’
senza senso, che ho sentito in maniera forte la sua presenza accanto a me che mi sosteneva e mi
donava la speranza e con essa il progetto di una vita vissuta totalmente per Lui e per i fratelli,
soprattutto per coloro che non lo conoscono, non conoscono l’Amato del mio cuore. Un’altra cosa di
cui sono profondamente convinta è che essere cristiani è essere missionari, essere testimoni, poiché
chi ci guarda deve vedere riflesso in noi l’Amore del Signore, un Amore che si è incarnato e che dà
un senso alla sofferenza umana e attraverso di noi si fa vicino anche a chi soffre, ci fa portatori di
pace e annunciatori di giustizia. Essere missionaria per me è partire, andare da coloro che non lo
conoscono, raccontare la fede, il mio incontro con Lui, perché chi mi ascolta, chi intreccia la sua
vita con la mia veda per chi io vivo, da dove viene la mia felicità, da dove viene quella speranza
che anche di fronte alle difficoltà non si spegne, ma si attacca con tenacia alla promessa di una
fedeltà, di un amore eterno che niente potrà mai soffocare. Essere missionaria è lasciarmi riempire
da questo suo Amore, affinché tutto di me e in me parli di Lui, con tutta me stessa sono chiamata a
rendergli testimonianza. Questo si concretizza in atteggiamenti di accoglienza, di perdono, in scelte
che testimonino la povertà di una vita in cui l’unica ricchezza è il Signore, in rinunce alle cose ma
anche ad imporre il proprio modo di pensare o di fare. Il Signore ci chiede di collaborare con gli
altri, di ascoltare di più, di comprendere, di saper guardare oltre le apparenze, di vedere il buono
che c’è nell’altro, i doni che Dio gli ha fatto e saper gioire con Lui per questo, di amare l’altro
chiunque esso sia e qualunque cosa abbia fatto perché è Figlio di Dio e mio fratello.
Non è facile Amare così, così come Ama Gesù, richiede un impegno costante e bisogna chiedere al
Signore che ci dia questa capacità di Amare. Lui ce lo insegna partendo dalla nostra quotidianità,
un po’ alla volta lo imparo nelle piccole cose che vivo ogni giorno e la consapevolezza di essere
già amata con questo stesso Amore, è la forza che sostiene il mio cammino. C’è una frase di San
Paolo che ho sentito citare da un sacerdote durante un ritiro e che mi è sempre rimasta dentro:
“Siano rese grazie a Dio il quale diffonde per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza nel
mondo intero! Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo” (2 Corinzi 2, 14-15).
Come ‚amata‛ non ho altro desiderio che far conoscere il mio Amato, che raccontare con la mia
stessa vita quali grandi meraviglie, quali grandi miracoli il Signore ha compiuto e continua a
compiere in me.
MITCH, SEMINARISTA CROATO
Sono nato in Croazia nel 1975, in una famiglia cattolica, che però ha abbandonato la fede,
sedotta dall’ideologia comunista, carica di speranze artificiali e di una pseudo-libertà che, come ha
dimostrato la storia, non si è mai potuta realizzare perché priva di Dio.
Da adolescente ho vissuto una vita normale come i miei coetanei: mi occupavo di sport, di musica e
di tutte quelle attività da cui tanti altri erano attratti. La musica rock era il mio più grande amore,
cosicché inizia subito a suonare in un complessino. Ma non mi sono accontentato solo della musica,
volevo adottare anche lo stile di vita rokkettaro: sesso, droga e roch’n’roll. Subito mi sono divertito:
spettacoli, belle ragazze che mi giravano attorno, fiumi di birra e droghe leggere. Pensavo che
questa fosse la strada della felicità. E invece mi ridussi ad essere come un animale che camminava e
seminava morte, mi sentivo ingannato e tradito: erano sparite tutte le promesse di felicità che
cercavo disperatamente. Ero morto, morto dentro, morto nel sentire positivo e nelle emozioni belle;
sentivo solamente la rabbia, il dolore, la delusione, la paura, la voglia di porre fine alla mia vita.
Ad un certo punto il dolore e la rabbia si sono fatti talmente forti che mi sembrava di morire: mi
buttai a terra e gridai con tutte le forze: ‚Dio, se ci sei, aiutami, non ce la faccio più!‛. Era un grido
carico di rabbia e di disperazione, rivolto a quel Gesù di cui avevo sentito parlare da mia nonna. Io
non ero credente e non andavo in Chiesa, ma quel grido fu la vera svolta della mia vita, e il
Signore mi rispose presto.
A 23 anni, con un bagaglio pesante di esperienze negative, feci un pellegrinaggio in un luogo
benedetto da Maria! La prima cosa che mi colpì fu la pace, dentro di me si risvegliava la voglia di
vivere, di essere. Dopo un lungo periodo di dolore e di rabbia, finalmente sentivo dentro di me
qualcosa di positivo: sentivo accanto a me una presenza misteriosa, finora sconosciuta. Non sapevo
quasi niente di Dio, ma qualcosa mi diceva che Lui era accanto a me. Mi sentivo come in paradiso.
Dopo un cammino di preparazione ho ricevuto il battesimo e i sacramenti dell’iniziazione cristiana.
Fu il giorno più felice della mia vita. Ma Dio non si stancava di stupirmi.
I primi entusiasmi, per cui mi sentivo portato tra le braccia di Gesù, pian piano lasciarono posto a
vere e proprie lotte interiori. Tra alti e bassi, tra cadute e ricadute, tra battaglie perse e vinte, ciò
che mi dava e mi dà tuttora la forza di continuare il cammino intrapreso, è la preghiera, la
celebrazione dei sacramenti, l’ascolto della Parola di Dio e la devozione alla Vergine Maria.
Nel vivere il Vangelo dentro una comunità, ho sentito anche la chiamata a portare a tutti il Vangelo
di Gesù come sacerdote. Sto per completare gli studi teologici e il mio desiderio è di diventare
prete, un prete santo, che vive e porta l’amore, la gioia e la pace. Desidero consacrare, offrire e
donare la mia vita al Signore ed essere al servizio, come sacerdote, dei fratelli che, come me un
tempo, sono alla ricerca della gioia di vivere e di essere, ma non la trovano perché la cercano in
modi sbagliati. Vorrei indicare loro la Via dell’Amore. (Se vuoi, 5/2004)
LEONEL, GIOVANE MISSIONARIO
Dio attraverso il suo grande amore ha voluto regalarmi una famiglia che si è sforzata di far crescere
tutti i suoi figli, non solo fisicamente, ma soprattutto educandoci alla fede. Sin da piccolo cominciai
a frequentare la Chiesa, in particolare con l’intenzione di ricevere i sacramenti dell’iniziazione
cristiana. Essendo i Missionari della Consolata responsabili della mia parrocchia, mi sono sentito
sempre accompagnato da loro. Essere sacerdote, e sacerdote con la specifica vocazione
missionaria, è stata una fiamma sempre accesa nel mio cuore. E’ evidente che se c’è una fiamma
vuol dire che un fuoco l’ha accesa. Dio si serve di persone concrete per manifestare i suoi disegni
nella nostra vita e in particolare per coloro che Lui chiama a costruire il suo Regno. La testimonianza
di due seminaristi venuti nella mia parrocchia per un servizio pastorale durante il tempo di Natale
dell’anno 1993 fu la scintilla che accese la fiamma della mia vocazione. Ad essa aprii il cuore e la
mente affinché, come i missionari, anche la mia vita fosse dedicata, ogni giorno, a far conoscere a
tutti e ad ognuno il messaggio della vera Consolazione, che è lo stesso Gesù.
Mi sentivo contento e animato in questo cammino in cui sperimentavo momenti belli, grati e anche
difficili per i dubbi che invadevano i miei fragili sentimenti. Però, come è bello poter contare sulla
fede, manifestata nel lavoro e nell’ottimismo di poter servire con allegria il Signore! Col passar del
tempo terminai i miei studi secondari, una gioia condivisa con i miei cari. La vita a quel punto mi
presentava le grandi esigenze giovanili: poter studiare, lavorare e aiutare la mia famiglia a
raggiungere una maggior stabilità economica. Molte inquietudini invadevano il mio cuore e mi
interrogavano riguardo al futuro: ‚E adesso, cosa faccio?‛.
Decisi per il lavoro, dato che la mia famiglia in quegli anni stava soffrendo una crisi economica e
mio padre aveva subito un grave incidente stradale. Per due anni lavorai e ne approfittai per
riflettere e portare a termine il mio discernimento e accompagnamento vocazionale. Decisi di
entrare in seminario per dare ali ai miei sogni di essere sacerdote missionario della Consolata. E’
evidente che al momento di prendere tale decisione i miei familiari non mi appoggiavano molto. Mi
feci coraggio, lasciai il lavoro e, fidandomi di Dio e delle mie convinzioni, oltrepassai le mie prime
frontiere familiari ed entrai nella comunità formativa della Consolata a Caracas, il giorno 27
settembre 1996. Mi trovai insieme ad altri giovani che come me puntavano allo stesso ideale di
consacrazione per la missione e di vita comunitaria, guidata dalla preghiera, dal lavoro manuale,
dalle riunioni formative. Si approfondivano le varie dimensioni della nostra vita, quella umana e
spirituale, conoscendo sempre più da vicino l’identità del nostro Istituto, valorizzando al meglio la
possibilità di prestare servizio pastorale in un quartiere povero della capitale e di avere una
formazione accademica, studiando filosofia.
Alla fine dell’ultimo anno ho vissuto due momenti che hanno segnato la mia vita: anzitutto la morte
di mio padre; fu molto doloroso per me e per la mia famiglia, ma riuscimmo superarlo con tanta
speranza. Inoltre, proprio in quel periodo dovevo assumere un impegno importante nella mia
formazione: prepararmi alla tappa cosiddetta del noviziato. Avevo finito gli studi filosofici e dovevo
dare inizio ad una tappa nuova e più radicale. Nel mese di gennaio dell’anno 2000 passai le
frontiere del mio Paese per recarmi in Argentina ed iniziare l’anno del noviziato, dove ho potuto
vivere la mia prima esperienza comunitaria a livello internazionale e prepararmi alla professione
religiosa dei voti di obbedienza, castità e povertà. Era il 30 dicembre del 2000.
Sono sicuro e convinto che Dio mi ha sempre accompagnato e che la vocazione missionaria è dire
sempre ‚sì‛ e senza paura. E’ gridare che l’amore non ha fine, è lasciare tutto e seguire Cristo. E’
stato interessante aver potuto fermarmi a riflettere con voi su come è nata e si è sviluppata la mia
vocazione missionaria, e soprattutto rivedere come vi ho corrisposto finora. Sono risposte e
riflessioni che condivido volentieri. Ciò che vedo chiaro nella mia vocazione è che ho camminato
con buona disponibilità, con gioia e fiducia nel Signore. L’unione con Gesù nella preghiera mi ha
aiutato a chiarire bene il desiderio di trasmettere e testimoniare l’amore di Dio nei luoghi concreti
della missione. Seguire fedelmente il progetto del Signore nella nostra vita implica una risposta
continua e coerente.
Termino la mia storia cosciente della mia realtà umana, realtà di un giovane di 26 anni che vuole
donare la sua vita al servizio della missione, rispondendo ogni istante al progetto di Dio e cosciente
che la mia felicità consiste nel seguire Cristo. Con gioia ed entusiasmo manterrò sempre il mio sì
generoso.
GIOVANNA, UNA LAICA CONSACRATA
Sono una Milmac, è una sigla forse già letta da qualche parte, particolarmente su qualche rivista
missionaria, che viene specificata così: Missionarie Laiche Maria Corredentrice. È la denominazione
dell’Istituto Secolare a cui appartengo fin dalla giovanissima età quando sentii forte la chiamata alla
vita consacrata restando ‚nel mondo e non del mondo, ma per il mondo‛ per portarlo a Dio (cfr
Paolo VI- Convegno Internazionale Istituti Secolari 1970) e la passione per la missione della Chiesa,
carisma portante del mio Istituto. Il mio nome è Giovanna, sono inserita nella realtà missionaria
anche con esperienze ‚ad gentes‛. Subito dopo la consacrazione, con una forte carica di
entusiasmo non solo giovanile e per disegno della Provvidenza con il consenso dei Responsabili
dell’Istituto, dopo
aver partecipato a Verona presso il CEIAL ad un corso specifico per l’America Latina, l’11 febbraio
del 1971, festa della Madonna di Lourdes, partii per il Brasile con destinazione Manga, Nord dello
Stato di Minas Gerais, cittadina sul Rio Sao Francisco, facente parte della Diocesi di Januaria.
Allora lì mancavano acqua, luce e strade, mezzi di comunicazione e viveri. La mia missione iniziò
con avventure belle e... brutte. Dico così perché era il tempo della dittatura militare e chi ha
conosciuto quel periodo sa cosa poteva significare. Nell’impatto con la nuova cultura compresi che
dovevo lasciare il mio modo di pensare... le mie abitudini, dovevo scendere da cavallo per
guardare la realtà e camminare con la gente del luogo, per essere testimone di speranza, di amore
e di sacrificio per vivere fino in fondo la ‚missio‛. Ho menzionato la dittatura militare per poter
comprendere meglio il contesto in cui mi trovai, dove quasi subito mi resi conto che era molto
difficile operare e aiutare gli altri e che bisognava, pertanto, essere segno e testimonianza
silenziosa della ‚speranza in Cristo‛ imitando il silenzio orante e operante di Maria Vergine.
Da allora ho capito che, costi quel che costi, bisogna avere e dare ‚Speranza‛ a chi è disperato,
disorientato, a chi non ha voce.., per accendere nel cuore di ogni uomo nel mondo intero la Luce di
Cristo, che è l’unica e vera Speranza dell’umanità. Possiamo essere così profezia per gli altri
seguendo le orme di Cristo con la preghiera per la pace, per la comunione e la giustizia tra i
popoli.
Oggi, pensando alla giovane età di quando sono partita, mi viene da sorridere e ringraziare Dio,
che si è fidato di me e ha operato in me attraverso il Suo Spirito. Sono felice per i sacrifici fatti negli
anni più belli e posso dire con tutto il cuore che ne è valsa la pena mettere la mia vita a
disposizione del Regno.
Ai giovani voglio augurare di non perdersi in una vita senza valori..., ma avventurarsi con Cristo,
prendere il largo con Lui nel grande mare del mondo per caricarlo di entusiasmo, di speranza, di
gioia e di amore.
DON BATTISTA, SACERDOTE FIDEI DONUM
La mia esperienza missionaria come prete diocesano (Fidei Donum) è iniziata in Burundi nel
novembre 1995, mentre era in atto nel paese una terribile guerra tra Hutu e Tutsi. Ho vissuto in
Burundi fino al 10 settembre 2003, giorno in cui fui vittima di un’imboscata che poteva essere
fatale, ma che mi è costata solo la divisione in due della mia mano sinistra e la perdita del dito
medio. Ho vissuto gli anni duri della guerra con le sue molteplici conseguenze.
Il fatto di essere rimasto lì è stato motivi di speranza per tante persone che hanno potuto godere
della presenza provvidente di Dio attraverso i tanti gesti e progetti realizzati soprattutto a favore dei
bambini.
Tre idee mi hanno guidato nella mia esperienza missionaria.
La primala missione senza la comunione con la chiesa di partenza è un’esperienza solitaria
che fa certamente del bene ma che non fa crescere la comunità di partenza. La seconda:
l’esperienza missionaria senza uno sforzo di inculturazione sa più di assistenza sociale e di
filantropia che di proposta radicale di evangelizzazione.
La terza: la solidarietà e la carità hanno bisogno di organizzazione comunitaria.
Io sono il primo e l’unico Fidei Donum della mia diocesi. Noi non abbiamo avuto una lunga
esperienza di presenza missionaria nel mondo. Pertanto la mia partenza ha avuto delle difficoltà
iniziali. Per i primi quattro anni sono stato accolto come Fidei Donum della diocesi di Novara, che
ha firmato la convenzione con un vescovo del Burundi. Solo nel 2000 ebbi regolare convenzione
tra il mio vescovo e il vescovo di Bubanza in Burundi. Ho sperato uno scambio di visite tra le due
chiese ma non è stato possibile. Ho comunque mantenuto i legami con l’ufficio missionario
diocesano, scrivendo lettere periodiche per le comunità e per i benefattori. Ho sollecitato la
pubblicazione periodica del bollettino dell’ufficio missionario Missione 2000. Ho pubblicato alcuni
libri. Tutto doveva servire come fermento per la comunità di partenza. Oggi in diocesi c’è una
vivacità missionaria che fa ben sperare. Sono nati gruppi missionari e laboratori missionari. Si
migliora l’animazione nelle scuole e nelle parrocchie. Il fuoco della missione lentamente sta
coinvolgendo tante persone. Mi sono convinto che un missionario,soprattutto Fidei Donum, deve
coltivare un profondo legame con la sua diocesi per allargare gli spazi della carità e della
speranza.
In terra di missione ho sentito forte il desiderio di essere più vicino alla gente e alla sua vita.
Dopo quattro anni di collaborazione con una missione fondata e guidata da un bianco ho preferito
andare a vivere con il clero indigeno. Sentivo che non solo dovevo servire la chiesa locale ma
dovevo camminare fianco a fianco con essa. La vita comune con il clero locale non è facile, ma è
profetica per ciò che annunziamo: l’unità visibile in Cristo. La condivisione perfetta di tutto non è
mai possibile, ma il vivere insieme missionari e clero indigeno apre porte di speranza per una
missione più inculturata e incarnata. Il Fidei Donum, a mio parere, dovrebbe accettare la sfida
dell’inculturazione, superando la tentazione di impegnarsi per una missione a propria immagine e
somiglianza, utilizzando tutti i privilegi di cui gode rispetto al clero locale.
Infine l’esperienza fatta fin’ora mi ha convinto che la solidarietà va organizzata sia nelle comunità
di partenza e sia nelle comunità di arrivo. È necessario coinvolgere le comunità con strumenti adatti
a dare continuità e speranza alle nostre opere, senza cadere nella tentazione permanente di essere
Babbo Natale che riceve e distribuisce doni di facile consumo, per il tempo che lui è in cammino.
Dopo di lui, tutto potrebbe ritornare come prima vanificando ogni sforzo di promozione.
Ecco come una comune esperienza missionaria può aprirsi alla profezia del futuro. Come
missionario continuerò ad avere i piedi per terra ma guarderò sempre oltre e indicherò un cammino
che altri seguiranno anche quando io non sarò più.
P. MICHELE, SACERDOTE AD HONG KONG
Dopo aver fatto finalmente un’esperienza missionaria nel nord del Brasile nell’estate 1992, tornai
nel mio Seminario Regionale di Molfetta con la certezza che il Signore mi voleva prete e
missionario. Ero sicuro di questa chiamata perchè la sua voce era apparsa chiara, non solo nella
Parola ascoltata e meditata nella preghiera personale, ma soprattutto nella comunità viva dei
credenti con la quale condividevo la gioia e la fatica di essere credente. Certamente una domanda
mi accompagnava sempre in quel periodo: ma perchè proprio io? Perchè questa vocazione
missionaria proprio per me? Perchè non ad altri, magari più desiderosi di andare in altri mondi,
pronti e capaci a parlare altre lingue, preparati ad adattarsi a nuovi posti. Perchè? Io non l’ho mai
capito. Mi sono messo l’animo in pace, quando più tardi, proprio dalla Parola, ho capito che il
Signore sceglie i peccatori. Li preferisce a tutti e fa di loro grandi apostoli, grandi missionari. E’
stato proprio il vedermi come Dio mi vede che mi ha dato una gran serenità e pace da poter poi
dirgli il mio SI. Accettare il piano di Dio che mi voleva prete e soprattutto pronto a lasciare la mia
famiglia, la mia patria, i miei amici, la mia gente e persino la mia Chiesa Diocesana non e’ mai
stata una cosa semplice e facile. Solo e grazie alla consapevolezza di questa scelta di Dio basata
sull’Amore e sul Perdono ho potuto anche io dire il mio SI e lasciare tutto per partire. Partire per
arrivare fino ad HONG KONG, in CINA. Quando penso che Dio mi guarda mi sento davvero
amato. E’ il suo sguardo che mi ha fatto missionario. E’ il suo sguardo che mi fa essere suo
testimone in mezzo a questa grandissima porzione del suo popolo che in Cina. Mi sento osservato
da un Dio che mi guarda con amore infinito…! Che bello! Che fortunato che sono!!!
DON IGNAZIO, SACERDOTE FIDEI DONUM
Il papa Benedetto XVI nel messaggio per la Quaresima del 2007 così scrive: ‚Gesù, nel mistero
della morte ci rivela appieno la potenza incontenibile della misericordia del Padre celeste… Gesù
ha detto: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv. 12,32). La risposta che il
Signore ardentemente desidera da noi è innanzitutto che noi accogliamo il suo amore e ci lasciamo
attrarre da lui. Accettare il suo amore, però, non basta. Occorre corrispondere a tale amore ed
impegnarsi poi a comunicarlo agli altri. Cristo «mi attira a sé» per unirsi a me, perché impari ad
amare i fratelli con il suo stesso amore‛. Gesù si è fatto uomo perché l’uomo lo potesse toccare,
ascoltare, amare e chiedere perdono.
L’esperienza di quasi diciannove anni di vita missionaria, mi ha fatto constatare come la storia
dell’America Latina è segnata da una grande sofferenza di un uomo che si è abbracciato alla croce
di Cristo trovando in lui solo la forza di camminare in una fede carica di grande speranza di una
vita migliore.
Ricordo che nel 1985, assumendo il servizio pastorale in una parrocchia di campo, mi ritrovai di
fronte ad un atteggiamento di silenzio e di freddezza dei fedeli; serpeggiava in loro di non gradire
un altro parroco italiano. Avevano fatto esperienza negativa con il mio predecessore. Mi trovai in
grande difficoltà spirituale di tristezza. Incominciai ad aver bisogno io di loro e di chiedergli
perdono. Chiesi aiuto a due sacerdoti di venirmi incontro. Uscii per alcuni giorni e nel dialogo e
nella preghiera ripresi coraggio e la domenica celebrai la santa messa con una grande speranza e
fiducia. Ripresi il mio cammino con il dialogo, con incontri personali, visite domiciliari, percorrevo le
strade salutando tutti con affetto, accetto il ‚mate‛ con grande rispetto e segno di amicizia. In poco
tempo gli animi si aprirono e si incominciò un cammino nuovo condividendo come fratello le loro
ansie, le loro preoccupazioni, le loro speranze.
COMUNITA’ IN SILENZIOSO CAMMINO
Io sono una francescana cinese vivo in una città che si trova nel nord della Cina; una città un po’
‘speciale’ perche non c’è la libertà per la religione cattolica.
Circa 15 anni fa, in città c’era una camera dentro una casa di una famiglia cristiana usata come
chiesetta. Ogni mattina e la domenica i cristiani andavano lì per la messa. Un giorno la polizia ha
rovinato la camera-chiesetta dicendo che era un edificio illegittimo e ha arrestato il parroco, l’ha
messo in carcere per tre anni.
Dopo essere stato in libertà qualche anno, ora è di nuovo in prigione. Dopo due anni anche il
vescovo è stato messo in prigione per dieci anni. Da quel momento i fedeli se volevano partecipare
alla messa, dovevano fare un lungo viaggio attraverso la campagna, in bicicletta. Intanto i sacerdoti
giravano casa per casa per confortare, incoraggiare, …. fino ad oggi.
Mi ricordo che in quel periodo ho scelto di seguire Gesù Cristo nella vita religiosa, ho lasciato la
mia famiglia e sono andata in un’altra città lontana. La situazione era più o meno come nella mia.
Oggi il nostro compito di suore consiste nell’andare in campagna o in altre città per un mese di
catechesi, per aiutare i bambini a prepararsi per la prima comunione o per la cresima, per
evangelizzare gli adulti, per visitare le famiglie cristiane.
Anche se si è in questa situazione difficile, la fede dei cinesi aumenta, i credenti hanno sempre più
la forza di annunciare il Vangelo, non con la parola ma soprattutto con la vita quotidiana, con la
preghiera familiare, l’insegnamento dei genitori o dei nonni.
Con la mia comunità di missionarie francescane non possiamo vivere tutte insieme e ogni tanto
dobbiamo cambiare casa per paura di essere scoperte (qualcuna di noi è stata in prigione); la
valigia è sempre pronta!
Sento però la vicinanza di Gesù. Facciamo l’esperienza di Gesù che ha detto: ‚le volpi hanno le
loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo‛; che
camminava sulle strade della Palestina, ospitato da persone generose. Sento che non siamo sole ma
camminiamo insieme con Lui per continuare la sua missione perché in Cina ci sono tante persone
che non hanno mai sentito il nome di Gesù, non hanno mai sentito la Buona Novella.
La Cina è grande, ma questa è la mia esperienza, l’esperienza della Chiesa del silenzio. Nella
Chiesa patriottica la situazione è migliore.
Io prego e spero che queste due Chiese un giorno ritrovino la piena comunione in Gesù Cristo che
voleva ‚un solo pastore e un solo gregge‛.
Vi chiedo di pregare per la Cina, ne ha tanto bisogno!
Una missionaria cinese
MISSIONE OLTRE LE BARRIERE
Questa è la storia del missionario redentorista padre Cyril Axelrod, e dell’ Annuncio fatto di parole
comunicate sfiorando con sapienza le dita della mano. Per affermare - da prete - un messaggio
grande: nessuno può davvero sentirsi escluso dall’amore di Dio.
La sua è anche la storia dell’incontro possibile tra cristiani ed ebrei.
P. Cyril nasce a Cape Town nel 1942, figlio unico in una famiglia di ebrei ortodossi. Nasce sordo e
affetto dalla sindrome di Usher, una malattia che con il tempo porta all’assoluta cecità. A Cape
Town l’unica scuola per i bambini sordi è una scuola retta da suore domenicane. Per la sua famiglia
- ebrea osservante - è un passo difficile. Così il padre decide di mandarlo alla scuola. Ma allo stesso
tempo si impegna per educarlo nello studio della Torah e del Talmud. E Cyril si appassiona in
questo studio. Al punto che - una volta cresciuto - vorrebbe diventare rabbino, ma purtroppo
l’interpretazione della Torah, degli ebrei ortodossi, non ammette che un disabile possa essere
ordinato rabbino.
È un grosso colpo. Comincia a lavorare come contabile. Eppure quel desiderio di donare
completamente la propria vita resta. Così un giorno - spinto dalla curiosità - lui ebreo entra nella
cattedrale di Cape Town. E qualcosa scatta. Con l’aiuto di un amico cattolico, anche lui sordo,
comincia un percorso di ricerca. Fino alla decisione: voglio diventare prete. Inizialmente i suoi
familiari tagliano tutti i ponti con Cyril. Ma l’amore è più forte. E una mano la dà anche il rettore del
seminario, che invita Axelrod a tornare ogni venerdì sera dalla madre per celebrare lo Shabbat. E
alla fine - il giorno dell’ordinazione sacerdotale, nel 1970 - sarà lei ad accompagnarlo all’altare.
In quegli anni, Cyril è il terzo sordo mai ordinato sacerdote nella Chiesa cattolica. Pochi mesi dopo
incontra Paolo VI a Roma. «Abbracciandomi con calore, mi chiese di portare un messaggio a mia
madre. Disse che l’ammirava come ebrea che aveva presentato il suo unico figlio a Dio, e voleva
ringraziarla per il dono che aveva fatto alla Chiesa. Poi mi benedì e mi disse: ‚Va’ e predica
l’amore di Dio alle persone sorde‛ ».
Il primo incarico è in un istituto per ragazzi neri sordi a King William’s Town (Sudafrica). Per p.
Cyril è l’impatto con le conseguenze della segregazione razziale. «Apartheid - racconta - in questo
caso voleva dire che tutti gli alunni erano neri e che a loro non era consentito alcun contatto con
persone sorde di altri gruppi etnici in Sudafrica. Ma il più grande shock per me fu scoprire come
questi bambini sordi fossero isolati anche dai loro genitori che per la maggior parte vivevano molto
lontano.».
Chiamato anche alla vita di comunità, sceglie di entrare nei Redentoristi. Arriva una nuova
destinazione: Soweto, uno dei luoghi cruciali della lotta all’apartheid. «I ragazzi appartenevano a
diversi gruppi etnici di Soweto e questo rendeva molto difficile scegliere quale lingua usare. Il
governo insisteva perché usassimo la lingua zulu, ma questo provocò la protesta di molti genitori.
Così decisi di chiedere al governo di autorizzare l’insegnamento dell’inglese. Insistetti fino ad
ottenere il permesso. Così la nostra divenne in Sudafrica la prima scuola per ragazzi neri in cui si
insegnava la lingua inglese.».
NEL 1985 compie un viaggio a Singapore dove resta tre mesi, w dove per la prima volta si
manifestarono i primi seri problemi alla vista.
Nel 1988 incontra in Sudafrica il padre generale, Juan Lasso de la Vega. «A pranzo si avvicinò a
me e, attraverso un confratello che faceva da interprete mi disse: ‚Mi hanno raccontato del tuo
lavoro straordinario a Singapore. Ti piacerebbe partire missionario per la Cina?‛. La mia mente
andò in tilt. Riuscivo a pensare solo alla mia vista che andava deteriorandosi e alle persone sorde
che avrei lasciato in Sudafrica. I miei confratelli e la comunità dei sordi, però, sapevano che era il
Signore a chiamarmi. Quanto al padre generale mi disse che la vista non era un mio problema. Era
un problema di Dio. Così incominciò il mio nuovo viaggio.».
Una nuova missione. L’apprendimento di una nuova lingua. «Quando cominciai ad avere
dimestichezza con il linguaggio dei segni cinese - ricorda il missionario - le persone sorde
cominciarono ad avere fiducia in me e a raccontarmi di come si sentissero trattati come cittadini
ignoranti e di come sognassero di avere un centro apposta per loro. Incontrai anche i genitori dei
bambini sordi e subito cominciai a capire come la disabilità in Cina fosse considerata una vergogna
e un’’occasione di imbarazzo per le loro famiglie.».
Arrivato a Macao, fondò un Centro che affidò alla responsabilità dei sordi locali. Ormai la vista
andava sparendo del tutto. E nel 2000 fu la volta di un nuovo viaggio: destinazione una residenza
per sordo-ciechi a Londra.
«Il Signore mi aveva portato altrove, in un Paese a me straniero dove tutto era completamente
nuovo. Improvvisamente mi ritrovai solo un sordo-cieco. Mi sentivo abbastanza perso. Non avevo
idea di che cosa Dio avesse in mente per me, ma sapevo che dovevo andare avanti».
E un passo alla volta a 60 anni ha ricominciato da capo con l’apprendimento del Braille. Ma
soprattutto ha scoperto che anche i sordo-ciechi sono un ambito in cui si può vivere la propria
missione di prete. Così oggi, p. Cyril è responsabile del ministero per i sordo-ciechi dell’arcidiocesi
di Westminster. Quando celebra la Messa chiama intorno a sé i bambini. E durante l’omelia
racconta quante volte nel Vangelo si parla delle mani di Gesù che toccavano le persone. E li invita
ad andare a portare questo tocco alle persone non vedenti, presenti nell’assemblea.
«La maggior parte delle persone considera la condizione dei sordo-ciechi come qualcosa di
indescrivibile, impensabile, inimmaginabile - commenta - . Per me è diventato un nuovo modo di
vivere, che mi ha offerto una nuova direzione. Ci sono certamente frustrazioni da superare ma
anche molte nuove gioie da sperimentare e molte. In un certo senso la mia condizione di sordocieco è diventata la lezione più importante della mia vita».
Questa è la storia di un grande missionario che spende la vita per portare - anche a chi non può
vedere e sentire - la Parola più bella.
Liberamente tratto e riadattato da: Mondo e Missione, Giorgio Bernardelli, Cyril Missionario Oltre le
barriere, Febbraio 2009