Ladro del Correr

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Ladro del Correr
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Fantasia?
Che bella parola... eppure... dove vive la sofferenza, la paura, la fame non ti vengono alla
mente belle parole ma solo brutte sensazioni.
Tuttavia è proprio grazie alla fantasia che si riesce a trovare uno spazio di libertà anche
nelle situazioni più terribili e proprio saper immaginare le cose diverse da come sono, a
volte, può salvarti la vita.
Quando mi capita un brutto pensiero cerco di scacciarlo. Come? Sostituendolo con
qualcosa di positivo, magari cambiando le parole ad una canzone o inventando una
storia.
A volte basta poco: uno spunto accende la curiosità e l’immaginazione comincia a
galoppare. Un’idea ne fa nascere un’altra, si segue un percorso e poi un altro e così via...
Per esempio, un giorno mi è capitato di leggere una notizia curiosa su un vecchio ritaglio
di giornale: parlava di un furto al museo Correr da parte di un giovane proveniente da
Parigi. La cosa mi ha incuriosita e mi sono chiesta: quale relazione poteva esserci fra il
ladro e il personaggio del ritratto? Doveva esserci qualcosa di misterioso: il quadro non
era certo un capolavoro che valesse la pena di rubare!
E così... un’idea dopo l’altra è nata questa storia.
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Furto al museo
Ovvero, la scomparsa e il ritorno del ritratto del doge Francesco Foscari
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“Noi non vogliamo queste elezioni! Noi non vogliamo queste elezioni!”. In quella gelida e
luminosa mattina di un dicembre di fine Trecento, il grido si propagò tra la folla in Piazza
San Marco davanti alla Basilica e a Palazzo Ducale, e altre persone si unirono: ”Noi non
vogliamo queste elezioni! Noi non vogliamo queste elezioni!”. Il gruppo, sempre più
numeroso, cominciò a urlare così forte che le elezioni del doge furono sospese e furono
mandate delle pattuglie per arrestare i ribelli.
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Un mese dopo: “Voi, Cavalier Nicolò Foscari, siete stato condannato all’esilio in Egitto per
aver acceso un forte scontro tra i cittadini e il Consiglio, per esservi rifiutato di obbedire
alle leggi, per esservi opposto all’esercito e per aver sospeso così le elezioni. E’ stato
prestabilito che l’indomani una nave vi scorterà fino in Egitto, potrete portare con voi solo
vestiti e nient’altro, così il tribunale ha deciso”.
Ogni parola del giudice rimbombava tra le pareti del tribunale mentre Nicolò Foscari
ascoltava imperturbabile da dietro le sbarre.
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Alle cinque del mattino una pattuglia andò a casa Foscari e prelevò l’esiliato. Il viaggio fu
tormentato: onde altissime scuotevano la nave, il vento gelido soffiava forte infilandosi in
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ogni fessura, e Nicolò fu costretto a indossare tutti i vestiti che aveva per poter passare la
notte.
Dopo diversi giorni di navigazione la nave raggiunse le coste d’Egitto, Nicolò fu lasciato lì,
con vestiti e borracce d’acqua. La nave si allontanò e Nicolò restò a guardarla sparire
all’orizzonte, poi si incamminò nel deserto.
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Col passare degli anni Nicolò imparò le usanze, la lingua, la cultura del luogo. Si sposò ed
ebbe un figlio, Francesco, un ragazzo molto abile e intelligente.
Francesco perse i genitori a diciott’anni e, rimasto solo, cominciò a pensare al suo futuro:
gli tornarono in mente i racconti di suo padre su Venezia, così intensi che gli pareva di
conoscere quella città in cui non era mai stato. Sentiva che il suo destino era là, in quel
luogo lontano e affascinante, e decise di partire.
A Venezia, prese in affitto una casa e terminò gli studi. Cominciò a tessere una rete di
rapporti con le persone importanti della città, diventando un abile politico, e proprio per
questo a soli trentun anni venne a far parte del Consiglio dei Dieci.
Essendo di famiglia nobile, Francesco Foscari poteva aspirare al dogado, ma si trovò in
aperto conflitto con Pietro Loredan. “Quel posto sarà mio! Nessuno può essere rivale di
Pietro Loredan!” esclamò. “Non ti agitare, non farti strane idee Pietro, saranno i nobili
elettori a decidere” cercava di spiegargli Francesco Foscari.
Un brutto giorno però Pietro e Mario Loredan morirono avvelenati. Il figlio di Pietro,
Jacopo, accusò apertamente Foscari di essere il mandante del delitto ma non risultò mai
un suo coinvolgimento. Foscari fu eletto doge e rimase in carica dal 1423 al 1457.
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Sotto la sua guida Venezia raggiunse la massima espansione della sua storia, ponendo i
confini di terraferma dall’Adda all’Isonzo.
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Ma non fu un dogado tranquillo: ci furono grandi lotte interne e calamità naturali raccontate
dai cronisti di quel tempo:
“1424: è da giorni che la gente muore, l’acqua non v’è, non ci si può lavar, non si può
giocar ma soprattutto non si può viver senza bere l’acqua dolce che non arriva ai nostri
pozzi”.
“1431: freddo e gelo ci bloccan la vita, la laguna non è accessibile, uno specchio di
ghiaccio ferma i mezzi di trasporto. Si vede la gente cadere sopra il lastrone spesso e i
bambini scivolar”.
“1451: la terra vibra sotto i nostri piedi, gli edifici si chinano alle forti vibrazioni, la gente
urla e scappa via in preda al panico”.
“Periodo di peste: la gente muore e tutti son preoccupati, non si sa come guarir quel coro
d’anime dannate. Oggi quattro Foscari vengono a mancar e solo sette la famiglia terrà,
pianti e disperazione giungono da ogni dove”.
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Una notte, a Palazzo Ducale, si sentì un urlo: il doge Foscari era stato pugnalato dai suoi
avversari politici.
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Ma Francesco era di tempra forte, abituato a superare le avversità, e il suo fisico guarì in
pochi giorni, consentendogli di rimanere alla guida della Repubblica.
Jacopo Loredan, sospettato di essere il mandante del tentato omicidio, fuggì in Spagna
dove si stabilì.
Ma la vecchiaia di Francesco Foscari fu tormentata dalla vicenda del figlio Jacopo che,
accusato di aver ucciso un Donà, era stato esiliato dal Tribunale. Avendo tentato di
rientrare clandestinamente, fu arrestato all’Arsenale e condannato a morte dal Maggior
Consiglio. E così il Doge perse anche l’ultimo figlio.
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Ormai ottantaquattrenne, fu così colpito da questa sventura da non riuscire più a svolgere
le sue funzioni; il Consiglio dei Dieci decise quindi di deporlo dalla carica. Un giorno i
rappresentanti dei Dieci entrarono nelle stanze dogali e tolsero al Doge il Corno Dogale e
l’anello col sigillo, che fu spezzato.
Marco, suo fratello, gli suggerì di andarsene dal palazzo di nascosto, salendo in barca da
una porta secondaria, ma Francesco rispose: “Vogio andar zoso per quella scala per la
quale ascesi in dogado” e con grande dignità lasciò Palazzo Ducale scendendo dalla
Scala dei Giganti.
Pochi giorni dopo Francesco Foscari morì nel suo palazzo a San Barnaba che oggi è
conosciuto come Ca’ Foscari. Contro il volere della moglie, ebbe funerali di stato.
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533 anni dopo, la sera di giovedì 20 settembre 1990, un giovane mulatto, originario delle
Antille, partì da Parigi verso Venezia. Si portava dietro una lunga storia di esili e
sofferenze: il suo lontano antenato Jacopo Loredan, fuggito in Spagna, aveva avuto un
figlio che nel 1492 era partito sulla Santa Maria assieme a Cristoforo Colombo per le Indie,
approdando nelle isole dei Caraibi.
Quel marinaio si era stabilito lì, formando una famiglia; per generazioni e generazioni era
stata tramandata la storia di Francesco Foscari che aveva rovinato la vita ai Loredan.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale la famiglia aveva deciso di trasferirsi dalle Antille
Francesi a Parigi, dove l’ultimo discendente aveva potuto studiare nelle scuole francesi.
Colto e spregiudicato, si era specializzato in furti di opere d’arte su commissione.
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Facendo ricerche nelle biblioteche per la sua attività, aveva scoperto che al Museo Correr
di Venezia era conservato un ritratto dell’odiato Francesco Foscari.
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Una bizzarra idea si era sviluppata nella sua mente: rubare il quadro e bruciarlo. Non
doveva essere troppo difficile per un professionista come lui, che era riuscito persino a
mettere a segno un colpo al Louvre.
Così si era ritrovato quella sera su quel treno e per tutta la notte il suo cervello,
accompagnato dal tu-tun tu-tun tu-tun tu-tun del treno, aveva messo a punto i dettagli del
furto.
Alle otto era già a Venezia e aveva progettato tutto: i percorsi, gli orari per poter risalire sul
treno di ritorno quello stesso giorno, il modo per nascondere il quadro e passare
inosservato, il travestimento per non farsi riconoscere.
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Mi guardo intorno: che magnifici palazzi, marmi, mattoni, statue che si elevano quasi
senza peso sopra l’acqua. E i colori, i colori del cielo sono quelli che ho visto al Louvre nei
quadri di Veronese e Canaletto. Pensare che io potevo nascere, vivere e studiare qui, se
non fosse stato per quell’odioso Foscari!
Devo ancora attendere qualche ora perché il Museo sia meno affollato; intanto vado in
pasticceria, mi serve la carta per nascondere il piccolo quadro e ho anche un po’ fame.
Com’è lunga quest’attesa! Ma fra qualche ora sarà tutto finito…
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Ma chi xe quel fio in giacca de pele e ociai scuri? No me par uno che va a musei! Xe
megio che lo tegno de ocio. E così, da buon guardiano del Correr da lontano lo osservo
senza perderlo di vista; si aggira con fare sospetto, non si toglie gli occhiali scuri e rimane
sempre nella stessa zona ad ammirare il quadro quattrocentesco del nostro doge
Francesco Foscari di Lazzaro Bastiani, si guarda attorno velocemente e non ammira le
altre opere esposte.
Quello strano ragazzo, mulatto, dopo un po’ esce, forse si è accorto che lo sto
osservando. Io ora cambio sala per andare a vedere cosa stanno combinando quei due
ragazzetti giapponesi. Alcuni turisti mi chiedono delle informazioni e io parlo con loro
cercando ugualmente di controllare che tutto sia in ordine. Ma appena ritorno nella sala
dei Dogi mi prende un sussulto: c’è qualcosa che non quadra.
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Mi guardo attorno e in una frazione di secondi trovo il particolare che manca; sulla parete
di destra il doge Francesco Foscari non c’è più. “Il doge Foscari è stato rubato!!!!!”
Urlo con tutta la voce che ho e con le gambe tremanti corro a suonare l’allarme. Mentre
suona la sirena sono tantissimi i pensieri che scorrono veloci nella mia mente. Sono così
tanti gli anni che faccio questo mestiere, in questo Museo, che posso dire di conoscere
queste sale, e tutto ciò che vi è contenuto, meglio di casa mia.
Ogni oggetto e ogni espressione fanno ormai parte di me e in questo momento mi sento
gelare il sangue nelle vene e un brivido mi percorre la schiena: dov’è il quadro? Chi è
stato? Perché?
Ce l’ho fatta! Ora il quadro è mio e potrò vendicare i miei antenati. Adesso devo trovare un
posto appartato dove poter incartare il quadro.
Giandomenico Romanelli, direttore del Museo Correr, è accorso immediatamente.
La gente è confusa e anche un po’ spaventata dalle sirene che stanno ancora suonando.
Gli altri guardiani hanno bloccato le entrate e le uscite in attesa dell’arrivo dei Carabinieri.
Più ci penso e più mi convinco che il giovane mulatto c’entri con questa faccenda; e se
fosse rientrato mentre io ero nell’altra sala? Si, forse è possibile, anzi ne sono quasi
sicuro. Spiego subito ai carabinieri, che sono appena entrati in museo, come sono andate
le cose; il comandante mi ascolta attentamente e prende nota sul suo taccuino. Sembra
molto interessato alla mia versione dei fatti, come se si fosse già fatto un’idea, e subito
ordina alle pattuglie di formare dei blocchi di controllo alla ferrovia, al porto e all’aeroporto.
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L’ora è perfetta, riuscirò a prendere il treno delle 20.00 per Parigi.
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Agli occhi di tutti sembro solo un ragazzo con un vassoio di paste; è stato facile, proprio
come credevo.
Accidenti! I Carabinieri! Stanno sicuramente controllando tutti e tutto, devo stare calmo.
Ecco il mio treno,trovo il mio posto e dopo pochi minuti si parte: addio Venezia.
Finalmente sono arrivato, questa notte sembrava non finire mai; ora vado dritto a casa
dove potrò liberarmi per sempre dei Foscari.
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L’identikit che ho fornito ai carabinieri è stato diramato anche all’Interpol e intanto a
Venezia del Doge non c’è traccia.
Squilla il telefono del dott. Romanelli, qualcuno lo avvisa che la polizia francese forse
conosce già l’identità del ladro e si sta recando a casa del sospetto.
Eccomi a casa; la mia mansarda sopra i tetti di Parigi è il posto ideale per chiudere i conti
con la famiglia Foscari. Con cautela apro la carta della pasticceria ed estraggo l’opera.
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Ora diventerà un mucchietto di cenere che nessuno ricorderà mai più. Mi avvicino al
caminetto, accendo un fiammifero, quando un colpo sordo battuto sulla porta mi fa
trasalire: chi può essere?
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Il telefono squilla ancora, il dott. Romanelli risponde e si mette a guardarmi con gli occhi
sbarrati e la bocca spalancata; io temo il peggio, ma quando vedo sul suo volto un sorriso
sfavillante capisco. Il quadro è stato ritrovato intatto, un attimo prima che il ladro lo
bruciasse, nella casa parigina del giovane mulatto, noto trafficante d’arte.
Ora finalmente il doge Francesco Foscari farà ritorno nella sua amata Venezia e io sarò
qui ad accoglierlo.
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Epilogo
Nel febbraio 2007 muore a Venezia la contessa Teresa Foscari. Fra le carte conservate
nel suo archivio la nipote Elisabetta trova un gruppo di documenti che provano in modo
definitivo come il doge Francesco Foscari non fosse coinvolto nell’avvelenamento di Pietro
e Mario Loredan e avesse anzi cercato per tutta la vita di individuarne i responsabili.
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