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La frode scientifica: il lato oscuro della ricerca | 1
Cristiano Alicino e Alice Fabbri
Fintanto che la ricerca rimarrà strumentale al perseguimento di obiettivi personali e
commerciali, spesso convergenti, la frode scientifica rappresenterà un ineluttabile effetto
collaterale del sistema.
“Una letteratura attendibile ha la capacità di trasformare l’autore tanto quanto il lettore” –
mentre – “la frode nell’ambito della ricerca scientifica può danneggiare i pazienti,
distorcere le evidenze, determinare uno spreco di risorse economiche e danneggiare la
fiducia riposta nella scienza” – e ancora – “tali comportamenti sembrerebbero essere
largamente diffusi fra i ricercatori”. Queste affermazioni intitolano e introducono due
coraggiosi editoriali di Fiona Godlee, direttrice del British Medical Journal (BMJ),
recentemente comparsi sulla rivista inglese in occasione di una conferenza sulla frode
scientifica nel Regno Unito, organizzata congiuntamente dal BMJ e dalla
Committee on Publication Ethichs (COPE)[1].
Il problema della frode in ambito di ricerca è stato periodicamente affrontato dalle principali
riviste del settore medico-scientifico(a) e il tema è di grande attualità anche in Italia dove si
sta celebrando il primo processo penale a carico di un ricercatore accusato di aver
“manipolato consapevolmente” i risultati di una sperimentazione clinica[3].
Che cosa si intende per frode scientifica? I ricercatori che hanno partecipato alla sopra
citata conferenza l’hanno così definita:“Comportamento intenzionale o involontario,
che non raggiunge gli adeguati standard etici e scientifici”. Rientrano nella
definizione di Research Misconduct la fabbricazione, la falsificazione, e l’occultamento dei
dati; l’inappropriata manipolazione di dati o immagini; il plagio; l’informazione fuorviante; la
pubblicazione ridondante; la paternità inattendibile delle pubblicazioni, quali la guest e
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ghost autorship(b); la mancata divulgazione di fonti di finanziamento o di conflitti di
interesse; la falsa dichiarazione del coinvolgimento del finanziatore e la non eticità della
ricerca (l’unico esempio citato nella definizione è, purtroppo, il mancato ottenimento del
consenso informato da parte del paziente)[4].
La conferenza è stata preceduta dalla pubblicazione sul BMJ di due articoli che hanno
studiato il problema da differenti punti di vista.
Il primo studio è stato condotto da Elizabeth Wager, presidente del COPE,
utilizzando il database di casi di frode scientifica segnalati dagli editori delle riviste
che aderiscono al Comitato[5]. L’obiettivo della ricerca era quello di far emergere le
difficoltà incontrate dagli editori nel tentativo di allertare le istituzioni accademiche circa
possibili casi di frode. L’autrice, nelle conclusioni dell’articolo, sottolinea come i casi
presentati al COPE mostrino genericamente un’interazione tra gli editori delle riviste e le
istituzioni accademiche, in caso di sospetto di frode, non sempre soddisfacente (per usare
un eufemismo); tuttavia, la stessa autrice riconosce come il database non consenta una
realistica valutazione della frequenza del problema e, ad opinione di chi scrive, nemmeno
una grossolana stima della sua effettiva portata.
Infatti, le riviste che aderiscono al COPE segnalano esclusivamente i casi più problematici e,
quindi, la sola analisi del database tenderebbe a limitare la frode scientifica a quegli episodi,
presumibilmente un’esigua minoranza, in cui il tentativo di manipolazione è talmente palese
da essere facilmente individuabile. Elizabeth Wager riporta nel suo articolo casi di plagio,
talvolta seriale, di evidenti criticità nell’eticità o nella conduzione di un trial clinico, di
pubblicazioni “fotocopia” da parte di uno stesso autore, di autorship disputate, di risultati
“troppo positivi per essere veri”, ma il cuore del problema è rappresentato da quelle
situazioni in cui i dati dello studio sono fabbricati e manipolati in maniera da
essere totalmente credibili e, quindi, rendere la pubblicazione facilmente
accettabile da parte della rivista.
Il secondo studio è stato realizzato, inviando via mail a 9036 autori o peer-reviewer
del BMJ, un questionario di 3 domande con l’obiettivo di indagare la dimensione
del problema nel Regno Unito[6]. Al questionario hanno risposto 2782 ricercatori (il 31%
delle persone contattate), il 42% dei quali ricopriva una carica accademica, il 29% lavorava
esclusivamente presso un ospedale, e il restante 29% svolgeva entrambi i ruoli. Il 13% dei
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ricercatori ha ammesso di essere a conoscenza di colleghi che hanno indebitamente
adattato, omesso, alterato o fabbricato dati allo scopo di pubblicare i risultati della
propria ricerca, mentre solo il 6% degli intervistati si è dichiarato a conoscenza di casi di
frode non adeguatamente indagati da parte dell’istituzione di afferenza.
Fiona Godlee, commentando i risultati del questionari, ha affermato che, se da un lato i
risultati emersi non consentono una precisa stima del fenomeno nel Regno Unito, dall’altro
dimostrano l’esistenza di un numero significativo di casi di frode che le Istituzioni hanno
difficoltà ad indagare[6]. In questo senso, il Regno Unito sembra essere molto in ritardo,
rispetto ad altri Paesi, nello sviluppo di un adeguato sistema per affrontare i casi di frode.
Eppure non si tratta di un evento raro, ma in realtà, di un fenomeno così comune da non
essere percepito come grave. “Le persone vedono molti colleghi che lo fanno e restano
tuttavia impuniti” afferma infatti il cardiologo Peter Wilmshurst, conosciuto per aver
segnalato numerosi episodi di frode[1].
Molto interessante è l’analisi del ricercatore inglese Aniket Tavare, che definisce la frode
come il “lato oscuro” della ricerca scientifica. Anche secondo l’opinione di Tavare, si
tratta di un fenomeno molto meno raro di quanto comunemente si pensi e che sta
continuando a mietere vittime di alto profilo[7]. Una recente meta-analisi ha evidenziato che
circa il 2% dei ricercatori ha fabbricato, falsificato o modificato dati o risultati almeno una
volta, e il 14% è a conoscenza di colleghi che lo hanno fatto[8]. Il numero di pubblicazioni
ritirate dalla letteratura è aumentato in modo esponenziale nel corso degli ultimi anni, fino
ad arrivare a oltre 400 articoli ritirati nel solo 2011, molti dei quali per episodi di frode.
Malcolm Green, ex vice Preside della Facoltà di Medicina presso l’Imperial College di
Londra, ha commentato: “E’ molto probabile che per ogni caso di frode che viene
identificato vi siano una dozzina o più casi che non vengono nemmeno rilevati”. Il mantra
del “Publish or Perish” riecheggia infatti in molti dipartimenti universitari in cui il volume
della produzione scientifica è il passaporto per l’avanzamento di carriera, il prestigio e il
riconoscimento da parte dei colleghi. Tali rigidi parametri possono esercitare una notevole
pressione sui ricercatori portandoli ad agire in maniera inappropriata. “Ma di chi è la
responsabilità di tutto questo?” si domanda giustamente Tavare. I governi riconoscono
l’importanza del progresso scientifico e molti Paesi hanno delineato codici etici di
comportamento a cui i ricercatori dovrebbero attenersi. Analogamente, molti organismi di
ricerca hanno redatto linee guida sulla conduzione delle sperimentazioni. Tuttavia,
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nonostante queste lodevoli iniziative, volte a garantire l’integrità della ricerca, i casi di frode
continuano a proliferare. E purtroppo anche il meccanismo della peer-review non ha alcun
effetto su questo fenomeno dal momento che la revisione è volta a valutare la qualità di uno
studio, ma parte dal presupposto che i dati siano attendibili.
Anche alcune strategie finora suggerite per affrontare il problema della frode scientifica,
seppur apprezzabili, non sembrano andare al cuore del problema. Una delle soluzioni
proposte da alcuni ricercatori, in un articolo comparso qualche mese fa su Nature, è che
riviste, editori, ricercatori e istituzioni scientifiche lavorino insieme per migliorare la
comunicazione sui casi di frode. A questo scopo, è stato creato un database di pubblicazioni
per le quali è stata accertata una forma di misconduct. Il database è di tipo collaborativo ed
è associato a una piattaforma online(c) su cui è possibile avviare anche dibattiti e
discussioni. Si tratta, al momento, di un progetto pilota il cui obiettivo finale sarà la
creazione di una biblioteca pubblica per favorire una comunicazione tempestiva, trasparente
ed efficiente, all’interno della comunità scientifica, sui possibili casi di frode[9].
Sicuramente la divulgazione e la comunicazione degli episodi di misconduct
rappresentano un passo importante, ma sono strategie che agiscono solo “a valle”
del problema, una volta che la frode si è verificata, e non hanno alcun impatto sui suoi
“determinanti strutturali”, ossia il contesto in cui le attuali ricerche scientifiche vengono
condotte e i risultati pubblicati. A questo proposito, Richard Horton, direttore di Lancet,
recentemente intervistato da un settimanale italiano, parla di “condizioni oggettive che
favoriscono le frodi” e di una “competizione accademica feroce”[10]. Come detto,
attualmente, e nonostante le numerose critiche mosse nel corso degli anni a questo sistema
di valutazione(d), sono ancora gli indici bibliometrici, più o meno sofisticati, e il
volume di “produzione” scientifica a qualificare l’attività di un ricercatore, a
rappresentare l’unico indicatore su cui si basa la sua progressione di carriera e a
dare prestigio all’attività del suo team.
Inoltre, con sempre maggiore frequenza, i gruppi di ricerca si trovano a competere
prepotentemente per fondi privati, con l’inevitabile conseguenza che obiettivi e risultati
della ricerca rischiano di essere piegati alle esigenze, spesso commerciali e di marketing, di
chi la finanzia. Le stesse Università sembrano riluttanti a condurre adeguatamente indagini
sulla frode scientifica e preferiscono insabbiare i risultati di tali indagini per proteggere la
loro reputazione ed evitare di incorrere in azioni legali.
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In questo contesto, non sorprende quanto denunciato dalla direttrice del BMJ e da Aubrey
Blumsohn, ricercatore dell’Università di Sheffield da tempo impegnato nella battaglia contro
la frode scientifica. “I ricercatori preoccupati del comportamento dei loro colleghi
non sanno a chi rivolgersi e viene loro suggerito di rimanere in silenzio” dichiara
Blumsohn, mentre la Godlee rivela che alcuni giovani ricercatori avrebbero ricevuto
intimidazioni riguardanti l’avanzamento delle loro carriere e la pubblicazione dei risultati
delle loro ricerche qualora avessero denunciato episodi di frode scientifica[1,6].
La tendenza a tenere conto del numero delle pubblicazioni scientifiche piuttosto
che dell’effettiva qualità della ricerca sembra essere confermata anche dalle più
recenti disposizioni legislative e normative emanate nel nostro Paese. In particolare,
il Decreto Legislativo 240/2010 ha introdotto l’abilitazione scientifica nazionale quale
requisito fondamentale per l’accesso alla prima e alla seconda fascia di docenza
universitaria. L’ammissione all’abilitazione, che ha durata quadriennale, è attualmente
legata a parametri che tengono conto esclusivamente della “produttività” scientifica del
candidato e della sua continuità nel tempo. Parametri simili sono utilizzati anche per
l’accesso alla figura di ricercatore universitario. Tuttavia, per ammissione della stessa
Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca che li ha
formulati, l’uso esclusivo di questi criteri determina “effetti distorsivi” sul sistema[11].
Appare chiaro, infatti, come limitarsi a misurare il volume di ricerca pubblicata,
rinunciando al più complesso e ambizioso obiettivo di valutarne l’impatto nel
trovare risposte innovative a bisogni di salute inevasi, introduca nel sistema delle
pubblicazioni scientifiche il rischio di manipolazioni e distorsioni, nel tentativo di
un più facile e veloce “successo accademico”.
Come agire allora sui “determinanti strutturali” del problema?
Contrastare la tentazione della frode scientifica significa ripensare gli spazi, le modalità, gli
obiettivi con cui la ricerca scientifica viene condotta, particolarmente nel campo della
salute. Fintanto che la ricerca rimarrà strumentale al perseguimento di obiettivi personali e
commerciali, spesso convergenti, e la sua qualità continuerà ad essere paradossalmente
valutata con indicatori che ne misurano il “volume di produzione”, la frode scientifica,
nonostante il nobile tentativo, da parte degli editori delle riviste, di proporre soluzioni volte
a disincentivarla, rappresenterà un ineluttabile effetto collaterale del sistema. In questo
senso, il problema della misconduct in ambito scientifico – e, più in generale, della
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pubblicazione dei risultati della ricerca – non dovrebbe essere trattato isolatamente ma
dovrebbe essere inserito nel più ampio dibattito sulle contraddizioni ormai strutturali della
medicina e della scienza.
In conclusione, appare lecito e urgente domandarsi a chi spetti stabilire parametri
ed indicatori che misurino la qualità dell’attività dei ricercatori. La valutazione della
ricerca è un compito che può essere delegato in via esclusiva ai ricercatori stessi, o loro
delegati, sulla base di criteri auto-referenzialmente e preventivamente definiti o, piuttosto, è
necessario aprire il dibattito al di fuori della comunità scientifica restituendo il potere di
verifica e controllo a coloro che dei risultati della ricerca dovrebbero beneficiare?
Cristiano Alicino, medico in formazione specialistica in Igiene e Medicina Preventiva,
Università di Genova.
Alice Fabbri, medico in formazione specialistica in Igiene e Medicina Preventiva, Centro
Studi e Ricerche in Salute Internazionale e Interculturale, Università di Bologna
Bibliografia
Godlee F. Research Misconduct is widespread and harms patient. BMJ 2012;344:e14
Godlee F, Wager E. Research misconduct in the UK. BMJ 2012;344:d8357.
Nosengo N. Ricercopoli. L’Espresso N.9 1 Marzo 2012
A consensus statement on research misconduct in the UK. BMJ 2012;344:e1111.
Wager E. Coping with scientific misconduct. BMJ 2011;343:d6586.
Tavare A. Scientific misconduct is worryingly prevalent in the UK, shows BMJ survey. BMJ
2012;344:e377. La sintesi dei risultati è disponibile anche in pdf
7. Tavare A. Managing research misconduct: is anyone getting it right?
BMJ2011;343:d8212.
Fanelli D. How many scientists fabricate and falsify research? A systematic review and
meta-analysis of survey data. PloS One 2009;4:e5738
Flutre T et al. Pilot scheme for misconduct database, Nature 2011;478:37.
Nosengo N. E’ la legge della giungla. Colloquio con Richard Horton. L’Espresso N.9 1 Marzo
2012
Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca. Criteri e
parametri di valutazione dei candidati e dei commissari dell’abilitazione scientifica
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nazionale. 22 giugno 2011
Note
a. Per una revisione sistematica degli studi che hanno indagato la prevalenza di frode
scientifica vedi Fanelli D. How many scientists fabricate and falsify research? A systematic
review and meta-analysis of survey data. PloS One 2009;4:e5738.
b. Con il termine ghost autorship si indica la scrittura di una pubblicazione, da parte di
soggetti che non compaiono tra gli autori della stessa. Tali soggetti sono spesso dipendenti
dell’industria o di società specializzate nella scrittura di pubblicazioni scientifiche. Per guest
autorship si intende l’inserimento tra gli autori di una pubblicazione di un soggetto che non
ha contribuito a nessuna fase della ricerca e della stesura del manoscritto.
c. Scientificredcards.org
d. Per un’efficace sintesi delle principali critiche mosse nei confronti dell’Impact Factor vedi
Seglen PO. Why the impact factor of journals should not be used for evaluating research.
BMJ 1997;314:498-502.
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