Un uomo esce di fretta da un portone di legno blu
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Un uomo esce di fretta da un portone di legno blu
Un uomo esce di fretta da un portone di legno blu. Percorre il marciapiede a passo svelto, schivando di tanto in tanto pozzanghere, cartacce ed escrementi. Indossa un giaccone beige e tiene il bavero rialzato per proteggersi dal vento che si incanala nel vicolo stretto soffiando in direzione contraria alla sua marcia. Tra le macchine parcheggiate alla sua destra e le fiancate dei palazzi alla sua sinistra non c'è molto spazio, perciò quando incontra una persona che cammina nel senso opposto deve rallentare, mettersi di fianco e, nel caso si tratti di anziana signora con carrello della spesa, concedere la precedenza con un rapido gesto della mano abbozzando un sorriso d'intesa. Dopo pochi secondi raggiunge l'incrocio con un largo viale alberato, da una parte e dall'altra una parata di platani collocati regolarmente uno dopo l'altro, gli alti rami spogli gli paiono liane nella giungla urbana. Guarda attorno a sé, cerca qualcosa, o forse qualcuno. Ad un angolo un caffè tabaccheria, i tavolini ancora accatastati, le sedie riposte una sull'altra, ora una camicia bianca con grembiule nero si appresta a sistemarli per gli avventori; di fronte una panetteria, un'insegna con il disegno di un'invitante baguette ne comunica l'apertura. Il traffico scorre rapido e rumoroso, i passanti vanno di fretta e sembrano gareggiare con le automobili, si sorpassano e si sfiorano senza mai urtarsi, calcolando come d'abitudine distanze e misure. L'uomo è indeciso, nonostante la sua apparente risolutezza. Si è fermato per guardarsi attorno e osservare il movimento della città che si risveglia. Non sa se sia meglio prendere l'autobus, più lento ma certamente meno affollato o il metrò, rapido e tuttavia carico di pendolari provenienti dalla periferia. Alla fine sceglie quest'ultimo, la fermata è proprio sotto il suo naso, basta scendere pochi gradini ed è già in viaggio. Questa linea non corre molto in profondità, anzi il suo percorso si sviluppa appena sotto la strada e la segue in parallelo. Chissà perché quasi tutte le carrozze sono state sostituite mentre la numero 8 ne ha sempre di così vecchie, avranno almeno trent'anni, pensa mentre le porte si aprono rivelando un muro di corpi che non accennano a scendere e nemmeno a muoversi per lasciare spazio ai nuovi passeggeri. Ci si infila dove si può e un varco tra l'ascella di uno spilungone e la presenza di una bella ragazza lo si trova sempre, basta forzare un poco le distanze minime tra le persone. Il percorso lo conosce a memoria, sa dove deve scendere per il cambio e sa qual è la fermata più vicina al luogo in cui sta andando, basta solo che il treno si svuoti e ci sia la possibilità di mettersi più comodi, magari seduti sui predellini, o che si trovi un giornaletto gratuito da leggiucchiare distrattamente. Il nostro uomo però non si annoia mai, anche se non ha nulla da mettere sotto gli occhi o un passatempo programmato con cui scandire le tappe del viaggio, riesce sempre ad astrarsi quel tanto che basta per non dar troppo peso ai disagi del trasporto pubblico e del sovraffollamento cittadino nell'orario di punta. A lui piace pensare ai nomi, al loro significato, a ciò che evocano e a ciò che possono evocare nel singolo o nel senso comune. Non si tratta di definire le cose o le persone per le loro caratteristiche e qualità, né di stabilire preferenze fonetiche nella denominazione, come si fa di solito quando si discute sul nome da dare ai propri figli. Egli è piuttosto affascinato dai nomi come etichetta, espediente per marcare lo spazio fisico e simbolico, dalla loro pienezza, dalla loro, al tempo stesso, unicità e somiglianza che porta a confondere e fondere insieme, a dire una cosa al posto di un'altra, due al posto di una, una al posto di due o una cosa che non significa proprio niente, oppure troppo. Nel paese in cui si trova, l'uomo è come se fosse a casa sua, si sente accolto, tuttavia la lingua che lì si parla non è madre per lui, è acquisita, appresa, assimilata. E questa fascinazione per ciò che si può ascoltare, pronunciare o veder stampato da qualche parte funziona meglio se si tratta di una lingua che seppur conosce bene non gli appartiene pienamente. Lui, ad esempio, ama leggere e ripetere a bassa voce le parole che appaiono sulla segnaletica stradale, i nomi delle strade, le insegne dei negozi, i cartelloni pubblicitari, i titoli dei giornali sfogliati dagli altri viaggiatori, le targhe commemorative nella case del centro dove hanno abitato grandi artisti e letterati, il nome delle città quando arriva con il treno in stazione, le fermate delle linee cittadine della metropolitana. A dire il vero sono proprio queste ultime la sua più grande passione. Egli è consapevole che i nomi siano per la maggior parte un'attribuzione casuale, e che non definiscano oggettivamente la cosa che rappresentano, ma a stupirlo è proprio questa loro arbitrarietà, che con il tempo si solidifica in immagini mentali e associazioni personali di idee e sensazioni. Mentre, non dimentichiamo, sta attraversando nel sottosuolo le viscere della città pigiato ad un buon numero di sconosciuti concittadini, l'uomo sa perfettamente che è proprio la mancanza di un legame necessario tra il nome Parigi e la città che così si chiama ad attribuirle un senso di precarietà, di incertezza e quindi a rendere ancora più prezioso questo battesimo. Parigi si sarebbe potuta benissimo chiamare Londres e gli abitanti di London avrebbero potuto dire di vivere in una città denominata Paris (d'altro canto la topografia delle cittadine americane lo dimostra ampiamente). Guarda che incomprensibili evoluzioni mentali si devono fronteggiare in una mattinata di ordinario trambusto metropolitano, riflette tra sé il nostro personaggio, e in effetti pare proprio una piega strana per una storia che era partita come un modestissimo pedinamento neorealista e che adesso si trasforma in un complicato e inutile ragionamento sul rapporto tra significante e significato. Fatto sta che nulla gli da più soddisfazione della certezza di un nome come porta d'accesso per conoscere ed esplorare, anche solo mentalmente, la cosa stessa, a partire da un piccolo oggetto, fino alla più grande delle realtà fisiche; la concretezza della pietra, della terra, del legno, che si possono toccare e modificare, all'instabilità dell'ideale astratto. Dopo sole due fermate, l'aria ormai irrespirabile, gli arti del corpo addormentati, l'unica speranza è riposta nella sicurezza di scorgere tra poco, tra piastrelle di lucida maiolica, la scritta bianca su sfondo blu: “Republique”. Nonostante sia un gran pensatore di futilità, il nostro è infatti un gran abitudinario e non vede l'ora di potersi sedere per osservare meglio la variegata realtà che gli scorre davanti e spera di riuscire a trovare qualcosa da leggere, un giornalino free press, magari scandalistico, così riuscirebbe ad attenuare un poco la fantasia galoppante della mente, dovuta agli eccessivi stimoli sensoriali della grande città. Assorto così nei suoi pensieri quasi si dimentica la meta del suo vagare sottoterra, lo scopo della sua improvvisa fuga da casa, destato da una telefonata che non avrebbe mai voluto ricevere. Ora, superata la grande stazione di cambio, nel convoglio si è fatto più spazio, impiegati e studenti sono scesi per risalire in superficie verso gli uffici commerciali del centro, oppure hanno preso un'altra linea, probabilmente la numero 11, che arriva fino a Chatelet; alcuni scenderanno e andranno incontro alla luce del giorno, raggiungeranno boutique e grandi magazzini dove lavorano, altri invece proseguiranno ancora, verso le facoltà sparpagliate nel dedalo urbano o verso le stazioni internazionali, trascinando rumorosamente sul pavimento di linoleum piccole valigie compatte, dalle cui tasche lasciate aperte spuntano giornali e riviste acquistati di fretta al primo chiosco trovato aperto. Finalmente l'uomo trova posto e si siede, osserva con attenzione il pannello sopra le porte che mostra il percorso colorato di viola della linea e snocciola ad una ad una le fermate, soffiando con voce leggera i loro nomi: Strasbourg -Saint Denis, poi Grands Boulevards con le porte de Saint Martin e di Saint Denis che incrociano la rue Montmartre e il boulevard de Sebastopol, perpendicolare giunge la rue Meslay, salita e discesa attraverso negozi e magazzini di vendita all'ingrosso, tutti gestiti da africani francofoni e tutti uguali nell'offrire lo stesso assortimento di cinture, calzature e pellame. Da qui non è lontana la stazione di Saint-Lazare, e in un paio d'ore Londra e l'Inghilterra: sarebbe sufficiente scendere e prenotare un biglietto, sperando che ci siano posti disponibili con il primo treno. Ora, non essendo più possibile trovare dei sinonimi adeguati per indicare il protagonista di questo racconto, bisognerebbe assegnagli un nome, o un soprannome, non per forza adeguato e fedele alla sua personalità, anche perché della sua personalità non sappiamo (e forse non sapremo) proprio un bel niente. Il narratore può leggere nei suoi pensieri, conoscerli e riportarli al lettore, ma chi ci dice che questi pensieri non siano pensati per ingannarci, farci andare fuori strada, confonderci sul suo conto e perderlo di vista mentre lui fugge e si nasconde nell'intricato labirinto sotterraneo della sua immaginazione? D'altronde nessuno sa se egli sta allontanando da qualcuno o lo stia raggiungendo, la meta del suo percorso metropolitano potrebbe essere un nuovo punto di partenza, e i nomi di cui si serve potrebbero costituire solo un diversivo per passare il tempo e per tenere lontani dalla mente pensieri ben più importanti. Si tratterebbe allora di autoinganno. Va bene, per ora accontentiamoci solo di chiamarlo in qualche modo, magari trovando ispirazione in qualche dettaglio esteriore, di sicuro più affidabile di ogni possibile lettura del pensiero. Per esempio, si potrebbe cercare di indovinare, o di approssimare, la sua professione e, se siamo bravi, la sua specifica mansione. E' vestito accuratamente, segue una moda personale e moderna, non si rade con regolarità ma ci tiene ad avere una barba ordinata, porta capelli leggermente più lunghi rispetto alla media ma non significa che si trascuri, potrebbe benissimo non aver avuto voglia di recarsi da un barbiere negli ultimi mesi . Anche così risulta però difficile giungere a qualche certezza sulla sua identità. Per convenzione lo chiameremo allora l'occupato, nel senso che anche se non svolge regolarmente un'attività soddisfacente dal punto di vista economico è comunque impegnato a far qualcosa di gratificante, e scusate se è poco rischiare un cortocircuito mentale, nel momento in cui lo stiamo osservando (nel tentativo di seguirlo). L' occupato sta pensando alle stazioni ferroviarie e a eventuali fughe dal caos cittadino; ecco allora che bisogna dire della passione che lo anima, passione, a tratti malinconica, per i luoghi destinati agli arrivi e alle partenza. Gli aeroporti, sostiene, sono troppo grandi e dispersivi, grandi spazi staccati dal tessuto urbano, come Charles de Gaulle, struttura modernissima e tuttavia costruita senza relazione con il paesaggio circostante, oppure Orly, più raccolto ma sempre immerso in una delle aree commerciali più grandi della banlieue. Preferisce dunque le stazioni, spesso frutto di espressioni architettoniche capaci di integrarsi con il contesto in cui sono inserite. E poi ogni nome di stazione porta con sé il nome dei paesi e dei luoghi che da essa è possibile raggiungere, se si è certi che, dal suo punto di partenza, un binario arriverà sempre da qualche parte, una lunga striscia di ferro che dal suo principio lascia già immaginare la sua conclusione e le tappe intermedie che attraversa. Gare de Lyon: partire alla volta del Midi, dei colori del sud, l'azzurro del mediterraneo, il viola della lavanda, l'ocra delle case. Immagina naturalmente, poiché nella sua vita non si è mai spinto più a sud di Fointenbleu. Allora, se l'immaginazione lo consente, tenta di fantasticare anche sulla Gare de Montparnasse: attraversare tutto il paese fino all'Aquitania, all'Atlantico con larghe spiagge protette da dune che sembrano montagne, da una parte il mare agitato mosso dal vento, dietro la fitta pineta odorosa di resina e sale. Ma fin dove è arrivato con il suo convoglio sotterraneo? Sta per giungere alla fermata della Madeleine, pochi minuti di distanza dal punto di partenza, ma gli sembra di aver viaggiato per ore, avvolto dal buio sonnolento dei cunicoli e dalle deboli luci al neon che sfrecciano con cadenza regolare. Qual è la sua reale destinazione? O per lo meno, se la conoscenza del punto d'arrivo ci è preclusa, qual è il luogo fittizio che si è imposto di raggiungere con tutta questa fretta? Ora è scesa la maggior parte dei turisti, ultime fermate utili Place de la Concorde, da cui raggiungere i Campi Elisi e Les Invalides, la tomba-mausoleo del grande imperatore. Sul convoglio rimangono poche persone, a quest'ora la maggior parte della gente si muove in direzione del centro, il percorso contrario non è molto frequentato. Chissà a che nomi avrebbe pensato il nostro Occupato (ci siamo arresi alla maiuscola) e quali ricordi e immagini ne sarebbero scaturiti se in Boulevard Beaumarchais avesse preso l'autobus anziché il metrò, se si fosse spostato in superficie, guardando dal finestrino le nuvole addensarsi e risolversi in una giornata piovosa, osservando i passanti muoversi con rapidità, i furgoni delle consegne posteggiati in seconda fila a ostacolare il passaggio, robusti (e in carne) esploratori dalle lontane terre d'America camminare goffamente per raggiungere nel minor tempo possibile la maggior parte dei monumenti fotografabili, regolando colori e prospettiva per adattare lo scatto all'arredamento della propria living room. Nel vagone ormai vuoto il nostro protagonista si accorge di una ragazza che siede sul fondo, ha cominciato a parlare al telefono, scandisce con forza ogni parola, per meglio farsi intendere dall'interlocutore, quando il treno prende velocità all'interno delle gallerie è costretta ad alzare la voce per sovrastare il rumore di ferraglia, talvolta cade la linea e la telefonata riprende daccapo, portata avanti tutte le volte con sfumature differenti. Lourmel, la penultima fermata prima del capolinea. Siamo quasi alle porte della prima periferia. Lassù i palazzi bianchi e ordinati del centro, struttura ottocentesca con balconata in ferro battuto al quinto piano e tetto grigio di lamiera, avranno lasciato il posto ai primi quartieri popolari, alti condomini, empori gestiti da immigrati e ristoranti etnici, negozi a buon mercato frequentati da studenti fuori sede e pensionati. Quanto tempo sarà passato dall'inizio del tragitto sottoterra? Al massimo una mezzora, ma per l'Occupato, nello specifico anche occupante, il tempo si è dilatato in in polverone di suoni e significati e forse sta dubitando del senso del suo incontro. Che si tratti di un incontro lo si può supporre da una busta che aveva riposta in tasca e che ora stringe tra le mani, stropicciandone le estremità con le dita. Se si fosse trattato semplicemente di una lettera da inviare non ci sarebbe stato bisogno di recarsi dalla parte opposta della città, sarebbe stato sufficiente imbucarla nella cassetta all'angolo dietro casa. La ragazza al telefono ora sembra che stia iniziando a ridere, si muove scomposta sul sedile, accavalla le gambe e con un movimento rapido si sistema la borsa sulla spalla. Parla velocemente, mangiandosi molte parole, un francese del sud con forte accento magrebino. L'uomo ascolta e cerca di ricomporre il fio della conversazione, scopre che l'interlocutore al telefono è un'amica di nome Sophie e che insieme stanno discutendo sulle future vacanze estive in Algeria, comprende qualche parola sparpagliata qua e là come Marsiglia, Cabilia, berbero e poi il nome di un ragazzo che dovrebbe chiamarsi Soufien. Il metrò arriva all'ultima fermata, rallenta, si ferma, le porte si aprono, il macchinista comunica attraverso il microfono la fine della corsa e invita i passeggeri a scendere dai vagoni. L'uomo e la ragazza escono appena prima che le porte si chiudano accompagnate da un allarme sonoro, si avviano su per le scale mobili, finalmente escono all'aperto. L'aria è fresca, sta cadendo una pioggerella fine, la ragazza si allontana di corsa verso un parco, l'uomo si ripara contro il muro di un palazzo, accanto lampeggia l'insegna al neon di un alimentari indiano, la scritta luminosa dice in un color viola acceso “Le paradis du kebab”. L'odore di carne arrostita si mescola al profumo di asfalto bagnato. Siamo a Balard, il cui suono deciso ricorda il soprannome di un ragazzaccio poco di buono della periferia profonda, e a questa associazione mentale l'uomo accompagna un lieve sorriso. La ragazza è scomparsa dietro la curva della strada, nessuno oltre a lui circola in quel minuscolo microcosmo cittadino. L'uomo apre la busta che teneva tra le mani e che ora si è inumidita con l'acqua, estrae un foglio, lo legge rapidamente e scuotendo la testa getta lo getta sospirando in un cestino della spazzatura. Aiutateci a mantenere una città pulita recita il sacchetto verde che oscilla mosso dal vento. Lo scrittore apre gli occhi. Sulla scrivania del suo studio è riposta una cartina stropicciata e sgualcita della città di Parigi e del suo sistema di trasporti urbano, con il dito segue il percorso delle quattordici linee colorate, laddove incontra un cerchietto bianco cambia strada e colore, attraversa la città, i quartieri, passa sotto a parchi e giardini, sotto strade trafficate e vicoli deserti, e i quartieri cambiano quando cambiano le persone che vi abitano, i palazzi che ne disegnano l'assetto viario, i viali di scorrimento che li delimitano, i nomi che li designano, le insegne di metallo smaltato verdeblu che riportano nomi di letterati, artisti, valorosi generali e intraprendenti comandanti, sovrani assoluti, efficienti funzionari, abili uomini di stato e leggendari popolani.