RASSEGNA DELLE ATTIVITA` DI RICERCA DEGLI

Transcript

RASSEGNA DELLE ATTIVITA` DI RICERCA DEGLI
Scuola di Dottorato in Ingegneria “Leonardo da Vinci”
Corso di Dottorato di Ricerca in
INGEGNERIA CHIMICA E DEI MATERIALI
RASSEGNA DELLE ATTIVITA’ DI
RICERCA DEGLI STUDENTI DI
DOTTORATO
Anno 2008
Indice
Programma della giornata
Barbieri
Produzione di nuovi leganti polimerici energetici per propellenti solidi.
3
5
Marazzato
Produzione e caratterizzazione di nanocompositi a matrice poliolefinica per impieghi in agricoltura.
7
Micaelli
Reologia dei materiali cementizi.
11
Molin
Separazione di fase e miscelazione di liquidi.
15
Landucci
Sviluppo di schermi termici per getti incendiati e modellazione del loro comportamento.
19
Micchi
Sviluppo di strategie di monitoraggio ed identificazione per controllori predittivi.
23
Puccini
Tecnologie innovative per il trattamento dei sottoprodotti del ciclo conciario e loro impiego in materiali
ecocompatibili.
29
Parente
Produzione ed utilizzo di idrogeno da carbone e biomasse.
35
Viva
Analisi sperimentale e modellazione di riempimenti di nuova concezione per l’impiego in distillazione
reattiva eterogenea.
40
Bientinesi
Separazione di idrogeno da gas di sintesi mediante membrane
46
Gagliardi
Studio sperimentale e modellistico di nuovi biomateriali per applicazioni cardiovascolari avanzate.
52
Sabatini
Sicurezza di impianti, convenzionali e innovativi, per la rigassificazione di liquidi criogenici infiammabili:
conseguenze dello spandimento in mare.
58
2
16 gennaio 2008
Programma della giornata
Ore 9,00
Dott. Ugo Barbieri
Titolo: Produzione di nuovi leganti polimerici energetici per propellenti solidi.
Tutori: Prof. Magagnini, Ing. Polacco
Ore 9,40
Ing. Cristina Marazzato
Titolo: Produzione e caratterizzazione di nanocompositi a matrice poliolefinica per impieghi in agricoltura.
Tutori: Prof. Magagnini, Ing. Polacco, Dott. Filippi
Ore 10,20
Dott. Francesca Micaelli
Titolo: Reologia dei materiali cementizi.
Tutori: Prof. Levita, Prof. Marchetti, Dott. Gallone
Ore 11,00
Break
Ore 11,20
Dott. Dafne Molin
Titolo: Separazione di fase e miscelazione di liquidi.
Tutori: Prof. Mauri
Ore 12,00
Ing. Gabriele Landucci
Titolo: Sviluppo di schermi termici per getti incendiati e modellazione del loro comportamento.
Tutore: Prof. Zanelli
Ore 12,20
Ing. Andrea Micchi
Titolo: Sviluppo di strategie di monitoraggio ed identificazione per controllori predittivi.
Tutori: Prof. Brambilla, Ing. Pannocchia
Pausa pranzo
Ore 14,30
Ing. Monica Puccini
Titolo: Tecnologie innovative per il trattamento dei sottoprodotti del ciclo conciario e loro impiego in materiali
ecocompatibili.
Tutori: Prof. R. Tartarelli, Prof. S. Vitolo, Ing. M. Seggiani
Ore 14,50
Ing. Alessandro Parente
Titolo: Produzione ed utilizzo di idrogeno da carbone e biomasse.
Tutori: Prof. Tognotti, Ing. Galletti
Ore 15,10
Ing. Aurora Viva
Titolo: Analisi sperimentale e modellazione di riempimenti di nuova concezione per l’impiego in distillazione reattiva
eterogenea.
Tutore: Prof. E. Brunazzi
Ore 15,30
Ing. Matteo Bientinesi
Separazione di idrogeno da gas di sintesi mediante membrane
Tutore: Prof. Petarca
3
Ore 15,50
Ing. Mariacristina Gagliardi
Studio sperimentale e modellistico di nuovi biomateriali per applicazioni cardiovascolari avanzate.
Tutore: Prof. Giusti.
Ore 16,10
Ing. Martina Sabatini
Sicurezza di impianti, convenzionali e innovativi, per la rigassificazione di liquidi criogenici infiammabili:
conseguenze dello spandimento in mare.
Tutore: Prof. Zanelli
Ore 16,30
Break
Ore 17,00
Ing. Giovanni Cascione
Ore 17,05
Ing. Andrea Chiappini
Ore 17,10
Ing. Silvia Farsetti
Ore 17,15
Dott. Fabia Galantini
Ore 17,20
Ing. Elisabetta Guerrazzi
Ore 17,25
Ing. Marco Simone
Ore 17,30
Dott. Markanday Sureshkumar
Ore 17,35
Dott. Ou Tengjiao
Ore 17,40
Dott. Shi Xuetao
Ore 17,45
Dott. Marco Cirillo
Ore 17,50
Dott. Ciro Morlino
4
PRODUZIONE DI NUOVI LEGANTI POLIMERICI ENERGETICI
PER PROPELLENTI SOLIDI
Dott. Ugo Barbieri
Come previsto dal Corso di Dottorato in Ingegneria Chimica, l’attività di ricerca svolta nel periodo
01/01/2007-31/12/2007, nell’ambito del progetto di studio di nuovi leganti “energetici” per propellenti solidi,
può essere sintetizzata come segue:
• Studio della reazione di polimerizzazione dei polimeri precursori di pAMMO (poly-3-azidometil-3metil ossetano) e GA-co-BAMO (Glycidyl azide-co-3,3-bis(azidometil) ossetano;
• Determinazione di unita idrossiliche terminali e oligomeri al fine di ottimizzare le prestazioni
meccaniche di polimeri azidici;
• Identificazione di tecniche di purificazione dei polimeri da sottoprodotti oligomerici;
• Scale up copolimero GA-BAMO 75:25 (in collaborazione con ICT Fraunhofer, Karlsruhe (Germania)
dove ho soggiornato dal 15/06/2007 al 31/07/2007);
• Scale up pAMMO;
• Studio reologico e meccanico del copolimero GA-BAMO durante la fase di reticolazione con poliisocianati.
Studio della polimerizzazione del TMMO; unità idrossiliche e oligomeri
L’obiettivo del presente studio è stata l’ottimizzazione della sintesi del pTMMO (poly-3-tosyloxymetyl-3methyl oxetane), precursore non energetico di pAMMO.
Attraverso la scelta di promotori idrossiterminati, l’utilizzo di rapporti catalizzatore/promotore specifici e la
lenta introduzione del monomero nel mezzo di reazione, si è cercato di identificare le migliori condizioni di
reazione affinché la polimerizzazione potesse decorrere secondo un meccanismo cationico vivente (AMM),
in modo tale da avere un miglior controllo sulle proprietà finali dell’omopolimero.
pTMMO è stato ottenuto con rese estremamente elevate (circa 90%) e completamente caratterizzato (FT-IR,
1
H-NMR, GPC, determinazione OH terminali).
Sono stati ottenuti polimeri di basso peso molecolare (Mn circa 5000), aventi bassa polispersione e con un
numero di unità ossidriliche terminali per macromolecola ben definito (generalmente compreso tra 1 e 1.5).
Inoltre sono stati identificati sottoprodotti oligomerici, in percentuale variabile tra 0,2 e 2% w, a seconda delle
condizioni di polimerizzazione.
Studio della copolimerizzazione ECH/BBrMO; unità idrossiliche e oligomeri
L’obiettivo del presente studio è stata l’ottimizzazione della sintesi del copolimero ECH/BBrMO
(Epicloroidrina/3,3-bis(bromometil) ossetano), precursore non energetico di GA-co-BAMO, analogamente a
quanto fatto precedentemente per il pTMMO.
Il copolimero ECH/BBrMO è stato ottenuto con rese elevate (circa 85%) e completamente caratterizzato (FTIR, 1H-NMR, GPC, determinazione OH terminali). La composizione del copolimero 75:25 (ECH:BBrMO) è
stata giudicata ottimale poiché una maggiore presenza di BBrMO aumenterebbe il contenuto di N del
copolimero a discapito del suo carattere amorfo, indispensabile per garantire proprietà elastomeriche al
legante.
Sono stati ottenuti polimeri di basso peso molecolare (Mn circa 1300), aventi bassa polispersione e con un
numero di unità ossidriliche terminali per macromolecola ben definito (generalmente compreso tra 1 e 1.5).
Inoltre sono stati identificati sottoprodotti oligomerici, in percentuale variabile tra 6 e 12% w, a seconda delle
condizioni di polimerizzazione.
L’elevata percentuale di oligomeri e il valore di peso molecolare, inferiore a quello calcolato supponendo la
propagazione vivente (AMM) delle catene, hanno suggerito una possibile competizione tra AMM e ACE, non
vivente; quest’ultimo meccanismo di reazione ammette reazioni di termine, responsabili della formazione di
oligomeri.
Purificazione del copolimero grezzo
La presenza di oligomeri nella massa polimerica non costituisce un problema, in quanto essi agiscono come
plastificante; tuttavia è necessario identificare un metodo che consenta il controllo della loro concentrazione,
in modo tale da modulare le proprietà meccaniche del legante energetico.
Poiché i tentativi di controllo durante la fase di polimerizzazione hanno avuto scarso successo, è stato
messo a punto un processo di estrazione degli oligomeri che consiste nel trattare il copolimero grezzo in n-
5
esano a riflusso. Questa operazione sfrutta la differenza di miscibilità di oligomeri e polimero GA-co-BAMO
in solventi non polari, quali il n-esano; i primi, meno polari del polimero in quanto privi di funzionalità
ossidriliche, hanno un affinità maggiore con il solvente e pertanto sono più solubili. Pertanto questo processo
di purificazione, applicato al copolimero GA/BAMO (75/25), permette anche di incrementare le funzionalità
OH terminali e di conseguenza la capacità di reticolazione, che avviene per reazione delle terminazioni OH
con gruppi isocianato. L’analisi GPC ha infatti mostrato come effettivamente il processo abbia avuto
successo; infatti è stato possibile rimuovere fino a circa 1/3 degli oligomeri rispetto alla quantità inizialmente
presente, incrementando i gruppi idrossilici terminali per macromolecola da 1,23 a 1,37.
Per rimuovere quantitativamente la frazione oligomerica presente nel polimero grezzo si potrà agire secondo
due differenti strategie:
- aumentare il volume di n-esano;
- sottoporre il polimero a stadi di estrazione in serie con n-esano.
Scale up del copolimero GA-BAMO 75:25
Lo scale-up della sintesi del copolimero GA/BAMO 75:25 è stata effettuata in collaborazione con il centro di
ricerca ICT-Fraunhofer di Karlsruhe in Germania.
In questo modo è stato preparato circa 1 Kg di copolimero GA/BAMO, attraverso i due seguenti stadi
sintetici;
1) Copolimerizzazione di ECH con BBrMO (rapporto monomerico iniziale 75:25), catalizzata per TFBE
(Trifluoruro di Boro eterato) e 1,4-butandiolo (rispettivamente il 4% and 2%mol rispetto alla somma
dei monomeri) ed utilizzando diclorometano come solvente, a temperatura ambiente;
2) Azidazione del copolimero alogenato utilizzando NaN3 (eccesso 1.75% mol) in DMSO, a circa 95°C.
Sia il copolimero azidico, sia l’intermedio alogenato sono stati caratterizzati attraverso tecniche
spettroscopiche (FT-IR, 1H-NMR, 13C-NMR), cromatografiche ed analisi elementare; le unità ossidriliche
terminali sono state determinate per titolazione. I risultati ottenuti sono comparabili a quelli ottenuti su piccola
scala sia in termini di resa, che in termini di caratteristiche chimico-fisiche del prodotto; in particolare, la
percentuale di oligomeri ciclici e il numero si funzionalità ossidriliche per macromolecola sono risultati essere
rispettivamente 6,7%w e 1.33 per il polimero azidato.
Scale up del pAMMO
Lo scale-up del pAMMO ha permesso di sintetizzare 200 g di polimero azidato attraverso i tre seguenti stadi:
1) Sintesi del TMMO a partire dal HMMO (3-hydroxymethyl-3-methyl oxetane), prodotto commerciale
2) Omopolimerizzazione del TMMO, catalizzata per TFBTHF (Trifluoruro di boro compessato con THF)
e 1,4-butandiolo (rispettivamente il 4% and 2%mol rispetto alla somma dei monomeri) ed utilizzando
diclorometano come solvente, a temperatura ambiente;
3) Azidazione del copolimero alogenato utilizzando NaN3 (eccesso 1.75% mol) in DMSO, a circa
120°C.
La caratterizzazione spettroscopica (FT-IR e 1H-NMR) del pAMMO e del suo precursore hanno confermato
la struttura attesa del polimero. Non è ancora disponibile l’analisi GPC e dunque non è possibile quantificare
ne la percentuale di oligomeri ne la concentrazione di funzionalità ossidriliche terminali.
Studio reologico e meccanico del copolimero GA-BAMO
Prove preliminari di reticolazione hanno mostrato che il copolimero GA-BAMO 75:25 reagisce con
Desmodour N-100 (una miscela di di e tri isocianati) a 60°C, trasformadosi da liquido molto viscoso a
gomma elastomerica. Infatti le unità ossidriliche terminali del copolimero reagiscono con i gruppi isocianato,
generando legami uretanici che consentono la formazione di cross-link tra le catene polimeriche. E’ stato
verificato che, utilizzando un rapporto NCO/OH=1, circa il 60-70% in peso del polimero iniziale subisce la
reazione di reticolazione. La cinetica di reazione è funzione della quantità di catalizzatore utilizzato (DBTL,
Dibutyltin dilaurate); inoltre in alcune prove, sono stati aggiunti K54 (ancamina) e DOZ (Dioctyl azelate) nella
mescola, rispettivamente col ruolo di accelerante e plastificante. E’ stato studiato il comportamento viscoelastico del copolimero GA/BAMO in funzione della temperatura, nel range compreso tra 45 e 65°C; la
cinetica di reticolazione, i valori del modulo complesso G* e dell’angolo di fase sono coerenti e comparabili a
quelli relativi all’HTPB (polibutadiene idrossi-terminato), base polimerica dei leganti attualmente utilizzati nei
vettori aerospaziali. Alcune prove sono state effettuate in presenza di particelle di materiali elastici in modo
tale da simulare la reticolazione del polimero in presenza della carica redox del propellente; in particolare, ci
è stato suggerito da tecnici AVIO di utilizzare zucchero, allumina e K2SO4, rispettivamente al 39%, 27% e
20% rispetto al carico totale, riferito a prove relative all’HTPB.
Anche in questo caso, la cinetica, G* e l’angolo di fase sono risultati comparabili a quelli relativi all’HTPB;
tuttavia è stato necessario aumentare la componente polimerica nella mescola iniziale dal 14-18% (valore
HTPB) al 20-26% (valore GA-co-BAMO), a causa del minor peso molecolare di quest’ultimo.
6
PRODUZIONE E CARATTERIZZAZIONE DI NANOCOMPOSITI A
MATRICE POLIOLEFINICA PER IMPIEGHI IN AGRICOLTURA
Dottorando:
Ing. Cristina Marazzato
Docenti / Ricercatori:
Prof. P.L. Magagnini
Ing. G. Polacco
Dott. S. Filippi
SCOPO DELLA RICERCA
Preparazione e caratterizzazione di nuovi materiali nanocompositi a matrice polimerica da impiegare per la
produzione di film per applicazioni in agricoltura.
Questi film devono presentare una serie di caratteristiche non sempre facilmente ottenibili da un solo
materiale, specialmente considerando l’esigenza imprescindibile del basso costo. In particolare, le proprietà
meccaniche, quali la rigidità, la resistenza allo strappo e l’allungamento a rottura, devono essere ottimizzate
e devono risultare sufficientemente stabili nel tempo. Particolarmente importanti sono anche le proprietà
ottiche, la resistenza alla foto-ossidazione e la permeabilità ai gas. I polimeri normalmente utilizzati per
questi scopi sono a base di polietilene a bassa densità (LDPE), di copolimeri etilene-vinilacetato (EVA) o di
miscele dei due (PE-EVA). Si tratta di materiali di costo contenuto, ma che sono soggetti a fenomeni di
fotodegradazione con conseguenti alterazioni delle proprietà e limitazione del tempo di vita. L’uso di
nanocompositi potrebbe consentire, a fronte di un modesto aumento del costo legato alla necessaria
aggiunta di piccole quantità di argille organofile, di disporre di materiali con caratteristiche meccaniche
migliorate e, soprattutto, con proprietà ottiche e barriera ottimizzate per impieghi come teli per serre.
NANOCOMPOSITI
I nanocompositi a matrice polimerica costituiscono una nuova classe di materiali, sviluppata nell’ultimo
decennio, che ha incontrato un fortissimo interesse sia a livello industriale che accademico. Si tratta di
particolari materiali compositi nei quali le particelle della carica inorganica hanno almeno una dimensione
nell’ordine dei nanometri. In particolare, le cariche usate per i nanocompositi considerati nel presente studio
sono rappresentate da argille appartenenti alla famiglia dei fillosilicati (montmorillonite, bentonite, etc.). Esse
sono formate da pacchetti di lamelle con spessore di circa 1 nm, mentre le altre dimensioni sono di qualche
micron: pertanto, qualora disperse in forma delaminata in una matrice polimerica, esse possono dar luogo a
compositi con area interfacciale elevatissima, anche se usate in proporzione di poche unità percentuali.
Queste argille, inoltre, si prestano ad essere modificate per scambio ionico con adatti tensioattivi organici in
modo da migliorare la loro compatibilità con i polimeri.
Miscelando nello stato fuso un polimero con un’argilla si possono ottenere tre tipi di materiali: un
microcomposito tradizionale, se l’affinità tra polimero e argilla è ridotta e la dispersione è grossolana; un
nanocomposito intercalato quando l’affinità è abbastanza alta da permettere alle macromolecole di polimero
di penetrare negli spazi interlamellari causandone una espansione, senza che sia tuttavia distrutta la
periodicità strutturale; un nanocomposito esfoliato, quando l’interazione è così elevata da permettere la
completa delaminazione dell’argilla e la dispersione omogenea delle lamine elementari nella matrice. Questo
terzo tipo di morfologia è in genere quello che permette di ottenere il massimo miglioramento delle proprietà,
rispetto a quelle del polimero di partenza.
MATERIALI UTILIZZATI
Nella ricerca che forma l’oggetto della presente tesi, sono stati utilizzati i polimeri e le argille indicati nelle
tabelle seguenti.
Nome
Commerciale
Produttore
FC30 Riblene
Polimeri Europa
FG166 Clearflex
Polimeri Europa
POLIMERI
Caratteristiche
Densità
(kg/m3)
MFI a)
(g/10min)
LDPE
922
0.27
LLDPE
919
0.9
7
Eltex
BP-Solvay
HDPE
960
0.81
Escor 5100
Exxon-Mobil Chemical
Copolimero etileneacido acrilico 11%
940
8.0
Escor 5000
Exxon-Mobil Chemical
Copolimero etileneacido acrilico 6%
931
8.0
Escor 5001
Exxon-Mobil Chemical
Copolimero etileneacido acrilico 6%
931
2.0
Polybond 1009
Crompton Corp
950
5.0
Polybond 3009
Crompton Corp
950
5
Polybond 3109
Crompton Corp
926
30
Greenflex FC45
Polimeri Europa
HDPE aggraffato
con 6% di acido
acrilico
HDPE aggraffato
con 1% di anidride
maleica
LLDPE aggraffato
con 1% di anidride
maleica
Copolimero etilenevinilacetato 14%
Greenflex HN70
Polimeri Europa
0.3
Copolimero etilenevinilacetato 28%
2.5-6
a) Melt flow index (ASTM D1238).
Nome
commerciale
Cloisite 15A
Cloisite 20A
Cloisite 30B
ARGILLE
(montmorilloniti organicamente modificate)
Produttore
Modificante
Southern Clay
Prod. Inc.
Southern Clay
Prod. Inc.
Southern Clay
Prod. Inc
Dimethyl, dihydrogenated tallow,
quaternary ammonium
Dimethyl, dihydrogenated tallow,
quaternary ammonium
Methyl, tallow, bis-2-hydroxyethyl,
quaternary ammonium
M.E.R.
(meq/100g)
125
d001
(nm)
3.24
95
2.52
90
1.84
RISULTATI
I nanocompositi sono stati preparati per miscelazione nel fuso, in un miscelatore statico Brabender
Plasticorder con una camera di 50 mL di volume. Il polimero in pellets e l’argilla in polvere sono stati inseriti
nel miscelatore preriscaldato a temperature di circa 20°C superiori alla temperatura di fusione del polimero e
lavorati per circa 10 min a 60 rpm.
I compositi ottenuti sono stati poi studiati con varie tecniche:
- Analisi diffrattometrica ai raggi-X ad ampio angolo (WAXD) in un intervallo 1.5<2θ<30 di dischetti di
20 mm di diametro e di 2 mm di spessore, stampati per pressofusione a 190°C e fatti raffreddare
lentamente;
- Analisi al microscopio elettronico in trasmissione (TEM) dei campioni tal quali effettuata presso
l’Università di Genova;
- Analisi termica mediante calorimetria a scansione differenziale (DSC), eseguita nell’intervallo 50190°C con velocità di 10°C/min, e studio della cristallizzazione isoterma, eseguito alle temperature di
116, 118, 120 e 122°C su alcuni campioni rappresentativi;
- Studio della cristallizzazione non isoterma eseguito al microscopio ottico in luce polarizzata per
raffreddamento da 190°C alla velocità di 10°C/min ed analisi morfologica delle strutture cristalline
prodotte sia in condizioni non isoterme che isoterme (a T=Tc+5°C);
- Analisi termogravimetrica (TGA) delle varie argille, per verificarne il contenuto di materiale organico,
e di alcune miscele, per verificare il contenuto di argilla e per studiarne la termodegradazione in
presenza di azoto e di aria;
- Prove reologiche e meccaniche condotte presso l’Università di Palermo;
I polietileni tal quali non mostrano una sufficiente affinità con le argille, anche se organicamente modificate.
Di conseguenza, miscelando il polietilene puro con un’argilla si ottiene un microcomposito con proprietà non
ottimali per la preparazione di film. È perciò necessario aggiungere al polietilene un compatibilizzante
capace di migliorarne le interazioni con l’argilla. Nel presente lavoro di tesi sono stati quindi preparati e
caratterizzati diversi compositi ottenuti utilizzando, come compatibilizzanti, una serie di copolimeri dell’etilene
8
con monomeri polari. Sono stati considerati, in particolare, i copolimeri etilene-acido acrilico (EAA), etileneanidride maleica (PEMA) ed etilene-vinilacetato (EVA). Mentre i copolimeri PEMA ed EVA erano già stati
descritti nella letteratura come matrici per nanocompositi ed avevano dimostrato una buona affinità per
alcune argille organofile commerciali, i copolimeri EAA non erano stati oggetto di precedenti studi. La scelta
dei tre tipi di copolimeri indicati era basata sulla loro elevata compatibilità nei confronti del polietilene.
I nanocompositi prodotti con PEMA (con percentuali in peso di anidride maleica dell’1% circa) presentano
morfologie di tipo esfoliato, rilevate dagli spettri WAXD e confermate attraverso analisi TEM.
La caratterizzazione termica di questi compositi ha dimostrato che le temperature di fusione e di
cristallizzazione non subiscono variazioni di rilievo per aggiunta dell’argilla, anche se l’analisi morfologica
effettuata al microscopio ottico in luce polarizzata (POM) ha rivelato un’apprezzabile riduzione delle
dimensioni degli sferuliti che può essere correlata con un effetto nucleante del fillosilicato. L’analisi DSC non
riesce a mettere in evidenza questo effetto, probabilmente a causa della elevata velocità di cristallizzazione
del polimero.
Le prove reologiche e meccaniche mostrano un miglioramento consistente delle proprietà del polimero
dovuto alla presenza dell’argilla.
I copolimeri PE-g-MA sono stati anche utilizzati come compatibilizzanti per nanocompositi a matrice
polietilenica, miscelandoli in percentuali variabili con i polietileni puri e mantenendo costante la quantità di
argilla (5% in peso); l’analisi morfologica ha dimostrato che la struttura esfoliata è mantenuta purché il
rapporto in peso tra PE-g-MA e argilla resti >10.
Questi risultati sono stati riportati in una presentazione orale (C. Marazzato, S. Filippi, P. Magagnini, Y.
Peneva, N.Tzankova Dintcheva, F.P. La Mantia; Nanocompositi da polietileni e copolimeri PE-g-MA con
diversa struttura molecolare) al XVII Convegno Italiano di Scienza e Tecnologia delle Macromolecole.
I compositi a base di EAA mostrano all’analisi diffrattometrica strutture di tipo intercalato, indipendentemente
dal tipo di modificante organico dell’argilla; inoltre confrontando le argille caratterizzate dallo stesso tipo di
modificante, ma con diverso livello di scambio si osserva che la capacità di intercalazione non dipende dalla
spaziatura iniziale delle lamelle di silicato in quanto il tensioattivo in eccesso rispetto alla capacità di scambio
dell’argilla diffonde nella massa di polimero all’atto della miscelazione. Anche un aumento della quantità di
argilla aggiunta ai copolimeri EAA non modifica la struttura intercalata del composito..
Tale struttura resta inalterata anche sostituendo buona parte del copolimero con LDPE. L’elevata affinità dei
gruppi carbossilici liberi dei copolimeri EAA nei confronti delle lamelle di silicato è probabilmente
responsabile di questo comportamento: data la concentrazione relativamente elevata di gruppi funzionali, le
macromolecole di copolimero penetrano facilmente nelle gallerie dell’argilla dando luogo ad una sorta di
effetto di incollamento (“glue effect” proposto da alcuni autori sulla base di modelli teorici), impedendo
l’ulteriore ingresso di polimero e la completa esfoliazione dei pacchetti di lamelle.
L’analisi termica dei compositi a base di EAA, effettuata mediante DSC e POM, ha portato a risultati
sostanzialmente simili a quelli ottenuti per i copolimeri contenenti anidride maleica.
Le analisi reologiche e meccaniche anche in questo caso hanno mostrato miglioramenti delle proprietà del
polimero di partenza.
Anche questo studio è stato descritto in una presentazione orale (S. Filippi, C. Marazzato, P. Magagnini,
N.Tzankova Dintcheva, F.P. La Mantia; Nanocomposites from poly(ethylene-co-acrylic acid) copolymers and
a Zn-ionomer) al XVII Convegno Italiano di Scienza e Tecnologia delle Macromolecole ed in due
pubblicazioni su riviste internazionali (P. Magagnini, S. Filippi, C. Marazzato, F.P. La Mantia, L.I. Minkova;
Morphology of nanocomposites from ethylene- acrylic acid copolymers; e-Polymers 2005, n°86; S. Filippi, C.
Marazzato, P. Magagnini, L. Minkova, N. T. Dintcheva, F.P. La Mantia; Organoclay nanocomposites from
ethylene-acrylic acid copolymers; Macromolecular Materials and Engineering, 291, 1208-1225, 2006)
Su alcuni di questi compositi, con il 5 e il 10% di Cloisite 15A, e con matrice rappresentata da Escor 5100,
Polybond 3009 e miscele HDPE/Polybond 3009 di composizione 50/50 e 80/20, è stato fatto uno studio della
termodegradazione in ambiente inerte (N2) e ossidante (aria), usando campioni di circa 5 mg, riscaldati a
5°C/min fino a 600°C. I risultati, riportati in un articolo (C. Marazzato, Y. Peneva, E. Lefterova, S. Filippi, L.
Minkova; Kinetics of non-isothermal degradation of nanocomposites based on functionalized polyethylenes;
Polymer Testing, vol 26, 526-536, 2007) hanno mostrato che, in presenza di azoto, il processo di
degradazione dei polimeri puri e dei loro nanocompositi avviene in un solo stadio, e che la presenza
dell’argilla riduce la stabilità termica, tanto più quanto migliore è la dispersione (nanocompositi esfoliati). Tale
effetto è stato attribuito alla formazione di siti catalitici nell’argilla a seguito della degradazione dell’agente
modificante. Al contrario, in aria, la stabilità termica dei nanocompositi è superiore a quella dei polimeri puri;
ciò è imputabile all’effetto barriera delle lamine di argilla che rallentano il flusso di ossigeno; in questo caso,
la miglior dispersione dell’argilla (nanocomposito esfoliato) comporta una stabilità termica superiore.
Un secondo studio su questi polimeri si è concentrato sul loro utilizzo come compatibilizzanti per produrre
nanocompositi a base di HDPE. Sono stati perciò preparati dei masterbatch con tre polimeri funzionalizzati
l’Escor 5100, il Polybond 1009 e il Polybond 3009, con 25 phr di inorganico (~30% in peso) di Cloisite 15A;
questi sono stati poi diluiti con HDPE per dare nanocompositi con 3 phr di inorganico (~5% in peso). I
nanocompositi ottenuti sono stati studiati dal punto di vista strutturale e morfologico mediante WAXD, POM e
9
TEM e sono state anche analizzate le loro proprietà termiche (DSC), reologiche e meccaniche. I risultati
mostrano che il Polybond 1009 ed il Polybond 3009, avendo una struttura molecolare lineare molto simile a
quella dell'HDPE, sono miscibili con quest'ultimo ed i compositi ottenuti da tali miscele sono caratterizzati da
buona dispersione dell'argilla. Al contrario, l’Escor 5100 risulta immiscibile con l'HDPE ed i compositi ottenuti
da dette miscele presentano una morfologia bifasica con l'argilla concentrata nei domini di Escor. Questi
risultati sono riportati in un contributo (S. Filippi; C. Marazzato, P. Magagnini, L. Conzatti, G. Costa, N.T.
Dintcheva, F.P. La Mantia; Compatibilization of HDPE/organoclay nanocomposites by functionalized
polyethylenes) presentato all’VIII Convegno Nazionale AIMAT 2006.
L’ultimo tipo di compatibilizzante studiato è stato l’EVA, questo tipo di copolimero è, come già detto,
comunemente utilizzato per la produzione di teli da serra, perciò è il compatibilizzante che già possiede
caratteristiche adatte alla produzione dei suddetti films. L’EVA è stato molto studiato in letteratura come
matrice per la formazione di nanocompositi ed in generale mostra una buona interazione con le argille
organicamente modificate, dando prevalentemente strutture miste intercalate-esfoliate con una buona
dispersione delle lamelle. Partendo da queste conoscenze e dai risultati precedentemente ottenuti, sono
stati preparati dei masterbatch a base di EVA14 e EVA28 con il 40% in peso di argilla (Cloisite 20A e Cloisite
30B). Questi concentrati sono stati caratterizzati mediante analisi WAXD e TGA e poi diluiti con l’EVA
stesso, per dare nanocompositi con il 5 e il 10% in peso di argilla. Dall’analisi ai raggi X sono stati ottenuti
diffrattogrammi molto simili a quelli ottenuti dai nanocompositi preparati miscelando direttamente l’EVA con il
5 e il 10% in peso di argilla. In particolare, quando è stata utilizzata la Cloisite 20A, sono stati ottenuti
nanocompositi intercalati, i diffrattogrammi corrispondenti alle stesse composizioni per i due diversi metodi di
preparazione mostrano picchi agli stessi angoli, ma con diversa intensità; probabilmente ciò è dovuto alla
doppia lavorazione che le diluizioni dei masterbatch hanno subito. Un discorso a parte merita il
comportamento della Cloisite 30B, in quanto, con questa argilla tutti i diffrattogrammi mostrano, a bassi
angoli, un andamento tipico dei nanocompositi esfoliati con un picco, più o meno intenso, ad un angolo
corrispondente ad una distanza di circa 1,47nm, minore di quella dell’argilla di partenza (1,84 nm). La
presenza di questo picco non è molto spiegata in letteratura ed è stata da noi indagata con risultati però non
ancora chiari.
I due tipi di EVA sono stati utilizzati come compatibilizzanti per produrre nanocompositi a base di LDPE.
Sono stati miscelati LDPE puro e EVA a diverse composizioni (95/5, 90/10 e 75/25) mantenendo costante il
contenuto di argilla, 5% in peso di Cloisite 20A. I nanocompositi ottenuti sono stati caratterizzati con l’analisi
WAXD. I risultati hanno mostrato che i compositi prodotti sono tutti intercalati e che il picco di intercalazione
non varia all’aumentare della concentrazione di EVA, infatti è lo stesso picco che si ottiene per il
nanocomposito EVA con il 5% in peso di Cloisite 20A; questo dimostra che la miscela ottenuta è una
miscela bifasica in cui l’argilla è concentrata nei domini di EVA.
Presso l’Università di Palermo sono stati preparati per blow-molding films PE/compatibilizzante/argilla e sono
state analizzate le loro proprietà meccaniche, reologiche e di resistenza alla fotoossidazione.
10
PROPRIETA' REOLOGICHE DI PASTE DI CEMENTO ESTRUDIBILI
AD ELEVATO CONTENUTO DI CENERI DI CARBONE
Dottoranda:
Francesca Micaelli
1.Introduzione
Lo scopo del lavoro è quello di verificare la possibilità di impiegare le ceneri volanti (fly ash) come tali o
modificate (micronizzate), in formulazioni cementizie per applicazioni non convenzionali. In particolare,
l'attenzione è rivolta allo studio di paste di cemento adatte alla formatura plastica che prevedono l'impiego
delle ceneri volanti modificate come additivo reattivo (in parziale sostituzione del cemento), o come filler; le
tecniche di formatura prevalente sono l'estrusione e lo spampaggio a compressione, già ampiamente
utilizzate per le materie plastiche e ceramiche.
I materiali da estrusione devono avere comportamento plastico durante l’estrusione (buona lavorabilità) ed
elevata coesione in modo che l’oggetto estruso una volta formato sia in grado di conservare la forma
(sostenere il proprio peso), deve cioè possedere una elevata green strength. Il compromesso tra una buona
lavorabilità ed una elevata green strength è ottenibile tramite un accurato controllo della composizione delle
paste in termini di quantità e caratteristiche dei singoli componenti, in particolare tramite l’ottimizzazione
della densità di impacchettamento delle particelle solide ed il controllo della reologia della fase fluida.
2.Ceneri volanti
Le ceneri volanti sono un sottoprodotto importante della combustione ad alta temperatura (1100-1500 °C)
del carbone polverizzato utilizzato come combustibile nei processi di generazione termoelettrica. La
produzione annuale di fly ash in Italia ammonta infatti a 1 Mt e addirittura a 40 Mt in Europa. Nelle moderne
centrali termoelettriche, durante la combustione del carbone polverizzato ad alta temperatura si forma una
rilevante quantità di ceneri costituita da impurezze minerali contenute nel carbone stesso, quali argille,
quarzo e feldspati; questi residui si disintegrano e fondono in vari stadi. La parte più leggera delle ceneri,
quella in quantità maggiore (75-85% del totale), viene poi trascinata ancora allo stato fuso dai fumi di
combustione in uscita dalla caldaia. A seguito del rafreddamento, all'uscita dalle camere di combustione, le
ceneri solidificano rapidamente formando particelle vetrose sferoidali di dimensioni abbastanza piccole (1100 µm) che vengono recuperate dalla corrente gassosa tramite filtri a maniche e precipitatori elettrostatici
per impedirne la dispersione nell'atmosfera. Le ceneri così ottenute, dette volanti per la loro facile
disperdibilità in aria, sono raccolte e immagazzinate in appositi sili, pronte per un eventuale riuso.
La composizione chimica delle ceneri volanti varia significativamente a seconda del tipo di carbone bruciato;
esse sono costituite per il 60-75% del peso totale da silice (SiO2) e allumina (Al2O3) e per la restante parte
da ossidi di calcio (CaO), di ferro (Fe2O3), di magnesio (MgO), di titanio (TiO) , di zolfo (SO3), di sodio
(Na2O) e di potassio (K2O). Le ceneri contengono anche quantità significative di carbone incombusto
(%LOI), il cui tenore dipende da più fattori quali il grado di polverizzazione del carbone, la velocità di
combustione, il rapporto aria-combustibile,oltre che dal tipo e dall'origine del carbone.
La composizione mineralogica ed il carattere amorfo fanno delle ceneri volanti un materiale con
caratteristiche pozzolaniche. Esse pertanto vengono riutilizzate come additivi minerali (sia reattivi che come
semplice filler) nella produzione di cementi di miscela e calcestruzzi. Il loro uso in parziale sostituzione del
cemento portland, oltre a consentire un notevole risparmio economico ed energetico, introduce notevoli
benefici quali il miglioramento della lavorabilità, riduzione dei fenomeni di segregazione e del calore di
idratazione, aumento della resistenza finale , maggiore impermeabilità e resistenza chimica.
Le caratteristiche pozzolaniche delle ceneri volanti derivano dal fatto che l'idrossido di calcio che si libera
durante l'idratazione del cemento è in grado di reagire con la silice e l'allumina amorfe presente nelle ceneri
formando silicati ed alluminati di calcio idrati simili a quelli che si sviluppano nell'idratazione del cemento
portland. Le reazioni pozzolaniche delle fly ash sono molto più lente di quelle di idratazione del cemento e
continuano per periodi di tempo molto lunghi, anche dopo il completo indurimento della pasta cementizia
aumentandone così la resistenza e l'impermeabilità tramite una continua riduzione della porosità della pasta
cementizia. Le fly ash, oltre che come additivo reattivo, vengono addizionate al cemento nella produzione di
malte e calcestruzzi anche come semplice filler, in quanto, grazie alla forma sferica e poiché la dimensione
delle ceneri è simile a quella delle particelle del cemento, migliorano la lavorabilità delle paste
aumentandone la fluidità.
Il tenore di carbone incombusto presente nelle ceneri deve essere mantenuto il più basso possibile in quanto
sottrae alla miscela cementizia significative quantità di acqua di impasto e di additivi. Per tale motivo sono
stati messi a punto dei trattamenti di beneficiation che mirano a separare le ceneri propriamente dette dal
carbone incombusto sfruttando le differenti caratteristiche dei componenti chimici da separare quali la
granulometria e la forma delle particelle, la massa volumica e le proprietà elettriche superficiali.
11
3. Descrizione dei materiali esaminati
Due tipi di ceneri sono state analizzate: ceneri volanti native caratterizzate da una morfologia sferoidale
regolare (particelle del diametro medio di 45 µm) e ceneri volanti micronizzate, ottenute per macinazione
delle ceneri native in mulini a palle, caratterizzate da una morfologia irregolare con dimensioni medie delle
particelle di 5 µm. L’analisi granulometrica ha permesso di valutare una superficie specifica media
Sp=8,4·105 cm2/ cm3 per le ceneri tal quali e Sp=6,28·106 cm2/ cm3 per le micronizzate. Le masse volumiche
dei due tipi di cenere, valutate con il picnometro a gas ed il picnometro ad alcool etilico, sono
rispettivamente 2,3 e 2,6 g/cm3. Tali valori risultano inferiori a quelli riportati in letteratura di 2,6-2,7 g/ cm3,
soprattutto per le ceneri tal quale, probabilmente a causa della elevata percentuale di incombusti che dai
risultati dell'analisi termogravimetrica risulta essere superiore al 7%. La massima frazione di impaccamento
delle ceneri è stata valutata con il metodo “oil drop test” che ha fornito un valore di 0,50-0,55 per le ceneri
native e di 0,45-0,50 per le micronizzate. La differenza tra tali valori dipende dalla diversa morfologia e
dimensione dei due tipi di particelle.
Il cemento Portland utilizzato è un cemento CEM 1 52,5 R Italcementi con particelle del diametro medio di
10 µm.
Le sospensioni concentrate e le paste esaminate sono ottenute per miscelazione dei diversi costituenti con
acqua ed additivi comunemente utilizzati nell’industria del calcestruzzo per limitare gli effetti di flocculazione
(superfluidificanti) e di segregazione (viscosità enhancing agents VEA), che agiscono modificando la
viscosità del mezzo sospendente.
4.Parte sperimentale
Lo studio del comportamento reologico dei sistemi cemento-ceneri volanti è condotto in quattro fasi. Nella
prima fase è effettuata una caratterizzazione reologica preliminare di sospensioni acquose concentrate di
ceneri volanti e di sospensioni acquose di miscele di ceneri volanti e cemento (v=0,3-0,4). Nella seconda
fase è valutato il comportamento plastico di paste di cemento e ceneri volanti tramite la tecnica del vane test
e prove di compressione semplice. Nella terza fase è invece valutata l’estrudibilità di paste di ceneri e
cemento (v=0,45-0,55) tramite un reometro capillare al fine di determinarne il carico di snervamento iniziale
del materiale tramite il modello matematico di Benbow. Nella quarta fase infine è esaminata la reattività dei
sistemi cemento-ceneri a breve e a lungo termine; nel primo caso è stata utilizzata la tecnica calorimetria,
mentre nel secondo caso sono state eseguite prove di resistenza meccanica a compressione e a trazione e
un’analisi mineralogica (XRD e SEM).
4.1 Reologia sospensioni concentrate
Nella prima fase del lavoro è stato studiato il comportamento reologico di sospensioni acquose concentrate
(frazione volumetrica solida 0,35-0,40) di ceneri volanti naturali e micronizzate e cemento per mezzo di un
reometro piatto-piatto utilizzando superfici lisce e rugose dello strumento. Le curve sperimentali ottenute
tramite prove di taglio in controllo di velocità rivelano un comportamento reologico complesso, tipicamente
non newtoniano, di tipo viscoplastico reofluidificante ed influenzato dal tempo. I valori di viscosità di
sospensioni di ceneri, di cemento e di carbonato di calcio, determinati in regime stazionario, in funzione della
frazione volumetrica di solido, sono descritti in modo soddisfacente tramite un modello a due parametri di
tipo Krieger-Dougherty. Gli stessi dati di viscosità sono stati analizzati secondo il concetto di unità strutturali,
cioè di grani rivestiti da uno strato di fluido sospendente intimamente legato alla particella, immersi nel fluido
sospendente. Considerando uno spessore di fluido Eip (calcolato in relazione alla superficie specifica della
particella Sip), per i diversi tipi di particelle i è stata valutata una frazione di impaccamento delle unità
strutturali US che permette di ottenere la sovrapposizione delle curve sperimentali. La sovrapposizione di
curve così ottenuta è descritta dal modello di Krieger-Daugherty con una frazione massima di impaccamento
delle unità strutturali USmax di 0,75, indipendente dalla granulometria e dalla forma delle particelle
Le prove su sospensioni concentrate di miscele di ceneri naturali e micronizzate, al variare della percentuale
relativa delle due ceneri (0-100%), hanno messo in evidenza un valore minimo di viscosità in corrispondenza
di una frazione volumetrica di particelle fini del 30 à 40%, indipendentemente dalla velocità di deformazione
a taglio. Una miscela ottimale di ceneri è stata quindi identificata sulla base di un criterio di fluidità. La
viscosità di tale miscela diminuisce all’aumentare della velocità di taglio e aumenta con la frazione
volumetrica di solido totale in sospensione. Anche in tal caso, le curve di viscosità sono state analizzate
secondo il concetto di unità strutturali. Un modello complesso che tiene conto della interazione tra singole
particelle si è rivelato adatto per la descrizione del comportamento reologico di sospensioni concentrate di
miscele di particelle. Test in controllo di velocità sono stati eseguiti sulle stesse sospensioni bidisperse
utilizzando superfici rugose dei piatti in modo da eliminare l’effetto di wall-slip che si riscontra nel caso di
sistemi bifasici sottoposte all’azione di sforzi di taglio. Lo yield stress e la viscosità plastica di tali sistemi,
determinati approssimando i dati sperimentali con il modello di Bingham, presentano entrambi un valore
minimo in corrispondenza di una frazione volumetrica di ceneri micronizzate analoga a quella ottenuta nel
caso delle prove condotte con superfici lisce dello strumento. Lo stesso metodo è stato usato per analizzare
il comportamento di sospensioni cemento-ceneri naturali e cemento-ceneri micronizzate, le quali presentano
12
entrambe valori di yield stress e di viscosità plastica maggiori di quelli del cemento. Un’ultima serie di prove
è stata infine effettuata su sospensioni sospensioni ottenute aggiungendo al cemento la miscela ottimale di
ceneri I risultati ottenuti mostrano che la soglia di scorrimento e la viscosità plastica sono praticamente
indipendenti dalla frazione di ceneri in un range di composizione compreso tra lo 0 ed il 60%.
In conclusione, il lavoro svolto in questa prima fase ha consentito di presentare un modello per miscele di
particelle solide in sospensioni concentrate. Inoltre è stata individuata una miscela di ceneri native e
micronizzate ottimale (viscosità minima) che addizionata al cemento permette di ottenere un comportamento
isoreologico, per una gamma piuttosto ampia di composizioni, molto interessante per l’ingegneria civile.
4.2.Reologia di paste estrudibili
La reologia di sistemi a maggiore concentrazione in solido è stata esaminata tramite la tecnica del vane test
e prove di compressione semplice (squeezing test) allo scopo di validare un comportamento reologico
essenzialmente plastico desiderato per il processo di formatura per estrusione. Il vane test ha permesso di
individuare la soglia di taglio (yield stress) e la soglia di attrito di paste di cemento, di cemento e ceneri
naturali e delle paste di cemento e miscela ottimale di ceneri. Queste ultime mostrano una soglia di plasticità
più bassa di quella delle altre paste. Il vane test è stato inoltre utilizzato per osservare l’influenza del tempo
sulla paste di cemento contenenti la miscela ottimale di ceneri.
Le prove di compressione semplice sono state condotte sulle stesse paste utilizzando piatti sia con superfici
rugose che lisce. Le curve ottenute interpretando i dati sperimentali hanno rivelato per tutte le miscele un
comportamento plastico con attrito. Sono stati inoltre individuati fenomeni di filtrazione della fase liquida in
corrispondenza di pressioni elevate e velocità di compressione lente. La modellizzazione di tali curve
secondo un modello plastico con attrito ha permesso di identificare una soglia di plasticità, una pseudo
coesione e uno pseudo coefficiente di attrito interno del materiale. I valori di tali grandezze non si discostano
molto per le tre differenti formulazione delle paste analizzate. E’ stato inoltre osservato che la soglia di
plasticità determinata con lo squeeze test è leggermente più elevata di quella determinata con il vane test.
4.3 Estrusione di paste
Nella terza fase le prove di estrusione condotte con il reometro estrusore su sistemi più concentrati hanno
permesso d’identificare lo yield stress iniziale σo e lo sforzo di taglio iniziale τo del materiale secondo il
modello generale di Benbow. Tale strumento permette una caratterizzazione semplice ed immediata delle
paste in funzione della loro composizione; il materiale testato inoltre sperimenta in tale apparecchiatura le
stesse condizioni dei processi industriali di formatura.
Le paste di cenere mostrano un valore di σo inferiore a quello del cemento, mentre il valore di τo delle paste
di ceneri micronizzate risulta superiore a causa della morfologia altamente irregolare delle particelle. Le
paste ottenute per miscelazione dei due tipi di cenere mostrano un valore miniimo dello yield stress iniziale
σo in corrispondenza della stessa concentrazione volumetrica di ceneri micronizzate individuata nel caso di
sospensioni meno concentrate. Un’altra serie di prove è stata quindi effettuata su paste della medesima
composizione e su paste di cemento contenenti la miscela ottimale di ceneri. I risultati sono stati interpretati
secondo un modello locale, scomponendo la forza totale di estrusione in un carico relativo alla deformazione
plastica del materiale ed un carico relativo all’attrito del materiale alla parete dell’estrusore. L’interpretazione
dei risultati sperimentali secondo i modelli di Benbow, Hill-Mortreuil e Horrobin hanno confermato il
comportamento plastico puro delle paste di cemento e miscela ottimale di ceneri, che per altro presentano il
più basso valore di σo. In particolare il modello di Horrobin permette di ottenere un valore dello yield stress
iniziale del materiale molto prossimo a quello determinato con il vane test. Lo studio del comportamento a
estrusione è stato completato con delle prove di durezza superficiale realizzate sul materiale rimante
all’interno dell’estrusore, allo scop di individuare eventuali fenomeni di migrazione della fase liquida che si
producono durante il processo di estrusione. I risultati mostrano che l’impiego della miscela ottimale di ceneri
nelle paste di cemento consente di ottenere una migliore omogeneità della pasta.
Si può pertanto concludere che le ceneri volanti possono essere utilizzate nella formulazione di paste
cementizie estrudibili per migliorarne le caratteristiche reologiche facilitando il processo di estrusione, in
quanto consentono di ottenere carichi di estrusione inferiori a parità di frazione volumetrica solida. Inoltre il
carattere plastico di una pasta caratterizzata da una distribuzione più ampia (bidispersa) delle dimensioni
delle è migliore di quello di una pasta con una distribuzione monodispersa, per la stessa frazione
volumetrica di solido.
4.4 Reattività ceneri volanti
Nell’ultima fase è stata studiata la reattività a breve termine e a lungo termine dei sistemi cemento-ceneri
volanti. Lo studio a breve termine è stato condotto seguendo la cinetica el processo di idratazione dei sistemi
cemento-ceneri per mezzo del calorimetro isotermo. E’ stato osservato che le ceneri volanti hanno un effetto
ritardante sulla reazione di idratazione del cemento, mentre le ceneri micronizzate un effetto accelerante.
Inoltre le ceneri naturali determinano la comparsa di un secondo picco di reazione. In termini del calore
globale di idratazione entrambe le tipologie di cenere aumentano la reattività del cemento. Al contrario
l’aggiunta al cemento di miscele di ceneri naturali in diversa proporzione non sembra modificare la reattività
del cemento, sia in termini della cinetica di reazione che del calore totale di reazione. In pratica si assiste ad
una compensazione tra l’effetto ritardante delle ceneri naturali e quello accelerante delle ceneri micronizzate.
13
La percentuale di ceneri micronizzate nella miscela ottimale di ceneri permette dunque di eliminare l’effetto
ritardante delle sole ceneri naturali. La studio della reattività a lungo termine, tramite prove di resistenza
meccanica a compressione e a trazione eseguite su provini di differente formulazione stagionati in
condizioni di umidità a 28 e 60 giorni, ha messo in evidenza come le paste di cemento e miscela ottimale di
ceneri mostrino valori di resistenza analoghi a quelli del cemento, mentre quelli delle paste di cemento e
ceneri volanti presentano valori inferiori.
1. F.Micaelli, G.Levita, C. Lanos, “Rheological characterization of cement-fly ash suspension”, 8°
Convegno nazionale AIMAT (2006), Palermo, Italia (11 pages).
2. F.Micaelli, G.Levita, C. Lanos, ‘‘Suspensions concentrées de cendres volantes”, 41ème Colloque
Annuel du Group Français de Rhéologie, 18-20 octobre 2006, Cherbourg, France, poster
3. F.Micaelli, G.Levita, C. Lanos, ‘‘Rheological characterization of cement-fly ash pastes”, Annual
European Rheology Conference, 14-16 avril 2007, Naples, Italie, poster
4. F.Micaelli, G.Levita, C.Lanos, ‘‘Caractérization rhéologique de pâtes de ciment et cendres volantes
extrudables”, Acte de conférence 25èmes Rencontres AUGC (2007), Bordeaux, France (8 pages)
14
Dr. Dafne Molin
Modello ad Interfacce Diffuse: Teoria ed Applicazioni
Il modello ad Interfacce Diffuse riprende l’idea originale di Van der Waals (1893), in cui si suppone che tutte
le quantità necessarie alla descrizione macroscopica di un sistema multifase (in particolare la sua densità,
velocità, temperatura e composizione) siano distribuite in modo continuo, senza presentare salti o
discontinuità in corrispondenza delle interfacce di separazione tra due fasi distinte. Ciò significa supporre
che le interfacce siano "diffuse", cioè di spessore finito, in contrapposizione con il modello classico di Gibbs
(1876), in cui le interfacce hanno spessore nullo. Perciò, mentre nel modello a interfacce diffuse le equazioni
di conservazione si possono scrivere su tutto il volume, nel modello classico esse vengono scritte
separatamente per ciascuna fase, imponendo poi delle condizioni al contorno all’interfaccia per tener conto
delle discontinuità che vi sono presenti (basti pensare alla variazione di densità presente a cavallo di
un'interfaccia liquido-vapore). Ovviamente, l'ipotesi di spessore nullo dell’interfaccia impedisce di risolvere
problemi come la coalescenza o la rottura di una goccia, in quanto fenomeni legati alla struttura
dell'interfaccia e dunque, anche, al suo spessore. Con il modello ad interfacce diffuse, invece, è possibile
descrivere e studiare fenomeni di questo tipo e questo costituisce un indubbio vantaggio. D'altro canto, nel
modello a interfacce diffuse è presente una dimensione lineare caratteristica dell'ordine di 0.1-0.01 µm, che
esprime lo spessore tipico dell'interfaccia. Ipotizzando di utilizzare delle griglie di simulazione con 106 punti,
ciò significa che il modello a interfacce diffuse si può applicare a sistemi con dimensioni lineari dell’ordine di
pochi decimi di millimetro (la cosiddetta mesoscala).
Nei due precedenti anni di dottorato era stata condotta un’attività prettamente teorica per sviluppare il
modello in presenza di campi di temperatura. Quest’anno l’idea è stata ripresa e sviluppata per consentire la
simulazione di sistemi bifase in cui le due fasi presentano una diversa conducibilità termica. Nello studio
sono stati evidenziati i cambiamenti di morfologia dovuti al diverso valore del rapporto λ tra le due
conducibilità (Figura 1). Come si vede, una miscela binaria inizialmente miscelata omogeneamente è stata
sottoposta ad un quench al di sotto della temperatura critica su due pareti delle scatola. I risultati sono stati
analizzati al variare del rapporto di conducibilità λ e del numero di Lewis Le.
Figura 1: Decomposizione spinodale di una miscela bifase con diversa conducibilità per le due fasi
All’aumentare di λ, infatti, si passa da una situazione isotropa, in cui non vi è una preferenza di orientazione
dei domini né in direzione dell’asse x, né in quella dell’asse y, all’orientamento nei versi dell’uno o dell’altro
asse a seconda del valore del rapporto stesso.
15
Per cercare di dare una stima dell’orientazione dei domini è stato introdotto il parametro ζ calcolato come:
ζ =
Nx − N y
Nx + N y
dove Nx e Ny indicano la quantità di interfacce presenti rispettivamente lungo l’asse x e y.
I valori del parametro ζ sono presentati in tabella 1 e in figura 2.
λ\ N
Le
0.001
0.01
0.1
1
0.01
0.34
0.39
0.10
0.03
0.1
0.2
0.12
0.14
0.05
1
0.33
0.16
0.06
0.01
10
0.17
0.12
0.12
0.01
100
-0.22
-0.33
0.16
0.01
1000
-0.43
-0.42
0.11
0.01
Tabella 1: Andamento del parametro di orientazione in funzione del rapporto tra le conducibilità e il numero di Lewis
Figura 2: Andamento del parametro di orientazione al variare del numero di Lewis
Come si osserva dalla figura 2 la morfologia del sistema evolve in maniera differente a seconda del valore
del rapporto tra le conducibilità e il numero di Lewis. Mentre per valori di λ prossimi ad uno, ovvero nel caso
in cui la conducibilità delle due fasi è uguale o comunque molto simile, il sistema, tende a separarsi in
maniera isotropa senza una direzione preferenziale, per valori molto piccoli di λ il sistema tende o ad
orientarsi in modo da massimizzare il trasferimento di calore da una parete all’altra (valori del numero di
Lewis alto) o tende a disporsi con i domini paralleli alle pareti riscaldate per ostacolare il trasferimento di
calore tra le due (per valori bassi del numero di Lewis).
E’ stato svolto inoltre in un breve periodo all’Università di Eindhoven (Dipartimento di Ingegneria Meccanica)
sotto la supervisione del Prof. Anderson, in cui il modello è stato rielaborato e adattato per un sistema
trifase. Il modello è stato successivamente applicati a due problemi diversi: il miscelamento dovuto
all’introduzione di una terza fase in una decomposizione spinodale di due liquidi, e la coalescenza/repulsione
di due gocce formate da due fasi distinte.
In figura 3 viene mostrata la decomposizione spinodale di una miscela binaria, a vari passi temporali. In
figura 4 invece viene mostrata l’introduzione della terza fase e l’evoluzione temporale delle altre due. I
16
domini che si erano formati nella decomposizione spinodale, vanno sparendo, e le due fasi si rimiscelano
tornando alla situazione iniziale.
Figura 3: Decomposizione spinoidale di una miscela binaria
Figura 4: Miscelazione della miscela binaria dovuta alla presenza di una terza fase
Durante il periodo di dottorato è stata condotta anche un’attività sperimentale parallela in cui si è stato
analizzato il comportamento di una sospensione viscosa di particelle di polistirene in un fluido di opportuna
densità in un dispositivo Couette modificato. In particolare all’interno di un dispositivo Couette svasato sono
stati analizzati i flussi di migrazione indotta da shear, dovuti alla svasatura stessa dello strumento e la
risospensione viscosa di particelle con diversa densità rispetto al fluido risospendente.
E’ stato evidenziato la presenza di un flusso di migrazione che causa un addensamento di particelle nella
parte alta del dispositivo a discapito della concentrazione della parte bassa che diminuisce rispetto ad un
valore medio calcolato in base alla quantità di particelle introdotte all’inizio della prova. E’ stato quindi
possibile calcolare in prima approssimazione il coefficiente che regola questo fenomeno di migrazione
all’interno dello strumento stesso. Tale valore è stato utilizzato successivamente per stimare teoricamente il
valore dell’altezza di risospensione per un confronto diretto tra dati sperimentali e teoria.
-
Bibliografia
Acrivos, A., Mauri R. and Fan X. (1993) Shear-induced resuspension in a Couette device, Int. J.
Multiphase Flow, 19, 797.
Cahn, J.W. and Hilliard, J.E. (1959) Free energy of a nonuniform system. III. Nucleation in a twocomponent incompressible fluid, The Journal of Chemical Physics 31, 688.
Cahn, J.W. (1961) On spinodal decomposition, Acta Metallica 9, 795.
17
-
Gibbs, J.W. (1876) On the equilibrium of heterogeneous substances, reprinted in Scientific Papers by J.
Willard Gibbs, Vol. 1, Dover, New York (1961).
Hohenberg, P.C. and Halperin, B.I. (1977) Theory of dynamic critical phenomena, Review of Modern
Physics 49, 435.
Landau, L.D. and Lifshitz, E.M. (1980) Statistical Phyysics, Part I, Pergamoin Press.
Lowengrub, J. and Truskinovsky, L. (1997) Quasi-incompressible Cahn-Hilliard fluids and topological
transitions, Proceedings of the Royal Society, London, Series A 454, 2617.
Mauri, R. and Papageorgiou D.T. (2002) The onset of particle segregation in plane Couette flows of
concentrated suspensions, Int. J. Multiphase Flow, 28, 127.
Rowlinson, J.S. and Widom, B. (1982) Molecular Theory of Capillarity, Oxford University Press.
Sandler, I.S. (1999) Chemical and Engineering Thermodynamics, 3rd ed., Ch. 7, Wiley, New York.
Van der Waals (1893), The thermodynamic theory of capillarity under the hypothesis of a continuous
variation of density [J.S. Rowlinson, Journal of Statistical Physics 20, 200 (1979), English transl.].
18
Sviluppo di schermi termici per getti incendiati e modellazione del
loro comportamento
Dottorando: Ing. Gabriele Landucci
Relatore: Prof. Ing. Severino Zanelli
SOMMARIO
L’attività di dottorato svolta dal candidato è finanziata dal FISR – D.I. 17.12.2002, D.D.264/RIC 18.02.2005
nell’ambito del progetto-obiettivo “Vettore Idrogeno” avente come titolo “Idrogeno puro da gas naturale
mediante reforming a conversione totale ottenuta integrando reazione chimica e separazione a membrana”.
Per quanto riguarda l’attività svolta nel primo anno di dottorato, è stato presentato il criterio di scelta,
progettazione e caratterizzazione sperimentale dei pannelli per la protezione passiva di strutture sottoposte
ad incendio. In particolare, sono stati sviluppati pannelli in fibra di basalto impregnati con matrici in resina
epossidica o con matrici inorganiche, sottoposti a test a fuoco, in modo da verificarne l’efficacia e
determinare i profili termici. A tale scopo, è stato messo a punto un apparato sperimentale realizzato sulla
base delle indicazioni degli standard e normative internazionali e nazionali, opportunamente modificato per
produrre risultati significativi, mostrando l’efficacia delle fibre basalto come isolante termico.
Sulla base dei dati sperimentali ottenuti è stato possibile sviluppare la modellazione dello schermo termico
investito dalla fiamma, estesa poi allo studio di strutture complesse, come serbatoi o tubazioni.
Nell’ambito del secondo anno di dottorato, la modellazione riferita alle strutture complesse è stata
ulteriormente sviluppata e validata sulla base di dati sperimentali disponibili in letteratura. La metodologia
consente di valutare, a partire dalla definizione della geometria del sistema e delle condizioni operative, gli
eventuali tempi di cedimento di massima delle strutture sottoposte al fuoco, con la possibilità di modellare
opportunamente le condizioni di irraggiamento. Lo scopo di tale modellazione è stato quello di implementare
gli isolanti termici nelle strutture sottoposte ad incendio, in modo da verificare, quindi, l’efficacia del sistema
di protezione passiva. Sulla base dei risultati ottenuti, confrontati con dati sperimentali riferiti alla
piccola/media scala, è stato possibile estendere l’attività di modellazione ai serbatoi protetti su scala reale.
MODELLAZIONE DEL COMPORTAMENTO DI PANNELLI ESPOSTI AL FUOCO
L’innesco di sostanze infiammabili in seguito a fenomeni di rilascio accidentali può portare alla formazione di
getti incendiati, che a loro volta possono causare eventi secondari per effetto domino con conseguenze
catastrofiche dovute all’urto della fiamma su attrezzature e tubazioni. Circa il 25% dei fireball documentati
nel database MIDHAS sono eventi causati dal verificarsi di incendi esterni. Il controllo e la mitigazione delle
conseguenze possono quindi esser critici in queste circostanze, con la necessità di utilizzare metodi di
progettazione impiantistica incentrati sulla sicurezza per prevenire o comunque limitare la possibilità di
effetto domino in seguito a fenomeni di rilascio accidentali. Tra i metodi impiegati, gli schermi termici e i
sistemi di coibentazione sono una soluzione potenzialmente sicura e facilmente applicabile per proteggere le
apparecchiature, a patto che i materiali siano selezionati con molta attenzione, specie quando si ha a che
fare con fiamme a temperatura elevata, come nel caso dei getti incendiati di idrogeno o GPL.
Nell’ambito dell’attività di dottorato, sono stati sviluppati e testati compositi innovativi a base di fibre di
basalto impregnate con materiali organici (resina epossidica) ed inorganici (cemento Portland e
fibrocemento). Lo scopo fondamentale delle prove effettuate sui compositi in fibra di basalto è stata la
caratterizzazione del materiale in condizioni di elevata temperatura, fornendo un supporto per le attività di
modellazione da estendere a strutture complesse, come serbatoi e tubazioni. Sono state così ricavate, con
prove dedicate, proprietà fisiche significative come la conducibilità termica e l’emissività della superficie.
In seguito, l’attività di modellazione ad elementi finiti (FEM), ha permesso di ricavare una simulazione dei
profili termici sulla superficie incendiata dei provini, sia stazionaria che transitoria. L’analisi FEM,
implementata sul codice ANSYS v. 5.5, è stata effettuata imponendo i carichi termici dovuti all’irraggiamento
sulla superficie esposta alla fiamma, stimando poi un coefficiente di scambio per la dispersione per
convezione ai lati e sulla parte posteriore. In Figura 5 si riporta un esempio dei profili termici ricavati dalla
modellazione del provino e del supporto metallico.
19
Temperatura in °C
Figura 5: Esempio di modellazione termica ad elementi finiti.
MODELLAZIONE DEL COMPORTAMENTO DI SERBATOI NON PROTETTI ESPOSTI AL FUOCO
La modellazione presentata, può essere estesa a strutture più complesse, come serbatoi o tubazioni, per
ricavarne l’eventuale tempo di cedimento. In condizioni di esposizione ad un incendio, il cedimento è, da un
lato, dovuto all’indebolimento del materiale per l’alta temperatura, e, dall’altro, per l’aumentare della
pressione del vapore all’interno delle strutture. Il problema necessita dunque analisi termiche e meccaniche
combinate, per poter stimare un eventuale tempo di cedimento.
La modellazione agli elementi finiti, implementata con il codice Ansys, è stata utilizzata per simulare in modo
puntuale e dettagliato le condizioni di irraggiamento e l’andamento della temperatura nel tempo. I risultati
ottenuti sono poi stati implementati nelle simulazioni meccaniche come carichi di dilatazione termica,
sommati a quelli dovuti al peso proprio, carico idraulico e soprattutto alla pressione interna. In questo modo
è stato ottenuto l’andamento nel tempo dello stato di tensione in ogni zona dell'apparecchiatura presa in
esame, identificato come tensione equivalente σeq. Esso è poi stato implementato in un criterio semplificato
di cedimento per valutare il tempo necessario per avere una rottura catastrofica dell’apparecchiatura. In
particolare, se si considera la tensione ammissibile σamm come sola funzione della temperatura e delle
caratteristiche del materiale, il cedimento è stato assunto avvenire convenzionalmente nell’istante in cui,
almeno in un punto, si ha σeq ≥ σamm. Tale istante si definisce come il tempo di cedimento (ttf, time to failure).
Un esempio dei risultati ottenuti tramite questo approccio per serbatoi non protetti è riportato in Figura 6, per
serbatoi cilindrici verticali a pressione atmosferica o orizzontali pressurizzati.
Simulazioni
termiche
10000 m3, 20 kW/m2 distant source
a)
50 m3, 120 kW/m2 engulfment
b)
Simulazioni
meccaniche
c)
d)
Figura 6: FEM serbatoi sottoposti ad incendio; modellazione termica di (a) serbatoi atmosferici e (b) pressurizzati
accoppiata alla corrispettive simulazioni meccaniche (c,d).
Il modello è stato validato con dati di letteratura riferiti alla piccola/media scala confrontando i ttf ottenuti con
un errore medio del 25% (Si riporta un esempio in Figura 7).
20
800
ttf FEM (s)
600
400
200
M.A. Persaud et al.
Droste and Shoen
0
0
200
400
600
800
ttf experiment (s)
Figura 7: esempio del confronto tra tempi di cedimento (ttf) calcolati col modello (FEM) e dati di letteratura
(experiment).
MODELLAZIONE DEL COMPORTAMENTO DI SERBATOI PROTETTI E SCALE UP
L’approccio presentato è stato successivamente esteso ai serbatoi protetti con isolanti termici, per verificare
l’efficacia del sistema di protezione nel ritardare il tempo di cedimento. Tramite la collaborazione con TNO
(Istituto Olandese per la Ricerca Applicata), sono stati utilizzati dati sperimentali specifici, ricavati in
precedenza (si veda un particolare dell’apparato sperimentale in Figura 8-(a)), nell’ambito di uno studio sul
trasporto di sostanze pericolose. Tali dati sono stati utilizzati come riferimento per implementare la FEM dei
serbatoi protetti e per validare il modello ottenuto. In Figura 8-(b) si riporta il confronto tra le temperature di
parete predette e quelle misurate. Il modello risulta predire in modo adeguato la dinamica della temperatura
di parete nella zona più critica, a contatto col vapore, anche se il deterioramento dell’isolante provoca uno
scostamento nella parte finale del test.
350
Liquid side - Model
Temperatures (°C)
300
Vapour side - Model
Liquid side - Exp.
250
Vapour side - Exp.
200
150
100
50
0
0
20
40
60
80
100
120
Time (min)
Figura 8: (a) set up sperimentale per il test a fuoco realizzato da TNO; (b) confronto tra le temperature di parete
misurate e predette mediante l’analisi FEM.
Il modello ottenuto è stato poi applicato ai serbatoi di scala reale, per estendere così le indicazioni ottenute
dal test su media scala, essendo proibitivo effettuare lo scale up di tipo sperimentale.
In particolare, l’analisi si è soffermata sulle autocisterne per il trasporto di GPL, riferendosi alle caratteristiche
costruttive standard in Europa (in particolare serbatoi cilindrici orizzontali da 60 m3) e ai serbatoi per gli
stoccaggi di grande scala (tipicamente 100 m3). Lo stesso tipo di coibente è stato dunque implementato ed è
stato simulato l’avvolgimento completo in una pozza incendiata. Una campagna di simulazioni è stata
effettuata per poter valutare l’influenza del tipo di isolante sulla resistenza della struttura, considerando
differenti conducibilità termiche (indice del tipo di materiale isolante) e spessori applicati. Il tempo di
riferimento per la durata delle simulazioni è stato considerato pari a 75 min, identificato in uno studio
precedente come il tempo minimo per l’attivazione delle misure di emergenza, per un’efficace azione di
raffreddamento del serbatoio e mitigazione dell’incendio.
Dai risultati riportati in Figura 9 si evince come la zona più meccanicamente sollecitata sia all’interfaccia tra
liquido e vapore, dovuta al concorrere di tensioni locali o secondare che si sommano alle sollecitazioni
primarie dovute alla pressione interna. Al stesso tempo, questa zona è caratterizzata da temperature di
parete inferiori, per la presenza di liquido all’interfaccia.
21
Dai risultati riportati in Tabella 2 vediamo che il cedimento avviene in presenza di isolante avente
conducibilità termiche alte (maggiori cioè di 0.1 W/mK), indipendentemente dallo spessore. Il cedimento
nella maggior parte dei casi nella zona di interfaccia tra liquido e vapore in virtù delle alte tensioni
precedentemente citate.
(a)
(b)
Figura 9: (a) mappa delle temperature (in °C) ottenuta per un un’autocisterna avvolta nelle fiamme; (b) mappa delle
tensioni (in Pa) per la stessa apparecchiatura.
Tabella 2: Risultati per le simulazioni sulla grande scala. I nodi in cui avviene la rottura sono posizionati nello schema a
lato della tabella.
Spessore isolante
Autocisterne (60 m3)
Serbatoi grande scala (100 m3)
Conducibilità termica
(W/mK)
Conducibilità termica
(W/mK)
0.0066
10 mm
NO
0.1
1
NO
SI
ttf = 400 s
node: 613
0.0066
NO
0.1
1
NO
SI
ttf = 1200 s
node: 613
25 mm
NO
NO
SI
ttf = 1200 s
node: 819
NO
NO
SI
ttf = 2900 s
node: 820
40 mm
NO
NO
SI
ttf = 2400 s
node: 819
NO
NO
SI
ttf = 5200 s
node: 826
819
820
826
613
CONCLUSIONI
L’attività di ricerca del secondo anno di dottorato, ha riguardato prevalentemente lo sviluppo di modelli per
l’analisi del comportamento di strutture, in particolar modo serbatoi in pressione, avvolte nelle fiamme. In
riferimento all’attività sperimentale condotta nel primo anno, tesa alla progettazione e caratterizzazione di
materiali coibenti innovativi mediante test a fuoco, un modello ad elementi finiti per l’analisi termica è stato
sviluppato per geometrie semplici. In seguito, tale modello è stato esteso e validato, con dati riferiti a
serbatoi di piccola taglia, per apparecchiature protette coibenti e non protette, per la valutazione dei profili
termici, di tensione e per il calcolo del tempo di cedimento. Le simulazioni validate sulla piccola/media scala,
sono state estese alle dimensioni reali, in riferimento a serbatoi per trasporto stradale o stoccaggio in
industria di processo, determinando le condizioni critiche per avere cedimento e i requisiti minimi del
coibente utilizzato (spessore e conducibilità termica).
22
Relazione dell’attività di ricerca anno 2007
Tema: Sviluppo di strategie di monitoraggio ed identificazione
per controllori predittivi
Andrea Micchi - Dipartimento di Ingegneria chimica, chimica industriale
e scienza dei materiali - Università di Pisa.
14 gennaio 2008
Introduzione al problema e scopi dell’attività
Il controllo predittivo multivariabile è , ad oggi, una delle forme pi ù utilizzate di controllo avanzato degli impianti. Il suo successo è
dovuto principalmente al fatto che esso garantisce l’assenza di offset sulle variabili controllate e in teoria l’ottimalità dell’azione di
controllo rispetto ad una determinata funzione di costo. Nella pratica per ò si presentano spesso cause di degrado di prestazione
che fanno sì che l’azione di controllo si discosti da quella ottimale: in particolare tali cause possono essere ridotte a due
principali, vale a dire la presenza di disturbi in ingresso al processo o l’utilizzo di un modello errato dello stesso.
Scopo di questa attività di ricerca è quello di definire una tecnica che consenta:
• di misurare in maniera oggettiva la bontà del sistema di controllo (operazione particolarmente complessa per i sistemi
multivariabile);
• di individuare se necessario la causa del degrado di prestazione.
Argomento strettamente correlato a questi, sviluppato in maniera approfondita è quello dell’identificazione di sistemi.
Durante il primo anno di questo corso di dottorato è stato costruito un metodo di identificazione per sistemi instabili,
solitamente non recuperabili in maniera ottimale con i metodi standard. Successivamente, durante il secondo anno l’attenzione è stata
focalizzata sull’identificazione di sistemi malcondizionati con algoritmi di tipo subspace: l’aggettivo malcondizionato qualifica una
particolare categoria di sistemi molto difficili da trattare sia dal punto di vista dell’identificazione che del controllo, come verrà
diffusamente spiegato in seguito. Quando sarà utilizzato il termine processo in questo scritto, si farà riferimento al sistema
x k +1 = Ax k + Bu k + Gwk
(1a)
y k = Cx k + v k
(1b)
dove x rappresenta il vettore degli stati, u quello degli ingressi, y quello delle uscite, d un eventuale disturbo in ingresso al
processo e w e v due vettori del disturbo che possono assumere sia un carattere stocastico e media nulla che carattere deterministico. Con
il termine modello invece sarà indicato il sistema
Λ
Λ Λ
Λ
x k +1 = A x k + B u k + Ke k
(2a)
1
23
Λ Λ
y k = C x k + ek
(2b)
nel qualeèˆutilizzato per indicare che i valori non sono quelli reali ma solamente una stima dei medesimi, ed ek
è l’errore di predizione. Si farà riferimento anche ad un modello “esteso” (che comprende cioè anche un modello
per il disturbo) con formulazione
Λ
Λ Λ
Λ
Λ
x k +1 = A x k + B u k + Bd d k + AL x ek
Λ
(3a)
Λ
dˆ k +1 = d k + Ld ek
(3b)
y k = C x k + C d d k + ek
(3c)
Λ Λ
Λ
nella quale d è un disturbo integrale fittizio adoperato all’interno del controllore per garantire l’assenza di offset sulle variabili
controllate. In seguito per modello del processo si intenderà l’insieme delle matrici A, B , C , per modello del disturbo le matrici
Bd e Cd e per filtro le due matrici Lx e Ld .
Identificazione di sistemi malcondizionati
I processi malcondizionati sono una particolare classe di sistemi multivariabile, assai diffusi nella pratica ingegneristica, per i quali il guadagno sulle uscite varia in maniera estremamente sensibile in dipendenza della direzione
degli ingressi .
Questo fa sì che, utilizzando input open loop di tipo tradizionale (cioè random o pseudo-random), le dinamiche
e i guadagni nelle direzioni sfavorevoli (quelle a guadagno molto basso) siano difficilmente identificabili, perché
troppo piccoli e “nascosti” dai valori molto elevati che si riscontrano nelle direzioni favorevoli (quelle a guadagno
molto elevato).
Per ovviare a tale problema sono state proposte in letteratura varie soluzioni, tra le quali ha avuto un discreto
successo quella dell’utilizzo degli ingressi ruotati (vedere la figura 1), che sono in grado di bilanciare il contributo
sui dati della direzione sfavorevole e di quella favorevole, rendendo così pi ù agevole l’identificazione di entrambe.
Durante questa attività di ricerca è stato per ò verificato che tale tipo di ingresso non è utilizzabile in associazione
ad alcuni algoritmi di identificazione, a causa della elevata correlazione da cui è caratterizzato, intrinseca nella sua
struttura. In particolare, il metodo delle proiezioni sviluppato da Qin, utilizzato nel nostro laboratorio, rientra in questa categoria.
Si è visto inoltre che in letteratura era assente un valido metodo per la costruzione degli ingressi ruotati nel caso MIMO. Per tale
ragione, si è provveduto alla definizione di un algoritmo innovativo atto allo scopo, il quale presenta le seguenti
caratteristiche:
• è multivariabile;
• è efficiente a livello computazionale, poich è non richiede nessuna operazione matriciale complessa;
• è utilizzabile in qualsiasi caso, non essendo basato su alcuna ipotesi di partenza.
Le analisi condotte hanno permesso di appurare che, quando gli ingressi ruotati non siano adoperabili, i migliori risultati in
termini di qualità dei modelli identificati si ottengono a partire da una identificazione in anello chiuso, con variazione random
dei set point delle variabili controllate.
Questi risultati sono evidenziati nella figura 2 dove viene riportata la risposta allo step degli MPC costruiti a partire dai vari modelli
ottenuti da differenti tipi di ingresso. Tali conclusioni e gli ulteriori risultati raggiunti possono essere ritrovati in maniera pi ù
estesa nell’articolo (inserire l’articolo)
2
24
1.5
u1
u2
1
0.5
0
-0.5
-1
-1.5
0
50
100
150
200
250
300
350
400
Sample instant
Figura 1: Ingressi ruotati
Analisi del degrado di prestazione nei controllori avanzati
La ricerca dell’ottimalità nella prestazione di un controllore avanzato
è direttamente connessa alla qualità dei
prodotti in uscita al processo: esistono quindi ragioni economiche e processistiche molto valide per giustificare una
tale operazione. In particolare, in questa attività di ricerca si è fatto riferimento a controllori MPC (Multivariable
Predictive Control), i quali sono costruiti attorno ad un modello del processo al quale vengono applicati: questo
spiega come la validità di tale modello giochi un ruolo molto importante nella prestazione del controllore. Ad
esempio, il fatto che i modelli utilizzati nella costruzione di un sistema di controllo siano tempo-invarianti è di
per s é una limitazione importante, in quanto non sono in grado di evolversi con il mutamento delle condizioni
dell’impianto (ad esempio sporcamento delle apparecchiature, condizioni atmosferiche e simili) e quindi ci si può
aspettare un degrado nel comportamento del sistema di controllo con il passare del tempo. Altro fattore che gioca
un ruolo fondamentale in questo senso, come precedentemente ricordato, è l’ingresso di disturbi non misurabili,
i quali non sono appunto registrati dal controllore ma influenzano comunque le uscite di processo. Recenti studi
hanno dimostrato che tutti i modelli del disturbo sono equivalenti a patto di avere un filtro appropriato: poiché il
filtro viene progettato su modello e proprietà statistiche del secondo ordine dei disturbi al sistema, queste ultime
rappresentano un altro fattore molto importante per il miglioramento delle prestazioni.
I due scenari
Il caso di modello non ottimale e quello di disturbo in ingresso sono completamente differenti fra loro, e così le soluzioni da
mettere in atto per un miglioramento della situazione in ognuno dei due. Sarebbe pertanto molto interessante poter individuare un
indicatore che distingua con certezza, di volta in volta, in quale delle due situazioni si sta operando per permettere adeguate contromisure
per il miglioramento delle prestazioni.
Attualmente, in questa attività di ricerca, l’attenzione in questo senso è concentrata sull’errore di predizione, che
è lo scostamento fra il valore delle uscite reali e quelle predette dal modello sulla base degli ingressi inviati al
processo.
In particolare, si stanno conducendo studi sulla autocorrelazione di tale grandezza: l’autocorrelazione
altro non è che una misura del grado di casualità di una variabile nel tempo, vale a dire in che misura tale variabile
al tempo k dipende dal valore di s è stessa ai tempi precedenti. Il calcolo di tale grandezza avviene nel modo
25
3
Figura 2: Valutazione della bontà di vari modelli di processo a seconda del tipo di dati adoperati per
l’identificazione
seguente
N −τ
R (τ ) = ∑ ekT ek
k =1+τ
Se non è presente alcuna correlazione, R(τ ) tende a 0 per N → ∞ , altrimenti R(τ ) = 0 indipendentemente dal
numero dei dati presi in considerazione. Allorquando si appura invece l’esistenza di tale correlazione, l’operazione
primaria che deve essere effettuata è un aggiornamento del filtro: in questo caso, se il calo delle prestazioni è da
ascrivere ad un disturbo in ingresso la situazione dovrebbe migliorare notevolmente, mentre se è dovuto ad un
mismatch non dovrebbero esserci variazioni notevoli. Per l’aggiornamento del filtro devono essere ricacolate le
proprietà statistiche di secondo ordine dei termini w e v dell’equazione (1), segnatamente Qw e Rv
Qw = cov(w)
Rv = cov(v)
e ci ò pu ò essere fatto ancora una volta adoperando l’errore di predizione come ricordato in Odelson et al. [3] Una
volta in possesso di tali valori, l’operazione primaria da condurre è la risoluzione di una equazione di stazionario
di Riccati, la quale fornisce un filtro di Kalman da adoperare all’interno del sistema. In questo modo, se le matrici
di covarianza ricalcolate sono effettivamente una buona approssimazione delle matrici di covarianza reali, il filtro
ottenuto dovrebbe garantire l’assenza di correlazione in presenza di disturbo in ingresso, mentre la correlazione
dovrebbe essere ancora presente se il degrado di prestazione è dovuto ad un errore nel modello di processo adottato. Tale metodologia, innovativa rispetto a quanto presente in letteratura, ha il vantaggio di essere molto leggera
a livello di calcolo, in quanto l’ottenimento delle matrici di covarianza e la risoluzione dell’equazione di Riccati
non presentano particolari problemi in questo senso. Essa è inoltre facilmente applicabile, in quanto non è necessario condurre campagne specifiche di test ma è suffifciente adoperare i dati in uscita dall’impianto, con evidente
26
risparmio sia a livello economico che a livello di tempo.
L’aggiornamento del filtro è quindi una operazione preliminare che dovrebbe servire a scongiurare la presenza di
errori nel modello di processo, in maniera da evitare reidentificazioni del sistema quando non sono necessarie. La
reidentificazione è infatti una operazione molto complessa da condurre, e dovrebbe quindi essere limitata ai casi di
4
27
stretta necessità . Questa metodologia è attualmente sotto indagine: essa verrà applicata a vari processi per
verificare la sua efficacia e anche i possibili miglioramenti che devono essere apportati alla tecnica
precedentemente descritta per renderla ottimale.
Conclusioni e sviluppi futuri
´
L’attività di ricerca fino ad ora portata avanti ha permesso di ottenere risultati apprezzabili nel campo
dell’identificazione di processi, con la costruzione di un nuovo algoritmo per il design di ingressi ruotati e la
definizione
di
una
metodologia per l’identificazione di sistemi malcondizionati, i quali come noto sono assai difficili
da
trattare.
Sul
fronte dell’analisi delle prestazioni, ulteriori indagini sull’errore di predizione saranno condotte
per
verificare
la
sua utilizzabilità per gli scopi prefissati. E previsto, per approfondire le ricerche in corso, un
periodo di soggiorno
all’estero, presso il gruppo di lavoro del professor Qin alla University of Southern California di Los
Angeles, a partire dal 22 Gennaio fino a fine Settembre. Si riportano in bibliografia gli articoli e gli
atti di convegni internazionali prodotti durante questo periodo ([1], [2], [4])
Riferimenti bibliografici
[1] A. Micchi and G. Pannocchia. Comparison of input signals in subspace identification of
multivariable
illconditioned systems. Journal of Process Control - in press, 2007.
[2] A. Micchi and G. Pannocchia. On test design for subspace identification of multivariable
ill-conditioned
systems. In DYCOPS 2007 (8th International Symposium on Dynamics and Control of
Process Systems),
volume 2, pages 219-224, Cancun (Mexico), 2007.
[3] Brian J. Odelson, Murali R. Rajamani, and James B. Rawlings. A new autocovariance leastsquares
for estimating noise covariances. Automatica, 42:303-308, 2006.
method
[4] G. Pannocchia, A. Micchi, R. Bulleri, A. Brambilla, and G. Marchetti. Multivariable
subspace identification
and predictive control of a heat-integrated superfractionator rigorous model. In Proceedings of
ADCHEM 2006
(International Symposium on Advanced Control of Chemical Process), volume I, pages 421426, Gramado (Brazil), 2006.
Tecnologie innovative per il trattamento dei sottoprodotti del ciclo
conciario e loro impiego
in materiali ecocompatibili
Tutori:
Prof. Ing. R.Tartarelli
Prof. Ing. S.Vitolo
Ing. M.Seggiani
Dottorando:
Monica Puccini
1.1.1
Introduzione
Nel ciclo conciario le pelli sono sottoposte a numerose lavorazioni, tra cui la spaccatura, operazione meccanica
successiva ai trattamenti iniziali di rinverdimento e calcinazione-depilazione, che consiste nella divisione del pellame,
già separato dal tessuto sottocutaneo, in due strati: lo strato superiore costituito dal derma, che diventerà cuoio, e lo
strato inferiore, denominato crosta, materiale di scarto costituito prevalentemente da collagene.
Al fine di individuare nuove modalità di riutilizzo di questo sottoprodotto, è stata valutata la possibilità di impiegare il
collagene costituente le croste in miscela con cellulosa per la produzione di film biodegradabili, destinati alla
fabbricazione di prodotti a basso pregio come gli imballaggi, i film e i manufatti utilizzati in campo agricolo. L’attività
sperimentale è stata realizzata in collaborazione con il Polo Tecnologico Conciario di Castelfranco di Sotto (PI).
È stata inoltre effettuata una sperimentazione finalizzata a diversificare ed ampliare i settori di applicazione di un
materiale inerte, denominato KEU, proveniente dal trattamento termico dei fanghi di depurazione delle acque industriali
delle concerie di Santa Croce sull’Arno e Ponte a Cappiano. Attualmente tale materiale viene impiegato come filler per
cementi ed asfalti stradali, ma le problematiche inerenti le normative di smaltimento e la domanda del mercato
dell’edilizia insufficiente a smaltire la quantità di KEU prodotta annualmente rendono necessario individuare modalità
alternative di utilizzo di questo sottoprodotto. È stata quindi verificata la fattibilità di impiego di questo granulato
sinterizzato come filler in compounds bituminosi destinati alla produzione di membrane impermeabilizzanti.
Infine, è stata impiegata la metodologia di analisi del ciclo di vita (Life Cycle Assessment, LCA) per confrontare
l’impatto ambientale del processo tradizionale di depilazione delle pelli con un processo innovativo (depilazione
ossidativa), la cui fattibilità tecnica ed economica è stata verificata nell’ambito di precedenti attività sperimentali.
Risultati attività svolta
Riutilizzo di collagene da scarti del processo conciario
Le croste (costituite per il 20% da collagene e il restante 80% da acqua) provenienti dalla spaccatura di pelli bovine, per
poter essere impiegate per la produzione delle pellicole, sono state innanzitutto sottoposte ad un trattamento di
decalcinazione finalizzato principalmente a rimuovere la calce e i solfuri presenti tra le fibre del derma, introdotti nelle
prime fasi di lavorazione del pellame. Dalle croste trattate è stata ottenuta una pasta fibrosa omogenea, di colore biancogrigio, costituita da collagene e acqua, mediante azione meccanica in presenza di ghiaccio (rapporto crosta/ghiaccio pari
a 5:8), in modo tale da operare a bassa temperatura ed evitare così la degradazione del collagene. Tale pasta è stata
quindi miscelata con una soluzione costituita da cellulosa in polvere e acido cloridrico. È stato così ottenuto un gel con
cui sono stati prodotti i film su scala di laboratorio: il gel è stato disposto su un supporto in plastica ed essiccato alla
temperatura di 30°C per 12 ore. Al fine di incrementarne le caratteristiche meccaniche, i film sono poi stati sottoposti ad
un trattamento con glicerolo: sono stati immersi in una soluzione acquosa di glicerolo al 10%, quindi essiccati a 30°C
sotto vuoto per 12 ore.
Sono state preparate miscele con diversi rapporti relativi tra i componenti del gel (collagene, cellulosa, acido cloridrico),
al fine di individuare la composizione in grado di garantire buone proprietà
chimico-fisiche e meccaniche del
materiale ottenuto (Tabella 1).
Per caratterizzare i materiali ottenuti sono state impiegate le seguenti tecniche:
- microscopia a scansione elettronica (SEM);
- valutazione proprietà meccaniche a trazione (Instron);
- analisi termogravimetrica (TGA).
I film ottenuti risultano omogenei e flessibili, in generale trasparenti e tendenti ad un colore giallo.
Tabella 1. Composizione delle miscele preparate (rapporti in peso).
Rapporto
Rapporto
Rapporto
Campione
Cellulosa/Collagene Acido/Cellulosa Acido/(Coll.+Cell.)
1
2
3
1
0.50
0.33
0.60
0.60
0.40
0.3
0.2
0.1
29
4
0.33
0.60
0.15
5
0.33
0.80
0.20
6
0.33
1
0.25
7
0.33
2
0.50
8
0.20
0.40
0.07
9
0.20
0.60
0.10
10
0.20
0.80
0.13
11
0.20
1
0.17
12
0.20
1.20
0.20
13
0.20
2
0.33
L’analisi SEM, della superficie esterna e di una sezione ottenuta tramite frattura fragile in azoto liquido, per valutare la
morfologia dei film ottenuti dalle miscele, ha evidenziato una matrice omogenea, formatasi in seguito alla miscelazione
di collagene e cellulosa, all’interno della quale è possibile individuare una struttura reticolare di fibre di collagene
(Figura 1). È inoltre possibile notare la frammentazione delle fibre, da attribuire alla degradazione avvenuta durante le
fasi di realizzazione condotte a temperatura ambiente, che potrebbe influenzare le proprietà meccaniche dei film
ottenuti. Variando la composizione non sono state riscontrate differenze morfologiche di rilievo.
Figura 1. Immagini SEM della superficie e della sezione del Campione 10.
Dai test di trazione eseguiti sui film è stato evidenziato un comportamento puramente elastico del materiale. Per i film
ottenuti da miscele con un rapporto cellulosa/collagene pari a 0.33 e 0.2, al variare della quantità di acido in esse
contenuto è stata riscontrata un’apprezzabile variazione delle proprietà meccaniche, in particolare i valori più elevati di
carico a rottura sono stati ottenuti in corrispondenza di una quantità di acido pari ad un rapporto 0.10-0.20 rispetto alla
quantità totale di collagene e cellulosa in miscela
(Figura 2). Tale risultato può attribuirsi all’azione idrolitica
dell’acido, infatti, se presente in basse concentrazioni le macromolecole dei due componenti non risultano
sufficientemente frammentate per poter interagire efficacemente, invece, se presente in elevate concentrazioni la
struttura dei componenti viene danneggiata, compromettendo le proprietà meccaniche del materiale risultante.
Dai tests meccanici sui film ottenuti da miscele contenenti una quantità di acido pari a 0.2 (in rapporto alla quantità
totale di collagene e cellulosa), sono stati ottenuti i valori più elevati di carico a rottura e deformazione a rottura per i
campioni con rapporto cellulosa/collagene pari a 0.33.
L’analisi termogravimetrica è stata condotta al fine di valutare la stabilità termica dei film ottenuti. Le curve di perdita
in peso relative ai campioni analizzati non presentano differenze significative al variare della composizione della
miscela da cui sono stati prodotti. Il materiale risulta termicamente stabile fino ad una temperatura di circa 130°C.
cellulosa/collagene 1:5
3
cellulosa/collagene 1:3
Sforzo (MPa)
2,5
2
1,5
1
0,5
0
0,05
0,1
0,15
0,2
0,25
0,3
Rapporto acido/(collagene+cellulosa)
Figura 2. Carico a rottura dei film ottenuti dalle miscele con un rapporto cellulosa/collagene pari a 0.33 e 0.2 al
variare del contenuto di acido.
L’attività di ricerca finora svolta ha permesso di verificare la possibilità di impiegare il collagene, ottenuto da scarti di
lavorazioni meccaniche del processo conciario, in miscela con cellulosa per la produzione di film biodegradabili.
I film ottenuti sono costituiti da una struttura fibrosa, immersa in una matrice omogenea di collagene e cellulosa
idrolizzati per azione dell’acido impiegato. E’ stato riscontrato che miscele ottenute con un rapporto cellulosa/collagene
30
pari a 0.33 e un contenuto di acido compreso tra 0.1 e 0.2 (rispetto alla quantità totale di collagene e cellulosa in
miscela) presentano le migliori proprietà meccaniche.
Riutilizzo del granulato sinterizzato (KEU) prodotto dal trattamento dei fanghi di depurazione di acque
industriali del Distretto Conciario Toscano
Le membrane bituminose sono prodotte per impregnazione di feltri di diversa natura con miscele bituminose costituite
da una base bituminosa di adeguate caratteristiche, una opportuna combinazione di polimeri e un filler inorganico,
generalmente carbonato di calcio (CaCO3). Il KEU, materiale inerte in granuli prodotto dalla Società Ecoespanso per
trattamento termico dei fanghi di depurazione delle acque industriali delle concerie di Santa Croce sull’Arno e Ponte a
Cappiano, è stato impiegato come filler nei compounds bituminosi in totale o parziale sostituzione del CaCO3 al fine di
verificarne la fattibilità di impiego per la produzione di membrane impermeabilizzanti.
Per la produzione dei compounds sono state impiegate due diverse basi bituminose (fornite dalla Raffineria IESMantova), una miscela di polimeri costituita da polipropilene atattico (APP, Vestoplast ® (APAO) 891, Degussa),
polipropilene isotattico (IPP, Moplen ® HF 500 N, Basell) e polietilene (PE, Riblene ® FF 20, Polimeri Europa), KEU
macinato fino alla granulometria opportuna (80% passante al setaccio con luci 75 µm) e CaCO3 in polvere.
I compounds sono stati preparati per mezzo di un miscelatore ad immersione alla temperatura di 190°C, secondo due
diverse formulazioni che differiscono tra loro per il contenuto di filler e di miscela polimerica impiegata. Le miscele
contenenti il 10% in peso di filler e il 18% di polimeri consentono di produrre membrane ad alte prestazioni, quelli
contenti il 30% di filler e l’8% di miscela polimerica membrane a basse prestazioni.
I compounds bituminosi sono stati caratterizzati mediante microscopia in fluorescenza e per mezzo delle prove “palla e
anello” (Norma CEN 1427), per determinarne il punto di rammollimento, e di penetrazione (Norma CEN 1426).
Dalle miscele ottenute sono state realizzate su scala di laboratorio, impiegando come supporto del velovetro, membrane
impermeabilizzati (spessore ~3 mm), su cui sono state condotte prove di flessibilità a freddo (Norma UNI EN 1109) e
test di cessione.
Dai risultati sperimentali ottenuti relativi alla preparazione e alla caratterizzazione (Tabella 2) dei compounds
bituminosi contenenti KEU in qualità di filler, non sono emerse problematiche connesse all’impiego di tale materiale in
sostituzione del CaCO3.
Tabella 2. Risultati sperimentali relativi alla caratterizzazione dei compounds bituminosi.
% TOT
TP&A
25 MIN
(°C)
FINALE
(°C)
PENET.
25°C
(dmm)
PENET.
60°C
(dmm)
10
155.5
155.5
25.4
71.3
Keu
30
153
155
20.7
75.6
1
CaCO3
10
155.5
155.5
23.1
70.5
1
CaCO3
30
153
153
21.1
79.8
*
10
155.5
155.5
25
71.6
POLIMERI
%
APP
%
IPP
K1
18
12
5
1
1
Keu
K2
8
4
3
1
1
KB1
18
12
5
1
KB2
8
4
3
1
CAMPIONE
% BASE
PE BIT.
FILLER
%
FILLER
TP&A
K3
18
12
5
1
1
Mix1
K4
8
4
3
1
1
Mix1*
30
150.5
154.5
22
74.4
KE1
18
12
5
1
2
Keu
10
156
156.5
23
72
KE2
8
4
3
1
2
Keu
30
153.5
156
21.1
77
KB3
18
12
5
1
2
CaCO3
10
156
156
23.8
72.8
KB4
8
4
3
*
Mix1 = 50% Keu/50% CaCO3
1
2
CaCO3
30
153
154
15.6
91.4
La morfologia dei compounds ottenuti impiegando il KEU, per entrambe le formulazioni sperimentate (basse ed alte
prestazioni), è del tutto paragonabile a quella ottenuta impiegando il carbonato di calcio (Figura 3).
31
CaCO3 (KB1)
KEU (K1)
CaCO3 (KB2)
KEU (K2)
Formulazione per alte prestazioni
Formulazione per basse prestazioni
Figura 3. Morfologia dei compounds bituminosi ottenuti impiegando come filler KEU e CaCO3.
Dai valori ottenuti dalle prove di flessibilità a freddo (Tabella 3), eseguite sulle membrane ottenute dai compounds
bituminosi preparati impiegando la Base 1 in quanto ritenuta la più idonea in base ai risultati ottenuti, è stato riscontrato
che le membrane ad alte prestazioni (ovvero a basso contenuto di KEU) presentano buone caratteristiche di impiego,
seppur lievemente inferiori allo stesso tipo di membrana contenente il CaCO3. Le membrane a basse prestazioni (ovvero
ad alto contenuto di KEU) hanno invece presentato caratteristiche di impiego analoghe allo stesso tipo di membrana
contenente il CaCO3 ed è quindi possibile affermare che, con la formulazione impiegata, non esiste alcuna limitazione
all’impiego del KEU in qualità di filler per la produzione industriale di membrane impermeabilizzanti a basse
prestazioni.
Tabella 3. Risultati delle prove di flessibilità a freddo.
% TOT
%
%
%
CAMPIONE
Tf (°C)
FILLER % FILLER
POLIMERO APP
IPP
PE
KB1
18
12
5
1
CaCO3
10
< -12
KB2
8
4
3
1
CaCO3
30
>0
K1
18
12
5
1
KEU
10
-6 < Tf < -12
K2
8
4
3
1
KEU
30
>0
I test di cessione, al fine di valutare l’eventuale rilascio del cromo, dei solfati e dei cloruri, sono stati condotti sulle
membrane a basse prestazioni, ovvero quelle contenenti una maggiore quantità di KEU (30% in peso sul totale), in modo
da effettuare le prove nelle condizioni potenzialmente caratterizzate da maggiore criticità.
I risultati ottenuti consentono di escludere problematiche ambientali relative al rilascio degli inquinanti investigati da
parte delle membrane bituminose prodotte.
L’attività di ricerca finora svolta ha permesso di verificare la possibilità di un riutilizzo del KEU in qualità di filler per la
produzione industriale di membrane bituminose.
Considerati i risultati ottenuti, si ritiene opportuno indagare ulteriormente la formulazione del compound più adatto
all’uso del granulato sinterizzato, in termini di qualità di base bituminosa e contenuto e tipologia di miscela polimerica,
al fine di raggiungere gli standards prestazionali di membrane impermeabilizzanti idonee per impieghi ad alto valore
aggiunto.
Applicazione LCA per la valutazione dell’impatto ambientale di processi dell’industria conciaria
La metodologia LCA è una tecnica che permette di valutare oggettivamente il contributo di ciascuna fase del ciclo di
vita di un prodotto/processo all’impatto ambientale complessivo, nonché di effettuare un confronto tra due o più
alternative di sviluppo. Tale metodo è stato applicato per confrontare l’impatto ambientale connesso a processi
dell’industria conciaria.
Il processo di depilazione, finalizzato a rimuovere dalla pelle l’epidermide e i peli, nella comune pratica conciaria viene
eseguito impiegando solfuro di sodio (Na2S) e calce (Ca(OH)2). Nel corso di precedenti attività sperimentali è stata
verificata la fattibilità tecnica ed economica di un processo di depilazione innovativo che prevede l’impiego di acqua
ossigenata (H2O2) e soda (NaOH), eliminando quindi i solfuri dal processo.
L’analisi è stata svolta considerando gli inputs e gli outputs più significativi per il processo di depilazione che
differiscono tra le due alternative, come riportato negli schemi di Figura 4, e includendo nei confini del sistema il
processo di produzione dei chemicals impiegati.
32
Confine del sistema
Materie
prime
Produzione
chemicals
H2O 2
NaOH
Processo di
depilazione
ossidativa
NH4+, COD
Solidi
sospesi
Trattamento
acque
Confine del sistema
H2S
Materie
prime
Produzione
chemicals
Na2S
Ca(OH) 2
Processo di
depilazione
tradizionale
Trattamento
H2S
S2- NH4+ COD
Solidi sospesi
S2Na+
Trattamento
acque
Figura 4. Diagrammi di flusso dei processi a confronto.
Per l’analisi è stato impiegato il software SimaPro 6, utilizzando i dati dei database Ecoinvent e Buwal. Al fine di
valutare gli impatti ambientali di entrambi i processi, tenendo conto degli effetti sull’ecosistema e sulla salute umana,
sono state considerate le seguenti categorie d’impatto: i) global warning, (ii) ozone depletion, (iii) acidification, (iv)
eutrophication, (v) photochemical smog, (vi) eco-toxicity water chronic, (vii) eco-toxicity water acute, (viii) ecotoxicity soil chronic, (ix) human toxicity air, (x) human toxicity water, (xi) human toxicity soil, (xii) bulk waste, (xiii)
hazardous waste, (xiv) radioactive waste, (xv) slag and ashes, (xvi) non renewable resources. Quindi, per determinare i
contributi a ciascuna categoria considerata, è stato scelto il metodo EDIP 97, in quanto ritenuto il più idoneo per la
valutazione di processi chimici.
I risultati ottenuti, in termini relativi, sono riportati graficamente in Figura 5. Se si considera ad esempio la categoria
photochemical smog, la depilazione ossidativa risulta avere un impatto pari a 0.9 rispetto all’impatto relativo alla
depilazione tradizionale. È inoltre possibile notare che il processo innovativo considerato presenta un impatto maggiore
rispetto al processo tradizionale in varie categorie. Tale risultato è dovuto alla produzione di acqua ossigenata che
contribuisce per oltre il 50% all’impatto ambientale connesso alla depilazione ossidativa.
Figura 5. Risultati della valutazione d’impatto.
Per una corretta valutazione dei risultati, i valori ottenuti dall’analisi dei processi per ciascuna categoria d’impatto
devono essere normalizzati in modo da esprimere i dati rispetto ad un valore di riferimento, ovvero l’impatto
equivalente per persona. I risultati normalizzati per categoria d’impatto sono riportati in Tabella 4. E’ possibile notare
che le categorie interessate da un impatto maggiore risultano Eco-toxicity water chronic e Eco-toxicity water acute, ma
tale impatto risulta significamene ridotto con l’impiego del processo di depilazione ossidativa.
Tabella 4. Risultati normalizzati per categoria d’impatto.
DEPILAZIONE
DEPILAZION E
CATEGORIE D’IMPATTO
Global warming
Ozone depletion
TRADIZIONALE
OSSIDATIVA
1,43E-05
3,65E-07
1,96E-05
1,08E-07
33
Acidification
8,80E-06
9,73E-06
Eutrophication
6,90E-03
9,32E-03
Photochemical smog
7,69E-06
7,12E-06
Eco-toxicity water chronic
7,00E+01
3,73E-04
Eco-toxicity water acute
3,36E+02
3,68E-04
Eco-toxicity soil chronic
4,34E-06
6,11E-05
Human toxicity air
1,29E-06
2,46E-06
Human toxicity water
3,49E-04
3,11E-05
Human toxicity soil
2,44E-05
4,77E-05
Bulk waste
3,44E-06
7,91E-06
Hazardous waste
1,43E-09
1,68E-07
Radioactive waste
4,78E-06
1,27E-04
Slag/ashes
7,01E-10
4,38E-06
Non Renewable Resources
1,00E-08
1,00E-08
Dal confronto del processo tradizionale con un processo innovativo di depilazione delle pelli, secondo la metodologia
LCA, è stato riscontrato che le categorie Eco-toxicity water chronic e Eco-toxicity water acute sono quelle
maggiormente colpite dai processi considerati e che tale impatto risulta significativamente ridotto con l’impiego del
processo di depilazione ossidativa.
Nello studio condotto, il trattamento delle acque reflue non è stato considerato all’interno dei confini del sistema.
Considerando i risultati ottenuti, che rivelano che il maggiore impatto ambientale interessa l’inquinamento delle acque,
studi futuri prevedono di includere nell’analisi il trattamento delle acque reflue dei due processi di depilazione delle
pelli considerati.
34
Produzione ed utilizzo di idrogeno da carbone e biomasse
Alessandro Parente
Introduzione
L’impiego dell’idrogeno come vettore energetico “pulito” risulta di particolare interesse per la soluzione delle principali
problematiche connesse all’attuale scenario energetico mondiale: riduzione delle emissioni di CO2, indipendenza
energetica, diversificazione dei combustibili e smaltimento dei rifiuti. Infatti, a differenza dell’elettricità, l’idrogeno può
essere stoccato con relativa facilità, e, a differenza dei combustibili idrocarburici, esso non causa nessuna emissione
locale di CO2. Allo stato attuale, l’idrogeno è principalmente prodotto (>90) da reforming di gas naturale. Altre
soluzioni sono disponibili ed includono l’impiego di combustibili alternativi come nel caso della gassificazione di rifiuti
e biomasse.
L’interesse nei confronti dell’idrogeno risiede anche nella possibilità di addizionare l’H2 ai combustibili idrocarburici
(correnti a basso potere calorifico), per incrementare la temperatura di fiamma ed estendendere i limiti di infiammabilità
delle miscele. In tale contesto, il gas di sintesi, ottenuto da processi di gassificazione di carbone e biomasse, costituisce
un candidato ottimale per la formazione di miscele con metano, olio combustibile e carbone, al fine di ridurne il
consumo e di migliorare, ancora una volta, la stabilità di fiamma. Il gas di sintesi, infatti, può essere considerato un
combustibile pulito e ragionevolmente a basso costo.
Approccio integrato per lo studio dei sistemi di combustione di idrogeno e sue miscele
L’idrogeno presenta alcune caratteristiche specifiche (elevata velocità laminare di fiamma, alta temperatura adiabatica
di fiamma, ampio intervallo di infiammabilità, elevata reattività e breve ritardo di agnizione) che rendono inadeguato il
ricorso a bruciatori di tipo tradizionale. I bruciatori a fiamma diffusiva, infatti, possono generare fiamme estremamente
stabili grazie all’ampio intervallo di infiammabilità. Tuttavia le temperature operative risultano molto elevate e, quindi,
le emissione di NO nei fumi sono eccessive e di gran lunga superiori ai limiti consentiti dalle vigenti norme. D’altra
parte, il ricorso a fiamme premiscelate magre permetterebbe di limitare le temperature operative e la formazione di NO
tramite il meccanismo termico. Tuttavia, questo comporterebbe problemi di stabilità di fiamma e rischio di flashback.
È necessario, pertanto, che la ricerca sia indirizzata allo sviluppo di sistemi di combustione con due scopi principali: i)
la riqualificazione di bruciatori convenzionali per miscele con un contenuto di H2 fino al 50% e ii) la progettazione e lo
sviluppo di sistemi innovativi per la combustione di idrogeno puro (utilizzando ossigeno invece di aria come
comburente). Alcune tecnologie innovative sono state proposte recentemente per la combustione di miscele a base di
idrogeno. Tra esse è opportuno ricordare i combustori catalitici, le micro-turbine e i bruciatori senza fiamma
(MILD/HITAC/flameless).
L’analisi e progettazione di tali sistemi, estremamente complessi sia dal punto di vista fisico che geometrico, richiede il
ricorso ad una strategia integrata, basata sull’impiego di campagne sperimentali e strumenti numerici avanzati (codici
CFD), come illustrato in Figura 10.
Figura 10 – Schematizzazione della strategia integrata per l’analisi e progettazione di sistemi di combustione complessi.
In base a tale approccio, i risultati delle simulazioni numeriche vengono utilizzati per una corretta pianificazione delle
campagne sperimentali, mentre i risultati sperimentali forniscono informazioni fondamentali per l’adeguamento e
sviluppo dei modelli fisici impiegati nella simulazione numerica.
In particolare, nell’ambito della modellazione CFD di tali sistemi, particolare attenzione deve essere rivolta a due
aspetti fondamentali:
• Conoscenza approfondita degli schemi cinetici. Il meccanismo di ossidazione dell’H2 è ragionevolmente noto.
Tuttavia, la crescente attenzione verso il suo utilizzo, ha stimolato l’analisi di nuove condizioni operative
(miscele magre ed elevate pressioni) di interesse per il funzionamento delle turbine a gas. Inoltre, in base a
quanto detto in precedenza, è chiaro come la complessità delle miscele in gioco, delle condizioni operative,
35
del combustibile di partenza e della loro variabilità, rendano estremamente complesso prevedere il
comportamento delle miscele senza un’analisi dei meccanismi dettagliati di reazione. Ciò è particolarmente
importante al fine di prevedere, in modo accurato, le emissioni inquinanti e di realizzare, pertanto,
dimensionamenti opportuni. Infine, la disponibilità di meccanismi cinetici ridotti in modo “flessibile”, sulla
base di condizioni operative locali, è auspicabile al fine di ridurre il costo computazionale associato alle
simulazioni numeriche.
• Adeguatezza del modello di combustione. La scelta del modello di combustione per il calcolo delle velocità di
reazione è estremamente importante per la corretta valutazione dei campi termici e di concentrazione delle
specie chimiche. In particolare, è fondamentale che il modello di combustione sia in grado di descrivere
opportunamente il regime di combustione presente nel sistema di interesse. Ad esempio, la combustione senza
fiamma (di interesse per la combustione di miscele a base di H2) è caratterizzata da uno stato di reattività
diffusa ed estesa all’intero volume della camera di combustione. In tali condizioni, il ricorso a modelli di tipo
flamelet, ottimali per regimi di combustione diffusivi, risulta del tutto inadeguato e altri approcci, in grado di
prendere in considerazione gli effetti di una chimica non infinitamente veloce, sono richiesti (EDC, ED/FR).
Nel corso del primo anno del presente Dottorato di Ricerca l’attenzione è stata rivolta all’analisi di sistemi di
combustione avanzati (senza fiamma) per la combustione di miscele a base di H2 con lo scopo principale di validare
codici di calcolo CFD commerciali (CFX, FLUENT) attraverso l’implementazione di modelli fisici aggiuntivi (modelli
di turbolenza, combustione, radiazione, ecc ...), disponibili in letteratura.
L’attività di ricerca del II anno è stata volta, invece, all’approfondimento dei modelli di combustione disponibili in
letteratura e allo sviluppo di modelli di combustione avanzati. In particolare, è stata investigata l’applicabilità di una
tecnica statistica (Analisi delle Componenti Principali) allo sviluppo di modelli di combustione turbolenta. Tale attività
è stata svolta durante il periodo di studio trascorso presso l’Università dello Utah, Salt Lake City, dall’Ottobre 2006 al
Novembre 2007.
Analisi delle Componenti Principali (PCA) per lo sviluppo di un modello di combustione turbolenta
Nonostante la continua evoluzione delle risorse di calcolo, è ancora impossibile realizzare una Simulazione Numerica
Diretta (DNS) di un sistema di combustione di interesse pratico. Le motivazioni sono essenzialmente due:
1. La DNS richiede che tutte le scale spaziali e temporali del sistema siano completamente risolte. Considerando
la separazione di scale tipica dei flussi turbolenti, ciò implica un grado di risoluzione spaziale e temporale che
cresce approssimativamente come Re3
2. Meccanismi cinetici dettagliati per combustibili semplici come il metano coinvolgono 53 specie chimiche e
325 reazioni elementari. Di conseguenza, la simulazione diretta di un sistema reagente contenente metano in
aria comporterebbe la soluzione di un sistema di 57 equazioni differenziali alle derivate parziali (PDE)
fortemente accoppiate (53 equazioni di continuità per le specie chimiche, 3 equazioni di conservazione della
quantità di moto, 1 equazione dell’energia). Nel caso di miscele, soprattutto se contenenti idrocarburi superiori,
il numero di equazioni aumenta in modo significativo.
Al fine di alleviare il costo computazionale associato con entrambe le problematiche illustrate è necessario introdurre
modelli. L’aspetto relativo ai requisiti di risoluzione (spaziale e temporale) è generalmente affrontato filtrando le
equazioni spazialmente e/o temporalmente per ottenere le equazioni LES e RANS. Ciò introduce i cosiddetti problemi
di chiusura turbolenta dei termini convettivi e di sorgente. I modelli per la riduzione del numero di equazioni da
risolvere (punto 2 sopra) variano fortemente, ma possono essere ricondotti a due categorie principali: a) semplificazione
dello schema cinetico e b) ri-parametrizzazione dello stato termo-chimico del sistema.
In generale, lo stato termo-chimico di un sistema reagente monofase è unicamente determinato da Ns+1 parametri (T, p
e Ns-1 frazioni di massa). Tutti i modelli di combustione per la riduzione dei Ns+1 gradi di libertà, si basano
sull’esistenza di “manifold” attrattori, di dimensioni ridotte (<<Ns+1) rispetto a quelle iniziali, verso cui il sistema
velocemente evolve. I modelli basati sulla semplificazione dello schema cinetico determinano una riduzione del numero
di equazioni delle specie chimiche attraverso l’analisi del meccanismo cinetico e delle velocità di reazione. Tuttavia, la
conseguenza diretta dell’esistenza di un manifold consiste nella possibilità di ri-parametrizzare l’intero stato termochimico in funzione di poche variabili osservabili, per le quali si procede alla scrittura delle equazioni che ne descrivono
l’evoluzione all’interno di un codice di calcolo.
La ri-parametrizzazione dello stato termo-chimico è, forse, l’approccio modellistico più impiegato nell’ambito della
combustione turbolenta. La scelta dei parametri è, storicamente, arbitraria. Nell’ambito della combustione nonpremiscelata la frazione di miscela1 rappresenta la scelta più logica e conveniente. Infatti, la frazione è definita in modo
tale da essere uno scalare che si conserva, non richiedendo, pertanto, la chiusura di alcun termine sorgente.
L’attività di ricerca svolta ha mirato all’identificazione di una metodologia innovativa, in grado di rendere automatica la
selezione dei parametri ottimali per la rappresentazione del manifold. La metodologia proposta è basata sull’Analisi
delle Componenti Principali (PCA), una tecnica statistica comunemente impiegata al fine di ridurre la dimensionalità di
set di dati di variabili altamente correlate, preservando, il più possibile, la quantità di informazioni contenute nei dati. Il
processo di riduzione di dimensionalità, illustrato in Figura 11, si basa sull’individuazione degli autovalori ed
autovettori della matrice di covarianza delle variabili che definiscono lo stato termo-chimico del sistema. La riduzione
1
La frazione di miscela rappresenta la frazione locale della corrente di combustibile nella miscela.
36
di dimensionalità è, quindi, conseguita attraverso l’eliminazione delle componenti principali (autovettori) corrispondenti
agli autovalori più piccoli.
La PCA è in grado di fornire una rappresentazione ottimale di un sistema termo-chimico sulla base di q<<Ns+1
parametri, definiti come combinazione lineare delle Ns+1 variabili primitive T, p and Yi. La PCA fornisce inoltre una
mappatura completa dallo spazio delle variabili originarie a quello delle componenti principali (PC). Ciò consente di
derivare equazioni di trasporto per le PC con condizioni al contorno ed iniziali associate, e di risolvere, quindi, l’intero
problema termo-fluidodinamico in funzione delle PC. Il vantaggio primario derivante dall’impiego della PCA consiste
nel rigoroso formalismo matematico per la selezione dei parametri. In particolare, è possibile generare modelli che
soddisfano livelli di errore ben determinati, per ciascuna delle variabili primitive.
Al fine di valutare le effettive potenzialità della metodologia proposta, la PCA è stata applicata ad alcune fiamme
turbolente note, completamente caratterizzate sperimentalmente in termini di misure di temperatura e concentrazione
delle specie chimiche, presso i Sandia National Laboratories. In particolare, la validazione si è servita di una fiamma a
getto semplice, non premiscelata, CO/H2/aria e quattro fiamme pilota CH4/aria (fiamme C, D, E e F), caratterizzate da
una crescente velocità di efflusso e, pertanto, da un crescente grado di estinzione e re-ignizione. La fiamma F, infatti, è
prossima all’estinzione totale a valle lungo l’asse della fiamma. Per le sue caratteristiche, la fiamma F costituisce un
sistema molto impegnativo per tutti i modelli di combustione attualmente esistenti. Di seguito, alcuni risultati
dell’analisi PCA condotta sui dati sperimentali relativi alla fiamma F, costituiti da 62766 misure istantanee di 10
variabili di stato (temperatura, N2, O2, H2O, H2, CH4, CO, CO2, OH, and NO).
Figura 11 - Schematizzazione del processo di riduzione fornito dalla PCA. A partire dal set di dati, X, viene calcolata la
matrice di covarianza, S, e, quindi, gli autovalori, L, ed autovettori, A. I dati sono proiettati nello spazio identificato
dagli autovettori. La riduzione di dimensioni è ottenuta eliminando quelle direzioni associate ad autovalori con valore
assoluto trascurabile.
Nelle Figura 12 (a), (b) e (c) si riporta, sottoforma di "parity plot", la ricostruzione 2-dimensionale di alcuni variabili di
stato (temperatura e frazione massiche del radicale OH e dell’NO). Si può osservare come, utilizzando solo due
componenti principali, sia possibile ottenere una discreta ricostruzione della temperatura, mentre deviazione
significative si osservano per le specie minori, quali OH e NO. Inoltre, anche per la temperatura, si può osservare come
la ricostruzione fornita dalla PCA presenti non-linearità, probabilmente ascrivibili all’incapacità di un modello lineare
quale la PCA di descrivere, nel modo più compatto possibile, un manifold altamente non lineare, come accade nel caso
di un sistema turbolento reagente.
37
Figura 12 – Ricostruzione dei campi di temperature (a-a’), OH (b-b’) e NO (c-c’) forniti dai modelli PCA (q=3) e
VQPCA (q=3 and k =8) per la fiamma F. In Figura, q rappresenta il numero di componenti principali adottate, k il
numero di cluster utilizzati e εGSRE,n l’errore globale medio associato alla riduzione PCA.
Questa osservazione ha spinto l’attenzione verso lo sviluppo di un modello PCA locale, basato sull’applicazione della
PCA a sottoinsiemi di dati ottenuti attraverso un algoritmo di partizione automatico, basato sulla minimizzazione
dell’errore di ricostruzione, come illustrato in Figura 13. Il modello risultante, denominato Vector Quantization PCA
(VQPCA) è stato, quindi, confrontato con il modello PCA semplice.
Figura 13 - Schematizzazione del modello VQPCA. I dati sono suddivisi in sotto-insiemi attraverso un algoritmo di
minimizzazione dell’errore di ricostruzione. In altre parole, un punto viene assegnato ai diversi cluster sulla base della
proiezione ortogonale del punto stesso dal sistema di riferimento che identifica ciascun cluster.
Le Figura 12 (a’), (b’) and (c’) mostrano la ricostruzione della fiamma F fornita dal modello VQPCA con un numero di
cluster, k, uguale ad 8, mantenendo lo stesso numero di componenti principali, i.e. q=3. Si può osservare come il
modello sia in grado di fornire una ricostruzione molto accurata non solo della temperatura ma anche delle specie
chimiche minori, quali OH e NO. Inoltre, è possibile osservare come la ricostruzione fornita dalla VQPCA non presenti
quasi nessuna deviazione non-lineare. Tale risultato dimostra come un approccio localmente lineare sia in grado di
cogliere le caratteristiche principali di un manifold altamente non-lineare. Si tratta di un risultato molto attraente ai fini
dell’effettiva implementazione del modello di combustione in un codice di calcolo CFD.
Conclusioni
L’impiego dell’Analisi alle Componenti Principali per lo sviluppo di un modello di combustione turbolenta risulta
particolarmente promettente. L’analisi dei risultati ha dimostrato, infatti, come, in particolare nella sua formulazione
locale, la PCA sia in grado di fornire una rappresentazione ridotta molto accurata dello stato termo-chimico di un
sistema, limitando fortemente il numero di parametri richiesti. Inoltre, la linearità del modello risulta particolarmente
attraente ai fini della effettiva implementazione di un modello PCA. Infatti, una volta identificate le componenti
principali, solo alcune combinazioni lineari delle variabili primitive (temperatura, pressione e composizione) devono
essere effettivamente trasportate in un codice di calcolo CFD, con notevole abbattimento del costo computazionale. È
38
opportuno ricordare, inoltre, che la PCA permette anche di stabilire, a priori, l’errore massimo ammissibile per ciascuna
delle variabili primitive, consentendo un’opportuna selezione del numero di componenti principali richieste.
L’attività di ricerca del terzo anno del presente Dottorato di Ricerca sarà rivolta, quindi, allo sviluppo del modello
matematico vero e proprio per la formalizzazione del modello di combustione e per la sua implementazione in codici di
calcolo CFD. Inoltre, a tale attività si associa anche la ricerca di ulteriori modelli, eventualmente disponibili in
letteratura, per la descrizione semplificata dei processi di combustione in codici di calcolo CFD. L’analisi delle
prestazioni di tali modelli e il confronto degli stessi in sistemi di interesse pratico per la combustione di idrogeno e sue
miscele (sistemi di combustione senza fiamma), rappresenta l’obiettivo prioritario per il prosieguo del presente
Dottorato di Ricerca.
39
ANALISI SPERIMENTALE E MODELLAZIONE DI RIEMPIMENTI
DI NUOVA CONCEZIONE PER L’IMPIEGO IN DISTILLAZIONE
REATTIVA
Dottoranda: Aurora Viva
Relatrice: Prof. Ing. Elisabetta Brunazzi
Introduzione. Perché sempre più distillazione reattiva in applicazioni industriali.
La distillazione reattiva rappresenta il risultato di una integrazione ottimizzata di due operazioni unitarie, la
reazione e la distillazione.
L’attrattiva di questa nuova tecnologia dal punto di vista industriale ha tre fattori trainanti che sono noti come
3P business drivers ovvero profit, planet, people. Dal punto di vista economico la distillazione reattiva ha
dimostrato di poter ridurre i costi operativi, gli investimenti di capitale e le spese di energia di oltre il 20%
rispetto alla configurazione classica di reattore e colonna di distillazione in serie. I vantaggi derivanti da un
minore impatto ambientale e da una riduzione dei consumi di energia condizionano favorevolmente
l’opinione pubblica, che ovviamente accetta con più facilità una tecnologia in grado di ridurre il rischio di runaway in processi reattivi e limita l’ingombro delle apparecchiature.
Grazie anche a questi fattori, nell’ultimo decennio è aumentato considerevolmente il numero di applicazioni
industriali che utilizzano la distillazione reattiva. Ad esempio, CDTECH, una delle maggiori società
specializzate nello sviluppo e progettazione di processi di distillazione reattiva, ha venduto finora circa 200
licenze per processi commerciali, dei quali 146 operativi su scala industriale a fine 2006. L’espansione della
tecnologia è evidente se si considera che solo 79 di questi erano invece attivi a metà del 2002.
Analogamente, Sulzer Chemtech, ditta leader nella produzione di internals per apparecchiature e fornitrice di
impianti “chiavi in mano”, conferma una espansione di questa tecnologia integrata soprattutto nei mercati
asiatici emergenti. Ne è di esempio un progetto di collaborazione con un produttore di olio di palma e derivati
in Malesia, che ha portato nel 2003 alla messa in opera di un nuovo impianto di distillazione reattiva per
l’esterificazione di acidi grassi derivati da oli vegetali per l’impiego nel settore dei cosmetici e dei lubrificanti.
Questi nuovi campi di applicazione si vanno ad aggiungere ai processi reattivi che già da qualche anno
utilizzano la distillazione reattiva, come quelli di idrolisi, idrogenazione, esterificazione ed eterificazione,
alchilazione.
L’evidente espansione in campo industriale nel corso dell’ultimo decennio è stata motivata, sostenuta e
guidata da un parallelo sforzo nel settore della ricerca che, in Europa ad esempio, ha accomunato numerose
industrie e università nel corso di tre progetti europei consecutivi, ciascuno di durata triennale. Il primo,
iniziato nel 1996, nell’ambito del più ampio progetto Brite-Euram aveva come scopo la formulazione di una
strategia di sviluppo per processi di distillazione reattiva di rilevanza industriale. Il secondo progetto, iniziato
nel 2000 con la denominazione INTINT “Intelligent Column Internals for Reactive Separation” si è orientato
all’ideazione e allo studio di internals catalitici. L’ultimo progetto, in ordine temporale, denominato INSERT
“Integrating Separation and Reactive Technologies” è stato mirato all’identificazione del grado ottimale di
integrazione delle operazioni di separazione e reazione ed allo studio di configurazioni innovative come la
Reactive Divided Wall Column. A tal scopo è stato individuato un certo numero di processi reattivi, sono
state condotte sperimentazioni in laboratorio e campagne sperimentali su impianti pilota, e sviluppati modelli
per la sintesi di processo e la simulazione dei processi selezionati.
Gli studi condotti finora hanno evidenziato i vantaggi ottenibili per mezzo della distillazione reattiva
eterogenea che, a differenza di quella omogenea, non richiede la separazione successiva del catalizzatore
liquido. Ovviamente il progresso in questa direzione è strettamente legato all’evoluzione e all’ottimizzazione
dei riempimenti catalitici eterogenei. I primi riempimenti utilizzati su scala industriale, noti come Bale
packings, presentano buone efficienze di reazione ma non ottime prestazioni per la separazione e
necessitano di elevate spese per la sostituzione dell’intero riempimento quando il catalizzatore è avvelenato.
Una evoluzione si è avuta con lo sviluppo dei prodotti Sulzer, inizialmente del tipo Katapak-S e
successivamente del tipo Katapak-SP. I riempimenti Katapak sono caratterizzati da un elevato contenuto di
catalizzatore e proprio il catalizzatore può facilmente essere sostituito con una riduzione dei costi operativi
notevole, dal momento che il solo ricambio del catalizzatore ha un costo pari al 40-50% del prezzo di un
nuovo riempimento. L’innovazione dei riempimenti strutturati del tipo Katapak-SP è legata alla
configurazione modulare che alterna sacchetti di catalizzatore a lamine corrugate del tipo Mellapak e quindi
mette a disposizione una porzione del riempimento alla separazione. Questa configurazione aumenta la
flessibilità di impiego di questi riempimenti, in quanto il rapporto modulare può essere variato per adattarsi
40
alle necessità del sistema, aumentando la quantità di catalizzatore (e favorire la reazione) o la superficie
specifica (e favorire la separazione).
L’appropriato utilizzo nei processi di distillazione reattiva e una eventuale ottimizzazione del design di questi
riempimenti possono essere raggiunti solo se i fenomeni di trasporto e di reazione sono propriamente
compresi. Oltre alla cinetica devono essere valutati tutti i parametri necessari specifici del riempimento
stesso quali i coefficienti di trasferimento di materia, la superficie specifica che partecipa allo scambio di
materia, l’hold-up di liquido, il tempo di residenza e le perdite di carico. Questi parametri, insieme all’analisi di
efficienza di processo, vengono generalmente ottenuti in esperimenti condotti su scala pilota e devono
servire per lo sviluppo di modelli fisici che consentano un corretto dimensionamento del riempimento
catalitico e che possano quindi essere impiegati successivamente per lo scale-up di processo e
l’applicazione a sistemi su scala industriale.
Gli impianti pilota per lo studio dei sistemi di distillazione reattiva.
Nel corso dei tre progetti europei molti partner industriali, come Sulzer Chemtech, BASF, Bayer, Eni, e
alcune università si sono dotati di impianti su scala pilota in cui testare i sistemi reattivi. Nel corso del
progetto INSERT in particolare, l’analisi dei casi studio di separazione reattiva è stata condotta impiegando il
riempimento di nuova concezione Katapak-SP. In tale contesto anche il Dipartimento di Ing. Chimica
dell’Università di Pisa si è dotato di due colonne con diametro interno di 50 mm e 100 mm, del circuito
sperimentale e dei sistemi diagnostici per lo studio della fluidodinamica e del trasferimento di materia del
Katapak-SP (Fig.1).
La geometria di questi riempimenti è complessa ed è importante valutare il contributo che i vari elementi
danno alle prestazioni idrodinamiche. In questa ottica non solo il grado di vuoto e l’area geometrica, ma
anche le frazioni superficiali di passaggio per i fluidi e le frazioni volumetriche occupate dal catalizzatore
rappresentano parametri indispensabili per una completa e utile caratterizzazione geometrica.
Una prima parte dell’attività di dottorato è stata quindi dedicata all’accurata caratterizzazione geometrica dei
riempimenti studiati. I risultati di questa analisi sono riassunti in Figura 2 dove sono riportati i parametri
geometrici, al variare del diametro, per i riempimenti Katapak-SP11 e Katapak-SP12.
Collari
Open Channel
Free area
Open Channel (OC)
Free area (FA)
Figura 1. Struttura e schematizzazione del Katapak-SP di diametro 100mm, del tipo SP 11 (sinistra) e SP 12
(destra).
41
0,9
0,8
0,7
0,6
0,5
0,4
0,3
0,2
0,1
D (mm)
ap (m2/m3)
50
100
250
450
100 SP12
450 SP12
217
210
252
310
283
341
VF
y(OC+FA+Coll) sup
0
50
yColl sup
100
250
D (mm)
450
yCB vol
100
SP12
450
SP12
Figura 2. Andamento dei parametri geometrici al variare del diametro del Katapak-SP (VF: Grado di vuoto; y
(OC+FA+Coll) sup: frazione superficiale legata agli Open Channel, alla Free Area e alla sezione dei Collari;
yColl sup: frazione superficiale della sezione occupata dai Collari; yCB vol: frazione volumetrica occupata
dai Catalyst Bags; ap: area superficiale specifica).
Nel contempo è stata programmata e condotta una campagna sperimentale (riassunta nella Tabella 1) per la
determinazione dei parametri idrodinamici (hold-up, perdite di carico, capacità limite) e di trasferimento di
materia (kg*a, kl*a).
Tabella 1. Piano della campagna sperimentale condotta nel Dipartimento di Ing. Chimica dell’Università di
Pisa.
Sistema Aria-Acqua Controcorrente
Trasferiment Effetto
Effetto
o di materia
viscosit equià
corrente
HoldHold-up HoldDP/Dz
DP/Dz
Kg*a Kl*a
HoldDP e kg*a
up
Dinami
up
Dry
Wet
up
e
Statico co
Totale
DP
9
9
9
9
9
9
9
9
K-SP11 C 50
9
9
9
9
9
9
9
9
K-SP11 C 100
9
9
9
9
9
K-SP12 C 100
L’analisi dei dati sperimentali ha consentito lo sviluppo di correlazioni per la stima dei coefficienti di trasporto
di materia, delle perdite di carico, della capacità limite del riempimento e dei diversi contributi di hold-up di
liquido in colonna. Le correlazioni sviluppate sono state implementate con successo dai partner del progetto
INSERT in codici (Rate-based models sviluppati in Aspen) per la simulazione di processi di distillazione,
come nel caso dei sistemi di distillazione reattiva eterogenea per l’esterificazione di acido propionico a npropil propionato e per la disidratazione del metanolo a dimetil etere (Figura 3).
42
6
C o lu m n h e ig h t [m ]
5
4
3
2
1
MeOH exp
DME exp
MeOH calc
DME calc
0
0
10
20
30
40
50
60
70
80
90
100
Molar composition [%]
Figura 3. Esempi di andamento delle concentrazioni in colonne di distillazione reattiva nei sistemi di
produzione di dimetil etere (sinistra) e di n-propil propionato (destra). [Di Stanislao et al, Ind. & Eng. Chem.
Res., submitted 2007; Buchaly et al., Chem.Eng. Process. 2007]. Nei modelli impiegati sono state
implementate le correlazioni fluidodinamiche sviluppate nel corso del presente lavoro di dottorato.
E’ importante sottolineare che i sistemi sono stati testati in impianti pilota con colonne di 50 mm di diametro
equipaggiate con riempimento Katapak-SP11, per i quali è garantita la validità delle correlazioni
fluidodinamiche implementate. Infatti queste correlazioni hanno un campo di applicabilità limitato dovuto alla
forte dipendenza di tutti i parametri fluidodinamici dalla geometria e dalle dimensioni del riempimento in
analisi. Un esempio di questo “effetto scala” è evidenziato in Figura 4 dove sono riportate le perdite di carico
a secco del riempimento Katapak-SP11 misurate in colonne di diametri diversi. Una analisi di questi risultati
ha messo in evidenza la relazione che lega le perdite di carico non solo alla diversa sezione libera di
passaggio del gas (ved. Figura 2), ma anche alla diversa altezza dei riempimenti.
1800
1600
DP/Dz (Pa/m)
1400
1200
1000
800
600
400
200
0
0,0
1,0
2,0
3,0
4,0
5,0
F-factor (Pa^0.5)
C 50
C 100
C 250
C450
Figura 4. Andamento delle perdite di carico in assenza di liquido per il Katapak-SP11 al variare del diametro
di colonna
Sviluppo di modelli.
Parte dell’attività di dottorato è stata quindi dedicata allo sviluppo di modelli fisici per la stima dei vari
parametri idrodinamici e di trasferimento di materia. Questi modelli sono indispensabili in un’ottica di scale
up per un corretto dimensionamento dei sistemi di separazione reattiva anche su scala industriale.
A tale scopo si è proceduto ad una schematizzazione del riempimento in analisi ed alla assunzione di ipotesi
per la descrizione dei flussi coinvolti. La struttura complessa del Katapak-SP è infatti scomponibile nelle
parti che la costituiscono, i Catalyst Bag e gli Open Channel (Figura 5).
Gli Open Channel possono essere schematizzati come un insieme di canali inclinati paralleli nei quali il
liquido che fluisce lungo le pareti riduce la sezione di passaggio del gas. Il flusso del liquido può essere
descritto teoricamente come un flusso su piano inclinato. Questa descrizione consente di valutare lo
spessore e la velocità effettiva del film liquido e, conoscendo l’hold up da correlazioni sviluppate per
riempimenti strutturati tipo Mellapak, permette di risalire alla superficie bagnata del riempimento.
L’applicazione di equazioni sviluppate per il regime stratificato permette di valutare le perdite di carico subite
43
dalla fase gassosa nell’attraversare la sezione occupata dalle lamine e nel Katapak-SP, dopo l’adattamento
alla opportuna geometria.
Parallelamente lo studio del letto di catalizzatore, sia tramite strumenti di fluidodinamica computazionale sia
con correlazioni sviluppate per letti di sfere, permette di valutare il comportamento del liquido in prossimità
del catalizzatore, di stimare le varie frazioni di hold-up (statico e dinamico) del liquido, e di valutare la portata
massima di liquido che può fluire all’interno dei sacchetti.
Figura 5. Schematizzazione del riempimento impiegata per la modellazione fluidodinamica (SL = open
channel, CB = catalyst bag, dh = diametro idraulico).
Un primo esempio di applicazione del modello e del buon accordo riscontrato con i dati sperimentali è
riportato in Figura 6 per le perdite di carico al variare della portata di liquido nel Katapak-SP11. Questa parte
di modellazione è in corso di sviluppo e verrà ampliamente affrontata nel terzo anno di dottorato.
10,00
9,00
8,00
DP/Dz (mbar/m)
7,00
6,00
5,00
4,00
3,00
2,00
1,00
0,00
0,0
0,2
0,4
0,6
0,8
1,0
1,2
1,4
1,6
1,8
F-factor
L (m3/m2/h) 17,81
L (m3/m2/h) 21,65
L (m3/m2/h) 25,75
L (m3/m2/h) 30,56
Figura 6. Confronto tra i dati sperimentali (simboli) e i risultati predetti dal modello fluidodinamico (linee
continue) per le perdite di carico in presenza di liquido per il Katapak-SP 11 in colonna da C100 .
Di seguito si riporta infine un riassunto dell’attività del presente lavoro di Dottorato:
44
I ANNO
Caratterizzazione geometrica
riempimento Katapak-SP:
II ANNO
III ANNO
del
K-SP 11 per C50 e C100
K-SP 11 per C250 e C450 e K-SP12
per C100 e C450
Campagna sperimentale:
Prove idrodinamiche Aria-Acqua per
K-SP 11 su C50 e in contro ed equicorrente e su C100 in controcorrente
per K-SP11 e SP12
Trasferimento di materia per la
determinazione del kg*a per K-SP
11 su C50 e C100 e per K-SP12 su
C100
Prove idrodinamiche Aria- Soluzione
di Glicerina per K-SP11 su C100
Prove idrodinamiche Aria- Acqua per
MellapakPlus su C400
Impiego di strumenti specifici per lo
studio di riempimenti catalitici
strutturati
CFD per lo studio di letti catalitici
Tomografia a raggi X per l’analisi
della distribuzione del liquido nel
Katapak-SP
Sviluppo di modelli fisici per il
dimensionamento del Katapak-SP
45
Sviluppo e sperimentazione di membrane per la separazione di
idrogeno da correnti di gas di sintesi
Relatore
Prof. Dott. Luigi Petarca
Candidato
Matteo Bientinesi
Introduzione
La presente tesi di dottorato di ricerca è incentrata sullo sviluppo e sulla sperimentazione di membrane per
la separazione dell’idrogeno da correnti di gas di sintesi prodotte tramite processi di gassificazione o
reforming di combustibili solidi, liquidi o gassosi.
Essa si inserisce nell’ambito del crescente interesse verso l’utilizzo dell’idrogeno come vettore energetico,
ed in particolare verso quella “economia all’idrogeno”, che comporta l’utilizzo diretto di H2 per applicazioni sia
nel campo della generazione di elettricità e calore che nel campo dei trasporti. La spinta verso un tale
scenario è incentivata dalla presa di coscienza della comunità internazionale nei confronti di una serie di
problematiche di carattere globale:
•
il riscaldamento terrestre e l’acidificazione dell’acqua superficiale degli oceani, che implica la necessità
di una significativa riduzione delle emissioni di gas serra;
•
il deterioramento della qualità dell’aria nelle aree metropolitane, dovuto essenzialmente alle emissioni
del traffico veicolare e delle caldaie domestiche;
•
il depauperamento delle riserve di combustibili fossili;
•
la necessità per tutti i paesi di adottare un sistema energetico il più possibile indipendente dalle
importazioni di combustibili fossili da paesi politicamente instabili.
In un futuro remoto è auspicabile che l’idrogeno sia prodotto tramite elettrolisi dell’acqua da fonti energetiche
completamente rinnovabili e pulite. Ad oggi è tuttavia più realistico valutare la possibilità di produrlo da fonti
fossili largamente disponibili, come il carbone, o rinnovabili, come la biomassa, così da eliminare
parzialmente i problemi ambientali citati e da favorire lo sviluppo delle infrastrutture necessarie ad un
impiego su larga scala di H2 come vettore energetico.
La tecnologia di separazione di miscele gassose attraverso membrane è una tecnologia relativamente
matura, anche se non molto diffusa, in alcuni settori dell’industria chimica come il petrolchimico o l’industria
dell’ammoniaca e del metanolo. L’applicazione delle membrane alla separazione dell’idrogeno da gas di
sintesi è però un campo innovativo, in cui sono necessari studi accurati e una serie di miglioramenti sia per
quanto riguarda i diversi tipi di materiale, sia per le scelte impiantistiche.
La presente tesi di dottorato riguarda sia lo sviluppo e la sperimentazione di membrane di tipo innovativo, sia
la valutazione delle possibilità di utilizzo di membrane commerciali in questo nuovo settore. Per questo
motivo è stato necessario progettare e mettere a punto un sistema di test per membrane che possa lavorare
in una vasta gamma di condizioni operative.
Parallelamente è in corso l’analisi del ciclo di vita della filiera di produzione ed utilizzo dell’idrogeno come
vettore energetico a partire da combustibili solidi sia fossili (carbone) che rinnovabili (biomasse). In questa
ottica viene considerata la possibilità di sostituire le tecniche tradizionali di separazione tramite adsorbimento
(pressure swing adsorption) con le tecnologie di separazione su membrana, le quali potrebbero comportare
una serie di vantaggi anche a livello ambientale.
L’attività del dottorato si inserisce all’interno del progetto FISR 2006 dal titolo “Sistemi integrati di produzione
di idrogeno e sua utilizzazione nella generazione distribuita”, ed in particolare nelle linee di progetto 2
(Separazione e purificazione dell’idrogeno) e 5 (Fattibilità tecnico-economica ed impatto ambientale).
Sviluppo di membrane al palladio
E’ stata effettuata una ricerca bibliografica riguardante le diverse tipologie di membrane per la separazione
dell’idrogeno da miscele gassose, e si è concentrata l’attenzione sulle membrane metalliche dense che
consentono di ottenere, rispetto alle altre, flussi relativamente alti ed una purezza del permeato molto
elevata. La dissoluzione selettiva dell’idrogeno in metalli nobili come palladio, titanio e argento è nota da
tempo. Le ricerche si sono concentrate sul palladio, in quanto questo metallo esibisce la più elevata
selettività o efficienza di separazione.
La permeazione dell’idrogeno attraverso strati densi di palladio implica diversi fenomeni in serie, secondo un
meccanismo detto di soluzione-diffusione che comporta il trasporto in forma atomica e che assicura una
selettività teoricamente infinita. Il flusso molare di idrogeno attraverso membrane al palladio è calcolato
tipicamente con la formula:
JH2 =
(
PH 2 n
p H 2,h − p Hn 2,l
s
)
46
dove PH2 [mol.m/m2.hr.bar] è il coefficiente di permeabilità, s [m] lo spessore della membrana, pH2,h e pH2,l
[bar] pressione parziale dell’idrogeno, rispettivamente lato alimentazione e lato permeato. Se il processo
limitante dal punto di vista cinetico è la diffusione degli atomi di idrogeno nel metallo, l’esponente n assume
valori vicini a 0.5, in accordo con la legge di Sievert. Se invece i fenomeni superficiali di adsorbimento
dissociativo risultano importanti, n tende ad aumentare fino ad un massimo di 1. Inoltre la permeabilità
aumenta con la temperatura secondo una legge di tipo Arrhenius.
Attualmente le membrane al palladio sono commercializzate soltanto come film spessi (150 µm)
autosupportanti, con lo svantaggio duplice di un basso flusso ottenibile e di un costo molto elevato.
L’attività sperimentale della tesi prevede la deposizione di film sottili (1-20 µm) di palladio e sue leghe con
argento o rame (in modo da annullare l’effetto dell’infragilimento a idrogeno tipico del Pd puro) su supporti
porosi metallici o ceramici. Sono stati acquistati supporti porosi, di geometria sia tubolare che discoidale, in
acciaio inossidabile AISI 316L, prodotti da Mott Corporation.. Essi hanno superficie pari a circa 20 cm2 e
dimensione dei pori intorno a 0.1 µm. Questi sono stati preferiti in prima istanza ai ceramici poiché sono
saldabili e quindi più semplici da utilizzare in fase industriale e non comportano problemi per le tenute.
La deposizione dei film sarà effettuata con la tecnica dell’electroless plating (ELP), che consiste in una
reazione autocatalitica in soluzione acquosa di un sale metallico che viene ridotto a metallo atomico sulla
superficie del substrato ad opera di un composto fortemente riducente. La deposizione avviene tramite
quattro fasi:
1. il lavaggio chimico del substrato per la rimozione dei contaminanti;
2. la sensibilizzazione ed attivazione del substrato, tramite immersioni successive in soluzioni acide di ioni
Sn2+ e Pd2+;
3. la reazione di plating tra sale di palladio e idrazina, che avviene a partire dai nuclei di Pd depositati nella
fase precedente (in Tabella 3 è mostrato un tipico bagno per l’ELP di palladio); le semireazioni di
ossidoriduzione che hanno luogo sono:
2 Pd ( NH 3 ) 24 + + 4e − → 2 Pd 0 + 8 NH 3
−
N 2 H 4 + 4OH → N 2 + 4 H 2 O + 4e
[0.0V ]
−
[1.12V ]
−−−−−−−−−−−−−−−−−−→−−−−−−−−−−−−−−−−−−−−−−−−
2 Pd ( NH 3 ) 24 + + N 2 H 4 + 4OH − → 2 Pd 0 + 8 NH 3 + N 2 + 4 H 2 O
[1.12V ]
4. il trattamento termico finale ad alta temperatura (400-600°C) e in atmosfera di idrogeno o azoto che
permette l’omogeneizzazione del film.
Tabella 3: Bagno di electroless plating di palladio
Bagno di plating a
Componenti
base di idrazina (1 L)
Precursore di palladio 3.6 g PdCl2
76 g Na2EDTA
Agenti complessanti
650 ml NH4OH (16 M)
Agente riducente
10 ml N2H4 (1 M)
La deposizione di leghe si effettua in modo analogo, con due possibilità: effettuare la deposizione prima del
palladio e poi dell’elemento di lega (sequential ELP), seguiti da interdiffusione durante il trattamento termico,
o depositare contemporaneamente i due metalli (simoultaneous ELP).
Rispetto alle altre tecniche disponibili l’electroless plating consente una serie di vantaggi tra cui l’uniformità e
la durezza del film su ogni tipo di supporto, la semplicità delle apparecchiature e i bassi costi di produzione, il
facile recupero del metallo residuo.
La caratterizzazione delle membrane è effettuata tramite una vasta serie di tecniche analitiche, le più
importanti delle quali sono le micrografie al SEM o al TEM, che permettono la determinazione dello spessore
e della morfologia superficiale. Lo spessore è stimato semplicemente anche attraverso l’aumento di peso
della membrana dopo la deposizione.
Apparato sperimentale per la valutazione di membrane al palladio
La determinazione delle prestazioni delle membrane (permeabilità, selettività e resistenza chimico-fisica) si
effettua tramite esperimenti in celle di permeazione. E’ stato pertanto progettato un impianto pilota per
l’esecuzione di tali test, capace di operare con membrane di diverso tipo e nel più ampio range possibile di
condizioni operative. Sono state definite le seguenti caratteristiche dell’impianto:
- temperatura operativa variabile tra 25°C e 550°C;
- pressione di alimentazione del gas variabile tra 1 bar e 20 bar;
47
- possibilità di alimentare miscele di H2, CO2, N2, CO, CH4, H2O, NH3, H2S in modo da poter simulare un
gas di sintesi derivato da steam reforming di gas naturale o gassificazione di combustibili solidi;
- possibilità di alimentare un gas di trasporto sul lato del permeato;
- misura delle pressioni, delle temperature, delle portate nei punti critici dell’impianto, e della
composizione del permeato.
In Figura 15 è riportato lo schema d’impianto dell’apparato sperimentale per i test di permeazione, con i
range di temperatura e pressione operative dei punti chiave dell’impianto. L’alimentazione dei gas è ottenuta
tramite bombole ad alta pressione, connesse all’impianto tramite riduttori con range di pressione 1-50 bar.
Le bombole utilizzabili sono quattro: idrogeno, anidride carbonica, una miscela al 50% di metano e
monossido di carbonio o alternativamente CH4, CO, H2S in proporzioni molari 48:48:4, e infine azoto, che
viene utilizzato per eliminare l’aria dall’impianto prima delle prove ed eventualmente come gas di trasporto
per il permeato. La composizione del gas di alimentazione viene mantenuta costante tramite l’utilizzo di
regolatori di portata massiva a conducibilità termica, operati in parallelo, uno per ciascuna bombola. Le linee
dei diversi gas vengono quindi riunite e la miscela è sottoposta ad un eventuale ulteriore riduzione di
pressione tramite una valvola a spillo. La pressione a valle della valvola è misurata e registrata tramite un
manometro digitale. A questo punto la miscela gassosa subisce un primo riscaldamento all’interno di un
forno tubolare (forno 1). Per massimizzare l’area di scambio viene utilizzato un tubo a spirale inserito nel
forno.
L’acqua e, in alternativa, soluzioni acqua-ammoniaca vengono alimentate invece allo stato liquido a
temperatura ambiente, e vengono vaporizzate in una camera posta all’uscita del forno 1 grazie al calore
sensibile della miscela gassosa riscaldata. L’alimentazione, che ha raggiunto così la composizione
desiderata, viene ulteriormente riscaldata in una seconda spirale all’interno di un forno tubolare apribile, e
quindi viene inviata nella cella di permeazione contenente la membrana. Anche la cella è posta all’interno
del forno, e la temperatura operativa è controllata tramite un controllo a cascata.
Il permeato ed il retentato uscenti dalla cella vengono raffreddati in scambiatori a doppio tubo operati con un
liquido refrigerante ricircolato a circuito chiuso ad un criostato. Le pressioni di entrambe le linee vengono
monitorate tramite due manometri digitali. Il retentato viene mantenuto a pressioni costanti che possono
arrivare a 20 bar grazie ad una valvola di contropressione a valle del manometro. In parallelo con questa
valvola si ha anche la possibilità di utilizzare una valvola a spillo in modo da minimizzare l’andatura
oscillante del flusso tipica delle valvole a contropressione.
Il permeato invece è mantenuto a pressione poco più che atmosferica da una guardia idraulica posta a valle.
La portata massiva è misurata tramite un misuratore a conducibilità termica, quindi viene analizzata la
composizione tramite uno spettrometro a infrarossi (IR).
I gas vengono quindi scaricati sotto cappa attraverso una guardia idraulica che impedisce l’ingresso di aria
nelle tubazioni per evitare il rischio di formazione di miscele esplosive.
Il tutto è collocato sotto cappa aspirante.
E’ stato effettuato il dimensionamento fluidodinamico e termico delle apparecchiature e sono in corso di
acquisizione i materiali e le attrezzature elencati in Tabella 4.
Tabella 4: Materiali acquisiti per l’impianto di test
Materiale / Apparecchiatura
2.1.1.1 Quantità 2.1.1.2 Produttore 20 dischi
Supporti porosi AISI 316L
Mott
10 tubi
Manometri Leo Rec + driver e cavo
3
Comer
Thermal Mass Flow Regulator 5850S/BC
4
Brook Instruments
Thermal Mass Flow Meter 5850S/BC
1
Brook Instruments
Secondary electronics per TMFM/R Brooks 0154
1
Brook Instruments
Forno tubolare RS80/750/11 + Kit per controllo in cascata
1
Nabertherm
Pompa HPLC mod. 2080
1
Jasco
Criostato RA106
1
Landa
Bombole gas, riduttori per bombole
4
SOL spa
Tubazioni, valvolame, raccordi
Swagelok
Reagenti per ELP
Carlo Erba
Cloruro di palladio per ELP
Alfa Aesar
Sono stati inoltre progettati i pezzi da far realizzare su misura in officina, ed in particolare le spirali per il
riscaldamento dei gas, gli scambiatori a doppio tubo per il raffreddamento di permeato e retentato, le celle di
permeazione per le membrane discoidali e tubolari.
L’impianto sarà assemblato e messo a punto non appena disponibili i vari componenti.
48
Analisi ambientale della produzione di idrogeno
E’ stata effettuata un’analisi ambientale della produzione di idrogeno tramite la metodologia del life cycle
assessment (LCA). Un processo di gassificazione di carbone e successiva depurazione su membrana
dell’idrogeno (Figura 16) è stato modellato e confrontato con i tradizionali processi di produzione (steam
reforming del gas naturale, elettrolisi dell’acqua): i risultati dell’analisi del ciclo di vita hanno evidenziato
come la gassificazione permetta una riduzione sensibile dell’impatto globale e soprattutto del consumo di
risorse (Figura 14).
Figura 14: LCA produzione di idrogeno
49
Figura 15: Schema dell’apparato sperimentale per i test di permeazione
50
Figura 16: Flow-sheet del processo di gassificazione
51
STUDIO SPERIMENTALE E MODELLISTICO DI NUOVI BIOMATERIALI PER APPLICAZIONI CARDIOVASCOLARI
AVANZATE
Candidato:
Relatore:
Ing. Mariacristina Gagliardi
Prof. Ing. Paolo Giusti
Introduzione
Durante il primo anno di attività di dottorato è stato svolto un lavoro in parte sperimentale ed in parte modellistico
su nuovi materiali polimerici sintetizzati presso i nostri laboratori.
La parte sperimentale del lavoro si è basata sulla sintesi e caratterizzazione, chimica, termica, fisica e funzionale di
tre copolimeri, poli(metilmetacrilato-co-butilmetacrilato) p(MMA-co-BMA) e dei rispettivi omopolimeri,
poli(metilmetacrilato) (PMMA) e poli(butilmetacrilato) (PBMA), al fine di poter valutare l’idoneità e l’efficacia di
tali materiali per un potenziale utilizzo come rivestimenti per stent coronarici a rilascio di farmaco. Tali materiali
polimerici sono stati utilizzati come matrici entro cui inglobare uno o più principi attivi, con lo scopo di modificare
la cinetica di rilascio di farmaco ed allungare i tempi entro cui il principio attivo viene rilasciato verso i tessuti
biologici interessati dall’impianto del dispositivo.
Sono già stati sviluppati e messi in commercio dei dispositivi che presentano coating in PBMA (Cypher®) ma non
esiste un prodotto commerciale in cui è presente un rivestimento costituito dal copolimero p(MMA-co-BMA). Il
presente lavoro risulta dunque possedere caratteristiche innovative.
La parte modellistica del lavoro si è basata sullo studio del comportamento meccanico di tali nuovi materiali e sulla
modellazione numerica del rilascio di farmaco da materiali con le stesse caratteristiche di quelli sintetizzati in
laboratorio. A tal fine, sono state condotte delle simulazioni fluidodinamiche atte a valutare l’efficacia del rilascio,
del caricamento iniziale e del controllo della matrice sulla cinetica di rilascio del farmaco.
Parte sperimentale
La parte sperimentale del lavoro ha riguardato le seguenti fasi:
1. Sintesi dei nuovi materiali;
2. Caratterizzazione chimica (peso molecolare e composizione molare delle macromolecole);
3. Caratterizzazione termica (valutazione della tg);
4. Caratterizzazione meccanica (valutazione della curva σ-ε, dei σSN e σR, del modulo elastico);
5. Caratterizzazione funzionale (rilascio di farmaco e diffusione, proprietà di adesione).
Sintesi dei nuovi materiali
Sono stati sintetizzati tre copolimeri differenti in cui sono state fatte variare le rispettive frazioni molari
delle due unità funzionali di metilmetacrilato e butilmetacrilato all’interno della miscela di reazione. Le
percentuali molari di MMA/BMA della miscela reagente utilizzate per le sintesi sono state 87.5/12.5, 75/25
ed 50/50, selezionate dimezzando il contenuto molare di BMA a partire dal copolimero teorico 50/50. In
Tabella 5 è riportata la nomenclatura utilizzata per i copolimeri sintetizzati in funzione della composizione
della miscela reagente.
Alimentazione iniziale
Copolimero
(% molare MMA/ BMA)
87.5/12.5
C87
75/25
C75
50/50
C50
Tabella 5 - Copolimeri sintetizzati.
Oltre ai copolimeri, sono stati sintetizzati anche i due omopolimeri (già ampiamente noti in letteratura), in
modo da avere un termine di confronto con materiali prodotti con la stessa modalità di reazione (reattore,
condizioni operative) dei copolimeri. Le reazioni sono state condotte in sospensione (mezzo di
sospensione: soluzione acquosa di sodio dodecilsolfato al 2.5% w/v rispetto al volume liquido totale), al
fine di ottenere delle particelle nanometriche di polimero, utilizzando come iniziatore radicalico il
persolfato di potassio (KPS, risultato da letteratura essere più idoneo rispetto, ad esempio, al perossido
di benzoile per la particolare reazione) in percentuale pari allo 0.036% in peso rispetto al volume totale
liquido. Il volume totale di liquido, costituito da acqua e monomeri, è stato tenuto fisso in tutte le reazioni
ma sono state fatte variare le loro proporzioni. Le reazioni sono state condotte in regime semi-batch,
l’alimentazione monomerica è stata suddivisa in una quota iniziale (32%), alimentata all’inizio della
reazione, ed otto alimentazioni (8.5% ciascuna) introdotte nella massa reagente a tempi prestabiliti. È
stata utilizzata questa particolare metodologia di reazione a causa della differenza tra i rapporti di
reattività dei due monomeri.
52
Per ciascuna reazione è stata monitorata nel tempo la concentrazione dei monomeri reagenti mediante
metodiche cromatografiche (HPLC). A tale scopo, è stato sviluppato un metodo cromatografico apposito
per la separazione dei singoli monomeri da tutti gli altri soluti presenti (SDS, KPS residuo, polimero già
formato). Il metodo cromatografico sviluppato utilizza una colonna di tipo Alltech Alltima C18, un flusso di
eluente pari a 0.8 ml/min costituito da acetonitrile (ACN) (80%) ed acqua bidistillata (20%). Il detector
utilizzato è di tipo UV e lavora ad una lunghezza d’onda pari a 210 nm.
Caratterizzazione chimica
Sui materiali sintetizzati sono state eseguite caratterizzazioni di natura chimica per valutare il peso
molecolare e la composizione delle macromolecole ottenute.
La valutazione del peso molecolare è stata effettuata mediante la tecnica cromatografica della
permeazione su gel (GPC). A tale fine, è stata utilizzata una colonna per eluizione con fase organica, una
fase mobile costituita da tetraidrofurano (THF) e due canali di rilevazione, IR ed UV. Per la valutazione
quantitativa del peso molecolare sono stati utilizzati i dati relativi al canale UV, alla lunghezza d’onda di
245 nm. Per la valutazione dei pesi molecolari, sono state analizzate delle soluzioni polimeriche allo 0.5% w/v in
THF, è stata utilizzata una curva di taratura basata sulle analisi GPC di appositi standard a base di PS disciolti in
THF.
In Tabella 6 sono riportati i risultati ottenuti dalle analisi GPC.
Materiale
tR [min]
M w [Da]
5
M n [Da]
IP
5
5.9
2
PMMA
7.7⋅10
3.7⋅10
5
5
5.7
2.3
C87
8.0⋅10
3.5⋅10
5.6
60
C75
5.1⋅105
8.4⋅103
5.5
50.5
C50
5.8⋅105
1.2⋅104
5.5
3.4
PBMA
8.6⋅105
2.5⋅105
Tabella 6 - Pesi molecolari dei materiali sintetizzati calcolati mediante cromatografia a permeazione su gel.
I copolimeri sono poi stati analizzati mediante la tecnica dell’FT-IR al fine di poter valutare l’effettiva
composizione finale della macromolecola.
Mediante FT-IR sono stati acquisiti tutti gli spettri dei materiali sotto forma di film ottenuti per casting,
quindi sono stati calcolati numericamente con un calcolatore spettrale, a partire dagli spettri degli
omopolimeri, gli spettri ipotetici di miscele polimeriche con composizione molare pari a quella della
miscela reagente. Per ciascuno spettro ottenuto con il calcolatore spettrale e per i due spettri ottenuti
analizzando gli omopolimeri, sono stati individuati due picchi caratteristici per il PMMA e per il PBMA
(rispettivamente, a 2994 cm-1 e 2951 cm-1) e sono stati calcolati i rapporti di banda di tali picchi
caratteristici. I valori dei rapporti di banda così calcolati sono stati riportati in un grafico al fine di ottenere
una retta di lavoro, in tale grafico l’ascissa rappresenta il valore del rapporto di banda e l’ordinata la
composizione molare. Dopo aver calcolato gli stessi rapporti di banda utilizzando gli spettri ottenuti
dall’analisi sui film dei copolimeri, utilizzando la retta di taratura costruita sono state calcolate le effettive
composizioni molari dei copolimeri.
I risultati delle analisi FT-IR sono riportati schematicamente nella Tabella 7:
Composizione %
Composizione % in
Composizione %
Composizione % in
molare
Materiale
peso alimentazione
molare polimero
peso polimero
alimentazione
(MMA/BMA)
(MMA/BMA)
(MMA/BMA)
(MMA/BMA)
87.5/12.5
83/17
85.9/14.1
82.4/17.6
C87
75/25
68/32
73.5/26.5
67.1/32.9
C75
50/50
41/59
49.0/51.0
40.2/59.8
C50
Tabella 7 - Composizioni molari ed in peso dei copolimeri sintetizzati.
Da questi risultati si evidenzia come per i copolimeri il rapporto MMA/BMA nella macromolecola ottenuta
sia molto simile a quello presente nella miscela di reazione. Questo significa che la reazione semi-batch
ha effettivamente permesso di controllare la composizione della macromolecola.
Caratterizzazione termica
Sui materiali sintetizzati sono state effettuate analisi di calorimetria differenziale a scansione (DSC). Tali
analisi hanno permesso la valutazione della temperatura di transizione vetrosa (tg). I risultati ottenuti sono
riportati in Tabella 8.
Materiale tg [°C]
118
PMMA
95
C87
80
C75
45
C50
24
PBMA
Tabella 8 - Temperature di transizione vetrosa dei copolimeri sintetizzati.
53
Caratterizzazione meccanica
Sui materiali sintetizzati sono state eseguite delle prove di trazione. A tal fine, sono stati preparati dei provini di
forma “dog bone”. Lo scopo di tali prove è stato quello di ricostruire la curva σ-ε e calcolare il modulo elastico, il
σSN e σR.
Materiale E [MPa] σSN [MPa] σR [MPa]
640
70
86
PMMA
500
56
74
C87
293
40
54
C75
260
22
41
C50
131
6
27
PBMA
Tabella 9 - Proprietà meccaniche dei materiali testati.
Caratterizzazione funzionale
La caratterizzazione funzionale sui materiali sintetizzati ha riguardato: 1) la valutazione delle proprietà di rilascio
del farmaco; 2) la permeabilità diffusiva del farmaco attraverso la matrice; 3) l’adesione sulle superfici dei
dispositivi endovascolari su cui dovranno essere utilizzati.
I test di rilascio di farmaco sono stati condotti in regime diffusivo-convettivo, immergendo in una apposita soluzione
di rilascio i campioni sotto forma di membrane di spessore compreso tra 10 e 30 µm, caricate con Paclitaxel, un
farmaco antiproliferativo utilizzato per prevenire l’iperplasia e la restenosi post-stenting. I campioni sono stati
ottenuti per casting da una soluzione al 2% w/v in THF dei materiali sintetizzati, è stato effettuato per la prima volta
un caricamento variabile di farmaco all’interno delle membrane, pari a 0.5%, 1%, 3%, 5% e 10% in peso rispetto al
polimero, al fine di valutare gli effetti del diverso caricamento sulla cinetica e sul rilascio cumulativo in ambiente
fisiologico dalle matrici polimeriche. Sono stati eseguiti, ad intervalli di tempo regolari e prestabiliti, dei prelievi
della soluzione di rilascio. Tali prelievi sono poi stati analizzati mediante HPLC per valutare la quantità di farmaco
rilasciata dalla matrice polimerica. Il metodo cromatografico sviluppato utilizza una colonna di tipo Alltech
Alltima C8 specifica per il farmaco, un flusso di eluente pari a 1 ml/min costituito da ACN (58%) ed acqua
bidistillata (42%). Il detector utilizzato è di tipo UV e lavora ad una lunghezza d’onda pari a 230 nm.
I test di permeabilità del farmaco attraverso la matrice sono stati condotti in regime puramente diffusivo, utilizzando
un circuito apposito costituito da due pompe peristaltiche coassiali che provvedono alla circolazione continua di due
soluzioni, costituite da acqua ed ACN in pari proporzioni, di cui una contenente il farmaco in una quantità pari allo
0.1% w/v. Le due soluzioni lambiscono una membrana su entrambi lati, si ha quindi un passaggio di farmaco
attraverso la matrice polimerica dovuto alla sola differenza di concentrazione tra le due soluzioni. Sono stati
effettuati dei prelievi da entrambi i circuiti che contengono le soluzioni e tali prelievi sono stati analizzati mediante
HPLC utilizzando lo stesso metodo analitico descritto per l’analisi dei prelievi dei test di rilascio di farmaco.
I test di adesione sono stati condotti in soluzione fisiologica immergendo dei campioni ottenuti depositando un film
polimerico per casting da THF su supporti in acciaio AISI 316L nudo e ricoperto da uno strato in carbonio
turbostratico (carbofilm). I test di adesione hanno avuto una durata massima di 30 giorni, i campioni sono stati
monitorati ogni 24 ore. Si è visto che il comportamento delle matrici polimeriche varia in base al supporto su cui
sono state depositate (l’adesione è migliore sui supporti ricoperti con carbofilm) ed al variare della composizione
della macromolecola (l’adesione migliora per frazioni maggiori di BMA presenti nella catena macromolecolare).
Parte modellistica
Utilizzando i dati relativi alla parte sperimentale, sono stati costruiti dei modelli numerici per la descrizione del
comportamento dei materiali oggetto di studio. Sono stati generati con un risolutore agli elementi finiti dei modelli
meccanici per la valutazione delle sollecitazioni e deformazioni che i materiali subiscono in fase di applicazione
dello stent, inoltre sono stati studiati i fenomeni coinvolti nel rilascio di farmaco da matrici polimeriche biostabili
utilizzando la fluidodinamica computazionale e tre metodi di calcolo diversi (differenze finite, elementi finiti,
analogia termica). I dati di input necessari per i modelli fluidodinamici sono stati ottenuti da una elaborazione
numerica dei dati sperimentali relativi ai test di rilascio di farmaco.
Modellazione del comportamento meccanico
I risultati delle prove di trazione effettuate sui provini dog bone sono stati utilizzati come input per valutare
il comportamento meccanico di un coating che subisce le sollecitazioni legate all’impianto dello stent
(espansione, compressione e sfregamento).
Utilizzando il software agli elementi finiti Ansys 11, sono stati generati due modelli differenti:
ƒ Un modello 2D (guscio sottile), costituito da elementi SHELL42, per lo studio delle sollecitazioni
dovute all’espansione dello stent, le quali sono complanari al piano su cui giace il rivestimento. A
questo modello sono stati applicati degli spostamenti (deformazione imposta), sono state così
ottenute le tensioni al variare della composizione dei materiali.
ƒ Un modello 3D (piastra sottile), costituito da elementi SOLSH190, utilizzato per valutare gli sforzi
legati alla compressione dovuta allo schiacciamento contro la placca e lo sfregamento che si verifica
in fase di espansione. In questo caso, sono stati applicati una pressione ortogonale per simulare la
compressione ed un carico distribuito su tutta la superficie tangente ad essa per simulare lo
sfregamento (carico imposto), sono state così calcolate le deformazioni subite dal materiale.
54
1
ANSYS 11.0
NODAL SOLUTION
STEP=1
SUB =25
TIME=1
EPTOEQV (AVG)
PowerGraphics
EFACET=1
AVRES=Mat
DMX =.763473
SMN =.001462
SMX =.564543
.001462
.064026
.126591
.189156
.25172
.314285
.37685
.439414
.501979
.564543
a
ANSYS 11.0
NODAL SOLUTION
STEP=1
SUB =14
TIME=1
SEQV
(AVG)
PowerGraphics
EFACET=4
AVRES=Mat
DMX =16.578
SMN =.665266
SMX =1.178
.665266
.722228
.77919
.836153
.893115
.950078
1.007
1.064
1.121
1.178
c
PMMA
b
ANSYS 11.0
NODAL SOLUTION
STEP=1
SUB =28
TIME=1
EPPLEQV (AVG)
PowerGraphics
EFACET=1
AVRES=Mat
DMX =.798625
SMX =.370613
0
.041179
.082358
.123538
.164717
.205896
.247075
.288254
.329434
.370613
Espansione stent
PMMA - Espansione con placca calcifica
1
1
1
d
ANSYS 11.0
NODAL SOLUTION
STEP=1
SUB =1
TIME=1
EPTOEQV (AVG)
PowerGraphics
EFACET=1
AVRES=Mat
DMX =.185E-04
SMN =.539E-03
SMX =.011716
.539E-03
.001781
.003023
.004265
.005507
.006749
.00799
.009232
.010474
.011716
PMMA
Figura 17 - a) Distribuzione delle deformazioni totali nel filamento metallico, nella placca e nella parete; b)
distribuzioni di deformazioni plastiche all’interno dello stent; tensioni equivalenti di Von Mises all’interno del
coating polimerico in PMMA ottenute c) con il modello shell, d) con il modello solsh.
In Tabella 10 sono riportati i valori caratteristici ottenuti dalle simulazioni agli elementi finiti. In nessun
caso si verificano deformazioni plastiche associate alle sollecitazioni a cui sono sottoposti i materiali.
Materiale σeqv,max [MPa] εtoteqv,max
12
PMMA
5.39⋅10-4
5.4
C87
8.72⋅10-4
3.2
C75
1.22⋅10-3
2.8
C50
1.68⋅10-3
0.2
PBMA
2.71⋅10-3
Tabella 10 - Valori massimi di tensione equivalente di Von Mises e di deformazione totale equivalente
Cinetica di rilascio del farmaco
La modellazione della cinetica di rilascio di farmaco è stata effettuata a partire dai dati sperimentali ottenuti dai test
di rilascio di farmaco. Le curve di rilascio di farmaco, costruite come discusso nel paragrafo 0, sono state utilizzate
per il calcolo dei parametri cinetici di rilascio. Il modello matematico sviluppato permette di valutare la costante di
rilascio k e l’ordine di rilascio n. L’equazione necessaria a descrivere la cinetica di rilascio è la seguente:
Mt
= k ⋅tn
M0
essendo noti i valori di M t M 0 e t, è possibile calcolare k ed n utilizzando l’espressione bilogaritmica:
⎛M ⎞
log⎜⎜ t ⎟⎟ = log(k ) + n ⋅ log(t )
⎝ M0 ⎠
e quindi, utilizzando l’espressione di Mockel e Lippold si calcola il mean dissoluton time (MDT):
55
MDT =
1
−
n
⋅k n
n +1
e, conoscendo lo spessore della membrana s, il coefficiente di diffusione:
D=
π ⋅ s2
t
⋅
Mt
4⋅M0
I valori ottenuti sono riassunti in Tabella 11. Tali valori sono stati valutati come media di tre campioni di ciascun
tipo di materiale ai diversi caricamenti di farmaco. Non è stata rilevata alcuna influenza sui parametri valutati da
parte del caricamento iniziale di farmaco all’interno della matrice.
n
k
MDT [s]
Materiale D [m2/s]
PMMA
3.42⋅10-18 0.4893 0.0600 1.66⋅108
C87
2.77⋅10-18 0.3801 0.0680 1.45⋅1011
C75
2.42⋅10-17 0.1513 0.2184 1.12⋅1012
C50
1.98⋅10-17 0.1443 0.3633 5.58⋅108
PBMA
2.23⋅10-17 0.3092 0.3335 4.40⋅106
Tabella 11 - Coefficienti, ordine e costanti di diffusione e MDT dei materiali testati.
Modellazione fluidodinamica alle differenze finite
Dopo aver calcolato i coefficienti di diffusione, è stato elaborato un modello alle differenze finite mediante il codice
di calcolo Ansys Fluent 6.3. La generazione della griglia (mesh) che descrive il modello 2D è stata effettuata
utilizzando il pre-processatore Fluent Gambit 2.3. Sono stati generati due domini fluidi, uno per il coating
polimerico ed uno per la parete vasale, utilizzando una meshatura mappata costituita da elementi triangolari e
tetragonali di varie dimensioni. Per la meshatura della placca è stata utilizzata una opzione di auto-adattamento, la
quale permette di adattare la meshatura delle zone prossime al dominio che rappresenta il coating alla forma degli
elementi che giacciono sull’interfaccia dei due domini. Per tale motivo, il numero e la dimensione degli elementi
che fittano la parete vasale non è perfettamente controllabile. Poiché i risultati sono estremamente dipendenti dalle
dimensioni degli elementi, sono state costruite varie meshature con dimensioni degli elementi variabili. Nella
Tabella 12 seguente sono riassunte le caratteristiche delle meshature analizzate ed il numero di elementi presenti.
Coating
Parete
Dimensione elementi Numero elementi Dimensione elementi Numero elementi
0.0005
8279
0.0008
180720
0.001
127487
0.0008
3109
52602
0.002
0.001
2054
64725
0.0015
913
19827
0.003
16168
0.002
512
0.005
8368
Tabella 12 - Caratteristiche delle meshature studiate.
Sempre in fase di assemblaggio della meshatura, sono stati inseriti i dati relativi alle boundary conditions. Le pareti
che rappresentano l’interfaccia polimero-filamento metallico e le pareti che delimitano l’intero modello sono state
modellate in modo tale da non essere soggette a flussi di materia. L’interfaccia polimero-parete è stata invece
modellata come interior, questa condizione rappresenta una superficie fisica di separazione dei due domini, matrice
polimerica e parete, attraverso cui il software riconosce la possibile presenza di flussi di materia ma non rappresenta
un vincolo per tale flusso.
Dopo aver generato la struttura del modello, questo è stato completato con Ansys Fluent introducendo le
caratteristiche tipiche dei sistemi studiati, ossia coefficienti di diffusione (secondo il modello full multicomponent
diffusion, il quale permette di specificare per ogni specie chimica vari coefficienti di diffusione in base al mezzo in
cui diffonde), i pesi molecolari ed il valore di caricamento iniziale del farmaco all’interno del coating. I valori di
diffusione del farmaco attraverso la parete vasale sono stati reperiti in letteratura.
Per ciascuna mesh sono state effettuate delle simulazioni facendo variare la concentrazione iniziale di farmaco
all’interno del coating polimerico tra 1% w/w e 5% w/w. L’analisi è di tipo non stazionario, sono stati acquisiti i
risultati per vari intervalli di tempo entro il periodo complessivo di una settimana. È stato utilizzato un risolutore
pressure based per risolvere le equazioni relative al trasporto di materia e non sono state calcolate le equazioni
energetiche perché non di nostro interesse.
I modelli costruiti sono ancora in fase di studio, occorre valutare con precisione la dimensione minima degli
elementi che minimizza la sensibilità dei risultati dalla mesh e non è stato ancora tenuto in conto l’effetto del
metabolismo dei tessuti biologici (che porta ad un “consumo” di farmaco) e la perdita di farmaco legata al flusso
sanguigno.
Modellazione fluidodinamica agli elementi finiti
È stato inoltre costruito un modello agli elementi finiti utilizzando il codice di calcolo Ansys 11.
56
La meshatura è stata creata utilizzando il modellatore presente in Ansys, generando la geometria con un metodo
bottom up. In seguito, sono stati generati i domini che rappresentano il coating e la parete meshando le geometrie
costruite con elementi triangolari di tipo FLUID141, che è un elemento termo-fluido 2D. Sono state attivate le
equazioni di trasporto e sono state impostate le caratteristiche chimiche dei materiali utilizzati (viscosità, densità,
peso molecolare). Anche in questo caso è stata condotta una analisi dinamica, acquisendo i risultati a determinati
intervalli di tempo per un arco temporale di una settimana.
Anche per queste modellazioni, occorre ancora effettuare uno studio di sensitività dei risultati dalla dimensione della
mesh e dal caricamento iniziale di farmaco. Occorre inoltre tenere in considerazione il metabolismo e la perdita di
farmaco che si verifica a causa del flusso di sangue che lambisce parte del rivestimento polimerico non direttamente
a contatto con la parete.
a
b
Figura 18 – a) Meshatura del filamento di stent incorporato nella parete vasale. b) Distribuzione di farmaco all'interno del coating polimerico e
della parete vasale dopo 1h.
Modellazione del rilascio di farmaco mediante analogia termica
Questo tipo di analisi non appartiene alla modellazione fluidodinamica ma termica. Viene sfruttata
l’analogia tra la legge di trasporto diffusivo di calore di Fourier e la legge di trasporto diffusivo di massa di
Fick. Sono state reperite in letteratura le corrispondenze delle varie grandezze e quindi è stata condotta
una analisi dinamica.
Pubblicazioni
Articoli su rivista:
1. D. Silvestri, C. Cristallini, M. Gagliardi, M. D’Acunto, N. Barbani, G. Ciardelli, P. Giusti, Acrylic
Copolymers as Candidates for Drug Eluting Coating of Vascular Stents Part 1: Adhesion
Characterisation and Properties, submitted to Journal of Biomaterials Science. Polymer Edition.
2. D. Silvestri, M. Gagliardi, C. Cristallini, P. Giusti, Acrylic Copolymers as Candidates for Drug Eluting
Coating of Vascular Stents Part 2: Drug Release Investigation, submitted to Journal of Biomaterials
Science. Polymer Edition.
3. M. Gagliardi and D. Silvestri, Studying Mechanical Behaviour of an Implantable Vascular Stent and its
Polymer Coating Through the Finite Element Method, submitted to Medical Engineering & Physics.
Abstracts, proceedings e poster:
1. D. Silvestri, M. Gagliardi, C. Cristallini, E. Rosellini and P. Giusti, Study of Polymer Coatings for Drug
Delivery Through Experimental Characterization and Computational Modelling, 21st European
Conference on Biomaterials ESB2007, 09-13th September, 2007, Brighton, UK.
2. D. Silvestri, C. Cristallini, M. Gagliardi, N. Barbani and P. Giusti, Studio di materiali biodegradabili per
il rilascio combinato di farmaci da stent vascolari, Congresso Nazionale BIOMATERIALI 2007,
Bologna 28-29 Maggio.
57
Sicurezza di impianti convenzionali e innovativi per la
rigassificazione
di
liquidi
criogenici
infiammabili:
conseguenze dello spandimento in mare
Martina Sabatini
Tutor: Prof. Severino Zanelli
I TERMINALI DI RIGASSIFICAZIONE
La funzione principale di un terminale di rigassificazione è quella di vaporizzare l’LNG scaricato dalle navi
ed inviarlo alla rete di trasporto del gas naturale da dove viene distribuito agli utilizzatori. Il terminale deve
essere dotato di stoccaggio adeguato per compensare la discontinuità di arrivo delle navi con la
continuità di immissione in rete del gas naturale prodotto.
Un terminale di rigassificazione è costituito dalle seguenti sezioni di processo:
- Sezione di ricezione e trasferimento ai serbatoi
- Sezione di stoccaggio
- Sezione di rigassificazione e immissione in rete del prodotto rigassificato.
Nella Figura 1 è mostrato lo schema sintetico di un impianto di rigassificazione.
Figura 19: Schema di un impianto di rigassificazione
Il processo di rigassificazione consiste nel portare l’LNG dallo stato in cui si trova nei serbatoi (liquido a 160°C, 1.1 bar) allo stato finale nella pipeline di valle (gassoso a circa 10°C e alla pressione della
pipeline, intorno ai 75 bar).
Il processo economicamente più efficace consiste nel pressurizzare l’LNG alla pressione finale
(portandolo quindi da circa 1 a 75 bar) e quindi riscaldarlo a pressione costante fino alla temperatura
finale ( da circa -140 °C a + 10 °C).
La sezione di rigassificazione dell’LNG risulta quindi composta delle seguenti unità:
- Pressurizzazione dell’LNG
58
- Ricondensazione del boil-off2
- Vaporizzazione dell’LNG
- Regolazione, misura e controllo della qualità del gas in uscita dal terminale
Tutti i terminali attualmente esistenti sono situati sulla costa (ON SHORE) con grandi attrezzature portuali
per l’attracco e lo scarico delle navi metaniere, e spesso in aree densamente popolate.
Un’alternativa potenzialmente in grado di soddisfare economicamente i molti requisiti richiesti è
l’installazione OFF SHORE di un terminale galleggiante (FLOATING) situato ad alcune miglia dalla costa
e collegato a terra da una condotta sottomarina per il trasporto del gas alla rete di distribuzione. Il
concetto base di tali impianti, detti FSRU (Floating Storage and Regassification Unit) è uno scafo di
acciaio con tre serbatoi sferici alloggiati al centro. L’impianto di rigassificazione è a prua. Lo scafo è
ormeggiato con un “single point mooring” attraverso cui transita la linea che porta il gas verso il fondo e
quindi a terra. Le metaniere ormeggiano sul fianco dell’FSRU in una configurazione side by side. I sistemi
sono progettati per consentire l’accosto, l’ormeggio, lo scarico e l’allontanamento dalla metaniera in circa
20 ore. In Figura 2 riportiamo lo schema di un FSRU.
Figura 20: Schema di un FSRU tipico. In rosso è evidenziato il terminale, in azzurro la nave metaniera. Il
cerchio rosso evidenzia la sezione di rigassificazione
SICUREZZA DEGLI IMPIANTI DI RIGASSIFICAZIONE ON SHORE E FLOATING
Da un punto di vista della sicurezza, gli impianti di rigassificazione sia convenzionali che innovativi
presentano molti scenari incidentali comuni, in quanto il processo è analogo nei due casi. Vi sono però
alcuni scenari che sono tipici di ciascuna tipologia di impianto.
- ON SHORE. Lo scenario caratteristico di questa tipologia di impianti è il cosiddetto “roll-over”,
vale a dire il miscelamento improvviso di due strati di LNG che hanno diversa densità e
temperatura. Un incidente di questo genere è avvenuto in passato a Panigaglia (nei primi anni
70), ma non ha avuto conseguenze, in quanto la valvola di sicurezza e la torcia a valle hanno
gestito l’intera portata di sfiato. La PSV deve pertanto essere dimensionata per questo
scenario specifico, che è in assoluto il più gravoso in termini di portate da smaltire.
- FLOATING. Gli scenari specifici per gli FSRU sono essenzialmente due: la rottura dei bracci
di carico a causa di onde anomale, e il danno provocato dalla collisione con un mezzo navale.
In Tabella 1 e 2 riportiamo alcuni TE tipici rispettivamente di un impianto floating e on shore, mentre in
Figura 3 riportiamo gli alberi degli eventi relativi a rilasci continui e catastrofici di LNG.
Top
2
Tabella 13: Top event tipici di un impianto di rigassificazione di tipo FSRU
Frequenza
Descrizione
(ev/anno)
Roll over GNL nel serbatoio
< 1.10-6
2
I sistemi di stoccaggio e movimentazione dell’LNG assorbono calore dall’ambiente, anche se in misura limitata
grazie alle coibentazioni di tutte le apparecchiature e linee interessate. Ciò dà origine allo sviluppo di vapori di LNG
nei serbatoi (boil-off). Per evitare la pressurizzazione dei serbatoi (le cui pressioni operative sono circa 100 ÷ 200
barg in relazione alla tipologia costruttiva) il boil-off deve essere continuamente estratto e opportunamente gestito.
59
5
6
7
9
11
13
N°
1
2
3a
3b
4
5
>1.10-4
>1.10-4
6.1.10-3
4.3.10-6
6.3.10-3
1.8.10-3
Rilascio GNL per sganciamento bracci di carico
Rilascio GNL per rottura parziale bracci di carico
Rilascio GN per rottura parziale linea BOG
Formazione miscela infiammabile in linea BOG
Rilascio GNL per rottura parziale linea prelievo
Rilascio GNL per rottura parziale linea boosters
Tabella 14: Top event tipici di un impianto di rigassificazione convenzionale (on shore)
Stato
Top event
DN
T (°C)
P (atm)
Rilascio
fisico
Apertura PSV in serbatoio di
stoccaggio
Perdita da tubazione sul
pontile
Sganciamento bracci di
scarico
Perdita dai bracci di scarico
Perdita da tubazioni di
ricircolazione
Perdita all’uscita dal
ricondensatore
-163
1.2
Gas
Continuo
26’’
-163
5
Liquido
Continuo
12’’
-163
5
Liquido
Istantaneo
12’’
-163
5
Liquido
Continuo
8’’
-163
9
Liquido
Continuo
26’’
-147
9
Liquido
Continuo
Figura 21: alberi degli eventi per rilasci istantanei e continui di LNG
MODELLAZIONE DELLE CONSEGUENZE
In seguito al rilascio su acqua di LNG si forma una pozza di liquido bollente sulla superficie; pertanto la
valutazione delle conseguenza è strettamente legata al fenomeno del rilascio, dello spandimento e
dell’evaporazione del liquido dalla pozza, e in seguito alla dispersione del vapore e all’eventuale innesco
in campo di infiammabilità.
Per quando riguarda la modellistica esistente, il punto critico è la valutazione dell’evaporazione del liquido
dalla pozza, sulla quale è concentrato il presente lavoro.
EVAPORAZIONE DA POZZA BOLLENTE
Nel caso di rilascio di liquido criogenico, il fenomeno dell’ebollizione è governato essenzialmente dallo
scambio termico, vale a dire dal calore trasmesso alla pozza mediante:
60
Conduzione dalla superficie su cui si rilascia
Convezione dall’atmosfera
Irraggiamento
Nel caso di rilasci su superfici liquide, in letteratura si individuano sostanzialmente due casi limite:
- Rilascio su superfici confinate d’acqua (essenzialmente fiumi)
- Rilascio su superfici non confinate d’acqua (mare/oceano)
Nel caso di rilasci su superfici non confinate, dall’analisi storica degli incidenti e da prove effettuate su
scala medio-grande negli anni 70-80 emerge che non si ha formazione di ghiaccio sulla superficie liquida
(o se ne forma uno strato molto sottile che si rompe dopo brevissimo tempo), per via dell’efficienza dei
moti convettivi sotto la superficie che fanno sì che la temperatura all’interfaccia acqua-LNG sia da
considerare costante e uguale alla temperatura ambiente dell’acqua (intorno ai 20°C). In questo caso è
possibile descrivere il fenomeno dell’ebollizione mediante la curva mostrata in Figura 4, nella quale sono
evidenziati i 3 regimi di ebollizione che si possono individuare.
Figura 22: regimi di ebollizione. Sulle ascisse c’è il ∆T tra liquido bollente e superficie, sulle ordinate il flusso
termico in kW/mq
-
Nucleate boiling: è la fase iniziale dell’ebollizione, in cui iniziano a formarsi le bolle. Nel caso
specifico dell’LNG su acqua il meccanismo di formazione delle bolle è di tipo omogeneo, vale
a dire le bolle si formano nel bulk della pozza, a causa dell’elevato ∆T tra LNG e acqua. Nel
caso specifico dell’LNG3 a questa nucleazione si associa un fenomeno detto RPT (Rapid
Phase Transition), una esplosione non-chimica data dalla penetrazione dell’LNG sotto la
superficie marina al momento del rilascio, che aumenta l’interfaccia LNG-acqua e provoca un
cambiamento di fase estremamente rapido, se il ∆T è sufficientemente alto. Tale effetto di
sovrapressione in genere non è rilevante in confronto alle eventuali conseguenze incidentali in
caso di innesco, ma può diventare significativo in caso di grandi rilasci istantanei.
- Transition boiling: interviene quando si raggiunge il flusso termico critico; le bolle raggiungono
dimensioni maggiori e il coefficiente di scambio si abbassa fino a raggiungere il flusso minimo
di film boiling.
- Film boiling: le bolle di vapore collassano fino a formare un film di vapore tra la pozza e la
superficie. Il coefficiente di scambio termico è minore rispetto al regime nucleato, e le bolle di
vapore salgono verso il bulk a partire dal film all’interfaccia.
Nel caso di rilasci su superfici confinate, evidenze sperimentali (tra cui Vesovic 2006) mostrano che si
forma uno strato di ghiaccio sulla superficie dell’acqua, sul quale avviene l’ebollizione della pozza. In
questo caso il regime iniziale di ebollizione è il film boiling, dopodiché il film di vapore collassa e si
instaura il nucleate boiling, durante il quale l’ebollizione è governata dalla conduzione del calore
attraverso lo strato di ghiaccio.
EQUAZIONI
3
Si deve precisare che il fenomeno RPT si verifica solo in caso di LNG in quanto miscela di idrocarburi diversi,
mentre non si hanno evidenze di tale fenomeno nel caso di metano puro.
61
Le equazioni che rappresentano la vaporizzazione di LNG (modellato come metano puro) su una
superficie liquida in quiete sono le seguenti:
dM
= −m' '⋅R 2
(1)
dt
dR
A ⋅M
(2)
=
dt
R
dove M e R sono rispettivamente la massa di LNG nella pozza e il raggio della pozza stessa. A e m” sono
due parametri che proporzionali rispettivamente alla velocità di spandimento della pozza e al rateo di
evaporazione, e vengono espressi secondo la (3) e la (4):
⎡ g ⋅ (ρ w − ρLNG ) ⎤
(3)
A = 2.69⎢
⎥
⎣ π ⋅ ρ w ⋅ ρLNG ⎦
(T − TLNG )
(4)
m" = π ⋅ h ⋅ W
L LNG
dove g è l’accelerazione di gravità, h il coefficiente di trasferimento di calore, L il calore latente di
evaporazione dell’LNG.
Le equazioni (1) e (2) sono valide in termini generali: m” e A vengono invece valutati diversamente a
seconda delle condizioni in cui avviene lo spandimento. In particolare nel caso di rilasci su masse
d’acqua non confinate m” è da ritenersi costante (perché la temperatura dell’acqua all’interfaccia può
essere considerata costante), così come A (gli alti ratei di evaporazione rendono lo spandimento
governato essenzialmente dalle forze gravitazionali inerziali, e dunque la forza motrice è rappresentata
dall’altezza della pozza, mentre l’inerzia dell’acqua fornisce un ostacolo all’espansione. Il valore numerico
di A viene comunque valutato sperimentalmente).
Integrando analiticamente sotto queste condizioni le equazioni (1) e (2) si ottiene un’espressione che
fornisce la relazione per il rateo di evaporazione in funzione della massa rimanente, cioè:
1
3 ⎞ 2
dM
2
⎛ 3
=
⋅ B ⋅ ⎜ M0 2 − M 2 ⎟ ; dove B = 2m"⋅A 0.5
(5)
dt
⎝
⎠
3
Integrando si può ricavare tf, cioè il tempo di evaporazione totale della massa di LNG di questo tipo:
1
⎛ M ⎞ 4
t f = c ⋅ ⎜ 20 ⎟
(6)
⎝ m" ⋅A ⎠
dove M0 è la massa di LNG rilasciata.
La costante c varia nei lavori reperiti in letteratura di un range di circa il 10%, a seconda delle ipotesi
iniziali prese (in particolare se si considera lo spandimento sufficientemente veloce si può modellarlo
trascurando l’evaporazione: in questo caso la massa rimane costante. In caso contrario si deve tenere
conto della variazione della massa nel tempo).
Nel caso di rilascio su una superficie d’acqua confinata, si ha formazione di uno strato di ghiaccio
all’interfaccia acqua – LNG. Una volta formato lo strato, il calore rimosso dall’evaporazione del criogenico
porta ad un’ulteriore diminuzione della temperatura del ghiaccio all’interfaccia. In sintesi il trasferimento di
calore dal bulk dell’acqua alla pozza avverrà per conduzione, prima attraverso lo strato limite termico
dell’acqua liquida, poi attraverso lo strato (che aumenta mano a mano di spessore) di ghiaccio. La legge
di Fourier può dunque descrivere il trasferimento di calore sotto queste condizioni, ovviamente
considerando la presenza dello strato di ghiaccio e dunque con costanti termodinamiche diverse a
seconda della profondità:
∂TW
∂ 2 TW
= kW
;
z>ε
(7)
∂t
∂z 2
∂Ti
∂2 T
= k i 2i ; 0 ≤ z < ε
(8)
∂t
∂z
∂ε
∂T
∂T
ρW ⋅ L W ⋅
= λi i
− λW W
;
z=ε
(9)
∂t
∂z z = ε
∂z z = ε
dove LW è il calore di fusione dell’acqua e k e λ rispettivamente le diffusività e le conduttività termiche, e ε
è lo spessore dello strato di ghiaccio.
La suddetta diminuzione della T del ghiaccio all’interfaccia con l’LNG è alla base della variazione del
regime di ebollizione, che da film boiling passa a nucleate boiling (la diminuzione della T porta al collasso
del film di vapore) portando ad una diminuzione del rateo di evaporazione del metano (il coefficiente di
trasferimento di calore h è inversamente proporzionale allo spessore dello strato di ghiaccio).
62
ULTERIORI PARAMETRI CHE INFLUENZANO IL FENOMENO
I parametri che possono influenzare l’ebollizione di LNG sull’acqua rispetto alla trattazione fin qui
esaminata sono essenzialmente:
a. Il moto ondoso dell’acqua
b. La composizione chimica della miscela di idrocarburi
c. La turbolenza che interessa il punto dell’impatto tra il getto di LNG e la superficie dell’acqua
Per quanto riguarda i fattori b) e c), essi sono stati analizzati in alcuni lavori (tra cui Vesovic e Conrado
2000), dai quali emerge che:
- Il modellare LNG come metano puro induce ad una sottostima dei tempi di rilascio non
trascurabile (dell’ordine del 10-15%) e ad un errore nella valutazione del rateo di
evaporazione durante tutto il fenomeno dell’ebollizione, che tuttavia mantiene il medesimo
andamento in entrambi i casi (fatta salva l’ipotesi di una corretta e precisa valutazione delle
variabili termodinamiche in entrambi i casi)
- La locale turbolenza data dall’impatto del getto in acqua provoca, prevedibilmente, un locale
aumento dell’evaporazione, dato dal locale aumento della superficie di contatto tra LNG e
acqua.
Relativamente all’effetto del moto ondoso, scarsi esperimenti sono stati condotti in merito. La quasi
totalità dei dati sperimentali disponibili sono relativi a superfici in quiete, e solo in alcuni approcci si è
tenuto conto dell’effetto del moto ondoso, sostanzialmente per valutare il diverso spandimento della
pozza (in sintesi viene ipotizzato che lo spandimento termini al momento in cui lo spessore della pozza
abbia raggiunto un’altezza pari al 60% dell’altezza dell’onda). Tuttavia da più parti si solleva l’esigenza di
ulteriori indagini in merito, specie allo scopo di ottenere dati sperimentali per supportare il lavoro di
modellazione. In particolare il moto ondoso e in particolare i moti convettivi degli strati superficiali
dell’acqua possono influire nel meccanismo della conduzione del calore (vedi equazioni (7), (8) e (9) e
Figura 5), sostituendo alla conduttività termica molecolare una conduttività termica effettiva, che porta ad
un aumento della T all’interfaccia acqua – LNG rispetto al caso di acque ferme.
Figura 23: schematizzazione dei moti convettivi che interessano gli strati superficiali dell'acqua
Al fine di indagare più approfonditamente tale fenomeno si inserisce la proposta sperimentale (in fase di
realizzazione) del presente lavoro di dottorato.
L’APPARATO SPERIMENTALE
L’apparato sperimentale ideato per il presente lavoro di dottorato consiste in una vasca in plexiglass (il
cui progetto è mostrato nelle Figure seguenti) con applicato un sistema che permette la creazione di un
moto ondoso. Le finestre inserite nei lati permetteranno l’inserimento di termocoppie per valutare lo
spandimento della pozza di criogenico (al momento si pensa di utilizzare N2), sia in condizioni di acqua
calma che in presenza di moto ondoso.
63
Figura 24: Disegno del'apparato sperimentale
PRINCIPALI RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
V. Vesovic, The influence of ice formation on vaporization of LNG on water surfaces, J. Hazardous
Materials (2006)
C. Conrado, V. Vesovic, The influence of chemical composition on vaporization of LNG and LPG on
unconfined water surfaces, Chem. Eng. Science (2000)
PUBBLICAZIONI
M. Sabatini, V. Cozzani, S. Zanelli, Valutazione della vulnerabilità di impianti chimici ad azioni di
sabotaggio, VGR 2006, Pisa
V. Cozzani, E. Salzano, M. Campedel, M. Sabatini, G. Spadoni, The assessment of major accident
hazards caused by external events, 12th International Symposium on Loss Prevention and Safety
Promotion in the Process Industries, Edimburgh, 22–24th May, 2007.
M. Sabatini, V. Cozzani, S. Zanelli, Assessment of the vulnerability of industrial sites to acts of
Interference, ICheaP-8 - The eight International Conference on Chemical & Process Engineering, Ischia,
24-27 June, 2007
M. Sabatini, V. Cozzani, S. Zanelli. Intentional acts of interference: attractiveness and vulnerability of
industrial sites. Icheap8 Selected Papers, AIDIC Conference Series, vol. 8, 2007.
M. Sabatini, V. Cozzani, S. Zanelli, Hazard assessment of major accidents triggered by intentional
acts of interference, PSAM9 – Ninth International Probabilistic Safety Assessment and management
Conference, Hong Kong, 18-23 May, 2008 (accepted abstract)
64