RASSEGNA DELLE ATTIVITA` DI RICERCA DEGLI
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RASSEGNA DELLE ATTIVITA` DI RICERCA DEGLI
Scuola di Dottorato in Ingegneria “Leonardo da Vinci” Corso di Dottorato di Ricerca in INGEGNERIA CHIMICA E DEI MATERIALI RASSEGNA DELLE ATTIVITA’ DI RICERCA DEGLI STUDENTI DI DOTTORATO Anno 2008 Indice Programma della giornata Barbieri Produzione di nuovi leganti polimerici energetici per propellenti solidi. 3 5 Marazzato Produzione e caratterizzazione di nanocompositi a matrice poliolefinica per impieghi in agricoltura. 7 Micaelli Reologia dei materiali cementizi. 11 Molin Separazione di fase e miscelazione di liquidi. 15 Landucci Sviluppo di schermi termici per getti incendiati e modellazione del loro comportamento. 19 Micchi Sviluppo di strategie di monitoraggio ed identificazione per controllori predittivi. 23 Puccini Tecnologie innovative per il trattamento dei sottoprodotti del ciclo conciario e loro impiego in materiali ecocompatibili. 29 Parente Produzione ed utilizzo di idrogeno da carbone e biomasse. 35 Viva Analisi sperimentale e modellazione di riempimenti di nuova concezione per l’impiego in distillazione reattiva eterogenea. 40 Bientinesi Separazione di idrogeno da gas di sintesi mediante membrane 46 Gagliardi Studio sperimentale e modellistico di nuovi biomateriali per applicazioni cardiovascolari avanzate. 52 Sabatini Sicurezza di impianti, convenzionali e innovativi, per la rigassificazione di liquidi criogenici infiammabili: conseguenze dello spandimento in mare. 58 2 16 gennaio 2008 Programma della giornata Ore 9,00 Dott. Ugo Barbieri Titolo: Produzione di nuovi leganti polimerici energetici per propellenti solidi. Tutori: Prof. Magagnini, Ing. Polacco Ore 9,40 Ing. Cristina Marazzato Titolo: Produzione e caratterizzazione di nanocompositi a matrice poliolefinica per impieghi in agricoltura. Tutori: Prof. Magagnini, Ing. Polacco, Dott. Filippi Ore 10,20 Dott. Francesca Micaelli Titolo: Reologia dei materiali cementizi. Tutori: Prof. Levita, Prof. Marchetti, Dott. Gallone Ore 11,00 Break Ore 11,20 Dott. Dafne Molin Titolo: Separazione di fase e miscelazione di liquidi. Tutori: Prof. Mauri Ore 12,00 Ing. Gabriele Landucci Titolo: Sviluppo di schermi termici per getti incendiati e modellazione del loro comportamento. Tutore: Prof. Zanelli Ore 12,20 Ing. Andrea Micchi Titolo: Sviluppo di strategie di monitoraggio ed identificazione per controllori predittivi. Tutori: Prof. Brambilla, Ing. Pannocchia Pausa pranzo Ore 14,30 Ing. Monica Puccini Titolo: Tecnologie innovative per il trattamento dei sottoprodotti del ciclo conciario e loro impiego in materiali ecocompatibili. Tutori: Prof. R. Tartarelli, Prof. S. Vitolo, Ing. M. Seggiani Ore 14,50 Ing. Alessandro Parente Titolo: Produzione ed utilizzo di idrogeno da carbone e biomasse. Tutori: Prof. Tognotti, Ing. Galletti Ore 15,10 Ing. Aurora Viva Titolo: Analisi sperimentale e modellazione di riempimenti di nuova concezione per l’impiego in distillazione reattiva eterogenea. Tutore: Prof. E. Brunazzi Ore 15,30 Ing. Matteo Bientinesi Separazione di idrogeno da gas di sintesi mediante membrane Tutore: Prof. Petarca 3 Ore 15,50 Ing. Mariacristina Gagliardi Studio sperimentale e modellistico di nuovi biomateriali per applicazioni cardiovascolari avanzate. Tutore: Prof. Giusti. Ore 16,10 Ing. Martina Sabatini Sicurezza di impianti, convenzionali e innovativi, per la rigassificazione di liquidi criogenici infiammabili: conseguenze dello spandimento in mare. Tutore: Prof. Zanelli Ore 16,30 Break Ore 17,00 Ing. Giovanni Cascione Ore 17,05 Ing. Andrea Chiappini Ore 17,10 Ing. Silvia Farsetti Ore 17,15 Dott. Fabia Galantini Ore 17,20 Ing. Elisabetta Guerrazzi Ore 17,25 Ing. Marco Simone Ore 17,30 Dott. Markanday Sureshkumar Ore 17,35 Dott. Ou Tengjiao Ore 17,40 Dott. Shi Xuetao Ore 17,45 Dott. Marco Cirillo Ore 17,50 Dott. Ciro Morlino 4 PRODUZIONE DI NUOVI LEGANTI POLIMERICI ENERGETICI PER PROPELLENTI SOLIDI Dott. Ugo Barbieri Come previsto dal Corso di Dottorato in Ingegneria Chimica, l’attività di ricerca svolta nel periodo 01/01/2007-31/12/2007, nell’ambito del progetto di studio di nuovi leganti “energetici” per propellenti solidi, può essere sintetizzata come segue: • Studio della reazione di polimerizzazione dei polimeri precursori di pAMMO (poly-3-azidometil-3metil ossetano) e GA-co-BAMO (Glycidyl azide-co-3,3-bis(azidometil) ossetano; • Determinazione di unita idrossiliche terminali e oligomeri al fine di ottimizzare le prestazioni meccaniche di polimeri azidici; • Identificazione di tecniche di purificazione dei polimeri da sottoprodotti oligomerici; • Scale up copolimero GA-BAMO 75:25 (in collaborazione con ICT Fraunhofer, Karlsruhe (Germania) dove ho soggiornato dal 15/06/2007 al 31/07/2007); • Scale up pAMMO; • Studio reologico e meccanico del copolimero GA-BAMO durante la fase di reticolazione con poliisocianati. Studio della polimerizzazione del TMMO; unità idrossiliche e oligomeri L’obiettivo del presente studio è stata l’ottimizzazione della sintesi del pTMMO (poly-3-tosyloxymetyl-3methyl oxetane), precursore non energetico di pAMMO. Attraverso la scelta di promotori idrossiterminati, l’utilizzo di rapporti catalizzatore/promotore specifici e la lenta introduzione del monomero nel mezzo di reazione, si è cercato di identificare le migliori condizioni di reazione affinché la polimerizzazione potesse decorrere secondo un meccanismo cationico vivente (AMM), in modo tale da avere un miglior controllo sulle proprietà finali dell’omopolimero. pTMMO è stato ottenuto con rese estremamente elevate (circa 90%) e completamente caratterizzato (FT-IR, 1 H-NMR, GPC, determinazione OH terminali). Sono stati ottenuti polimeri di basso peso molecolare (Mn circa 5000), aventi bassa polispersione e con un numero di unità ossidriliche terminali per macromolecola ben definito (generalmente compreso tra 1 e 1.5). Inoltre sono stati identificati sottoprodotti oligomerici, in percentuale variabile tra 0,2 e 2% w, a seconda delle condizioni di polimerizzazione. Studio della copolimerizzazione ECH/BBrMO; unità idrossiliche e oligomeri L’obiettivo del presente studio è stata l’ottimizzazione della sintesi del copolimero ECH/BBrMO (Epicloroidrina/3,3-bis(bromometil) ossetano), precursore non energetico di GA-co-BAMO, analogamente a quanto fatto precedentemente per il pTMMO. Il copolimero ECH/BBrMO è stato ottenuto con rese elevate (circa 85%) e completamente caratterizzato (FTIR, 1H-NMR, GPC, determinazione OH terminali). La composizione del copolimero 75:25 (ECH:BBrMO) è stata giudicata ottimale poiché una maggiore presenza di BBrMO aumenterebbe il contenuto di N del copolimero a discapito del suo carattere amorfo, indispensabile per garantire proprietà elastomeriche al legante. Sono stati ottenuti polimeri di basso peso molecolare (Mn circa 1300), aventi bassa polispersione e con un numero di unità ossidriliche terminali per macromolecola ben definito (generalmente compreso tra 1 e 1.5). Inoltre sono stati identificati sottoprodotti oligomerici, in percentuale variabile tra 6 e 12% w, a seconda delle condizioni di polimerizzazione. L’elevata percentuale di oligomeri e il valore di peso molecolare, inferiore a quello calcolato supponendo la propagazione vivente (AMM) delle catene, hanno suggerito una possibile competizione tra AMM e ACE, non vivente; quest’ultimo meccanismo di reazione ammette reazioni di termine, responsabili della formazione di oligomeri. Purificazione del copolimero grezzo La presenza di oligomeri nella massa polimerica non costituisce un problema, in quanto essi agiscono come plastificante; tuttavia è necessario identificare un metodo che consenta il controllo della loro concentrazione, in modo tale da modulare le proprietà meccaniche del legante energetico. Poiché i tentativi di controllo durante la fase di polimerizzazione hanno avuto scarso successo, è stato messo a punto un processo di estrazione degli oligomeri che consiste nel trattare il copolimero grezzo in n- 5 esano a riflusso. Questa operazione sfrutta la differenza di miscibilità di oligomeri e polimero GA-co-BAMO in solventi non polari, quali il n-esano; i primi, meno polari del polimero in quanto privi di funzionalità ossidriliche, hanno un affinità maggiore con il solvente e pertanto sono più solubili. Pertanto questo processo di purificazione, applicato al copolimero GA/BAMO (75/25), permette anche di incrementare le funzionalità OH terminali e di conseguenza la capacità di reticolazione, che avviene per reazione delle terminazioni OH con gruppi isocianato. L’analisi GPC ha infatti mostrato come effettivamente il processo abbia avuto successo; infatti è stato possibile rimuovere fino a circa 1/3 degli oligomeri rispetto alla quantità inizialmente presente, incrementando i gruppi idrossilici terminali per macromolecola da 1,23 a 1,37. Per rimuovere quantitativamente la frazione oligomerica presente nel polimero grezzo si potrà agire secondo due differenti strategie: - aumentare il volume di n-esano; - sottoporre il polimero a stadi di estrazione in serie con n-esano. Scale up del copolimero GA-BAMO 75:25 Lo scale-up della sintesi del copolimero GA/BAMO 75:25 è stata effettuata in collaborazione con il centro di ricerca ICT-Fraunhofer di Karlsruhe in Germania. In questo modo è stato preparato circa 1 Kg di copolimero GA/BAMO, attraverso i due seguenti stadi sintetici; 1) Copolimerizzazione di ECH con BBrMO (rapporto monomerico iniziale 75:25), catalizzata per TFBE (Trifluoruro di Boro eterato) e 1,4-butandiolo (rispettivamente il 4% and 2%mol rispetto alla somma dei monomeri) ed utilizzando diclorometano come solvente, a temperatura ambiente; 2) Azidazione del copolimero alogenato utilizzando NaN3 (eccesso 1.75% mol) in DMSO, a circa 95°C. Sia il copolimero azidico, sia l’intermedio alogenato sono stati caratterizzati attraverso tecniche spettroscopiche (FT-IR, 1H-NMR, 13C-NMR), cromatografiche ed analisi elementare; le unità ossidriliche terminali sono state determinate per titolazione. I risultati ottenuti sono comparabili a quelli ottenuti su piccola scala sia in termini di resa, che in termini di caratteristiche chimico-fisiche del prodotto; in particolare, la percentuale di oligomeri ciclici e il numero si funzionalità ossidriliche per macromolecola sono risultati essere rispettivamente 6,7%w e 1.33 per il polimero azidato. Scale up del pAMMO Lo scale-up del pAMMO ha permesso di sintetizzare 200 g di polimero azidato attraverso i tre seguenti stadi: 1) Sintesi del TMMO a partire dal HMMO (3-hydroxymethyl-3-methyl oxetane), prodotto commerciale 2) Omopolimerizzazione del TMMO, catalizzata per TFBTHF (Trifluoruro di boro compessato con THF) e 1,4-butandiolo (rispettivamente il 4% and 2%mol rispetto alla somma dei monomeri) ed utilizzando diclorometano come solvente, a temperatura ambiente; 3) Azidazione del copolimero alogenato utilizzando NaN3 (eccesso 1.75% mol) in DMSO, a circa 120°C. La caratterizzazione spettroscopica (FT-IR e 1H-NMR) del pAMMO e del suo precursore hanno confermato la struttura attesa del polimero. Non è ancora disponibile l’analisi GPC e dunque non è possibile quantificare ne la percentuale di oligomeri ne la concentrazione di funzionalità ossidriliche terminali. Studio reologico e meccanico del copolimero GA-BAMO Prove preliminari di reticolazione hanno mostrato che il copolimero GA-BAMO 75:25 reagisce con Desmodour N-100 (una miscela di di e tri isocianati) a 60°C, trasformadosi da liquido molto viscoso a gomma elastomerica. Infatti le unità ossidriliche terminali del copolimero reagiscono con i gruppi isocianato, generando legami uretanici che consentono la formazione di cross-link tra le catene polimeriche. E’ stato verificato che, utilizzando un rapporto NCO/OH=1, circa il 60-70% in peso del polimero iniziale subisce la reazione di reticolazione. La cinetica di reazione è funzione della quantità di catalizzatore utilizzato (DBTL, Dibutyltin dilaurate); inoltre in alcune prove, sono stati aggiunti K54 (ancamina) e DOZ (Dioctyl azelate) nella mescola, rispettivamente col ruolo di accelerante e plastificante. E’ stato studiato il comportamento viscoelastico del copolimero GA/BAMO in funzione della temperatura, nel range compreso tra 45 e 65°C; la cinetica di reticolazione, i valori del modulo complesso G* e dell’angolo di fase sono coerenti e comparabili a quelli relativi all’HTPB (polibutadiene idrossi-terminato), base polimerica dei leganti attualmente utilizzati nei vettori aerospaziali. Alcune prove sono state effettuate in presenza di particelle di materiali elastici in modo tale da simulare la reticolazione del polimero in presenza della carica redox del propellente; in particolare, ci è stato suggerito da tecnici AVIO di utilizzare zucchero, allumina e K2SO4, rispettivamente al 39%, 27% e 20% rispetto al carico totale, riferito a prove relative all’HTPB. Anche in questo caso, la cinetica, G* e l’angolo di fase sono risultati comparabili a quelli relativi all’HTPB; tuttavia è stato necessario aumentare la componente polimerica nella mescola iniziale dal 14-18% (valore HTPB) al 20-26% (valore GA-co-BAMO), a causa del minor peso molecolare di quest’ultimo. 6 PRODUZIONE E CARATTERIZZAZIONE DI NANOCOMPOSITI A MATRICE POLIOLEFINICA PER IMPIEGHI IN AGRICOLTURA Dottorando: Ing. Cristina Marazzato Docenti / Ricercatori: Prof. P.L. Magagnini Ing. G. Polacco Dott. S. Filippi SCOPO DELLA RICERCA Preparazione e caratterizzazione di nuovi materiali nanocompositi a matrice polimerica da impiegare per la produzione di film per applicazioni in agricoltura. Questi film devono presentare una serie di caratteristiche non sempre facilmente ottenibili da un solo materiale, specialmente considerando l’esigenza imprescindibile del basso costo. In particolare, le proprietà meccaniche, quali la rigidità, la resistenza allo strappo e l’allungamento a rottura, devono essere ottimizzate e devono risultare sufficientemente stabili nel tempo. Particolarmente importanti sono anche le proprietà ottiche, la resistenza alla foto-ossidazione e la permeabilità ai gas. I polimeri normalmente utilizzati per questi scopi sono a base di polietilene a bassa densità (LDPE), di copolimeri etilene-vinilacetato (EVA) o di miscele dei due (PE-EVA). Si tratta di materiali di costo contenuto, ma che sono soggetti a fenomeni di fotodegradazione con conseguenti alterazioni delle proprietà e limitazione del tempo di vita. L’uso di nanocompositi potrebbe consentire, a fronte di un modesto aumento del costo legato alla necessaria aggiunta di piccole quantità di argille organofile, di disporre di materiali con caratteristiche meccaniche migliorate e, soprattutto, con proprietà ottiche e barriera ottimizzate per impieghi come teli per serre. NANOCOMPOSITI I nanocompositi a matrice polimerica costituiscono una nuova classe di materiali, sviluppata nell’ultimo decennio, che ha incontrato un fortissimo interesse sia a livello industriale che accademico. Si tratta di particolari materiali compositi nei quali le particelle della carica inorganica hanno almeno una dimensione nell’ordine dei nanometri. In particolare, le cariche usate per i nanocompositi considerati nel presente studio sono rappresentate da argille appartenenti alla famiglia dei fillosilicati (montmorillonite, bentonite, etc.). Esse sono formate da pacchetti di lamelle con spessore di circa 1 nm, mentre le altre dimensioni sono di qualche micron: pertanto, qualora disperse in forma delaminata in una matrice polimerica, esse possono dar luogo a compositi con area interfacciale elevatissima, anche se usate in proporzione di poche unità percentuali. Queste argille, inoltre, si prestano ad essere modificate per scambio ionico con adatti tensioattivi organici in modo da migliorare la loro compatibilità con i polimeri. Miscelando nello stato fuso un polimero con un’argilla si possono ottenere tre tipi di materiali: un microcomposito tradizionale, se l’affinità tra polimero e argilla è ridotta e la dispersione è grossolana; un nanocomposito intercalato quando l’affinità è abbastanza alta da permettere alle macromolecole di polimero di penetrare negli spazi interlamellari causandone una espansione, senza che sia tuttavia distrutta la periodicità strutturale; un nanocomposito esfoliato, quando l’interazione è così elevata da permettere la completa delaminazione dell’argilla e la dispersione omogenea delle lamine elementari nella matrice. Questo terzo tipo di morfologia è in genere quello che permette di ottenere il massimo miglioramento delle proprietà, rispetto a quelle del polimero di partenza. MATERIALI UTILIZZATI Nella ricerca che forma l’oggetto della presente tesi, sono stati utilizzati i polimeri e le argille indicati nelle tabelle seguenti. Nome Commerciale Produttore FC30 Riblene Polimeri Europa FG166 Clearflex Polimeri Europa POLIMERI Caratteristiche Densità (kg/m3) MFI a) (g/10min) LDPE 922 0.27 LLDPE 919 0.9 7 Eltex BP-Solvay HDPE 960 0.81 Escor 5100 Exxon-Mobil Chemical Copolimero etileneacido acrilico 11% 940 8.0 Escor 5000 Exxon-Mobil Chemical Copolimero etileneacido acrilico 6% 931 8.0 Escor 5001 Exxon-Mobil Chemical Copolimero etileneacido acrilico 6% 931 2.0 Polybond 1009 Crompton Corp 950 5.0 Polybond 3009 Crompton Corp 950 5 Polybond 3109 Crompton Corp 926 30 Greenflex FC45 Polimeri Europa HDPE aggraffato con 6% di acido acrilico HDPE aggraffato con 1% di anidride maleica LLDPE aggraffato con 1% di anidride maleica Copolimero etilenevinilacetato 14% Greenflex HN70 Polimeri Europa 0.3 Copolimero etilenevinilacetato 28% 2.5-6 a) Melt flow index (ASTM D1238). Nome commerciale Cloisite 15A Cloisite 20A Cloisite 30B ARGILLE (montmorilloniti organicamente modificate) Produttore Modificante Southern Clay Prod. Inc. Southern Clay Prod. Inc. Southern Clay Prod. Inc Dimethyl, dihydrogenated tallow, quaternary ammonium Dimethyl, dihydrogenated tallow, quaternary ammonium Methyl, tallow, bis-2-hydroxyethyl, quaternary ammonium M.E.R. (meq/100g) 125 d001 (nm) 3.24 95 2.52 90 1.84 RISULTATI I nanocompositi sono stati preparati per miscelazione nel fuso, in un miscelatore statico Brabender Plasticorder con una camera di 50 mL di volume. Il polimero in pellets e l’argilla in polvere sono stati inseriti nel miscelatore preriscaldato a temperature di circa 20°C superiori alla temperatura di fusione del polimero e lavorati per circa 10 min a 60 rpm. I compositi ottenuti sono stati poi studiati con varie tecniche: - Analisi diffrattometrica ai raggi-X ad ampio angolo (WAXD) in un intervallo 1.5<2θ<30 di dischetti di 20 mm di diametro e di 2 mm di spessore, stampati per pressofusione a 190°C e fatti raffreddare lentamente; - Analisi al microscopio elettronico in trasmissione (TEM) dei campioni tal quali effettuata presso l’Università di Genova; - Analisi termica mediante calorimetria a scansione differenziale (DSC), eseguita nell’intervallo 50190°C con velocità di 10°C/min, e studio della cristallizzazione isoterma, eseguito alle temperature di 116, 118, 120 e 122°C su alcuni campioni rappresentativi; - Studio della cristallizzazione non isoterma eseguito al microscopio ottico in luce polarizzata per raffreddamento da 190°C alla velocità di 10°C/min ed analisi morfologica delle strutture cristalline prodotte sia in condizioni non isoterme che isoterme (a T=Tc+5°C); - Analisi termogravimetrica (TGA) delle varie argille, per verificarne il contenuto di materiale organico, e di alcune miscele, per verificare il contenuto di argilla e per studiarne la termodegradazione in presenza di azoto e di aria; - Prove reologiche e meccaniche condotte presso l’Università di Palermo; I polietileni tal quali non mostrano una sufficiente affinità con le argille, anche se organicamente modificate. Di conseguenza, miscelando il polietilene puro con un’argilla si ottiene un microcomposito con proprietà non ottimali per la preparazione di film. È perciò necessario aggiungere al polietilene un compatibilizzante capace di migliorarne le interazioni con l’argilla. Nel presente lavoro di tesi sono stati quindi preparati e caratterizzati diversi compositi ottenuti utilizzando, come compatibilizzanti, una serie di copolimeri dell’etilene 8 con monomeri polari. Sono stati considerati, in particolare, i copolimeri etilene-acido acrilico (EAA), etileneanidride maleica (PEMA) ed etilene-vinilacetato (EVA). Mentre i copolimeri PEMA ed EVA erano già stati descritti nella letteratura come matrici per nanocompositi ed avevano dimostrato una buona affinità per alcune argille organofile commerciali, i copolimeri EAA non erano stati oggetto di precedenti studi. La scelta dei tre tipi di copolimeri indicati era basata sulla loro elevata compatibilità nei confronti del polietilene. I nanocompositi prodotti con PEMA (con percentuali in peso di anidride maleica dell’1% circa) presentano morfologie di tipo esfoliato, rilevate dagli spettri WAXD e confermate attraverso analisi TEM. La caratterizzazione termica di questi compositi ha dimostrato che le temperature di fusione e di cristallizzazione non subiscono variazioni di rilievo per aggiunta dell’argilla, anche se l’analisi morfologica effettuata al microscopio ottico in luce polarizzata (POM) ha rivelato un’apprezzabile riduzione delle dimensioni degli sferuliti che può essere correlata con un effetto nucleante del fillosilicato. L’analisi DSC non riesce a mettere in evidenza questo effetto, probabilmente a causa della elevata velocità di cristallizzazione del polimero. Le prove reologiche e meccaniche mostrano un miglioramento consistente delle proprietà del polimero dovuto alla presenza dell’argilla. I copolimeri PE-g-MA sono stati anche utilizzati come compatibilizzanti per nanocompositi a matrice polietilenica, miscelandoli in percentuali variabili con i polietileni puri e mantenendo costante la quantità di argilla (5% in peso); l’analisi morfologica ha dimostrato che la struttura esfoliata è mantenuta purché il rapporto in peso tra PE-g-MA e argilla resti >10. Questi risultati sono stati riportati in una presentazione orale (C. Marazzato, S. Filippi, P. Magagnini, Y. Peneva, N.Tzankova Dintcheva, F.P. La Mantia; Nanocompositi da polietileni e copolimeri PE-g-MA con diversa struttura molecolare) al XVII Convegno Italiano di Scienza e Tecnologia delle Macromolecole. I compositi a base di EAA mostrano all’analisi diffrattometrica strutture di tipo intercalato, indipendentemente dal tipo di modificante organico dell’argilla; inoltre confrontando le argille caratterizzate dallo stesso tipo di modificante, ma con diverso livello di scambio si osserva che la capacità di intercalazione non dipende dalla spaziatura iniziale delle lamelle di silicato in quanto il tensioattivo in eccesso rispetto alla capacità di scambio dell’argilla diffonde nella massa di polimero all’atto della miscelazione. Anche un aumento della quantità di argilla aggiunta ai copolimeri EAA non modifica la struttura intercalata del composito.. Tale struttura resta inalterata anche sostituendo buona parte del copolimero con LDPE. L’elevata affinità dei gruppi carbossilici liberi dei copolimeri EAA nei confronti delle lamelle di silicato è probabilmente responsabile di questo comportamento: data la concentrazione relativamente elevata di gruppi funzionali, le macromolecole di copolimero penetrano facilmente nelle gallerie dell’argilla dando luogo ad una sorta di effetto di incollamento (“glue effect” proposto da alcuni autori sulla base di modelli teorici), impedendo l’ulteriore ingresso di polimero e la completa esfoliazione dei pacchetti di lamelle. L’analisi termica dei compositi a base di EAA, effettuata mediante DSC e POM, ha portato a risultati sostanzialmente simili a quelli ottenuti per i copolimeri contenenti anidride maleica. Le analisi reologiche e meccaniche anche in questo caso hanno mostrato miglioramenti delle proprietà del polimero di partenza. Anche questo studio è stato descritto in una presentazione orale (S. Filippi, C. Marazzato, P. Magagnini, N.Tzankova Dintcheva, F.P. La Mantia; Nanocomposites from poly(ethylene-co-acrylic acid) copolymers and a Zn-ionomer) al XVII Convegno Italiano di Scienza e Tecnologia delle Macromolecole ed in due pubblicazioni su riviste internazionali (P. Magagnini, S. Filippi, C. Marazzato, F.P. La Mantia, L.I. Minkova; Morphology of nanocomposites from ethylene- acrylic acid copolymers; e-Polymers 2005, n°86; S. Filippi, C. Marazzato, P. Magagnini, L. Minkova, N. T. Dintcheva, F.P. La Mantia; Organoclay nanocomposites from ethylene-acrylic acid copolymers; Macromolecular Materials and Engineering, 291, 1208-1225, 2006) Su alcuni di questi compositi, con il 5 e il 10% di Cloisite 15A, e con matrice rappresentata da Escor 5100, Polybond 3009 e miscele HDPE/Polybond 3009 di composizione 50/50 e 80/20, è stato fatto uno studio della termodegradazione in ambiente inerte (N2) e ossidante (aria), usando campioni di circa 5 mg, riscaldati a 5°C/min fino a 600°C. I risultati, riportati in un articolo (C. Marazzato, Y. Peneva, E. Lefterova, S. Filippi, L. Minkova; Kinetics of non-isothermal degradation of nanocomposites based on functionalized polyethylenes; Polymer Testing, vol 26, 526-536, 2007) hanno mostrato che, in presenza di azoto, il processo di degradazione dei polimeri puri e dei loro nanocompositi avviene in un solo stadio, e che la presenza dell’argilla riduce la stabilità termica, tanto più quanto migliore è la dispersione (nanocompositi esfoliati). Tale effetto è stato attribuito alla formazione di siti catalitici nell’argilla a seguito della degradazione dell’agente modificante. Al contrario, in aria, la stabilità termica dei nanocompositi è superiore a quella dei polimeri puri; ciò è imputabile all’effetto barriera delle lamine di argilla che rallentano il flusso di ossigeno; in questo caso, la miglior dispersione dell’argilla (nanocomposito esfoliato) comporta una stabilità termica superiore. Un secondo studio su questi polimeri si è concentrato sul loro utilizzo come compatibilizzanti per produrre nanocompositi a base di HDPE. Sono stati perciò preparati dei masterbatch con tre polimeri funzionalizzati l’Escor 5100, il Polybond 1009 e il Polybond 3009, con 25 phr di inorganico (~30% in peso) di Cloisite 15A; questi sono stati poi diluiti con HDPE per dare nanocompositi con 3 phr di inorganico (~5% in peso). I nanocompositi ottenuti sono stati studiati dal punto di vista strutturale e morfologico mediante WAXD, POM e 9 TEM e sono state anche analizzate le loro proprietà termiche (DSC), reologiche e meccaniche. I risultati mostrano che il Polybond 1009 ed il Polybond 3009, avendo una struttura molecolare lineare molto simile a quella dell'HDPE, sono miscibili con quest'ultimo ed i compositi ottenuti da tali miscele sono caratterizzati da buona dispersione dell'argilla. Al contrario, l’Escor 5100 risulta immiscibile con l'HDPE ed i compositi ottenuti da dette miscele presentano una morfologia bifasica con l'argilla concentrata nei domini di Escor. Questi risultati sono riportati in un contributo (S. Filippi; C. Marazzato, P. Magagnini, L. Conzatti, G. Costa, N.T. Dintcheva, F.P. La Mantia; Compatibilization of HDPE/organoclay nanocomposites by functionalized polyethylenes) presentato all’VIII Convegno Nazionale AIMAT 2006. L’ultimo tipo di compatibilizzante studiato è stato l’EVA, questo tipo di copolimero è, come già detto, comunemente utilizzato per la produzione di teli da serra, perciò è il compatibilizzante che già possiede caratteristiche adatte alla produzione dei suddetti films. L’EVA è stato molto studiato in letteratura come matrice per la formazione di nanocompositi ed in generale mostra una buona interazione con le argille organicamente modificate, dando prevalentemente strutture miste intercalate-esfoliate con una buona dispersione delle lamelle. Partendo da queste conoscenze e dai risultati precedentemente ottenuti, sono stati preparati dei masterbatch a base di EVA14 e EVA28 con il 40% in peso di argilla (Cloisite 20A e Cloisite 30B). Questi concentrati sono stati caratterizzati mediante analisi WAXD e TGA e poi diluiti con l’EVA stesso, per dare nanocompositi con il 5 e il 10% in peso di argilla. Dall’analisi ai raggi X sono stati ottenuti diffrattogrammi molto simili a quelli ottenuti dai nanocompositi preparati miscelando direttamente l’EVA con il 5 e il 10% in peso di argilla. In particolare, quando è stata utilizzata la Cloisite 20A, sono stati ottenuti nanocompositi intercalati, i diffrattogrammi corrispondenti alle stesse composizioni per i due diversi metodi di preparazione mostrano picchi agli stessi angoli, ma con diversa intensità; probabilmente ciò è dovuto alla doppia lavorazione che le diluizioni dei masterbatch hanno subito. Un discorso a parte merita il comportamento della Cloisite 30B, in quanto, con questa argilla tutti i diffrattogrammi mostrano, a bassi angoli, un andamento tipico dei nanocompositi esfoliati con un picco, più o meno intenso, ad un angolo corrispondente ad una distanza di circa 1,47nm, minore di quella dell’argilla di partenza (1,84 nm). La presenza di questo picco non è molto spiegata in letteratura ed è stata da noi indagata con risultati però non ancora chiari. I due tipi di EVA sono stati utilizzati come compatibilizzanti per produrre nanocompositi a base di LDPE. Sono stati miscelati LDPE puro e EVA a diverse composizioni (95/5, 90/10 e 75/25) mantenendo costante il contenuto di argilla, 5% in peso di Cloisite 20A. I nanocompositi ottenuti sono stati caratterizzati con l’analisi WAXD. I risultati hanno mostrato che i compositi prodotti sono tutti intercalati e che il picco di intercalazione non varia all’aumentare della concentrazione di EVA, infatti è lo stesso picco che si ottiene per il nanocomposito EVA con il 5% in peso di Cloisite 20A; questo dimostra che la miscela ottenuta è una miscela bifasica in cui l’argilla è concentrata nei domini di EVA. Presso l’Università di Palermo sono stati preparati per blow-molding films PE/compatibilizzante/argilla e sono state analizzate le loro proprietà meccaniche, reologiche e di resistenza alla fotoossidazione. 10 PROPRIETA' REOLOGICHE DI PASTE DI CEMENTO ESTRUDIBILI AD ELEVATO CONTENUTO DI CENERI DI CARBONE Dottoranda: Francesca Micaelli 1.Introduzione Lo scopo del lavoro è quello di verificare la possibilità di impiegare le ceneri volanti (fly ash) come tali o modificate (micronizzate), in formulazioni cementizie per applicazioni non convenzionali. In particolare, l'attenzione è rivolta allo studio di paste di cemento adatte alla formatura plastica che prevedono l'impiego delle ceneri volanti modificate come additivo reattivo (in parziale sostituzione del cemento), o come filler; le tecniche di formatura prevalente sono l'estrusione e lo spampaggio a compressione, già ampiamente utilizzate per le materie plastiche e ceramiche. I materiali da estrusione devono avere comportamento plastico durante l’estrusione (buona lavorabilità) ed elevata coesione in modo che l’oggetto estruso una volta formato sia in grado di conservare la forma (sostenere il proprio peso), deve cioè possedere una elevata green strength. Il compromesso tra una buona lavorabilità ed una elevata green strength è ottenibile tramite un accurato controllo della composizione delle paste in termini di quantità e caratteristiche dei singoli componenti, in particolare tramite l’ottimizzazione della densità di impacchettamento delle particelle solide ed il controllo della reologia della fase fluida. 2.Ceneri volanti Le ceneri volanti sono un sottoprodotto importante della combustione ad alta temperatura (1100-1500 °C) del carbone polverizzato utilizzato come combustibile nei processi di generazione termoelettrica. La produzione annuale di fly ash in Italia ammonta infatti a 1 Mt e addirittura a 40 Mt in Europa. Nelle moderne centrali termoelettriche, durante la combustione del carbone polverizzato ad alta temperatura si forma una rilevante quantità di ceneri costituita da impurezze minerali contenute nel carbone stesso, quali argille, quarzo e feldspati; questi residui si disintegrano e fondono in vari stadi. La parte più leggera delle ceneri, quella in quantità maggiore (75-85% del totale), viene poi trascinata ancora allo stato fuso dai fumi di combustione in uscita dalla caldaia. A seguito del rafreddamento, all'uscita dalle camere di combustione, le ceneri solidificano rapidamente formando particelle vetrose sferoidali di dimensioni abbastanza piccole (1100 µm) che vengono recuperate dalla corrente gassosa tramite filtri a maniche e precipitatori elettrostatici per impedirne la dispersione nell'atmosfera. Le ceneri così ottenute, dette volanti per la loro facile disperdibilità in aria, sono raccolte e immagazzinate in appositi sili, pronte per un eventuale riuso. La composizione chimica delle ceneri volanti varia significativamente a seconda del tipo di carbone bruciato; esse sono costituite per il 60-75% del peso totale da silice (SiO2) e allumina (Al2O3) e per la restante parte da ossidi di calcio (CaO), di ferro (Fe2O3), di magnesio (MgO), di titanio (TiO) , di zolfo (SO3), di sodio (Na2O) e di potassio (K2O). Le ceneri contengono anche quantità significative di carbone incombusto (%LOI), il cui tenore dipende da più fattori quali il grado di polverizzazione del carbone, la velocità di combustione, il rapporto aria-combustibile,oltre che dal tipo e dall'origine del carbone. La composizione mineralogica ed il carattere amorfo fanno delle ceneri volanti un materiale con caratteristiche pozzolaniche. Esse pertanto vengono riutilizzate come additivi minerali (sia reattivi che come semplice filler) nella produzione di cementi di miscela e calcestruzzi. Il loro uso in parziale sostituzione del cemento portland, oltre a consentire un notevole risparmio economico ed energetico, introduce notevoli benefici quali il miglioramento della lavorabilità, riduzione dei fenomeni di segregazione e del calore di idratazione, aumento della resistenza finale , maggiore impermeabilità e resistenza chimica. Le caratteristiche pozzolaniche delle ceneri volanti derivano dal fatto che l'idrossido di calcio che si libera durante l'idratazione del cemento è in grado di reagire con la silice e l'allumina amorfe presente nelle ceneri formando silicati ed alluminati di calcio idrati simili a quelli che si sviluppano nell'idratazione del cemento portland. Le reazioni pozzolaniche delle fly ash sono molto più lente di quelle di idratazione del cemento e continuano per periodi di tempo molto lunghi, anche dopo il completo indurimento della pasta cementizia aumentandone così la resistenza e l'impermeabilità tramite una continua riduzione della porosità della pasta cementizia. Le fly ash, oltre che come additivo reattivo, vengono addizionate al cemento nella produzione di malte e calcestruzzi anche come semplice filler, in quanto, grazie alla forma sferica e poiché la dimensione delle ceneri è simile a quella delle particelle del cemento, migliorano la lavorabilità delle paste aumentandone la fluidità. Il tenore di carbone incombusto presente nelle ceneri deve essere mantenuto il più basso possibile in quanto sottrae alla miscela cementizia significative quantità di acqua di impasto e di additivi. Per tale motivo sono stati messi a punto dei trattamenti di beneficiation che mirano a separare le ceneri propriamente dette dal carbone incombusto sfruttando le differenti caratteristiche dei componenti chimici da separare quali la granulometria e la forma delle particelle, la massa volumica e le proprietà elettriche superficiali. 11 3. Descrizione dei materiali esaminati Due tipi di ceneri sono state analizzate: ceneri volanti native caratterizzate da una morfologia sferoidale regolare (particelle del diametro medio di 45 µm) e ceneri volanti micronizzate, ottenute per macinazione delle ceneri native in mulini a palle, caratterizzate da una morfologia irregolare con dimensioni medie delle particelle di 5 µm. L’analisi granulometrica ha permesso di valutare una superficie specifica media Sp=8,4·105 cm2/ cm3 per le ceneri tal quali e Sp=6,28·106 cm2/ cm3 per le micronizzate. Le masse volumiche dei due tipi di cenere, valutate con il picnometro a gas ed il picnometro ad alcool etilico, sono rispettivamente 2,3 e 2,6 g/cm3. Tali valori risultano inferiori a quelli riportati in letteratura di 2,6-2,7 g/ cm3, soprattutto per le ceneri tal quale, probabilmente a causa della elevata percentuale di incombusti che dai risultati dell'analisi termogravimetrica risulta essere superiore al 7%. La massima frazione di impaccamento delle ceneri è stata valutata con il metodo “oil drop test” che ha fornito un valore di 0,50-0,55 per le ceneri native e di 0,45-0,50 per le micronizzate. La differenza tra tali valori dipende dalla diversa morfologia e dimensione dei due tipi di particelle. Il cemento Portland utilizzato è un cemento CEM 1 52,5 R Italcementi con particelle del diametro medio di 10 µm. Le sospensioni concentrate e le paste esaminate sono ottenute per miscelazione dei diversi costituenti con acqua ed additivi comunemente utilizzati nell’industria del calcestruzzo per limitare gli effetti di flocculazione (superfluidificanti) e di segregazione (viscosità enhancing agents VEA), che agiscono modificando la viscosità del mezzo sospendente. 4.Parte sperimentale Lo studio del comportamento reologico dei sistemi cemento-ceneri volanti è condotto in quattro fasi. Nella prima fase è effettuata una caratterizzazione reologica preliminare di sospensioni acquose concentrate di ceneri volanti e di sospensioni acquose di miscele di ceneri volanti e cemento (v=0,3-0,4). Nella seconda fase è valutato il comportamento plastico di paste di cemento e ceneri volanti tramite la tecnica del vane test e prove di compressione semplice. Nella terza fase è invece valutata l’estrudibilità di paste di ceneri e cemento (v=0,45-0,55) tramite un reometro capillare al fine di determinarne il carico di snervamento iniziale del materiale tramite il modello matematico di Benbow. Nella quarta fase infine è esaminata la reattività dei sistemi cemento-ceneri a breve e a lungo termine; nel primo caso è stata utilizzata la tecnica calorimetria, mentre nel secondo caso sono state eseguite prove di resistenza meccanica a compressione e a trazione e un’analisi mineralogica (XRD e SEM). 4.1 Reologia sospensioni concentrate Nella prima fase del lavoro è stato studiato il comportamento reologico di sospensioni acquose concentrate (frazione volumetrica solida 0,35-0,40) di ceneri volanti naturali e micronizzate e cemento per mezzo di un reometro piatto-piatto utilizzando superfici lisce e rugose dello strumento. Le curve sperimentali ottenute tramite prove di taglio in controllo di velocità rivelano un comportamento reologico complesso, tipicamente non newtoniano, di tipo viscoplastico reofluidificante ed influenzato dal tempo. I valori di viscosità di sospensioni di ceneri, di cemento e di carbonato di calcio, determinati in regime stazionario, in funzione della frazione volumetrica di solido, sono descritti in modo soddisfacente tramite un modello a due parametri di tipo Krieger-Dougherty. Gli stessi dati di viscosità sono stati analizzati secondo il concetto di unità strutturali, cioè di grani rivestiti da uno strato di fluido sospendente intimamente legato alla particella, immersi nel fluido sospendente. Considerando uno spessore di fluido Eip (calcolato in relazione alla superficie specifica della particella Sip), per i diversi tipi di particelle i è stata valutata una frazione di impaccamento delle unità strutturali US che permette di ottenere la sovrapposizione delle curve sperimentali. La sovrapposizione di curve così ottenuta è descritta dal modello di Krieger-Daugherty con una frazione massima di impaccamento delle unità strutturali USmax di 0,75, indipendente dalla granulometria e dalla forma delle particelle Le prove su sospensioni concentrate di miscele di ceneri naturali e micronizzate, al variare della percentuale relativa delle due ceneri (0-100%), hanno messo in evidenza un valore minimo di viscosità in corrispondenza di una frazione volumetrica di particelle fini del 30 à 40%, indipendentemente dalla velocità di deformazione a taglio. Una miscela ottimale di ceneri è stata quindi identificata sulla base di un criterio di fluidità. La viscosità di tale miscela diminuisce all’aumentare della velocità di taglio e aumenta con la frazione volumetrica di solido totale in sospensione. Anche in tal caso, le curve di viscosità sono state analizzate secondo il concetto di unità strutturali. Un modello complesso che tiene conto della interazione tra singole particelle si è rivelato adatto per la descrizione del comportamento reologico di sospensioni concentrate di miscele di particelle. Test in controllo di velocità sono stati eseguiti sulle stesse sospensioni bidisperse utilizzando superfici rugose dei piatti in modo da eliminare l’effetto di wall-slip che si riscontra nel caso di sistemi bifasici sottoposte all’azione di sforzi di taglio. Lo yield stress e la viscosità plastica di tali sistemi, determinati approssimando i dati sperimentali con il modello di Bingham, presentano entrambi un valore minimo in corrispondenza di una frazione volumetrica di ceneri micronizzate analoga a quella ottenuta nel caso delle prove condotte con superfici lisce dello strumento. Lo stesso metodo è stato usato per analizzare il comportamento di sospensioni cemento-ceneri naturali e cemento-ceneri micronizzate, le quali presentano 12 entrambe valori di yield stress e di viscosità plastica maggiori di quelli del cemento. Un’ultima serie di prove è stata infine effettuata su sospensioni sospensioni ottenute aggiungendo al cemento la miscela ottimale di ceneri I risultati ottenuti mostrano che la soglia di scorrimento e la viscosità plastica sono praticamente indipendenti dalla frazione di ceneri in un range di composizione compreso tra lo 0 ed il 60%. In conclusione, il lavoro svolto in questa prima fase ha consentito di presentare un modello per miscele di particelle solide in sospensioni concentrate. Inoltre è stata individuata una miscela di ceneri native e micronizzate ottimale (viscosità minima) che addizionata al cemento permette di ottenere un comportamento isoreologico, per una gamma piuttosto ampia di composizioni, molto interessante per l’ingegneria civile. 4.2.Reologia di paste estrudibili La reologia di sistemi a maggiore concentrazione in solido è stata esaminata tramite la tecnica del vane test e prove di compressione semplice (squeezing test) allo scopo di validare un comportamento reologico essenzialmente plastico desiderato per il processo di formatura per estrusione. Il vane test ha permesso di individuare la soglia di taglio (yield stress) e la soglia di attrito di paste di cemento, di cemento e ceneri naturali e delle paste di cemento e miscela ottimale di ceneri. Queste ultime mostrano una soglia di plasticità più bassa di quella delle altre paste. Il vane test è stato inoltre utilizzato per osservare l’influenza del tempo sulla paste di cemento contenenti la miscela ottimale di ceneri. Le prove di compressione semplice sono state condotte sulle stesse paste utilizzando piatti sia con superfici rugose che lisce. Le curve ottenute interpretando i dati sperimentali hanno rivelato per tutte le miscele un comportamento plastico con attrito. Sono stati inoltre individuati fenomeni di filtrazione della fase liquida in corrispondenza di pressioni elevate e velocità di compressione lente. La modellizzazione di tali curve secondo un modello plastico con attrito ha permesso di identificare una soglia di plasticità, una pseudo coesione e uno pseudo coefficiente di attrito interno del materiale. I valori di tali grandezze non si discostano molto per le tre differenti formulazione delle paste analizzate. E’ stato inoltre osservato che la soglia di plasticità determinata con lo squeeze test è leggermente più elevata di quella determinata con il vane test. 4.3 Estrusione di paste Nella terza fase le prove di estrusione condotte con il reometro estrusore su sistemi più concentrati hanno permesso d’identificare lo yield stress iniziale σo e lo sforzo di taglio iniziale τo del materiale secondo il modello generale di Benbow. Tale strumento permette una caratterizzazione semplice ed immediata delle paste in funzione della loro composizione; il materiale testato inoltre sperimenta in tale apparecchiatura le stesse condizioni dei processi industriali di formatura. Le paste di cenere mostrano un valore di σo inferiore a quello del cemento, mentre il valore di τo delle paste di ceneri micronizzate risulta superiore a causa della morfologia altamente irregolare delle particelle. Le paste ottenute per miscelazione dei due tipi di cenere mostrano un valore miniimo dello yield stress iniziale σo in corrispondenza della stessa concentrazione volumetrica di ceneri micronizzate individuata nel caso di sospensioni meno concentrate. Un’altra serie di prove è stata quindi effettuata su paste della medesima composizione e su paste di cemento contenenti la miscela ottimale di ceneri. I risultati sono stati interpretati secondo un modello locale, scomponendo la forza totale di estrusione in un carico relativo alla deformazione plastica del materiale ed un carico relativo all’attrito del materiale alla parete dell’estrusore. L’interpretazione dei risultati sperimentali secondo i modelli di Benbow, Hill-Mortreuil e Horrobin hanno confermato il comportamento plastico puro delle paste di cemento e miscela ottimale di ceneri, che per altro presentano il più basso valore di σo. In particolare il modello di Horrobin permette di ottenere un valore dello yield stress iniziale del materiale molto prossimo a quello determinato con il vane test. Lo studio del comportamento a estrusione è stato completato con delle prove di durezza superficiale realizzate sul materiale rimante all’interno dell’estrusore, allo scop di individuare eventuali fenomeni di migrazione della fase liquida che si producono durante il processo di estrusione. I risultati mostrano che l’impiego della miscela ottimale di ceneri nelle paste di cemento consente di ottenere una migliore omogeneità della pasta. Si può pertanto concludere che le ceneri volanti possono essere utilizzate nella formulazione di paste cementizie estrudibili per migliorarne le caratteristiche reologiche facilitando il processo di estrusione, in quanto consentono di ottenere carichi di estrusione inferiori a parità di frazione volumetrica solida. Inoltre il carattere plastico di una pasta caratterizzata da una distribuzione più ampia (bidispersa) delle dimensioni delle è migliore di quello di una pasta con una distribuzione monodispersa, per la stessa frazione volumetrica di solido. 4.4 Reattività ceneri volanti Nell’ultima fase è stata studiata la reattività a breve termine e a lungo termine dei sistemi cemento-ceneri volanti. Lo studio a breve termine è stato condotto seguendo la cinetica el processo di idratazione dei sistemi cemento-ceneri per mezzo del calorimetro isotermo. E’ stato osservato che le ceneri volanti hanno un effetto ritardante sulla reazione di idratazione del cemento, mentre le ceneri micronizzate un effetto accelerante. Inoltre le ceneri naturali determinano la comparsa di un secondo picco di reazione. In termini del calore globale di idratazione entrambe le tipologie di cenere aumentano la reattività del cemento. Al contrario l’aggiunta al cemento di miscele di ceneri naturali in diversa proporzione non sembra modificare la reattività del cemento, sia in termini della cinetica di reazione che del calore totale di reazione. In pratica si assiste ad una compensazione tra l’effetto ritardante delle ceneri naturali e quello accelerante delle ceneri micronizzate. 13 La percentuale di ceneri micronizzate nella miscela ottimale di ceneri permette dunque di eliminare l’effetto ritardante delle sole ceneri naturali. La studio della reattività a lungo termine, tramite prove di resistenza meccanica a compressione e a trazione eseguite su provini di differente formulazione stagionati in condizioni di umidità a 28 e 60 giorni, ha messo in evidenza come le paste di cemento e miscela ottimale di ceneri mostrino valori di resistenza analoghi a quelli del cemento, mentre quelli delle paste di cemento e ceneri volanti presentano valori inferiori. 1. F.Micaelli, G.Levita, C. Lanos, “Rheological characterization of cement-fly ash suspension”, 8° Convegno nazionale AIMAT (2006), Palermo, Italia (11 pages). 2. F.Micaelli, G.Levita, C. Lanos, ‘‘Suspensions concentrées de cendres volantes”, 41ème Colloque Annuel du Group Français de Rhéologie, 18-20 octobre 2006, Cherbourg, France, poster 3. F.Micaelli, G.Levita, C. Lanos, ‘‘Rheological characterization of cement-fly ash pastes”, Annual European Rheology Conference, 14-16 avril 2007, Naples, Italie, poster 4. F.Micaelli, G.Levita, C.Lanos, ‘‘Caractérization rhéologique de pâtes de ciment et cendres volantes extrudables”, Acte de conférence 25èmes Rencontres AUGC (2007), Bordeaux, France (8 pages) 14 Dr. Dafne Molin Modello ad Interfacce Diffuse: Teoria ed Applicazioni Il modello ad Interfacce Diffuse riprende l’idea originale di Van der Waals (1893), in cui si suppone che tutte le quantità necessarie alla descrizione macroscopica di un sistema multifase (in particolare la sua densità, velocità, temperatura e composizione) siano distribuite in modo continuo, senza presentare salti o discontinuità in corrispondenza delle interfacce di separazione tra due fasi distinte. Ciò significa supporre che le interfacce siano "diffuse", cioè di spessore finito, in contrapposizione con il modello classico di Gibbs (1876), in cui le interfacce hanno spessore nullo. Perciò, mentre nel modello a interfacce diffuse le equazioni di conservazione si possono scrivere su tutto il volume, nel modello classico esse vengono scritte separatamente per ciascuna fase, imponendo poi delle condizioni al contorno all’interfaccia per tener conto delle discontinuità che vi sono presenti (basti pensare alla variazione di densità presente a cavallo di un'interfaccia liquido-vapore). Ovviamente, l'ipotesi di spessore nullo dell’interfaccia impedisce di risolvere problemi come la coalescenza o la rottura di una goccia, in quanto fenomeni legati alla struttura dell'interfaccia e dunque, anche, al suo spessore. Con il modello ad interfacce diffuse, invece, è possibile descrivere e studiare fenomeni di questo tipo e questo costituisce un indubbio vantaggio. D'altro canto, nel modello a interfacce diffuse è presente una dimensione lineare caratteristica dell'ordine di 0.1-0.01 µm, che esprime lo spessore tipico dell'interfaccia. Ipotizzando di utilizzare delle griglie di simulazione con 106 punti, ciò significa che il modello a interfacce diffuse si può applicare a sistemi con dimensioni lineari dell’ordine di pochi decimi di millimetro (la cosiddetta mesoscala). Nei due precedenti anni di dottorato era stata condotta un’attività prettamente teorica per sviluppare il modello in presenza di campi di temperatura. Quest’anno l’idea è stata ripresa e sviluppata per consentire la simulazione di sistemi bifase in cui le due fasi presentano una diversa conducibilità termica. Nello studio sono stati evidenziati i cambiamenti di morfologia dovuti al diverso valore del rapporto λ tra le due conducibilità (Figura 1). Come si vede, una miscela binaria inizialmente miscelata omogeneamente è stata sottoposta ad un quench al di sotto della temperatura critica su due pareti delle scatola. I risultati sono stati analizzati al variare del rapporto di conducibilità λ e del numero di Lewis Le. Figura 1: Decomposizione spinodale di una miscela bifase con diversa conducibilità per le due fasi All’aumentare di λ, infatti, si passa da una situazione isotropa, in cui non vi è una preferenza di orientazione dei domini né in direzione dell’asse x, né in quella dell’asse y, all’orientamento nei versi dell’uno o dell’altro asse a seconda del valore del rapporto stesso. 15 Per cercare di dare una stima dell’orientazione dei domini è stato introdotto il parametro ζ calcolato come: ζ = Nx − N y Nx + N y dove Nx e Ny indicano la quantità di interfacce presenti rispettivamente lungo l’asse x e y. I valori del parametro ζ sono presentati in tabella 1 e in figura 2. λ\ N Le 0.001 0.01 0.1 1 0.01 0.34 0.39 0.10 0.03 0.1 0.2 0.12 0.14 0.05 1 0.33 0.16 0.06 0.01 10 0.17 0.12 0.12 0.01 100 -0.22 -0.33 0.16 0.01 1000 -0.43 -0.42 0.11 0.01 Tabella 1: Andamento del parametro di orientazione in funzione del rapporto tra le conducibilità e il numero di Lewis Figura 2: Andamento del parametro di orientazione al variare del numero di Lewis Come si osserva dalla figura 2 la morfologia del sistema evolve in maniera differente a seconda del valore del rapporto tra le conducibilità e il numero di Lewis. Mentre per valori di λ prossimi ad uno, ovvero nel caso in cui la conducibilità delle due fasi è uguale o comunque molto simile, il sistema, tende a separarsi in maniera isotropa senza una direzione preferenziale, per valori molto piccoli di λ il sistema tende o ad orientarsi in modo da massimizzare il trasferimento di calore da una parete all’altra (valori del numero di Lewis alto) o tende a disporsi con i domini paralleli alle pareti riscaldate per ostacolare il trasferimento di calore tra le due (per valori bassi del numero di Lewis). E’ stato svolto inoltre in un breve periodo all’Università di Eindhoven (Dipartimento di Ingegneria Meccanica) sotto la supervisione del Prof. Anderson, in cui il modello è stato rielaborato e adattato per un sistema trifase. Il modello è stato successivamente applicati a due problemi diversi: il miscelamento dovuto all’introduzione di una terza fase in una decomposizione spinodale di due liquidi, e la coalescenza/repulsione di due gocce formate da due fasi distinte. In figura 3 viene mostrata la decomposizione spinodale di una miscela binaria, a vari passi temporali. In figura 4 invece viene mostrata l’introduzione della terza fase e l’evoluzione temporale delle altre due. I 16 domini che si erano formati nella decomposizione spinodale, vanno sparendo, e le due fasi si rimiscelano tornando alla situazione iniziale. Figura 3: Decomposizione spinoidale di una miscela binaria Figura 4: Miscelazione della miscela binaria dovuta alla presenza di una terza fase Durante il periodo di dottorato è stata condotta anche un’attività sperimentale parallela in cui si è stato analizzato il comportamento di una sospensione viscosa di particelle di polistirene in un fluido di opportuna densità in un dispositivo Couette modificato. In particolare all’interno di un dispositivo Couette svasato sono stati analizzati i flussi di migrazione indotta da shear, dovuti alla svasatura stessa dello strumento e la risospensione viscosa di particelle con diversa densità rispetto al fluido risospendente. E’ stato evidenziato la presenza di un flusso di migrazione che causa un addensamento di particelle nella parte alta del dispositivo a discapito della concentrazione della parte bassa che diminuisce rispetto ad un valore medio calcolato in base alla quantità di particelle introdotte all’inizio della prova. E’ stato quindi possibile calcolare in prima approssimazione il coefficiente che regola questo fenomeno di migrazione all’interno dello strumento stesso. Tale valore è stato utilizzato successivamente per stimare teoricamente il valore dell’altezza di risospensione per un confronto diretto tra dati sperimentali e teoria. - Bibliografia Acrivos, A., Mauri R. and Fan X. (1993) Shear-induced resuspension in a Couette device, Int. J. Multiphase Flow, 19, 797. Cahn, J.W. and Hilliard, J.E. (1959) Free energy of a nonuniform system. III. Nucleation in a twocomponent incompressible fluid, The Journal of Chemical Physics 31, 688. Cahn, J.W. (1961) On spinodal decomposition, Acta Metallica 9, 795. 17 - Gibbs, J.W. (1876) On the equilibrium of heterogeneous substances, reprinted in Scientific Papers by J. Willard Gibbs, Vol. 1, Dover, New York (1961). Hohenberg, P.C. and Halperin, B.I. (1977) Theory of dynamic critical phenomena, Review of Modern Physics 49, 435. Landau, L.D. and Lifshitz, E.M. (1980) Statistical Phyysics, Part I, Pergamoin Press. Lowengrub, J. and Truskinovsky, L. (1997) Quasi-incompressible Cahn-Hilliard fluids and topological transitions, Proceedings of the Royal Society, London, Series A 454, 2617. Mauri, R. and Papageorgiou D.T. (2002) The onset of particle segregation in plane Couette flows of concentrated suspensions, Int. J. Multiphase Flow, 28, 127. Rowlinson, J.S. and Widom, B. (1982) Molecular Theory of Capillarity, Oxford University Press. Sandler, I.S. (1999) Chemical and Engineering Thermodynamics, 3rd ed., Ch. 7, Wiley, New York. Van der Waals (1893), The thermodynamic theory of capillarity under the hypothesis of a continuous variation of density [J.S. Rowlinson, Journal of Statistical Physics 20, 200 (1979), English transl.]. 18 Sviluppo di schermi termici per getti incendiati e modellazione del loro comportamento Dottorando: Ing. Gabriele Landucci Relatore: Prof. Ing. Severino Zanelli SOMMARIO L’attività di dottorato svolta dal candidato è finanziata dal FISR – D.I. 17.12.2002, D.D.264/RIC 18.02.2005 nell’ambito del progetto-obiettivo “Vettore Idrogeno” avente come titolo “Idrogeno puro da gas naturale mediante reforming a conversione totale ottenuta integrando reazione chimica e separazione a membrana”. Per quanto riguarda l’attività svolta nel primo anno di dottorato, è stato presentato il criterio di scelta, progettazione e caratterizzazione sperimentale dei pannelli per la protezione passiva di strutture sottoposte ad incendio. In particolare, sono stati sviluppati pannelli in fibra di basalto impregnati con matrici in resina epossidica o con matrici inorganiche, sottoposti a test a fuoco, in modo da verificarne l’efficacia e determinare i profili termici. A tale scopo, è stato messo a punto un apparato sperimentale realizzato sulla base delle indicazioni degli standard e normative internazionali e nazionali, opportunamente modificato per produrre risultati significativi, mostrando l’efficacia delle fibre basalto come isolante termico. Sulla base dei dati sperimentali ottenuti è stato possibile sviluppare la modellazione dello schermo termico investito dalla fiamma, estesa poi allo studio di strutture complesse, come serbatoi o tubazioni. Nell’ambito del secondo anno di dottorato, la modellazione riferita alle strutture complesse è stata ulteriormente sviluppata e validata sulla base di dati sperimentali disponibili in letteratura. La metodologia consente di valutare, a partire dalla definizione della geometria del sistema e delle condizioni operative, gli eventuali tempi di cedimento di massima delle strutture sottoposte al fuoco, con la possibilità di modellare opportunamente le condizioni di irraggiamento. Lo scopo di tale modellazione è stato quello di implementare gli isolanti termici nelle strutture sottoposte ad incendio, in modo da verificare, quindi, l’efficacia del sistema di protezione passiva. Sulla base dei risultati ottenuti, confrontati con dati sperimentali riferiti alla piccola/media scala, è stato possibile estendere l’attività di modellazione ai serbatoi protetti su scala reale. MODELLAZIONE DEL COMPORTAMENTO DI PANNELLI ESPOSTI AL FUOCO L’innesco di sostanze infiammabili in seguito a fenomeni di rilascio accidentali può portare alla formazione di getti incendiati, che a loro volta possono causare eventi secondari per effetto domino con conseguenze catastrofiche dovute all’urto della fiamma su attrezzature e tubazioni. Circa il 25% dei fireball documentati nel database MIDHAS sono eventi causati dal verificarsi di incendi esterni. Il controllo e la mitigazione delle conseguenze possono quindi esser critici in queste circostanze, con la necessità di utilizzare metodi di progettazione impiantistica incentrati sulla sicurezza per prevenire o comunque limitare la possibilità di effetto domino in seguito a fenomeni di rilascio accidentali. Tra i metodi impiegati, gli schermi termici e i sistemi di coibentazione sono una soluzione potenzialmente sicura e facilmente applicabile per proteggere le apparecchiature, a patto che i materiali siano selezionati con molta attenzione, specie quando si ha a che fare con fiamme a temperatura elevata, come nel caso dei getti incendiati di idrogeno o GPL. Nell’ambito dell’attività di dottorato, sono stati sviluppati e testati compositi innovativi a base di fibre di basalto impregnate con materiali organici (resina epossidica) ed inorganici (cemento Portland e fibrocemento). Lo scopo fondamentale delle prove effettuate sui compositi in fibra di basalto è stata la caratterizzazione del materiale in condizioni di elevata temperatura, fornendo un supporto per le attività di modellazione da estendere a strutture complesse, come serbatoi e tubazioni. Sono state così ricavate, con prove dedicate, proprietà fisiche significative come la conducibilità termica e l’emissività della superficie. In seguito, l’attività di modellazione ad elementi finiti (FEM), ha permesso di ricavare una simulazione dei profili termici sulla superficie incendiata dei provini, sia stazionaria che transitoria. L’analisi FEM, implementata sul codice ANSYS v. 5.5, è stata effettuata imponendo i carichi termici dovuti all’irraggiamento sulla superficie esposta alla fiamma, stimando poi un coefficiente di scambio per la dispersione per convezione ai lati e sulla parte posteriore. In Figura 5 si riporta un esempio dei profili termici ricavati dalla modellazione del provino e del supporto metallico. 19 Temperatura in °C Figura 5: Esempio di modellazione termica ad elementi finiti. MODELLAZIONE DEL COMPORTAMENTO DI SERBATOI NON PROTETTI ESPOSTI AL FUOCO La modellazione presentata, può essere estesa a strutture più complesse, come serbatoi o tubazioni, per ricavarne l’eventuale tempo di cedimento. In condizioni di esposizione ad un incendio, il cedimento è, da un lato, dovuto all’indebolimento del materiale per l’alta temperatura, e, dall’altro, per l’aumentare della pressione del vapore all’interno delle strutture. Il problema necessita dunque analisi termiche e meccaniche combinate, per poter stimare un eventuale tempo di cedimento. La modellazione agli elementi finiti, implementata con il codice Ansys, è stata utilizzata per simulare in modo puntuale e dettagliato le condizioni di irraggiamento e l’andamento della temperatura nel tempo. I risultati ottenuti sono poi stati implementati nelle simulazioni meccaniche come carichi di dilatazione termica, sommati a quelli dovuti al peso proprio, carico idraulico e soprattutto alla pressione interna. In questo modo è stato ottenuto l’andamento nel tempo dello stato di tensione in ogni zona dell'apparecchiatura presa in esame, identificato come tensione equivalente σeq. Esso è poi stato implementato in un criterio semplificato di cedimento per valutare il tempo necessario per avere una rottura catastrofica dell’apparecchiatura. In particolare, se si considera la tensione ammissibile σamm come sola funzione della temperatura e delle caratteristiche del materiale, il cedimento è stato assunto avvenire convenzionalmente nell’istante in cui, almeno in un punto, si ha σeq ≥ σamm. Tale istante si definisce come il tempo di cedimento (ttf, time to failure). Un esempio dei risultati ottenuti tramite questo approccio per serbatoi non protetti è riportato in Figura 6, per serbatoi cilindrici verticali a pressione atmosferica o orizzontali pressurizzati. Simulazioni termiche 10000 m3, 20 kW/m2 distant source a) 50 m3, 120 kW/m2 engulfment b) Simulazioni meccaniche c) d) Figura 6: FEM serbatoi sottoposti ad incendio; modellazione termica di (a) serbatoi atmosferici e (b) pressurizzati accoppiata alla corrispettive simulazioni meccaniche (c,d). Il modello è stato validato con dati di letteratura riferiti alla piccola/media scala confrontando i ttf ottenuti con un errore medio del 25% (Si riporta un esempio in Figura 7). 20 800 ttf FEM (s) 600 400 200 M.A. Persaud et al. Droste and Shoen 0 0 200 400 600 800 ttf experiment (s) Figura 7: esempio del confronto tra tempi di cedimento (ttf) calcolati col modello (FEM) e dati di letteratura (experiment). MODELLAZIONE DEL COMPORTAMENTO DI SERBATOI PROTETTI E SCALE UP L’approccio presentato è stato successivamente esteso ai serbatoi protetti con isolanti termici, per verificare l’efficacia del sistema di protezione nel ritardare il tempo di cedimento. Tramite la collaborazione con TNO (Istituto Olandese per la Ricerca Applicata), sono stati utilizzati dati sperimentali specifici, ricavati in precedenza (si veda un particolare dell’apparato sperimentale in Figura 8-(a)), nell’ambito di uno studio sul trasporto di sostanze pericolose. Tali dati sono stati utilizzati come riferimento per implementare la FEM dei serbatoi protetti e per validare il modello ottenuto. In Figura 8-(b) si riporta il confronto tra le temperature di parete predette e quelle misurate. Il modello risulta predire in modo adeguato la dinamica della temperatura di parete nella zona più critica, a contatto col vapore, anche se il deterioramento dell’isolante provoca uno scostamento nella parte finale del test. 350 Liquid side - Model Temperatures (°C) 300 Vapour side - Model Liquid side - Exp. 250 Vapour side - Exp. 200 150 100 50 0 0 20 40 60 80 100 120 Time (min) Figura 8: (a) set up sperimentale per il test a fuoco realizzato da TNO; (b) confronto tra le temperature di parete misurate e predette mediante l’analisi FEM. Il modello ottenuto è stato poi applicato ai serbatoi di scala reale, per estendere così le indicazioni ottenute dal test su media scala, essendo proibitivo effettuare lo scale up di tipo sperimentale. In particolare, l’analisi si è soffermata sulle autocisterne per il trasporto di GPL, riferendosi alle caratteristiche costruttive standard in Europa (in particolare serbatoi cilindrici orizzontali da 60 m3) e ai serbatoi per gli stoccaggi di grande scala (tipicamente 100 m3). Lo stesso tipo di coibente è stato dunque implementato ed è stato simulato l’avvolgimento completo in una pozza incendiata. Una campagna di simulazioni è stata effettuata per poter valutare l’influenza del tipo di isolante sulla resistenza della struttura, considerando differenti conducibilità termiche (indice del tipo di materiale isolante) e spessori applicati. Il tempo di riferimento per la durata delle simulazioni è stato considerato pari a 75 min, identificato in uno studio precedente come il tempo minimo per l’attivazione delle misure di emergenza, per un’efficace azione di raffreddamento del serbatoio e mitigazione dell’incendio. Dai risultati riportati in Figura 9 si evince come la zona più meccanicamente sollecitata sia all’interfaccia tra liquido e vapore, dovuta al concorrere di tensioni locali o secondare che si sommano alle sollecitazioni primarie dovute alla pressione interna. Al stesso tempo, questa zona è caratterizzata da temperature di parete inferiori, per la presenza di liquido all’interfaccia. 21 Dai risultati riportati in Tabella 2 vediamo che il cedimento avviene in presenza di isolante avente conducibilità termiche alte (maggiori cioè di 0.1 W/mK), indipendentemente dallo spessore. Il cedimento nella maggior parte dei casi nella zona di interfaccia tra liquido e vapore in virtù delle alte tensioni precedentemente citate. (a) (b) Figura 9: (a) mappa delle temperature (in °C) ottenuta per un un’autocisterna avvolta nelle fiamme; (b) mappa delle tensioni (in Pa) per la stessa apparecchiatura. Tabella 2: Risultati per le simulazioni sulla grande scala. I nodi in cui avviene la rottura sono posizionati nello schema a lato della tabella. Spessore isolante Autocisterne (60 m3) Serbatoi grande scala (100 m3) Conducibilità termica (W/mK) Conducibilità termica (W/mK) 0.0066 10 mm NO 0.1 1 NO SI ttf = 400 s node: 613 0.0066 NO 0.1 1 NO SI ttf = 1200 s node: 613 25 mm NO NO SI ttf = 1200 s node: 819 NO NO SI ttf = 2900 s node: 820 40 mm NO NO SI ttf = 2400 s node: 819 NO NO SI ttf = 5200 s node: 826 819 820 826 613 CONCLUSIONI L’attività di ricerca del secondo anno di dottorato, ha riguardato prevalentemente lo sviluppo di modelli per l’analisi del comportamento di strutture, in particolar modo serbatoi in pressione, avvolte nelle fiamme. In riferimento all’attività sperimentale condotta nel primo anno, tesa alla progettazione e caratterizzazione di materiali coibenti innovativi mediante test a fuoco, un modello ad elementi finiti per l’analisi termica è stato sviluppato per geometrie semplici. In seguito, tale modello è stato esteso e validato, con dati riferiti a serbatoi di piccola taglia, per apparecchiature protette coibenti e non protette, per la valutazione dei profili termici, di tensione e per il calcolo del tempo di cedimento. Le simulazioni validate sulla piccola/media scala, sono state estese alle dimensioni reali, in riferimento a serbatoi per trasporto stradale o stoccaggio in industria di processo, determinando le condizioni critiche per avere cedimento e i requisiti minimi del coibente utilizzato (spessore e conducibilità termica). 22 Relazione dell’attività di ricerca anno 2007 Tema: Sviluppo di strategie di monitoraggio ed identificazione per controllori predittivi Andrea Micchi - Dipartimento di Ingegneria chimica, chimica industriale e scienza dei materiali - Università di Pisa. 14 gennaio 2008 Introduzione al problema e scopi dell’attività Il controllo predittivo multivariabile è , ad oggi, una delle forme pi ù utilizzate di controllo avanzato degli impianti. Il suo successo è dovuto principalmente al fatto che esso garantisce l’assenza di offset sulle variabili controllate e in teoria l’ottimalità dell’azione di controllo rispetto ad una determinata funzione di costo. Nella pratica per ò si presentano spesso cause di degrado di prestazione che fanno sì che l’azione di controllo si discosti da quella ottimale: in particolare tali cause possono essere ridotte a due principali, vale a dire la presenza di disturbi in ingresso al processo o l’utilizzo di un modello errato dello stesso. Scopo di questa attività di ricerca è quello di definire una tecnica che consenta: • di misurare in maniera oggettiva la bontà del sistema di controllo (operazione particolarmente complessa per i sistemi multivariabile); • di individuare se necessario la causa del degrado di prestazione. Argomento strettamente correlato a questi, sviluppato in maniera approfondita è quello dell’identificazione di sistemi. Durante il primo anno di questo corso di dottorato è stato costruito un metodo di identificazione per sistemi instabili, solitamente non recuperabili in maniera ottimale con i metodi standard. Successivamente, durante il secondo anno l’attenzione è stata focalizzata sull’identificazione di sistemi malcondizionati con algoritmi di tipo subspace: l’aggettivo malcondizionato qualifica una particolare categoria di sistemi molto difficili da trattare sia dal punto di vista dell’identificazione che del controllo, come verrà diffusamente spiegato in seguito. Quando sarà utilizzato il termine processo in questo scritto, si farà riferimento al sistema x k +1 = Ax k + Bu k + Gwk (1a) y k = Cx k + v k (1b) dove x rappresenta il vettore degli stati, u quello degli ingressi, y quello delle uscite, d un eventuale disturbo in ingresso al processo e w e v due vettori del disturbo che possono assumere sia un carattere stocastico e media nulla che carattere deterministico. Con il termine modello invece sarà indicato il sistema Λ Λ Λ Λ x k +1 = A x k + B u k + Ke k (2a) 1 23 Λ Λ y k = C x k + ek (2b) nel qualeèˆutilizzato per indicare che i valori non sono quelli reali ma solamente una stima dei medesimi, ed ek è l’errore di predizione. Si farà riferimento anche ad un modello “esteso” (che comprende cioè anche un modello per il disturbo) con formulazione Λ Λ Λ Λ Λ x k +1 = A x k + B u k + Bd d k + AL x ek Λ (3a) Λ dˆ k +1 = d k + Ld ek (3b) y k = C x k + C d d k + ek (3c) Λ Λ Λ nella quale d è un disturbo integrale fittizio adoperato all’interno del controllore per garantire l’assenza di offset sulle variabili controllate. In seguito per modello del processo si intenderà l’insieme delle matrici A, B , C , per modello del disturbo le matrici Bd e Cd e per filtro le due matrici Lx e Ld . Identificazione di sistemi malcondizionati I processi malcondizionati sono una particolare classe di sistemi multivariabile, assai diffusi nella pratica ingegneristica, per i quali il guadagno sulle uscite varia in maniera estremamente sensibile in dipendenza della direzione degli ingressi . Questo fa sì che, utilizzando input open loop di tipo tradizionale (cioè random o pseudo-random), le dinamiche e i guadagni nelle direzioni sfavorevoli (quelle a guadagno molto basso) siano difficilmente identificabili, perché troppo piccoli e “nascosti” dai valori molto elevati che si riscontrano nelle direzioni favorevoli (quelle a guadagno molto elevato). Per ovviare a tale problema sono state proposte in letteratura varie soluzioni, tra le quali ha avuto un discreto successo quella dell’utilizzo degli ingressi ruotati (vedere la figura 1), che sono in grado di bilanciare il contributo sui dati della direzione sfavorevole e di quella favorevole, rendendo così pi ù agevole l’identificazione di entrambe. Durante questa attività di ricerca è stato per ò verificato che tale tipo di ingresso non è utilizzabile in associazione ad alcuni algoritmi di identificazione, a causa della elevata correlazione da cui è caratterizzato, intrinseca nella sua struttura. In particolare, il metodo delle proiezioni sviluppato da Qin, utilizzato nel nostro laboratorio, rientra in questa categoria. Si è visto inoltre che in letteratura era assente un valido metodo per la costruzione degli ingressi ruotati nel caso MIMO. Per tale ragione, si è provveduto alla definizione di un algoritmo innovativo atto allo scopo, il quale presenta le seguenti caratteristiche: • è multivariabile; • è efficiente a livello computazionale, poich è non richiede nessuna operazione matriciale complessa; • è utilizzabile in qualsiasi caso, non essendo basato su alcuna ipotesi di partenza. Le analisi condotte hanno permesso di appurare che, quando gli ingressi ruotati non siano adoperabili, i migliori risultati in termini di qualità dei modelli identificati si ottengono a partire da una identificazione in anello chiuso, con variazione random dei set point delle variabili controllate. Questi risultati sono evidenziati nella figura 2 dove viene riportata la risposta allo step degli MPC costruiti a partire dai vari modelli ottenuti da differenti tipi di ingresso. Tali conclusioni e gli ulteriori risultati raggiunti possono essere ritrovati in maniera pi ù estesa nell’articolo (inserire l’articolo) 2 24 1.5 u1 u2 1 0.5 0 -0.5 -1 -1.5 0 50 100 150 200 250 300 350 400 Sample instant Figura 1: Ingressi ruotati Analisi del degrado di prestazione nei controllori avanzati La ricerca dell’ottimalità nella prestazione di un controllore avanzato è direttamente connessa alla qualità dei prodotti in uscita al processo: esistono quindi ragioni economiche e processistiche molto valide per giustificare una tale operazione. In particolare, in questa attività di ricerca si è fatto riferimento a controllori MPC (Multivariable Predictive Control), i quali sono costruiti attorno ad un modello del processo al quale vengono applicati: questo spiega come la validità di tale modello giochi un ruolo molto importante nella prestazione del controllore. Ad esempio, il fatto che i modelli utilizzati nella costruzione di un sistema di controllo siano tempo-invarianti è di per s é una limitazione importante, in quanto non sono in grado di evolversi con il mutamento delle condizioni dell’impianto (ad esempio sporcamento delle apparecchiature, condizioni atmosferiche e simili) e quindi ci si può aspettare un degrado nel comportamento del sistema di controllo con il passare del tempo. Altro fattore che gioca un ruolo fondamentale in questo senso, come precedentemente ricordato, è l’ingresso di disturbi non misurabili, i quali non sono appunto registrati dal controllore ma influenzano comunque le uscite di processo. Recenti studi hanno dimostrato che tutti i modelli del disturbo sono equivalenti a patto di avere un filtro appropriato: poiché il filtro viene progettato su modello e proprietà statistiche del secondo ordine dei disturbi al sistema, queste ultime rappresentano un altro fattore molto importante per il miglioramento delle prestazioni. I due scenari Il caso di modello non ottimale e quello di disturbo in ingresso sono completamente differenti fra loro, e così le soluzioni da mettere in atto per un miglioramento della situazione in ognuno dei due. Sarebbe pertanto molto interessante poter individuare un indicatore che distingua con certezza, di volta in volta, in quale delle due situazioni si sta operando per permettere adeguate contromisure per il miglioramento delle prestazioni. Attualmente, in questa attività di ricerca, l’attenzione in questo senso è concentrata sull’errore di predizione, che è lo scostamento fra il valore delle uscite reali e quelle predette dal modello sulla base degli ingressi inviati al processo. In particolare, si stanno conducendo studi sulla autocorrelazione di tale grandezza: l’autocorrelazione altro non è che una misura del grado di casualità di una variabile nel tempo, vale a dire in che misura tale variabile al tempo k dipende dal valore di s è stessa ai tempi precedenti. Il calcolo di tale grandezza avviene nel modo 25 3 Figura 2: Valutazione della bontà di vari modelli di processo a seconda del tipo di dati adoperati per l’identificazione seguente N −τ R (τ ) = ∑ ekT ek k =1+τ Se non è presente alcuna correlazione, R(τ ) tende a 0 per N → ∞ , altrimenti R(τ ) = 0 indipendentemente dal numero dei dati presi in considerazione. Allorquando si appura invece l’esistenza di tale correlazione, l’operazione primaria che deve essere effettuata è un aggiornamento del filtro: in questo caso, se il calo delle prestazioni è da ascrivere ad un disturbo in ingresso la situazione dovrebbe migliorare notevolmente, mentre se è dovuto ad un mismatch non dovrebbero esserci variazioni notevoli. Per l’aggiornamento del filtro devono essere ricacolate le proprietà statistiche di secondo ordine dei termini w e v dell’equazione (1), segnatamente Qw e Rv Qw = cov(w) Rv = cov(v) e ci ò pu ò essere fatto ancora una volta adoperando l’errore di predizione come ricordato in Odelson et al. [3] Una volta in possesso di tali valori, l’operazione primaria da condurre è la risoluzione di una equazione di stazionario di Riccati, la quale fornisce un filtro di Kalman da adoperare all’interno del sistema. In questo modo, se le matrici di covarianza ricalcolate sono effettivamente una buona approssimazione delle matrici di covarianza reali, il filtro ottenuto dovrebbe garantire l’assenza di correlazione in presenza di disturbo in ingresso, mentre la correlazione dovrebbe essere ancora presente se il degrado di prestazione è dovuto ad un errore nel modello di processo adottato. Tale metodologia, innovativa rispetto a quanto presente in letteratura, ha il vantaggio di essere molto leggera a livello di calcolo, in quanto l’ottenimento delle matrici di covarianza e la risoluzione dell’equazione di Riccati non presentano particolari problemi in questo senso. Essa è inoltre facilmente applicabile, in quanto non è necessario condurre campagne specifiche di test ma è suffifciente adoperare i dati in uscita dall’impianto, con evidente 26 risparmio sia a livello economico che a livello di tempo. L’aggiornamento del filtro è quindi una operazione preliminare che dovrebbe servire a scongiurare la presenza di errori nel modello di processo, in maniera da evitare reidentificazioni del sistema quando non sono necessarie. La reidentificazione è infatti una operazione molto complessa da condurre, e dovrebbe quindi essere limitata ai casi di 4 27 stretta necessità . Questa metodologia è attualmente sotto indagine: essa verrà applicata a vari processi per verificare la sua efficacia e anche i possibili miglioramenti che devono essere apportati alla tecnica precedentemente descritta per renderla ottimale. Conclusioni e sviluppi futuri ´ L’attività di ricerca fino ad ora portata avanti ha permesso di ottenere risultati apprezzabili nel campo dell’identificazione di processi, con la costruzione di un nuovo algoritmo per il design di ingressi ruotati e la definizione di una metodologia per l’identificazione di sistemi malcondizionati, i quali come noto sono assai difficili da trattare. Sul fronte dell’analisi delle prestazioni, ulteriori indagini sull’errore di predizione saranno condotte per verificare la sua utilizzabilità per gli scopi prefissati. E previsto, per approfondire le ricerche in corso, un periodo di soggiorno all’estero, presso il gruppo di lavoro del professor Qin alla University of Southern California di Los Angeles, a partire dal 22 Gennaio fino a fine Settembre. Si riportano in bibliografia gli articoli e gli atti di convegni internazionali prodotti durante questo periodo ([1], [2], [4]) Riferimenti bibliografici [1] A. Micchi and G. Pannocchia. Comparison of input signals in subspace identification of multivariable illconditioned systems. Journal of Process Control - in press, 2007. [2] A. Micchi and G. Pannocchia. On test design for subspace identification of multivariable ill-conditioned systems. In DYCOPS 2007 (8th International Symposium on Dynamics and Control of Process Systems), volume 2, pages 219-224, Cancun (Mexico), 2007. [3] Brian J. Odelson, Murali R. Rajamani, and James B. Rawlings. A new autocovariance leastsquares for estimating noise covariances. Automatica, 42:303-308, 2006. method [4] G. Pannocchia, A. Micchi, R. Bulleri, A. Brambilla, and G. Marchetti. Multivariable subspace identification and predictive control of a heat-integrated superfractionator rigorous model. In Proceedings of ADCHEM 2006 (International Symposium on Advanced Control of Chemical Process), volume I, pages 421426, Gramado (Brazil), 2006. Tecnologie innovative per il trattamento dei sottoprodotti del ciclo conciario e loro impiego in materiali ecocompatibili Tutori: Prof. Ing. R.Tartarelli Prof. Ing. S.Vitolo Ing. M.Seggiani Dottorando: Monica Puccini 1.1.1 Introduzione Nel ciclo conciario le pelli sono sottoposte a numerose lavorazioni, tra cui la spaccatura, operazione meccanica successiva ai trattamenti iniziali di rinverdimento e calcinazione-depilazione, che consiste nella divisione del pellame, già separato dal tessuto sottocutaneo, in due strati: lo strato superiore costituito dal derma, che diventerà cuoio, e lo strato inferiore, denominato crosta, materiale di scarto costituito prevalentemente da collagene. Al fine di individuare nuove modalità di riutilizzo di questo sottoprodotto, è stata valutata la possibilità di impiegare il collagene costituente le croste in miscela con cellulosa per la produzione di film biodegradabili, destinati alla fabbricazione di prodotti a basso pregio come gli imballaggi, i film e i manufatti utilizzati in campo agricolo. L’attività sperimentale è stata realizzata in collaborazione con il Polo Tecnologico Conciario di Castelfranco di Sotto (PI). È stata inoltre effettuata una sperimentazione finalizzata a diversificare ed ampliare i settori di applicazione di un materiale inerte, denominato KEU, proveniente dal trattamento termico dei fanghi di depurazione delle acque industriali delle concerie di Santa Croce sull’Arno e Ponte a Cappiano. Attualmente tale materiale viene impiegato come filler per cementi ed asfalti stradali, ma le problematiche inerenti le normative di smaltimento e la domanda del mercato dell’edilizia insufficiente a smaltire la quantità di KEU prodotta annualmente rendono necessario individuare modalità alternative di utilizzo di questo sottoprodotto. È stata quindi verificata la fattibilità di impiego di questo granulato sinterizzato come filler in compounds bituminosi destinati alla produzione di membrane impermeabilizzanti. Infine, è stata impiegata la metodologia di analisi del ciclo di vita (Life Cycle Assessment, LCA) per confrontare l’impatto ambientale del processo tradizionale di depilazione delle pelli con un processo innovativo (depilazione ossidativa), la cui fattibilità tecnica ed economica è stata verificata nell’ambito di precedenti attività sperimentali. Risultati attività svolta Riutilizzo di collagene da scarti del processo conciario Le croste (costituite per il 20% da collagene e il restante 80% da acqua) provenienti dalla spaccatura di pelli bovine, per poter essere impiegate per la produzione delle pellicole, sono state innanzitutto sottoposte ad un trattamento di decalcinazione finalizzato principalmente a rimuovere la calce e i solfuri presenti tra le fibre del derma, introdotti nelle prime fasi di lavorazione del pellame. Dalle croste trattate è stata ottenuta una pasta fibrosa omogenea, di colore biancogrigio, costituita da collagene e acqua, mediante azione meccanica in presenza di ghiaccio (rapporto crosta/ghiaccio pari a 5:8), in modo tale da operare a bassa temperatura ed evitare così la degradazione del collagene. Tale pasta è stata quindi miscelata con una soluzione costituita da cellulosa in polvere e acido cloridrico. È stato così ottenuto un gel con cui sono stati prodotti i film su scala di laboratorio: il gel è stato disposto su un supporto in plastica ed essiccato alla temperatura di 30°C per 12 ore. Al fine di incrementarne le caratteristiche meccaniche, i film sono poi stati sottoposti ad un trattamento con glicerolo: sono stati immersi in una soluzione acquosa di glicerolo al 10%, quindi essiccati a 30°C sotto vuoto per 12 ore. Sono state preparate miscele con diversi rapporti relativi tra i componenti del gel (collagene, cellulosa, acido cloridrico), al fine di individuare la composizione in grado di garantire buone proprietà chimico-fisiche e meccaniche del materiale ottenuto (Tabella 1). Per caratterizzare i materiali ottenuti sono state impiegate le seguenti tecniche: - microscopia a scansione elettronica (SEM); - valutazione proprietà meccaniche a trazione (Instron); - analisi termogravimetrica (TGA). I film ottenuti risultano omogenei e flessibili, in generale trasparenti e tendenti ad un colore giallo. Tabella 1. Composizione delle miscele preparate (rapporti in peso). Rapporto Rapporto Rapporto Campione Cellulosa/Collagene Acido/Cellulosa Acido/(Coll.+Cell.) 1 2 3 1 0.50 0.33 0.60 0.60 0.40 0.3 0.2 0.1 29 4 0.33 0.60 0.15 5 0.33 0.80 0.20 6 0.33 1 0.25 7 0.33 2 0.50 8 0.20 0.40 0.07 9 0.20 0.60 0.10 10 0.20 0.80 0.13 11 0.20 1 0.17 12 0.20 1.20 0.20 13 0.20 2 0.33 L’analisi SEM, della superficie esterna e di una sezione ottenuta tramite frattura fragile in azoto liquido, per valutare la morfologia dei film ottenuti dalle miscele, ha evidenziato una matrice omogenea, formatasi in seguito alla miscelazione di collagene e cellulosa, all’interno della quale è possibile individuare una struttura reticolare di fibre di collagene (Figura 1). È inoltre possibile notare la frammentazione delle fibre, da attribuire alla degradazione avvenuta durante le fasi di realizzazione condotte a temperatura ambiente, che potrebbe influenzare le proprietà meccaniche dei film ottenuti. Variando la composizione non sono state riscontrate differenze morfologiche di rilievo. Figura 1. Immagini SEM della superficie e della sezione del Campione 10. Dai test di trazione eseguiti sui film è stato evidenziato un comportamento puramente elastico del materiale. Per i film ottenuti da miscele con un rapporto cellulosa/collagene pari a 0.33 e 0.2, al variare della quantità di acido in esse contenuto è stata riscontrata un’apprezzabile variazione delle proprietà meccaniche, in particolare i valori più elevati di carico a rottura sono stati ottenuti in corrispondenza di una quantità di acido pari ad un rapporto 0.10-0.20 rispetto alla quantità totale di collagene e cellulosa in miscela (Figura 2). Tale risultato può attribuirsi all’azione idrolitica dell’acido, infatti, se presente in basse concentrazioni le macromolecole dei due componenti non risultano sufficientemente frammentate per poter interagire efficacemente, invece, se presente in elevate concentrazioni la struttura dei componenti viene danneggiata, compromettendo le proprietà meccaniche del materiale risultante. Dai tests meccanici sui film ottenuti da miscele contenenti una quantità di acido pari a 0.2 (in rapporto alla quantità totale di collagene e cellulosa), sono stati ottenuti i valori più elevati di carico a rottura e deformazione a rottura per i campioni con rapporto cellulosa/collagene pari a 0.33. L’analisi termogravimetrica è stata condotta al fine di valutare la stabilità termica dei film ottenuti. Le curve di perdita in peso relative ai campioni analizzati non presentano differenze significative al variare della composizione della miscela da cui sono stati prodotti. Il materiale risulta termicamente stabile fino ad una temperatura di circa 130°C. cellulosa/collagene 1:5 3 cellulosa/collagene 1:3 Sforzo (MPa) 2,5 2 1,5 1 0,5 0 0,05 0,1 0,15 0,2 0,25 0,3 Rapporto acido/(collagene+cellulosa) Figura 2. Carico a rottura dei film ottenuti dalle miscele con un rapporto cellulosa/collagene pari a 0.33 e 0.2 al variare del contenuto di acido. L’attività di ricerca finora svolta ha permesso di verificare la possibilità di impiegare il collagene, ottenuto da scarti di lavorazioni meccaniche del processo conciario, in miscela con cellulosa per la produzione di film biodegradabili. I film ottenuti sono costituiti da una struttura fibrosa, immersa in una matrice omogenea di collagene e cellulosa idrolizzati per azione dell’acido impiegato. E’ stato riscontrato che miscele ottenute con un rapporto cellulosa/collagene 30 pari a 0.33 e un contenuto di acido compreso tra 0.1 e 0.2 (rispetto alla quantità totale di collagene e cellulosa in miscela) presentano le migliori proprietà meccaniche. Riutilizzo del granulato sinterizzato (KEU) prodotto dal trattamento dei fanghi di depurazione di acque industriali del Distretto Conciario Toscano Le membrane bituminose sono prodotte per impregnazione di feltri di diversa natura con miscele bituminose costituite da una base bituminosa di adeguate caratteristiche, una opportuna combinazione di polimeri e un filler inorganico, generalmente carbonato di calcio (CaCO3). Il KEU, materiale inerte in granuli prodotto dalla Società Ecoespanso per trattamento termico dei fanghi di depurazione delle acque industriali delle concerie di Santa Croce sull’Arno e Ponte a Cappiano, è stato impiegato come filler nei compounds bituminosi in totale o parziale sostituzione del CaCO3 al fine di verificarne la fattibilità di impiego per la produzione di membrane impermeabilizzanti. Per la produzione dei compounds sono state impiegate due diverse basi bituminose (fornite dalla Raffineria IESMantova), una miscela di polimeri costituita da polipropilene atattico (APP, Vestoplast ® (APAO) 891, Degussa), polipropilene isotattico (IPP, Moplen ® HF 500 N, Basell) e polietilene (PE, Riblene ® FF 20, Polimeri Europa), KEU macinato fino alla granulometria opportuna (80% passante al setaccio con luci 75 µm) e CaCO3 in polvere. I compounds sono stati preparati per mezzo di un miscelatore ad immersione alla temperatura di 190°C, secondo due diverse formulazioni che differiscono tra loro per il contenuto di filler e di miscela polimerica impiegata. Le miscele contenenti il 10% in peso di filler e il 18% di polimeri consentono di produrre membrane ad alte prestazioni, quelli contenti il 30% di filler e l’8% di miscela polimerica membrane a basse prestazioni. I compounds bituminosi sono stati caratterizzati mediante microscopia in fluorescenza e per mezzo delle prove “palla e anello” (Norma CEN 1427), per determinarne il punto di rammollimento, e di penetrazione (Norma CEN 1426). Dalle miscele ottenute sono state realizzate su scala di laboratorio, impiegando come supporto del velovetro, membrane impermeabilizzati (spessore ~3 mm), su cui sono state condotte prove di flessibilità a freddo (Norma UNI EN 1109) e test di cessione. Dai risultati sperimentali ottenuti relativi alla preparazione e alla caratterizzazione (Tabella 2) dei compounds bituminosi contenenti KEU in qualità di filler, non sono emerse problematiche connesse all’impiego di tale materiale in sostituzione del CaCO3. Tabella 2. Risultati sperimentali relativi alla caratterizzazione dei compounds bituminosi. % TOT TP&A 25 MIN (°C) FINALE (°C) PENET. 25°C (dmm) PENET. 60°C (dmm) 10 155.5 155.5 25.4 71.3 Keu 30 153 155 20.7 75.6 1 CaCO3 10 155.5 155.5 23.1 70.5 1 CaCO3 30 153 153 21.1 79.8 * 10 155.5 155.5 25 71.6 POLIMERI % APP % IPP K1 18 12 5 1 1 Keu K2 8 4 3 1 1 KB1 18 12 5 1 KB2 8 4 3 1 CAMPIONE % BASE PE BIT. FILLER % FILLER TP&A K3 18 12 5 1 1 Mix1 K4 8 4 3 1 1 Mix1* 30 150.5 154.5 22 74.4 KE1 18 12 5 1 2 Keu 10 156 156.5 23 72 KE2 8 4 3 1 2 Keu 30 153.5 156 21.1 77 KB3 18 12 5 1 2 CaCO3 10 156 156 23.8 72.8 KB4 8 4 3 * Mix1 = 50% Keu/50% CaCO3 1 2 CaCO3 30 153 154 15.6 91.4 La morfologia dei compounds ottenuti impiegando il KEU, per entrambe le formulazioni sperimentate (basse ed alte prestazioni), è del tutto paragonabile a quella ottenuta impiegando il carbonato di calcio (Figura 3). 31 CaCO3 (KB1) KEU (K1) CaCO3 (KB2) KEU (K2) Formulazione per alte prestazioni Formulazione per basse prestazioni Figura 3. Morfologia dei compounds bituminosi ottenuti impiegando come filler KEU e CaCO3. Dai valori ottenuti dalle prove di flessibilità a freddo (Tabella 3), eseguite sulle membrane ottenute dai compounds bituminosi preparati impiegando la Base 1 in quanto ritenuta la più idonea in base ai risultati ottenuti, è stato riscontrato che le membrane ad alte prestazioni (ovvero a basso contenuto di KEU) presentano buone caratteristiche di impiego, seppur lievemente inferiori allo stesso tipo di membrana contenente il CaCO3. Le membrane a basse prestazioni (ovvero ad alto contenuto di KEU) hanno invece presentato caratteristiche di impiego analoghe allo stesso tipo di membrana contenente il CaCO3 ed è quindi possibile affermare che, con la formulazione impiegata, non esiste alcuna limitazione all’impiego del KEU in qualità di filler per la produzione industriale di membrane impermeabilizzanti a basse prestazioni. Tabella 3. Risultati delle prove di flessibilità a freddo. % TOT % % % CAMPIONE Tf (°C) FILLER % FILLER POLIMERO APP IPP PE KB1 18 12 5 1 CaCO3 10 < -12 KB2 8 4 3 1 CaCO3 30 >0 K1 18 12 5 1 KEU 10 -6 < Tf < -12 K2 8 4 3 1 KEU 30 >0 I test di cessione, al fine di valutare l’eventuale rilascio del cromo, dei solfati e dei cloruri, sono stati condotti sulle membrane a basse prestazioni, ovvero quelle contenenti una maggiore quantità di KEU (30% in peso sul totale), in modo da effettuare le prove nelle condizioni potenzialmente caratterizzate da maggiore criticità. I risultati ottenuti consentono di escludere problematiche ambientali relative al rilascio degli inquinanti investigati da parte delle membrane bituminose prodotte. L’attività di ricerca finora svolta ha permesso di verificare la possibilità di un riutilizzo del KEU in qualità di filler per la produzione industriale di membrane bituminose. Considerati i risultati ottenuti, si ritiene opportuno indagare ulteriormente la formulazione del compound più adatto all’uso del granulato sinterizzato, in termini di qualità di base bituminosa e contenuto e tipologia di miscela polimerica, al fine di raggiungere gli standards prestazionali di membrane impermeabilizzanti idonee per impieghi ad alto valore aggiunto. Applicazione LCA per la valutazione dell’impatto ambientale di processi dell’industria conciaria La metodologia LCA è una tecnica che permette di valutare oggettivamente il contributo di ciascuna fase del ciclo di vita di un prodotto/processo all’impatto ambientale complessivo, nonché di effettuare un confronto tra due o più alternative di sviluppo. Tale metodo è stato applicato per confrontare l’impatto ambientale connesso a processi dell’industria conciaria. Il processo di depilazione, finalizzato a rimuovere dalla pelle l’epidermide e i peli, nella comune pratica conciaria viene eseguito impiegando solfuro di sodio (Na2S) e calce (Ca(OH)2). Nel corso di precedenti attività sperimentali è stata verificata la fattibilità tecnica ed economica di un processo di depilazione innovativo che prevede l’impiego di acqua ossigenata (H2O2) e soda (NaOH), eliminando quindi i solfuri dal processo. L’analisi è stata svolta considerando gli inputs e gli outputs più significativi per il processo di depilazione che differiscono tra le due alternative, come riportato negli schemi di Figura 4, e includendo nei confini del sistema il processo di produzione dei chemicals impiegati. 32 Confine del sistema Materie prime Produzione chemicals H2O 2 NaOH Processo di depilazione ossidativa NH4+, COD Solidi sospesi Trattamento acque Confine del sistema H2S Materie prime Produzione chemicals Na2S Ca(OH) 2 Processo di depilazione tradizionale Trattamento H2S S2- NH4+ COD Solidi sospesi S2Na+ Trattamento acque Figura 4. Diagrammi di flusso dei processi a confronto. Per l’analisi è stato impiegato il software SimaPro 6, utilizzando i dati dei database Ecoinvent e Buwal. Al fine di valutare gli impatti ambientali di entrambi i processi, tenendo conto degli effetti sull’ecosistema e sulla salute umana, sono state considerate le seguenti categorie d’impatto: i) global warning, (ii) ozone depletion, (iii) acidification, (iv) eutrophication, (v) photochemical smog, (vi) eco-toxicity water chronic, (vii) eco-toxicity water acute, (viii) ecotoxicity soil chronic, (ix) human toxicity air, (x) human toxicity water, (xi) human toxicity soil, (xii) bulk waste, (xiii) hazardous waste, (xiv) radioactive waste, (xv) slag and ashes, (xvi) non renewable resources. Quindi, per determinare i contributi a ciascuna categoria considerata, è stato scelto il metodo EDIP 97, in quanto ritenuto il più idoneo per la valutazione di processi chimici. I risultati ottenuti, in termini relativi, sono riportati graficamente in Figura 5. Se si considera ad esempio la categoria photochemical smog, la depilazione ossidativa risulta avere un impatto pari a 0.9 rispetto all’impatto relativo alla depilazione tradizionale. È inoltre possibile notare che il processo innovativo considerato presenta un impatto maggiore rispetto al processo tradizionale in varie categorie. Tale risultato è dovuto alla produzione di acqua ossigenata che contribuisce per oltre il 50% all’impatto ambientale connesso alla depilazione ossidativa. Figura 5. Risultati della valutazione d’impatto. Per una corretta valutazione dei risultati, i valori ottenuti dall’analisi dei processi per ciascuna categoria d’impatto devono essere normalizzati in modo da esprimere i dati rispetto ad un valore di riferimento, ovvero l’impatto equivalente per persona. I risultati normalizzati per categoria d’impatto sono riportati in Tabella 4. E’ possibile notare che le categorie interessate da un impatto maggiore risultano Eco-toxicity water chronic e Eco-toxicity water acute, ma tale impatto risulta significamene ridotto con l’impiego del processo di depilazione ossidativa. Tabella 4. Risultati normalizzati per categoria d’impatto. DEPILAZIONE DEPILAZION E CATEGORIE D’IMPATTO Global warming Ozone depletion TRADIZIONALE OSSIDATIVA 1,43E-05 3,65E-07 1,96E-05 1,08E-07 33 Acidification 8,80E-06 9,73E-06 Eutrophication 6,90E-03 9,32E-03 Photochemical smog 7,69E-06 7,12E-06 Eco-toxicity water chronic 7,00E+01 3,73E-04 Eco-toxicity water acute 3,36E+02 3,68E-04 Eco-toxicity soil chronic 4,34E-06 6,11E-05 Human toxicity air 1,29E-06 2,46E-06 Human toxicity water 3,49E-04 3,11E-05 Human toxicity soil 2,44E-05 4,77E-05 Bulk waste 3,44E-06 7,91E-06 Hazardous waste 1,43E-09 1,68E-07 Radioactive waste 4,78E-06 1,27E-04 Slag/ashes 7,01E-10 4,38E-06 Non Renewable Resources 1,00E-08 1,00E-08 Dal confronto del processo tradizionale con un processo innovativo di depilazione delle pelli, secondo la metodologia LCA, è stato riscontrato che le categorie Eco-toxicity water chronic e Eco-toxicity water acute sono quelle maggiormente colpite dai processi considerati e che tale impatto risulta significativamente ridotto con l’impiego del processo di depilazione ossidativa. Nello studio condotto, il trattamento delle acque reflue non è stato considerato all’interno dei confini del sistema. Considerando i risultati ottenuti, che rivelano che il maggiore impatto ambientale interessa l’inquinamento delle acque, studi futuri prevedono di includere nell’analisi il trattamento delle acque reflue dei due processi di depilazione delle pelli considerati. 34 Produzione ed utilizzo di idrogeno da carbone e biomasse Alessandro Parente Introduzione L’impiego dell’idrogeno come vettore energetico “pulito” risulta di particolare interesse per la soluzione delle principali problematiche connesse all’attuale scenario energetico mondiale: riduzione delle emissioni di CO2, indipendenza energetica, diversificazione dei combustibili e smaltimento dei rifiuti. Infatti, a differenza dell’elettricità, l’idrogeno può essere stoccato con relativa facilità, e, a differenza dei combustibili idrocarburici, esso non causa nessuna emissione locale di CO2. Allo stato attuale, l’idrogeno è principalmente prodotto (>90) da reforming di gas naturale. Altre soluzioni sono disponibili ed includono l’impiego di combustibili alternativi come nel caso della gassificazione di rifiuti e biomasse. L’interesse nei confronti dell’idrogeno risiede anche nella possibilità di addizionare l’H2 ai combustibili idrocarburici (correnti a basso potere calorifico), per incrementare la temperatura di fiamma ed estendendere i limiti di infiammabilità delle miscele. In tale contesto, il gas di sintesi, ottenuto da processi di gassificazione di carbone e biomasse, costituisce un candidato ottimale per la formazione di miscele con metano, olio combustibile e carbone, al fine di ridurne il consumo e di migliorare, ancora una volta, la stabilità di fiamma. Il gas di sintesi, infatti, può essere considerato un combustibile pulito e ragionevolmente a basso costo. Approccio integrato per lo studio dei sistemi di combustione di idrogeno e sue miscele L’idrogeno presenta alcune caratteristiche specifiche (elevata velocità laminare di fiamma, alta temperatura adiabatica di fiamma, ampio intervallo di infiammabilità, elevata reattività e breve ritardo di agnizione) che rendono inadeguato il ricorso a bruciatori di tipo tradizionale. I bruciatori a fiamma diffusiva, infatti, possono generare fiamme estremamente stabili grazie all’ampio intervallo di infiammabilità. Tuttavia le temperature operative risultano molto elevate e, quindi, le emissione di NO nei fumi sono eccessive e di gran lunga superiori ai limiti consentiti dalle vigenti norme. D’altra parte, il ricorso a fiamme premiscelate magre permetterebbe di limitare le temperature operative e la formazione di NO tramite il meccanismo termico. Tuttavia, questo comporterebbe problemi di stabilità di fiamma e rischio di flashback. È necessario, pertanto, che la ricerca sia indirizzata allo sviluppo di sistemi di combustione con due scopi principali: i) la riqualificazione di bruciatori convenzionali per miscele con un contenuto di H2 fino al 50% e ii) la progettazione e lo sviluppo di sistemi innovativi per la combustione di idrogeno puro (utilizzando ossigeno invece di aria come comburente). Alcune tecnologie innovative sono state proposte recentemente per la combustione di miscele a base di idrogeno. Tra esse è opportuno ricordare i combustori catalitici, le micro-turbine e i bruciatori senza fiamma (MILD/HITAC/flameless). L’analisi e progettazione di tali sistemi, estremamente complessi sia dal punto di vista fisico che geometrico, richiede il ricorso ad una strategia integrata, basata sull’impiego di campagne sperimentali e strumenti numerici avanzati (codici CFD), come illustrato in Figura 10. Figura 10 – Schematizzazione della strategia integrata per l’analisi e progettazione di sistemi di combustione complessi. In base a tale approccio, i risultati delle simulazioni numeriche vengono utilizzati per una corretta pianificazione delle campagne sperimentali, mentre i risultati sperimentali forniscono informazioni fondamentali per l’adeguamento e sviluppo dei modelli fisici impiegati nella simulazione numerica. In particolare, nell’ambito della modellazione CFD di tali sistemi, particolare attenzione deve essere rivolta a due aspetti fondamentali: • Conoscenza approfondita degli schemi cinetici. Il meccanismo di ossidazione dell’H2 è ragionevolmente noto. Tuttavia, la crescente attenzione verso il suo utilizzo, ha stimolato l’analisi di nuove condizioni operative (miscele magre ed elevate pressioni) di interesse per il funzionamento delle turbine a gas. Inoltre, in base a quanto detto in precedenza, è chiaro come la complessità delle miscele in gioco, delle condizioni operative, 35 del combustibile di partenza e della loro variabilità, rendano estremamente complesso prevedere il comportamento delle miscele senza un’analisi dei meccanismi dettagliati di reazione. Ciò è particolarmente importante al fine di prevedere, in modo accurato, le emissioni inquinanti e di realizzare, pertanto, dimensionamenti opportuni. Infine, la disponibilità di meccanismi cinetici ridotti in modo “flessibile”, sulla base di condizioni operative locali, è auspicabile al fine di ridurre il costo computazionale associato alle simulazioni numeriche. • Adeguatezza del modello di combustione. La scelta del modello di combustione per il calcolo delle velocità di reazione è estremamente importante per la corretta valutazione dei campi termici e di concentrazione delle specie chimiche. In particolare, è fondamentale che il modello di combustione sia in grado di descrivere opportunamente il regime di combustione presente nel sistema di interesse. Ad esempio, la combustione senza fiamma (di interesse per la combustione di miscele a base di H2) è caratterizzata da uno stato di reattività diffusa ed estesa all’intero volume della camera di combustione. In tali condizioni, il ricorso a modelli di tipo flamelet, ottimali per regimi di combustione diffusivi, risulta del tutto inadeguato e altri approcci, in grado di prendere in considerazione gli effetti di una chimica non infinitamente veloce, sono richiesti (EDC, ED/FR). Nel corso del primo anno del presente Dottorato di Ricerca l’attenzione è stata rivolta all’analisi di sistemi di combustione avanzati (senza fiamma) per la combustione di miscele a base di H2 con lo scopo principale di validare codici di calcolo CFD commerciali (CFX, FLUENT) attraverso l’implementazione di modelli fisici aggiuntivi (modelli di turbolenza, combustione, radiazione, ecc ...), disponibili in letteratura. L’attività di ricerca del II anno è stata volta, invece, all’approfondimento dei modelli di combustione disponibili in letteratura e allo sviluppo di modelli di combustione avanzati. In particolare, è stata investigata l’applicabilità di una tecnica statistica (Analisi delle Componenti Principali) allo sviluppo di modelli di combustione turbolenta. Tale attività è stata svolta durante il periodo di studio trascorso presso l’Università dello Utah, Salt Lake City, dall’Ottobre 2006 al Novembre 2007. Analisi delle Componenti Principali (PCA) per lo sviluppo di un modello di combustione turbolenta Nonostante la continua evoluzione delle risorse di calcolo, è ancora impossibile realizzare una Simulazione Numerica Diretta (DNS) di un sistema di combustione di interesse pratico. Le motivazioni sono essenzialmente due: 1. La DNS richiede che tutte le scale spaziali e temporali del sistema siano completamente risolte. Considerando la separazione di scale tipica dei flussi turbolenti, ciò implica un grado di risoluzione spaziale e temporale che cresce approssimativamente come Re3 2. Meccanismi cinetici dettagliati per combustibili semplici come il metano coinvolgono 53 specie chimiche e 325 reazioni elementari. Di conseguenza, la simulazione diretta di un sistema reagente contenente metano in aria comporterebbe la soluzione di un sistema di 57 equazioni differenziali alle derivate parziali (PDE) fortemente accoppiate (53 equazioni di continuità per le specie chimiche, 3 equazioni di conservazione della quantità di moto, 1 equazione dell’energia). Nel caso di miscele, soprattutto se contenenti idrocarburi superiori, il numero di equazioni aumenta in modo significativo. Al fine di alleviare il costo computazionale associato con entrambe le problematiche illustrate è necessario introdurre modelli. L’aspetto relativo ai requisiti di risoluzione (spaziale e temporale) è generalmente affrontato filtrando le equazioni spazialmente e/o temporalmente per ottenere le equazioni LES e RANS. Ciò introduce i cosiddetti problemi di chiusura turbolenta dei termini convettivi e di sorgente. I modelli per la riduzione del numero di equazioni da risolvere (punto 2 sopra) variano fortemente, ma possono essere ricondotti a due categorie principali: a) semplificazione dello schema cinetico e b) ri-parametrizzazione dello stato termo-chimico del sistema. In generale, lo stato termo-chimico di un sistema reagente monofase è unicamente determinato da Ns+1 parametri (T, p e Ns-1 frazioni di massa). Tutti i modelli di combustione per la riduzione dei Ns+1 gradi di libertà, si basano sull’esistenza di “manifold” attrattori, di dimensioni ridotte (<<Ns+1) rispetto a quelle iniziali, verso cui il sistema velocemente evolve. I modelli basati sulla semplificazione dello schema cinetico determinano una riduzione del numero di equazioni delle specie chimiche attraverso l’analisi del meccanismo cinetico e delle velocità di reazione. Tuttavia, la conseguenza diretta dell’esistenza di un manifold consiste nella possibilità di ri-parametrizzare l’intero stato termochimico in funzione di poche variabili osservabili, per le quali si procede alla scrittura delle equazioni che ne descrivono l’evoluzione all’interno di un codice di calcolo. La ri-parametrizzazione dello stato termo-chimico è, forse, l’approccio modellistico più impiegato nell’ambito della combustione turbolenta. La scelta dei parametri è, storicamente, arbitraria. Nell’ambito della combustione nonpremiscelata la frazione di miscela1 rappresenta la scelta più logica e conveniente. Infatti, la frazione è definita in modo tale da essere uno scalare che si conserva, non richiedendo, pertanto, la chiusura di alcun termine sorgente. L’attività di ricerca svolta ha mirato all’identificazione di una metodologia innovativa, in grado di rendere automatica la selezione dei parametri ottimali per la rappresentazione del manifold. La metodologia proposta è basata sull’Analisi delle Componenti Principali (PCA), una tecnica statistica comunemente impiegata al fine di ridurre la dimensionalità di set di dati di variabili altamente correlate, preservando, il più possibile, la quantità di informazioni contenute nei dati. Il processo di riduzione di dimensionalità, illustrato in Figura 11, si basa sull’individuazione degli autovalori ed autovettori della matrice di covarianza delle variabili che definiscono lo stato termo-chimico del sistema. La riduzione 1 La frazione di miscela rappresenta la frazione locale della corrente di combustibile nella miscela. 36 di dimensionalità è, quindi, conseguita attraverso l’eliminazione delle componenti principali (autovettori) corrispondenti agli autovalori più piccoli. La PCA è in grado di fornire una rappresentazione ottimale di un sistema termo-chimico sulla base di q<<Ns+1 parametri, definiti come combinazione lineare delle Ns+1 variabili primitive T, p and Yi. La PCA fornisce inoltre una mappatura completa dallo spazio delle variabili originarie a quello delle componenti principali (PC). Ciò consente di derivare equazioni di trasporto per le PC con condizioni al contorno ed iniziali associate, e di risolvere, quindi, l’intero problema termo-fluidodinamico in funzione delle PC. Il vantaggio primario derivante dall’impiego della PCA consiste nel rigoroso formalismo matematico per la selezione dei parametri. In particolare, è possibile generare modelli che soddisfano livelli di errore ben determinati, per ciascuna delle variabili primitive. Al fine di valutare le effettive potenzialità della metodologia proposta, la PCA è stata applicata ad alcune fiamme turbolente note, completamente caratterizzate sperimentalmente in termini di misure di temperatura e concentrazione delle specie chimiche, presso i Sandia National Laboratories. In particolare, la validazione si è servita di una fiamma a getto semplice, non premiscelata, CO/H2/aria e quattro fiamme pilota CH4/aria (fiamme C, D, E e F), caratterizzate da una crescente velocità di efflusso e, pertanto, da un crescente grado di estinzione e re-ignizione. La fiamma F, infatti, è prossima all’estinzione totale a valle lungo l’asse della fiamma. Per le sue caratteristiche, la fiamma F costituisce un sistema molto impegnativo per tutti i modelli di combustione attualmente esistenti. Di seguito, alcuni risultati dell’analisi PCA condotta sui dati sperimentali relativi alla fiamma F, costituiti da 62766 misure istantanee di 10 variabili di stato (temperatura, N2, O2, H2O, H2, CH4, CO, CO2, OH, and NO). Figura 11 - Schematizzazione del processo di riduzione fornito dalla PCA. A partire dal set di dati, X, viene calcolata la matrice di covarianza, S, e, quindi, gli autovalori, L, ed autovettori, A. I dati sono proiettati nello spazio identificato dagli autovettori. La riduzione di dimensioni è ottenuta eliminando quelle direzioni associate ad autovalori con valore assoluto trascurabile. Nelle Figura 12 (a), (b) e (c) si riporta, sottoforma di "parity plot", la ricostruzione 2-dimensionale di alcuni variabili di stato (temperatura e frazione massiche del radicale OH e dell’NO). Si può osservare come, utilizzando solo due componenti principali, sia possibile ottenere una discreta ricostruzione della temperatura, mentre deviazione significative si osservano per le specie minori, quali OH e NO. Inoltre, anche per la temperatura, si può osservare come la ricostruzione fornita dalla PCA presenti non-linearità, probabilmente ascrivibili all’incapacità di un modello lineare quale la PCA di descrivere, nel modo più compatto possibile, un manifold altamente non lineare, come accade nel caso di un sistema turbolento reagente. 37 Figura 12 – Ricostruzione dei campi di temperature (a-a’), OH (b-b’) e NO (c-c’) forniti dai modelli PCA (q=3) e VQPCA (q=3 and k =8) per la fiamma F. In Figura, q rappresenta il numero di componenti principali adottate, k il numero di cluster utilizzati e εGSRE,n l’errore globale medio associato alla riduzione PCA. Questa osservazione ha spinto l’attenzione verso lo sviluppo di un modello PCA locale, basato sull’applicazione della PCA a sottoinsiemi di dati ottenuti attraverso un algoritmo di partizione automatico, basato sulla minimizzazione dell’errore di ricostruzione, come illustrato in Figura 13. Il modello risultante, denominato Vector Quantization PCA (VQPCA) è stato, quindi, confrontato con il modello PCA semplice. Figura 13 - Schematizzazione del modello VQPCA. I dati sono suddivisi in sotto-insiemi attraverso un algoritmo di minimizzazione dell’errore di ricostruzione. In altre parole, un punto viene assegnato ai diversi cluster sulla base della proiezione ortogonale del punto stesso dal sistema di riferimento che identifica ciascun cluster. Le Figura 12 (a’), (b’) and (c’) mostrano la ricostruzione della fiamma F fornita dal modello VQPCA con un numero di cluster, k, uguale ad 8, mantenendo lo stesso numero di componenti principali, i.e. q=3. Si può osservare come il modello sia in grado di fornire una ricostruzione molto accurata non solo della temperatura ma anche delle specie chimiche minori, quali OH e NO. Inoltre, è possibile osservare come la ricostruzione fornita dalla VQPCA non presenti quasi nessuna deviazione non-lineare. Tale risultato dimostra come un approccio localmente lineare sia in grado di cogliere le caratteristiche principali di un manifold altamente non-lineare. Si tratta di un risultato molto attraente ai fini dell’effettiva implementazione del modello di combustione in un codice di calcolo CFD. Conclusioni L’impiego dell’Analisi alle Componenti Principali per lo sviluppo di un modello di combustione turbolenta risulta particolarmente promettente. L’analisi dei risultati ha dimostrato, infatti, come, in particolare nella sua formulazione locale, la PCA sia in grado di fornire una rappresentazione ridotta molto accurata dello stato termo-chimico di un sistema, limitando fortemente il numero di parametri richiesti. Inoltre, la linearità del modello risulta particolarmente attraente ai fini della effettiva implementazione di un modello PCA. Infatti, una volta identificate le componenti principali, solo alcune combinazioni lineari delle variabili primitive (temperatura, pressione e composizione) devono essere effettivamente trasportate in un codice di calcolo CFD, con notevole abbattimento del costo computazionale. È 38 opportuno ricordare, inoltre, che la PCA permette anche di stabilire, a priori, l’errore massimo ammissibile per ciascuna delle variabili primitive, consentendo un’opportuna selezione del numero di componenti principali richieste. L’attività di ricerca del terzo anno del presente Dottorato di Ricerca sarà rivolta, quindi, allo sviluppo del modello matematico vero e proprio per la formalizzazione del modello di combustione e per la sua implementazione in codici di calcolo CFD. Inoltre, a tale attività si associa anche la ricerca di ulteriori modelli, eventualmente disponibili in letteratura, per la descrizione semplificata dei processi di combustione in codici di calcolo CFD. L’analisi delle prestazioni di tali modelli e il confronto degli stessi in sistemi di interesse pratico per la combustione di idrogeno e sue miscele (sistemi di combustione senza fiamma), rappresenta l’obiettivo prioritario per il prosieguo del presente Dottorato di Ricerca. 39 ANALISI SPERIMENTALE E MODELLAZIONE DI RIEMPIMENTI DI NUOVA CONCEZIONE PER L’IMPIEGO IN DISTILLAZIONE REATTIVA Dottoranda: Aurora Viva Relatrice: Prof. Ing. Elisabetta Brunazzi Introduzione. Perché sempre più distillazione reattiva in applicazioni industriali. La distillazione reattiva rappresenta il risultato di una integrazione ottimizzata di due operazioni unitarie, la reazione e la distillazione. L’attrattiva di questa nuova tecnologia dal punto di vista industriale ha tre fattori trainanti che sono noti come 3P business drivers ovvero profit, planet, people. Dal punto di vista economico la distillazione reattiva ha dimostrato di poter ridurre i costi operativi, gli investimenti di capitale e le spese di energia di oltre il 20% rispetto alla configurazione classica di reattore e colonna di distillazione in serie. I vantaggi derivanti da un minore impatto ambientale e da una riduzione dei consumi di energia condizionano favorevolmente l’opinione pubblica, che ovviamente accetta con più facilità una tecnologia in grado di ridurre il rischio di runaway in processi reattivi e limita l’ingombro delle apparecchiature. Grazie anche a questi fattori, nell’ultimo decennio è aumentato considerevolmente il numero di applicazioni industriali che utilizzano la distillazione reattiva. Ad esempio, CDTECH, una delle maggiori società specializzate nello sviluppo e progettazione di processi di distillazione reattiva, ha venduto finora circa 200 licenze per processi commerciali, dei quali 146 operativi su scala industriale a fine 2006. L’espansione della tecnologia è evidente se si considera che solo 79 di questi erano invece attivi a metà del 2002. Analogamente, Sulzer Chemtech, ditta leader nella produzione di internals per apparecchiature e fornitrice di impianti “chiavi in mano”, conferma una espansione di questa tecnologia integrata soprattutto nei mercati asiatici emergenti. Ne è di esempio un progetto di collaborazione con un produttore di olio di palma e derivati in Malesia, che ha portato nel 2003 alla messa in opera di un nuovo impianto di distillazione reattiva per l’esterificazione di acidi grassi derivati da oli vegetali per l’impiego nel settore dei cosmetici e dei lubrificanti. Questi nuovi campi di applicazione si vanno ad aggiungere ai processi reattivi che già da qualche anno utilizzano la distillazione reattiva, come quelli di idrolisi, idrogenazione, esterificazione ed eterificazione, alchilazione. L’evidente espansione in campo industriale nel corso dell’ultimo decennio è stata motivata, sostenuta e guidata da un parallelo sforzo nel settore della ricerca che, in Europa ad esempio, ha accomunato numerose industrie e università nel corso di tre progetti europei consecutivi, ciascuno di durata triennale. Il primo, iniziato nel 1996, nell’ambito del più ampio progetto Brite-Euram aveva come scopo la formulazione di una strategia di sviluppo per processi di distillazione reattiva di rilevanza industriale. Il secondo progetto, iniziato nel 2000 con la denominazione INTINT “Intelligent Column Internals for Reactive Separation” si è orientato all’ideazione e allo studio di internals catalitici. L’ultimo progetto, in ordine temporale, denominato INSERT “Integrating Separation and Reactive Technologies” è stato mirato all’identificazione del grado ottimale di integrazione delle operazioni di separazione e reazione ed allo studio di configurazioni innovative come la Reactive Divided Wall Column. A tal scopo è stato individuato un certo numero di processi reattivi, sono state condotte sperimentazioni in laboratorio e campagne sperimentali su impianti pilota, e sviluppati modelli per la sintesi di processo e la simulazione dei processi selezionati. Gli studi condotti finora hanno evidenziato i vantaggi ottenibili per mezzo della distillazione reattiva eterogenea che, a differenza di quella omogenea, non richiede la separazione successiva del catalizzatore liquido. Ovviamente il progresso in questa direzione è strettamente legato all’evoluzione e all’ottimizzazione dei riempimenti catalitici eterogenei. I primi riempimenti utilizzati su scala industriale, noti come Bale packings, presentano buone efficienze di reazione ma non ottime prestazioni per la separazione e necessitano di elevate spese per la sostituzione dell’intero riempimento quando il catalizzatore è avvelenato. Una evoluzione si è avuta con lo sviluppo dei prodotti Sulzer, inizialmente del tipo Katapak-S e successivamente del tipo Katapak-SP. I riempimenti Katapak sono caratterizzati da un elevato contenuto di catalizzatore e proprio il catalizzatore può facilmente essere sostituito con una riduzione dei costi operativi notevole, dal momento che il solo ricambio del catalizzatore ha un costo pari al 40-50% del prezzo di un nuovo riempimento. L’innovazione dei riempimenti strutturati del tipo Katapak-SP è legata alla configurazione modulare che alterna sacchetti di catalizzatore a lamine corrugate del tipo Mellapak e quindi mette a disposizione una porzione del riempimento alla separazione. Questa configurazione aumenta la flessibilità di impiego di questi riempimenti, in quanto il rapporto modulare può essere variato per adattarsi 40 alle necessità del sistema, aumentando la quantità di catalizzatore (e favorire la reazione) o la superficie specifica (e favorire la separazione). L’appropriato utilizzo nei processi di distillazione reattiva e una eventuale ottimizzazione del design di questi riempimenti possono essere raggiunti solo se i fenomeni di trasporto e di reazione sono propriamente compresi. Oltre alla cinetica devono essere valutati tutti i parametri necessari specifici del riempimento stesso quali i coefficienti di trasferimento di materia, la superficie specifica che partecipa allo scambio di materia, l’hold-up di liquido, il tempo di residenza e le perdite di carico. Questi parametri, insieme all’analisi di efficienza di processo, vengono generalmente ottenuti in esperimenti condotti su scala pilota e devono servire per lo sviluppo di modelli fisici che consentano un corretto dimensionamento del riempimento catalitico e che possano quindi essere impiegati successivamente per lo scale-up di processo e l’applicazione a sistemi su scala industriale. Gli impianti pilota per lo studio dei sistemi di distillazione reattiva. Nel corso dei tre progetti europei molti partner industriali, come Sulzer Chemtech, BASF, Bayer, Eni, e alcune università si sono dotati di impianti su scala pilota in cui testare i sistemi reattivi. Nel corso del progetto INSERT in particolare, l’analisi dei casi studio di separazione reattiva è stata condotta impiegando il riempimento di nuova concezione Katapak-SP. In tale contesto anche il Dipartimento di Ing. Chimica dell’Università di Pisa si è dotato di due colonne con diametro interno di 50 mm e 100 mm, del circuito sperimentale e dei sistemi diagnostici per lo studio della fluidodinamica e del trasferimento di materia del Katapak-SP (Fig.1). La geometria di questi riempimenti è complessa ed è importante valutare il contributo che i vari elementi danno alle prestazioni idrodinamiche. In questa ottica non solo il grado di vuoto e l’area geometrica, ma anche le frazioni superficiali di passaggio per i fluidi e le frazioni volumetriche occupate dal catalizzatore rappresentano parametri indispensabili per una completa e utile caratterizzazione geometrica. Una prima parte dell’attività di dottorato è stata quindi dedicata all’accurata caratterizzazione geometrica dei riempimenti studiati. I risultati di questa analisi sono riassunti in Figura 2 dove sono riportati i parametri geometrici, al variare del diametro, per i riempimenti Katapak-SP11 e Katapak-SP12. Collari Open Channel Free area Open Channel (OC) Free area (FA) Figura 1. Struttura e schematizzazione del Katapak-SP di diametro 100mm, del tipo SP 11 (sinistra) e SP 12 (destra). 41 0,9 0,8 0,7 0,6 0,5 0,4 0,3 0,2 0,1 D (mm) ap (m2/m3) 50 100 250 450 100 SP12 450 SP12 217 210 252 310 283 341 VF y(OC+FA+Coll) sup 0 50 yColl sup 100 250 D (mm) 450 yCB vol 100 SP12 450 SP12 Figura 2. Andamento dei parametri geometrici al variare del diametro del Katapak-SP (VF: Grado di vuoto; y (OC+FA+Coll) sup: frazione superficiale legata agli Open Channel, alla Free Area e alla sezione dei Collari; yColl sup: frazione superficiale della sezione occupata dai Collari; yCB vol: frazione volumetrica occupata dai Catalyst Bags; ap: area superficiale specifica). Nel contempo è stata programmata e condotta una campagna sperimentale (riassunta nella Tabella 1) per la determinazione dei parametri idrodinamici (hold-up, perdite di carico, capacità limite) e di trasferimento di materia (kg*a, kl*a). Tabella 1. Piano della campagna sperimentale condotta nel Dipartimento di Ing. Chimica dell’Università di Pisa. Sistema Aria-Acqua Controcorrente Trasferiment Effetto Effetto o di materia viscosit equià corrente HoldHold-up HoldDP/Dz DP/Dz Kg*a Kl*a HoldDP e kg*a up Dinami up Dry Wet up e Statico co Totale DP 9 9 9 9 9 9 9 9 K-SP11 C 50 9 9 9 9 9 9 9 9 K-SP11 C 100 9 9 9 9 9 K-SP12 C 100 L’analisi dei dati sperimentali ha consentito lo sviluppo di correlazioni per la stima dei coefficienti di trasporto di materia, delle perdite di carico, della capacità limite del riempimento e dei diversi contributi di hold-up di liquido in colonna. Le correlazioni sviluppate sono state implementate con successo dai partner del progetto INSERT in codici (Rate-based models sviluppati in Aspen) per la simulazione di processi di distillazione, come nel caso dei sistemi di distillazione reattiva eterogenea per l’esterificazione di acido propionico a npropil propionato e per la disidratazione del metanolo a dimetil etere (Figura 3). 42 6 C o lu m n h e ig h t [m ] 5 4 3 2 1 MeOH exp DME exp MeOH calc DME calc 0 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 Molar composition [%] Figura 3. Esempi di andamento delle concentrazioni in colonne di distillazione reattiva nei sistemi di produzione di dimetil etere (sinistra) e di n-propil propionato (destra). [Di Stanislao et al, Ind. & Eng. Chem. Res., submitted 2007; Buchaly et al., Chem.Eng. Process. 2007]. Nei modelli impiegati sono state implementate le correlazioni fluidodinamiche sviluppate nel corso del presente lavoro di dottorato. E’ importante sottolineare che i sistemi sono stati testati in impianti pilota con colonne di 50 mm di diametro equipaggiate con riempimento Katapak-SP11, per i quali è garantita la validità delle correlazioni fluidodinamiche implementate. Infatti queste correlazioni hanno un campo di applicabilità limitato dovuto alla forte dipendenza di tutti i parametri fluidodinamici dalla geometria e dalle dimensioni del riempimento in analisi. Un esempio di questo “effetto scala” è evidenziato in Figura 4 dove sono riportate le perdite di carico a secco del riempimento Katapak-SP11 misurate in colonne di diametri diversi. Una analisi di questi risultati ha messo in evidenza la relazione che lega le perdite di carico non solo alla diversa sezione libera di passaggio del gas (ved. Figura 2), ma anche alla diversa altezza dei riempimenti. 1800 1600 DP/Dz (Pa/m) 1400 1200 1000 800 600 400 200 0 0,0 1,0 2,0 3,0 4,0 5,0 F-factor (Pa^0.5) C 50 C 100 C 250 C450 Figura 4. Andamento delle perdite di carico in assenza di liquido per il Katapak-SP11 al variare del diametro di colonna Sviluppo di modelli. Parte dell’attività di dottorato è stata quindi dedicata allo sviluppo di modelli fisici per la stima dei vari parametri idrodinamici e di trasferimento di materia. Questi modelli sono indispensabili in un’ottica di scale up per un corretto dimensionamento dei sistemi di separazione reattiva anche su scala industriale. A tale scopo si è proceduto ad una schematizzazione del riempimento in analisi ed alla assunzione di ipotesi per la descrizione dei flussi coinvolti. La struttura complessa del Katapak-SP è infatti scomponibile nelle parti che la costituiscono, i Catalyst Bag e gli Open Channel (Figura 5). Gli Open Channel possono essere schematizzati come un insieme di canali inclinati paralleli nei quali il liquido che fluisce lungo le pareti riduce la sezione di passaggio del gas. Il flusso del liquido può essere descritto teoricamente come un flusso su piano inclinato. Questa descrizione consente di valutare lo spessore e la velocità effettiva del film liquido e, conoscendo l’hold up da correlazioni sviluppate per riempimenti strutturati tipo Mellapak, permette di risalire alla superficie bagnata del riempimento. L’applicazione di equazioni sviluppate per il regime stratificato permette di valutare le perdite di carico subite 43 dalla fase gassosa nell’attraversare la sezione occupata dalle lamine e nel Katapak-SP, dopo l’adattamento alla opportuna geometria. Parallelamente lo studio del letto di catalizzatore, sia tramite strumenti di fluidodinamica computazionale sia con correlazioni sviluppate per letti di sfere, permette di valutare il comportamento del liquido in prossimità del catalizzatore, di stimare le varie frazioni di hold-up (statico e dinamico) del liquido, e di valutare la portata massima di liquido che può fluire all’interno dei sacchetti. Figura 5. Schematizzazione del riempimento impiegata per la modellazione fluidodinamica (SL = open channel, CB = catalyst bag, dh = diametro idraulico). Un primo esempio di applicazione del modello e del buon accordo riscontrato con i dati sperimentali è riportato in Figura 6 per le perdite di carico al variare della portata di liquido nel Katapak-SP11. Questa parte di modellazione è in corso di sviluppo e verrà ampliamente affrontata nel terzo anno di dottorato. 10,00 9,00 8,00 DP/Dz (mbar/m) 7,00 6,00 5,00 4,00 3,00 2,00 1,00 0,00 0,0 0,2 0,4 0,6 0,8 1,0 1,2 1,4 1,6 1,8 F-factor L (m3/m2/h) 17,81 L (m3/m2/h) 21,65 L (m3/m2/h) 25,75 L (m3/m2/h) 30,56 Figura 6. Confronto tra i dati sperimentali (simboli) e i risultati predetti dal modello fluidodinamico (linee continue) per le perdite di carico in presenza di liquido per il Katapak-SP 11 in colonna da C100 . Di seguito si riporta infine un riassunto dell’attività del presente lavoro di Dottorato: 44 I ANNO Caratterizzazione geometrica riempimento Katapak-SP: II ANNO III ANNO del K-SP 11 per C50 e C100 K-SP 11 per C250 e C450 e K-SP12 per C100 e C450 Campagna sperimentale: Prove idrodinamiche Aria-Acqua per K-SP 11 su C50 e in contro ed equicorrente e su C100 in controcorrente per K-SP11 e SP12 Trasferimento di materia per la determinazione del kg*a per K-SP 11 su C50 e C100 e per K-SP12 su C100 Prove idrodinamiche Aria- Soluzione di Glicerina per K-SP11 su C100 Prove idrodinamiche Aria- Acqua per MellapakPlus su C400 Impiego di strumenti specifici per lo studio di riempimenti catalitici strutturati CFD per lo studio di letti catalitici Tomografia a raggi X per l’analisi della distribuzione del liquido nel Katapak-SP Sviluppo di modelli fisici per il dimensionamento del Katapak-SP 45 Sviluppo e sperimentazione di membrane per la separazione di idrogeno da correnti di gas di sintesi Relatore Prof. Dott. Luigi Petarca Candidato Matteo Bientinesi Introduzione La presente tesi di dottorato di ricerca è incentrata sullo sviluppo e sulla sperimentazione di membrane per la separazione dell’idrogeno da correnti di gas di sintesi prodotte tramite processi di gassificazione o reforming di combustibili solidi, liquidi o gassosi. Essa si inserisce nell’ambito del crescente interesse verso l’utilizzo dell’idrogeno come vettore energetico, ed in particolare verso quella “economia all’idrogeno”, che comporta l’utilizzo diretto di H2 per applicazioni sia nel campo della generazione di elettricità e calore che nel campo dei trasporti. La spinta verso un tale scenario è incentivata dalla presa di coscienza della comunità internazionale nei confronti di una serie di problematiche di carattere globale: • il riscaldamento terrestre e l’acidificazione dell’acqua superficiale degli oceani, che implica la necessità di una significativa riduzione delle emissioni di gas serra; • il deterioramento della qualità dell’aria nelle aree metropolitane, dovuto essenzialmente alle emissioni del traffico veicolare e delle caldaie domestiche; • il depauperamento delle riserve di combustibili fossili; • la necessità per tutti i paesi di adottare un sistema energetico il più possibile indipendente dalle importazioni di combustibili fossili da paesi politicamente instabili. In un futuro remoto è auspicabile che l’idrogeno sia prodotto tramite elettrolisi dell’acqua da fonti energetiche completamente rinnovabili e pulite. Ad oggi è tuttavia più realistico valutare la possibilità di produrlo da fonti fossili largamente disponibili, come il carbone, o rinnovabili, come la biomassa, così da eliminare parzialmente i problemi ambientali citati e da favorire lo sviluppo delle infrastrutture necessarie ad un impiego su larga scala di H2 come vettore energetico. La tecnologia di separazione di miscele gassose attraverso membrane è una tecnologia relativamente matura, anche se non molto diffusa, in alcuni settori dell’industria chimica come il petrolchimico o l’industria dell’ammoniaca e del metanolo. L’applicazione delle membrane alla separazione dell’idrogeno da gas di sintesi è però un campo innovativo, in cui sono necessari studi accurati e una serie di miglioramenti sia per quanto riguarda i diversi tipi di materiale, sia per le scelte impiantistiche. La presente tesi di dottorato riguarda sia lo sviluppo e la sperimentazione di membrane di tipo innovativo, sia la valutazione delle possibilità di utilizzo di membrane commerciali in questo nuovo settore. Per questo motivo è stato necessario progettare e mettere a punto un sistema di test per membrane che possa lavorare in una vasta gamma di condizioni operative. Parallelamente è in corso l’analisi del ciclo di vita della filiera di produzione ed utilizzo dell’idrogeno come vettore energetico a partire da combustibili solidi sia fossili (carbone) che rinnovabili (biomasse). In questa ottica viene considerata la possibilità di sostituire le tecniche tradizionali di separazione tramite adsorbimento (pressure swing adsorption) con le tecnologie di separazione su membrana, le quali potrebbero comportare una serie di vantaggi anche a livello ambientale. L’attività del dottorato si inserisce all’interno del progetto FISR 2006 dal titolo “Sistemi integrati di produzione di idrogeno e sua utilizzazione nella generazione distribuita”, ed in particolare nelle linee di progetto 2 (Separazione e purificazione dell’idrogeno) e 5 (Fattibilità tecnico-economica ed impatto ambientale). Sviluppo di membrane al palladio E’ stata effettuata una ricerca bibliografica riguardante le diverse tipologie di membrane per la separazione dell’idrogeno da miscele gassose, e si è concentrata l’attenzione sulle membrane metalliche dense che consentono di ottenere, rispetto alle altre, flussi relativamente alti ed una purezza del permeato molto elevata. La dissoluzione selettiva dell’idrogeno in metalli nobili come palladio, titanio e argento è nota da tempo. Le ricerche si sono concentrate sul palladio, in quanto questo metallo esibisce la più elevata selettività o efficienza di separazione. La permeazione dell’idrogeno attraverso strati densi di palladio implica diversi fenomeni in serie, secondo un meccanismo detto di soluzione-diffusione che comporta il trasporto in forma atomica e che assicura una selettività teoricamente infinita. Il flusso molare di idrogeno attraverso membrane al palladio è calcolato tipicamente con la formula: JH2 = ( PH 2 n p H 2,h − p Hn 2,l s ) 46 dove PH2 [mol.m/m2.hr.bar] è il coefficiente di permeabilità, s [m] lo spessore della membrana, pH2,h e pH2,l [bar] pressione parziale dell’idrogeno, rispettivamente lato alimentazione e lato permeato. Se il processo limitante dal punto di vista cinetico è la diffusione degli atomi di idrogeno nel metallo, l’esponente n assume valori vicini a 0.5, in accordo con la legge di Sievert. Se invece i fenomeni superficiali di adsorbimento dissociativo risultano importanti, n tende ad aumentare fino ad un massimo di 1. Inoltre la permeabilità aumenta con la temperatura secondo una legge di tipo Arrhenius. Attualmente le membrane al palladio sono commercializzate soltanto come film spessi (150 µm) autosupportanti, con lo svantaggio duplice di un basso flusso ottenibile e di un costo molto elevato. L’attività sperimentale della tesi prevede la deposizione di film sottili (1-20 µm) di palladio e sue leghe con argento o rame (in modo da annullare l’effetto dell’infragilimento a idrogeno tipico del Pd puro) su supporti porosi metallici o ceramici. Sono stati acquistati supporti porosi, di geometria sia tubolare che discoidale, in acciaio inossidabile AISI 316L, prodotti da Mott Corporation.. Essi hanno superficie pari a circa 20 cm2 e dimensione dei pori intorno a 0.1 µm. Questi sono stati preferiti in prima istanza ai ceramici poiché sono saldabili e quindi più semplici da utilizzare in fase industriale e non comportano problemi per le tenute. La deposizione dei film sarà effettuata con la tecnica dell’electroless plating (ELP), che consiste in una reazione autocatalitica in soluzione acquosa di un sale metallico che viene ridotto a metallo atomico sulla superficie del substrato ad opera di un composto fortemente riducente. La deposizione avviene tramite quattro fasi: 1. il lavaggio chimico del substrato per la rimozione dei contaminanti; 2. la sensibilizzazione ed attivazione del substrato, tramite immersioni successive in soluzioni acide di ioni Sn2+ e Pd2+; 3. la reazione di plating tra sale di palladio e idrazina, che avviene a partire dai nuclei di Pd depositati nella fase precedente (in Tabella 3 è mostrato un tipico bagno per l’ELP di palladio); le semireazioni di ossidoriduzione che hanno luogo sono: 2 Pd ( NH 3 ) 24 + + 4e − → 2 Pd 0 + 8 NH 3 − N 2 H 4 + 4OH → N 2 + 4 H 2 O + 4e [0.0V ] − [1.12V ] −−−−−−−−−−−−−−−−−−→−−−−−−−−−−−−−−−−−−−−−−−− 2 Pd ( NH 3 ) 24 + + N 2 H 4 + 4OH − → 2 Pd 0 + 8 NH 3 + N 2 + 4 H 2 O [1.12V ] 4. il trattamento termico finale ad alta temperatura (400-600°C) e in atmosfera di idrogeno o azoto che permette l’omogeneizzazione del film. Tabella 3: Bagno di electroless plating di palladio Bagno di plating a Componenti base di idrazina (1 L) Precursore di palladio 3.6 g PdCl2 76 g Na2EDTA Agenti complessanti 650 ml NH4OH (16 M) Agente riducente 10 ml N2H4 (1 M) La deposizione di leghe si effettua in modo analogo, con due possibilità: effettuare la deposizione prima del palladio e poi dell’elemento di lega (sequential ELP), seguiti da interdiffusione durante il trattamento termico, o depositare contemporaneamente i due metalli (simoultaneous ELP). Rispetto alle altre tecniche disponibili l’electroless plating consente una serie di vantaggi tra cui l’uniformità e la durezza del film su ogni tipo di supporto, la semplicità delle apparecchiature e i bassi costi di produzione, il facile recupero del metallo residuo. La caratterizzazione delle membrane è effettuata tramite una vasta serie di tecniche analitiche, le più importanti delle quali sono le micrografie al SEM o al TEM, che permettono la determinazione dello spessore e della morfologia superficiale. Lo spessore è stimato semplicemente anche attraverso l’aumento di peso della membrana dopo la deposizione. Apparato sperimentale per la valutazione di membrane al palladio La determinazione delle prestazioni delle membrane (permeabilità, selettività e resistenza chimico-fisica) si effettua tramite esperimenti in celle di permeazione. E’ stato pertanto progettato un impianto pilota per l’esecuzione di tali test, capace di operare con membrane di diverso tipo e nel più ampio range possibile di condizioni operative. Sono state definite le seguenti caratteristiche dell’impianto: - temperatura operativa variabile tra 25°C e 550°C; - pressione di alimentazione del gas variabile tra 1 bar e 20 bar; 47 - possibilità di alimentare miscele di H2, CO2, N2, CO, CH4, H2O, NH3, H2S in modo da poter simulare un gas di sintesi derivato da steam reforming di gas naturale o gassificazione di combustibili solidi; - possibilità di alimentare un gas di trasporto sul lato del permeato; - misura delle pressioni, delle temperature, delle portate nei punti critici dell’impianto, e della composizione del permeato. In Figura 15 è riportato lo schema d’impianto dell’apparato sperimentale per i test di permeazione, con i range di temperatura e pressione operative dei punti chiave dell’impianto. L’alimentazione dei gas è ottenuta tramite bombole ad alta pressione, connesse all’impianto tramite riduttori con range di pressione 1-50 bar. Le bombole utilizzabili sono quattro: idrogeno, anidride carbonica, una miscela al 50% di metano e monossido di carbonio o alternativamente CH4, CO, H2S in proporzioni molari 48:48:4, e infine azoto, che viene utilizzato per eliminare l’aria dall’impianto prima delle prove ed eventualmente come gas di trasporto per il permeato. La composizione del gas di alimentazione viene mantenuta costante tramite l’utilizzo di regolatori di portata massiva a conducibilità termica, operati in parallelo, uno per ciascuna bombola. Le linee dei diversi gas vengono quindi riunite e la miscela è sottoposta ad un eventuale ulteriore riduzione di pressione tramite una valvola a spillo. La pressione a valle della valvola è misurata e registrata tramite un manometro digitale. A questo punto la miscela gassosa subisce un primo riscaldamento all’interno di un forno tubolare (forno 1). Per massimizzare l’area di scambio viene utilizzato un tubo a spirale inserito nel forno. L’acqua e, in alternativa, soluzioni acqua-ammoniaca vengono alimentate invece allo stato liquido a temperatura ambiente, e vengono vaporizzate in una camera posta all’uscita del forno 1 grazie al calore sensibile della miscela gassosa riscaldata. L’alimentazione, che ha raggiunto così la composizione desiderata, viene ulteriormente riscaldata in una seconda spirale all’interno di un forno tubolare apribile, e quindi viene inviata nella cella di permeazione contenente la membrana. Anche la cella è posta all’interno del forno, e la temperatura operativa è controllata tramite un controllo a cascata. Il permeato ed il retentato uscenti dalla cella vengono raffreddati in scambiatori a doppio tubo operati con un liquido refrigerante ricircolato a circuito chiuso ad un criostato. Le pressioni di entrambe le linee vengono monitorate tramite due manometri digitali. Il retentato viene mantenuto a pressioni costanti che possono arrivare a 20 bar grazie ad una valvola di contropressione a valle del manometro. In parallelo con questa valvola si ha anche la possibilità di utilizzare una valvola a spillo in modo da minimizzare l’andatura oscillante del flusso tipica delle valvole a contropressione. Il permeato invece è mantenuto a pressione poco più che atmosferica da una guardia idraulica posta a valle. La portata massiva è misurata tramite un misuratore a conducibilità termica, quindi viene analizzata la composizione tramite uno spettrometro a infrarossi (IR). I gas vengono quindi scaricati sotto cappa attraverso una guardia idraulica che impedisce l’ingresso di aria nelle tubazioni per evitare il rischio di formazione di miscele esplosive. Il tutto è collocato sotto cappa aspirante. E’ stato effettuato il dimensionamento fluidodinamico e termico delle apparecchiature e sono in corso di acquisizione i materiali e le attrezzature elencati in Tabella 4. Tabella 4: Materiali acquisiti per l’impianto di test Materiale / Apparecchiatura 2.1.1.1 Quantità 2.1.1.2 Produttore 20 dischi Supporti porosi AISI 316L Mott 10 tubi Manometri Leo Rec + driver e cavo 3 Comer Thermal Mass Flow Regulator 5850S/BC 4 Brook Instruments Thermal Mass Flow Meter 5850S/BC 1 Brook Instruments Secondary electronics per TMFM/R Brooks 0154 1 Brook Instruments Forno tubolare RS80/750/11 + Kit per controllo in cascata 1 Nabertherm Pompa HPLC mod. 2080 1 Jasco Criostato RA106 1 Landa Bombole gas, riduttori per bombole 4 SOL spa Tubazioni, valvolame, raccordi Swagelok Reagenti per ELP Carlo Erba Cloruro di palladio per ELP Alfa Aesar Sono stati inoltre progettati i pezzi da far realizzare su misura in officina, ed in particolare le spirali per il riscaldamento dei gas, gli scambiatori a doppio tubo per il raffreddamento di permeato e retentato, le celle di permeazione per le membrane discoidali e tubolari. L’impianto sarà assemblato e messo a punto non appena disponibili i vari componenti. 48 Analisi ambientale della produzione di idrogeno E’ stata effettuata un’analisi ambientale della produzione di idrogeno tramite la metodologia del life cycle assessment (LCA). Un processo di gassificazione di carbone e successiva depurazione su membrana dell’idrogeno (Figura 16) è stato modellato e confrontato con i tradizionali processi di produzione (steam reforming del gas naturale, elettrolisi dell’acqua): i risultati dell’analisi del ciclo di vita hanno evidenziato come la gassificazione permetta una riduzione sensibile dell’impatto globale e soprattutto del consumo di risorse (Figura 14). Figura 14: LCA produzione di idrogeno 49 Figura 15: Schema dell’apparato sperimentale per i test di permeazione 50 Figura 16: Flow-sheet del processo di gassificazione 51 STUDIO SPERIMENTALE E MODELLISTICO DI NUOVI BIOMATERIALI PER APPLICAZIONI CARDIOVASCOLARI AVANZATE Candidato: Relatore: Ing. Mariacristina Gagliardi Prof. Ing. Paolo Giusti Introduzione Durante il primo anno di attività di dottorato è stato svolto un lavoro in parte sperimentale ed in parte modellistico su nuovi materiali polimerici sintetizzati presso i nostri laboratori. La parte sperimentale del lavoro si è basata sulla sintesi e caratterizzazione, chimica, termica, fisica e funzionale di tre copolimeri, poli(metilmetacrilato-co-butilmetacrilato) p(MMA-co-BMA) e dei rispettivi omopolimeri, poli(metilmetacrilato) (PMMA) e poli(butilmetacrilato) (PBMA), al fine di poter valutare l’idoneità e l’efficacia di tali materiali per un potenziale utilizzo come rivestimenti per stent coronarici a rilascio di farmaco. Tali materiali polimerici sono stati utilizzati come matrici entro cui inglobare uno o più principi attivi, con lo scopo di modificare la cinetica di rilascio di farmaco ed allungare i tempi entro cui il principio attivo viene rilasciato verso i tessuti biologici interessati dall’impianto del dispositivo. Sono già stati sviluppati e messi in commercio dei dispositivi che presentano coating in PBMA (Cypher®) ma non esiste un prodotto commerciale in cui è presente un rivestimento costituito dal copolimero p(MMA-co-BMA). Il presente lavoro risulta dunque possedere caratteristiche innovative. La parte modellistica del lavoro si è basata sullo studio del comportamento meccanico di tali nuovi materiali e sulla modellazione numerica del rilascio di farmaco da materiali con le stesse caratteristiche di quelli sintetizzati in laboratorio. A tal fine, sono state condotte delle simulazioni fluidodinamiche atte a valutare l’efficacia del rilascio, del caricamento iniziale e del controllo della matrice sulla cinetica di rilascio del farmaco. Parte sperimentale La parte sperimentale del lavoro ha riguardato le seguenti fasi: 1. Sintesi dei nuovi materiali; 2. Caratterizzazione chimica (peso molecolare e composizione molare delle macromolecole); 3. Caratterizzazione termica (valutazione della tg); 4. Caratterizzazione meccanica (valutazione della curva σ-ε, dei σSN e σR, del modulo elastico); 5. Caratterizzazione funzionale (rilascio di farmaco e diffusione, proprietà di adesione). Sintesi dei nuovi materiali Sono stati sintetizzati tre copolimeri differenti in cui sono state fatte variare le rispettive frazioni molari delle due unità funzionali di metilmetacrilato e butilmetacrilato all’interno della miscela di reazione. Le percentuali molari di MMA/BMA della miscela reagente utilizzate per le sintesi sono state 87.5/12.5, 75/25 ed 50/50, selezionate dimezzando il contenuto molare di BMA a partire dal copolimero teorico 50/50. In Tabella 5 è riportata la nomenclatura utilizzata per i copolimeri sintetizzati in funzione della composizione della miscela reagente. Alimentazione iniziale Copolimero (% molare MMA/ BMA) 87.5/12.5 C87 75/25 C75 50/50 C50 Tabella 5 - Copolimeri sintetizzati. Oltre ai copolimeri, sono stati sintetizzati anche i due omopolimeri (già ampiamente noti in letteratura), in modo da avere un termine di confronto con materiali prodotti con la stessa modalità di reazione (reattore, condizioni operative) dei copolimeri. Le reazioni sono state condotte in sospensione (mezzo di sospensione: soluzione acquosa di sodio dodecilsolfato al 2.5% w/v rispetto al volume liquido totale), al fine di ottenere delle particelle nanometriche di polimero, utilizzando come iniziatore radicalico il persolfato di potassio (KPS, risultato da letteratura essere più idoneo rispetto, ad esempio, al perossido di benzoile per la particolare reazione) in percentuale pari allo 0.036% in peso rispetto al volume totale liquido. Il volume totale di liquido, costituito da acqua e monomeri, è stato tenuto fisso in tutte le reazioni ma sono state fatte variare le loro proporzioni. Le reazioni sono state condotte in regime semi-batch, l’alimentazione monomerica è stata suddivisa in una quota iniziale (32%), alimentata all’inizio della reazione, ed otto alimentazioni (8.5% ciascuna) introdotte nella massa reagente a tempi prestabiliti. È stata utilizzata questa particolare metodologia di reazione a causa della differenza tra i rapporti di reattività dei due monomeri. 52 Per ciascuna reazione è stata monitorata nel tempo la concentrazione dei monomeri reagenti mediante metodiche cromatografiche (HPLC). A tale scopo, è stato sviluppato un metodo cromatografico apposito per la separazione dei singoli monomeri da tutti gli altri soluti presenti (SDS, KPS residuo, polimero già formato). Il metodo cromatografico sviluppato utilizza una colonna di tipo Alltech Alltima C18, un flusso di eluente pari a 0.8 ml/min costituito da acetonitrile (ACN) (80%) ed acqua bidistillata (20%). Il detector utilizzato è di tipo UV e lavora ad una lunghezza d’onda pari a 210 nm. Caratterizzazione chimica Sui materiali sintetizzati sono state eseguite caratterizzazioni di natura chimica per valutare il peso molecolare e la composizione delle macromolecole ottenute. La valutazione del peso molecolare è stata effettuata mediante la tecnica cromatografica della permeazione su gel (GPC). A tale fine, è stata utilizzata una colonna per eluizione con fase organica, una fase mobile costituita da tetraidrofurano (THF) e due canali di rilevazione, IR ed UV. Per la valutazione quantitativa del peso molecolare sono stati utilizzati i dati relativi al canale UV, alla lunghezza d’onda di 245 nm. Per la valutazione dei pesi molecolari, sono state analizzate delle soluzioni polimeriche allo 0.5% w/v in THF, è stata utilizzata una curva di taratura basata sulle analisi GPC di appositi standard a base di PS disciolti in THF. In Tabella 6 sono riportati i risultati ottenuti dalle analisi GPC. Materiale tR [min] M w [Da] 5 M n [Da] IP 5 5.9 2 PMMA 7.7⋅10 3.7⋅10 5 5 5.7 2.3 C87 8.0⋅10 3.5⋅10 5.6 60 C75 5.1⋅105 8.4⋅103 5.5 50.5 C50 5.8⋅105 1.2⋅104 5.5 3.4 PBMA 8.6⋅105 2.5⋅105 Tabella 6 - Pesi molecolari dei materiali sintetizzati calcolati mediante cromatografia a permeazione su gel. I copolimeri sono poi stati analizzati mediante la tecnica dell’FT-IR al fine di poter valutare l’effettiva composizione finale della macromolecola. Mediante FT-IR sono stati acquisiti tutti gli spettri dei materiali sotto forma di film ottenuti per casting, quindi sono stati calcolati numericamente con un calcolatore spettrale, a partire dagli spettri degli omopolimeri, gli spettri ipotetici di miscele polimeriche con composizione molare pari a quella della miscela reagente. Per ciascuno spettro ottenuto con il calcolatore spettrale e per i due spettri ottenuti analizzando gli omopolimeri, sono stati individuati due picchi caratteristici per il PMMA e per il PBMA (rispettivamente, a 2994 cm-1 e 2951 cm-1) e sono stati calcolati i rapporti di banda di tali picchi caratteristici. I valori dei rapporti di banda così calcolati sono stati riportati in un grafico al fine di ottenere una retta di lavoro, in tale grafico l’ascissa rappresenta il valore del rapporto di banda e l’ordinata la composizione molare. Dopo aver calcolato gli stessi rapporti di banda utilizzando gli spettri ottenuti dall’analisi sui film dei copolimeri, utilizzando la retta di taratura costruita sono state calcolate le effettive composizioni molari dei copolimeri. I risultati delle analisi FT-IR sono riportati schematicamente nella Tabella 7: Composizione % Composizione % in Composizione % Composizione % in molare Materiale peso alimentazione molare polimero peso polimero alimentazione (MMA/BMA) (MMA/BMA) (MMA/BMA) (MMA/BMA) 87.5/12.5 83/17 85.9/14.1 82.4/17.6 C87 75/25 68/32 73.5/26.5 67.1/32.9 C75 50/50 41/59 49.0/51.0 40.2/59.8 C50 Tabella 7 - Composizioni molari ed in peso dei copolimeri sintetizzati. Da questi risultati si evidenzia come per i copolimeri il rapporto MMA/BMA nella macromolecola ottenuta sia molto simile a quello presente nella miscela di reazione. Questo significa che la reazione semi-batch ha effettivamente permesso di controllare la composizione della macromolecola. Caratterizzazione termica Sui materiali sintetizzati sono state effettuate analisi di calorimetria differenziale a scansione (DSC). Tali analisi hanno permesso la valutazione della temperatura di transizione vetrosa (tg). I risultati ottenuti sono riportati in Tabella 8. Materiale tg [°C] 118 PMMA 95 C87 80 C75 45 C50 24 PBMA Tabella 8 - Temperature di transizione vetrosa dei copolimeri sintetizzati. 53 Caratterizzazione meccanica Sui materiali sintetizzati sono state eseguite delle prove di trazione. A tal fine, sono stati preparati dei provini di forma “dog bone”. Lo scopo di tali prove è stato quello di ricostruire la curva σ-ε e calcolare il modulo elastico, il σSN e σR. Materiale E [MPa] σSN [MPa] σR [MPa] 640 70 86 PMMA 500 56 74 C87 293 40 54 C75 260 22 41 C50 131 6 27 PBMA Tabella 9 - Proprietà meccaniche dei materiali testati. Caratterizzazione funzionale La caratterizzazione funzionale sui materiali sintetizzati ha riguardato: 1) la valutazione delle proprietà di rilascio del farmaco; 2) la permeabilità diffusiva del farmaco attraverso la matrice; 3) l’adesione sulle superfici dei dispositivi endovascolari su cui dovranno essere utilizzati. I test di rilascio di farmaco sono stati condotti in regime diffusivo-convettivo, immergendo in una apposita soluzione di rilascio i campioni sotto forma di membrane di spessore compreso tra 10 e 30 µm, caricate con Paclitaxel, un farmaco antiproliferativo utilizzato per prevenire l’iperplasia e la restenosi post-stenting. I campioni sono stati ottenuti per casting da una soluzione al 2% w/v in THF dei materiali sintetizzati, è stato effettuato per la prima volta un caricamento variabile di farmaco all’interno delle membrane, pari a 0.5%, 1%, 3%, 5% e 10% in peso rispetto al polimero, al fine di valutare gli effetti del diverso caricamento sulla cinetica e sul rilascio cumulativo in ambiente fisiologico dalle matrici polimeriche. Sono stati eseguiti, ad intervalli di tempo regolari e prestabiliti, dei prelievi della soluzione di rilascio. Tali prelievi sono poi stati analizzati mediante HPLC per valutare la quantità di farmaco rilasciata dalla matrice polimerica. Il metodo cromatografico sviluppato utilizza una colonna di tipo Alltech Alltima C8 specifica per il farmaco, un flusso di eluente pari a 1 ml/min costituito da ACN (58%) ed acqua bidistillata (42%). Il detector utilizzato è di tipo UV e lavora ad una lunghezza d’onda pari a 230 nm. I test di permeabilità del farmaco attraverso la matrice sono stati condotti in regime puramente diffusivo, utilizzando un circuito apposito costituito da due pompe peristaltiche coassiali che provvedono alla circolazione continua di due soluzioni, costituite da acqua ed ACN in pari proporzioni, di cui una contenente il farmaco in una quantità pari allo 0.1% w/v. Le due soluzioni lambiscono una membrana su entrambi lati, si ha quindi un passaggio di farmaco attraverso la matrice polimerica dovuto alla sola differenza di concentrazione tra le due soluzioni. Sono stati effettuati dei prelievi da entrambi i circuiti che contengono le soluzioni e tali prelievi sono stati analizzati mediante HPLC utilizzando lo stesso metodo analitico descritto per l’analisi dei prelievi dei test di rilascio di farmaco. I test di adesione sono stati condotti in soluzione fisiologica immergendo dei campioni ottenuti depositando un film polimerico per casting da THF su supporti in acciaio AISI 316L nudo e ricoperto da uno strato in carbonio turbostratico (carbofilm). I test di adesione hanno avuto una durata massima di 30 giorni, i campioni sono stati monitorati ogni 24 ore. Si è visto che il comportamento delle matrici polimeriche varia in base al supporto su cui sono state depositate (l’adesione è migliore sui supporti ricoperti con carbofilm) ed al variare della composizione della macromolecola (l’adesione migliora per frazioni maggiori di BMA presenti nella catena macromolecolare). Parte modellistica Utilizzando i dati relativi alla parte sperimentale, sono stati costruiti dei modelli numerici per la descrizione del comportamento dei materiali oggetto di studio. Sono stati generati con un risolutore agli elementi finiti dei modelli meccanici per la valutazione delle sollecitazioni e deformazioni che i materiali subiscono in fase di applicazione dello stent, inoltre sono stati studiati i fenomeni coinvolti nel rilascio di farmaco da matrici polimeriche biostabili utilizzando la fluidodinamica computazionale e tre metodi di calcolo diversi (differenze finite, elementi finiti, analogia termica). I dati di input necessari per i modelli fluidodinamici sono stati ottenuti da una elaborazione numerica dei dati sperimentali relativi ai test di rilascio di farmaco. Modellazione del comportamento meccanico I risultati delle prove di trazione effettuate sui provini dog bone sono stati utilizzati come input per valutare il comportamento meccanico di un coating che subisce le sollecitazioni legate all’impianto dello stent (espansione, compressione e sfregamento). Utilizzando il software agli elementi finiti Ansys 11, sono stati generati due modelli differenti: Un modello 2D (guscio sottile), costituito da elementi SHELL42, per lo studio delle sollecitazioni dovute all’espansione dello stent, le quali sono complanari al piano su cui giace il rivestimento. A questo modello sono stati applicati degli spostamenti (deformazione imposta), sono state così ottenute le tensioni al variare della composizione dei materiali. Un modello 3D (piastra sottile), costituito da elementi SOLSH190, utilizzato per valutare gli sforzi legati alla compressione dovuta allo schiacciamento contro la placca e lo sfregamento che si verifica in fase di espansione. In questo caso, sono stati applicati una pressione ortogonale per simulare la compressione ed un carico distribuito su tutta la superficie tangente ad essa per simulare lo sfregamento (carico imposto), sono state così calcolate le deformazioni subite dal materiale. 54 1 ANSYS 11.0 NODAL SOLUTION STEP=1 SUB =25 TIME=1 EPTOEQV (AVG) PowerGraphics EFACET=1 AVRES=Mat DMX =.763473 SMN =.001462 SMX =.564543 .001462 .064026 .126591 .189156 .25172 .314285 .37685 .439414 .501979 .564543 a ANSYS 11.0 NODAL SOLUTION STEP=1 SUB =14 TIME=1 SEQV (AVG) PowerGraphics EFACET=4 AVRES=Mat DMX =16.578 SMN =.665266 SMX =1.178 .665266 .722228 .77919 .836153 .893115 .950078 1.007 1.064 1.121 1.178 c PMMA b ANSYS 11.0 NODAL SOLUTION STEP=1 SUB =28 TIME=1 EPPLEQV (AVG) PowerGraphics EFACET=1 AVRES=Mat DMX =.798625 SMX =.370613 0 .041179 .082358 .123538 .164717 .205896 .247075 .288254 .329434 .370613 Espansione stent PMMA - Espansione con placca calcifica 1 1 1 d ANSYS 11.0 NODAL SOLUTION STEP=1 SUB =1 TIME=1 EPTOEQV (AVG) PowerGraphics EFACET=1 AVRES=Mat DMX =.185E-04 SMN =.539E-03 SMX =.011716 .539E-03 .001781 .003023 .004265 .005507 .006749 .00799 .009232 .010474 .011716 PMMA Figura 17 - a) Distribuzione delle deformazioni totali nel filamento metallico, nella placca e nella parete; b) distribuzioni di deformazioni plastiche all’interno dello stent; tensioni equivalenti di Von Mises all’interno del coating polimerico in PMMA ottenute c) con il modello shell, d) con il modello solsh. In Tabella 10 sono riportati i valori caratteristici ottenuti dalle simulazioni agli elementi finiti. In nessun caso si verificano deformazioni plastiche associate alle sollecitazioni a cui sono sottoposti i materiali. Materiale σeqv,max [MPa] εtoteqv,max 12 PMMA 5.39⋅10-4 5.4 C87 8.72⋅10-4 3.2 C75 1.22⋅10-3 2.8 C50 1.68⋅10-3 0.2 PBMA 2.71⋅10-3 Tabella 10 - Valori massimi di tensione equivalente di Von Mises e di deformazione totale equivalente Cinetica di rilascio del farmaco La modellazione della cinetica di rilascio di farmaco è stata effettuata a partire dai dati sperimentali ottenuti dai test di rilascio di farmaco. Le curve di rilascio di farmaco, costruite come discusso nel paragrafo 0, sono state utilizzate per il calcolo dei parametri cinetici di rilascio. Il modello matematico sviluppato permette di valutare la costante di rilascio k e l’ordine di rilascio n. L’equazione necessaria a descrivere la cinetica di rilascio è la seguente: Mt = k ⋅tn M0 essendo noti i valori di M t M 0 e t, è possibile calcolare k ed n utilizzando l’espressione bilogaritmica: ⎛M ⎞ log⎜⎜ t ⎟⎟ = log(k ) + n ⋅ log(t ) ⎝ M0 ⎠ e quindi, utilizzando l’espressione di Mockel e Lippold si calcola il mean dissoluton time (MDT): 55 MDT = 1 − n ⋅k n n +1 e, conoscendo lo spessore della membrana s, il coefficiente di diffusione: D= π ⋅ s2 t ⋅ Mt 4⋅M0 I valori ottenuti sono riassunti in Tabella 11. Tali valori sono stati valutati come media di tre campioni di ciascun tipo di materiale ai diversi caricamenti di farmaco. Non è stata rilevata alcuna influenza sui parametri valutati da parte del caricamento iniziale di farmaco all’interno della matrice. n k MDT [s] Materiale D [m2/s] PMMA 3.42⋅10-18 0.4893 0.0600 1.66⋅108 C87 2.77⋅10-18 0.3801 0.0680 1.45⋅1011 C75 2.42⋅10-17 0.1513 0.2184 1.12⋅1012 C50 1.98⋅10-17 0.1443 0.3633 5.58⋅108 PBMA 2.23⋅10-17 0.3092 0.3335 4.40⋅106 Tabella 11 - Coefficienti, ordine e costanti di diffusione e MDT dei materiali testati. Modellazione fluidodinamica alle differenze finite Dopo aver calcolato i coefficienti di diffusione, è stato elaborato un modello alle differenze finite mediante il codice di calcolo Ansys Fluent 6.3. La generazione della griglia (mesh) che descrive il modello 2D è stata effettuata utilizzando il pre-processatore Fluent Gambit 2.3. Sono stati generati due domini fluidi, uno per il coating polimerico ed uno per la parete vasale, utilizzando una meshatura mappata costituita da elementi triangolari e tetragonali di varie dimensioni. Per la meshatura della placca è stata utilizzata una opzione di auto-adattamento, la quale permette di adattare la meshatura delle zone prossime al dominio che rappresenta il coating alla forma degli elementi che giacciono sull’interfaccia dei due domini. Per tale motivo, il numero e la dimensione degli elementi che fittano la parete vasale non è perfettamente controllabile. Poiché i risultati sono estremamente dipendenti dalle dimensioni degli elementi, sono state costruite varie meshature con dimensioni degli elementi variabili. Nella Tabella 12 seguente sono riassunte le caratteristiche delle meshature analizzate ed il numero di elementi presenti. Coating Parete Dimensione elementi Numero elementi Dimensione elementi Numero elementi 0.0005 8279 0.0008 180720 0.001 127487 0.0008 3109 52602 0.002 0.001 2054 64725 0.0015 913 19827 0.003 16168 0.002 512 0.005 8368 Tabella 12 - Caratteristiche delle meshature studiate. Sempre in fase di assemblaggio della meshatura, sono stati inseriti i dati relativi alle boundary conditions. Le pareti che rappresentano l’interfaccia polimero-filamento metallico e le pareti che delimitano l’intero modello sono state modellate in modo tale da non essere soggette a flussi di materia. L’interfaccia polimero-parete è stata invece modellata come interior, questa condizione rappresenta una superficie fisica di separazione dei due domini, matrice polimerica e parete, attraverso cui il software riconosce la possibile presenza di flussi di materia ma non rappresenta un vincolo per tale flusso. Dopo aver generato la struttura del modello, questo è stato completato con Ansys Fluent introducendo le caratteristiche tipiche dei sistemi studiati, ossia coefficienti di diffusione (secondo il modello full multicomponent diffusion, il quale permette di specificare per ogni specie chimica vari coefficienti di diffusione in base al mezzo in cui diffonde), i pesi molecolari ed il valore di caricamento iniziale del farmaco all’interno del coating. I valori di diffusione del farmaco attraverso la parete vasale sono stati reperiti in letteratura. Per ciascuna mesh sono state effettuate delle simulazioni facendo variare la concentrazione iniziale di farmaco all’interno del coating polimerico tra 1% w/w e 5% w/w. L’analisi è di tipo non stazionario, sono stati acquisiti i risultati per vari intervalli di tempo entro il periodo complessivo di una settimana. È stato utilizzato un risolutore pressure based per risolvere le equazioni relative al trasporto di materia e non sono state calcolate le equazioni energetiche perché non di nostro interesse. I modelli costruiti sono ancora in fase di studio, occorre valutare con precisione la dimensione minima degli elementi che minimizza la sensibilità dei risultati dalla mesh e non è stato ancora tenuto in conto l’effetto del metabolismo dei tessuti biologici (che porta ad un “consumo” di farmaco) e la perdita di farmaco legata al flusso sanguigno. Modellazione fluidodinamica agli elementi finiti È stato inoltre costruito un modello agli elementi finiti utilizzando il codice di calcolo Ansys 11. 56 La meshatura è stata creata utilizzando il modellatore presente in Ansys, generando la geometria con un metodo bottom up. In seguito, sono stati generati i domini che rappresentano il coating e la parete meshando le geometrie costruite con elementi triangolari di tipo FLUID141, che è un elemento termo-fluido 2D. Sono state attivate le equazioni di trasporto e sono state impostate le caratteristiche chimiche dei materiali utilizzati (viscosità, densità, peso molecolare). Anche in questo caso è stata condotta una analisi dinamica, acquisendo i risultati a determinati intervalli di tempo per un arco temporale di una settimana. Anche per queste modellazioni, occorre ancora effettuare uno studio di sensitività dei risultati dalla dimensione della mesh e dal caricamento iniziale di farmaco. Occorre inoltre tenere in considerazione il metabolismo e la perdita di farmaco che si verifica a causa del flusso di sangue che lambisce parte del rivestimento polimerico non direttamente a contatto con la parete. a b Figura 18 – a) Meshatura del filamento di stent incorporato nella parete vasale. b) Distribuzione di farmaco all'interno del coating polimerico e della parete vasale dopo 1h. Modellazione del rilascio di farmaco mediante analogia termica Questo tipo di analisi non appartiene alla modellazione fluidodinamica ma termica. Viene sfruttata l’analogia tra la legge di trasporto diffusivo di calore di Fourier e la legge di trasporto diffusivo di massa di Fick. Sono state reperite in letteratura le corrispondenze delle varie grandezze e quindi è stata condotta una analisi dinamica. Pubblicazioni Articoli su rivista: 1. D. Silvestri, C. Cristallini, M. Gagliardi, M. D’Acunto, N. Barbani, G. Ciardelli, P. Giusti, Acrylic Copolymers as Candidates for Drug Eluting Coating of Vascular Stents Part 1: Adhesion Characterisation and Properties, submitted to Journal of Biomaterials Science. Polymer Edition. 2. D. Silvestri, M. Gagliardi, C. Cristallini, P. Giusti, Acrylic Copolymers as Candidates for Drug Eluting Coating of Vascular Stents Part 2: Drug Release Investigation, submitted to Journal of Biomaterials Science. Polymer Edition. 3. M. Gagliardi and D. Silvestri, Studying Mechanical Behaviour of an Implantable Vascular Stent and its Polymer Coating Through the Finite Element Method, submitted to Medical Engineering & Physics. Abstracts, proceedings e poster: 1. D. Silvestri, M. Gagliardi, C. Cristallini, E. Rosellini and P. Giusti, Study of Polymer Coatings for Drug Delivery Through Experimental Characterization and Computational Modelling, 21st European Conference on Biomaterials ESB2007, 09-13th September, 2007, Brighton, UK. 2. D. Silvestri, C. Cristallini, M. Gagliardi, N. Barbani and P. Giusti, Studio di materiali biodegradabili per il rilascio combinato di farmaci da stent vascolari, Congresso Nazionale BIOMATERIALI 2007, Bologna 28-29 Maggio. 57 Sicurezza di impianti convenzionali e innovativi per la rigassificazione di liquidi criogenici infiammabili: conseguenze dello spandimento in mare Martina Sabatini Tutor: Prof. Severino Zanelli I TERMINALI DI RIGASSIFICAZIONE La funzione principale di un terminale di rigassificazione è quella di vaporizzare l’LNG scaricato dalle navi ed inviarlo alla rete di trasporto del gas naturale da dove viene distribuito agli utilizzatori. Il terminale deve essere dotato di stoccaggio adeguato per compensare la discontinuità di arrivo delle navi con la continuità di immissione in rete del gas naturale prodotto. Un terminale di rigassificazione è costituito dalle seguenti sezioni di processo: - Sezione di ricezione e trasferimento ai serbatoi - Sezione di stoccaggio - Sezione di rigassificazione e immissione in rete del prodotto rigassificato. Nella Figura 1 è mostrato lo schema sintetico di un impianto di rigassificazione. Figura 19: Schema di un impianto di rigassificazione Il processo di rigassificazione consiste nel portare l’LNG dallo stato in cui si trova nei serbatoi (liquido a 160°C, 1.1 bar) allo stato finale nella pipeline di valle (gassoso a circa 10°C e alla pressione della pipeline, intorno ai 75 bar). Il processo economicamente più efficace consiste nel pressurizzare l’LNG alla pressione finale (portandolo quindi da circa 1 a 75 bar) e quindi riscaldarlo a pressione costante fino alla temperatura finale ( da circa -140 °C a + 10 °C). La sezione di rigassificazione dell’LNG risulta quindi composta delle seguenti unità: - Pressurizzazione dell’LNG 58 - Ricondensazione del boil-off2 - Vaporizzazione dell’LNG - Regolazione, misura e controllo della qualità del gas in uscita dal terminale Tutti i terminali attualmente esistenti sono situati sulla costa (ON SHORE) con grandi attrezzature portuali per l’attracco e lo scarico delle navi metaniere, e spesso in aree densamente popolate. Un’alternativa potenzialmente in grado di soddisfare economicamente i molti requisiti richiesti è l’installazione OFF SHORE di un terminale galleggiante (FLOATING) situato ad alcune miglia dalla costa e collegato a terra da una condotta sottomarina per il trasporto del gas alla rete di distribuzione. Il concetto base di tali impianti, detti FSRU (Floating Storage and Regassification Unit) è uno scafo di acciaio con tre serbatoi sferici alloggiati al centro. L’impianto di rigassificazione è a prua. Lo scafo è ormeggiato con un “single point mooring” attraverso cui transita la linea che porta il gas verso il fondo e quindi a terra. Le metaniere ormeggiano sul fianco dell’FSRU in una configurazione side by side. I sistemi sono progettati per consentire l’accosto, l’ormeggio, lo scarico e l’allontanamento dalla metaniera in circa 20 ore. In Figura 2 riportiamo lo schema di un FSRU. Figura 20: Schema di un FSRU tipico. In rosso è evidenziato il terminale, in azzurro la nave metaniera. Il cerchio rosso evidenzia la sezione di rigassificazione SICUREZZA DEGLI IMPIANTI DI RIGASSIFICAZIONE ON SHORE E FLOATING Da un punto di vista della sicurezza, gli impianti di rigassificazione sia convenzionali che innovativi presentano molti scenari incidentali comuni, in quanto il processo è analogo nei due casi. Vi sono però alcuni scenari che sono tipici di ciascuna tipologia di impianto. - ON SHORE. Lo scenario caratteristico di questa tipologia di impianti è il cosiddetto “roll-over”, vale a dire il miscelamento improvviso di due strati di LNG che hanno diversa densità e temperatura. Un incidente di questo genere è avvenuto in passato a Panigaglia (nei primi anni 70), ma non ha avuto conseguenze, in quanto la valvola di sicurezza e la torcia a valle hanno gestito l’intera portata di sfiato. La PSV deve pertanto essere dimensionata per questo scenario specifico, che è in assoluto il più gravoso in termini di portate da smaltire. - FLOATING. Gli scenari specifici per gli FSRU sono essenzialmente due: la rottura dei bracci di carico a causa di onde anomale, e il danno provocato dalla collisione con un mezzo navale. In Tabella 1 e 2 riportiamo alcuni TE tipici rispettivamente di un impianto floating e on shore, mentre in Figura 3 riportiamo gli alberi degli eventi relativi a rilasci continui e catastrofici di LNG. Top 2 Tabella 13: Top event tipici di un impianto di rigassificazione di tipo FSRU Frequenza Descrizione (ev/anno) Roll over GNL nel serbatoio < 1.10-6 2 I sistemi di stoccaggio e movimentazione dell’LNG assorbono calore dall’ambiente, anche se in misura limitata grazie alle coibentazioni di tutte le apparecchiature e linee interessate. Ciò dà origine allo sviluppo di vapori di LNG nei serbatoi (boil-off). Per evitare la pressurizzazione dei serbatoi (le cui pressioni operative sono circa 100 ÷ 200 barg in relazione alla tipologia costruttiva) il boil-off deve essere continuamente estratto e opportunamente gestito. 59 5 6 7 9 11 13 N° 1 2 3a 3b 4 5 >1.10-4 >1.10-4 6.1.10-3 4.3.10-6 6.3.10-3 1.8.10-3 Rilascio GNL per sganciamento bracci di carico Rilascio GNL per rottura parziale bracci di carico Rilascio GN per rottura parziale linea BOG Formazione miscela infiammabile in linea BOG Rilascio GNL per rottura parziale linea prelievo Rilascio GNL per rottura parziale linea boosters Tabella 14: Top event tipici di un impianto di rigassificazione convenzionale (on shore) Stato Top event DN T (°C) P (atm) Rilascio fisico Apertura PSV in serbatoio di stoccaggio Perdita da tubazione sul pontile Sganciamento bracci di scarico Perdita dai bracci di scarico Perdita da tubazioni di ricircolazione Perdita all’uscita dal ricondensatore -163 1.2 Gas Continuo 26’’ -163 5 Liquido Continuo 12’’ -163 5 Liquido Istantaneo 12’’ -163 5 Liquido Continuo 8’’ -163 9 Liquido Continuo 26’’ -147 9 Liquido Continuo Figura 21: alberi degli eventi per rilasci istantanei e continui di LNG MODELLAZIONE DELLE CONSEGUENZE In seguito al rilascio su acqua di LNG si forma una pozza di liquido bollente sulla superficie; pertanto la valutazione delle conseguenza è strettamente legata al fenomeno del rilascio, dello spandimento e dell’evaporazione del liquido dalla pozza, e in seguito alla dispersione del vapore e all’eventuale innesco in campo di infiammabilità. Per quando riguarda la modellistica esistente, il punto critico è la valutazione dell’evaporazione del liquido dalla pozza, sulla quale è concentrato il presente lavoro. EVAPORAZIONE DA POZZA BOLLENTE Nel caso di rilascio di liquido criogenico, il fenomeno dell’ebollizione è governato essenzialmente dallo scambio termico, vale a dire dal calore trasmesso alla pozza mediante: 60 Conduzione dalla superficie su cui si rilascia Convezione dall’atmosfera Irraggiamento Nel caso di rilasci su superfici liquide, in letteratura si individuano sostanzialmente due casi limite: - Rilascio su superfici confinate d’acqua (essenzialmente fiumi) - Rilascio su superfici non confinate d’acqua (mare/oceano) Nel caso di rilasci su superfici non confinate, dall’analisi storica degli incidenti e da prove effettuate su scala medio-grande negli anni 70-80 emerge che non si ha formazione di ghiaccio sulla superficie liquida (o se ne forma uno strato molto sottile che si rompe dopo brevissimo tempo), per via dell’efficienza dei moti convettivi sotto la superficie che fanno sì che la temperatura all’interfaccia acqua-LNG sia da considerare costante e uguale alla temperatura ambiente dell’acqua (intorno ai 20°C). In questo caso è possibile descrivere il fenomeno dell’ebollizione mediante la curva mostrata in Figura 4, nella quale sono evidenziati i 3 regimi di ebollizione che si possono individuare. Figura 22: regimi di ebollizione. Sulle ascisse c’è il ∆T tra liquido bollente e superficie, sulle ordinate il flusso termico in kW/mq - Nucleate boiling: è la fase iniziale dell’ebollizione, in cui iniziano a formarsi le bolle. Nel caso specifico dell’LNG su acqua il meccanismo di formazione delle bolle è di tipo omogeneo, vale a dire le bolle si formano nel bulk della pozza, a causa dell’elevato ∆T tra LNG e acqua. Nel caso specifico dell’LNG3 a questa nucleazione si associa un fenomeno detto RPT (Rapid Phase Transition), una esplosione non-chimica data dalla penetrazione dell’LNG sotto la superficie marina al momento del rilascio, che aumenta l’interfaccia LNG-acqua e provoca un cambiamento di fase estremamente rapido, se il ∆T è sufficientemente alto. Tale effetto di sovrapressione in genere non è rilevante in confronto alle eventuali conseguenze incidentali in caso di innesco, ma può diventare significativo in caso di grandi rilasci istantanei. - Transition boiling: interviene quando si raggiunge il flusso termico critico; le bolle raggiungono dimensioni maggiori e il coefficiente di scambio si abbassa fino a raggiungere il flusso minimo di film boiling. - Film boiling: le bolle di vapore collassano fino a formare un film di vapore tra la pozza e la superficie. Il coefficiente di scambio termico è minore rispetto al regime nucleato, e le bolle di vapore salgono verso il bulk a partire dal film all’interfaccia. Nel caso di rilasci su superfici confinate, evidenze sperimentali (tra cui Vesovic 2006) mostrano che si forma uno strato di ghiaccio sulla superficie dell’acqua, sul quale avviene l’ebollizione della pozza. In questo caso il regime iniziale di ebollizione è il film boiling, dopodiché il film di vapore collassa e si instaura il nucleate boiling, durante il quale l’ebollizione è governata dalla conduzione del calore attraverso lo strato di ghiaccio. EQUAZIONI 3 Si deve precisare che il fenomeno RPT si verifica solo in caso di LNG in quanto miscela di idrocarburi diversi, mentre non si hanno evidenze di tale fenomeno nel caso di metano puro. 61 Le equazioni che rappresentano la vaporizzazione di LNG (modellato come metano puro) su una superficie liquida in quiete sono le seguenti: dM = −m' '⋅R 2 (1) dt dR A ⋅M (2) = dt R dove M e R sono rispettivamente la massa di LNG nella pozza e il raggio della pozza stessa. A e m” sono due parametri che proporzionali rispettivamente alla velocità di spandimento della pozza e al rateo di evaporazione, e vengono espressi secondo la (3) e la (4): ⎡ g ⋅ (ρ w − ρLNG ) ⎤ (3) A = 2.69⎢ ⎥ ⎣ π ⋅ ρ w ⋅ ρLNG ⎦ (T − TLNG ) (4) m" = π ⋅ h ⋅ W L LNG dove g è l’accelerazione di gravità, h il coefficiente di trasferimento di calore, L il calore latente di evaporazione dell’LNG. Le equazioni (1) e (2) sono valide in termini generali: m” e A vengono invece valutati diversamente a seconda delle condizioni in cui avviene lo spandimento. In particolare nel caso di rilasci su masse d’acqua non confinate m” è da ritenersi costante (perché la temperatura dell’acqua all’interfaccia può essere considerata costante), così come A (gli alti ratei di evaporazione rendono lo spandimento governato essenzialmente dalle forze gravitazionali inerziali, e dunque la forza motrice è rappresentata dall’altezza della pozza, mentre l’inerzia dell’acqua fornisce un ostacolo all’espansione. Il valore numerico di A viene comunque valutato sperimentalmente). Integrando analiticamente sotto queste condizioni le equazioni (1) e (2) si ottiene un’espressione che fornisce la relazione per il rateo di evaporazione in funzione della massa rimanente, cioè: 1 3 ⎞ 2 dM 2 ⎛ 3 = ⋅ B ⋅ ⎜ M0 2 − M 2 ⎟ ; dove B = 2m"⋅A 0.5 (5) dt ⎝ ⎠ 3 Integrando si può ricavare tf, cioè il tempo di evaporazione totale della massa di LNG di questo tipo: 1 ⎛ M ⎞ 4 t f = c ⋅ ⎜ 20 ⎟ (6) ⎝ m" ⋅A ⎠ dove M0 è la massa di LNG rilasciata. La costante c varia nei lavori reperiti in letteratura di un range di circa il 10%, a seconda delle ipotesi iniziali prese (in particolare se si considera lo spandimento sufficientemente veloce si può modellarlo trascurando l’evaporazione: in questo caso la massa rimane costante. In caso contrario si deve tenere conto della variazione della massa nel tempo). Nel caso di rilascio su una superficie d’acqua confinata, si ha formazione di uno strato di ghiaccio all’interfaccia acqua – LNG. Una volta formato lo strato, il calore rimosso dall’evaporazione del criogenico porta ad un’ulteriore diminuzione della temperatura del ghiaccio all’interfaccia. In sintesi il trasferimento di calore dal bulk dell’acqua alla pozza avverrà per conduzione, prima attraverso lo strato limite termico dell’acqua liquida, poi attraverso lo strato (che aumenta mano a mano di spessore) di ghiaccio. La legge di Fourier può dunque descrivere il trasferimento di calore sotto queste condizioni, ovviamente considerando la presenza dello strato di ghiaccio e dunque con costanti termodinamiche diverse a seconda della profondità: ∂TW ∂ 2 TW = kW ; z>ε (7) ∂t ∂z 2 ∂Ti ∂2 T = k i 2i ; 0 ≤ z < ε (8) ∂t ∂z ∂ε ∂T ∂T ρW ⋅ L W ⋅ = λi i − λW W ; z=ε (9) ∂t ∂z z = ε ∂z z = ε dove LW è il calore di fusione dell’acqua e k e λ rispettivamente le diffusività e le conduttività termiche, e ε è lo spessore dello strato di ghiaccio. La suddetta diminuzione della T del ghiaccio all’interfaccia con l’LNG è alla base della variazione del regime di ebollizione, che da film boiling passa a nucleate boiling (la diminuzione della T porta al collasso del film di vapore) portando ad una diminuzione del rateo di evaporazione del metano (il coefficiente di trasferimento di calore h è inversamente proporzionale allo spessore dello strato di ghiaccio). 62 ULTERIORI PARAMETRI CHE INFLUENZANO IL FENOMENO I parametri che possono influenzare l’ebollizione di LNG sull’acqua rispetto alla trattazione fin qui esaminata sono essenzialmente: a. Il moto ondoso dell’acqua b. La composizione chimica della miscela di idrocarburi c. La turbolenza che interessa il punto dell’impatto tra il getto di LNG e la superficie dell’acqua Per quanto riguarda i fattori b) e c), essi sono stati analizzati in alcuni lavori (tra cui Vesovic e Conrado 2000), dai quali emerge che: - Il modellare LNG come metano puro induce ad una sottostima dei tempi di rilascio non trascurabile (dell’ordine del 10-15%) e ad un errore nella valutazione del rateo di evaporazione durante tutto il fenomeno dell’ebollizione, che tuttavia mantiene il medesimo andamento in entrambi i casi (fatta salva l’ipotesi di una corretta e precisa valutazione delle variabili termodinamiche in entrambi i casi) - La locale turbolenza data dall’impatto del getto in acqua provoca, prevedibilmente, un locale aumento dell’evaporazione, dato dal locale aumento della superficie di contatto tra LNG e acqua. Relativamente all’effetto del moto ondoso, scarsi esperimenti sono stati condotti in merito. La quasi totalità dei dati sperimentali disponibili sono relativi a superfici in quiete, e solo in alcuni approcci si è tenuto conto dell’effetto del moto ondoso, sostanzialmente per valutare il diverso spandimento della pozza (in sintesi viene ipotizzato che lo spandimento termini al momento in cui lo spessore della pozza abbia raggiunto un’altezza pari al 60% dell’altezza dell’onda). Tuttavia da più parti si solleva l’esigenza di ulteriori indagini in merito, specie allo scopo di ottenere dati sperimentali per supportare il lavoro di modellazione. In particolare il moto ondoso e in particolare i moti convettivi degli strati superficiali dell’acqua possono influire nel meccanismo della conduzione del calore (vedi equazioni (7), (8) e (9) e Figura 5), sostituendo alla conduttività termica molecolare una conduttività termica effettiva, che porta ad un aumento della T all’interfaccia acqua – LNG rispetto al caso di acque ferme. Figura 23: schematizzazione dei moti convettivi che interessano gli strati superficiali dell'acqua Al fine di indagare più approfonditamente tale fenomeno si inserisce la proposta sperimentale (in fase di realizzazione) del presente lavoro di dottorato. L’APPARATO SPERIMENTALE L’apparato sperimentale ideato per il presente lavoro di dottorato consiste in una vasca in plexiglass (il cui progetto è mostrato nelle Figure seguenti) con applicato un sistema che permette la creazione di un moto ondoso. Le finestre inserite nei lati permetteranno l’inserimento di termocoppie per valutare lo spandimento della pozza di criogenico (al momento si pensa di utilizzare N2), sia in condizioni di acqua calma che in presenza di moto ondoso. 63 Figura 24: Disegno del'apparato sperimentale PRINCIPALI RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI V. Vesovic, The influence of ice formation on vaporization of LNG on water surfaces, J. Hazardous Materials (2006) C. Conrado, V. Vesovic, The influence of chemical composition on vaporization of LNG and LPG on unconfined water surfaces, Chem. Eng. Science (2000) PUBBLICAZIONI M. Sabatini, V. Cozzani, S. Zanelli, Valutazione della vulnerabilità di impianti chimici ad azioni di sabotaggio, VGR 2006, Pisa V. Cozzani, E. Salzano, M. Campedel, M. Sabatini, G. Spadoni, The assessment of major accident hazards caused by external events, 12th International Symposium on Loss Prevention and Safety Promotion in the Process Industries, Edimburgh, 22–24th May, 2007. M. Sabatini, V. Cozzani, S. Zanelli, Assessment of the vulnerability of industrial sites to acts of Interference, ICheaP-8 - The eight International Conference on Chemical & Process Engineering, Ischia, 24-27 June, 2007 M. Sabatini, V. Cozzani, S. Zanelli. Intentional acts of interference: attractiveness and vulnerability of industrial sites. Icheap8 Selected Papers, AIDIC Conference Series, vol. 8, 2007. M. Sabatini, V. Cozzani, S. Zanelli, Hazard assessment of major accidents triggered by intentional acts of interference, PSAM9 – Ninth International Probabilistic Safety Assessment and management Conference, Hong Kong, 18-23 May, 2008 (accepted abstract) 64