De Blasi Nicola

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De Blasi Nicola
Cresti, E. (a cura di) Prospettive nello studio del lessico italiano, Atti SILFI 2006. Firenze, FUP: Vol I, pp. 85-92
Per un dizionario storico del napoletano
Nicola De Blasi, Francesco Montuori
Università “Federico II” di Napoli
Abstract
I vocabolari del napoletano hanno un’impostazione quasi sempre diacronica, secondo un metodo di indagine nato a fine Settecento e
mai più abbandonato neanche in pubblicazioni recenti: tuttavia il repertorio lessicale documentato è in genere limitato ai secoli XVII e
XVIII ed è tratto da testi letterari ordinati in un canone. Perciò si avverte ormai forte l’esigenza di un vocabolario storico del
napoletano che documenti senza discontinuità i mutamenti formali e le variazioni semantiche di un lessico che a sette secoli di
ricchissima letteratura affianca un’accertata vitalità. Con questo intervento si presenta il progetto di un dizionario storico del
napoletano, avviato presso il Dipartimento di Filologia moderna “Salvatore Battaglia” dell’Università di Napoli “Federico II”. In vista
di tale progetto si è compiuta la digitalizzazione di un corpus di testi letterari e lessicografici rappresentativi della storia del napoletano
in diversi generi e settori; si è quindi proceduto al trattamento automatico dei dati informatici allo scopo di realizzare complete
concordanze e più agili formari, che consentono alcune riflessioni di metodo. La comunicazione esemplifica quali acquisizioni anche
epistemologiche comporti lo spoglio lessicale di opere scritte prima e dopo Lo cunto di Basile: in particolare si analizzano da un lato
gli appellativi con cui si denominano l’adolescente e il ragazzo in napoletano e in dialetti finitimi (caruso, zitiello,
guaglione/guagnone, scugnizzo), dall’altro l’uso di termini del lessico medico.
1. Dialetto e lessicografia
1.1.
La continuità della documentazione della
lingua locale a Napoli
L’idioma locale di Napoli ha una ricca e costante
documentazione scritta, in un gran numero di testi (cfr.
Bianchi-De Blasi-Librandi, 1993 e De Blasi-Fanciullo,
2002: 656-660)1. Spesso diverse sono le cause obiettive o
le intenzioni soggettive che inducono gli autori ad
adoperare una varietà che riproduce nello scritto i tratti
grammaticali e lessicali del sistema linguistico in uso in
città. Da un lato il volgare fiorentino ebbe una precoce
diffusione a Napoli, importato in età angioina attraverso le
opere letterarie e la presenza diretta dei mercanti e
banchieri toscani con la connessa attività scrittoria pratica
o ricreativa. Di qui un’influenza sistemica sulla lingua
locale e una scala di valori nella percezione della
variazione diatopica, con il fiorentino eletto a lingua della
letteratura e il napoletano limitato al rango della
comunicazione orale quotidiana. Tale gerarchia viene
rovesciata solo da grandi personalità in particolari generi
per specifici scopi: perciò non è necessario aspettare la
svolta di Bembo per vedere nelle scelte linguistiche del
Boccaccio dell’Epistola napoletana o degli autori degli
gliommeri tardoquattrocenteschi l’intento parodico o
ludico che contrappone la lingua e la cultura del popolo a
quella alta e “impegnata” nella cosiddetta koinè di genesi
cancelleresca. D’altra parte non mancano nel Trecento
esempi di volgarizzamenti dal latino caratterizzati da una
non controversa adesione al volgare locale ad opera di
persone non incolte ma di limitata cultura storica,
letteraria e linguistica. Ulteriori documenti del volgare
locale caratterizzati da continuità negli intenti e nelle
motivazioni alla base delle scelte linguistiche
appartengono a generi di ininterrotta tradizione come la
poesia per musica o la farsa teatrale.
È naturale che, in corrispondenza di una così vasta e
prolungata produzione di testi nella lingua locale, sia
sempre stata viva l’esigenza di preparare strumenti che
1
I paragrafi 1-2 sono di Francesco Montuori; il paragrafo 3 è di
Nicola De Blasi.
fornissero un adeguato sussidio per la lettura e la
comprensione delle opere, e quindi, in primo luogo, per
l’apprendimento del lessico locale. La produzione di
vocabolari bilingui è cominciata perciò ai primi del
Cinquecento e non si è più arrestata. Alcuni dizionari sono
fonti preziose per il lessico antico, come per esempio lo
Spicilegium di Scoppa (1512) o l’ancora troppo poco
conosciuto Fabrizio Luna (1536); altri mostrano uno
specifico obiettivo didascalico, come l’Andreoli (1887)
per l’insegnamento dell’italiano, che infarcisce il
lemmario di molti italianismi; altri, come quello curato in
gran parte da Galiani (1789), sono particolarmente attenti
alla fraseologia in uso alla loro epoca.
Ma in genere la documentazione è molto parziale e nel
complesso insoddisfacente. Non ci si sofferma tanto sulla
marcatura delle voci o dei significati sulla scala della
maggiore o minore popolarità, o sul grado di formalità o
informalità.
Si evidenzia solo l’assenza di quella parte di lessico
che i compilatori giudicano non popolare a causa della
banalizzante opinione che la tradizione dotta sia sempre
estranea al repertorio dialettale. Ma, soprattutto, mancano
quasi sempre osservazioni sulla diffusione areale dei
termini, perché le fonti sono in maggioranza scritte e
quindi non caratterizzabili dal punto di vista diatopico; e
se la lingua dei testi è sottoposta al vaglio della
competenza sincronica del compilatore, ciò comporta una
tacita attualizzazione dei significati della parola invece di
un’auspicabile (anche se disorganica) descrizione dell’uso
concreto. E infine, difetto ancor più grave, i lemmari si
presentano in genere cronologicamente disomogenei,
accostando termini fuori dell’uso (o ormai periferici) a
neologismi di breve fortuna, parole settoriali a inquietanti
vuoti in molti ambiti del lessico della quotidianità.
1.2.
Un esempio di parziale riscontro: i nomi
della milza
Nel ms. rossiano che tramanda la cosiddetta redazione
R del volgarizzamento del De Balneis Puteolanis di Pietro
da Eboli (Pelaez, 1928), vi è un discreto numero di glosse
di grande interesse, quasi sempre riferite a termini della
medicina o della fisiologia. Una sola appare in forma del
Nicola De Blasi, Francesco Montuori
tutto uguale anche nel ms. napoletano testimone dell’altra
redazione dei Bagni, èdita da Percopo (1886):
exceptu lu splenitico [idest lo schinuso]
Allarghiamo il contesto. Si parla del bagno dell’Arco,
il quale, secondo il sommarietto in latino nel ms.
napoletano (Percolo, 1886: 655), oltre a tanti giovamenti,
può essere dannoso per alcune patologie: «nocet tamen
tumorem ventris habentibus, nocet tumenti spleni et
iecori».
Chillo chi sente male a stremetate | chà pigllarray omne
sanetate, | et li mienbre intrinsece sanate haberray, | exceptu
lu splenitico [idest lo schinuso], ad cui tu dicerray | et a lu
tropico misero: tu non ce venerray, | ca chillo chi lo secota,
inflatura haverray. | Quillo chi dentro have inflatura, | Chà,
se nce vene, cresce le temmura.
(BagniR, XVI, vv. 269-276; Pelaez 1928: 104)
Chi mal se sente in ne le stremetate, | da chisto bagno averrà
sanetate. | Ancor le membre intrinsece sanar te ç’averrai, |
excepto lo splenitico [idest lo schinuso], ad chi no gioverai;
| et tu, misero ydropico, chì no ce venerai, | cha chillo che lo
secuta, inflatura averrai: | chillo, che dentro inflatura tene, |
averràla plu forte, se chà vene.
(BagniN, XIII vv. 221-228; Percopo 1886: 655)
Nel Trattato dei Bagni (ediz. Percolo, 1886) il
tecnicismo splenitico è evitato e il significato viene
espresso non con il corrispondente volgare, ma con una
perifrasi: «ma non fa prode ad chi havesse lo ventre
grosso, et a chi havesse dolore de meucza, o vero chi
havesse intorczato lo fechato» (Trattato XV, 5-8; Percolo,
1886: 700). Del resto il Trattato, oltre al già visto meucza
(anche nei Ricordi di Loise De Rosa 578.20 e 21, editi da
Formentin, 1998), preferisce senz’altro melsa (anche a
XL. 718.14) o meusa (anche a XL. 718.12), mentre i
volgarizzamenti in versi adottano sempre splen, splene,
splene oppure l’allotropo schena.
Situazioni simili si leggono in opere siciliane del
sec.XIV: al Declarus di Senisio (Marinoni 1955: 88)
appartengono skina e skinusu, varianti romanze di splen e
spleneticus. Invece nel Thesaurus pauperum volgarizzato
(Rapisarda 2005: 25 cap.15; 41-42 cap.30; 62 cap.80)
troviamo sia milza sia skina (anche al maschile), talvolta
in dittologica sinonimica.
Passando all’inizio del sec.XVII la situazione si
presenta mutata: in G.B. Basile e in G.C. Cortese la
‘milza’ è sempre meuza (Lo cunto III 3 e egl.I 116-118;
Micco Passaro III ott.22 e VII ott.32) e d’altra parte esiste
anche schena ‘schiena’ (Lo cunto I 1; II 4; III 4, 8 e 9;
Viaggio di Parnaso IV 17 e V 28; Lo Cerriglio ‘ncantato
VII 16; cfr. anche Tiorba a Taccone VII 5.264).
Ma alcune incertezze interpretative possono occorrere
leggendo alcuni passi delle farse del medico salernitano
Vincenzo Braca, che nel Secundo sautabanco 20-21 in un
lungo elenco di malanni di vario genere, parla di «no
fecato che ‘o pasto no’ retene, | no dolore de schene e de
matrone»; il curatore traduce ‘un fegato che il pasto non lo
trattiene, un dolore di schiena e di utero’ (Mango, 1976: II
36). Si noti che in contesto non ci sono altre parole che
rimandino alla schiena (i reni) o alla milza. La -e finale di
schene ‘schiena’ (< longob. *skina) è di difficile
spiegazione sia per la fonetica sia per la morfologia,
mentre sarebbe del tutto plausibile (ed è ben attestata in
testi napoletani e italiani) per gli esiti di SPLĒN, SPLĒNE
(REW 8164). Inoltre il contesto che vede raccolti insieme
fegato, milza e utero (o ventre) ben si accorda con la
tradizionale partizione dei «membri nutritivi» posti sotto il
diaframma e sede degli «spiriti naturali» (Altieri Biagi,
1970: 27); tale suddivisione si riflette anche in una
distribuzione della fisiologia secondo la direttrice testa →
piedi: essa costituisce l’ordine-indice nelle raccolte di
ricette come il Thesaurus pauperum (Rapisarda, 2001:
VIII) sia per strutturare il testo sia per reperire facilmente
la notizia durante la consultazione. Non è perciò da
escludere un residuo di vitalità di schena, schene ‘milza’
nei testi farseschi di Vincenzo Braca.
Le incertezze non sono risolte dai dizionari dialettali
del napoletano. Per la lettura dei passi in questione si
constata che essi, mentre lemmatizzano mèuza ‘milza’,
non presentano schena, schene ‘milza’; il solo D’Ascoli,
1993 documenta schena ‘schiena’ da Basile e Cortese.
Anche attraverso la consultazione di tutti i vocabolari
napoletani disponibili sarebbe quindi molto difficile poter
ricostruire la storia delle parole, delle locuzioni, della
fraseologia, dei significati registrati. Nei dizionari del
napoletano, infatti, l’obiettivo di fare un’opera storica o è
del tutto assente o è inconsapevole o non è sostenuto dalle
necessarie competenze filologiche (Barbato-Varvaro,
2004: 433).
2. Il progetto di un dizionario storico
2.1.
Le esigenze
Tale situazione negli ultimi anni è cambiata solo
parzialmente. La lessicografia dialettale non ha prodotto
nuovi vocabolari dotati di congrua qualità scientifica (De
Blasi, 2006a). Un’interessante innovazione è, come si è
visto, introdotta da D’Ascoli 1993 che documenta alcune
forme o significati con riscontri in opere seicentesche
(soprattutto Basile e Cortese). Le novità più significative
provengono, invece, dalle molte edizioni di opere antiche
(soprattutto quattrocentesche) che combinano l’affidabilità
del testo con glossari completi o comunque molto ampî, di
grande finezza interpretativa e ricchissimi di riscontri.
La combinazione di un’insoddisfacente produzione di
dizionari del napoletano e di una fervente attività
lessicografica a margine dell’edizione dei testi rende
auspicabile la redazione di un vocabolario storico del
napoletano che tenga conto della ormai ricca
documentazione disponibile dal sec. XIV ad oggi.
2.2.
Il corpus
Il primo problema affrontato è stato la preparazione,
con modalità adeguate alle scarse risorse disponibili e
comunque in tempi sufficientemente rapidi, di uno
strumento che consentisse lo spoglio del materiale
lessicale di molti testi.
Si è proceduto quindi alla formazione di un corpus
informatico In via preliminare sono stati selezionati testi
già editi, compresi tra il Regimen sanitatis e Lo cunto de li
Per un dizionario storico del napoletano
cunti di G.B. Basile. Alcuni sono stati sottoposti a
revisione o attraverso la ricognizione sui codici e le
stampe o attraverso le segnalazioni di recensori: in tal
modo sono stati fatti piccoli ma numerosi interventi di
restauro. Il corpus così raccolto è stato acquisito tramite
lettore ottico o diretta digitazione.
BAGNIN: E. Percopo, I Bagni di Pozzuoli. Poemetto
napoletano del secolo XIV, «Archivio Storico delle
Province Napoletane», XI (1886), 636-687 [pubblicato in
estratto dal Percopo l’anno successivo con qualche
modifica; controllato sul manoscritto].
BAGNIR: M. Pelaez, Un nuovo testo dei Bagni di
Pozzuoli in volgare napoletano, «Studj romanzi», XIX
(1928), 89-124.
POESIEPOPOLARI: Rosario Coluccia, Tradizioni
auliche e popolari nella poesia del Regno di Napoli in età
angioina, «Medioevo Romanzo» II (1975), 44-153.
FARSASPOSORISANATO: B. Croce, I teatri di Napoli
dal Rinascimento alla fine del secolo decimottavo,
Milano, Adelphi, 1992, 307-313.
DE JENNAROGLIOMMERO: Giovanni Parenti, Un
gliommero di P. J. De Jennaro: “Eo non agio figli né
fittigli”, «Studi di Filologia Italiana», XXXVI (1978),
321-365.
DE ROSARICORDI: Vittorio Formentin (a cura di),
Loise De Rosa, Ricordi, Roma, Salerno ed., 1998, 513689.
BOCCACCIOEPISTOLA: Francesco Sabatini, Prospettive
sul parlato nella storia linguistica italiana (con una
lettura dell’Epistola napoletana del Boccaccio), in Id.,
Italia linguistica delle origini. Saggi editi dal 1956 al
1966, Lecce, Argo, 1996, 437-441.
FERRAIOLOCRONACA: Rosario Coluccia (a cura di),
Ferraiolo, Cronaca, Firenze, 1987, 3-117.
LIBROANTICHIFACTI: Lucia Chiosi, Il Libro de li
antichi facti de li gentili o de li pagani: un testo di età
angioina, «Bollettino Linguistico Campano», 2 (2002),
135-164.
LIBRODESTRUCTIONETROYA: Nicola De Blasi (a cura
di), Libro de la destructione de Troya. Volgarizzamento
napoletano trecentesco da Guido delle Colonne, Roma,
Bonacci, 1986, 47-317.
REGIMEN 1: A. Mussafia, Ein altneapolitanisches
Regimen sanitatis, «Sitzungsberichte der philosophischhistorischen Classe der kaieserlichen Akademie der
Wissenschaften», CVI (1884), pp.563-582 [controllato sul
manoscritto].
REGIMEN 2: A. Mussafia, Ein altneapolitanisches
Regimen sanitatis, «Sitzungsberichte der philosophischhistorischen Classe der kaieserlichen Akademie der
Wissenschaften», CVI (1884), pp.583-586 [controllato sul
manoscritto].
REGIMEN 3: Livio Petrucci, Un nuovo manoscritto del
compendio napoletano del «Regimen sanitatis»,
«Medioevo Romanzo», II (1975), 425-429.
SANNAZAROGLIOMMERO: Iacopo Sannazaro, Lo
gliommero napoletano «Licinio se ‘l mio inzegno», a cura
di Nicola De Blasi, Napoli, Dante & Descartes, 1999,
seconda edizione ampliata (prima edizione, 1998), 21-25.
SANNAZAROFARSE: Alfredo Mauro (a cura di), Iacopo
Sannazaro, Opere volgari, Bari, Laterza, 1961.
TOMMASINONIZZALETTERA: Francesco Sabatini,
Volgare civile e volgare cancelleresco nella Napoli
angioina, in Id. Italia linguistica delle origini. Saggi editi
dal 1956 al 1966, Lecce, Argo, 1996, 488-489.
FARSACITOCITA: G. Contini, Letteratura italiana del
Quattrocento, Sansoni, Firenze, 1976, 546-548.
DEL TUFO: Calogero Tagliareni (a cura di), Giovanni
Battista Del Tufo, Ritratto o modello delle grandezze,
delitie e meraviglie della nobilissima città di Napoli: testo
inedito del Cinquecento, Napoli, Agar, 1959.
VELARDINIELLO: Velardiniello, Storia de’ cient’anne
arreto, in Franco Brevini (a cura di), La poesia in dialetto.
Storia e testi dalle origini al Novecento, Milano,
Mondadori, 1999, vol.I: 547-557.
FARSECAVAIOLE: Achille Mango (a cura di), Farse
cavaiole, Roma, Bulzoni, I: 77-197; II: 3-229.
FIORILLOGHIRLANDA: Silvio Fiorillo, La Ghirlanda.
Egloga in napolitana e toscana lingua, Napoli, Longo,
1602; nuova edizione: Silvio Fiorillo, La ghirlanda, a cura
di Chiara De Caprio, Napoli, Phoebus, 2006.
FIORILLOAMORGIUSTO: Silvio Fiorillo, L’Amor giusto
egloca pastorale in napolitana e toscana lingua, Napoli,
Stigliola, 1605.
BASILECUNTO: Lo cunto de li cunti overo lo
trattenemiento de’ peccerille, I-II, Napoli, Beltrano, 1634;
III, Napoli, Scoriggio, 1634; IV, Napoli, Scoriggio, 1635;
Napoli, Beltrano, 1636; testo in Carolina Stromboli, La
lingua de Lo cunto de li cunti di G. B. Basile, tesi di
Dottorato in Filologia moderna, Università di Napoli
“Federico II”, 2005.
BASILEMUSE: Mario Petrini, Lo Cunto de li cunti
overo lo trattenemiento de peccerelle, Le muse napolitane
e le lettere, Bari, Laterza, 1976.
CORTESEOPERE: Enrico Malato (a cura di), Giulio
Cesare Cortese, Opere poetiche. In appendice La Tiorba a
Taccone de Felippo Sgruttendio de Scafato, Roma,
L’Ateneo, vol.I: 17-801.
Attraverso un software prodotto all’occorrenza (da
Carlo De Cesare e Pasquale Iaquinto), è stato sviluppato
un formario-concordanza in rigido ordine cronologico, che
a ogni singola forma affianca il numero totale delle
occorrenze, un ampio contesto e l’indicazione topografica.
2.3.
La procedura di avviamento dei lavori per
il dizionario
La stampa di una piccola porzione di occorrenze in
ordine alfabetico costituisce direttamente il materiale di
lavoro del redattore, cui viene affidato il compito di
procedere alla lemmatizzazione e di approntare le voci del
vocabolario.
Per motivi pratici si è rinunciato all’idea di
lemmatizzare i testi prima dello sviluppo della
concordanza, come fa per esempio TLIO attraverso
GATTO. Perciò in questa fase il redattore, di fronte a una
lista cruda di forme, procederà a raggruppare le diverse
occorrenze delle forme appartenenti a uno stesso lemma,
separando gli omografi e riponendo nell’archivio generale
quelle forme che vanno lemmatizzate in altre sezioni
alfabetiche.
Per esempio, il redattore cui viene affidata la porzione
di forme da to a ttutty, di fronte alla parola tropicìa
(BagniN XXXII 565) deve verificare se nel corpus vi
Nicola De Blasi, Francesco Montuori
siano altre varianti eventualmente maggioritarie, per
esempio cercando occorrenze che inizino con idrop-,
jdrop-, ydrop-, drop- ecc.; solo dopo aver esaminato tale
possibilità può procedere alla formazione dell’entrata e
alla stesura della voce che include la forma tropicìa.
2.4.
Ampliamento
disponibile
del
materiale
lessicale
Molto materiale lessicale è disperso in testi che per
vicende legate alla tradizione manoscritta o per carattere
strutturale del testo o per dichiarata intenzione dell’autore
non hanno una facies fono-morfologica o sintattica locale:
ad esempio, il commento di Maramauro all’Inferno di
Dante, la lirica cosiddetta di koinè, il Novellino di
Masuccio, i volgarizzamenti di Brancati e di Del Tuppo.
La lista di tali testi è molto lunga e potenzialmente ancora
incrementabile: oltre allo spoglio delle bibliografie di LEI,
TLIO e GAVI è stato impostato da Marcello Barbato e
Francesco Montuori un censimento dei testi èditi (e dei
relativi studi) di area campana (della Campania dell’AIS),
dalle origini fino al 1503. In conclusione si procederà alla
schedatura manuale delle parole interessanti o alla
consultazione dei glossari, se presenti nelle edizioni di
riferimento; il materiale così raccolto amplierà e
completerà il lemmario o la documentazione del
Vocabolario.
Altro materiale lessicale è presente in documenti latini
dell’età medievale. Un elenco di testi èditi con i
riferimenti bibliografici è stato presentato da Pfister
(2002). I lemmi raccolti entreranno nel corpus solo in
presenza di documentazione volgare; altrimenti saranno
relegati in Appendice.
3. I nomi del ragazzo
Ora è possibile vedere concretamente come gli
strumenti approntati diano precise indicazioni sulla storia
delle parole: si analizzano qui, in particolare, alcuni
appellativi con cui si denominano l’adolescente e il
ragazzo in napoletano2.
Per l’ambito che ora interessa è utile tener conto di un
inventario di tipi lessicali che si trae dal Vocabolario
domestico napoletano e toscano compilato nello studio di
Basilio Puoti (1841). Consultando la sezione dal toscano
al napoletano si deduce la seguente tabella di
corrispondenza, che a otto tipi lessicali toscani collega
nove voci napoletane (in corsivo le voci ripetute).
TOSCANO
bimbo
fanciullo
fanciulletto
garzone
ghiottoncello
ragazzo
monello
discolo
NAPOLETANO
ninno
guaglione, peccerillo
fanciullino, peccerillo
guarzone, guaglione
lazzariello
peccerillo, ragazzo
impertinente
discolo
Tabella 1: I nomi di ‘ragazzo’ nel Vocabolario di Puoti
2
Per reperire la bibliografia cfr., oltre alle voci sui dizionari
etimologici, gli articoli di Fanciullo (1991) e Loporcaro (2002).
A parte qualche assenza (che sarà commentata più
avanti), i tipi lessicali qui rappresentati non suscitano
particolari sorprese, anche se inducono a interrogarsi
sull’effettiva connotazione diatopica, per esempio, di
impertinente o di discolo.
Se si assume questa tabella come punto di riferimento
per la consistenza del settore lessicale dei nomi del
bambino o del fanciullo in napoletano, si può subito
osservare che dai testi tre-secenteschi si ricava qualche
interessante integrazione o qualche elemento che consente
una diversa oppure una più articolata definizione del
valore semantico.
3.1.
Caruso non solo ‘testa rasata’, ma anche
‘ragazzo’
In primo luogo i testi raccolti nel corpus permettono di
recuperare tipi lessicali finora non documentati per l’area
napoletana o documentati con accezione diversa (e in
genere presi in considerazione solo nelle edizioni dei testi,
ma non nei vocabolari).
Un esempio riconducibile a tale categoria è dato dal tipo
caruso, che sin dal Vocabolario dei Filopatridi, in parte opera di
Ferdinando Galiani (1789), è documentato solo nel senso di
‘testa tosata’:
Caruso, testa tosata a punta di forbice, da kαρα, il capo.
Quindi l’espressioni grattà lo caruso per far addormire,
come soglion far le nutrici a’ ragazzi, ed Anacreonte disse
ψυχην δ‘εµοι καρωσον, animam vero mihi sopias. In
senso di volersi ricordare di qualche cosa; onde abbiam il
detto maccaronico, grattatio capitis facit recordare cosellas.
Fa gratta lo caruso val inquietar qualcheduno, dargli da
pensare.
Il significato è ribadito da D’Ambra (1873: 107) che
esemplifica altra fraseologia, mentre in un lemma a parte
riferisce a caruso il senso di ‘infortunato, sventurato’. Gli
stessi significati sono ribaditi, con minime variazioni, da
Andreoli (1887: 147), da Altamura (19682) e da D’Ascoli
(1993: 158), che aggiunge per carosa il senso di ‘vedova’,
adducendo rinvii a Basile e a Cortese.
Si delinea pertanto uno sviluppo semantico che da
‘testa rasata’ conduce a ‘sventurato’ e a ‘vedovo, vedova’.
Già il testo a cui rinvia D’Ascoli, cioè un cunto di Basile,
permette di chiarire che questi diversi significati trovano
una connessione esplicativa nell’usanza di tagliarsi i
capelli in segno di lutto. Infatti una fanciulla di un cunto
di Basile (BASILECUNTO III, 7), rifiutandosi di tagliare i
capelli, così si esprime:
à le quale parole la figlia granne, ch’era Annuccia, rispose:
da quanno niccà, m’è muorto patremo, che me voglio
carosare? Nora, ch’era la seconna; respose: ancora non so
maritata, e me vuoie vedere carosa?
Da questo contesto si delinea dunque l’uso di carosa
nel senso di ‘vedova’; si chiarisce anche di conseguenza il
senso di ‘misero’, ‘sventurato’.
Da nessuno dei lessici e nemmeno dai testi di cui
D’Ascoli tiene conto risulta però il significato di
‘ragazzo’, che attualmente è vivo nell’area siciliana
(orientale), nel Salento e in parte della Calabria, come
riferisce il DEDI s.v.
Per un dizionario storico del napoletano
Invece in uno gliommero quattrocentesco, già
attribuito a De Jennaro, ma che probabilmente (detto per
inciso) potrebbe anche essere assegnato a Sannazaro, si
coglie un’occorrenza di caruso che avrebbe il senso di
‘ragazzo’: «e mo iodeca la fava onne caruso».
Già Parenti (1978) spiega il senso di questo verso
glossando caruso con ‘ragazzo’3. In questo caso la precisa
annotazione del filologo fa anche recuperare il modo di
dire iodeca la fava onne caruso, di cui viene indicato un
riscontro nell’opera di Cortese4.
Non è inoltre privo di interesse il fatto che la prima (e
per ora unica) attestazione di caruso ‘ragazzo’ in
napoletano, sembri essere più antica, anche se di pochi
anni, rispetto alla prima occorrenza della parola in area
siciliana, che, come segnala il VES, si reperisce in Scobar
nel 1519. Ciò naturalmente non implica necessariamente
che tale forma si sia diffusa in area napoletana prima che
in Sicilia: e infatti nella banca dati del TLIO si trova
Thumasi lu carusu nel Caternu di Angelo Senisio (13711381).
Un’ultima osservazione riguarda una possibile
sopravvivenza di caruso ‘ragazzo’ in area campana.
Questa voce compare infatti anche nel senso di ‘ragazzo,
garzone’ in un dizionario del dialetto di provincia
(Santella, 1987: 61):
caruso - s.m. Testa tosata a zero col rasoio, rapata; fig.:
ragazzo, sventato, monello, garzone di bottega, pastorello.
Etim.: vd. carusà.
3.2.
Chillo se la ride e diceme: - Figlio meo, ba’ spìcciati, ba’
jòcati alla scola colli zitielli.
Altrettanto esplicito per l’abbinamento a vechi il
precetto del Regimen che recita (272):
Multo laudare poçote la carne de vitelli, / civo delicatissimo
a vechi et a citelli.
A vecchi e bambini si riferisce inoltre questo passo del
Libro de la destructione de Troya (p. 256), opera in cui si
incontrano peraltro diverse attestazioni del plurale:
chyunca trovavano dentro occisero crodelemente, non
avendo respiecto né a masculo né a ffemena, né a pizulo, né
a grande, né a viechyo né a citiello.
L’accostamento a viecchio, in sottolineatura di
un’antinomia,si torva anche in Velardiniello:
Lo viecchio a chillo tiempo era zitiello | Co le brache
stringate, e ‘n jopponciello.
In seguito, stando a quel che si desume da Cortese
(zitiello manca in Basile) questa forma designa non più il
bambino, ma preferibilmente il ‘ragazzo da moglie’. Ecco
alcuni versi della Vaiasseide (I 14):
Zitiello non è il maschile di zitella
Diversamente da caruso, il tipo zitiello/zitello (anche
nella grafia con ci-) ha conosciuto una sua prolungata
vitalità nell’uso letterario e in quello cittadino.
Seguendo l’attuale documentazione lessicografica,
però, la profondità prospettica connessa a una lunga
vitalità della parola non è per nulla percepibile, visto che
di zitiello è riferito nel Vocabolario di D’Ascoli questo
solo significato: «celibe, uomo attempato non ancora
sposato».
Anche se lo stesso autore informa che la voce è «molto
diffusa nei testi letterari napoletani» (p. 862), si trae
dunque l’impressione che il senso di zitiello sia in qualche
modo appiattito su quello del femminile zitella, che
D’Ascoli così riferisce: «ragazza di una certa età che non
si è ancora maritata, nubile; donna acida e aspra»5.
Tale estensione del senso dalla forma corrente di
genere femminile a quella maschile, ammesso che sia
comprensibile oggi in sincronia, non è per nulla
persuasiva se riferita al passato. Che gli zitielli non siano
sempre stati ‘uomini attempati’ risulta infatti evidente da
uno sguardo ai testi trecenteschi.
3
Si riferisce certamente ai bambini Giovanni
Boccaccio, quando nell’Epistola napoletana scrive:
Il senso generale della frase è così chiarito:«dà giudizi su
qualsiasi nonnulla, sputa sentenze».
4
Parenti per riscontro rimanda a Lo Cerriglio ncantato (IV,9):
«[...] cierte cacapozonette, | che pe da ccà e da llà fanno
l’ammore | e se stirano ogn’ora le cauzette, | e pe parte de tieste
stodiare | stanno ogn’ora la fava a ghiodecare».
5
D’Ascoli rinvia a G. B. Valentino, Napole scontrafatto dapo’
la pesta, a cura di Sebastiano Di Massa, Napoli, Edizioni del
Delfino, s.d., ottava 26, p. 35: «né manco cchiù zetelle né
bajasse», dove zetelle è in dittologia con bajasse ‘serve’.
Aveva Renza n’anno e miezo mese | Fatte le iacovelle a
Menechiello, | Ma lo patrone ch’era calavrese, | Maie nce la
voze dare a lo zitiello.
Prima di questa evoluzione semantica che da ‘giovane
in età da matrimonio’ avrebbe condotto al senso di
‘celibe’ (anche non giovane) fino, per così dire, alla
costrizione che oggi fa percepire questa voce come il
corrispondente maschile di zitella (nel suo senso più
marcato), zitiello indicava con ogni probabilità il
‘bambino’ senza ulteriori connotazioni6, né valutazioni
implicite.
3.3.
Retrodatazione di guaglione
Una semplice retrodatazione, anche di pochi anni,
assume una certa rilevanza se riguarda una parola che
nell’ultimo secolo, insieme con altre, è diventata quasi
emblema del napoletano, passando peraltro anche in
italiano (v. p. es. DELI s.v.).
Alla storia di questa parola, da qualche tempo, ha dato
un contributo decisivo Franco Fanciullo (1991), che ne ha
indicato l’etimo nella forma francese «(g)wañór
‘laborateur’, ‘cultivateur’, attestato dal XIII secolo».
Sempre nel XIII secolo il tipo guagnone si sarebbe
diffuso in Italia meridionale, nella stessa epoca in cui,
attraverso i medesimi percorsi giungeva gualano
‘guardiano di buoi’. Il (g)wañór ‘lavoratore dei campi’ e il
gualano (secondo Fanciullo) rimandano all’ambiente
agricolo evocato da Sabatini (1975: 232, nota 89), il quale,
6
Per citella peraltro è documentato il senso di ‘damigella’,
‘fantesca’.
Nicola De Blasi, Francesco Montuori
nel suggerire per gualano l’etimologia dal prov. galan,
ricorda che gli Angioini organizzarono nel Regno un
sistema di fattorie regie. A questo dato storico si collega
Fanciullo, che come riflesso più antico della diffusione
della parola segnala il cognome Guagnonus in due
documenti di Capua degli anni 1275-1277.
L’etimologia e il cognome Guagnonus trovano un’eco
nella forma guagnone presente ne Lo cunto de li cunti di
Basile, finora citato come il testo che offre la più antica
attestazione letteraria della parola in area napoletana. In
Basile incontriamo inoltre il plurale guagnune, il
diminutivo guagnonciello, i femminili guagnona,
guagnastra, guagnastrella. Per la datazione della parola
nell’uso letterario è ora possibile aggiungere qualche dato
ulteriore per la storia di questa parola, restituendole un’età
più avanzata di quella che finora le veniva attribuita.
La forma già dissimilata Guaglione, quindi uguale a
quella odierna, si trova infatti accanto a guagnone (e
anche a gaglione) nelle Farse di Vincenzo Braca, databili
tra gli ultimi decenni del Cinquecento e l’inizio del
Seicento. Ecco le attestazioni:
E mo i studianti e i dutturi, | i cchiù viecchi, e i Signuri, e i
Notari, | e i Prieiti, e i scolari, e i Satrapuni, | e i grandi, e i
gagliuni
(Ricevuta dell’Imperatore alla Cava 811)
Eo so’ guaglione
(Farza de lo maestro de scola 43)
Dice l’omo, me ‘mbisco co ‘e guagliuni
(ibid. 185)
Cossì se ‘ngiuria a tuorto no guaglione?
(ibid. 353)
Lassa’o ire sulo, vì, a Nattapiro, | ca te fazzo venire ‘o tiro e
‘o male iuorno | si te nce veo cchiù attuorno a sso guaglione
(ibid. 793)
Vì, va sa che se cova, e si è figliulo | no’ ‘o truovi scauzo e
sulo, come cridi. | Catr. A che diavoo te fidi ca è guaglione?
(Concrusones 1138)
E ‘nterlocato | de che tiempo illo è nato dixit sponte, | con
audace e allegra fronte, ch’è guagnone | e ha ‘concrusione
anni ottant’uno
(Processus criminalis 450)
Di particolare interesse è il femminile guagliottoa7:
Eo so’ guagliottoa prodente e stao a filare
(Farza della maestra 230)
Se Braca, come si vede da alcuni tratti fonetici, ha
inteso sottolineare elementi diatopicamente connotati, è
7
Altro femminile è guagnera f. ‘ragazza’: «Ca ‘a vecchia meglio
‘o prezza da guagnera» (Farza della maestra 141); «Da’ ccà
ss’aurecchia, | ca ne voglio fare venire ‘a pellecchia, zoira scrofa,
| ca sì a mondezza e ‘a scrofa de ‘e guagnere | presentose, triste,
menere e cannarute» (ibid. 156); «Poh! s’è bona guagnera!»
(ibid. 218).
possibile che un’intenzione del genere valga anche per il
lessico; una spia in tal senso potrebbe essere il guagliottoa
che con il dileguo della -l- ricorrente nei testi propone una
forma diminutiva di guagliotta. Questa forma è tuttora il
corrispondente femminile di guaglione che si incontra in
provincia di Salerno e di Avellino.
Non è escluso insomma che ancora nel ‘500 inoltrato
la parola fosse presentata più come provinciale che come
cittadina: ciò tra l’altro spiegherebbe la sua mancata
presenza (stando almeno allo stato attuale della
documentazione) in precedenti testi di area urbana, volgari
o dialettali riflessi. Solo con Basile sarebbe invece
evidente un radicamento cittadino della parola, che forse
potrebbe avere conosciuto una sua espansione verso la
capitale nel periodo delle immigrazioni dal Regno che nel
Cinquecento la resero ancora più popolosa.
3.4.
L’apparente italianismo ragazzo
Se si consultano i lessici napoletani dal Vocabolario
dei Filopatridi fino alle prime opere di Francesco
D’Ascoli non si incontra mai il tipo ragazzo. Il più recente
Vocabolario di D’Ascoli, uscito nel 1993, dal momento
che si fonda su un costante controllo dei grandi classici
della letteratura dialettale, dà conto invece di questa voce
reperita in Basile: ragazzo s.m. ‘garzone, ragazzo di
servizio’. Bas. Pent., I, 3. Qui esaminiamo un passo del
Cunto (II, 7) diverso da quello a cui rinvia D’Ascoli:
Veramente (disse lo Prencepe) ogne ommo deve fare l’arte
soia. lo signore da signore lo staffiero da staffiero, e lo
sbirro da sbirro che si come lo Ragazzo volenno fare da
Prencepe deventa ridicolo, cossi lo Prencepe facenno da
Ragazzo scapeta de repotatione: cosi dece(n)no votatose à
Paola le disse che se lassasse correre, la quale fattose
‘mprimmo na bona zucata de lavra e na grattata de capo
cossi commenzaie.
Secondo questo contesto, ragazzo non rinvia a una
fascia d’età, ma a una mansione, che in posizione
oppositiva rispetto a quella del principe, fa pensare al
lavoro di mozzo di stalla o di servo in genere. Una
conferma giunge da un verso della Vaiasseide di Cortese:
Tiene, ragazzo, le respose Cenza | (Ch’accossì la guagnastra
era chiammata).
Più che il testo in verità, a chiarire il senso poco
gentile di questo appellativo interviene la nota di un
commentatore secentesco della Vaiasseide che, come
ricorda l’editore del testo Enrico Malato, precisa appunto
che ragazzo è il mozzo di stalla:
Osserva lo Zito (Annotaziune, p. 247): “La parola ‘ragazzo’
a Napoli è ingiuriosa: perché se a Roma e in altri luoghi
dove si parla toscano si intende per ‘figliuolo’, nella città
nostra si intende per quelli che strigliano i cavalli e sono
umili servitori.
Queste attestazioni lasciano concludere che a
quest’altezza cronologica il tipo ragazzo si riferiva ancora
a una particolare mansione svolta al servizio di qualcuno,
con un valore che quindi è ancora abbastanza prossimo al
significato originario dell’arabo raqqas che significa
‘corriere che porta le lettere’ (DELI).
Per un dizionario storico del napoletano
3.5.
Scugnizzo:
immagini
una
storia
attraverso
le
Nel corpus di testi tre-secenteschi ─ e giungiamo alla
tipologia delle assenze ─ manca qualsiasi traccia di
scugnizzo, altro emblema lessicale del napoletano. In
verità, però, questa parola manca anche nella lista ricavata
dal Vocabolario compilato nello studio di Basilio Puoti,
che in corrispondenza del toscano discolo ripete la forma
discolo (cfr. Tab. 1): se vogliamo, per quanto e silentio,
questo indizio, visto anche il prestigio del nome che
garantisce la qualità della fonte lessicografica, può far
pensare che la parola nel 1841 non fosse nota né al
Marchese Puoti, né ai suoi amici e allievi. Ma qui più che
alla datazione (su cui cfr. De Blasi, 2006b) vorrei riferirmi
in breve a un altro tipo di fonte, questa volta non letteraria
ma visiva, che interviene come sussidio per la storia del
lessico. Se confrontiamo una fotografia del primissimo
Novecento con un’immagine degli anni Cinquanta
notiamo che alcune differenze, per così dire, socioambientali si spiegano benissimo come esito di una
modificazione semantica della parola. I bambini scalzi che
dormono in strada (Fig. 1) sono tipici esponenti della
categoria dell’infanzia abbandonata in cui, tra fine
Ottocento e inizio Novecento, rientrano a pieno titolo gli
scugnizzi, ‘bambini di strada’ in tutto e per tutto. Il
monelluccio che vediamo sulla copertina di un giornalino
dei primi anni Cinquanta, denominato «Scugnizzo» (Fig.
2), non ha nulla in comune con i suoi coetanei di mezzo
secolo prima: è diverso l’ambiente in cui vive. Qui siamo
in un interno borghese, in cui tutti i particolari (dalla
cameriera con la crestina alla pila di piatti, dal quadretto
alla parete alla bambolina ciondolante nelle mani della
bambina) alludono a una vita domestica tranquilla, che al
massimo può essere turbata dal dispettuccio del frugoletto
in agguato, che al limite può essere un piccolo Gian
Burrasca, ma non certo un ‘bambino di strada’.
Il confronto tra queste due immagini è dunque la
dimostrazione di come nell’arco del Novecento il
significato originario di scugnizzo (‘bambino di strada’ o
perfino ‘piccolo delinquente’ secondo Ferdinando Russo)
sia stato progressivamente appannato, se non proprio
tabuizzato, dall’accezione più blanda e più tranquillizzante
di ‘ragazzino vivace’. Anche questo caso finale, dunque,
conferma che un ritorno alle fonti, da valutare nel quadro
di un’opera di insieme, consentirebbe di porre al centro
dell’attenzione la storia delle parole in diacronia.
Soprattutto in questo senso, insomma, un dizionario
storico può dar conto della storia delle parole del dialetto,
spesso più articolata e ricca di quanto non lasci trasparire
una semplice indicazione etimologica.
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etimologico siciliano. Vol.I. Palermo: Centro di studi
filologici e linguistici siciliani..
Nicola De Blasi, Francesco Montuori
Figura 1: Foto da Ferdinando Russo, Costumi folklore.
Personaggi napoletani in 42 rare cartoline, Campo di
zingari. Un... quasi inedito. Napoli: ed. Vincenzo Uliva,
s.d. La poesia si legge in Ferdinando Russo, ‘E
scugnizze, Napoli, Pierro, 1897.
Figura 2: Copertina del giornalino a fumetti stampato
negli anni ’50.