De Blasi Nicola
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De Blasi Nicola
Cresti, E. (a cura di) Prospettive nello studio del lessico italiano, Atti SILFI 2006. Firenze, FUP: Vol I, pp. 85-92 Per un dizionario storico del napoletano Nicola De Blasi, Francesco Montuori Università “Federico II” di Napoli Abstract I vocabolari del napoletano hanno un’impostazione quasi sempre diacronica, secondo un metodo di indagine nato a fine Settecento e mai più abbandonato neanche in pubblicazioni recenti: tuttavia il repertorio lessicale documentato è in genere limitato ai secoli XVII e XVIII ed è tratto da testi letterari ordinati in un canone. Perciò si avverte ormai forte l’esigenza di un vocabolario storico del napoletano che documenti senza discontinuità i mutamenti formali e le variazioni semantiche di un lessico che a sette secoli di ricchissima letteratura affianca un’accertata vitalità. Con questo intervento si presenta il progetto di un dizionario storico del napoletano, avviato presso il Dipartimento di Filologia moderna “Salvatore Battaglia” dell’Università di Napoli “Federico II”. In vista di tale progetto si è compiuta la digitalizzazione di un corpus di testi letterari e lessicografici rappresentativi della storia del napoletano in diversi generi e settori; si è quindi proceduto al trattamento automatico dei dati informatici allo scopo di realizzare complete concordanze e più agili formari, che consentono alcune riflessioni di metodo. La comunicazione esemplifica quali acquisizioni anche epistemologiche comporti lo spoglio lessicale di opere scritte prima e dopo Lo cunto di Basile: in particolare si analizzano da un lato gli appellativi con cui si denominano l’adolescente e il ragazzo in napoletano e in dialetti finitimi (caruso, zitiello, guaglione/guagnone, scugnizzo), dall’altro l’uso di termini del lessico medico. 1. Dialetto e lessicografia 1.1. La continuità della documentazione della lingua locale a Napoli L’idioma locale di Napoli ha una ricca e costante documentazione scritta, in un gran numero di testi (cfr. Bianchi-De Blasi-Librandi, 1993 e De Blasi-Fanciullo, 2002: 656-660)1. Spesso diverse sono le cause obiettive o le intenzioni soggettive che inducono gli autori ad adoperare una varietà che riproduce nello scritto i tratti grammaticali e lessicali del sistema linguistico in uso in città. Da un lato il volgare fiorentino ebbe una precoce diffusione a Napoli, importato in età angioina attraverso le opere letterarie e la presenza diretta dei mercanti e banchieri toscani con la connessa attività scrittoria pratica o ricreativa. Di qui un’influenza sistemica sulla lingua locale e una scala di valori nella percezione della variazione diatopica, con il fiorentino eletto a lingua della letteratura e il napoletano limitato al rango della comunicazione orale quotidiana. Tale gerarchia viene rovesciata solo da grandi personalità in particolari generi per specifici scopi: perciò non è necessario aspettare la svolta di Bembo per vedere nelle scelte linguistiche del Boccaccio dell’Epistola napoletana o degli autori degli gliommeri tardoquattrocenteschi l’intento parodico o ludico che contrappone la lingua e la cultura del popolo a quella alta e “impegnata” nella cosiddetta koinè di genesi cancelleresca. D’altra parte non mancano nel Trecento esempi di volgarizzamenti dal latino caratterizzati da una non controversa adesione al volgare locale ad opera di persone non incolte ma di limitata cultura storica, letteraria e linguistica. Ulteriori documenti del volgare locale caratterizzati da continuità negli intenti e nelle motivazioni alla base delle scelte linguistiche appartengono a generi di ininterrotta tradizione come la poesia per musica o la farsa teatrale. È naturale che, in corrispondenza di una così vasta e prolungata produzione di testi nella lingua locale, sia sempre stata viva l’esigenza di preparare strumenti che 1 I paragrafi 1-2 sono di Francesco Montuori; il paragrafo 3 è di Nicola De Blasi. fornissero un adeguato sussidio per la lettura e la comprensione delle opere, e quindi, in primo luogo, per l’apprendimento del lessico locale. La produzione di vocabolari bilingui è cominciata perciò ai primi del Cinquecento e non si è più arrestata. Alcuni dizionari sono fonti preziose per il lessico antico, come per esempio lo Spicilegium di Scoppa (1512) o l’ancora troppo poco conosciuto Fabrizio Luna (1536); altri mostrano uno specifico obiettivo didascalico, come l’Andreoli (1887) per l’insegnamento dell’italiano, che infarcisce il lemmario di molti italianismi; altri, come quello curato in gran parte da Galiani (1789), sono particolarmente attenti alla fraseologia in uso alla loro epoca. Ma in genere la documentazione è molto parziale e nel complesso insoddisfacente. Non ci si sofferma tanto sulla marcatura delle voci o dei significati sulla scala della maggiore o minore popolarità, o sul grado di formalità o informalità. Si evidenzia solo l’assenza di quella parte di lessico che i compilatori giudicano non popolare a causa della banalizzante opinione che la tradizione dotta sia sempre estranea al repertorio dialettale. Ma, soprattutto, mancano quasi sempre osservazioni sulla diffusione areale dei termini, perché le fonti sono in maggioranza scritte e quindi non caratterizzabili dal punto di vista diatopico; e se la lingua dei testi è sottoposta al vaglio della competenza sincronica del compilatore, ciò comporta una tacita attualizzazione dei significati della parola invece di un’auspicabile (anche se disorganica) descrizione dell’uso concreto. E infine, difetto ancor più grave, i lemmari si presentano in genere cronologicamente disomogenei, accostando termini fuori dell’uso (o ormai periferici) a neologismi di breve fortuna, parole settoriali a inquietanti vuoti in molti ambiti del lessico della quotidianità. 1.2. Un esempio di parziale riscontro: i nomi della milza Nel ms. rossiano che tramanda la cosiddetta redazione R del volgarizzamento del De Balneis Puteolanis di Pietro da Eboli (Pelaez, 1928), vi è un discreto numero di glosse di grande interesse, quasi sempre riferite a termini della medicina o della fisiologia. Una sola appare in forma del Nicola De Blasi, Francesco Montuori tutto uguale anche nel ms. napoletano testimone dell’altra redazione dei Bagni, èdita da Percopo (1886): exceptu lu splenitico [idest lo schinuso] Allarghiamo il contesto. Si parla del bagno dell’Arco, il quale, secondo il sommarietto in latino nel ms. napoletano (Percolo, 1886: 655), oltre a tanti giovamenti, può essere dannoso per alcune patologie: «nocet tamen tumorem ventris habentibus, nocet tumenti spleni et iecori». Chillo chi sente male a stremetate | chà pigllarray omne sanetate, | et li mienbre intrinsece sanate haberray, | exceptu lu splenitico [idest lo schinuso], ad cui tu dicerray | et a lu tropico misero: tu non ce venerray, | ca chillo chi lo secota, inflatura haverray. | Quillo chi dentro have inflatura, | Chà, se nce vene, cresce le temmura. (BagniR, XVI, vv. 269-276; Pelaez 1928: 104) Chi mal se sente in ne le stremetate, | da chisto bagno averrà sanetate. | Ancor le membre intrinsece sanar te ç’averrai, | excepto lo splenitico [idest lo schinuso], ad chi no gioverai; | et tu, misero ydropico, chì no ce venerai, | cha chillo che lo secuta, inflatura averrai: | chillo, che dentro inflatura tene, | averràla plu forte, se chà vene. (BagniN, XIII vv. 221-228; Percopo 1886: 655) Nel Trattato dei Bagni (ediz. Percolo, 1886) il tecnicismo splenitico è evitato e il significato viene espresso non con il corrispondente volgare, ma con una perifrasi: «ma non fa prode ad chi havesse lo ventre grosso, et a chi havesse dolore de meucza, o vero chi havesse intorczato lo fechato» (Trattato XV, 5-8; Percolo, 1886: 700). Del resto il Trattato, oltre al già visto meucza (anche nei Ricordi di Loise De Rosa 578.20 e 21, editi da Formentin, 1998), preferisce senz’altro melsa (anche a XL. 718.14) o meusa (anche a XL. 718.12), mentre i volgarizzamenti in versi adottano sempre splen, splene, splene oppure l’allotropo schena. Situazioni simili si leggono in opere siciliane del sec.XIV: al Declarus di Senisio (Marinoni 1955: 88) appartengono skina e skinusu, varianti romanze di splen e spleneticus. Invece nel Thesaurus pauperum volgarizzato (Rapisarda 2005: 25 cap.15; 41-42 cap.30; 62 cap.80) troviamo sia milza sia skina (anche al maschile), talvolta in dittologica sinonimica. Passando all’inizio del sec.XVII la situazione si presenta mutata: in G.B. Basile e in G.C. Cortese la ‘milza’ è sempre meuza (Lo cunto III 3 e egl.I 116-118; Micco Passaro III ott.22 e VII ott.32) e d’altra parte esiste anche schena ‘schiena’ (Lo cunto I 1; II 4; III 4, 8 e 9; Viaggio di Parnaso IV 17 e V 28; Lo Cerriglio ‘ncantato VII 16; cfr. anche Tiorba a Taccone VII 5.264). Ma alcune incertezze interpretative possono occorrere leggendo alcuni passi delle farse del medico salernitano Vincenzo Braca, che nel Secundo sautabanco 20-21 in un lungo elenco di malanni di vario genere, parla di «no fecato che ‘o pasto no’ retene, | no dolore de schene e de matrone»; il curatore traduce ‘un fegato che il pasto non lo trattiene, un dolore di schiena e di utero’ (Mango, 1976: II 36). Si noti che in contesto non ci sono altre parole che rimandino alla schiena (i reni) o alla milza. La -e finale di schene ‘schiena’ (< longob. *skina) è di difficile spiegazione sia per la fonetica sia per la morfologia, mentre sarebbe del tutto plausibile (ed è ben attestata in testi napoletani e italiani) per gli esiti di SPLĒN, SPLĒNE (REW 8164). Inoltre il contesto che vede raccolti insieme fegato, milza e utero (o ventre) ben si accorda con la tradizionale partizione dei «membri nutritivi» posti sotto il diaframma e sede degli «spiriti naturali» (Altieri Biagi, 1970: 27); tale suddivisione si riflette anche in una distribuzione della fisiologia secondo la direttrice testa → piedi: essa costituisce l’ordine-indice nelle raccolte di ricette come il Thesaurus pauperum (Rapisarda, 2001: VIII) sia per strutturare il testo sia per reperire facilmente la notizia durante la consultazione. Non è perciò da escludere un residuo di vitalità di schena, schene ‘milza’ nei testi farseschi di Vincenzo Braca. Le incertezze non sono risolte dai dizionari dialettali del napoletano. Per la lettura dei passi in questione si constata che essi, mentre lemmatizzano mèuza ‘milza’, non presentano schena, schene ‘milza’; il solo D’Ascoli, 1993 documenta schena ‘schiena’ da Basile e Cortese. Anche attraverso la consultazione di tutti i vocabolari napoletani disponibili sarebbe quindi molto difficile poter ricostruire la storia delle parole, delle locuzioni, della fraseologia, dei significati registrati. Nei dizionari del napoletano, infatti, l’obiettivo di fare un’opera storica o è del tutto assente o è inconsapevole o non è sostenuto dalle necessarie competenze filologiche (Barbato-Varvaro, 2004: 433). 2. Il progetto di un dizionario storico 2.1. Le esigenze Tale situazione negli ultimi anni è cambiata solo parzialmente. La lessicografia dialettale non ha prodotto nuovi vocabolari dotati di congrua qualità scientifica (De Blasi, 2006a). Un’interessante innovazione è, come si è visto, introdotta da D’Ascoli 1993 che documenta alcune forme o significati con riscontri in opere seicentesche (soprattutto Basile e Cortese). Le novità più significative provengono, invece, dalle molte edizioni di opere antiche (soprattutto quattrocentesche) che combinano l’affidabilità del testo con glossari completi o comunque molto ampî, di grande finezza interpretativa e ricchissimi di riscontri. La combinazione di un’insoddisfacente produzione di dizionari del napoletano e di una fervente attività lessicografica a margine dell’edizione dei testi rende auspicabile la redazione di un vocabolario storico del napoletano che tenga conto della ormai ricca documentazione disponibile dal sec. XIV ad oggi. 2.2. Il corpus Il primo problema affrontato è stato la preparazione, con modalità adeguate alle scarse risorse disponibili e comunque in tempi sufficientemente rapidi, di uno strumento che consentisse lo spoglio del materiale lessicale di molti testi. Si è proceduto quindi alla formazione di un corpus informatico In via preliminare sono stati selezionati testi già editi, compresi tra il Regimen sanitatis e Lo cunto de li Per un dizionario storico del napoletano cunti di G.B. Basile. Alcuni sono stati sottoposti a revisione o attraverso la ricognizione sui codici e le stampe o attraverso le segnalazioni di recensori: in tal modo sono stati fatti piccoli ma numerosi interventi di restauro. Il corpus così raccolto è stato acquisito tramite lettore ottico o diretta digitazione. BAGNIN: E. Percopo, I Bagni di Pozzuoli. Poemetto napoletano del secolo XIV, «Archivio Storico delle Province Napoletane», XI (1886), 636-687 [pubblicato in estratto dal Percopo l’anno successivo con qualche modifica; controllato sul manoscritto]. BAGNIR: M. Pelaez, Un nuovo testo dei Bagni di Pozzuoli in volgare napoletano, «Studj romanzi», XIX (1928), 89-124. POESIEPOPOLARI: Rosario Coluccia, Tradizioni auliche e popolari nella poesia del Regno di Napoli in età angioina, «Medioevo Romanzo» II (1975), 44-153. FARSASPOSORISANATO: B. Croce, I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del secolo decimottavo, Milano, Adelphi, 1992, 307-313. DE JENNAROGLIOMMERO: Giovanni Parenti, Un gliommero di P. J. De Jennaro: “Eo non agio figli né fittigli”, «Studi di Filologia Italiana», XXXVI (1978), 321-365. DE ROSARICORDI: Vittorio Formentin (a cura di), Loise De Rosa, Ricordi, Roma, Salerno ed., 1998, 513689. BOCCACCIOEPISTOLA: Francesco Sabatini, Prospettive sul parlato nella storia linguistica italiana (con una lettura dell’Epistola napoletana del Boccaccio), in Id., Italia linguistica delle origini. Saggi editi dal 1956 al 1966, Lecce, Argo, 1996, 437-441. FERRAIOLOCRONACA: Rosario Coluccia (a cura di), Ferraiolo, Cronaca, Firenze, 1987, 3-117. LIBROANTICHIFACTI: Lucia Chiosi, Il Libro de li antichi facti de li gentili o de li pagani: un testo di età angioina, «Bollettino Linguistico Campano», 2 (2002), 135-164. LIBRODESTRUCTIONETROYA: Nicola De Blasi (a cura di), Libro de la destructione de Troya. Volgarizzamento napoletano trecentesco da Guido delle Colonne, Roma, Bonacci, 1986, 47-317. REGIMEN 1: A. Mussafia, Ein altneapolitanisches Regimen sanitatis, «Sitzungsberichte der philosophischhistorischen Classe der kaieserlichen Akademie der Wissenschaften», CVI (1884), pp.563-582 [controllato sul manoscritto]. REGIMEN 2: A. Mussafia, Ein altneapolitanisches Regimen sanitatis, «Sitzungsberichte der philosophischhistorischen Classe der kaieserlichen Akademie der Wissenschaften», CVI (1884), pp.583-586 [controllato sul manoscritto]. REGIMEN 3: Livio Petrucci, Un nuovo manoscritto del compendio napoletano del «Regimen sanitatis», «Medioevo Romanzo», II (1975), 425-429. SANNAZAROGLIOMMERO: Iacopo Sannazaro, Lo gliommero napoletano «Licinio se ‘l mio inzegno», a cura di Nicola De Blasi, Napoli, Dante & Descartes, 1999, seconda edizione ampliata (prima edizione, 1998), 21-25. SANNAZAROFARSE: Alfredo Mauro (a cura di), Iacopo Sannazaro, Opere volgari, Bari, Laterza, 1961. TOMMASINONIZZALETTERA: Francesco Sabatini, Volgare civile e volgare cancelleresco nella Napoli angioina, in Id. Italia linguistica delle origini. Saggi editi dal 1956 al 1966, Lecce, Argo, 1996, 488-489. FARSACITOCITA: G. Contini, Letteratura italiana del Quattrocento, Sansoni, Firenze, 1976, 546-548. DEL TUFO: Calogero Tagliareni (a cura di), Giovanni Battista Del Tufo, Ritratto o modello delle grandezze, delitie e meraviglie della nobilissima città di Napoli: testo inedito del Cinquecento, Napoli, Agar, 1959. VELARDINIELLO: Velardiniello, Storia de’ cient’anne arreto, in Franco Brevini (a cura di), La poesia in dialetto. Storia e testi dalle origini al Novecento, Milano, Mondadori, 1999, vol.I: 547-557. FARSECAVAIOLE: Achille Mango (a cura di), Farse cavaiole, Roma, Bulzoni, I: 77-197; II: 3-229. FIORILLOGHIRLANDA: Silvio Fiorillo, La Ghirlanda. Egloga in napolitana e toscana lingua, Napoli, Longo, 1602; nuova edizione: Silvio Fiorillo, La ghirlanda, a cura di Chiara De Caprio, Napoli, Phoebus, 2006. FIORILLOAMORGIUSTO: Silvio Fiorillo, L’Amor giusto egloca pastorale in napolitana e toscana lingua, Napoli, Stigliola, 1605. BASILECUNTO: Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de’ peccerille, I-II, Napoli, Beltrano, 1634; III, Napoli, Scoriggio, 1634; IV, Napoli, Scoriggio, 1635; Napoli, Beltrano, 1636; testo in Carolina Stromboli, La lingua de Lo cunto de li cunti di G. B. Basile, tesi di Dottorato in Filologia moderna, Università di Napoli “Federico II”, 2005. BASILEMUSE: Mario Petrini, Lo Cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerelle, Le muse napolitane e le lettere, Bari, Laterza, 1976. CORTESEOPERE: Enrico Malato (a cura di), Giulio Cesare Cortese, Opere poetiche. In appendice La Tiorba a Taccone de Felippo Sgruttendio de Scafato, Roma, L’Ateneo, vol.I: 17-801. Attraverso un software prodotto all’occorrenza (da Carlo De Cesare e Pasquale Iaquinto), è stato sviluppato un formario-concordanza in rigido ordine cronologico, che a ogni singola forma affianca il numero totale delle occorrenze, un ampio contesto e l’indicazione topografica. 2.3. La procedura di avviamento dei lavori per il dizionario La stampa di una piccola porzione di occorrenze in ordine alfabetico costituisce direttamente il materiale di lavoro del redattore, cui viene affidato il compito di procedere alla lemmatizzazione e di approntare le voci del vocabolario. Per motivi pratici si è rinunciato all’idea di lemmatizzare i testi prima dello sviluppo della concordanza, come fa per esempio TLIO attraverso GATTO. Perciò in questa fase il redattore, di fronte a una lista cruda di forme, procederà a raggruppare le diverse occorrenze delle forme appartenenti a uno stesso lemma, separando gli omografi e riponendo nell’archivio generale quelle forme che vanno lemmatizzate in altre sezioni alfabetiche. Per esempio, il redattore cui viene affidata la porzione di forme da to a ttutty, di fronte alla parola tropicìa (BagniN XXXII 565) deve verificare se nel corpus vi Nicola De Blasi, Francesco Montuori siano altre varianti eventualmente maggioritarie, per esempio cercando occorrenze che inizino con idrop-, jdrop-, ydrop-, drop- ecc.; solo dopo aver esaminato tale possibilità può procedere alla formazione dell’entrata e alla stesura della voce che include la forma tropicìa. 2.4. Ampliamento disponibile del materiale lessicale Molto materiale lessicale è disperso in testi che per vicende legate alla tradizione manoscritta o per carattere strutturale del testo o per dichiarata intenzione dell’autore non hanno una facies fono-morfologica o sintattica locale: ad esempio, il commento di Maramauro all’Inferno di Dante, la lirica cosiddetta di koinè, il Novellino di Masuccio, i volgarizzamenti di Brancati e di Del Tuppo. La lista di tali testi è molto lunga e potenzialmente ancora incrementabile: oltre allo spoglio delle bibliografie di LEI, TLIO e GAVI è stato impostato da Marcello Barbato e Francesco Montuori un censimento dei testi èditi (e dei relativi studi) di area campana (della Campania dell’AIS), dalle origini fino al 1503. In conclusione si procederà alla schedatura manuale delle parole interessanti o alla consultazione dei glossari, se presenti nelle edizioni di riferimento; il materiale così raccolto amplierà e completerà il lemmario o la documentazione del Vocabolario. Altro materiale lessicale è presente in documenti latini dell’età medievale. Un elenco di testi èditi con i riferimenti bibliografici è stato presentato da Pfister (2002). I lemmi raccolti entreranno nel corpus solo in presenza di documentazione volgare; altrimenti saranno relegati in Appendice. 3. I nomi del ragazzo Ora è possibile vedere concretamente come gli strumenti approntati diano precise indicazioni sulla storia delle parole: si analizzano qui, in particolare, alcuni appellativi con cui si denominano l’adolescente e il ragazzo in napoletano2. Per l’ambito che ora interessa è utile tener conto di un inventario di tipi lessicali che si trae dal Vocabolario domestico napoletano e toscano compilato nello studio di Basilio Puoti (1841). Consultando la sezione dal toscano al napoletano si deduce la seguente tabella di corrispondenza, che a otto tipi lessicali toscani collega nove voci napoletane (in corsivo le voci ripetute). TOSCANO bimbo fanciullo fanciulletto garzone ghiottoncello ragazzo monello discolo NAPOLETANO ninno guaglione, peccerillo fanciullino, peccerillo guarzone, guaglione lazzariello peccerillo, ragazzo impertinente discolo Tabella 1: I nomi di ‘ragazzo’ nel Vocabolario di Puoti 2 Per reperire la bibliografia cfr., oltre alle voci sui dizionari etimologici, gli articoli di Fanciullo (1991) e Loporcaro (2002). A parte qualche assenza (che sarà commentata più avanti), i tipi lessicali qui rappresentati non suscitano particolari sorprese, anche se inducono a interrogarsi sull’effettiva connotazione diatopica, per esempio, di impertinente o di discolo. Se si assume questa tabella come punto di riferimento per la consistenza del settore lessicale dei nomi del bambino o del fanciullo in napoletano, si può subito osservare che dai testi tre-secenteschi si ricava qualche interessante integrazione o qualche elemento che consente una diversa oppure una più articolata definizione del valore semantico. 3.1. Caruso non solo ‘testa rasata’, ma anche ‘ragazzo’ In primo luogo i testi raccolti nel corpus permettono di recuperare tipi lessicali finora non documentati per l’area napoletana o documentati con accezione diversa (e in genere presi in considerazione solo nelle edizioni dei testi, ma non nei vocabolari). Un esempio riconducibile a tale categoria è dato dal tipo caruso, che sin dal Vocabolario dei Filopatridi, in parte opera di Ferdinando Galiani (1789), è documentato solo nel senso di ‘testa tosata’: Caruso, testa tosata a punta di forbice, da kαρα, il capo. Quindi l’espressioni grattà lo caruso per far addormire, come soglion far le nutrici a’ ragazzi, ed Anacreonte disse ψυχην δ‘εµοι καρωσον, animam vero mihi sopias. In senso di volersi ricordare di qualche cosa; onde abbiam il detto maccaronico, grattatio capitis facit recordare cosellas. Fa gratta lo caruso val inquietar qualcheduno, dargli da pensare. Il significato è ribadito da D’Ambra (1873: 107) che esemplifica altra fraseologia, mentre in un lemma a parte riferisce a caruso il senso di ‘infortunato, sventurato’. Gli stessi significati sono ribaditi, con minime variazioni, da Andreoli (1887: 147), da Altamura (19682) e da D’Ascoli (1993: 158), che aggiunge per carosa il senso di ‘vedova’, adducendo rinvii a Basile e a Cortese. Si delinea pertanto uno sviluppo semantico che da ‘testa rasata’ conduce a ‘sventurato’ e a ‘vedovo, vedova’. Già il testo a cui rinvia D’Ascoli, cioè un cunto di Basile, permette di chiarire che questi diversi significati trovano una connessione esplicativa nell’usanza di tagliarsi i capelli in segno di lutto. Infatti una fanciulla di un cunto di Basile (BASILECUNTO III, 7), rifiutandosi di tagliare i capelli, così si esprime: à le quale parole la figlia granne, ch’era Annuccia, rispose: da quanno niccà, m’è muorto patremo, che me voglio carosare? Nora, ch’era la seconna; respose: ancora non so maritata, e me vuoie vedere carosa? Da questo contesto si delinea dunque l’uso di carosa nel senso di ‘vedova’; si chiarisce anche di conseguenza il senso di ‘misero’, ‘sventurato’. Da nessuno dei lessici e nemmeno dai testi di cui D’Ascoli tiene conto risulta però il significato di ‘ragazzo’, che attualmente è vivo nell’area siciliana (orientale), nel Salento e in parte della Calabria, come riferisce il DEDI s.v. Per un dizionario storico del napoletano Invece in uno gliommero quattrocentesco, già attribuito a De Jennaro, ma che probabilmente (detto per inciso) potrebbe anche essere assegnato a Sannazaro, si coglie un’occorrenza di caruso che avrebbe il senso di ‘ragazzo’: «e mo iodeca la fava onne caruso». Già Parenti (1978) spiega il senso di questo verso glossando caruso con ‘ragazzo’3. In questo caso la precisa annotazione del filologo fa anche recuperare il modo di dire iodeca la fava onne caruso, di cui viene indicato un riscontro nell’opera di Cortese4. Non è inoltre privo di interesse il fatto che la prima (e per ora unica) attestazione di caruso ‘ragazzo’ in napoletano, sembri essere più antica, anche se di pochi anni, rispetto alla prima occorrenza della parola in area siciliana, che, come segnala il VES, si reperisce in Scobar nel 1519. Ciò naturalmente non implica necessariamente che tale forma si sia diffusa in area napoletana prima che in Sicilia: e infatti nella banca dati del TLIO si trova Thumasi lu carusu nel Caternu di Angelo Senisio (13711381). Un’ultima osservazione riguarda una possibile sopravvivenza di caruso ‘ragazzo’ in area campana. Questa voce compare infatti anche nel senso di ‘ragazzo, garzone’ in un dizionario del dialetto di provincia (Santella, 1987: 61): caruso - s.m. Testa tosata a zero col rasoio, rapata; fig.: ragazzo, sventato, monello, garzone di bottega, pastorello. Etim.: vd. carusà. 3.2. Chillo se la ride e diceme: - Figlio meo, ba’ spìcciati, ba’ jòcati alla scola colli zitielli. Altrettanto esplicito per l’abbinamento a vechi il precetto del Regimen che recita (272): Multo laudare poçote la carne de vitelli, / civo delicatissimo a vechi et a citelli. A vecchi e bambini si riferisce inoltre questo passo del Libro de la destructione de Troya (p. 256), opera in cui si incontrano peraltro diverse attestazioni del plurale: chyunca trovavano dentro occisero crodelemente, non avendo respiecto né a masculo né a ffemena, né a pizulo, né a grande, né a viechyo né a citiello. L’accostamento a viecchio, in sottolineatura di un’antinomia,si torva anche in Velardiniello: Lo viecchio a chillo tiempo era zitiello | Co le brache stringate, e ‘n jopponciello. In seguito, stando a quel che si desume da Cortese (zitiello manca in Basile) questa forma designa non più il bambino, ma preferibilmente il ‘ragazzo da moglie’. Ecco alcuni versi della Vaiasseide (I 14): Zitiello non è il maschile di zitella Diversamente da caruso, il tipo zitiello/zitello (anche nella grafia con ci-) ha conosciuto una sua prolungata vitalità nell’uso letterario e in quello cittadino. Seguendo l’attuale documentazione lessicografica, però, la profondità prospettica connessa a una lunga vitalità della parola non è per nulla percepibile, visto che di zitiello è riferito nel Vocabolario di D’Ascoli questo solo significato: «celibe, uomo attempato non ancora sposato». Anche se lo stesso autore informa che la voce è «molto diffusa nei testi letterari napoletani» (p. 862), si trae dunque l’impressione che il senso di zitiello sia in qualche modo appiattito su quello del femminile zitella, che D’Ascoli così riferisce: «ragazza di una certa età che non si è ancora maritata, nubile; donna acida e aspra»5. Tale estensione del senso dalla forma corrente di genere femminile a quella maschile, ammesso che sia comprensibile oggi in sincronia, non è per nulla persuasiva se riferita al passato. Che gli zitielli non siano sempre stati ‘uomini attempati’ risulta infatti evidente da uno sguardo ai testi trecenteschi. 3 Si riferisce certamente ai bambini Giovanni Boccaccio, quando nell’Epistola napoletana scrive: Il senso generale della frase è così chiarito:«dà giudizi su qualsiasi nonnulla, sputa sentenze». 4 Parenti per riscontro rimanda a Lo Cerriglio ncantato (IV,9): «[...] cierte cacapozonette, | che pe da ccà e da llà fanno l’ammore | e se stirano ogn’ora le cauzette, | e pe parte de tieste stodiare | stanno ogn’ora la fava a ghiodecare». 5 D’Ascoli rinvia a G. B. Valentino, Napole scontrafatto dapo’ la pesta, a cura di Sebastiano Di Massa, Napoli, Edizioni del Delfino, s.d., ottava 26, p. 35: «né manco cchiù zetelle né bajasse», dove zetelle è in dittologia con bajasse ‘serve’. Aveva Renza n’anno e miezo mese | Fatte le iacovelle a Menechiello, | Ma lo patrone ch’era calavrese, | Maie nce la voze dare a lo zitiello. Prima di questa evoluzione semantica che da ‘giovane in età da matrimonio’ avrebbe condotto al senso di ‘celibe’ (anche non giovane) fino, per così dire, alla costrizione che oggi fa percepire questa voce come il corrispondente maschile di zitella (nel suo senso più marcato), zitiello indicava con ogni probabilità il ‘bambino’ senza ulteriori connotazioni6, né valutazioni implicite. 3.3. Retrodatazione di guaglione Una semplice retrodatazione, anche di pochi anni, assume una certa rilevanza se riguarda una parola che nell’ultimo secolo, insieme con altre, è diventata quasi emblema del napoletano, passando peraltro anche in italiano (v. p. es. DELI s.v.). Alla storia di questa parola, da qualche tempo, ha dato un contributo decisivo Franco Fanciullo (1991), che ne ha indicato l’etimo nella forma francese «(g)wañór ‘laborateur’, ‘cultivateur’, attestato dal XIII secolo». Sempre nel XIII secolo il tipo guagnone si sarebbe diffuso in Italia meridionale, nella stessa epoca in cui, attraverso i medesimi percorsi giungeva gualano ‘guardiano di buoi’. Il (g)wañór ‘lavoratore dei campi’ e il gualano (secondo Fanciullo) rimandano all’ambiente agricolo evocato da Sabatini (1975: 232, nota 89), il quale, 6 Per citella peraltro è documentato il senso di ‘damigella’, ‘fantesca’. Nicola De Blasi, Francesco Montuori nel suggerire per gualano l’etimologia dal prov. galan, ricorda che gli Angioini organizzarono nel Regno un sistema di fattorie regie. A questo dato storico si collega Fanciullo, che come riflesso più antico della diffusione della parola segnala il cognome Guagnonus in due documenti di Capua degli anni 1275-1277. L’etimologia e il cognome Guagnonus trovano un’eco nella forma guagnone presente ne Lo cunto de li cunti di Basile, finora citato come il testo che offre la più antica attestazione letteraria della parola in area napoletana. In Basile incontriamo inoltre il plurale guagnune, il diminutivo guagnonciello, i femminili guagnona, guagnastra, guagnastrella. Per la datazione della parola nell’uso letterario è ora possibile aggiungere qualche dato ulteriore per la storia di questa parola, restituendole un’età più avanzata di quella che finora le veniva attribuita. La forma già dissimilata Guaglione, quindi uguale a quella odierna, si trova infatti accanto a guagnone (e anche a gaglione) nelle Farse di Vincenzo Braca, databili tra gli ultimi decenni del Cinquecento e l’inizio del Seicento. Ecco le attestazioni: E mo i studianti e i dutturi, | i cchiù viecchi, e i Signuri, e i Notari, | e i Prieiti, e i scolari, e i Satrapuni, | e i grandi, e i gagliuni (Ricevuta dell’Imperatore alla Cava 811) Eo so’ guaglione (Farza de lo maestro de scola 43) Dice l’omo, me ‘mbisco co ‘e guagliuni (ibid. 185) Cossì se ‘ngiuria a tuorto no guaglione? (ibid. 353) Lassa’o ire sulo, vì, a Nattapiro, | ca te fazzo venire ‘o tiro e ‘o male iuorno | si te nce veo cchiù attuorno a sso guaglione (ibid. 793) Vì, va sa che se cova, e si è figliulo | no’ ‘o truovi scauzo e sulo, come cridi. | Catr. A che diavoo te fidi ca è guaglione? (Concrusones 1138) E ‘nterlocato | de che tiempo illo è nato dixit sponte, | con audace e allegra fronte, ch’è guagnone | e ha ‘concrusione anni ottant’uno (Processus criminalis 450) Di particolare interesse è il femminile guagliottoa7: Eo so’ guagliottoa prodente e stao a filare (Farza della maestra 230) Se Braca, come si vede da alcuni tratti fonetici, ha inteso sottolineare elementi diatopicamente connotati, è 7 Altro femminile è guagnera f. ‘ragazza’: «Ca ‘a vecchia meglio ‘o prezza da guagnera» (Farza della maestra 141); «Da’ ccà ss’aurecchia, | ca ne voglio fare venire ‘a pellecchia, zoira scrofa, | ca sì a mondezza e ‘a scrofa de ‘e guagnere | presentose, triste, menere e cannarute» (ibid. 156); «Poh! s’è bona guagnera!» (ibid. 218). possibile che un’intenzione del genere valga anche per il lessico; una spia in tal senso potrebbe essere il guagliottoa che con il dileguo della -l- ricorrente nei testi propone una forma diminutiva di guagliotta. Questa forma è tuttora il corrispondente femminile di guaglione che si incontra in provincia di Salerno e di Avellino. Non è escluso insomma che ancora nel ‘500 inoltrato la parola fosse presentata più come provinciale che come cittadina: ciò tra l’altro spiegherebbe la sua mancata presenza (stando almeno allo stato attuale della documentazione) in precedenti testi di area urbana, volgari o dialettali riflessi. Solo con Basile sarebbe invece evidente un radicamento cittadino della parola, che forse potrebbe avere conosciuto una sua espansione verso la capitale nel periodo delle immigrazioni dal Regno che nel Cinquecento la resero ancora più popolosa. 3.4. L’apparente italianismo ragazzo Se si consultano i lessici napoletani dal Vocabolario dei Filopatridi fino alle prime opere di Francesco D’Ascoli non si incontra mai il tipo ragazzo. Il più recente Vocabolario di D’Ascoli, uscito nel 1993, dal momento che si fonda su un costante controllo dei grandi classici della letteratura dialettale, dà conto invece di questa voce reperita in Basile: ragazzo s.m. ‘garzone, ragazzo di servizio’. Bas. Pent., I, 3. Qui esaminiamo un passo del Cunto (II, 7) diverso da quello a cui rinvia D’Ascoli: Veramente (disse lo Prencepe) ogne ommo deve fare l’arte soia. lo signore da signore lo staffiero da staffiero, e lo sbirro da sbirro che si come lo Ragazzo volenno fare da Prencepe deventa ridicolo, cossi lo Prencepe facenno da Ragazzo scapeta de repotatione: cosi dece(n)no votatose à Paola le disse che se lassasse correre, la quale fattose ‘mprimmo na bona zucata de lavra e na grattata de capo cossi commenzaie. Secondo questo contesto, ragazzo non rinvia a una fascia d’età, ma a una mansione, che in posizione oppositiva rispetto a quella del principe, fa pensare al lavoro di mozzo di stalla o di servo in genere. Una conferma giunge da un verso della Vaiasseide di Cortese: Tiene, ragazzo, le respose Cenza | (Ch’accossì la guagnastra era chiammata). Più che il testo in verità, a chiarire il senso poco gentile di questo appellativo interviene la nota di un commentatore secentesco della Vaiasseide che, come ricorda l’editore del testo Enrico Malato, precisa appunto che ragazzo è il mozzo di stalla: Osserva lo Zito (Annotaziune, p. 247): “La parola ‘ragazzo’ a Napoli è ingiuriosa: perché se a Roma e in altri luoghi dove si parla toscano si intende per ‘figliuolo’, nella città nostra si intende per quelli che strigliano i cavalli e sono umili servitori. Queste attestazioni lasciano concludere che a quest’altezza cronologica il tipo ragazzo si riferiva ancora a una particolare mansione svolta al servizio di qualcuno, con un valore che quindi è ancora abbastanza prossimo al significato originario dell’arabo raqqas che significa ‘corriere che porta le lettere’ (DELI). Per un dizionario storico del napoletano 3.5. Scugnizzo: immagini una storia attraverso le Nel corpus di testi tre-secenteschi ─ e giungiamo alla tipologia delle assenze ─ manca qualsiasi traccia di scugnizzo, altro emblema lessicale del napoletano. In verità, però, questa parola manca anche nella lista ricavata dal Vocabolario compilato nello studio di Basilio Puoti, che in corrispondenza del toscano discolo ripete la forma discolo (cfr. Tab. 1): se vogliamo, per quanto e silentio, questo indizio, visto anche il prestigio del nome che garantisce la qualità della fonte lessicografica, può far pensare che la parola nel 1841 non fosse nota né al Marchese Puoti, né ai suoi amici e allievi. Ma qui più che alla datazione (su cui cfr. De Blasi, 2006b) vorrei riferirmi in breve a un altro tipo di fonte, questa volta non letteraria ma visiva, che interviene come sussidio per la storia del lessico. Se confrontiamo una fotografia del primissimo Novecento con un’immagine degli anni Cinquanta notiamo che alcune differenze, per così dire, socioambientali si spiegano benissimo come esito di una modificazione semantica della parola. I bambini scalzi che dormono in strada (Fig. 1) sono tipici esponenti della categoria dell’infanzia abbandonata in cui, tra fine Ottocento e inizio Novecento, rientrano a pieno titolo gli scugnizzi, ‘bambini di strada’ in tutto e per tutto. Il monelluccio che vediamo sulla copertina di un giornalino dei primi anni Cinquanta, denominato «Scugnizzo» (Fig. 2), non ha nulla in comune con i suoi coetanei di mezzo secolo prima: è diverso l’ambiente in cui vive. Qui siamo in un interno borghese, in cui tutti i particolari (dalla cameriera con la crestina alla pila di piatti, dal quadretto alla parete alla bambolina ciondolante nelle mani della bambina) alludono a una vita domestica tranquilla, che al massimo può essere turbata dal dispettuccio del frugoletto in agguato, che al limite può essere un piccolo Gian Burrasca, ma non certo un ‘bambino di strada’. Il confronto tra queste due immagini è dunque la dimostrazione di come nell’arco del Novecento il significato originario di scugnizzo (‘bambino di strada’ o perfino ‘piccolo delinquente’ secondo Ferdinando Russo) sia stato progressivamente appannato, se non proprio tabuizzato, dall’accezione più blanda e più tranquillizzante di ‘ragazzino vivace’. Anche questo caso finale, dunque, conferma che un ritorno alle fonti, da valutare nel quadro di un’opera di insieme, consentirebbe di porre al centro dell’attenzione la storia delle parole in diacronia. Soprattutto in questo senso, insomma, un dizionario storico può dar conto della storia delle parole del dialetto, spesso più articolata e ricca di quanto non lasci trasparire una semplice indicazione etimologica. 4. Riferimenti AIS: Jaberg, K. e Jud, J. (a cura di) (1928-1940). Atlas Italiens und der Südschweitz, 8 voll. Zofingen: Ringier. Altieri Biagi, M.L. (1970). Guglielmo volgare. Studi sul lessico della medicina medioevale. Bologna: Forni. Altamura, A. (19682). Dizionario dialettale napoletano. Napoli: F. Fiorentino [I ediz.: 1956]. Andreoli, R. (1887). Vocabolario napoletano-italiano. Torino: Paravia. Barbato, M. e Varvaro, A. (2004). Dialect Dictionaries. International Journal of Lexicography, 17, 4, pp. Vocabolario 429-439. Bianchi, Pet al. (1993). I’ te vurria parlà. Storia della lingua a Napoli e in Campania. Napoli: Pironti. D’Ambra, R. (1873). Vocabolario napolitano-toscano d’arti e mestieri. Napoli: presso l’Autore. D’Ascoli, F. (1993). 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Figura 2: Copertina del giornalino a fumetti stampato negli anni ’50.