Spunti per possibili correlazioni e approccio allo sviluppo cognitivo

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Spunti per possibili correlazioni e approccio allo sviluppo cognitivo
Copertina
13-12-2007
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Pagina 1
A cura di:
PAOLO FERRAZZA
ELENA STURCHIO
Autori:
Depositato presso l’AIFA in data 27/11/07
PAOLO FERRAZZA
ELENA STURCHIO
PAOLA SOLDATI
BARBARA FICOCIELLO
ANDREA FAUSTO LIJOI
ANDREA PAOLILLO
Spunti per possibili correlazioni e
approccio allo sviluppo cognitivo
Presentazione e revisione
Dott. GIOVANNI MARIA PIRONE
Si ringrazia per il prezioso contributo:
Pubblicazione fuori commercio
PAOLO FERRAZZA
ELENA STURCHIO
Codice IMM0224
Marcella Valente Neurologa
Ada Mariggiò Psicologa, Psicoterapeuta
Franco Barattini Direttore Medico Opera Srl.
Istituto Italiano di Medicina Sociale
Copertina
13-12-2007
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Pagina 2
Istituto Italiano di Medicina Sociale
Via Pasquale Stanislao Mancini 28
00196 Roma
Tel. 06 3200642/3
www.iims.it
Open Archive: http://e-ms.cilea.it
1ª edizione, novembre 2007
ISBN
978-88-87098-64-8
Coordinamento editoriale
Paolo Ferrazza
Grafica
Pubblishock srl - Roma
Il presente volume è disponibile sul sito www.iims.it.
La riproduzione è libera, con qualsiasi mezzo effettuata
compresa la fotocopia, salvo citare la fonte.
Paolo Ferrazza, laurea specialistica in biologia con indirizzo Biochimico-Fisiologico,
Specialista in Biologia Molecolare. Ha dedicato molti anni in laboratorio alla ricerca
di base in genetica molecolare umana e successivamente sulla tossicità e
mutagenesi ambientale. Da molti anni si dedica alle ricerche cliniche sul sistema
nervoso centrale, sta costituendo un gruppo di lavoro che si occupi di avviare delle
ricerche con l’intento di mettere in relazione quanto più possibile i fattori ambientali
e sociali con le malattie neurodegenerative. Attualmente è responsabile delle
ricerche cliniche nella direzione medica di una società multinazionale, Advisor
Scientifico della CRO Opera Srl, consulente di ricerca dell’Istituto Neurologico
Mediterraneo NEUROMED.
Paola Soldati, laurea specialistica in Biologia specializzata in Chimica e Tecnologia
delle Sostanze Organiche Naturali. Ha dedicato molti anni alla ricerca di base nel
campo della tossicologia ambientale, successivamente ha lavorato sia in laboratorio
nell’ambito del controllo qualità per poi dedicarsi all’attività di ricerca clinica orientata
alle malattie neurodegenerative.
Andrea Fausto Lijoi, laurea specialistica in Psicologia Clinica e di Comunità, ha
lavorato per dieci anni nei servizi sociali di sostegno ai disabili Psichiatrici, da molti
anni si occupa di ricerca in campo Neuropsicologica. Attualmente lavora presso la
Contract Research Organization Opera Srl come advisor della Neuropsicologica.
Elena Sturchio, laurea specialistica in Biologia specializzata in Patologia Clinica, ha
lavorato molti anni all’attività di ricerca in Biologia Molecolare applicata alla Tossicità
Ambientale. Attualmente è ricercatrice presso l’Istituto Superiore di Prevenzione e
Sicurezza Lavoro (ISPESL) e si occupa di sviluppo di biomarcatori di geno tossicità
e di studi sul rapporto causa-effetto tra geni e stress ambientali.
Membro della Commissione Interministeriale di Valutazione per le Biotecnologie.
Esperto ISPELS della Commissione Interministeriale di Valutazione sugli organismi
geneticamente modificati.
Barbara Ficociello, laurea specialistica in Biologia specializzata in Microbiologia e
Virologia, ha svolto attività di ricerca nell’ambito della patologia clinica . Attualmente
svolge attività di ricerca presso l’Istituto Superiore di prevenzione e Sicurezza Lavoro
( ISPESL) nel campo della Tossicologia e Mutagenesi Ambientale.
Andrea Paolillo. Medico neurologo, dottore di ricerca in Neuroscienze, ha svolto
per alcuni anni attività di ricerca in Neurologia e in Neuroradiologia, autore di
numerose pubblicazioni sulle malattie neurodegenerative, attualmente responsabile
dell’area neurologica di un’importante società farmaceutica multinazionale.
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COLLANA STUDI E RICERCHE
ISBN 978-88-87098-64-8
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A mia figlia Martina perché le nostre attività di ricerca
possano aiutarla a vivere in un mondo migliore
P.F.
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Editore:
Istituto Italiano di Medicina Sociale
Via Pasquale Stanislao Mancini 28
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Tel. 06 3200642/3
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Realizzazione:
Opera Srl.
Via Sampierdarena n. 33/2
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Per informazioni:
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Il libro è stato realizzato con l’importante
sostegno della società Merck Serono
Si ringrazia inoltre per il supporto scientifico e logistico lo staff di Opera.
Un particolare ringraziamento al gruppo che ha supportato la revisione editoriale:
Dott.ssa Amalia Contessini, Ilaria Di Pippa, Emanuela De Martinis,
Monia Pirrone, Annalisa Cannelli.
Spunt
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A cura di:
PAOLO FERRAZZA
ELENA STURCHIO
Spunti per possibili correlazioni e
approccio allo sviluppo cognitivo
Presentazione e revisione
Dott. GIOVANNI MARIA PIRONE
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INDICE
PRESENTAZIONE
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INTRODUZIONE
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1. LE MALATTIE NEURODEGENERATIVE
1.1 Introduzione
1.2 Possibili meccanismi di azione
1.3 Cenni sulle più comuni malattie neurodegenerative
1.3.1 L’Alzheimer
1.3.2 Il Parkinson
1.3.3 La Sclerosi Multipla
1.3.4 La Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA)
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2. EFFETTO DELL’INQUINAMENTO AMBIENTALE
2.1 Introduzione
2.1.1 Tossicità
2.1.2 Neurotossicità
2.1.3 Carcinogenesi e Mutagenesi
2.2 Radiazioni ionizzanti
2.3 Inquinanti chimici
2.3.1 Sostanze chimiche industriali
2.3.2 Metalli Pesanti
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104
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3. NUOVE FILOSOFIE SPERIMENTALI
3.1 Introduzione
3.2 I miRNA
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4. LO SVILUPPO COGNITIVO E LE INFLUENZE
DELLE ESPERIENZE AMBIENTALI (Interazione tra geni ed ambiente)
4.1 Il contributo di Jean Piaget
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4.1.1 Introduzione
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INDICE
4.1.2 Le fasi dello sviluppo cognitivo secondo Piaget
(La psicologia genetica)
4.1.3 Fase senso-motoria
4.1.4 Fase preoperatoria
4.1.5 Fase delle operazioni concrete
4.1.6 Fase delle operazioni formali
4.2 Lo sviluppo cognitivo nella prospettiva
di Lev Semyonovich Vygotskij
4.2.1 Introduzione
4.2.2 Lo sviluppo storico-culturale
4.2.3 Il rapporto tra apprendimento e sviluppo mentale.
La Zona di Sviluppo Prossimale
4. 3 Lo sviluppo cognitivo secondo Jerome Seymour Bruner
4.3.1 Introduzione
4.3.2 Gli studi sulla percezione durante la nascita della psicologia
Cognitiva.
4.3.3 Lo studio sul pensiero e la formazione di categorie.
4.3.4 Lo sviluppo cognitivo (1966),
Piaget e Vygotskij sintesi ed evoluzione.
4.3.5 I tre sistemi di rappresentazione del mondo
4.4 L’approccio riduzionista e le prime evidenze sperimentali
sui processi neuronali che coinvolgono la memoria.
(L’Aplysia Californica ed il Nobel per le neuroscienze a E. R. Kandel)
4.4.1 Introduzione
4.4.2 La memoria secondo E. R. Kandel (L’approccio riduzionista)
4.4.3 Memoria a breve termine e memoria a lungo termine
in Aplysia, i meccanismi biochimici.
4.5 Cenni sui disturbi cognitivi e inquinamento ambientale
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155
155
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159
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161
163
164
165
165
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169
5. CONCLUSIONI
173
BIBLIOGRAFIA
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PRESENTAZIONE
La ricerca scientifica sui fattori di rischio ambientali e su quelli
correlati allo stile di vita in genere assume oggi un ruolo di strumentalità
sociale ancora non assolutamente prevedibile.
D’altra parte numerose ed importanti scoperte scientifiche nascono
dalla logica deduttiva che i sociologi hanno battezzato serendipità.
I benefici economico-sociali e di salute individuale, derivanti da interventi
di prevenzione primaria, sono già noti.
Oggi occorre invece una migliore comprensione della fisiopatologia di
numerose malattie cronico degenerative, un approfondimento delle
correlazioni con il regime alimentare, la verifica dei contaminanti tossici che ad
esempio hanno determinato l’encefalopatia spongiforme bovina, senza
tralasciare le patologie dell’invecchiamento quali Parkinson, Alzheimer,
infarto, diabete, artrite e cancro che potranno attecchire in una platea più
ampia di anziani, considerato il dato demografico dell’incremento degli
ultrasessantacinquenni previsto per il 2025 nella misura del 100%.
Nel 2007 il 5% degli europei anziani con età superiore ai 65 anni sarà
colpito dal morbo di Alzheimer.
La ricerca clinica è orientata verso nuovi metodi per prevenire o ritardare
la morte neuronale nelle malattie neurodegenerative, mentre la genetica
indaga sui fattori che predispongono all’artrite reumatoide.
In definitiva si prospetta un nuovo profilo di studio e di intervento sia per la
prevenzione primaria che per il miglioramento della cura e dell’assistenza.
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PRESENTAZIONE
Un progetto Europeo denominato APHEA si è occupato di studiare gli effetti
a breve termine dell’ inquinamento atmosferico in quindici città europee.
I risultati, basati sulle statistiche relative ai livelli di inquinamento, hanno
dimostrato che le sostanze inquinanti hanno un effetto misurabile sulla
mortalità causata dalle malattie cardio-vascolari e respiratorie e possono far
insorgere patologie classificate presumibilmente come “disordini idiopatici a
patogenesi ignota”, in quanto richiedono ancora studi eziologici sulle cause
fondamentali della demenza e fisiopatologie sui meccanismi di produzione
della malattia.
La dimensione del fenomeno per diffusione ed anche gravità è
comunque già una priorità nazionale nel nostro Paese.
Il presente volume evidenzia le possibilità di individuare i fattori di rischio
ambientali che sono correlati alle malattie, i meccanismi molecolari che
potenzialmente rendono influenzabile il sistema di “programmazione” della
cellula, nella convinzione che comprendere il meccanismo di azione aiuta a
capire le varie cause di insorgenza ed a trovare cure più efficaci.
Giovanni Maria Pirone
Commissario straordinario
Istituto Italiano di Medicina Sociale (IIMS)
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INTRODUZIONE
Il filosofo U. Galimberti, in un contesto dove lo sviluppo del progresso
tecnico, (attuato per compensare l’insufficienza della capacità umana,
migliorare la qualità di vita e intervenire sulla realtà da cui la sua
esistenza stessa dipende) potendo intervenire sull’equilibrio
dell’ecosistema, sottolinea, che “discutere della tecnica non significa allora
enfatizzarla o demonizzarla, ma divenire consapevoli che l’orizzonte di
riferimento a partire dal quale l’uomo può pervenire a una comprensione di se,
è radicalmente mutato” per cui è “necessario abbandonare la persuasione
ingenua secondo cui la natura umana è un che di stabile che resta
incontaminato e intatto qualunque cosa l’uomo faccia” (Galimberti U., 2002).
Infatti, i processi industriali, le diverse forme di antropizzazione,
l’ampio utilizzo di sostanze chimiche comportano che una larga frazione
della popolazione umana sia quotidianamente esposta ad un elevato
numero di fattori tossici e inquinanti a più livelli biologici (genetici,
morfologico-embrionali, citologici, fisiologici, molecolari), diffusi nelle
diverse matrici ambientali (acqua, aria e suolo), che possono indurre
danni immediati o differiti sulla salute umana.
Il rapporto con l’ambiente è, quindi, una delle determinanti
fondamentali per lo stato di salute della popolazione umana, la relazione
tra l’individuo e i diversi fattori ambientali può avere risvolti diversi
sull’equilibrio salute/malattia. Studiare, conoscere e comprendere quali
siano gli elementi da considerare, da un punto di vista epidemiologico,
per valutare l’impatto dei diversi fattori sullo stato di salute è un compito
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molto complesso, richiede l’analisi e la correlazione tra dati ambientali,
territoriali e urbanistici, con indicatori di mortalità, sanitari, demografici,
culturali e sociali, per una determinata popolazione.
In generale, la prevenzione delle malattie di origine ambientale
richiede un intervento sinergico su comportamenti individuali, stili di
vita, norme e misure istituzionali che consentano di garantire la sicurezza
della popolazione esposta ai rischi ambientali.
SALUTE
AGENTI
AMBIENTALI
Aria
Acqua
Pesticidi e tossici
FONTI DI VARIABILITA’
Fattori genetici
Stato di salute
Nutrizione
Occupazione
Stato socio-economico
Figura 1.1. Schema di flusso tra salute – agenti ambientali – fonti di variabilità (da Geller
A.M. and H. Zenick, 2005).
Negli ultimi anni le linee di ricerca stanno ponendo maggiore
attenzione alla connessione tra prevenzione delle patologie e studio
dell’ambiente nelle sue componenti abiotiche e biotiche potenzialmente
patogene. A tal proposito sono di valido supporto l’uso di test biologici
che permettono lo studio dei fattori tossici ai diversi livelli biologici
sopramenzionati. Ad esempio nella valutazione dell’entità del danno in
organismi viventi per azione di agenti chimici, pesticidi e carginogeni si
fa ricorso ai test di genotossicità della Cometa e dei micronuclei applicati
a cellule meristemali di Vicia faba var. minor o su leucociti umani. Ènoto
da tempo che le piante possono rappresentare dei validi indicatori per la
presenza di inquinanti ambientali genotossici, consentendo, accanto a
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più collaudate metodiche di tipo chimico-fisico e biologico, il controllo e
lo screening in situ. L’impiego di questi test di mutagenesi a breve
termine, per l’alto grado di predittività della cancerogenesi, unito alla
rapidità e ai bassi costi di esecuzione, fornisce un contributo significativo
per un monitoraggio ambientale ed un intervento di protezione della
popolazione (Sturchio E., et al. 2007).
A questi si aggiungono gli indicatori di effetto, i quali permettono di
valutare lo stato ambientale sulla base degli effetti che le attività umane
inducono su organismi sensibili fornendo dati biologici come misure di
biodiversità, alterazioni biochimiche, fisiologiche, morfologiche,
funzionali, genetiche che, in funzione della loro gravità, indicano un
ampio spettro di risposte biologiche, da semplici adattamenti fisiologici a
quadri patologici ben definiti e a malattie conclamate (NCR, 1989). Gli
indicatori di effetto possono essere impiegati in modo alternativo per
stimare indirettamente la suscettibilità individuale o la dose, quando la
misura dell’inquinante primario non sia disponibile o affidabile. L’uso più
appropriato di questi indicatori è tuttavia la stima del rischio di effetti a
lungo termine per individuare eventuali interventi di prevenzione
primaria (Mutti A., 1995).
Anche la tossicologia, in quanto caratterizzazione della risposta di un
organismo ad un tossico e determinazione del meccanismo responsabile
dell’effetto avverso osservato, si avvale di test che prevedono
l’allestimento di saggi di tossicità in modelli animali suscettibili o test in
vitro. Con questi ultimi test è possibile testare gli effetti di una sostanza
chimica valutandone la tossicità attraverso la capacità replicativa
(citotossicità), il ritmo proliferativo (test di proliferazione), il potenziale
trasformante con l’inibizione da contatto nella crescita cellulare (test di
trasformazione) e la capacità di formare colonie in terreno semisolido
(test di crescita in soft agar).
Tuttavia, a causa della diminuzione dei livelli di esposizione e la
crescente complessità delle miscele di inquinanti che caratterizzano molti
ambienti lavorativi (similmente a quanto avviene per l’aria urbana),
emerge la necessità di sviluppare batterie di test non a scopo diagnostico,
ma che permettano quello che è stato definito “monitoraggio degli effetti
biologici”.
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Il monitoraggio degli effetti biologici consiste nella valutazione di
modificazioni biochimiche o funzionali associate a particolari condizioni
espositive, è strumento complementare per una corretta stima del rischio,
soprattutto nei casi in cui non siano note (o non esistano) relazioni doseeffetto e dose-risposta. In questi contesti, il solo uso degli indicatori di
esposizione o di dose (monitoraggio ambientale o biologico) risultano
essere insufficienti per la stima di effetti a lungo termine, che possono
essere invece almeno sospettati caratterizzando condizioni che
precedono la malattia conclamata. Per cui test tradizionali sono
attualmente supportati da nuove metodologie analitiche come quelle di
tossicogenomica le quali permettono di identificare in anticipo e con una
maggiore sensibilità alterazioni legate all’esposizione ad una sostanza
tossica, fornendo indicazioni sul meccanismo molecolare di azione.
Tale campo di ricerca è ancora lontano dall’offrire una risposta chiara
e definitiva sui meccanismi alla base degli effetti tossici. D’altra parte le
istanze che vengono poste oggi alla ricerca sono molteplici dal momento
che nell’ambiente possono essere presenti sostanze che inducono o
promuovono severe patologie soprattutto a lungo termine di cui è ancora
difficile definire modalità, cause eziologiche, e progressione. Da diverso
tempo è stata posta ad esempio l’attenzione sul legame tra alcune
sostanze chimiche ed i fattori ambientali per valutare l’andamento
epidemiologico delle malattie neurodegenerative (incidenza, morbilità,
mortalità).
In un articolo pubblicato su The Lancet alla fine del 2006, due autori
(P. Grandjean e P. Landrigan) sottolineano come lo sviluppo della
neurotossicità dovuta a composti chimici industriali rappresenti una
“pandemia silente” in quanto gli effetti subclinici delle sostanze chimiche
non appaiono riportati nelle analisi statistiche. La valutazione e
l’identificazione della neurotossicità dei composti chimici si fonda sulla
evidenza di un danno funzionale che nel caso di un individuo adulto è
di solito legato all’ambito occupazionale, mentre nel bambino ad episodi
di avvelenamento acuto ad alte dosi.
Di norma la tossicità presenta un andamento dose-dipendente con un
effetto clinico manifesto ma nel caso di un effetto subclinico questo può
restare silente determinando una sottostima del rischio. I due autori
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citano 201 composti chimici comunemente usati e rilasciati come
inquinanti nell’ambiente di cui sono noti e documentati gli effetti
neurotossici (in realtà il numero di sostanze chimiche che possono
causare neurotossicità in test su animali di laboratorio supera 1.000).
Gli autori evidenziano come l’inquinamento ambientale, l’esposizione
per uso quotidiano ed occupazionale a sostanze chimiche rappresenti un
fattore rilevante per il manifestarsi di effetti tossici negli individui esposti,
in particolare bambini o feti, maggiormente suscettibili in quanto
presentano organi in via di sviluppo.
Nel testo vi è, quindi, l’esortazione ad adottare un approccio
precauzionale sui controlli delle sostanze chimiche. Negli ultimi anni un
numero crescente di evidenze ha messo in relazione il manifestarsi di
patologie del neurosviluppo con diversi composti chimici industriali e
non.
I dati sulla tossicità di molte sostanze, sono ignoti per il fatto che,
attualmente, meno della metà delle migliaia dei composti chimici usati
sono stati testati, ma soprattutto gli attuali test di tossicità raramente
comprendono lo studio delle funzioni neurocomportamentali.
Il cervello umano è un organo particolarmente vulnerabile, e quindi
anche danni limitati possono avere conseguenze di rilievo. Dallo stadio
fetale in poi il cervello vive una complessa serie di processi, per cui
un’interferenza dovuta alla esposizione di sostanze tossiche può
comportare conseguenze permanenti. Le ricerche hanno dimostrato che
sostanze inquinanti presenti nell’ambiente, come il piombo o il mercurio,
a basso livello di esposizione possono avere effetti subclinici avversi,
come diminuzioni del grado d’intelligenza o alterazioni del
comportamento. L’articolo presenta una interessante indagine di raccolta
dati relativi a diverse sostanze quali pesticidi, piombo, metilmercurio,
arsenico, PCB (bifenili policlorurati) e solventi (toluene), dove è stata
sufficientemente documentata la tossicità e la sua insorgenza sul
neurosviluppo del cervello.
I risultati evidenziano che, spesso, un’esposizione a sostanze
neurotossiche nell’infanzia può portare ad un maggior rischio di morbo
di Parkinson e di altre malattie neurodegenerative (Langston W., et al.
1999; Calne DB., et al., 1986).
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Queste evidenze scientifiche si basano su studi epidemiologici di
esposizioni occupazionali e casi clinici d’intossicazione acuta, gli effetti su
popolazioni esposte ad inquinamento ambientale sono poco noti, dal
momento che l’attribuzione di neurotossicità ad un singolo composto
chimico è spesso impossibile (Grandjean P. e Landrigan PJ., 2006).
Dall’analisi dei rapporti del National Institute of Occupational Safety
and Health (NIOSH), si trovano altre 200 sostanze non censite dall’articolo
citato, a cui vengono assegnati dei limiti in eccesso di esposizione
occupazionale per la possibilità che provochino effetti dannosi sul sistema
nervoso (http://www.cdc.gov/Niosh/npg/npgsyn-p.html).
L’EPA a sua volta riporta che più di 80.000 sostanze chimiche sono
registrate per uso commerciale, di cui 62.000 classificate come tossiche
(U.S. Environmental Protection Agency, 1998). In Europa la situazione è
pressoché analoga, con circa 100.000 composti registrati (Commission of
the European Communities, 2001).
(http://ec.europa.eu/environment/chemicals/exist_subst/einecs.htm).
Dal momento che la gran parte di questi composti sono prodotti in
quantità notevoli, una particolare attenzione deve essere posta nei
riguardi delle esposizioni occupazionali, del rilascio nell’ambiente e
dell’esposizione della popolazione attraverso il consumo di prodotti
contaminati od utilizzo di manufatti, per quando concerne i livelli di
concentrazione di esposizione, i tempi e la modalità dell’esposizione
stessa. Inoltre è necessario considerare l’effetto sinergico dei composti
chimici. Miscele di composti possono costituire fattore di rischio diverso
rispetto al singolo composto, modulandone e/o incrementandone la
tossicità (vedi tabella 1.1).
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INTRODUZIONE
Tab. 1.1. Elenco composti chimici neurotossisi: (da Grandjean P, Landrigan PJ. 2006).
Panel: Chemicals (n=201) known to be neurotoxic in man
Metals and inorganic compounds
Nitrobenzene
Pesticides
Methamidophos
Aluminium compounds
*Arsenic and arsenic compounds
Azide compounds
Barium compounds
Bismuth compounds
Carbon monoxide
Cyanide compounds
Decaborane
Diborane
Ethylmercury
Fluoride compounds
Hydrogen sulphide
*Lead and lead compounds
Lithium compounds
Manganese and manganese compounds
Mercury and mercuric compounds
*Methylmercury
Nickel carbonil
Pentaborane
Phospine
Phosphorus
Selenium compounds
Tellurium compounds
Thallium compounds
Tin compounds
Organic solvents
Acetone
Benzene
Benzyl alcohol
Carbon disulphide
Chloroform
Chloroprene
Cumene
Cyclohexane
Cyclohexanol
Cyclohexanone
Dibromochloropropane
Dichloroacetic acid
1,3-Dichloropropene
Diethylene glycol
N,N-Dimethylformamide
2-Ethoxyethyl acetate
Ethyl acetate
2-Nitropropane
1-Pentanol
Propyl bromide
Pyridine
Styrene
Tetrachloroethylene
*Toluene
1,1,1-Trichloroethane
Trichloroethylene
Vinyl chloride
Xylene
Aldicarb
Aldrin
Bensulide
Bromophos
Carbaryl
Carbofuran
Carbophenothion
α- Chloralose
Chlordane
Chlordecone
Chlorfenvinphos
Chlormephos
Chlorpyrifos
Chlorthion
Coumaphos
Cyhalothrin
Cypermethrin
2,4-D
DDT
Deltamethrin
Demeton
Dialifor
Diazinon
Dichlofenthion
Dichlorvos
Dieldrin
Dimefox
Dimethoate
Dinitrocresol
Dinoseb
Dioxathion
Disulphoton
Edifenphos
Endosulphan
Endothion
Endrin
EPN
Ethiofencarb
Ethion
Ethoprop
Fenitrothion
Fensulphothion
Fenthion
Methidathion
Methomyl
Methyl bromide
Methyl demeton
Methyl parathion
Mevinphos
Mexacarbate
Mipafox
Mirex
Monocrotophos
Naled
Nicotine
Oxydemeton-methyl
Parathion
Pentachlorophenol
Phorate
Phosphamidon
Phospholan
Propaphos
Propoxur
Pyriminil
Sarin
Schradan
Soman
Sulprofos
2,4,5-T
Tebupirimfos
Tefluthrin
Terbufos
Thiram
Toxaphene
Trichlorfon
Trichloronat
Other organic substances
Acetone cyanohydrin
Acrylamide
Acrylonitrile
Allyl chloride
Aniline
1,2-Benzenedicarbonitrile
Benzonitrile
Butylated triphenyl phospate
Caprolactam
Cyclonite
Dibutyl phthalate
3-(Dimethylamino)-propanenitrile
Diethylene glycol diacrylate
Dimethyl sulphate
Dimethylhydrazine
Dinitrobenzene
Dinitrotoluene
Ethylbis(2-chloroethyl)amine
Ethylene
Ethylene oxide
Fluoroacetamide
Fluoroacetic acid
Hexachlorophene
Hydrazine
Hydroquinone
Methyl chloride
Methyl formate
Methyl iodide
Methyl methacrylate
p-Nitroaniline
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Ethylene dibromide
Ethylene glycol
n-Hexane
Isobutyronitrile
Isophorone
Isopropyl alcohol
Isopropylacetone
Methanol
Methyl butyl ketone
Methyl cellosolve
Methyl ethyl ketone
Methylcyclopentane
Methylene chloride
Phenol
p-Phenylenediamine
Phenylhydrazine
Polybrominated biphenyls
Polybrominated diphenyl ethers
*Polychlorinated biphenyls
Propylene oxide
TCDD
Tributyl phosphate
2,2’,2”-Trichlorotriethylamine
Trimethyl phosphate
Tri-o-tolyl phosphate
Triphenyl phosphate
Fenvalerate
Fonofos
Formothion
Heptachlor
Heptenophos
Hexachlorobenzene
Isobenzan
Isolan
Isoxathion
Leptophos
Lindane
Merphos
Metaldehyde
*substances that have been documented also to cause developmental neurotoxicity
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CAPITOLO I
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I. 1 INTRODUZIONE
Le malattie neurodegenerative sono un gruppo eterogeneo di
patologie inerenti specifiche aree del sistema nervoso centrale (SNC) la
cui sintomatologia è caratterizzata da una progressiva riduzione della
componente cognitiva o motoria, a seconda del tipo di cellule neuronali
interessate dalla selettiva degenerazione della malattia. Esse a tutt’oggi
rappresentano un problema per la scienza medica dal momento che le
cause eziologiche sono note solo in parte e il loro decorso spesso silente
da un punto di vista sintomatico, ma inesorabilmente progressivo, viene
evidenziato quando il danno al paziente è già in fase avanzata,
precludendo, nella quasi totalità dei casi, la possibilità di una terapia
efficace che non sia solamente sintomatica.
Da un punto di vista patogenetico, tali malattie sono caratterizzate da
un processo cronico di morte neuronale, non sempre accompagnato da
infiammazione, che esita in gliosi, esordendo clinicamente in maniera
strisciante nell’età adulta con decorso progressivo. Nelle fasi iniziali
assumono un carattere focale, che in genere colpiscono bilateralmente
uno specifico sistema neuronale, dando luogo ad una sintomatologia
clinica estremamente variegata.
Un tempo si definivano le demenze come precoci e senili, in seguito
le sole demenze precoci sono state individuate come delle patologie con
caratteristiche peculiari, la stessa schizofrenia diagnosticata nelle fasi più
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LE MALATTIE NEURODEGENERATIVE
tardive era definita dementia precox. Però tenendo sempre presente questa
nuova classificazione si può comunque affermare che la maggior parte
delle demenze e della neurodegenerazione del SNC sono correlate
positivamente con l’età. Parimenti, tuttavia, si è osservato che esistono
specifici siti di aree cerebrali e cellule che rispetto ad altri vengono colpiti
con più frequenza, la loro particolare suscettibilità è legata più alle
caratteristiche citochimiche che all’età, ma la frequenza delle lesioni in
suddette aree aumenta proporzionalmente all’età stessa.
Dal punto di vista istologico i processi neurodegenerativi consistono
in lesioni non specifiche (un invecchiamento precoce di alcune
popolazioni neuronali), genericamente indicative di stress cellulare.
In tutti i tipi di malattie neurodegenerative le indagini
immunocitochimiche rivelano la presenza di una o più alterazioni
comuni. Per questi motivi è stato suggerito un meccanismo patogenetico
comune a partire da un danno primitivo ai neuroni della neocorteccia
cerebrale, con una possibile rilevanza nel processo patogenetico dello
stress ossidativo. Con ciò si indicano le conseguenze citopatologiche di
un bilancio sfavorevole tra concentrazione intracellulare di radicali liberi
e capacità della cellula di neutralizzarli, per un aumento della produzione
endogena di radicali liberi, per una diminuzione delle sostanze
neutralizzanti, e/o per una diminuzione della capacità di riparare il
danno ossidativo prodotto dai radicali liberi sulle macromolecole
cellulari.
L’analogia delle caratteristiche patologiche, cliniche ed
epidemiologiche suggerisce l’esistenza di fattori di rischio genetici ed
ambientali comuni ai diversi tipi di malattie neurodegenerative.
In sostanza, le evidenze scientifiche suggeriscono per le principali
malattie neurodegenerative un meccanismo patogenetico comune e una
eziologia multifattoriale risultante dall’interazione tra fattori di rischio
ambientali e accentuata suscettibilità genetica individuale.
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I. 2 POSSIBILI MECCANISMI DI AZIONE
Le attuali conoscenze sull’origine prima della patologia delle malattie
neurodegenerative di tipo sporadico è spesso sconosciuta, ma dati di
letteratura evidenziano uno stretto legame tra fattori ambientali, quali
esposizione a sostanze chimiche (idrocarburi, pesticidi, solventi, n-esano
e suoi metaboliti, metalli pesanti, farmaci antinausea ad azione centrale,
antipsicotici) e reazioni (stress ossidativo e nitrosilante, glicosilazione,
meccanismi infiammatori che determinano un perdurare nel tempo di
alti livelli di neurotrasmettitori eccitatori), ritenute fra i maggiori fattori
di intermediazione al rischio.
Le terapie attualmente in uso sono essenzialmente sintomatiche, con
efficacia variabile in funzione della patologia e dello stato del singolo
paziente. Stress ossidativi, disfunzione mitocondriale e risposte allo stress
cellulare sono alla base dell’insorgenza e progressione delle malattie
neurodegenerative.
Nella patogenesi di diverse malattie neurodegenerative, tra cui la
malattia di Parkinson, la malattia di Alzheimer, l’atassia di Friedreich
(FRDA), la sclerosi multipla e la sclerosi laterale amiotrofica, esiste una
significativa evidenza che sia implicata la generazione di specie reattive
dell’ossigeno (ROS) e/o di specie reattive dell’azoto (RNS) associata alla
disfunzione mitocondriale.
Il genoma mitocondriale può avere un importante ruolo nella
patogenesi di queste malattie e l’evidenza che i mitocondri siano un sito
di danno nelle malattie neurodegenerative si basa in parte sulla riduzione
dell’attività della catena respiratoria nella malattia di Parkinson, di
Alzheimer e di Huntington.
L’alterato metabolismo intramitocondriale con aumento dei livelli di
ferro libero, e una difettiva catena respiratoria mitocondriale, associata ad
un’aumentata generazione di radicali liberi e danno ossidativo, possono
rappresentare un possibile meccanismo in grado di compromettere la
vitalità cellulare.
La frataxina, una proteina mitocondriale, può detossificare i ROS
mediante attivazione della glutatione perossidasi ed aumento dei tioli.
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L’eterogeneità dei fattori eziologici rendono difficile definire con
precisione il principale fattore clinico di inizio della malattia e della sua
progressione.
Ci sono evidenze che lo stress ossidativo e l’alterato metabolismo
proteico siano due elementi essenziali nella patogenesi di molte delle
malattie neurodegenerative.
Le principali malattie neurodegenerative (malattia di Alzheimer,
malattia di Parkinson, sclerosi laterale amiotrofica, sclerosi multipla,
malattia di Huntington, atassia di Friedreich) sono tutte associate alla
presenza di proteine anormali.
Tra le proteine “hot shock”, la HSP-32, anche nota come HO-1 (eme
ossigenasi-1), sembra avere un ruolo importante. La HO-1 potrebbe
rappresentare un sistema protettivo potenzialmente attivo contro il
danno ossidativo a livello cerebrale.
La manipolazione dei meccanismi di difesa cellulari endogeni, come
la risposta “heat shock” attraverso antiossidanti nutrizionali, composti
farmacologici o trasduzione genica, potrebbe rappresentare un
innovativo approccio nelle malattie neurodegenerative (Calabrese V. et
al., 2006).
Anche le disfunzioni del sistema immunitario sono causa di patologie
neurodegenerative e psichiatriche. La disfunzione del sistema
immunitario, con conseguente formazione di reazioni autoimmuni e
produzione di autoanticorpi è uno dei fattori eziopatogenetici in alcune
malattie neurodegenerative (morbo di Alzheimer) e in malattie
psichiatriche, come la schizofrenia.
Le malattie neurodegenerative sono caratterizzate da risposte
immunitarie aberranti. Componenti “self” possono essere riconosciuti
come estranei dal sistema immunitario per modificazioni posttrasduzionali, quali glicazione, ossidazione e aggregazione che
avvengono nel corso dell’invecchiamento. Gli autoantigeni coinvolti nella
patogenesi di tali malattie sono autoantigeni neuronali e autoantigeni
endoteliali. Anticorpi anti-neurone sono stati dimostrati nel siero di
pazienti con malattie neurodegenerative e potrebbero condurre allo
sviluppo e progressione di esse in presenza di un’alterata permeabilità
della barriera ematoencefalica. Gli autoantigeni endoteliali vengono
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riconosciuti da anticorpi anti-cellule endoteliali che possono causare
alterazioni della barriera ematoencefalica mediante attivazione o apoptosi
delle cellule endoteliali. A tutt’oggi non sono ancora disponibili marcatori
che permettano una diagnosi specifica per patologie neurodegenerative e
psichiatriche e che permettano di valutare il rischio, la progressione e gli
effetti del trattamento farmacologico. Sono comunque in corso ricerche
volte all’identificazione di autoantigeni riconosciuti dagli autoanticorpi
presenti nel siero di pazienti con patologie neurodegenerative, come la
sindrome di Alzheimer e a patologie psichiatriche come la schizofrenia,
allo scopo di valutare il possibile utilizzo degli autoanticorpi specifici
come marcatori prognostici e/o diagnostici e per comprendere meglio i
meccanismi eziopatogenetici (Ortona E. & Margotti P., 2007).
Nella complessità dei sistemi biologici, elemento comune alle malattie
neurodegenerative è l’alterazione di alcuni processi metabolici, quali:
x Meccanismi dei processi proteolitici e/o dei loro sistemi
di controllo
Questi meccanismi alterati determinano un accumulo di proteine
anomale, il quale, a sua volta, attiva un sistema di traduzione del segnale
chiamato unfolded protein response, attraverso l’aumento dell’espressione
di geni della risposta allo stress associato al Reticolo Endoplasmatico
(molecole di trasporto “chaperoni”). Pertanto eventuali mutazioni nelle
proteine coinvolte nel traffico Golgi-RE provocano un’inibizione della
capacità di degradare proteine con conformazioni alterate. Le malattie
neurodegenerative quali la malattia di Alzheimer, il Parkinson, la malattia
da corpi di Lewy, le Encefalopatie da prioni, la malattia di Huntington ed
alcune neuropatie sono patologie caratterizzate da eccessive quantità di
proteine erroneamente strutturate (misfolded) e da accumuli di “rifiuti
molecolari” come nelle amiloidosi sistemiche e localizzate (Carrel RW,
and Gooptu B., 1998).
Il cambiamento della struttura secondaria e/o terziaria di una normale
proteina funzionale è per lo più da imputare ad un mancato
funzionamento di una famiglia di inibitori delle proteasi nello specifico
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le serin-proteasi (serpine), ciò comporta l’alterazione della
conformazione, una polimerizzazione patologica delle varianti proteiche
e la formazione di aggregati proteici intra ed extracellulari con varie
organizzazioni che hanno come risultato un inappropriato folding. In
alcuni casi l’oligomerizzazione della proteina misfolded nella
conformazione a foglietti b e la formazione di aggregati proteici, produce
protofilamenti che si organizzano strutturalmente in fibrille formanti
depositi di amiloide tossici per i tessuti con perdita di funzione della
proteina aggregata. L’osservazione che un tipo familiare di demenza è
strettamente associato all’accumulo di un inibitore della serino-proteasi
presente nel cervello, la neuroserpina, ha permesso di postulare
meccanismi conformazionali comuni alle demenze e alle “serpinopatie”.
La neuroserpina è omologa alla a1-antitripsina, sintetizzata e secreta dai
neuroni durante la loro crescita, e si pensa possa avere un ruolo nel
promuovere la formazione delle connessioni interneuronali. La
serpinopatia è caratterizzata dalla formazione nei neuroni di corpi
d’inclusione contenenti neuroserpina anomala ed è causata da mutazioni,
a differente penetranza, dei geni delle neuroserpine. In condizioni
normali i neuroni limitano l’aggregazione intracellulare delle proteine,
mediante meccanismi proteolitici. Quando l’aggregazione però supera
una certa entità, i meccanismi proteolitici risultano insufficienti, con
conseguente accumulo degli aggregati ed eventuale morte neuronale. La
capacità proteolitica dei neuroni di tollerare un eccessivo carico si riduce
in relazione al progredire dell’età, e ciò giustificherebbe alcune forme di
Alzheimer a sviluppo tardivo, che sono caratterizzate dai tipici accumuli
di precursore proteico della b-amiloide (b-APP) in quelle regioni come
l’ippocampo e la corteccia, dotate di capacità proteolitica molto limitata.
La distribuzione in tipiche zone del cervello degli aggregati proteici è
diversa in ciascuna delle demenze conformazionali ed è responsabile
della loro varia manifestazione clinica, alla quale contribuisce la severità
della mutazione genetica. Infatti mutazioni che determinano notevole
instabilità conformazionale comportano un esordio molto precoce della
malattia e un coinvolgimento dei nuclei cerebellari e del talamo, con
conseguente comparsa di epilessia mioclonica progressiva. Mutazioni
meno severe nei geni delle neuroserpine comportano la comparsa di
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LE MALATTIE NEURODEGENERATIVE
inclusioni a livello di neuroni corticali distribuite in modo ampio e un
esordio molto più tardivo della demenza. Studi sulle demenze familiari
hanno confermato che l’accumulo intraneuronale di proteine aberranti è
di per sé sufficiente a causare la malattia degenerativa ad esordio tardivo.
x Meccanismi molecolari di risposta allo stress ossidativo cellulare
I processi biologici che coinvolgono i radicali liberi e gli antiossidanti
sono basati su un complesso equilibrio, la presenza delle specie reattive
dell’ossigeno (ROS), come H2O2, e i radicali OH° e O2° di per se’ non
deve essere considerata esclusivamente come un evento negativo dal
momento che questi composti hanno un ruolo anche nelle funzioni
fisiologiche. Spesso si identifica la presenza di radicali come
un’accelerazione dell’invecchiamento dei tessuti o l’instaurarsi di gravi
patologie come malattie cardiovascolari e neurodegenerative, diabete,
cancro (Halliwell, B. and Cross, C.E., 1994; Bray, T.M., 1999; Forsberg,
L., et al., 2001).
Al contrario, una situazione transiente di stress ossidativi rappresenta
uno dei meccanismi fondamentali di funzionamento per:
± rispondere a/o inviare molti tipi di segnale (ormoni,
neurotrasmettitori, citochine ecc.);
± difendersi dagli agenti infettivi;
± variare lo stato redox necessario ad avviare un processo
differenziativo;
± essere intermediari di reazioni enzimatiche e chimiche.
I radicali sono, perciò, indispensabili ad un corretto funzionamento
cellulare, tuttavia quando in un comparto tissutale o in una cellula, la
corretta regolazione dell’omeostasi dei radicali viene alterata nel suo
funzionamento, si può instaurare una situazione di stress ossidativi
dovuta ad un’aumentata presenza di radicali ossidanti. Ciò determina
una maggiore ossidazione del tessuto, misurabile dalla comparsa di
specie ossidate presenti nei maggiori costituenti della cellula, quali lipidi,
proteine, DNA, carboidrati e/o dalla riduzione dei livelli di riducenti
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naturali. Nel momento in cui un processo di stress ossidativo diviene
cronico definisce un disequilibrio nella cellula tra la produzione di ROS
e le capacità di difesa rappresentata dagli antiossidanti, determinando
una condizione di rischio per processi degenerativi e l’instaurarsi di una
situazione patologica (Sies, H., 1985).
È noto che numerose patologie, sia su base genetica che acquisit,e
sono associate ad alterazioni dello stato redox cellulare, le quali possono
avere di per se’ un ruolo patogenetico o, al contrario, esserne un
prodotto.
• Nel primo caso la produzione di specie pro-ossidanti (o la
diminuzione di elementi antiossidanti) interviene nella normale
fisiologia cellulare con alterazioni dei processi vitali quali corretta
proliferazione e/o della morte cellulare, contrattilità, funzione
mitocondriale. Da qui il loro plausibile ruolo nell’insorgenza di
patologie degenerative, nei tumori o nei processi associati
all’invecchiamento. Patologie che sembrano essere per lo più correlate
a stress ossidativo di tipo cronico, e comunque con esposizione a livelli
acuti di ROS, sembrano essere la cataratta (Spector, A., et al., 1993),
danni ai tessuti in seguito ad ischemia/riperfusione in vari organi
trapiantati (Loguercio C. and Federico A., 2003; Poli G. and Parola M.,
1997) e malattie neurodegenerative come l’Alzheimer, il Parkinson e la
Sclerosi laterale amiotrofica.
• Nel secondo caso, un’alterazione del bilancio redox è secondaria a
processi patologici, come in alcune infezioni virali o in trattamenti
farmacologici di tipo oncologico, dove le alterazioni redox possono
rappresentare rilevanti e utili biomarkers per informazioni sulla
natura, sulla localizzazione e sugli effetti dello stress ossidativo.
Tuttavia, la presenza di molecole che hanno subìto un danno di tipo
ossidativo può semplicemente riflettere epifenomeni secondari e non
possedere un ruolo di tipo causale. Al momento non è possibile delineare
chiaramente le relazioni causali esistenti, ma una crescente serie di
evidenze indica che elevati livelli di ROS portano a precise conseguenze
patologiche, amplificano notevolmente ed estendono il danno, portando
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alla degenerazione irreversibile di cellule e tessuti (Nakamura H., et al.,
1997; Andersen JK., 2004).
È ormai noto che lo stato redox cellulare regoli vari aspetti della
funzionalità della cellula attraverso una complessa integrazione di
numerosi meccanismi, ad esempio il danneggiamento strutturale delle
proteine attraverso l’ossidazione diretta della catena aminoacidica, il
legame alla catena peptidica di prodotti secondari dell’ossidazione degli
zuccheri (glicossidazione), o di lipidi polinsaturi (lipossidazione) (Sayre
LM, et al., 2001).
Dati molecolari rilevano che dosi subletali di ROS, generati da vari
stimoli, possono agire come veri e propri secondi messaggeri all’interno
della cellula, andando a modificare il profilo dell’espressione genica.
Il processo è mediato da modificazioni dell’espressione di AP-1, Egr1, e di fattori di trascrizione, come NF-kb (Nuclear Factor-kB) e proteine
Pax, coinvolte nel controllo delle funzioni cellulari (Tell, G., et al., 2005).
Tale regolazione è controllata principalmente dalla proteina nucleare,
APE1/Ref-1, considerata un sensore redox cellulare; infatti, in risposta ad
uno stress di tipo ossidativo, APE1/Ref-1 è in grado di agire sia con
attività endonucleasica di riparo dei siti apurinici/apirimidinici del DNA
sia di esercitare un controllo di tipo redox su diversi fattori di
trascrizione. In questo modo le cellule vengono protette dal danno
indotto da ROS sia a livello genomico, mantenendone la stabilità, sia a
livello trascrizionale, attivando fattori di trascrizione che controllano i
livelli di espressione di enzimi, che eliminano l’eccesso di ROS come le
Superossido dismutasi (SOD), catalasi, ecc.
Uno dei fattori di trascrizione è controllato in modo redox da
APE1/Ref-1 è NF-kB (Nishi, T., et al., 2002), il quale svolge un ruolo
fondamentale nella risposta allo stress ossidativo, nella regolazione
dell’induzione dell’apoptosi, inoltre modula a sua volta i livelli di ROS
intracellulari attivando la trascrizione di geni che controllano l’accumulo
di ROS. Questi geni, come SOD2, sono in grado di inibire entrambi la
morte cellulare indotta da TNF riducendo i livelli intracellulari di ROS
(Wong G.H.W. et al., 1989; Pham C.G. et al., 2004). Infatti nella Sclerosi
Amiotrofica Laterale (SLA) sia di tipo familiare che sporadica, un
aumento di ROS dovuto ad alterazioni della SOD1, associato a
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modificazioni ossidative del trasportatore di glutammato GLT-1 nel
midollo spinale dei pazienti, rafforza l’ipotesi di una relazione causale tra
stress ossidativo ed eccitotossicità.
x Stress ossidativi e mitocondri
Nelle ricerche degli ultimi anni sta emergendo nelle malattie
neurodegenerative, il Parkinson, l’Alzheimer, l’atassia di Friedreich, la
sclerosi multipla e la sclerosi laterale amiotrofica, il possibile ruolo
dell’interazione tra mitocondri e stress ossidativo. L’evidenza che i
mitocondri siano un sito di danno nelle malattie neurodegenerative si basa
in parte sulla riduzione dell’attività della catena respiratoria nella malattia
di Parkinson, di Alzheimer e di Huntington. Le funzioni neuronali
richiedono un’elevata energia, prodotta a livello mitocondriale tramite
fosforilazione aerobica ossidativa, quindi alterazioni dei mitocondri
intervengono nella fisiopatologia di molte malattie neurodegenerative, a
causa di fenomeni come il deficit energetico, lo stress ossidativo e la
eccitotossicità. Tali alterazioni comportano una esposizione cronica delle
cellule nervose a livelli molto elevati di ROS, derivanti principalmente
dalla disregolazione della fosforilazione ossidativa mitocondriale; il loro
accumulo, unitamente al deficit energetico inducono un processo a
cascata di ostacolo del trasporto intracellulare di glutammato, il quale si
deposita nello spazio intersinaptico determinando una continua
stimolazione dei recettori con attivazione dell’apoptosi.
A tal proposito, numerose evidenze supportano la presenza di
alterazioni mitocondriali nei pazienti ALS e nei modelli sperimentali della
malattia. Inoltre, mutazioni puntiformi del DNA mitocondriale sono
presenti con maggiore frequenza nel midollo spinale di pazienti ALS
rispetto ai controlli.
Anche la neuropatia ottica ereditaria di Leber (LHON) rappresenta
una malattia neurodegenerativa con un’alterata funzionalità
mitocondriale, è determinata dalla perdita delle cellule gangliari della
retina per mutazioni in varie subunità del complesso I della catena
respiratoria, alterando lo stato ossidativo della cellula, e causando a sua
volta la modulazione ossidoriduttiva dei trasportatori del glutammato e
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LE MALATTIE NEURODEGENERATIVE
l’innesco della cascata eccitotossica. Anche le cellule periferiche di
pazienti affetti da tali patologie neurodegenerative presentano alterazioni
mitocondriali. È stata riscontrata una ridotta attività del complesso IV in
linfociti di pazienti affetti da ALS e una riduzione marcata dell’attività del
complesso I in mitocondri isolati da piastrine di pazienti affetti da LHON
(Ferrarese C. et al, 2001), nella malattia di Alzheimer (Ferrarese C. et al,
2000) e nella malattia di Parkinson (Ferrarese C. et al., 1999).
Anche in un’altra malattia neurodegenerativa, l’atassia di Friedreich, la
patogenesi non è ancora ben definita, a causa della eterogeneità dei fattori
eziologia; è difficile stabilire con precisione il principale fattore clinico di
inizio della malattia e della sua progressione. Tuttavia vi sarebbe anche in
questo caso un alterato metabolismo mitocondriale con aumento dei
livelli di ferro libero, un difettivo processo della catena respiratoria
mitocondriale, associata ad un’aumentata generazione di radicali liberi e
danni ossidativi. A tutto ciò è stato rilevato che una ridotta espressione
della proteina frataxina, una proteina mitocondriale, è in grado di
detossificare i ROS mediante attivazione della glutatione perossidasi e
aumento dei tioli. L’alterato metabolismo proteico e lo stress ossidativo
sarebbero anche alla base, nei malati di atassia di Friedreich, di
un’anomala risposta a livello del cervello allo stress del tipo “shock
termico”. Nel sistema nervoso centrale, la sintesi della proteina “heat
shock” è indotta non solo dopo ipertermia, ma anche dopo alterazioni
nell’ambiente redox intracellulare. In particolare, la proteina HSP-32
sembra avere un sistema protettivo potenzialmente attivo contro il danno
ossidativo a livello cerebrale (Calabrese V. et al., 2005).
I. 3 CENNI SULLE PIÙ COMUNI MALATTIE
NEURODEGENERATIVE
Tra le patologie neurodegenerative, le più frequenti sono:
– La malattia o Morbo di Parkinson (MP): caratterizzata clinicamente da
tremore a riposo, bradicinesia, rigidità ed instabilità posturale.
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LE MALATTIE NEURODEGENERATIVE
– La malattia di Alzheimer (MA): caratterizzata da un graduale e
progressivo decadimento delle funzioni cognitive quali la memoria, il
giudizio, la critica, il ragionamento.
– La Sclerosi Multipla (SM): caratterizzata all’esordio da disturbi motori
e di sensibilità seguiti da deficit dell’equilibrio, deficit visivo, disturbi
urinari, intestinali e della sfera sessuale.
– La Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA): caratterizzata da atrofia
muscolare ingravescente, fascicolazioni, crampi muscolari,
iperreflessia e successivamente da fenomeni bulbari.
In questo capitolo viene affrontata una panoramica delle malattie
neurodegenerative più comuni con particolare riferimento ai possibili
meccanismi che sono alla base dello sviluppo e progressione di tali
patologie.
I.3.1 La Malattia di Alzheimer
La malattia di Alzheimer (MA) rappresenta la terza causa di morte nei
paesi occidentali. Fu descritta per la prima volta da Alois Alzheimer nel
1906 come una lenta neurodegenerazione, la cui sintomatologia è
caratterizzata da una progressiva demenza con perdita di alcune funzioni
cognitive (linguaggio, orientamento spazio-temporale, memoria, capacità
di giudizio) in un arco di tempo che oscilla tra i 5-15 anni.
Lo stadio finale della malattia mostra un cervello caratterizzato da
un’atrofia cerebrale con ventricoli più ampi, riduzione dei cortical gyri e
ampi solchi (widened sulci), tali cambiamenti sono da attribuire alla
perdita di cellule neuronali. Esiste anche una degenerazione differenziale
nei diversi gruppi di cellule neuronali in relazione alla malattia, infatti
l’ippocampo è noto essere coinvolto nella patologia in modo più
consistente rispetto alla perdita funzionale tipica dell’invecchiamento, ciò
correla con la fisiologia dell’ippocampo implicato nella formazione della
memoria e con il fenotipo della malattia, che prevede un deficit della
stessa.
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LE MALATTIE NEURODEGENERATIVE
Sembra ormai abbastanza consolidata la motivazione che all’origine
della degenerazione neuronale vi sarebbe un processo di apoptosi
incontrollata determinata da diversi fattori. Da un punto di vista
anatomopatologico, a livello citologico c’è la presenza di due
caratteristiche lesioni dovute alla presenza di:
• placche ricche di beta amiloide (derivante dalla proteina di membrana
APP) nello spazio extracellulare dei neuroni, il processo piuttosto
complesso si basa sul taglio di b-APP da parte di tre enzimi proteolitici
(a, b e g-secretasi). Se il taglio è operato dagli enzimi a e g-secretasi
viene originato un frammento normale (p3); se invece b-APP è tagliata
da b e g-secretasi, si può produrre il peptide Ab normale di 40
aminoacidi, oppure la versione patologica di 42 aminoacidi che si
accumula a livello extracellulare. Il meccanismo neurotossico è da
addebitare alla Met-35 la quale sembra avere un ruolo critico in quanto
coinvolta nell’induzione di stress ossidativo e della perossidazione dei
lipidi (Butterfield DA, Boyd-Kimball D., 2004). Inoltre la g-secretasi
fa parte di un complesso proteico localizzato nella membrana
lisosomiale costituito da: Presenilina-1 (PS1), Nicastrina (NcT),
mAPH1 e PEN2, componenti necessari per il riconoscimento di
substrati, assemblaggio di complessi, stabilità e localizzazione dello
stesso nei siti d’azione. La co-espressione di PS1, NcT, mAPH1 e PEN2
induce la formazione degli eterodimeri della presenilina, glicosilazione
della nicastrina ed aumento dell’attività della g-secretasi. La proteolisi
intramembrana di bAPP (il clivaggio g-secretasi) risulta alterata da
mutazioni a carico delle preseniline, determinando un’iperproduzione
di derivati neurotossici, amiloidogenici di Ab 1-42. Sono state descritte
diverse mutazioni missense del gene PS1 che sono alla base delle forme
familiari ad esordio precoce di Alzheimer. Tali varianti mutate
inducono un’alterazione del processo proteolitico dell’APP capace di
provocare un aumento della suscettibilità all’apoptosi. Il Reticolo
Endoplasmatico ed il compartimento intermedio RE-Golgi possono
essere siti di generazione di peptidi tossici di Ab 1-42 in presenza di
alterazioni del sistema unfolded protein response, causate da
mutazioni della PS1. È stato ipotizzato che gli aumentati livelli di Ab
1-42 potrebbero essere il risultato di APP ritenuta a livello del Reticolo
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Endoplasmatico, a seguito del cattivo funzionamento unfolded protein
response e del trasporto proteico, dal momento che le mutazioni di
PS1 inducono una ridotta espressione della proteina di trasporto
GRP78/Bip coinvolta nel folding proteico, ed i cui livelli sono ridotti
nei cervelli dei malati (Di Luca M, et al. 1998).
• accumulo di proteina Tau a livello intraneuronale. I neuroni
presentano uno scheletro interno di supporto formato in parte da
microtubuli, il cui assemblaggio e la cui organizzazione funzionale, in
particolare la morfologia, la crescita e la polarità degli assoni, sono
regolati dalla proteina tau. In un cervello non affetto da patologia, la
proteina tau lega i microtubuli attraverso dei siti di legame tubulina
specifici sotto l’azione di una fosforilazione nei domini dei legami tra
microtubuli a carico di Ser/Thr-Pro (Buee L. et al., 2000). Nei neuroni
affetti dalla malattia la proteina tau viene iperfosforilata in più di 22 siti
diversi, ciò determina la perdita della capacità di legame della proteina
con i microtubuli, i frammenti liberi della proteina si aggregano in
grovigli neurofibrillari, alla base di problemi di comunicazione
interneuronale e apoptosi incontrollata delle cellule (Hanger DP, et al.,
1998).
• Il fenomeno dell’apoptosi nei pazienti affetti da malattia di Alzheimer
risulta essere aberrante e si auto-propaga fin dalla fase iniziale della
malattia, studi del 2005 ne hanno svelato il possibile meccanismo
molecolare riconducibile alla proteina tau alterata non determinato
dalla sola aggregazione. Sperimentazione in vitro cellule neuronali di
ratto, hanno evidenziato che i frammenti 151 e 421 della proteina tau
prodotti dal taglio della caspasi-3, sono in grado di condurre alla morte
i neuroni dell’ippocampo, una specifica popolazione di cellule colpita
precocemente nella malattia di Alzheimer. Questi frammenti proteici
derivano da un processo post-traduzionale della proteina tau, non
originano, quindi da una mutazione genetica a carico del gene
codificante tau, anche se in altre tauopatie (demenze fronto-temporali
con Parkinsonismo associate al cromosoma 17, o Ftdp) le mutazioni di
questo gene sono di per se’ responsabili della demenza. La
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neurodegenerazione potrebbe essere quindi scatenata da un processo
autocatalitico in cui l’attivazione di caspasi-3 promuove il
processamento di tau, il quale genera a sua volta frammenti proteici
che favoriscono l’apoptosi (Fasulo L., et al., 2005). Nel tentativo di
definire parametri biologici che permettano di diagnosticare in fase
precoce la malattia è stato messo in evidenza la relazione tra la
diminuzione dei livelli di Ab 1-42 nel liquor di pazienti affetti da
Alzheimer rispetto a controlli sani di uguale età, mentre i livelli di
proteina tau mostrano un gradiente opposto rispetto a quelli
dell’amiloide, risultando più elevati nei pazienti malati, intermedi in
quelli affetti da forme di demenza non Alzheimer e bassi nei soggetti
sani (Arai H, et al., 1995).
Molti studi indicano che, ben lungi da avere una singola causa, la
malattia sia solitamente causata dalla combinazione di più fattori di
rischio, circa il 75% dei casi di Alzheimer sono classificati come
sporadici, la cui origine non ha una causa ben definita, ma non si esclude
una componente genetica, dove uno dei fattori di rischio è rappresentato
dall’età, tuttavia appare evidente l’associazione con la presenza di uno o
due alleli ε4 del gene codificante per la apolipoproteina E (Apo E)
presente sul cromosoma 19. Il restante 25% dei casi di Alzheimer è
effettivamente a carattere ereditario, questi casi si possono distinguere in
malattie a comparsa precoce (i sintomi appaiono prima dei 65 anni) e a
comparsa tardiva (i sintomi appaiono dopo i 65 anni). Nel primo caso
sembra che possano essere coinvolti:
• Il gene per la produzione di beta-amiloide come APP, la proteina
precursore dell’amiloide collocato sul cromosoma 21 (Padovani A, et
al., 2002).
• I geni per le presenilina 1 (PSEN1) e presenilina 2 (PSEN2) presenti
rispettivamente sul cormosoma 14 e cromosoma 1.
Anche se una solamente di queste mutazioni viene ereditata, la
persona quasi inevitabilmente svilupperà la malattia di Alzheimer del
tipo ad insorgenza precoce. Mentre per le forme di carattere tardivo
appare avere un ruolo ancora la presenza della proteina APP. Recenti
studi hanno sottolineato un possibile collegamento fra fattori correlati al
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rischio cardiovascolare e la genesi della malattia di Alzheimer, in
particolare sembra che elevati livelli dell’aminoacido omocisteina siano
associati con un rischio maggiore di malattia. Un’altra area che sembra
dare suggerimenti utili a capire la genesi dell’Alzheimer è lo studio
dell’invecchiamento, in particolare in relazione al danno neuronale che
col tempo viene inflitto da parte dei radicali liberi e che può innescare dei
fenomeni di danno ossidativo che interferiscono con i sottili equilibri di
controllo del cervello.
I.3.2 La Malattia di Parkinson
Il Morbo di Parkinson (MP) fu descritto per la prima volta da James
Parkinson nel 1817 come una malattia neurodegenerativa del Sistema
Nervoso Centrale (SNC), riguardante almeno 1% della popolazione con
oltre 55 anni di età (Rajput AH., 1992), la cui eziologia a tutt’oggi non è
completamente conosciuta.
In condizioni fisiologiche un cervello sano perde una percentuale di
cellule nigrali dal 4.7% al 6% per ogni decade di vita nell’intervallo tra i
50 e i 90 anni (Gibb WR, Lees AJ., 1991) tuttavia tale perdita non è
sufficiente a giustificare il MP (McGeer PL, et al., 1977).
La patologia è caratterizzata dalla degenerazione della connessione
neurale tra la Substantia Nigra e lo striato, due porzioni del cervello
essenziali per il mantenimento della normale funzione motoria
dell’organismo (Wooten GF., 1997).
Fig. I.1.2.1. Diagramma schematico dei percorsi dopaminergici nel nigrostriale.
Fig. 1. Schematic diagram showing the nigrostriatal dopaminergic pathway. A crosssection of human brain shows the caudate and putamen, which constitute the striatum.
A section through the midbrain shows the substantia nigra. Dopaminergic neurons (in
red), whose cell bodies are located in the SN, send projections that terminate and release
dopamine in the striatum. With the degeneration of the dopaminergic pathway, there is
a progressive drop in dopamine release into the striatum. Striatal dopamine deficiency,
in turn, resultsin complex changes in the brain’s motor circuitry and causes the motor
deficits characteristic of Parkinson’s disease (for interpretation of the references to color
in this figure legend, the reader is referred to the web version of the article).
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Nerve terminals
}
Caudate
nucleus
Putamen
Cell body
Striatum
Substantia nigra
Lo striato fisiologicamente riceve input da parte dei neuroni della
Substantia Nigra Pars Compacta (SNpc) attraverso la via dopaminergica
nigrostriatale (Moore RY, et al., 1971), la progressiva degenerazione del
pathway dopaminergico nigrostriatale comporta una massiva riduzione
della dopamina (DA) striatale per una ridotta sintesi e rilascio di DA dai
nervi striatali terminali (striatal nerve terminals) (Lang AE, Lozano AM.,
1998; De Long MR., 1990; Dicker E, et al., 1993) che nel caso delle
manifestazioni cliniche del MP può essere causata dalla perdita fino
all’80% dei neuroni dopaminergici. Inoltre in alcuni neuroni nigrali
dopaminergici che sopravvivono alla deplezione nonché in altre regioni
del cervello come la cortex e i magnocellular basal forebrain nuclei sono
presenti alterazioni citologiche dovute dalla presenza di inclusioni
citoplasmatiche costituite da aggregazioni di proteina α-sinucleina,
definite corpi di Lewy (LBs) (Gibb WR, Lees AJ., 1988; Uversky V.N.,
2003).
Diversi dati di letteratura rafforzano l’evidenza di una multifattorialità
per l’eziologia del MP coinvolgendo fattori genetici, ambientali,
disfunzione mitocondriale e danno ossidativo. In questo ultimo caso è
opportuno definire che non è ancora chiaro quanto lo stress ossidativo
rappresenti una causa o sia una conseguenza di altri eventi, tuttavia è
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certo il suo ruolo sul danno al DNA (Zhang J, et al., 1999) ed alle
proteine (Floor E, Wetzel MG., 1998).
Il contributo alla eziologia della malattia da parte di una
predisposizione genetica è stato studiato sia con studi di caso-controllo
(Gasser T. 2001; Sveinbjornsdottir S, et al., 2000) sia con ricerche di
identificazione di mutazioni geniche come nel gene per l’ α-sinucleina
(Zarranz JJ, et al., 2004), il parkin (Kitada T, et al., 1998), il PINK1
(Valente EM, et al., 2004), il PARK 8 per la proteina dardarin (Hernandez
D, et al. 2005) infine il DJ-1 (Bonifati V, et al., 2003).
Attualmente gli studi hanno dimostrato che l’α-sinucleina avrebbe un
ruolo centrale nonché molteplice dal momento che la sua alterazione
funzionale la si riscontra in tutte le forme della patologia. È noto che la
sua over-espressione attivi l’apoptosi (Lee M, et al., 2001) probabilmente
a causa del suo coinvolgimento nella regolazione della stabilità della
membrana cellulare e della plasticità neuronale (Recchia A, et al., 2004).
La proteina stessa nella sua fase solubile è spesso associata ad altre
proteine tra cui la tau di cui induce la fosforilazione e la struttura in
fibrille (Jensen PH, et al., 1999) a supporto di ciò è frequente rilevare la
copresenza nelle cellule di grovigli neurofibrillari intraneurali insieme ai
corpi di Lewy indicando che le alterazioni citologiche non sono spesso
così nettamente distinte nelle diverse patologie ma che diversi
meccanismi possono sovrapporsi.
Vi sarebbe anche una relazione tra gli aggregati di α-sinucleina e lo
stress ossidativo infatti questi aggregati simili a quelli di beta-amiloide
possono essere indotti in vivo dalla compresenza di Cu(II) (Paik SR, et al.,
1999), Fe/H2O2 (Hashimoto M, et al., 1999) o citocromo c/H2O2
(Hashimoto M, et al., 1996) elementi centrali nello induzione delle
specie reattive dell’ossigeno (ROS). A sua volta lo stress ossidativo può
danneggiare direttamente il sistema ubiquitina-proteasoma il quale è
deputato al controllo della divisione cellulare, della traduzione dei
segnali e della risposta immunitaria. Il suo ruolo nella patogenesi di
molte malattie neurodegenerative è riferito al fatto che una sua
alterazione comporta una condizione di “stress proteolitico” con un
accumulo intracellulare di proteine anomale o non correttamente
conformate (ripiegate) che non vengono eliminate, inoltre gli aggregati
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proteici tipici della neurodegenerazione sono in grado di intrappolare
l’ubiquitina alterandone la funzione (McNaugth KS, Olanow CW., 2003).
Tuttavia l’ereditarietà sembra non essere sufficiente a spiegare tutti i
casi di MP, infatti la presenza di proteina α-sinucleina viene riscontrata in
tutti gli LBs, anche nella maggior parte dei casi idiomatici di MP, senza
però identificare la presenza di mutazioni a carico del gene codificante la
proteina stessa. Questo indicherebbe, quindi, l’esistenza di meccanismi
addizionali che causano cambiamenti conformazionali della proteina αsinucleina e conseguentemente la sua aggregazione nella formazione dei
LBs (Spillantini MG, et al., 1997).
Da ciò la possibilità che diversi fattori di rischio ambientali siano
correlati all’insorgenza della malattia e alla modulazione della stessa nella
sua progressione (Di Monte DA, et al., 1986; Di Monte DA, Lavasani M,
2002; Di Monte DA., 2003; McCormack AL, et al., 2002; Tanner CM,
Ben-Shlomo Y., 1999).
Infatti è noto che diversi composti chimici presenti nell’ambiente
possono risultare tossiche per il sistema nigrostriatale contribuendo a
determinare il processo neurodegnerativo del MP come:
• metalli (Altschuler E., 1999; Gorell JM, et al., 1999; Yasui M, et al.,
1992).
• solventi (Davis LE, Adair JC., 1999; Hageman G, et al., 1999; Pezzoli
G, et al., 1996; Seidler A, et al., 1996).
• monossido di carbonio (Klawans HJ, et al., 1982).
Negli ultimi 20 anni è stato rilevato che la neurotossina
1methyl,4phenyl,1,2,3,6 tetrahydropiridina (MPTP) induce nell’uomo
(Davis G. et al., 1979; Langston J. et al., 1983), e nella scimmia (Burns
R. et al., 1983; Langston J. et al., 1984) una sindrome neurologica del
tutto sovrapponibile a quella tipica del MP idiomatico, determinata da
una preponderante deplezione selettiva della DA striatale e dei suoi
metaboliti e una deplezione dei neuroni DA della SNpc. Inoltre è stato
rilevato che diversi prodotti chimici utilizzati come erbicidi e pesticidi
(paraquat, diquat, rotenone) sono da un punto di vista molecolare
strutturalmente simili al MPTP e studi epidemiologici hanno dimostrato
un incremento del rischio del MP con l’uso di questi composti in
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agricoltura o con l’assunzione di acqua o cibo contaminati dagli stessi
(Marder K, et al., 1998; Gorell JM, et al., 1998; Vanacore N, et al., 2002).
Tuttavia anche su questo fronte non è ancora stato possibile
identificare in una esclusiva causa ambientale da agenti chimici
l’eziologia della malattia.
I.3.3 La Sclerosi Multipla
La Sclerosi Multipla (SM) è una malattia che colpisce la sostanza
bianca del sistema nervoso centrale, cervello e midollo. Si chiama sclerosi
perché la malattia produce delle cicatrici nelle zone danneggiate e
Multipla perché il processo colpisce parti diverse del SNC e in tempi
diversi.
La malattia causa demielinizzazione, cioè un danno alla guaina
mielinica, quindi un rallentamento nella conduzione degli impulsi
nervosi lungo le vie, i neuroni che ne sono interessati. Anche l’assone
può risentire dell’attacco infiammatorio e della perdita della mielina
compromettendo così la sua funzione e generando il così detto “danno
assonale”.
Dendrite
Terminale
presinaptico
Soma (corpo
cellulare
Nodo
di Ranvier
Guaina
Monticolo
assonico
Assone
Nucleo
Fig. I.3.3.1. Struttura schematica del neurone (adattata da Wikipedia).
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La sclerosi multipla è caratterizzata da chiazze multiple di
demielinizzazione o “placche”, disseminate in senso spaziale ma anche
temporale, in quanto le lesioni si formano, come già detto, a più riprese
nel tempo, accumulandosi.
Le aree di localizzazione preferenziale sono: la sostanza bianca
periventricolare, il nervo ottico, il tronco dell’encefalo, il cervelletto e il
midollo spinale.
La demielinizzazione degli assoni delle cellule del sistema nervoso,
determina alterazioni delle prestazioni sensitivo-motorie, a causa della
riduzione della velocità di conduzione degli impulsi, compromettendo
anche gli aspetti cognitivi e comportamentali.
I disturbi della sclerosi multipla sono assai variabili e disparati, sia sul
versante sensitivo che su quello motorio, in quanto dipendono dalla zona
cerebrale interessata di volta in volta dal processo patologico. Un
coinvolgimento dell’area temporale potrà provocare ad esempio disturbi
uditivi, mentre un interessamento dell’area occipitale sarà spesso
associato a problemi visivi.
L’evoluzione clinica della sclerosi multipla è molto variabile: accanto a
forme “benigne”, con remissione completa ed assenza di recidive,
esistono casi ad evoluzione progressiva, con riaccensioni ripetute e
postumi invalidanti permanenti.
La SM rappresenta la più comune causa di disabilità su base
neurologica nella popolazione giovanile adulta. La maggior parte dei
pazienti affetti da sclerosi multipla manifesta i primi sintomi ad una età
compresa tra i 20 ed i 40 anni. Colpisce più frequentemente il sesso
femminile (incidenza doppia rispetto ai maschi) e, pur non essendo una
malattia ereditaria, è più comune in famiglie con predisposizione genetica.
Il decorso della malattia è variabile: alcune persone sono minimamente
affette dalla malattia, mentre in altre, essa progredisce rapidamente fino
alla disabilità totale. Nella maggior parte dei casi la malattia procede per
ricadute, con comparsa di un sintomo clinico, che regredisce parzialmente
o completamente in 1 o 2 mesi. Le ricadute sono più frequenti nei primi
anni della malattia, successivamente diminuiscono e il decorso può
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diventare progressivo. La durata media di sopravvivenza dopo i sintomi di
esordio è superiore ai trent’anni. In base al decorso, si distinguono quattro
forme cliniche principali di sclerosi multipla.
La SM recidivante-remittente ha una frequenza di circa il 25%; è
caratterizzata dal susseguirsi di attacchi (poussées, esacerbazioni,
ricadute o recidive), costituiti dall’insorgenza acuta di disturbi
neurologici, con la comparsa di nuovi sintomi o aumento della severità
di sintomi già presenti, che tendono per lo più alla regressione totale o
parziale. Con il trascorrere del tempo la regressione tende a farsi sempre
meno completa (forma remittente con esiti) finché, dopo 5-20 anni in
media si assiste spesso ad un “viraggio” verso la forma secondariamente
progressiva. La malattia può rimanere inattiva per mesi, oppure per anni.
La SM secondaria progressiva ha una frequenza di circa il 40%; é
costituita da quelle forme recidivanti-remittenti che hanno perso il
caratteristico andamento intermittente e presentano un peggioramento
costante (andamento progressivo) con una significativa disabilità.
La SM primaria progressiva ha una frequenza di circa il 15%; é
caratterizzata da un andamento cronico fin dall’inizio senza “intervalli”
liberi da disturbi neurologici e da un decorso progressivamente
ingravescente. Questa forma ha in genere esordio tardivo (dopo i 40
anni), e tende ad essere caratterizzata per lo più da disturbi motori.
La SM benigna ha una frequenza di circa il 20%; dopo uno o due
attacchi con recupero completo, questa forma di S.M. non peggiora col
tempo e non determina disabilità permanente e, comunque, non
superiore ad un punteggio di 3 alla EDSS (scala di valutazione della
disabilità di Kurtzke) dopo 10 anni dall’esordio. Questa forma di S.M. é
associata a sintomi meno severi, per lo più di tipo sensorio.
La causa primaria di questa malattia è ancora sconosciuta, mentre
sono ben conosciuti i meccanismi attraverso i quali si manifesta e
procede nel tempo.
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La SM presenta diverse cause di insorgenza quali cause virali,
ambientali, genetiche e immunitarie, le quali insieme concorrono alla
manifestazione della malattia. Valutando le relazioni tra questi fattori
sembrerebbe che la SM sia causata da fattori autoimmuni che molto
probabilmente vengono attivati da fattori ambientali in soggetti
geneticamente predisposti. I pazienti con questa patologia presentano
numerose alterazioni del sistema immunitario, ma non è ancora certo se
queste siano la conseguenza del processo morboso, in risposta ad
un’infezione virale, o la causa del processo stesso. L’ipotesi maggiormente
supportata è quella di malattia infiammatoria “auto-immune”,
probabilmente causata, o quanto meno attivata da un virus. Il sistema di
difesa dell’organismo inizierebbe a considerare la mielina presente nel
sistema nervoso centrale come estranea, distruggendola gradualmente.
Esiste sicuramente una predisposizione genetica: nei parenti di primo
grado dei pazienti con SM il rischio di sviluppare la malattia è circa
quindici volte maggiore che nella popolazione generale, in particolare tra
fratelli. La componente genetica potrebbe intervenire a regolare la
suscettibilità dei soggetti a determinati fattori esogeni. Anche l’ambiente
può svolgere un certo ruolo: questa malattia é cinque volte più frequente
nelle zone temperate (come gli USA e l’Europa), rispetto alle regioni
tropicali (Iannotta C., 1999).
I pazienti con sclerosi multipla possono presentare anticorpi anti
mielina, sia in corrispondenza delle placche di demielinizzazione a livello
del sistema nervoso centrale, sia nel siero.
Gli anticorpi anti-mielina sono di due tipi: anticorpi anti-MOG
(myelin oligodendrocyte glicoprotein) ed anticorpi anti-MBP (myelin
basic protein), diretti contro differenti target antigenici delle guaine
mieliniche della sostanza bianca cerebrale. È da far presente che gli
anticorpi anti-mielina non rivestono tanto un ruolo diagnostico, essi si
evidenziano infatti solo nel 60% dei pazienti con sclerosi multipla ed il
loro riscontro non è d’altra parte sufficiente a porre diagnosi, in quanto
non sono specifici per questa malattia.
La sieropositività per gli anticorpi anti-MOG e/o anti MBP, in un
paziente con diagnosi clinica e strumentale (Risonanza Magnetica
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Nucleare) di sclerosi multipla, è tuttavia indicativa della presenza di una
patologia in fase attiva ed è associata ad un aumentato rischio di
evoluzione negativa, con recidive frequenti ed esiti invalidanti. I pazienti
sieronegativi hanno invece un’elevata probabilità di presentare una
malattia ad andamento benigno, con poche recidive e scarsità di postumi
neurologici.
La presenza di anticorpi anti-mielina, in soggetti con sclerosi multipla,
individua dunque un sottogruppo di pazienti a prognosi negativa, da
sottoporre perciò precocemente a trattamento (cortisonici, interferone,
copolimero 1, immunosoppressori), al fine di prevenire la progressione
della patologia.
Alcuni studi indicano che lo stress ossidativo gioca un ruolo primario
nella patogenesi della sclerosi multipla (Sayre L.M. et al., 2005).
È risaputo che l’infiammazione può aumentare i livelli delle specie
reattive dell’ossigeno (ROS) e dell’azoto (RNS) conducendo allo stress
ossidativo. Una delle più frequenti cause di specie reattive, esclusa la
catena di trasporto degli elettroni nel mitocondrio, è il sistema
respiratorio di microglia attivato.
I fattori ROS e RNS generati dai macrofagi sono risultati essere
coinvolti come mediatori della demielinizzazione e del danneggiamento
degli assoni sia nella encefalomielite autoimmune sperimentale (EAE,
modello animale generalmente (accademicamente) accettato per lo
studio della SM), che nella SM (Gilgun-Sherky Y, et al., 2004; Van der
Goes A. et al., 1998).
In più i radicali liberi possono attivare alcuni fattori di trascrizione,
come il fattore Kappa B della trascrizione del nucleo, il quale
gestisce/predetermina l’espressione di molti geni implicati nella EAE e
nella SM, come il fattore a della necrosi tumorale, la sintesi indotta di
ossido nitrico (iNOS), l’aderenza intracellulare della molecola 1 e
l’aderenza della cellula vascolare della molecola 1 (Barnes PJ, Karin M.
1997; Winyard PG, Blake DR. 1997).
Un analisi del sangue (plasma, eritrociti e linfociti) di 28 pazienti con
SM, comparati con 30 controlli di pari età sani ha rilevato che i pazienti
con SM mostrano riduzioni significative dei livelli di ubiquinone e
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vitamina E nel plasma., e un abbassamento della glutatione perossidasi
eritrocitaria (Syburra C, Passi S. 1999). La conclusione è stata che il
sangue dei pazienti con sclerosi multipla mostra segni significativi di
stress ossidativo. Tale conclusione consolida uno studio precedente che
ha rivelato una significante diminuzione nell’attività della glutatione
perossidasi in 24 pazienti con SM, comparati ai controlli (Skukla UK,
Jensen GE, Clausen J. 1997); un’anormale attività di catalisi è stata
riscontrata anche nei granulociti (Jensen GE, Clausen J. 1997).
Inoltre è risultato anche un aumento del 38% nell’ossidazione dei
lipidi, infatti sono stati riscontrati nel plasma dei livelli significativamente
elevati di glutatione ossidasi e una riduzione della vitamina E: la quantità
di lipidi è stato misurata durante la fase attiva della malattia (Karg E, et
al. 1999).
Controlli della CSF hanno mostrato concentrazioni significativamente
elevate di isoprostani (Greco A, et al., 1999), e un aumento della MDA e
dell’attivita della glutatione reduttasi, e una diminuizione dell’attività
della glutatione perossidasi. (Calabrese V, et al., 1994). Inoltre, controlli
specifici della malattia SM hanno rilevato un aumento dell’attività dei
radicali liberi, in corrispondenza con il decrescere dei livelli di glutatione,
a-tocoferol e di acido urico (Langemann H, et al, 1992).
Inoltre, è stato dimostrato che le cellule monoclonali attive, nei
pazienti con SM, producono un alta quantità di specie reattive
dell’ossigeno e dell’azoto e che si sviluppano, in associazione con le
infiammazioni nella malattia cronica attiva, danni ossidativi al DNA,
compreso il DNA mitocondriale (Lu F, et al., 2000; Vladimirova O, et al.,
1999).
A causa del fatto che abitualmente le cellule immunitarie attive
rilasciano glutammato, si ritiene che sia proprio l’esocitotossicità del
glutammato a provocare danni agli assoni. I disturbi da
demielinizzazione causati da esocitotossine possono essere molto simili a
quelli osservati nella SM, causando così, nel tempo, danni similari. Un
rilascio eccessivo di glutammato da neuroni danneggiati può condurre ad
un sovraeccitamernto dei neuroni, e di conseguenza alla morte delle
cellule per apoptosi, mediata da diversi tipi di recettori del glutammato
(Matute C, Perez-Cerda F. 2005).
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È stato trovato che gli oligodendrociti sono altamente sensibili alla
esocitotossicità del glutammato principalmente attraverso i recettori
AMPA/kainite (Matute C, et al., 2001). Recenti studi sperimentali hanno
mostrato che dal trattamento con gli antagonisti dell’AMPA/kainite risulta
un sostanziale miglioramento della EAE sperimentale (Noseworthy JH, et
al., 2000). L’antagonista dell’AMPA/kainite, inoltre, aumenta la
sopravvivenza dell’oligodendrocita e riduce la defosforilazione del
neurofilamento H, un indicatore del danno dell’assone (Pitt D, et al.,
2000; Smith T, Groom A, Zhu B, Turski L. 2000).
E’ inoltre provato che nella SM si ha un aumento di glutammato, in
associazione all’aggravarsi e il proseguire della malattia, nei livelli di CSF
(Stover JF, et al., 1997; Barkhatova VP, et al., 1998) e che la produzione di
glutammato da parte dei macrofagi può essere alla base dei danni agli assoni
e alla morte degli oligodendrociti nei casi di SM (Werner P, et al., 2001).
I.3.4 La Sclerosi Laterale Amiotrofica
La malattia è relativamente rara, tipicamente di tipo sporadico, ha
un’incidenza relativamente bassa (intorno ai 2 casi ogni 100.000
abitanti/anno) e una prevalenza in Italia di oltre 3.000 malati (negli Stati
Uniti sono circa 25.000), con una piccola percentuale di casi a base
genetica, Questa malattia è nota anche come Morbo di Lou Gehrig (dal
nome del giocatore americano di baseball che ne fu affetto).
La Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), meglio definibile come
malattia dei motoneuroni, è determinata dalla simultanea degenerazione
dei neuroni di moto, usualmente attiva nelle aree cerebrali del corticale
motorio, tronco encefalico (specie bulbo) e spinale che hanno la funzione
di assicurare la motricità di determinati gruppi muscolari e il loro tonotrofismo, comprende una serie di patologie che si manifestano
clinicamente con un deficit progressivo di capacità motoria in aree del
corpo differenziate a seconda del punto di attacco. La progressione della
degenerazione dei motoneuroni interessati varia da soggetto a soggetto,
ma è comunque piuttosto rapida, nell’ordine di qualche anno.
Ne risulta che alcuni muscoli si fanno via via più deboli e tendono a
perdere volume e tono, per cui le funzioni a cui sono preposti questi
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gruppi muscolari (deglutizione, fonazione, respirazione, motricità degli
arti, ecc.) divengono sempre più deficitarie.
L’eziologia della patologia, come nelle altre neurodegenerative, è
dichiarata sconosciuta dalla scienza medica ufficiale. In epoca
relativamente recente sono state avanzate diverse ipotesi sui possibili
meccanismi che sono alla base della malattia.
Le prime osservazioni sono quelle suggerite dalla ricerca
epidemiologica: il fatto che l’incidenza di questa patologia è nettamente
più elevata nell’isola di Guam (nel Pacifico) e nella penisola di Kii (nel
Giappone), ha fatto pensare al ruolo importante che possono avere i
fattori ambientali e, soprattutto, le abitudini alimentari.
A tal riguardo si è posto l’accento sull’uso corrente di una particolare
farina ricca di alcune componenti proteiche, e in particolare di certi
aminoacidi neuroeccitatori - simili all’acido glutammico - che, se presenti
in eccesso, finiscono per arrecare danno ai neuroni.
Ipotesi successive hanno segnalato che la degenerazione cellulare che
si rinviene nella SLA potrebbe essere ascritta a:
– patologie mitocondriali, con alterazioni del metabolismo energetico e
squilibri nella complessa catena respiratoria cellulare (stress
ossidativo);
– un possibile ruolo della carenza di fattori di crescita;
– azione infettiva di particolari agenti virali (i cosiddetti “virus lenti”),
capaci di dar luogo a malattie croniche dopo un lungo periodo di
esposizione, che può durare anche anni;
– meccanismi autoimmuni, per la presenza, in alcuni malati di SLA, di
particolari anticorpi che disturbano il corretto funzionamento dei
canali del calcio (piccole porosità, presenti sulle membrane delle
cellule nervose, che si aprono su sollecitazione di determinati voltaggi
e consentono un ingresso selettivo di calcio all’interno del neurone).
A queste ipotesi andrebbe aggiunta anche quella delle cosiddette heat
shock protein (HSP), molecole che abitualmente proteggono le cellule da
varie forme di stress (ipertermia ed altre situazioni che possono arrecare
danno cellulare); nella SLA si sarebbe evidenziata la presenza di HSP
anomale (e in particolare, la HSP32), con conseguente mancanza di
protezione nei confronti del danno ossidativo neuronale.
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Uno dei fattori di rischio più significativi e meglio sostenuti da
osservazioni scientifiche epidemiologiche è la familiarità per SLA.
Nel 1993 Rosen e collaboratori identificarono la mutazione genetica
responsabile di circa il 10% dei casi di SLA familiare. Il gene in questione
codifica per un enzima, la superossido dismutasi di tipo 1 (SOD1), che
ha azione protettiva nei confronti della cellula liberandola dai radicali
liberi.
Tale proteina, presente nel citoplasma di tutte le cellule
dell’organismo, se mutata sembra acquisire proprietà tossiche
selettivamente sui motoneuroni.
La mutazione di un altro gene, ALS 2, è responsabile della forma
giovanile di SLA di tipo 2, provocando la perdita di funzione di una
proteina, l’alsina, coinvolta nell’organizzazione del citoscheletro della
cellula. Tuttora non è chiaro come e perché le mutazioni della SOD1 e
dell’ASL2 provochino la degenerazione selettiva delle cellule
motoneuronali.
Numerosi studi sono attualmente in corso per identificare i fattori di
rischio genetici associati alla predisposizione individuale a contrarre la
malattia nei casi di SLA sporadici.
Nel sangue di soggetti affetti da SLA è stato rilevato un aumento dei
livelli di glutammato; inoltre recentemente è stata osservata, in questi
soggetti, una riduzione di una delle proteine responsabili della rimozione
del glutammato extracellulare (trasportatore gliale del glutammato)
proprio nelle regioni del midollo spinale e del cervello interessate dalla
malattia. Il glutammato svolge normalmente un’azione eccitatoria per i
motoneuroni, ma se presente a livelli superiori alla norma diventa tossico
per i motoneuroni stessi.
La tossicità eccitatoria è il processo attraverso cui gli aminoacidi
neuromodulatori, come il glutammato, diventano tossici se presenti in
eccesso. Altre potenziali tossine eccitatorie sono l’AMPA e il kainato. Il
loro ruolo, si suppone, è quello di facilitare la morte neuronale, lasciando
passare troppo calcio all’interno dei neuroni motori. Un fenomeno che
induce un meccanismo a cascata intraneuronale che coinvolge i radicali
liberi e ha come esito, appunto, la morte neuronale. È attraverso questa
ipotesi che si è arrivati all’identificazione del riluzolo, il primo farmaco
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brevettato per la SLA. Il riluzolo sembrerebbe, infatti, in grado di
antagonizzare gli effetti del glutammato, inibendone la liberazione
presinaptica o, meno probabilmente, bloccandone i recettori. Per ora le
strategie antiossidanti, invece, non hanno prodotto risultati concreti. Ma
su queste teorie ci si concentra sempre di più dopo che, recentemente, si
è arrivati all’identificazione del gene Sod1. La scoperta è che nei casi di
familiarità, l’esordio della malattia è legato a un difetto nel gene Sod1, che
codifica la superossido dismutasi, un enzima che agisce contro gli agenti
ossidanti, come i radicali liberi. I ricercatori, questa la novità, hanno
capito che la mutazione di Sod1 comporta un nuovo problema per il
motoneurone: la proteina alterata fa diminuire la sua presenza nel nucleo
della cellula nervosa. Il DNA è così più sensibile agli attacchi provocati
da agenti ossidanti, e questo potrebbe contribuire all’esordio e alla
progressione della malattia.
Alla genesi multifattoriale della malattia potrebbe altresì concorrere
anche l’esposizione ad agenti tossici ambientali.
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CAPITOLO II
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DELL’INQUINAMENTO
AMBIENTALE
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II. 1 INTRODUZIONE
Occorre una migliore comprensione dell’impatto dell’ambiente sulla
salute e dei fattori di rischio connessi al regime alimentare, che
contribuiscono alle malattie croniche. Prove più efficaci per la rivelazione
dei contaminanti tossici, come l’encefalopatia spongiforme bovina,
permetteranno di ottenere cibi più sicuri.
Si calcola che entro il 2025 il numero di persone di età superiore ai 65
anni raddoppierà.
Le malattie della vecchiaia, come il morbo di Parkinson e il morbo di
Alzheimer, l’infarto, il diabete, l’artrite e il cancro potrebbero aumentare
in misura molto vistosa. Circa il 5% degli europei di oltre 65 anni è
colpito dal morbo di Alzheimer. Si stanno studiando nuovi metodi per
prevenire o ritardare la morte neuronale, che è quello che accade nelle
malattie neurodegenerative come l’ infarto, il morbo di Parkinson e il
morbo di Alzheimer. Analogamente, gli studi dedicati ai fattori genetici
che predispongono all’artrite reumatoide dovrebbero permettere di
progredire nella comprensione dei meccanismi che presiedono all’
insorgere di questa malattia disabilitante. Sarà così possibile elaborare
terapie più efficaci.
Perciò, oltre a richiedere sforzi personali, la demenza
neurodegenerativa porta con se’ quattro miserabili caratteristiche: è di
origine ignota, è senza cura, sta divenendo incredibilmente comune,
richiede uno sforzo in più rispetto all’impegno domestico medio richiesto
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nella cura di una persona malata. Chiaramente, a questo punto, chiedersi
quali siano le cause fondamentali della demenza diventa una priorità
nazionale. In verità, alcuni ricercatori e medici stanno lavorando
attivamente per comprendere la genesi della demenza e, sebbene i loro
sforzi non abbiano ancora raggiunto le dimensioni di un’urgenza
collettiva, come quella che, a detta loro, ha caratterizzato i programmi
nazionali sulla bomba atomica negli anni ’40 o sullo spazio negli anni ’60,
ci sono segni tangenti di una realtà emergente di cui dover discutere.
La possibilità di individuare eventuali cause ambientali da correlare
alle malattie o meccanismi molecolari, che potenzialmente rendono
influenzabile il sistema di “programmazione” della cellula, possono
aiutare a capire le varie cause di innesco e/o a trovare cure più efficaci.
Risulta quindi estremamente interessante dare una visione generale su
quegli elementi ambientali che possono essere sospettati nell’influenzare
l’insorgenza delle malattie neurodegenerative.
L’approccio genetico alle malattie neurodegenerative come la malattia
di Alzheimer, la Corea di Huntington, il Parkinson, la Sclerosi Laterale
Amiotrofica si è rivelato condizione necessaria, ma non sufficiente a dare
risposte al problema dell’eziologia di queste patologie altamente
invalidanti. Un esempio è fornito dalla malattia di Alzheimer, la forma
più frequente di demenza, le cui cause rimangono ancora pressoché
ignote. Solo il 5-10% della malattia riconosce una trasmissione ereditaria
mendeliana, mentre il 90% è costituito dal tipo sporadico, ad esordio
tardivo con una eziologia poligenica e multifattoriale. Quindi la ricerca
scientifica sta iniziando a porre una maggiore attenzione oltre ai fattori
genetici predisponenti, ai polimorfismi per enzimi metabolici per una
suscettibilità individuale, anche a fattori ambientali quali stili di vita in
contesti rurali o industrializzati, esposizione a fattori inquinanti per
motivi occupazionali, assunzione di cibo contaminato, o utilizzo di
materiali e manufatti che possono rilasciare sostanze tossiche le quali
possono divenire fattori di rischio (Brown RC, et al., 2005; Migliore L. e
Coppede` F., 2002). Assume, perciò, un ruolo sempre più importante il
concetto di multifattorialità nella eziopatogenesi di queste patologie. In
questo contesto della multifattorialità è tuttavia difficile far collimare tutte
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le osservazioni: ambientali, genetiche e quelle relative alla suscettibilità
individuale, ognuna di esse appartiene alla speculazione specifica di
discipline diverse; nonostante questa pluralità vale la pena considerare
alcune tra le relazioni concettuali più importanti e ormai acquisite dal
mondo scientifico.
Le attuali conoscenze, sull’origine prima della patologia delle malattie
neurodegenerative di tipo sporadico è spesso sconosciuta, ma dati di
letteratura evidenziano uno stretto legame tra fattori ambientali, quali
esposizione a sostanze chimiche come idrocarburi, pesticidi, solventi, nesano e suoi metaboliti (presenti in colle, vernici, benzina), metalli
pesanti, farmaci antinausea ad azione centrale, antipsicotici, e reazioni
come stress ossidativo e nitrosilante, glicosilazione, meccanismi
infiammatori che determinano un perdurare nel tempo di alti livelli di
neurotrasmettitori eccitatori, ritenuti fra i maggiori fattori di
intermediazione al rischio.
Attualmente nel caso del Morbo di Parkinson le cause ambientali
appaiono avere un ruolo più determinante della predisposizione
genetica. Si ritiene infatti che la malattia sia il risultato dell’interazione di
fattori ambientali a cui il paziente può essere esposto nel corso della sua
vita. Infatti, ricerche epidemiologiche hanno evidenziato che molti degli
individui affetti da Parkinson sono stati esposti in misura maggiore
rispetto ai casi di controlli a sostanze quali erbicidi, insetticidi, oppure
hanno svolto attività agricole, o hanno bevuto acque provenienti da pozzi
(possibili collettori di pesticidi) o hanno vissuto in zone rurali. Ricerche
recenti hanno tuttavia evidenziato che l’unico fattore di rischio comune a
queste diverse realtà è rappresentato dall’esposizione ad erbicidi ed
insetticidi per cui l’attività agricola, la vita rurale o il consumo di acqua
di pozzo non sono di per se’ fattori di rischio se non in quanto legati
all’elemento uso di erbicida e insetticida. Sono di recente acquisizione
anche dati che ipotizzano la possibilità che perfino il particolato presente
nell’aria (PM 2,5-10), intesa come miscela di composti organici volatili,
possa avere un ruolo come fattore o cofattore della malattia di Alzheimer.
Uno studio realizzato su cervelli di cani cronicamente esposti ad aria
inquinata, ha evidenziato l’espressione di alcuni marcatori molecolari
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dell’infiammazione (gene COX2), dei precursori dell’amiloide (gene APP
751) e del danno ossidativo al DNA, analogamente a quanto riscontrato
nei cervelli di pazienti malati (Calderón-Garcidueñas L., et al. 2004).
Nella letteratura medica degli ultimi anni, diversi autori hanno posto
l’istanza per una maggiore attenzione alla diagnosi precoce e alla
profilassi, quale unica via praticabile nel contrastare le malattie
degenerative. Infatti nella Sclerosi Laterale Amiotrofica, ma anche nella
maggioranza delle altre malattie degenerative, Alzheimer, Parkinson,
Huntington etc., al momento della diagnosi definitiva, il paziente ha già
perduto fino al 70% dei motoneuroni o neuroni, rendendo difficile la
possibilità di un intervento terapeutico efficace. Inoltre, si deve notare
che il processo degenerativo indotto da una qualsiasi causa, si dirama
progressivamente in una serie di sotto-processi, auto-sostenenti e
divergenti, in grado di mantenere lo stato patologico anche in assenza di
processi collaterali. Di qui la necessità e l’importanza di poter conoscere
e controllare l’evoluzione di ciascuna tappa della malattia. Le cause
eziologico-ambientali, che possono interferire con la componente di
suscettibilità individuale e quindi cooperare allo sviluppo della malattia,
possono essere associate a marcatori biologico-molecolari-citologici per
interventi di tipo preventivo. L’uomo non è entità isolata dall’ecosistema
in cui vive e i sistemi biologici sono spesso una complessa rete di
interazione di fattori genetici, molecolari, fisiologici in “comunicazione”
con il fattore ambiente.
Nel maggio 2003, il centro studi Mount Sinai per l’Ambiente e la
Salute del Bambino ha organizzato una importante conferenza presso
l’Accademia medica di New York dal titolo “Prime Cause Ambientali delle
Malattie Neurodegenerative in Età Avanzata”. Le ragioni sostanziali per
sostenere un rapporto causa-effetto tra esposizione ambientale nei primi
anni di vita e insorgenza della patologia in età avanzata, sono state
discusse in questa conferenza a dir poco rivoluzionaria.
Il cambio di logica a riguardo è il seguente:
1) l’ereditarietà in se sembra giocare un ruolo marginale nel rischio di
sviluppare demenza (ad esempio, nella malattia di Parkinson la
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predisposizione genetica è responsabile della patologia solo nel 5% dei
casi).
Questo implica la necessità di riporre la nostra attenzione
sull’ambiente, possibilmente in aggiunta ai fattori genetici e agli stili di
vita individuali, per conoscere le cause basilari della demenza;
2) molte patologie neurodegenerative sembrano progredire
gradualmente attraverso una serie di stadi che richiedono alcuni anni o
addirittura decenni. La cascata di alterazioni neurologiche, responsabili
dell’insorgere dell’Alzheimer, potrebbe scatenarsi già a partire dalla
seconda o terza decade di vita. Questo implicherebbe che esposizioni
tossiche nei primi anni di vita -anche esposizioni prenatali- potrebbero
essere rilevanti nelle demenze di età avanzata più di esposizioni
equivalenti occorse tardivamente;
3) molti disturbi cognitivi noti per essere causati da esposizione ad
agenti tossici presentano effetti latenti di lunga durata. Gli operai della
DuPont, esposti ad alti livelli di piombo negli anni lavorativi, mostravano
in pensione un declino cognitivo più rapido rispetto ai loro collaboratori
esposti a livelli di piombo più bassi, anche se, in entrambi i casi, non c’era
stata più esposizione al piombo da quasi vent’anni. Risultati simili
provengono anche da studi condotti in Corea del Sud;
4) studi su animali mostrano che esposizioni precoci a certi agenti
neurotossici possono creare cambiamenti subdoli ma permanenti nel
cervello, tali che non si possano verificare deficit funzionali finché gli
effetti di queste “tossicità silenti” non vengano smascherate da
compromissioni successive;
5) sostanze neurotossiche, quali pesticidi, organocloruri persistenti e
metalli pesanti sono ampiamente distribuiti nell’ambiente;
6) studi sull’uomo di malattie non dementi mostrano che l’esposizione
a certi fattori nei primi anni di vita può predisporre un individuo allo
sviluppo di patologia negli anni successivi. Ad esempio, studi in
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Inghilterra mostrano che i bambini nati di piccole dimensioni perché
privati di un’adeguata nutrizione, nel periodo dello sviluppo placentare
diventeranno adulti che, in età avanzata, saranno ad alto rischio di
ipertensione, infarto, diabete e cancro della mammella o della prostata. I
risultati di questi studi suggeriscono che i neonati sono influenzati dagli
insulti ambientali che si verificano durante un periodo critico dello
sviluppo, in modi che hanno conseguenze permanenti. Questa idea è
nota come “Ipotesi Barker”.
La malattia di Parkinson può dipendere anche dall’inquinamento
ambientale. In particolare, da sostanze prodotte da alcuni microrganismi
presenti nell’ambiente sotto varie forme, da batteri, funghi, piante e
perfino da prodotti chimici. L’esposizione a questi fattori tossici, come
pure la loro ingestione tramite cibo o acqua contaminati, potrebbe infatti
facilitare una disfunzione genetica che inibisce il sistema regolatorio delle
proteine, con accumulo di proteine degradate e conseguente
degenerazione dei neuroni. A dimostrarlo l’equipe del ricercatore Warren
Olanow del Mount Sinai Institute di New York, con uno studio, effettuato
in laboratorio sui ratti, in via di pubblicazione sulla rivista ‘Annali of
neurology’. La novità – annunciata in occasione del Congresso
Internazionale sulla Malattia di Parkinson e sui Disordini del Movimento,
che ha riunito a Roma oltre 3000 specialisti e neurologi provenienti da
tutto il mondo – riguarda le forme sporadiche di Parkinson, vale a dire le
forme della malattia non geneticamente determinanti. Il giudizio dei
ricercatori è unanime: si tratta di una scoperta che “rivoluziona” la
conoscenza della patogenesi, ovvero delle modalità di insorgenza della
malattia che, dopo quella di Alzheimer, è considerata la patologia
neurodegenerativa più frequente, con circa 100-150 casi ogni 100 mila
abitanti. “L’importanza della scoperta, effettuata somministrando al ratto
inibitori del sistema regolatorio delle proteine, è duplice: innanzitutto –
ha spiegato il neurologo Alfredo Berardelli, del Dipartimento di Scienze
Neurologiche dell’Università La Sapienza di Roma – è la dimostrazione
che le interazioni gene-ambiente svolgono un importante ruolo nella
causa della malattia. Inoltre, evidenzia elementi simili tra le forme di
Parkinson sporadiche, che sono le più diffuse, e quelle genetiche”. In
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altre parole, ha osservato il neurologo Giovanni Fabbrini de La Sapienza,
“nel ratto è stato evidenziato come l’esposizione a tali sostanze determini
un meccanismo neurologico assimilabile a quello che caratterizza la
malattia di Parkinson nell’uomo”. Una scoperta “importante”,
sottolineano gli esperti, poiché “apre la strada ad una maggiore
comprensione dei meccanismi che portano alla morte delle cellule
neuronali, indicando nuove prospettive terapeutiche”. L’obiettivo futuro,
ha sottolineato Fabbrini, “è riuscire ad aiutare in qualche modo le cellule
neuronali a ‘ripulirsi’ dalle proteine degradate, il cui accumulo porta alla
morte delle cellule stesse”, ma dal congresso arrivano anche importanti
novità rispetto alle tecniche di cura. Studi italiani e canadesi, presentati
al simposio, hanno ad esempio dimostrato che la stimolazione magnetica
transcranica, un’innovativa tecnica non invasiva, produce rilascio di
dopamina, una sostanza che viene a mancare nella malattia, facendo
migliorare i sintomi e proponendosi, quindi, come un possibile supporto
terapeutico.
Anche per la Sclerosi Laterale Amiotrofica, come già accennato, si è
evidenziato che all’insorgenza della malattia concorrono anche cause di
tipo ambientale come l’esposizione ad agenti tossici, quali metalli pesanti,
pesticidi, solventi chimici, intossicazioni croniche da piombo, selenio,
mercurio, manganese. Tra gli agenti tossici, quelli maggiormente
chiamati in causa sono i pesticidi e i fertilizzanti. In effetti, secondo uno
studio epidemiologico condotto in Sardegna, la prevalenza della malattia
tra gli agricoltori è doppia rispetto alla popolazione generale. Tali
sostanze, utilizzate anche per la manutenzione del campo da gioco,
potrebbero essere responsabili oltremodo dell’insorgenza della malattia
tra i calciatori.
Tra i fattori ambientali correlati con l’eziologia della malattia
neuronale sono stati identificati il “fallout” radioattivo legato alla
sperimentazione di armi nucleari in Giappone negli anni ‘50-’60 e le
concentrazioni “indoor” di radon in Inghilterra determinate negli anni
‘81-’89.
Una delle rilevazioni epidemiologiche più note è quella che riguarda
gli atleti che praticano varie discipline sportive e, soprattutto, il calcio. In
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quest’ultimo sport è stata rilevata, in Italia, un’incidenza della SLA
nettamente superiore alla normale popolazione e la causa di questa dato
assai significativo è stata a lungo studiata. Secondo alcuni, il motivo
andrebbe ricercato nel particolare tipo di attività agonistica di questi
atleti, che vengono sottoposti a bruschi contatti ed effettuano
numerosissimi colpi di testa: questi traumatismi iterativi sarebbero
responsabili di danni encefalici (come, per altri versi, avviene nella
demenza dei pugilatori) e ciò porterebbe a pensare che dette
sollecitazioni continue siano, quanto meno, fattori di rischio o concause
nel determinismo della malattia (anche se non esistono, al momento,
evidenze che possano avallare con certezza dette conclusioni). Forse è
più suggestiva la responsabilità addossata all’esuberante produzione di
radicali liberi in corso di intensa attività sportiva o al ricorso a
determinate sostanze “dopanti” o, infine, all’alimentazione di questi
atleti, pur non essendovi esaustive documentazioni al riguardo.
Indubbiamente, la scoperta di ben 33 casi di SLA in una popolazione
di 24.000 calciatori (selezionati nelle tre principali divisioni di calcio
professionistico, in Italia, tra il 1960 e il 1996) porta a pensare che in
questo tipo di professione si possa nascondere un significativo (quanto
imprecisato) fattore di rischio, supportato anche dal fatto che esiste una
stretta correlazione fra la durata della professione agonistica e la
possibilità di insorgenza della malattia. E che sia proprio il calcio e non
altre discipline sportive ad avere una specifica responsabilità nel
determinismo della SLA è dimostrato anche da uno studio effettuato su
ben 6000 corridori ciclisti professionisti degli ultimi 30 anni che, pur
effettuando sforzi fisici intensi (e pur subendo le ben note insidie del
doping) non hanno mai contratto questa malattia.
II.1.1 Tossicità
La capacità di provocare effetti dannosi sugli organismi viventi,
caratteristica di un agente tossico quando supera un certo livello di
concentrazione, viene definita tossicità.
La tossicità di una sostanza è caratterizzata sia da un punto di vista
qualitativo, che quantitativo, infatti l’azione tossica dipende
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dall’interazione della struttura molecolare della sostanza tossica con le
molecole biologiche, e si manifesta solo quando si superano determinati
livelli di concentrazione nell’ambiente o in alcuni organi dell’organismo.
In genere è possibile distinguerne quattro manifestazioni diverse:
– tossicità acuta: si presenta quando vi è un’esposizione ad un agente
tossico in un breve lasso di tempo, al massimo 14 giorni, ma
solitamente in 24 ore o meno. È in genere dovuta ad un assorbimento
massiccio e causa sintomi gravi e improvvisi. L’esposizione è di solito
causata da incidenti o da sovradosaggi accidentali o volontari, per
questo motivo risulta molto semplice risalire alla causa e spesso si può
intervenire prima ancora che la tossicità si manifesti in toto. La terapia
prevede sempre la rimozione dell’agente tossico dall’organismo ed è
indirizzata soprattutto ad alleviare i sintomi presenti;
– tossicità sub-acuta: si manifesta in seguito ad un’esposizione a
concentrazioni relativamente elevate e ripetute in un periodo della
durata di qualche mese;
– tossicità sub-cronica: è sostanzialmente causata da un’esposizione
frequente a sostanze di uso professionale o domestico, come ad
esempio i solventi, oppure ad inquinanti ambientali, come quelli
prodotti dal traffico. L’esposizione in questo caso perdura per il 2550% della vita del soggetto esposto;
– tossicità cronica: si manifesta con l’assorbimento, prolungato nel
tempo, di basse dosi di agente tossico. La tipica esposizione supera il
50% della vita. Tipici avvelenamenti cronici sono quelli causati da
metalli o da sostanze organiche (arsenico, mercurio, piombo,
benzene).
La tossicità si misura con due parametri fondamentali che sono
l’esposizione, cioè la quantità di sostanza disponibile ad entrare
nell’organismo, e la dose, cioè la quantità di sostanza che effettivamente
entra nell’organismo.
La quantificazione del potenziale tossico di un inquinante per
l’ambiente è un’operazione essenziale nel processo di valutazione del
rischio conseguente alla sua immissione. L’obiettivo a cui si tende nel
misurare la tossicità di una sostanza è l’individuazione della concentrazione
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(quantità biodisponibile) o della dose (quantità che penetra
nell’organismo), alle quali il composto tossico è capace di produrre uno o
più effetti su organismi tenuti in condizioni controllate (concentrazione del
composto tossico e durata dell’esposizione). Con questo criterio si può
ricavare la LC50, (concentrazione letale mediana) che corrisponde alla
concentrazione che provoca la morte del 50% degli organismi utilizzati in
prova dopo periodi di tempo specifici (es.,48, 96 ore).
Un altro parametro è la EC50 (concentrazione effettiva mediana) che
si può definire come la concentrazione in grado di produrre, per un
determinato tempo di trattamento, un’incidenza pari al 50% dell’effetto
scelto come misura della tossicità (se l’effetto è la mortalità si ha
EC50=LC50).
In ogni caso, bisogna notare che il fattore critico nella determinazione
degli effetti negativi sulla salute non è l’esposizione ad un dato agente, ma
piuttosto l’ammontare di questo, che può raggiungere il tessuto o la
cellula dove può esercitare la sua azione.
L’ammontare totale di una sostanza o di un agente fisico (ad es.
radiazioni) che viene assunto da un organismo, appunto definito dose, si
distingue solitamente in dose assorbita, che rappresenta l’ammontare
totale della sostanza o dell’agente assorbiti, e dose effettiva che è
l’ammontare che raggiunge un determinato punto del corpo ben preciso,
dove può esercitare l’effetto negativo.
Nel caso in cui la dose determini l’effetto nocivo nel punto di
assorbimento si parla di effetti locali; al contrario gli effetti sono sistemici
se si manifestano su uno o più tessuti od organi specifici (detti
bersaglio). Alcune sostanze tossiche, come i pesticidi organofosfati e il
piombo tetraetile possono causare sia effetti sistemici che locali.
Da notare che il tessuto/organo bersaglio per una sostanza tossica può
variare nel tempo, a seconda della quantità o della durata della dose.
Inoltre, le interazioni chimiche e metaboliche possono creare delle
sostanze caratterizzate dall’avere punti bersaglio diversi da quelli del
composto originario.
Esistono essenzialmente due tipi di rapporto fra la dose e l’effetto
tossico determinato da un agente: la tossicità può insorgere solo quando
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viene superato un particolare valore-soglia di dose tossica, con una sorta
di regola del “tutto o nulla”, come nel caso di molti cancerogeni; oppure
può esistere una correlazione lineare fra la dose e l’effetto, nel senso che
all’aumentare della dose aumenta anche l’effetto tossico.
Gli effetti sulla salute causati dall’esposizione ad una certa sostanza
chimica sono direttamente legati all’ammontare di sostanza che
raggiunge il tessuto o l’organo bersaglio.
In generale, tralasciando le varie considerazioni che si possono fare a
proposito del tempo di esposizione, della natura del composto, della sua
quantità e della soggettività di ogni persona, l’accumulo di sostanze
tossiche di origine antropica, da parte degli organismi viventi, coinvolge
due opposti processi: l’assorbimento corporeo e l’eliminazione.
L’assorbimento può avvenire sia attraverso il diretto contatto tra il
contaminante e il corpo (contatto cutaneo) o la superficie respiratoria
dell’organismo (per inalazione), sia attraverso l’ingestione di cibo
contaminato. L’eliminazione invece può avvenire con o senza processi
metabolici, attraverso l’escrezione di metabolici o attraverso la
defecazione di materiale digerito, o infine per rilascio dalla superficie del
corpo.
Ovviamente il grado di contaminazione di un organismo dipenderà
dall’equilibrio dinamico tra i due processi, che possono essere così
schematizzati:
corpo
assorbimento
Intestino
Una volta che il contaminante è all’interno dell’organismo i processi di
trasporto e distribuzione (peraltro ancora non sufficientemente
conosciuti) possono essere così rappresentati:
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Compartimento lipidico
Sangue
Tratto digestivo
Il trasporto all’interno del corpo coinvolge l’assorbimento dei
composti nei diversi componenti del sangue, mentre la distribuzione è
determinata dalla capacità di diffondere attraverso le membrane dei vasi
sanguigni e dei tessuti, in particolare dipende dalla lipofilicità del
contaminante.
Una volta assorbite, le sostanze tossiche possono distribuirsi tramite il
sistema sanguigno a tutte le cellule oppure finiscono in zone di accumulo.
Ogni sostanza assorbita può anche andare incontro ad una trasformazione
metabolica in vari punti all’interno del corpo e venire così metabolizzata.
L’eliminazione è in un certo qual modo l’opposto dell’assorbimento e
consiste nell’eliminazione delle sostanze tossiche dal corpo; questa
espulsione può essere attuata in vari modi, anche contemporaneamente, e
per lo più tramite le urine, le feci, l’aria espirata e, in piccole quantità,
tramite la secrezione di sudore, lacrime, saliva e latte.
Gli enzimi che attuano le biotrasformazioni non sono molto specifici,
e la cosa è riconducibile al fatto che le sostanze tossiche sono
estremamente varie. L’evoluzione non ha fatto sì che per ogni composto
tossico vi fosse un corrispondente enzima inattivante, in quanto i
fenomeni di intossicazione si manifestano quasi sempre in seguito a
fattori occasionali. La stessa definizione di detossificazione è spesso
inesatta, in quanto gli enzimi che modificano le sostanze tossiche
possono anche originare dei nuovi composti ancora più tossici di quelli
originari, come nel caso del metanolo. Addirittura, in alcuni casi, il
precursore risulta biologicamente inattivo, mentre il metabolita che si
origina risulta tossico. Se avviene questa attivazione metabolica del
composto, allora l’avvelenamento si manifesta con un certo ritardo, in
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quanto deve trascorrere del tempo perché i metaboliti tossici prodotti
raggiungano la concentrazione critica nell’organo bersaglio. Con
l’attivazione metabolica della tossicità, inoltre, non vi è una correlazione
fra la concentrazione sanguigna della sostanza assorbita e le condizioni
dell’intossicato, il quale può anche aggravarsi con la progressiva
diminuzione della concentrazione nel sangue del composto assorbito.
II.1.2 Neurotossicità
Assorbimento, Distribuzione, Metabolizzazione, Escrezione
Le sostanze tossiche possono penetrare nell’organismo attraverso
diverse vie: inalazione, assorbimento cutaneo ed ingestione. Grazie al
circolo sanguigno avviene la loro diffusione nei diversi tessuti ed organi e
in genere sono eliminati dal sangue, sulla base delle peculiari
caratteristiche strutturali del composto tossico, attraverso il bioaccumulo,
in specifici siti target, la metabolizzazione e l’escrezione. Fanno eccezione
alcune sostanze che, per vari motivi tra cui l’insolubilità, non vengono
distribuite nell’organismo. A volte non esiste identità tra siti di deposito e
siti di azione della tossicità, fegato e reni sono organi d’elezione per il
bioaccumulo di sostanze esogene, probabilmente per il loro ruolo
escretorio di metaboliti dall’organismo e per la capacità di scambio dovuta
ad un’elevata vascolarizzazione sanguigna. Nell’intossicazione da piombo,
ad esempio, la maggiore concentrazione viene riscontrata a livello osseo
ma la tossicità è espletata nel cervello, ciò determinato dal fatto che
composti tossici di natura lipofila vengono depositati in aree del corpo,
dove è presente un’elevata % di grassi, il cervello rappresenta l’organo
maggiormente vulnerabile dal momento che il 50% del suo peso secco è
lipidico rispetto ad un 6-20% di altri organi (Cooper, J.R., et al., 1982).
Per poter essere escreta, una sostanza esogena viene spesso
metabolizzata in modo da essere convertita in un composto che possa
essere eliminato più facilmente, e questo è quanto accade in particolare per
sostanze lipofile che vengono rese maggiormente idrosolubili. Il processo
di metabolizzazione rappresenta un aiuto nella detossificazione, tuttavia
può accadere che la biotrasformazione determini modifiche strutturali del
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composto, aumentandone la tossicità. Perciò, nell’analisi di rischio di
patogenicità, in particolare per sostanze neurotossiche, è importante non
sottovalutare l’evenienza che dei composti possano divenire tossici e
neurotossici in seguito alla metabolizzazione necessaria per l’escrezione.
La detossificazione e l’escrezione può avvenire attraverso diverse vie,
tuttavia gli organi d’elezione sono rappresentati da reni e fegato, con le
urine ed il tratto gastrointestinale come vettori di espulsione. Sulla base
della loro solubilità in acqua, le sostanze lipofile, oltre alla metabolizzazione
per la solubilità in acqua, possono essere escrete attraverso le feci e la bile,
l’apparato polmonare, con l’espirazione, e l’epidermide.
EFFETTI DI SOSTANZE TOSSICHE SUL SISTEMA NERVOSO
Neurotossiche sono tutte quelle sostanze nocive che hanno come
organo bersaglio il sistema nervoso.
Esso, costituito da cervello, midollo spinale e da un vasto numero di
cellule nervose, rappresenta il sistema di controllo di diverse e numerose
funzioni del corpo umano, come la respirazione, l’attività motoria, visiva,
le funzioni cardiache, intellettive ecc.
• Questo complesso sistema è controllato e coordinato da processi
neuronali che vedono coinvolti neurotrasmettitori, recettori
biochimici, ormoni e a tal proposito risulta essere particolarmente
vulnerabile alle sostanze tossiche per diverse peculiarità.
• Diversamente da altri tipi di cellule, quelle neuronali non sono in
grado di rigenerarsi in seguito ad un danno, per cui in genere
quest’ultimo diviene permanente.
• Le cellule costituenti il sistema nervoso sono per loro natura soggette
ad una progressiva degenerazione legata al ciclo di vita dell’individuo,
ma tale degenerazione può essere incrementata e accelerata da danni
indotti da esposizione a composti tossici.
• Alcune regioni del cervello, nonché alcune cellule neuronali, sono
direttamente esposte a sostanze chimiche grazie ad una capillare
irrorazione sanguigna, e alla possibilità per alcuni composti, a causa
della loro affinità per i lipidi, di superare facilmente la barriera ematoencefalica.
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• La particolare morfologia strutturale delle cellule neuronali, con la
presenza di assoni, espone queste ad una maggiore superficie di
attacco da parte dei composti chimici rendendole inevitabilmente più
suscettibili.
• Il sistema nervoso è strettamente dipendente da un delicato equilibrio
elettrochimico per la trasmissione di informazioni tra cellule e la
trasduzione di segnali all’interno della cellula stessa. La presenza,
quindi, di sostanze chimiche estranee può agevolmente interferire con
le normali funzioni.
• Piccoli cambiamenti nella struttura o nella funzione del sistema
nervoso possono avere conseguenze a più ampio spettro a livello
neurologico e a ricaduta sulla funzionalità corporea.
Gli effetti tossici sul sistema nervoso comprendono principalmente
l’alterazione del bilanciamento ionico, l’interferenza con i
neurotrasmettitori chimici o con i loro recettori e l’anossia, cioè la
mancanza di ossigeno a livello cellulare. Le cellule nervose hanno infatti
un’elevata velocità metabolica e per questo richiedono un maggior
apporto di ossigeno rispetto alle altre cellule del corpo. Dato che un
apporto adeguato di ossigeno è essenziale per l’appropriato
funzionamento del cervello, ogni sostanza che compromette il flusso del
sangue al cervello può causare dei seri danni.
Quindi la tossicità si può manifestare sia a livello generale del cervello,
che sulle singole fibre nervose, sulle guaine mieliniche, ecc.
Il piombo è una classica neurotossina, da molto tempo conosciuta per
i suoi effetti deleteri. L’estrema pericolosità del piombo si può attribuire
in parte ai suoi diversi meccanismi di azione. Può infatti colpire il sistema
neuronale danneggiando gli assoni, distruggendo la guaina mielinica e
anche interferendo con i neurotrasmettitori chimici nelle sinapsi. Anche
gli insetticidi organofosfati interferiscono con la funzione dei
neurotrasmettitori chimici all’interno del sistema nervoso, spesso
causando debolezza e paralisi, talvolta anche la morte. Il loro
meccanismo
d’azione
consiste
nell’inibizione
dell’enzima
acetilcolinesterasi
(AChE).
L’inibizione
irreversibile
della
acetilcolinesterasi provoca un accumulo di acetil colina endogena nel
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tessuto nervoso, in quanto l’AChE è un enzima che catalizza l’idrolisi
dell’acetilcolina. L’acetilcolina è il trasmettitore chimico dell’impulso
nervoso e un accumulo di questo mediatore nella placca motrice, a livello
delle giunzioni sinaptiche, dovuto proprio a questi composti che
bloccano l’azione dell’acetilcolinesterasi, provoca l’insorgenza di
fenomeni patologici, che si manifestano con i classici sintomi colinergici
quali convulsioni, coma o addirittura la morte. Un’altra classe di pesticidi
ad attività anticolinesterasica sono i pesticidi carbammici, derivati
dall’acido carbammico, in cui gli atomi di idrogeno sono stati sostituiti
con gruppi metilici o di altro tipo.
Altri composti neurotossici diffusi sono l’acrilamide, l’endrin, il
dieldrin ed alcune forme di mercurio.
Nella tabella II.1.2.1 sono riportati i più frequenti disturbi
neurotossici.
Tabella II.1.2.1. Effetti neurologici e comportamentali dell’esposizione a sostanze
tossiche (Adattata da Anger W.K., 1986).
Effetti motori
convulsioni
debolezza
tremore, spasmo
mancanza di coordinazione
instabilità
paralisi
anormalità di riflessi
cambiamenti nelle attività
Effetti dell’umore e della personalità
disturbi del sonno
eccitazione
depressione
irritabilità
agitazione
nervosismo, tensione
delirio
allucinazioni
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Effetti sensitivi
cambiamenti nell’equilibrio
disordini visivi
disordini del dolore
disordini tattili
disordini uditivi
Effetti cognitivi
problemi di memoria
confusione
disordini del linguaggio
disturbi dell’apprendimento
Effetti generali
perdita di appetito
depressione dell’attività neuronale
narcosi, incoscienza
fatica
danni ai nervi
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Gli effetti tossici di un composto esogeno possono espletarsi nel
sistema nervoso con diverse modalità temporali e a diversi livelli
strutturali, perciò nella valutazione della tossicità di una sostanza non è
possibile non considerare le correlazioni che si stabiliscono tra effetti
tossici e reazioni fisiologiche dovute ad una serie di fattori.
1. Relazione tra tempo di esposizione e sintomatologia
Vi sono molecole in grado di dare effetti acuti immediatamente o
alcune ore dopo l’esposizione (droghe, alcool), altre richiedono
ripetute esposizioni ed un periodo di latenza nella sintomatologia di
alcune settimane o anni (piombo, solventi), altre procurano un danno
permanente dopo una singola esposizione (pesticidi organofosforici),
altre ancora possono arrivare a provocare la morte se assorbite, inalate
o ingerite in grandi quantità.
2. Dose di esposizione.
È possibile che una sostanza possa avere un ruolo benefico ad alcune
concentrazioni, mentre si rilevi tossica ad altre, ad esempio le
vitamine A e B6, necessarie nella dieta in concentrazioni molto basse,
ad alte dosi risultano essere neurotossiche (Spencer P. S. and
Schaumburg H.H., 1980).
3. Effetto sinergico.
Può accadere che l’esposizione ad una singola sostanza non determini
alcun effetto tossico osservabile, mentre la simultanea esposizione con
una o più sostanze determini un danno al sistema nervoso centrale a
causa di un effetto sinergico.
A tal proposito D. Cory Slectha ha proposto un possibile modello per
valutare la tolleranza biologica verso una potenziale neurotossicità
delle sostanze, secondo il quale esiste una vulnerabilità quando eventi
che avvengono concordemente o cumulativamente, su diversi siti
target in uno specifico sistema biologico del cervello (ad esempio il
sistema dopaminergico), compromettono l’omeostasi e le capacità
riparative del sistema stesso. Ciò nello specifico permette di
classificare le miscele di composti ad attività neurotossica che
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agiscono su alcuni sistemi del cervello mediati da diversi meccanismi
di azione (Cory-Slechta D.A., 2005).
4. Livelli di patogenicità
L’effetto neurotossico di una sostanza può essere espletato a diversi livelli
nell’organo bersaglio: molecolare, interferendo con la sintesi proteica di
alcune cellule nervose comportando la ridotta presenza di
neurotrasmettitori e quindi un’alterata funzionalità cerebrale; cellulare,
dove l’azione viene esplicata intervenendo sul flusso di ioni quali calcio
e potassio attraverso la membrana cellulare alterando la trasmissione del
segnale tra le cellule nervose; funzione sensoriale e motoria, con
conseguenze sulle capacità cognitive della memoria e della motilità.
Tali alterazioni possono determinare interferenze su componenti
strutturali o funzionali dell’organo stesso.
4.1 Cambiamenti strutturali
Possono interessare singole o gruppi di cellule ed intervenire sul
carattere morfologico e su strutture subcellulari. A livello morfologico
sembra che le sostanze tossiche possano avere un’azione selettiva su
varie strutture del sistema nervoso, determinando diverse patologie, a
seconda del comparto cellulare: neuropatie per il corpo cellulare,
assonopatie per gli assoni e mielinopatie per gli strati di mielina. Una
frequente patologia di tipo strutturale è rappresentata dalla
assonopatia centrale periferico distale (central-peripheral distal
axonopathy (CPDA)) la cui degenerazione procede dalla porzione
terminale dell’assone fino al corpo cellulare determinata da alcuni
insetticidi di tipo organofosforico, i quali possono indurla dopo una
singola esposizione; tuttavia la maggior parte dei composti chimici
produce tale effetto dopo una continua o discontinua, ma comunque
prolungata esposizione. A livello subcellulare spesso gli effetti tossici
determinano una lenta degenerazione cellulare che può espletarsi con
un danno neuronale permanente, è quanto avviene nell’intossicazione
acuta da monossido di carbonio con un progressivo deterioramento di
porzioni del sistema nervoso che può dar luogo a forme psicotiche e
morte in alcune settimane (Ginsburg, M.D., 1980).
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4.2 Cambiamenti funzionali
Le sostanze chimiche possono intervenire sulle attività motorie, sulla
sensorialità, sugli stati umorali e le capacità cognitive, in quanto il
sistema motorio e quello sensoriale sono strettamente correlati tra loro
e al sistema nervoso, per cui un danno al sistema sensoriale può
riflettersi in modo indiretto sulle funzioni motorie, mentre alcuni
danni possono avvenire direttamente sul sistema motorio o su
entrambi. In generale alla base di queste alterazioni, vi sarebbero più
cause: demielinizzazione dei neuroni, danneggiamento degli stessi,
alterazione nel sistema dei neurotrasmettitori. Ad esempio il
metilmercurio determina effetti a livello visivo, sensoriale e motorio
(Chang, L. W., 1980), gli insetticidi a base di composti organofosforici
e carbati, inibendo l’acetilcolinesterasi, l’enzima che taglia il
neurotrasmettitore acetilcolina, inducono alterazioni funzionali del
sistema nervoso, quali paralisi neuromuscolare, iperattività, debolezza
fino a casi più gravi con convulsioni, coma o morte (Young, B. B.,
1986), il piombo inorganico può causare ritardo mentale nei bambini
e, nel caso di esposizione a basse concentrazioni, determinare una
transitoria perdita dell’attenzione e delle capacità cognitive (U.S.
Department of Health and Human Services, Public Health Service,
Agency for Toxic Substances and Disease Registry, 1988).
Spesso i cambiamenti comportamentali come stati di inquietudine e
nervosismo sono un primo segnale di danno funzionale del sistema
nervoso, che nei casi più gravi possono evolvere in manifestazioni
quali depressione, perdita della memoria e difficoltà nel sonno,
confusione, allucinazioni e convulsioni.
5. L’età degli individui esposti e loro suscettibilità.
Il corpo umano ha un’efficiente ma limitata capacità di
detossificazione per alcuni agenti chimici, mentre altri non risultano
tossici ma possono divenirlo nel caso in cui l’esposizione avvenga
quando il sistema di detossificazione dell’organismo sia stato saturato,
come nel caso di esposizione cronica a miscele di sostanze chimiche
per motivi di natura occupazionale e/o stili di vita, o possa essere
alterato da fattori come l’età (bambini e anziani).
(vedi figura II.1.2.1).
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Figura II.1.2.1. Legame tra il rischio di esposizione e la farmacologia clinica (adattata da
Ginsberg G., et al., 2005).
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Studi di tossicologia hanno evidenziato forme di neurotossicità latente
che si realizzano nei casi di esposizione a livello fetale ed in età infantile.
Nel caso di rischio nello stadio fetale, questo avviene non solo per
esposizione della donna in stato di gravidanza a composti chimici tossici
per stili di vita o occupazionali, ma anche per possibili infezioni
batteriche intrauterine contratte durante la gravidanza. Tali infezioni
possono determinare la presenza di lipopolisaccaride (LPS), che induce
la produzione della citochina proinfiammatoria tumor necrosis factor
(TNF) (Thorsen P, et al. 1998).
L’infiammazione è proposta come uno dei possibili meccanismi
patogenetici per il morbo di Parkinson (McGeer PL, et al., 2001) in
quanto il TNF è stato rilevato, in alte concentrazioni, nel cervello di
individui affetti da tale patologia e lo stesso in vitro induce la morte di
neuroni dopaminergici (Mogi M, et al., 1994). Perciò la copresenza di
TNF e LPS nell’ambiente corioamniotico potrebbe interferire con il
normale sviluppo di questo tipo di neuroni determinando il rischio, a
seguito di un’infezione intrauterina, che il nascituro possa avere un
ridotto numero di neuroni e di tessuto striatale predisponendolo al
Parkinson (Logroscino G., 2005).
Diversi studi hanno focalizzato anche l’attenzione sulla suscettibilità
individuale in relazione ai processi di cinetica chimica di assorbimento,
distribuzione, metabolismo ed eliminazione (ADME), che determina la
dose effettiva di un inquinante ambientale su un organo bersaglio. Infatti
alcune differenze nella mancata risposta a sostanze tossiche, legate all’età,
sembrano essere alla base di un’alterata risposta ADME come riportato in
tabella seguente (Clewell H, et al., 2004).
Cambiamenti nei processi ADME determinano che una medesima
dose di esposizione esterna possa essere diversa come dose interna di
assorbimento o distribuirsi in organi bersaglio diversi in relazione all’età
(Vedi Tabella II.1.2.2.).
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Tabella II.1.2.2. Cambiamenti farmacocinetici che possono contribuire ad un
incremento della suscettibilità in relazione all’età avanzata (da: Geller A.M. and Zenick
H., 2005).
Processo
Cambiamenti farmacocinetici legati all’età avanzata
Assorbimento
di composti chimici
avviene a livello del tratto
gastrointestinale, della
cute e dell’appartato
respiratorio
Nessuna variazione evidente nell’assorbimento gastrico eccetto una
riduzione della produzione di acidi gastrici con una minore
metabolizzazione dei composti basici. (Mayersohn M. Pharmacokinetics in the
elderly. Envron. Health Perspect 102:119-124)
Variazioni dell’assorbimento a livello dell’epidermide possono alterare la
funzione di barriera selettiva della pelle favorendo la penetrazione di
alcuni composti. (Elias P., Ghadially R. 2002. The aged epidermal permeabilità barrier:
basis for functional abnormalities. Clin. Geriatric Med. 18:103-120)
La variazione del volume polmonare, dell’elasticità, e dell’intervallo di
ventilazione può avere un ruolo nell’assorbimento o nella deposizione a
livello polmonare (ad es. malattia polmonare ostruttiva cronica favorisce
una più profonda penetrazione del articolato e maggiore deposizione).
(Clewell H, Teeguarden J, McDonald T, Sarangapani R, Lawrence G, Covington R, et al.
2002. Review and evaluation of the potential impact of age-and gender-specific
pharmacokinetic differences on tissue dosimtry. Crit Rev Toxicol 32:329–389.)
Distribuzione
di composti chimici può
essere alterata da fattori
come la composizione
corporea,
il
flusso
sanguigno e le proteine
plasmatiche “binding”
Cambiamento della composizione corporea, come la riduzione della
quantità di acqua può comportare un ridotto volume di diluizione del
composto, o un incremento della emivita dello stesso in relazione a quanto
questo sia solubile in lipidi o acqua, nonchè una più alta concentrazione
dei composti ionici nel siero. (O’Mahoney S. 2000. Pharmacokinetics. In: Drugs and
The Older Population (Crome P, Ford G, eds). London: Imperial College Press, 58-89)
Riduzione della massa muscolare e relativo incremento della massa
adiposa, comporta un più alto accumulo di composti lipofili e una più
lenta clearence.
Variazioni della concentrazione delle proteine “binding” può risultare
critico poiché alcune frazioni di un composto possono dare effetti
sull’organismo se presenti in forma libera. Una riduzione di albumina
sierica può determinare un incremento della frazione lipofilica dei
composti, mentre un incremento della alfa 1-glicoproteina il legame dei
composti basici. (Clewell H, Teeguarden J, McDonald T, Sarangapani R, Lawrence G,
Covington R, et al. 2002. Review and evaluation of the potential impact of age-and genderspecific pharmacokinetic differences on tissue dosimtry. Crit Rev Toxicol 32:329–389.)
La barriera emato/encefalica è un’importante interfaccia tra il sangue ed il
cervello, costituita da cellule endoteliali di rivestimento dei capillari, che
protegge il cervello dagli xenobiotici e regola l’omeostasi cerebrale. Le
caratteristiche fisico/chimiche del tossico come ad esempio la lipofilia,
determinano il suo grado di passaggio passivo attraverso la barriera
emato/encefalica. Il trasporto passivo paracellulare dei composti idrofili è
ridotto da uno stretto legame tra le cellule endoteliali e la barriera
emato/encefalica, dal momento che anche i composti lipofili sono
trasportati attraverso la via trans-cellulare. (de Boer AG. et al. The role of drug
transporters at the blood–brain barrier. Ann. Rev. Pharmacol. Toxicol. 2003;43:629-656).
Cambiamenti della permeabilità della barriera emato-encefalica per
alterazioni del trasporto e la concomitanza di altre patologie quali diabete,
ipertensione, ischemia cerebrovascolare possono favorire la diffusione di
sostanze tossiche a livello cerebrale comportando possibili forme
neurodegenerative. (Thiruchelvam M, McCormack A, Richfield E, Baggs R, Tank A, Di
Monte D, et al. 2003. Age-related irreversible progressive nigrastriatal dopaminergic
neurotoxicity in the paraquat and maneb model of the Parkinson’s disease phenotype. Eur
J Neurosci 18:589–600.)
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Metabolismo
Nel fegato avvengono i
processi metabolici.
L’avanzare dell’età non avrebbe un ruolo sull’attività enzimatica del fegato
ma sulla riduzione del volume epatico e del flusso sanguigno favorendo
una minore attività epatica con un processo di detossificazione per alcuni
composti più lento e ridotta attività escretoria con una concentrazione ed
emivita più lunga in circolo del tossico. (Schmucker D. 2001. Liver function and
phase I drug metabolism in the elderly. Drugs Aging 18:837–851).
Inoltre la metabolizzazione di xenobiotici è legata anche alla funzione di
proteine deputate al trasporto transmembranico come la glicoproteina-P
(Kinirons MT, O’Mahoney MS. 2004. Drug metabolism and aging. Br J Clin Pharmacol
57:540–5449) la quale rappresenta un importante meccanismo protettivo
contro la potenziale tossicità degli xenobiotici. La sua presenza è stata
riscontrata ampiamente su enterociti ed epatociti. (Watkins PB. et al. The barrier
function of CYP3A4 and P-glycoprotein in the small bowel. Adv. Drug Deliv. Rev.
1997;27:161-70).
Il ruolo degli enzimi epatici sarebbe critico nella correlazione all’età, in
quanto i soggetti anziani in genere sono sottoposti a terapie
farmacologiche multiple. Dal momento che il processo di clearence risulta
essere lo stesso per i farmaci che per eventuali sostanze tossiche
ambientali, può avvenire che un individuo anziano con terapia multipla
possa vedere aumentato il rischio di effetti avversi tra la terapia e la
concomitante o susseguente esposizione ambientale. (Butler A, Murray M.
1997. Biotransformation of parathion in human liver: participation of CYP3A4 and its
inactivation during microsomal parathion oxidation. J Pharmacol Exp Ther 280:966–973.)
Inoltre i processi metabolici possono rendere alcuni composti chimici
ambientali biologicamente più attivi, come nel caso di alcuni cancerogeni
e pesticidi. Perciò, l’esposizione a questi composti, in concomitanza con
farmaci, che possono indurre una più elevata attività enzimatica,
determinerebbe una più alta tossicità. (U.S. Food and Drug Administration. 2002.
Preventable Adverse Drug Reactions: A Focus on Drug Interactions. Washington, DC:U.S.
Food and Drug Administration. Available: http:// www.fda.gov/cder/drug/drugReactions
[accessed 15 February 2005]. Buratti F, Volpe M, Meneguz A, Vittozzi L, Testai E. 2003.
CYPspecific bioactivation of four organophosphorous pesticides by human liver
microsomes. Toxicol Appl Pharmacol 186:143–154.)
Escrezione
L’eliminazione di sostanze
tossiche e loro metaboliti
è deputata anche alla
funzionalità renale
Una riduzione della clearence renale determina un incremento della
emivita del tossico nell’organismo. Ciò sarebbe determinato dalla
riduzione del volume renale, del numero e della misura dei nefroni,
ridotto flusso sanguigno del plasma renale e del grado di filtrazione
glomerulare e della funzione tubulare (O’Mahoney S. 2000. Pharmacokinetics. In:
Drugs and the Older Population (Crome P, Ford G, eds). London:Imperial College Press,
58–89).
Inoltre le alterazioni della funzione polmonare hanno effetto
sull’assorbimento di gas e composti volatili interferendo sulla via escretiva
a livello respiratorio (Birnbaum L. 1991. Pharmacokinetic basis of age-related changes
in sensitivity to toxicants. Annu Rev Pharmacol 31:101–128).
CLASSI DI SOSTANZE NEUROTOSSICHE
Le sostanze neurotossiche possono essere classificate sulla base dei
loro siti target di azione tossica, secondo lo schema di Spencer e
Schaumburg viene presa in considerazione solo l’azione diretta sul
sistema nervoso mentre sono omessi effetti su altri sistemi che possono
indirettamente avere conseguenze sul sistema nervoso centrale come, ad
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esempio, il danneggiamento di cellule del sistema immunitario, che
influenza alcune funzioni del sistema nervoso e alcuni siti neuronali
(Spencer P.S. and Schaumburg H.H., 1984).
• Membrana neuronale
La membrana cellulare possiede un complesso sistema di pompe,
recettori e canali per scambi intracellulari di molecole e ioni, l’azione
tossica di un composto può interessare queste componenti. In natura
esistono composti come la tetrodossina (prodotta dal pesce palla) e la
saxitossina (prodotta da dinoflagellati) in grado di ridurre il flusso di
ioni attraverso i canali e determinare il blocco dell’attività muscolare,
della parola, la paralisi respiratoria. Al contrario, alcuni composti
possono aumentare il flusso di ioni attraverso la membrana come
DDT e pesticidi piretroidi che agiscono sul flusso del sodio.
• Struttura neuronale
Degenerazioni a carico della struttura assonica sono tra i più frequenti
effetti riscontrati per l’azione tossica di un composto, ma nella
maggior parte dei casi la cronicità di esposizione determina una
molteplicità di danni che coinvolge la cellula nella sua totalità. Alla
base di questa degenerazione vi sarebbe un blocco nel trasporto di
sostanze dal corpo cellulare; a volte, come nel caso della centralperipheral distal axonopathy (CPDA) il danno dalla periferia
dell’assone procede verso il corpo cellulare. Sostanze come il disolfuro
di carbonio, l’esano, l’acrilammide, pesticidi organofosforici
determinano danni di questa tipologia. Manifestazioni più severe di
neurotossicità riguardano la perdita di cellule nervose sensoriali per
trattamenti ad alte dosi di vitamina B6, o per avvelenamento da
trimetiltin (TMT). Per questa molecola i danni vanno dalla
degenerazione cellulare alla necrosi del neurone soprattutto
dell’ippocampo, dalla riduzione della sinapsina all’alterazione dei
meccanismi di rilascio e di cattura dei neurotrasmettitori (Gramowski
A. et al., 2000).
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• Cellule gliali e mielina
Un vasto numero di sostanze di tipo neurotossico svolgono la loro
azione sulle cellule gliari e sulla mielina da esse prodotta. L’esempio
più noto è rappresentato dalla tossina difterica, che danneggia le
cellule gliari, mentre l’esaclorofene interferisce con i processi
mitocondriali delle medesime cellule. L’alterazione delle cellule gliari
determina una riduzione della produzione mielinica, con conseguente
intorpidimento e debolezza muscolare.
• Sistema di neurotrasmettitori
Altre sostanze possono dare affezione al complesso sistema di
neurotrasmettitori del sistema nervoso. La nicotina ed alcuni insetticidi
sono in grado di mimare gli effetti del neurotrasmettitore acetilcolina
mentre i composti organofosforici, gli insetticidi carbamati, agiscono
inibendo l’acetilcolinesterasi, l’enzima che inattiva l’acetilcolina con
perdita di appetito, ansia, spasmi muscolari e paralisi.
Diverse droghe sono in grado di intervenire su diversi comparti del
sistema di comunicazione cellulare. Ad esempio, i neurotrasmettitori
noraepinefrina e dopamina per cocaina, anfetamine, recettori a livello
cerebrale per i peptici, encefaline ed endorfine causando, alterazioni
della percezione del panico, dell’euforia e della realtà.
• Sistema circolatorio legato al sistema nervoso
Il sistema nervoso è supportato per la propria fisiologia da un
articolato sistema di vasi sanguigni e capillari, il cui ruolo è quello di
soddisfare la distribuzione di ossigeno e nutrienti e la rimozione di
metaboliti e sostanze tossiche. Diversi agenti come piombo, alluminio,
tallio, mercurio e trimetiltin possono rompere i vasi determinando
encefalopatie.
II.1.3 Carcinogenesi e Mutagenesi
Le caratteristiche patologiche, cliniche ed epidemiologiche delle
malattie neurodegenerative hanno appunto suggerito l’esistenza di fattori
di rischio genetici e ambientali, cioè un meccanismo patogenetico
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comune; infatti, i lunghi periodi di latenza tra induzione e manifestazione
chimica, sono sintomo di un’interazione tra fattori di rischio ambientale
e accentuata suscettibilità genetica individuale (Levis A.G., …..). Infatti,
in questo tipo di malattie, vengono evidenziati difetti genetici che
spiegherebbero la famigliarità, come nel caso della SLA, in cui il difetto
genetico, alla base della malattia, consisterebbe in una mutazione a carico
del gene che codifica per l’enzima rame-zinco super-ossido-dismutasi.
Questa implicazione genetica spiegherebbe perché, nell’ambito di
rassegne sugli effetti a lungo termine, in particolare cancerogenetici, di
fattori ambientali come ad es. l’esposizione a campi elettromagnetici,
vengono di norma inclusi anche studi sulla relazione tra esposizioni e
incidenza di malattie neurodegenerative (Lagorio S., et al., 1998).
Carcinogenesi (letteralmente la creazione del cancro) è il processo
che trasforma cellule normali in cellule cancerose. Il cancro è in definitiva
causato dall’accumulo di danni genetici che sono fondamentalmente
mutazioni nel DNA. Sostanze che causano queste mutazioni sono
chiamate mutageni che causano il cancro e sono noti come cancerogeni.
Si dice cancerogeno un agente chimico, fisico o biologico che causa,
promuove o propaga il cancro, per azione diretta sul materiale genetico,
o per interferenza sui processi metabolici volti alla regolazione della
morte cellulare programmata. I cancerogeni sono classificati da appositi
organismi internazionali.
Per genotossicità si intende la capacità di una sostanza di indurre
modificazioni all’interno della sequenza nucleotidica o della struttura a
doppia elica del DNA di un organismo vivente. Le mutazioni possono
essere di tipo somatico e germinale; nel primo caso interessano solo la
linea cellulare mutata e possono portare a formazioni neoplastiche e
quindi cancri; mentre, nel secondo caso queste possono essere trasmesse
alla prole.
Quando l’alterazione interessa le generazioni cellulari successive, si
determina il cosiddetto effetto mutagenico.
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Molti mutageni sono cancerogeni ma alcuni cancerogeni non sono
mutageni. Ad esempio l’alcool e gli estrogeni sono cancerogeni ma non
mutageni, infatti stimolano la mitosi. L’aumento della velocità della
divisione cellulare riduce il tempo a disposizione per la riparazione del
DNA, incrementando la possibilità di un errore genetico che sarà
trasmesso alle cellule figlie.
Durante gli anni passati è divenuto sempre più chiaro che il cancro è
una malattia genetica che si produce nel caso in cui mutazioni multiple
(eventi genetici) si accumulano nel DNA di una singola cellula somatica
causandovi la perdita del controllo della crescita cellulare (Klein G., and
Klein E., 1985).
Le mutazioni possono essere di due tipi:
– cromosomiche: in questo caso interi pezzi di cromosomi vengono
casualmente eliminati o si fondono con altri già presenti. I geni si
vengono così a trovare in una posizione diversa da quella originale.
Dato che la regolazione dell’attività di un gene dipende, in parte, dalla
sua localizzazione nel genoma, le mutazioni cromosomiche hanno,
generalmente, effetti estremamente drammatici; fortunatamente sono
piuttosto rare. Si evidenziano questi tipi:
• Delezioni e duplicazioni: portano alla perdita, durante la meiosi,
di piccoli segmenti. Questi però si inseriscono nel cromosoma
omologo, che viene quindi a possedere un tratto del DNA duplicato.
Dei due cromosomi omologhi, uno perde geni, mentre l’altro ne
acquista una quantità maggiore.
• Inversioni: sono dovute a pezzi di cromosoma che si staccano e si
inseriscono però in posizione capovolta.
• Traslocazioni: scambio di materiale cromosomico tra due
cromosomi non omologhi.
• Euploidie: sono piuttosto dannose e si verificano quando ad un
organismo diploide (2n) viene a mancare, oppure viene aggiunto un
particolare cromosoma (es. Trisomia 21 o sindrome di Down).
• Poliploidie: compaiono quando si aggiungono uno o più corredi
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interi di cromosomi. In questo modo un individuo si trova a
possedere, all’interno dei nuclei delle sue cellule, un corredo
cromosomico triplo (3n) o quadruplo (4n).
– geniche o puntiformi: sono abbastanza comuni e vengono causate da
modificazioni di un singolo gene. Sono importantissime dal punto di
vista evolutivo. Tale tipo di mutazioni, che riguardano, generalmente,
una singola base azotata di un nucleotide, determinano la sostituzione
di un amminoacido in una catena proteica che altera l’informazione
primitiva del DNA. La proteina risultante da questo cambiamento è
generalmente difettosa (es. anemia falciforme).
La mutazione si dice indotta quando è causata dall’azione di agenti
mutageni. Il tipo di mutazione indotta può spesso essere previsto in
quanto i vari mutageni hanno una certa specificità mutazionale. Non potrà
però essere determinato a priori dove queste mutazioni avverranno e
quindi quali conseguenze porteranno all’organismo.
Le mutazioni invece sono dette spontanee quando sono dovute a
errori nei processi molecolari che riguardano il materiale genetico (DNA
o RNA) e quindi non prodotte da alcun agente mutageno conosciuto. Le
mutazioni spontanee portano, in genere, a danni o alterazioni di una o
poche coppie di basi di una sequenza, per questo determinano di solito
mutazioni geniche. A differenza di quelle indotte, le mutazioni spontanee
sono molto rare; se ne verifica in media una ogni 106- 108 cellule.
Nonostante la loro bassa frequenza sono le mutazioni più importanti per
lo svolgersi del processo di evoluzione.
Queste mutazioni (come tutte le altre del resto) possono portare a
vantaggi o svantaggi all’organismo che le subisce. I batteri che
sopravvivono a trattamenti antibiotici o gli insetti resistenti ai
disinfestanti sono tutti esempi di organismi mutanti in cui la mutazione
spontanea li ha favoriti rispetto a quelli con fenotipo selvatico. In questo
caso bisogna comunque precisare che le mutazioni non sono state
originate dalla particolare condizione ambientale (presenza di antibiotici
o disinfestanti) ma erano già preesistenti nell’organismo.
I danni possono essere causati da:
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• Tautomeria - una base è modificata per lo spostamento di un atomo di
idrogeno
• Transizione - Scambio di una purina con un’altra purina, oppure di
una pirimidina con un’altra pirimidina.
• Transversione - Scambio di una purina con una pirimidina o viceversa.
• Deaminazione: reazione che trasforma una base azotata in una diversa;
ad esempio provoca la transizione C ¤ U (che può essere riparata).
Meccanismo della carcinogenesi
La divisione cellulare (proliferazione) è un processo fisiologico che ha
luogo in quasi tutti i tessuti e in innumerevoli circostanze. Normalmente
l’omeostasi, l’equilibrio tra proliferazione e morte cellulare programmata, di
solito per apoptosi, è mantenuta regolando strettamente entrambi i processi
per garantire l’integrità di organi e tessuti. Le mutazioni nel DNA che
conducono al cancro, portano alla distruzione di questi processi ordinati,
distruggendone i programmi regolatori (Dixon K, Kopras E, 2004).
Sono stati identificati parecchi geni che, attraverso un processo di
mutazione, possono causare il cancro; infatti, affiché delle cellule inizino
a dividersi in maniera incontrollata, devono essere danneggiati i geni che
ne regolano la crescita. Questi sono stati denominati oncogeni. I protooncogeni sono geni che promuovono la crescita cellulare e la mitosi, cioè
un processo di divisione cellulare; i geni soppressori del tumore
scoraggiano la crescita cellulare o impediscono la divisione cellulare per
consentire la riparazione del DNA. Tipicamente è necessaria una serie di
numerose mutazioni a questi geni prima che una cellula normale si
trasformi in una cellula cancerosa. I proto-oncogeni promuovono la
crescita cellulare in diversi modi. Essi non hanno la funzione di causare
tumori ma, al contrario, riescono a controllare la divisione cellulare e la
proliferazione delle cellule stesse. Quest’ultima è regolata in ogni tipo di
cellula da ormoni specifici “messaggeri chimici”, chiamati fattori di
crescita. Alcuni proto-oncogeni controllano la sensibilità agli ormoni
perché sono responsabili essi stessi del sistema di conversione dello
stimolo o dei recettori nelle cellule o nei tessuti. Tali recettori sono situati
sulla superficie della cellula e mettono in grado le cellule di percepire
correttamente lo stimolo.
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Mutazioni nei proto-oncogeni possono modificare la loro funzione,
aumentando la quantità o l’attività delle proteine prodotte. Quando
questo accade, essi diventano oncogeni e le cellule hanno una maggiore
probabilità di dividersi in maniera eccessiva e incontrollata. Il rischio di
cancro non può essere ridotto rimuovendo i proto-oncogeni dal genoma
in quanto essi sono fondamentali per la crescita, la riparazione e
l’omeostasi (equilibrio) dell’organismo, e diventano pericolosi solo
quando mutano (Knudson AG, 2001).
I geni soppressori del tumore codificano i messaggeri chimici e le
proteine anti proliferazione che fermano la mitosi e la crescita cellulare.
Di solito i soppressori del tumore sono fattori di trascrizione che sono
attivati dallo stress cellulare o dal danneggiamento del DNA. Spesso
danni al DNA causano, tra le altre cose, la presenza di materiale genetico
vagante e attivano così enzimi e reazioni chimiche che portano
all’attivazione dei geni soppressori del tumore. La funzione di tali geni è
di arrestare il ciclo della cellula in modo da effettuare la riparazione del
DNA, impedendo che le mutazioni siano passate alle cellule figlie.
Soppressori del tumore sono fra gli altri il gene p53, che è un fattore di
trascrizione attivato da molti stress cellulati tra cui danni da ipossia
(mancanza di ossigeno) e radiazione ultravioletta (Schottenfeld D, BeebeDimmer JL, 2005).
Tuttavia, una mutazione può danneggiare un gene soppressore del
tumore o la via che porta alla sua attivazione. L’inevitabile conseguenza è
che la riparazione del DNA è impedita o inibita: il danno al DNA si
accumula senza essere riparato portando inevitabilmente al cancro.
La carcinogenesi richiede più di una mutazione, in genere più
mutazioni a carico di certe classi di geni. La perdita del controllo della
proliferazione avrà luogo solo in seguito a mutazioni nei geni che
controllano la divisione cellulare, la morte cellulare, e i processi di
riparazione del DNA.
Le cellule che possono causare tumori maligni hanno varie proprietà
che le distinguono dalle cellule del tessuto sano:
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• Resistono all’apoptosi (suicidio programmato della cellula).
• Si riproducono, dividendosi, in maniera incontrollata (o non
muoiono) e solitamente si dividono con frequenza maggiore del
normale.
• Sono autosufficienti per quanto riguarda i fattori di crescita.
• Non rispondono agli antagonisti dei fattori di crescita e l’inibizione da
contatto è soppressa.
• Possono presentare una differenziazione cellulare alterata.
Le cellule più aggressive possono presentare alcune caratteristiche
aggiuntive che le rendono particolarmente maligne:
• Possono invadere i tessuti vicini, solitamente possono secernere
metalloproteinasi che digeriscono la matrice extracellulare.
• Possono spostarsi a grande distanza e formare metastasi.
• Possono secernere fattori chimici che stimolano la formazione di nuovi
vasi sanguigni (angiogenesi).
Quasi tutti i tumori si sviluppano a partire da una sola cellula, ma
solitamente la cellula iniziale non acquisisce tutte le caratteristiche in una
volta sola. Con ogni mutazione tumorale la cellula acquisisce un leggero
vantaggio evolutivo sulle cellule vicine, entrando in un processo detto di
evoluzione clonale. Ne consegue che, cellule discendenti dalla cellula
mutata, per effetto di ulteriori mutazioni, possano trarre un vantaggio
evolutivo ancora maggiore. Le cellule che presentano solo alcune delle
mutazioni necessarie alla formazione di un tumore maligno sono ritenute
origine dei tumori benigni; tuttavia, con l’accumularsi delle mutazioni, le
cellule mutate formeranno un tumore maligno.
In generale, sono richieste mutazioni in entrambi i tipi di gene perché
si formi il cancro (Sarasin A., 2003). Una mutazione limitata ad un
oncogeno verrebbe eliminata dai normali processi di controllo della
mitosi e dai geni soppressori dei tumori. Una mutazione di un solo gene
soppressore del tumore, sarebbe anch’essa insufficiente per causare il
cancro per la presenza di numerose copie di “backup” dei geni che
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duplicano la sua funzione. È solo quando un numero sufficiente di protooncogeni è mutato in oncogeni e sufficienti geni soppressori del tumore
sono stati disattivati, che i segnali di crescita cellulare sopravvanzano i
segnali che la regolano e la crescita cellulare aumenta rapidamente
completamente fuori controllo. Il “danno accumulato” è teorizzato da
molti ricercatori per spiegare la crescita esponenziale dei tumori nella
tarda età. Nei giovani le difese contro il danno al DNA sono molto forti,
ma, con la mutazione dei geni soppressori del tumore, la velocità con cui
si sommano i danni aumenta in modo esponenziale in una sorte di
“spirale mortale”. Questa teoria è ulteriormente supportata dal fatto che
la probabilità di contrarre un cancro aumenta in modo esponenziale e
non lineare con l’età. La quantità del danno in una cellula cancerosa è
immensa, quasi tutti i cromosomi presentano un qualche tipo di
mutazione comprese multiple copie del cromosoma trisomia, o completa
mancanza di un cromosoma monosomia. Di solito gli oncogeni sono geni
dominanti, poiché contengono mutazioni che portano funzioni nuove o
anormali (mutazione genetica) mentre soppressori del tumore mutati
sono geni di tipo recessivo perché contengono mutazioni che riducono o
annullano la funzionalità. Ogni cellula ha due copie dello stesso gene,
una proveniente da ogni genitore, ma nella maggior parte dei casi una
mutazione con aumento della funzionalità da parte di un gene protooncogeno è sufficiente a trasformarlo in un oncogeno. Di solito invece
una mutazione con perdita di funzionalità deve accadere in entrambe le
copie di un gene soppressore del tumore per rendere quel gene
completamente inefficace (Sarasin A., 2003).
Lo sviluppo di un tumore è spesso iniziato da un piccolo
cambiamento nel DNA (mutazione puntiforme), che porta ad
un’instabilità genetica della cellula. L’instabilità può aumentare fino alla
perdita di interi cromosomi o alla formazione di copie multiple. Anche lo
schema della metilazione del DNA della cellula cambia, attivando e
disattivando geni in modo incontrollato. Le cellule che proliferano
rapidamente, come le cellule epiteliali, hanno un rischio maggiore di
trasformarsi in cellule tumorali, al contrario delle cellule che si dividono
meno, per esempio i neuroni.
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In molti casi, la ricerca non è ancora riuscita a individuare le cause che
spingono improvvisamente le cellule ad iniziare a riprodursi in modo
incontrollato dando origine al tumore.
Le cellule tumorali sono, come già detto, geneticamente instabili e
quindi molto plastiche, al punto che piccole mutazioni nel DNA portano
alla comparsa e alla proliferazione di sempre nuove varianti cellulari. Ma
i tumori hanno anche un’altra caratteristica che permette loro di
proliferare così velocemente: dipendono strettamente dalla formazione di
nuovi vasi sanguigni e nuovi capillari costruiti ex –novo, utilizzando le
riserve del malato. Attraverso la rete di capillari, i tumori si riforniscono
dei nutrienti e dei fattori necessari alla loro crescita dirompente.
L’americano Judah Folkman ha dato nei primi giorni di maggio del ‘98 la
notizia della scoperta di alcune molecole in grado di controllare questa
abnorme vascolarizzazione. Sui topi di laboratorio, ha dimostrato di
poter ridurre il tumore, impedendo la produzione di nuovi vasi capillari
e portando cosi la neoplasia ad uno stato di quiescenza (Claesson-Welsh
L., et al. 1998; Folkman J., 1998).
La rapida e incontrollata proliferazione può portare a tumori benigni
o a tumori maligni (cancri). I tumori benigni non si estendono ad altre
parti del corpo, non invadono altri tessuti e raramente costituiscono un
pericolo per la vita dell’individuo. I tumori maligni possono invadere altri
organi, estendersi in organi distanti (metastasi) e mettere in pericolo la
vita.
Fino al 1940 circa, era largamente diffusa l’opinione che il cancro
fosse una conseguenza inevitabile dell’invecchiamento, in quanto per la
divisione è necessaria la duplicazione del DNA la quale, anche se con
frequenza molto bassa, causa il verificarsi di mutazioni che sono appunto
alla base dell’insorgere del tumore. Ma questo meccanismo non sembra
essere applicabile alla maggior parte dei tumori e, soprattutto, studi
epidemiologici evidenziano che sono i fattori ambientali ad avere una
grossa parte nella determinazione della probabilità che il cancro si
sviluppi. Non sempre è facile determinare i fattori che provocano il
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cancro presenti nell’ambiente, nella dieta o nelle abitudini individuali. In
ogni caso, è comunque evidente che ci sono alcuni fattori di rischio quali
le radiazioni, l’abuso di bevande alcoliche, l’esposizione a sostanze
chimiche mutagene, il fumo di sigaretta e una dieta alimentare scorretta
(Hiatt H.H., et al., 1977). In termini più generali, agenti chimici detti
mutageni e radicali liberi possono causare mutazioni. Altre mutazioni
possono essere causate da infiammazioni croniche.
Anche le piante possono divenire soggetti portatori di azione
cancerogena perché accumulano nelle loro foglie grandi quantità di
nitrati (concimi) che, in seguito ad una serie di trasformazioni chimiche
nel nostro stomaco, modificano l’azione degli oncogeni.
I virus rappresentano un’altra importante causa di alcuni tipi di
cancro. Essi probabilmente agiscono in combinazione con altri agenti
genetici nella trasformazione maligna di una cellula; alcuni tipi di virus
possono causare mutazioni (Yunis J.J., 1983), essi giocano un ruolo
importante in circa il 15% di tutti i tumori maligni. Ci sono
essenzialmente due categorie di virus tumorali: “a trasformazione acuta”
e a “trasformazione lenta”. Nei primi le particelle virali portano un gene
che codifica un oncogeno iperattivo detto “oncogeno virale” (v-onc) e la
cellula infettata viene trasformata non appena si esprime il gene v-onc.
Nei virus a trasformazione lenta, invece, il genoma del virus è inserito
vicino ad un proto-oncogeno nel genoma ospite. Il promotore virale o
altri elementi di regolazione della trascrizione causano sovraespressione
di quel proto-oncogeno che a sua volta induce una prolificazione
cellulare incontrollata. I virus a trasformazione lenta hanno una latenza
di tumore molto lunga, confrontati con quelli a trasformazione acuta, che
portano invece direttamente l’oncogeno virale. Questo perché
l’inserzione virale nel genoma vicino ad un proto-oncogeno è bassa. Virus
tumorali, come alcuni retrovirus, herpesvirus e papillomavirus, di solito
trasportano un oncogeno, oppure un gene inibisce la normale
soppressione dei tumori nel loro genoma.
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I test di mutagenesi
Sono analisi genetiche utilizzate per verificare la capacità di indurre
mutazioni genetiche da parte di agenti fisici o chimici; sono dunque usati
per indicare la genotossicità di un agente. I test possono essere in vitro:
compiuti su cellule, tessuti o test in vivo: compiuti su interi organismi.
La capacità di provocare mutazioni è spesso associata alla capacità di
provocare cancro: per questo molti test hanno lo scopo di valutare la
cancerogenicità di un agente valutandone la mutagenicità.
• Test in vitro
Le colture batteriche più utilizzate sono di organismi modello come
Escherichia coli e Saccharomyces cerevisiae, mentre oggi è limitato l’impiego
di funghi. I test con batteri sono molto diffusi: i batteri, infatti, si
replicano molto rapidamente e hanno genomi e proprietà biologiche
molto conosciuti: i test sono così molto veloci ed economici. Il principale
svantaggio risiede nelle differenze notevoli tra batteri e uomo. Per questo
motivo i batteri sono spesso modificati geneticamente, per renderli più
simili possibile a cellule umane. Tra le principali modificazioni ci sono:
• l’inattivazione di geni coinvolti nei sistemi di riparazione in modo da
aumentare l’effetto dell’eventuale mutageno (aumento del tasso di
mutazione).
• l’inserimento nelle cellule di plasmidi con geni relativi a sistemi di
riparazione error prone (soggetti ad errore), che riparano alcune
mutazioni introducendone però di altre.
Data la natura del materiale genetico dei microrganismi, i test in
questione sono solitamente usati per saggiare l’induzione di mutazioni
puntiformi. Nelle varie procedure, il test serve a verificare l’induzione
della mutazione nell’organismo verificandone una variazione nel
fenotipo. Due sono i sistemi utilizzabili:
• il sistema della mutazione in avanti - in cui sono usati ceppi con fenotipo
selvatico per un gene marcatore; questi vengono esposti all’agente e
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dopo incubazione si isolano e contano le colonie con fenotipo mutato.
Il numero di colonie mutate è direttamente proporzionale alla
mutagenicità dell’agente.
• il sistema della reversione - il ceppo di partenza presenta già una
mutazione; è noto sia il gene mutato che il tipo di mutazione presente.
Si tratta il ceppo con il presunto mutageno e si verifica la presenza di
colonie revertenti; anche qui, più esse sono, più l’agente è mutageno.
Il principale vantaggio del secondo sistema è la conoscenza della
mutazione inizialmente presente nel ceppo. Con il sistema della
reversione quindi si può sapere in modo diretto che tipo di mutazione è
stata indotta e caratterizzare la modalità d’azione del mutageno.
Le cellule di mammifero più usate sono cellule uovo di hamster cinese
o linfociti umani. Quando le cellule derivano da tessuti, queste possono
essere divise (per poi essere incubate in terreno di coltura liquido) con
metodi meccanici o enzimatici. Possono essere utilizzate cellule
direttamente prelevate da tessuto vivo e formare così colture cellulari
primarie, caratterizzate però da un numero limitato di divisioni cellulari
prima della degenerazione; oppure linee cellulari ingegnerizzate in modo
da poter compiere un numero elevato di divisioni (colture cellulari
immortalizzate). I vantaggi sono l’avere a disposizione sistemi biologici
uguali (o molto simili) a quelli umani, quindi simulare in modo molto
vicino alla realtà l’azione che avrebbero gli agenti sull’uomo. Le
mutazioni che si mira a identificare sono prevalentemente su larga scala
(cromosomiche e genomiche).
• Test in vivo
I test in vivo permettono di usare sistemi più complessi e di tener
conto di fattori influenti sull’attività mutagenica di un composto che non
sono contemplati in semplici colture cellulari. Sono solitamente usati
ceppi di topo, di ratto o criceto, spesso anche ingegnerizzati per
ottimizzare i processi. Se si vuole analizzare la presenza di mutazioni
somatiche, sono di solito prelevati frammenti di piccoli organi e
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disgregati nelle singole cellule che li compongono tramite trattamento
con tripsina o collagenasi. Su queste cellule possono essere poi compiuti
test analoghi a quelli descritti in precedenza, come il test del micronucleo
o l’analisi cariotipica in metafase. I test in vivo sono poi utili nello
studiare le mutazioni indotte nelle cellule germinali; le loro varie fasi di
sviluppo sono infatti difficili da ottenere in vitro (Migliore L., 2004).
Test di analisi di danno al DNA
Questi test servono per scoprire la presenza di danni al singolo o al
doppio filamento di DNA (rispettivamente single strand break o SSB e
double strand break o DBS). Quelli principali sono il test della cometa e il
test della sintesi di DNA non programmato. I test in questione sono
spesso di rapida esecuzione, ma non danno altra informazione se non
l’eventuale presenza del danno, senza specificarne la natura; sono per
questo poco usati o affiancati da test più specifici.
Il test della cometa, noto anche come elettroforesi su singola
cellula, è un test di mutagenesi per l’identificazione di danni al DNA in
una cellula (solitamente di mammifero).
La finalità del test è quella di verificare la capacità di una sostanza
chimica, o di un agente fisico, di generare danni strutturali nei cromosomi,
con conseguenti mutazioni cromosomiche. I danni possono essere rotture
del singolo o del doppio filamento di DNA: in entrambi i casi, a seconda
delle condizioni sperimentali, possono formarsi frammenti cromosomici.
Le cellule da testare vengono disposte su un vetrino insieme a diversi
strati sovrapposti di agarosio a diverse concentrazioni e successivamente
sono trattate con detergenti o altri agenti in grado di lisare la membrana
cellulare; il vetrino sarà mantenuto tramite apposite soluzioni tampone a
pH basico o neutro a seconda del tipo di danno che si vuole visualizzare:
a pH neutro sono identificabili le DBS; a pH alcalino, le SSB. Il vetrino
con le cellule lisate viene coperto con un vetrino coprioggetti e posto in
una vasca per elettroforesi per 20 minuti a 25 V. Al termine del processo
il vetrino è lavato e vi è aggiunta una sostanza fluorescente in grado di
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legarsi al DNA (di solito bromuro di etidio), in modo da rendere visibile
il nucleo al microscopio a fluorescenza. Se un nucleo non presenta danni
apparirà al microscopio come una struttura rotonda e omogenea; in
presenza di danni, invece, i frammenti di DNA migreranno verso l’anodo
formando in questa direzione una struttura allungata e disomogenea,
come la coda di una cometa (da cui il nome al test).
Le cellule utilizzate nel test possono provenire da colture cellulari
immortalizzate (test in vitro); in alternativa si possono prelevare piccole
porzioni di organo, solitamente di piccolo roditore, da cui ottenere
cellule separate per disgregazione meccanica o enzimatica (test in vivo).
Il test della cometa è in grado di stabilire se un agente induce la
formazione di danni al DNA, ma non permette di determinare l’entità del
danno o la porzione di genoma che lo ha subìto. Per questo, per avere dei
risultati sperimentali più specifici, deve essere accompagnato da altri test
di mutagenesi come il test dei micronuclei o il test della condensazione
prematura dei cromosomi (PCC).
II. 2 RADIAZIONI IONIZZANTI
Tra i tipi di inquinamento a cui l’uomo può essere sottoposto, quello
dovuto a radiazioni ionizzanti è sicuramente il più subdolo, in quanto
non abbiamo organi sensoriali che ci allertino della sua presenza. Al
contrario, il lavoratore dell’industria chimica, entrando in locali
contaminati da sostanze inalabili, ha reazioni dell’apparato respiratorio e
delle mucose in generale, che lo avvertono in tempo reale. Il lavoratore
dell’industria nucleare e delle attività ad essa collegate, se non fornito di
particolare strumentazione (contatori geiger), atta a rivelare la presenza
di sostanze radioattive (radionuclidi), non può sapere se è in presenza di
una sorgente contaminante in tempo reale.
Le radiazioni ionizzanti sono quelle radiazioni dotate di sufficiente
energia da poter ionizzare gli atomi (o le molecole) con i quali vengono
a contatto.
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Da sempre l’uomo è soggetto all’azione di radiazioni ionizzanti
naturali, alle quali si da il nome di fondo radioattivo naturale (o più
semplicemente fondo naturale). Il fondo naturale è dovuto sia alla
radiazione terrestre (radiazione prodotta da nuclidi primordiali o da
nuclidi cosmogenici) che da quella extraterrestre (la radiazione cosmica).
Per la loro presenza, l’uomo riceve mediamente una dose di 2.4 mSv/a,
valore che però varia moltissimo da luogo a luogo. Nel nostro Paese, ad
esempio, la dose media valutata per la popolazione è di 3.4 mSv/a.
Questo valore deve costituire il riferimento per dare eventuali valutazioni
di rischio radioprotezionistico. La caratteristica di una radiazione di poter
ionizzare un atomo, o di penetrare più o meno in profondità all’interno
della materia, dipende, oltre che dalla sua energia, anche dal tipo di
radiazione e dal materiale con il quale avviene l’interazione. Le radiazioni
ionizzanti si dividono in due categorie principali: quelle che producono
ioni in modo diretto (le particelle cariche α, β- e β+) e quelle che
producono ioni in modo indiretto (neutroni, raggi γ e raggi X).
I diversi tipi di radiazione elettromagnetica sono: raggi alfa (basso
potere di penetrazione nella materia), radiazione beta e radiazione
gamma (alto potere di penetrazione).
Convenzionalmente, si considerano ionizzanti le radiazioni con
frequenza maggiore di 0,75 x 10 elevato alla 15 Hertz. Le radiazioni
ionizzanti possono essere prodotte con vari meccanismi. I più comuni
sono: decadimento radioattivo, fissione nucleare, fusione nucleare,
emissione da corpi estremamente caldi (radiazione di corpo nero) o da
cariche accelerate (bremsstrahlung, o radiazione di sincrotrone).
Per poter ionizzare la materia, la radiazione deve possedere un’energia
tale da poter interagire con gli elettroni degli atomi con cui viene a
contatto. Le particelle cariche possono interagire fortemente con la
materia, quindi elettroni, positroni e particelle alfa, possono ionizzare la
materia direttamente. Queste particelle possono derivare dai decadimenti
nucleari, che vengono chiamati decadimento alfa per le particelle alfa e
beta per gli elettroni e i positroni. In questi casi il potere di penetrazione
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di queste radiazioni è limitato, in quanto le particelle alfa (anche se molto
ionizzanti) non possono superare strati di materia superiori ad un foglio
di carta, mentre le particelle beta possono essere schermate da un sottile
strato di alluminio. Anche i fotoni e i neutroni d’altra parte, pur non
essendo carichi, se dotati di sufficiente energia possono ionizzare la
materia (fotoni con frequenza pari o superiore ai raggi ultravioletti sono
ritenuti ionizzanti per l’uomo). In questo caso, queste particelle sono
meno ionizzanti delle precedenti, ma possono penetrare molto a fondo
nella materia e, per quelli più energetici, potrebbe non bastare un grosso
muro di cemento armato per schermarle (vedi figura sotto).
II.2.1 Effetti biologici
Nei casi in cui la radiazione ionizzante incida su tessuti biologici, può
causare danni di tipo sanitario. Come abbiamo visto, la radiazione alfa
presenta una basso potere di penetrazione, quindi viene facilmente
fermata dallo strato superficiale della pelle costituita da cellule morte, per
cui non è pericolosa per l’uomo nei casi di irradiazione esterna. Diventa
invece pericolosa nelle situazioni in cui la sorgente radioattiva viene
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inalata o ingerita (irradiazione interna), perché in questo caso può ledere
direttamente tessuti radiosensibili (tipico caso è quello del radon, in cui
appunto l’isotopo radioattivo viene inspirato e quindi può decadere
all’interno del corpo umano emettendo radiazione alfa). La radiazione
gamma (fotoni) invece, avendo un potere di penetrazione molto elevato,
può risultare pericolosa per gli esseri viventi anche in situazioni di
irradiazione esterna. La quantità di radiazione assorbita da un corpo
viene chiamata dose assorbita e si misura in gray. Altre grandezze
importanti da considerare sono la dose equivalente e la dose efficace. I
danni che una radiazione ionizzante può provocare sui tessuti biologici
sono di vario tipo e vengono suddivisi in:
• danni somatici deterministici
• danni somatici stocastici
• danni genetici stocastici
Gli effetti dipendono dalla dose di radiazioni e più precisamente la
dose efficace rappresenta la somma ponderata delle dosi equivalenti ai
vari organi e tessuti; i pesi wT che si usano in questo contesto tengono
conto della diversa radiosensibilità degli organi e dei tessuti irraggiati. È
quindi possibile scrivere la relazione matematica che la lega alla dose
equivalente:
Anche la dose efficace, come la dose equivalente si misura in un
Sievert.
È importante precisare che l’irraggiamento (e quindi il conseguente
rilascio di dose) avviene tramite due canali: irraggiamento esterno,
dovuto all’esposizione del corpo ai radionuclidi presenti nell’ambiente, e
irraggiamento interno, causato dall’ingestione o dall’inalazione di
sostanze contenenti isotopi radioattivi. Tipico caso risulta essere
l’inalazione di Radon. Nel caso dell’inalazione è importante considerare
anche tutte le sostanze volatili e i radionuclidi che si legano a particelle
in grado di restare in sospensione nell’aria, ed eventualmente anche i figli
di ogni sostanza.
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NORMATIVA
D.lgs n.230 del 17.3.1995 Attuazione direttive EURATOM in materia di radiazioni ionizzanti
D.P.R. n.185 del 13.2.1964 e decreti applicativi ancora in vigore Sicurezza degli impianti e protezione sanitaria dei lavoratori e delle
popolazioni contro i pericoli delle radiazioni ionizzanti derivanti dall’impiego
pacifico dell’energia nucleare
D.M. n.449 del 13.7.1990
Regolamento concernente le modalità di tenuta della documentazione relativa
alla sorveglianza fisica e medica della protezione dalle radiazioni ionizzanti
Legge n.864 del 19.10.1970
Ratifica convenzione OIL n.115 sulla protezione dei lavoratori contro le
radiazioni ionizzanti
D.lgs n.626 del 19.9.1994
Attuazione direttive CEE riguardanti il miglioramento della sicurezza e della
salute dei lavoratori sul luogo di lavoro
D.lgs n.475 del 4.12.1992
Attuazione direttiva comunitaria relativa a dispositivi di protezione
individuale
II. 3 INQUINANTI CHIMICI
Quando si parla di sostanze inquinanti, solitamente ci si riferisce a
prodotti della lavorazione industriale (o dell’agricoltura industriale),
tuttavia è bene ricordare che anche sostanze apparentemente innocue
possono compromettere seriamente un ecosistema. Inoltre gli inquinanti
possono essere sostanze presenti in natura e non frutto dell’azione umana.
Una forte presa di coscienza sui problemi causati dall’inquinamento
industriale (e in particolare dai cancerogeni) è avvenuta nel mondo
occidentale a partire dagli anni settanta. Già negli anni precedenti tuttavia
si erano manifestati i pericoli per la salute legati allo sviluppo industriale.
Sulla base di quanto esposto nell’introduzione, negli ultimi anni è
emerso il ruolo dei fattori ambientali nella patogenesi di diverse malattie
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degenerative a carico del sistema nervoso centrale (Betarbet R, et al.,
2002; Campbell A., 2004).
A tal riguardo, in ambito tossicologico, la valutazione del rischio e dei
suoi fattori rappresentano un nuovo campo di studio degli ultimi
decenni, tuttavia le strategie di studio sono piuttosto complesse dal
momento che nella realtà, sia a livello ambientale che occupazionale,
raramente un individuo è esposto ad un unico agente ma bensì ad una
miscela di composti che può variare nella composizione e nella
concentrazione in una dinamica temporale piuttosto ampia. Inoltre, gli
effetti indotti sulla salute umana in seguito ad esposizione sono
manifestazione di una realtà individuale più complessa rappresentata da
un individuale assetto genetico, stato di salute pregresso o corrente, stato
socio-economico, fisiologico, stili di vita (fumo, assunzione di alcol),
questi fattori possono infatti interferire aumentando o riducendo il
rischio.
Questo contesto può a sua volta evolvere durante la vita
dell’individuo, per cui si costituisce una complessa rete di interazioni
dinamiche chimiche e non solo che ha come ultima espressione la
manifestazione patologica sulla salute. Tutto ciò pone la necessità di una
criticità sui modelli di studio e sui risultati ottenuti perché nella maggior
parte dei casi loro malgrado non sono in grado di contemplare tutto lo
spettro di possibili fattori che contribuiscono al rischio (Cory-Slechta
D.A., 2005).
Infatti, risultati contrastanti possono scaturire da differenze
metodologiche tra i vari studi, è perciò necessario considerare i diversi
apporti nel complesso processo di definizione di potenziale neurotossico
di agenti naturali o di sintesi. Perfino il concetto di esposizione e dose
considerati negli studi di valutazione del rischio possono apportare
informazioni a volte ingannevoli. Infatti il concetto di dose di esposizione
ad esempio è strettamente correlata al tempo, alla concentrazione
assorbita dall’organismo, alla capacità della sostanza di raggiungere il
sistema nervoso centrale, la via si esposizione, nonché la potenzialità dei
composti di dare luogo ad effetti additivi, sinergici, o antagonisti (CabanHolt A, et al., 2005).
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II.3.1 Sostanze chimiche industriali
I composti a cui attualmente la popolazione è esposta sono molteplici
ciascuna con delle proprie peculiarità strutturali. Tra i primi composti ad
essere stati studiati come sostanze neurotossiche troviamo:
• MPTP (1-methyl-4-phenyl1,2,3,6-tetrahydropyridina)
Questo composto, nel 1980, è stato oggetto dei primi studi riportati
in letteratura in riferimento a manifestazioni cliniche, virtualmente simili
al morbo di Parkinson in un gruppo di tossicodipendenti che avevano
fatto uso di eroina di sintesi contaminata da MPTP (1-metil-4-fenil
1,2,3,6-tetraidropiridina) (Langston W, et al., 1999).
L’MPTP non tossico di per se’, lo diviene quando viene metabolizzato,
negli astrociti, dalla monoaminossidasi nella forma attiva dello ione 1metil-4-fenil-2,3-diipiridinio (MPP+). Questa neurotossina sostituisce
nelle vescicole intracellulari la dopamina dove avviene una autoossidazione causando un danno cellulare (Lotharius J, O’Malley KL.,
2000).
MPP+ è trasportato selettivamente nei neuroni dopaminergici
attraverso il sistema di trasporto della dopamina, viene accumulato nei
mitocondri dove inibisce il complesso I e la conseguente produzione di
ATP, che a sua volta attiva il recettore N-metil-D-aspartato (NMDA)
causando una sindrome simile alla forma idiopatica di Parkinson
(Greenamyre JT, et al., 2001; Schultz J. B., et al., 1997).
• Pesticidi
I pesticidi rappresentano un insieme di sostanze comunemente
utilizzate per controllare il proliferare di insetti, semi e funghi, e sono
classificati sulla base dell’organismo target o sul loro utilizzo come
insetticidi, erbicidi, fungicidi o fumiganti. Gli insetticidi, a loro volta,
vengono subclassificati sulla base della tipologia chimica come
organofosfati, organoclorinati, carbamati e piretroidi. L’esposizione può
avvenire a vari livelli occupazionali, contaminazione di cibi e di acque,
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perciò la loro tossicità viene espletata su un ampio numero di individui e
in diverse fasce di età. È frequente la possibilità che l’esposizione avvenga
con miscele di composti strutturalmente simili, per cui è difficile
ricondurre gli effetti ad un unico agente.
I bambini, in questo contesto, rappresentano gli individui più
facilmente esposti, perfino a livello fetale, nel caso di lavoratrici esposte
durante la gravidanza, con l’assunzione di cibi contaminati e crescita in
ambienti contaminati. Inoltre, i bambini presentano la peculiarità,
rispetto ad un individuo adulto, di poter assorbire dosi maggiori di
composto in rapporto al loro peso corporeo, e di essere più suscettibili ad
effetti tossici per il loro quadro fisiologico immaturo che impedisce un
corretto metabolismo e un’efficiente escrezione, favorendo l’accumulo.
Studi di meta analisi hanno confermato che esposizioni cumulative a
pesticidi per assunzione di cibi contaminati o per stili di vita o lavoro
aumenta il rischio di sviluppo del morbo di Parkinson (Priyadarshi A, et
al., 2001; Liou HH, et al., 1997; Liu B, et al., 2003).
L’azione tossica dei pesticidi viene imputata a diverse modalità di
azione a seconda del tipo di molecola:
1. modulazione di enzimi ad esempio citocromo P450, glutatione
transferasi (Hodgson E, Levi PE. 1996; Di Ilio C, et al., 1996);
2. alterazione della attività mitocondriale con inibizione del complesso I
(Gassner B, et al., 1997; Greenmyre JT, et al., 1999);
3. molteplicità di meccanismi sinergici (Thiruchelvam M, et al., 2000).
Studi in vitro sulla tossicità di tre pesticidi: maneb, rotenone e
paraquat hanno evidenziato la loro capacità di interagire con il complesso
I mitocondriale riducendone l’attività con conseguente morte dei neuroni
dopaminergici (Dawson T M, Dawson VL. 2003). Una possibile
interazione fra fattori di rischio ambientali e polimorfismi genetici in geni
mitocondriali e geni coinvolti nella detossificazione dei metaboliti è stata
intensamente indagata, ma senza risultati soddisfacenti (Tan EK, et al.,
2000).
Negli ultimi anni l’attenzione della ricerca si è ampiamente orientata a
definire la neurotossicità dei pesticidi come riportato in tabella 3.3.1.1.
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EFFETTO DELL’INQUINAMENTO AMBIENTALE
Tab. II.3.1.1. Studi di esposizione cronica ai pesticidi e neurotossicità: misurazione
dell’esposizione.
Paraquat
Questo pesticida (1,1´-dimethyl-4,4´-bipyridinium) sembra correlato
all’induzione del MP, dal momento che ha una struttura chimica simile al
MPP, un attivo metabolico del MPTP (vedi figura 3.3.1.1).
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Figura II.3.1.1. Da Dinis-Oliveira R.J., et al., 2006.
Studi epidemiologici e in vivo hanno evidenziato che esisterebbe una
relazione dose-risposta positiva tra il tempo di esposizione al paraquat e il
rischio di contrarre il morbo di Parkinson, dovuta ad una perdita di neuroni
(Liou HH, et al. 1997; Liu B, et al., 2003; McCormack et al., 2002).
Il pesticida agisce sulle cellule a più livelli (Dinis-Oliveira R.J., et al.,
2006):
– stimola un processo di eccitotossicità che porta a morte i neuroni
dopaminergici mediata da specie reattive dell’azoto (sintetasi ossido
nitrica, ossido nitrico, anione perossidonitrico);
– il paraquat nei mitocondri viene trasformato nel suo radicale libero dal
complesso I, ciò determina un’elevata produzione di radicale
superossido che inibisce l’attività del complesso I e causa una
disfunzione del mitocondrio;
– in vitro incrementa l’aggregazione in fibrille della proteina alfasinucleina e formazione dei corpi di Lewy, con un’evidente relazione di
dose-dipendenza, probabilmente motivata dal legame preferenziale del
paraquat per una forma intermedia della proteina (Uversky VN, Li J,
Fink AL. 2001; Uversky VN, et al., 2002), è quindi possibile che, una
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regolazione positiva della alfa-sinucleina sia manifestazione di una
tossicità e, che la diretta interazione della proteina con agenti
ambientali siano i potenziali meccanismi che portano ad una forma
patologica della proteina in disordini neurodegenerativi (Manning-Bog
AB, et al., 2002).
Roteneone
L’insetticida roteneone induce danni clinici nei ratti simili a quelli dati
dal morbo di Parkinson, con selettiva degenerazione del sistema
dopaminergico e disordini motori (Sherer TB, et al., 2003). Sono stati
anche rilevati effetti sinergici tra il roteneone e la molecola
proinfiammatoria di origine batterica lipolisaccaride, suggerendo che
fattori proinfiammatori possono cooperare per lo sviluppo della malattia
(Gao HM, et al., 2003). È stato ben caratterizzato per la sua elevata
affinità come specifico inibitore del complesso I dei mitocondri .
È una molecola molto idrofobia, per cui non necessita di alcuno dei
trasportatori della dopamina (DAT) per penetrare all’interno della cellula
nervosa. In studi effettuati su topi, concentrazioni di roteneone di 20-30
nmol/L nel cervello di ratti comportano l’inibizione dell’attività del
complesso I e si manifestano lesioni delle cellule nigrostriatali
dopaminergiche. Le lesioni sono caratterizzate da inclusioni di alfanucleina molto simili ai corpi di Lewy riscontrati nelle cellule umane
(Betarbet R, et al., 2000).
La microglia è stata implicata nella neurotossicità del roteneone, dal
momento che le cellule possono rilasciare sostanze ossigeno reattive,
induttori a loro volta di infiammazione (Liu B, Hong J-S. 2003).
Ditiocarbammati
Si tratta di una categoria di composti con la presenza di manganese
nella loro struttura, a cui è da imputare la tossicità. E’ ben noto infatti,
che il manganese induce effetti sull’organismo simili al morbo di
Parkinson.
Gli studi condotti da Cory-Slechta in un modello animale sugli effetti
tossici del fungicida ditiocarbamato maneb hanno evidenziato che la
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singola esposizione non dà nessun segno di alterazione comportamentale
o fisiologica, mentre l’esposizione ad una miscela di paraquat e maneb
(usata in agricoltura) determina anomalie quali gravi difficoltà motorie,
disturbi comportamentali, tremori e brividi sintomi sovrapponibili
clinicamente al Parkinson (Cory-Slechta D.A., et al., 2005).
La manifestazione clinica è da imputare ad un danneggiamento del
sistema dopaminergico nigrostriato che comporterebbe una consistente
riduzione dell’enzima, tiroxina idrossilasi. Quando questa molecola
scarseggia la dopamina, il mediatore cerebrale del movimento, comincia
a diventare insufficiente e le cellule nervose muoiono.
Durante la sperimentazione, nei topi sottoposti all’iniezione dei due
pesticidi si è osservata una riduzione di dopamina del 15% ed una
presenza quattro volte più del normale di astrociti reattivi (cellule
nervose infiammate).
La spiegazione dell’effetto sinergico delle due sostanze trova la sua
giustificazione nel fatto che il paraquat da solo non arriverebbe al cervello
in concentrazioni rilevanti, mentre a facilitare tale passaggio sembra
provvedere il maneb che ne aumenterebbe la possibilità di trasporto.
Organofosfati
Gli organofosfati rappresentano un importante gruppo, insieme ai
carbamati, di sostanze neurotossiche. Il loro effetto viene esplicitato su
insetti ed esseri umani inibendo la acetilcolinesterasi, un enzima
coinvolto nel taglio del neurotrasmettitore acetilcolina. L’inibizione di
questo enzima causa un accumulo del trasmettitore implicando
disfunzioni al sistema nervoso. Gli effetti indotti dall’azione di questi
pesticidi causa iperattività, paralisi neuromuscolare, difficoltà
respiratoria, problemi visivi fino al coma e alla morte. Un’ampia
letteratura ha dimostrato come queste sostanze intervengano anche in
alterazioni comportamentali (Karczmar, A. G., 1984; Clark, G., 1971).
L’inibizione della acetilcolinesterasi sia da parte degli insetticidi
organofosfati che n-metilcabamati, è un processo reversibile anche se nel
caso dei secondi avviene in modo più rapido rispetto agli organofosfati,
questo determina un maggiore effetto tossico a causa del processo più
lento (Murphy, S., 1986).
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EFFETTO DELL’INQUINAMENTO AMBIENTALE
Attualmente gli studi si stanno orientando a definire la percentuale di
rischio di contrarre malattie neurodegenerative in seguito all’esposizione
a organofosfati, attraverso l’assunzione di cibi contaminati come frutta e
verdure non correttamente lavate, e come questo possa influire su una
predisposizione genetica alla malattia (Thiruchelvam M, et al., 2000).
Tabella II.3.1.2: elenco di insetticidi organofosforici e carbamati (adattata da Morgan
D.P., 1989).
Altamente tossici a
Moderatamente tossici a
Insetticiti organofosfati
Tetraethyl pyrophosphate (TEPP)
Dimefox (Hanane, Pestox XIV)
Phorate ( Thimet, Rampart, AASTAR)
Disulfoton b (Disyston)
Fensulfothion (Dasanit)
Demeton b (Systox)
Terbufos (Counter, Contraven)
Mevinphos (Phosdrin, Duraphos)
Ethyl parathion (E605, Parathion, Thiophos)
Azinphos-methyl (Guthion, Gusathion)
Fosthietan (Nem-A-Tak)
Chlormephos (Dotan)
Sulfotep (Thiofepp, Bladafum, Dithione)
Carbophenothion (Trithion)
Chlorthiophos (Celathion)
Fonofos (Dyfonate, N-2790)
Prothoate b (Fac)
Fenamiphos (Nemacur)
Phosfolan b (Cyolane, Cylan)
Methyl parathion (E 601, Penncap-M)
Schradan (OMPA)
Mephosfolan b (Cytrolane)
Chlorfenviphos (Apacholr, Birlane)
Coumaphos (Co-Ral, Asuntol)
Phosphamidon (Dimecron)
Methamidophos (Monitor)
Dicrotophos (Bidrìn)
Monocrotophos (Azodrin)
Methidathion (Supracide, Ultracide)
EPN
Isofenphos (Amaze, Oftanol)
Endothion
Bomyl (Swat)
Famphur (Famfos, Bo-Ana, Bash)
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Bromophos-ethyl (Nexagan)
Leptophos (Phosvel)
Dichlorvos (DDVP, Vapona)
Ethoprop (Mocap)
Demeton-S-methyl b (Duratox, Metasystox (i) )
Triazophos (Hostathion)
Oxydemeton-methyl b (Metasystox-R)
Quinalphos (Bayrusil)
Ethion (Ethanox)
Chlorphynfos (Dursban, Lorsban, Brodan)
Edifenphos
Oxydeprofos b (Metasystox-S)
Sulprofos (Bolstar, Helothion)
Isoxathion (E-48, Karphos)
Propetamphos (Safrotin)
Phosalone (Zolone)
Thiometon (Ekatin)
Heptenophos (Hostaquick)
Crotoxyphos (Ciodrin, Cypona)
Phosmet (Imidan, Prolate)
Trichlorfon (Dylox, Dipterex, Proxol, Neguvon)
Cythioate (Proban, Cyflee)
Phencapton (G 28029)
Pirimiphos-ethyl (Primicid)
DEF (De-Green, E-Z-Off D)
Methyl trithion
Dimethoate (Cygon, DeFend)
Fenthion (Mercaptophos, Entex, Baytex, Tiguvon)
Dichlofenthion (VC-13 Nemacide)
Bensulide (Betasan, Prefar)
EPBP (S-Seven)
Diazinon (Spectracide)
Profenofos (Curacron)
Formothion (Anthio)
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EFFETTO DELL’INQUINAMENTO AMBIENTALE
Fenophosphon (Trichloronate, Agrilox)
Dialifor (Torak)
Cyanofenphos (Surecide)
Dioxathion (Delnav)
Mipafox (Isopestox, Pestox XV)
Pyrazophos (Afugan, Curamil)
Naled (Dibrom)
Phenthoate (Dimephenthoate, Phenthoate)
IBP (Kitazin)
Cyanophos (Cyanox)
Crufomate (Ruelene)
Fenitrothion (Accothion, Agrothion, Sumithion)
Pyridapenthion (Ofunack)
Acephate (Orthene)
Malathion (Cythion)
Ronnel (Fenchlorphos, Korlan)
Etrimfos (Ekamet)
Phoxim (Baythion)
Merphos (Folex, Easy off-D)
Pirimiphos-methyl (Actellic)
Iodofenphos (Nuvanol-N)
Chlorphoxim (Baythion-C)
Propyl thiopyrophosphate (Aspen)
Bromophos (Nexion)
Tetrachlorvinphos (Gardona, Appex, Stirofos)
Temephos (Abate, Abathion)
Insetticidi carbamati
Aldicarb b (Temik)
Oxamyl (Vydate L, DPX 1410)
Methiocarb (Mesurol, Draza)
Carbofuran (Furadan, Curaterr, Crisfuran)
Isolan (Primin)
Methomyl (Lannate, Nudrin, Lanox)
Formetanate (Carzol)
Aminocarb (Matacil)
Cloethocarb (Lance)
Bendiocarb (Ficam, Dycarb, Multamat,
Niomil, Tattoo, Turcam)
Dioxacarb (Elocron, Famid)
Promecarb (Carbamult)
Bufencarb (Metalkamate, Bux)
Propoxur (Aprocarb, Baygon)
Trimethacarb (Landrin, Broot)
Pirimicarb (Pirimor, Abel, Aficida, Aphox, Femos, Rapid)
Dimetan (Dimethan)
Carbaryl (Sevin, Dicarbam)
Isoprocarb (Etrofolan, MI PC)
a: i composti sono elencati in ordine di tossicità decrescente.
“Altamente tossici”: sono elencati organofosfati in ordine decrescente di
valore (nei ratti) di LD50 orale (dose letale media) inferiore a 50 mg/kg;
“Moderatamente tossici” gli agenti hanno valori di LD50 superiori a 50
mg/kg.
b: sono insetticidi sistemici; essi sono assunti dalle piante e
successivamente trasportati nel fogliame e alcune volte nei frutti.
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Tab. II.3.1.3. Effetti neurotossici da esposizione acuta ad alti livelli di insetticidi
organofosforici o carbamati (adattata da Young 1986).
Funzioni del sistema nervoso se
stimolato da acetilcolina
Effetti di eccessiva stimolazione del
sistema nervoso
Attivazione della salivazione, sudore,
e ghiandole lacrimali
Costrizione ai bronchi
Aumento della salivazione, sudorazione,
lacrimazione
Costrizione al petto, tosse e affanno, difficoltà
nella respirazione
Fissità delle pupille, visione offuscata
Battito cardiaco anormale, cambiamenti nella
pressione sanguigna
Crampi allo stomaco, nausea, vomito, diarrea
Frequenza urinaria, incontinenza
Contrazioni, agitazione, tremore, difficoltà nella
coordinazione, debolezza muscolare
generalizzata, paralisi, e morte o
compromissione cerebrale causata da asfissia
dopo la paralisi muscolare
Mal di testa, vertigini, ansia, instabilità emotiva,
letargia, confusione; eventualmente grave
depressione del sistema nervoso centrale e
coma
Contrazione delle pupille
Controllo delle funzioni cardiache
Aumento degli spasmi del tratto digerente
Aumento degli spasmi del tratto urinario
Attivazione dei muscoli scheletrici
Alterazione della funzione cerebrale
Ciclodieni
A questa categoria appartengono i pesticidi organoclorurati ciclodieni
che esercitano effetti selettivi sui neuroni striatali dopaminergici e hanno
un ruolo nella eziologia del morbo di Parkinson dal momento che
incrementano in vivo la attività striatale mediata dal DAT (PurkersonParker S, et al., 2001). È stato anche osservato che la dieldrina può
interferire con il trasporto di elettroni ed incrementare la formazioni di
radicali superossidi (Sanchez-Ramos J, et al., 1998).
Piretroidi
Gli studi su questo tipo di pesticidi sono stati correlati alla sindrome
della guerra del Golfo e alla eziologia del Parkinson. In vivo, in topi trattati
con permetrina, è stata osservata una riduzione dell’attività mitocodriale
e, sebbene non vi fosse decremento dei livelli di dopamina striatale, un
incremento del turnover della dopamina stessa e un decremento
dell’attivita motoria, anche se non si poteva definire un vero e proprio
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EFFETTO DELL’INQUINAMENTO AMBIENTALE
Parkinson (Karen DJ, et al., 2001). Risultati analoghi sono stati rilevati con
la deltametrina che mostra un incremento della regolazione mediata dal
trasportatore della dompamina (DAT) (Kirby ML, et al., 1999).
Secondo altre sperimentazioni, i piretroidi sono in grado di interagire
con un ampio range degli ioni calcio, cloro, e in particolare del sodio,
determinando una modificazione dell’eccitazione della membrana
cellulare. Questi livelli di iperattività, rispetto alla normale fisiologia
cellulare, comportano una depolarizzazione e blocco della conduzione a
livello delle cellule soprattutto muscolari (Ray D.E., Fry J.R., 2006).
In figura II.3.1.2 sono riportate le strutture molecolari di alcuni di
questi composti con riferimento al tipo di avvelenamento che provocano.
Figura II.3.1.2. (Da Ray D.E., Fry J.R., 2006)
Sindrome da avvelenamento di tipo I: alletrina, bifentrina, bioalletrina, cismetrina, transfluorocifenotrina, fenotrina, resmetrina, tetrametrina, e piretrine.
Sindrome da avvelenamento di tipo II: ciflutrina, cialotrina, cipermetrina, deltametrina, fenvalerato, e
cis-fluorocifenotrina.
Sindrome da avvelenamento mista: cifenotrina, fenpropatrina, e flucitrinato.
N.B.: Un’analisi interna delle osservazioni, fatta durante i regolari studi da Soderlund et al. (2002) ha
individuato bioalletrina, bifentrina, permetrina, e piretro, da collocare nella categoria mista. Questo può
essere dovuto sia ad una sbagliata classificazione di altri (questa tavola è basata su Ray, 1991, più Holton
et al., 1997) che alla registrazione imprecisa delle osservazioni nei regolari studi.
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EFFETTO DELL’INQUINAMENTO AMBIENTALE
Insetticidi organoclorinati
Questi composti agiscono stimolando il sistema nervoso centrale,
hanno la possibilità di accumularsi sia nell’ambiente che nell’organismo
umano. Sono considerati in genere meno tossici dei n-metil-carbamati
che degli organofosfati per quanto riguarda la tossicità acuta, ma
risultano più tossici in quella cronica.
Il prototipo di queste molecole è stato il DDT scoperto nel 1939 e
ampiamente utilizzato in agricoltura fino al 1972. Tra il 1940 e il 1970
numerose altre molecole sono state sintetizzate (lindano, aldrina, dieldrina
ecc.) e utilizzate fino al momento in cui ne è stato determinato l’accumulo
nell’ambiente e nei tessuti umani, riconoscendone così l’alta patogenicità.
Gli organoclorinati possono essere assorbiti per inalazione, ingestione
e assorbimento cutaneo, i siti target sono rappresentati dal fegato, dove
vengono metabolizzati ed escreti con le urine, dal tessuto adiposo e dal
sistema nervoso. Una intossicazione acuta determina un eccitamento del
sistema nervoso, stato confusionale, mancanza d’equilibrio, contrazione
muscolare, coma (Ecobichon D.J. and Joy R. M., 1982).
Tabella II.3.1.4. Elenco insetticidi organoclorinati (adattata da Morgan D.P., 1989).
Insecticide
endrin (Hexadrin)
aldrin (Aldrite, Drinox)
endosulfan (Thiodan)
dieldrin (Dieldrite)
toxaphene (Toxakil, Strobane-T)
lindane (gamma BHC or HCH, Isotox)
hexachlorocydohexane (BHC)
DDT (chlorophenothane)
heptachlor (Heptagran)
chlordecone (Kepone)
terpene polychlorinates (Strobane)
chlordane (Chlordan)
dicofol (Kelthane)
mirex (Dechlorane)
methoxychlor (Marlate)
dienochlor (Pentac)
TDE (DDD, Rhothane)
Ethylan (Perthane)
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• Solventi organici
Una delle possibili fonti di esposizione ambientale a composti
neurotossici è rappresentata da sostanze chimiche derivate da processi
industriali, come i solventi organici che costituiscono un’ampia classe di
sostanze la cui esposizione viene agevolata dalla loro caratteristica di
poter facilmente divenire volatili nell’ambiente. Le vie di contatto sono
rappresentate dall’assorbimento attraverso la cute e l’inalazione.
L’esposizione acuta è caratterizzata da una sintomatologia quale una
ridotta capacità della parola, del coordinamento ed equilibrio e dell’abilità
manuale, mentre quella di tipo cronico causa irritabilità, perdita della
memoria, affaticamento, ridotta capacità di concentrazione, cambi della
personalità. L’uso dei solventi organici è ampiamente diffuso, essendo essi
utilizzati in molti manufatti (prodotti famaceutici, vernici, prodotti agricoli),
e in diversi processi di lavorazione (sintesi di polimeri, fluidificanti.). Quelli
di uso più comune includono l’isopropanolo, il toluene, lo xilene, solventi
clorinati (tricloroetilene, percloretilene, clorometilene).
La quantità di solvente assorbita dall’organismo dipende dalla via di
esposizione, dalla concentrazione del composto presente nell’aria, dalla
solubilità nel sangue del solvente, e dalla modalità di lavoro fisico
effettuato nel tempo di esposizione, l’attività respiratoria più intensa e il
maggiore flusso sanguigno in un lavoro fisicamente più impegnativo
favorisce l’assorbimento e la diffusione del composto. A seconda del
grado di solubilità del composto chimico i solventi organici possono
essere variamente diffusi nell’organismo attraverso il flusso sanguigno. In
esperimenti in vivo, somministrata una definita concentrazione di
solvente in aria, si è osservata una differente dose di assorbimento a
livello tissutale e una modalità di bioaccumulo diversificata in relazione
alla variabilità individuale. I composti organici presentano la peculiarità
di modificare la loro struttura con la metabolizzazione, necessaria per
l’escrezione, dando origine a sottoprodotti che possono a loro volta essere
più tossici e di difficile escrezione rispetto al composto di origine.
Diversi studi hanno messo in relazione le malattie neurodegenerative
e l’esposizione a solventi organici, che sembra abbiano un ruolo
nell’induzione del morbo di Parkinson (Seidler A, et al. 1996; Smargiassi
A, et al. 1998; McDonnell L, et al. 2003), mentre gli studi sono piuttosto
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EFFETTO DELL’INQUINAMENTO AMBIENTALE
controversi per quanto riguarda il morbo di Alzheimer e la sclerosi
laterale amiotrofica (Kukull WA, et al. 1995; Helmer C, et al. 2001; Gun
RT, et al. 1997; McGuire V, et al. 1997; Gait R, et al. 2003).
Tab. II.3.1.5. I più comuni solventi organici e i loro usi industriali.
Compound
Industrial Uses
Acetone
Acrylamide
Cleaning solvent
Mining and tunneling, adhesives, waste treatment, ore
processing
Fuel, detergents, paint removers, manufacture of other
solvents
Viscose rayon, explosives, paints, preservatives, textiles,
rubber cement, varnishes, electroplating
Instrument sterilization
Glues and vegetable extraction, components of naphtha,
lacquers, metal cleaning compounds
Sulfur chemical manufacturing, by-product of petroleum
processing, decay of organic matter
Industrial settings
Odorant in natural gas and fuels
Many industrial uses
Solvent, refrigerant, propellant
Benzene
Carbon disulfide
Ethylene oxide (ETO)
N-hexane
Hydrogen sulfide
Methane
Methyl mercaptan
Methyl-N-butyl ketone
Methylene chloride
(dichloromethane)
Organochlorine
Organophosphates
PCE
Styrene
Toluene
1,1,1-Trichloroethane
(methyl chloroform)
TCE
Vinyl chloride
Xylene
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Insecticides
Insecticides
Dry cleaning, degreaser, textile industry
Fiberglass component, ship building
Paint, fuel oil, cleaning agents, lacquers, paints and paint
thinners
Degreaser and propellant
Cleaning agent, paint component, decaffeination, rubber
solvents, varnish
Intermediate for polyvinylchloride resins for plastics, floor
coverings, upholstery, appliances, packaging
Paint, lacquers, varnishes, inks, dyes, adhesives, cements,
fixative for pathologic specimens
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EFFETTO DELL’INQUINAMENTO AMBIENTALE
Non sono ancora del tutto noti i meccanismi di azione dei solventi
organici nella possibile eziologia delle malattie neurodegenerative. In
modelli animali e in studi su individui affetti da Parkinson, si è osservato
un eccesso dell’attività del recettore NMDA, è possibile, quindi, supporre
che tale alterazione funzionale del NMDA, in specifico della substantia
nigra, il tessuto maggiormente affetto da lesioni nel Parkinson, possa
spiegare l’associazione con la malattia (Nash J.E., Brotchie J.M. 2000;
Olanow C.W., Tatton W.G. 1999; Montastruc J.D., et al., 1997; Loopuijt
L.D., Schmidt W.J. 1998; Kezic S., et al., 2006).
Dudley ritiene che i solventi organici agiscano stimolando l’attività del
recettore NMDA, ma questa non è un’evidenza che supporti una diretta
interazione; comunque, data la complessità del sistema NMDA e il suo
legame con altri meccanismi regolatori, è possibile che vi siano dei target
indiretti su cui i solventi organici possono agire e portare ad un processo
di stimolazione del NMDA solvente-mediato (Dudley D.L. 1998).
A tal proposito sono suggeriti tre possibili meccanismi, anche se non
possono essere esaustivi:
1. Un’ampia varietà di composti idrofobici possono legarsi a porzioni
(“tasche”) idrofobiche di alcune particolari proteine. Un esempio è
rappresentato dalla proteina PIN. Questa piccola proteina è un
inibitore dell’isoenzima neuronale ossido nitrico sintetasi (nNOS), il
maggior enzima deputato alla sintesi di ossido nitrico nel cervello
(Tochio H., et al., 1998). PIN è un dimero contenente una porzione
all’interno della quale può legarsi un segmento di 13 aminoacidi del
nNOS producendo l’inibizione dell’enzima stesso (Fan J. S., et al.,
1998; Liang J., et al., 1999). Nel caso si leghi la molecola di solvente
alla proteina PIN questo impedisce il legame proteina-enzima
stimolando l’attività di nNOS; ciò giustifica il sostanziale incremento
della sintesi di ossido nitrico nel cervello, e la stimolazione dell’attività
NMDA.
2. È noto che i solventi organici stimolano i canali del calcio, poiché il
nNOS e l’epiteliale ossido nitrico sintetasi (eNOS) sono entrambi
Ca2+ dipendenti, la stimolazione di questi potrebbe stimolare l’attività
enzimatica, incrementando la sintesi di ossido nitrico, il quale a sua
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EFFETTO DELL’INQUINAMENTO AMBIENTALE
volta è considerato responsabile della stimolazione del NMDA (Gurdal
H., et al., 1992; Romero G., et al., 1994; Singh J., et al., 1995; Diaz
A., Dickenson A. H. 1997).
3. Alcuni solventi idrofobici possono essere in grado di agire alterando la
struttura della membrana mitocondriale e la funzione degli stessi
mitocondri, questo causa un mancato accoppiamento nella fosforilazione
ossidativa (Garbe T.R., Yukawa H. 2001; Nohl H., et al., 1996; Peitrobon
D., et al., 1987) incrementando la produzione di radicali superossidi.
Questa risposta appare produrre una prolungata generazione di radicali
liberi e di altri ossidanti nel cervello (Mattia C.J., et al., 1993). Per analogia
di quanto noto per altre sostanze, che intervenendo sulla struttura dei
mitocondri stimolano l’attività del NMDA, questo modello potrebbe
essere applicato per spiegare l’induzione della iperattività del NMDA da
parte dei composti organici (Nowak L., et al., 1984; Rothman S. 1983;
Novelli A., et al., 1988; Turski L., Turski W.A. 1993; Schultz J.B., et al.,
1997; Greenamyre J.T., et al., 1999).
In figura II.3.1.3 sono schematizzati possibili meccanismi di azione.
Figura II.3.1.3. Il ruolo dei solventi organici è schematizzato a partire dall’alto a sinistra
e il ruolo degli organofosforici e carbamati è schematizzato a partire dall’alto a destra. Le
frecce indicano interazioni che causano possibili effetti di stimolazione (adattata da Pall
M.L. 2002).
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Diversi studi hanno mostrato che esistono vari meccanismi a seconda
della struttura del composto organico, ad esempio:
– Tricloroetilene, svolge la sua azione attraverso la solubilità nei lipidi
per raggiungere il sistema nervoso centrale e periferico producendo
effetti irreversibili come la demielinizzazione e la morte cellulare,
nonché la formazione di radicali liberi, il tricloroetilene epossido lega
in maniera irreversibile alcune macromolecole cellulari;
– Percloroetilene, i suoi metaboliti e il suo epossido reagiscono con le
membrane lipidiche, le proteine del citoscheletro, l’RNA e il DNA.
L’esposizione è associata con l’alterazione degli acidi grassi dei
fosfolipidi. L’epossido di tricloroetilene è un agente alchilante
elettrofilico che lega covalentemente gruppi nucleofili di molecole,
come le proteine del citoscheletro e degli acidi nucleici. Il DNA,
alterato da questo legame, può ridurre la quantità di adenosina
trifosfata cellulare (ATP) e un incremento del calcio libero
intracellulare, con un possibile danno neuronale;
– Toluene e i suoi metabolici, determinano produzione di radicali liberi,
blocco dell’attività neuronale, demielinizzazione e degenerazione
dell’assone;
– Xilene, intergisce con le proteine legate alla membrana, è in grado di
legare il trasporto lungo l’assone;
– N-esano e molecole derivate, determinano distruzione del trasporto
lungo l’assone e formazione di legami crociati (cross-links) chimici tra
neurofilamenti dell’assone stesso;
– Ossido di stirene, responsabile della formazione di radicali liberi;
– Acrilammide, ha effetto diretto sul perikarion, inibisce la glicolisi,
interferisce con la fosforilazione delle proteine del neurofilamento,
impedisce l’immagazzinamento del glutatione con incremento della
perossidasi lipidica;
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– Ossido di etilene, il meccanismo di azione non è ancora del tutto noto,
si suppone che a causa delle sue caratteristiche elettrofiliche reagisca
come agente alchilante legando gruppi nucleofili delle macromolecole
biologiche. Legandosi al DNA, l’ossido di etilene induce lo scambio tra
cromatidi fratelli (SCEs) e aberrazioni cromosomiche. Il composto
interviene anche sull’attività della creatinin chinasi;
– Il disolfito di carbonio, interferisce con il metabolismo dei lipidi, il
legame del rame, e il legame a molecole intercellulari. Interviene
inibendo la sintesi di noreprinefrina e abbassando i livelli di
dopamina.
II.2.2 Metalli pesanti
Manganese, ferro, rame e altri metalli di transizione con attività redox
sono presenti in molti processi biologici e sono cofattori di diversi
enzimi, ad esempio le superossido dismutasi, per cui la loro alterata
presenza o assenza può delineare una alterazione funzionale a carico di
diversi organi target; un accumulo degli stessi a livello tissutale a causa di
modificazioni nei sistemi cellulari di catalisi, trasporto e deposito, può
dar luogo a citotossicità per partecipazione a processi di stress ossidativo
e incremento della produzione di radicali liberi (Sayre L.M., et al., 2005).
Da tale fenomeno non sono esenti le malattie neurodegenerative, in
particolare, il morbo di Parkinson e l’Alzheimer sono caratterizzate da
una modificata omeostasi dell’attività degli ioni metallo sia con e senza
attività redox. Esistono ricerche su diversi fronti che concordano nel
rilevare diversi ruoli a carico dell’omeostasi dei metalli, ad esempio
l’alterata omeostasi del rame e del ferro è associata ad una severa sequela
di carattere neurologico. I metalli di transizione stessi, come anche gli
ioni metallo senza attività redox, possono addizionalmente contribuire
nel loro effetto neurodegenerativo intervenendo sulle proteine e sulla loro
struttura. Sia nel Parkinson che nell’Alzheimer lo stress ossidativo è
associato con il reperimento di una alta concentrazione di metalli con
attività redox, in particolare ferro, in specifiche aree del cervello come
l’ippocampo, la cortex, il nucleo basale di Meynert e una colocalizzazione
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nelle placche senili e nei grovigli (tangles) intraneuronali neurofibrillari
per quanto concerne la malattia di Alzheimer, dove il ferro è associato alla
proteina tau, la maggior responsabile della patologia. La disregolazione
dell’omeostasi del ferro è anche supportata dal fatto che una proteina
regolatoria dello stesso la Iron regolatory protein (IRP-2) è specificamente
colocalizzata nell’Alzheimer con il ferro avente attività redox, da cui
l’alterazione di tale proteina può comportare una anomalia omeostatica
(Smith M.A., et al., 1998).
Tuttavia non è ancora ben chiaro se l’eccesso di metalli possa essere
una causa di stress ossidativo e di neurodegenerazione o un prodotto
dovuto alla perdita di cellule nervose.
La capacità di generare ROS dipende fondamentalmente da una
equilibrata concentrazione a livello cellulare dei metalli in forma libera,
quindi ioni metallo senza attività redox come lo zinco contribuiscono alla
citotossicità perché in grado di rimpiazzare gli ioni con attività redox in
quei siti dove tale attività risulta determinante. Il ferro libero è fortemente
implicato nella generazione dei ROS in vivo e alti livelli non fisiologici di
esso sono stati riscontrati in diverse alterazioni neurodegenerative.
Tuttavia non si rileva l’esistenza di una correlazione lineare dose - risposta
tra l’incremento di ferro totale e l’incremento dello stress ossidativo se
questi non coincidono con un incremento delle proteine che provvedono
allo stoccaggio del ferro nella forma inerte. Una di queste proteine è la
ferritina la quale è in grado di legare e rilasciare il ferro in modo
coordinato nel suo stato più labile, il quale risulta attivo nella produzione
di radicali idrossilici. Nel tessuto microgliare vi è il maggior numero di siti
per la ferritina in grado di legare ferro, che può essere rilasciato a formare
superossidi da alcuni induttori come la 6-hydroxydopamina (neurotossina
coinvolta nel morbo di Parkinson), o altre catecolamine facilmente
ossidabili, ciò confermerebbe come il rilascio di ferro contribuisca a
indurre in vivo un danno da radicali liberi (Double KL, et al., 1998).
Altri dati rilevano che l’alterazione dell’omeostasi dei metalli possa
avere un ruolo centrale nella patologia neurodegenerativa infatti è oramai
accertato che alluminio, ferro, zinco e rame accelerano la aggregazione
del beta amiloide con una efficacia pH-dipendente (Mantyh PW, et al.,
1993). A conferma di ciò la scoperta di chelanti in grado di solubilizzare
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parzialmente i depositi di beta-amiloide suggerisce un ruolo fisiologico
del rame (II), zinco (II) e del ferro (II) nella deposizione del beta-amiloide
stesso, con un percorso diverso dalla chimica redox, dove rame e ferro
legati alla forma solubile o aggregata della proteina sembrano avere
attività redox e quindi essere in grado di mediare la formazione di ROS
(Bishop GM, Robinson SR., 2004; Huang X, et al., 1999).
Manganese
Il manganese è relativamente abbondante in natura, si rileva
combinato con borati, carbonati, fosfati, ossidi, silicati e solfuri, ed è
inoltre variamente presente in tutti i tessuti animali e vegetali, nell’acqua
e nel pulviscolo atmosferico. Di norma nelle aree urbane e rurali dove
non vi sono sorgenti puntiformi, i livelli di fondo rilevati nell’aria vanno
da 0,01 a 0,07 mg/m3, mentre nelle aree con sorgenti di emissione
industriale i livelli variano da 0,22 a 0,3 mg/m3.
Le sorgenti antropogeniche di manganese nell’ambiente aereo sono
costituite dalla combustione dei combustibili fossili (20%) e
dall’emissione gassosa industriale (80%). Le concentrazioni medie di
manganese nell’acqua di mare sono di 2 mg/L, mentre nell’acqua dolce
vanno da 1 a 200 mg/L (Delbono G., et al., 2002). Alcuni composti del
manganese, come il cloruro e il solfato, sono solubili in acqua, per cui
l’esposizione può avvenire attraverso l’ingestione di acqua contaminata.
I composti organici del manganese vengono utilizzati nella
produzione di fungicidi della famiglia dei ditiocarbammati (Maneb e
Mancozeb), come additivi per benzina con e senza piombo, combustibili
in genere e abbattitori di fumo. Inoltre recentemente il
metilciclopentadienil-tricarbonil-manganese (MMT) è stato introdotto
come sostituto del piombo, con funzione antidetonante
nell’addittivazione della benzina perciò la combustione della benzina
contenente l’additivo rilascia particelle submiscroscopiche di Mn3O4,
potenzialmente inalabili (Barceloux D.G., 1999).
Malgrado si tratti di un elemento essenziale anche nella fisiologia
umana è stato rilevato che una eccessiva esposizione al manganese
provochi fenomeni di tossicità al sistema nervoso centrale (Andersen
M.E., et al., 1999; Fechhter L.D., 1999).
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La prima associazione tra anomalie neurologiche ed esposizione al
manganese risale al 1837 in minatori francesi, i quali manifestarono
ipotonia muscolare, tremori, postura ricurva durante la deambulazione,
parlata mormorante e salivazione. Successivamente nei primi anni del
XX secolo sono stati riportati sintomi simili definiti “manganese
crusher’s disease” (Pal P.K., et al., 1999). L’intossicazione acuta per
inalazione di polveri di manganese comporta la cosiddetta “febbre da
vapore metallico”, caratterizzata da dolori muscolari, brividi, secchezza
della gola e della bocca. I sintomi sono preceduti da bronchite acuta,
nasofaringite, polmonite e intorpidimento delle estremità (Bozza
Marrubini M.L., 1987). In seguito l’effetto tossico viene trasferito dai
polmoni al cervello comportando manifestazioni acute psichiche e
neurologiche, definite come “manganismo”. Tali sintomi sono molto
simili a quelli del morbo di Parkinson, causati da degenerazione
cerebrale e distruzione della funzione nervosa in alcune aree (Greger
J.L., 1999).
Possono essere esposti ad un eccesso di manganese anche gli operatori
agricoli che utilizzano impropriamente i formulati contenenti le sostanze
attive a base di manganese, ricerche epidemiologiche ed esperimenti in
vitro suggeriscono che gli effetti tossici possono verificarsi con
esposizioni anche a concentrazioni di Mn molto basse. Fino a tempi
recenti si riteneva che, solo i vapori e le polveri del metallo potessero
provocare tossicità, escludendo la possibilità di una tossicità per
l’ingestione di manganese attraverso il cibo (Kondakis X.G, et al., 1989).
L’opinione che il manganese negli alimenti non sia potenzialmente tossico
per l’uomo, è stata messa in discussione da dati provenienti da ricerche
realizzate negli anni ’80, sulla osservazione di disordini neurologici
sofferti dagli abitanti di un’isola a Nord dell’Australia, dove il 2% degli
aborigeni erano affetti da difetti motori neurali e da disfunzioni cerebrali
il cui sintomo distintivo della condizione era una tipica deambulazione
veloce e goffa. La causa della malattia era probabilmente imputabile ad
una predisposizione genetica che riguardava alcuni individui suscettibili,
associata ad alti livelli ambientali di manganese. I soggetti affetti dalla
malattia risultavano avere un’intossicazione cronica, dovuta ad un’elevata
assunzione attraverso cibo, acqua e inalazione di polveri (Reilly C.,
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EFFETTO DELL’INQUINAMENTO AMBIENTALE
1991), poichè questa popolazione viveva in prossimità di miniere di
minerali di manganese a cielo aperto, con un apporto stimato di 100-200
mg/kg di manganese nella dieta.
Test tossicologici hanno dimostrato che l’esposizione alle polveri e ai
fumi di manganese non dovrebbe superare il valore soglia di 5 mg/m3,
anche per brevi periodi, e test neurologici condotti su lavoratori esposti
hanno evidenziato che esposizioni continue a concentrazioni di
manganese pari a 1 mg/m3 di aria sono sufficienti ad influire sul SNC
(Zheng Y.X., 1999) determinando lesioni ai gangli basali con riduzione
dei livelli di dopamina (Pal P.K., et al., 1999).
Quindi, anche se la maggior parte dei casi di tossicità cronica è legata
all’inalazione di particolato contenente manganese, gli effetti sul SNC si
hanno anche con l’esposizione al manganese attraverso altre vie.
La neurotossicità del manganese è dovuta all’ossidazione della forma
bivalente in trivalente, tale forma, altamente ossidante, non viene
detossificato degli enzimi.
Inoltre avendo affinità per la porzione nigrostriatale, a causa
dell’elevata presenza di melanina a cui il manganese si lega, favorisce
l’autossidazione della dopamina e la produzione di radicali liberi che
causano danni al sistema dopaminergico (Lydén A., et al., 1984;
Donaldson J., et al., 1982).
Il manganismo, causato da esposizione occupazionale, ha sintomi
molto simili a quelli del morbo di Parkinson anche se le aree del cervello
coinvolte sono diverse, per il primo si osservano lesioni degenerative del
globus pallidus, nucleus caudatus e putamen e non del Substantia Nigra;
mentre nel Parkison è coinvolta la Substantia Nigra pars compacta, ma non
il complesso strio-pallidale (Yamada M., et al., 1986).
A tal proposito sono stati fatti studi sull’eventualità che l’esposizione
al manganese abbia un ruolo nell’eziologia del morbo di Parkinson.
Piombo
Il piombo è diffuso in natura sia in forma organica, più nociva, che
inorganica.
Il piombo organico, anche se più tossico, si degrada rapidamente
nell’atmosfera ed è anche più facilmente metabolizzato dall’organismo
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umano. Questo comporta un rischio minimo per la salute rispetto
all’esposizione alla forma inorganica, meno tossica, ma la cui
utilizzazione in diversi manufatti determina una maggiore diffusione
ambientale con un conseguente aumento del numero di soggetti esposti,
in particolare dei bambini che risultano maggiormente suscettibili.
Le possibili fonti di contaminazione da piombo inorganico sono
rappresentate da cibi e acqua contaminati, nel suo utilizzo in composti
chimici o manufatti (batterie, pitture), nel rilascio ambientale attraverso
emissioni industriali, o interventi antropogenici (rifiuti, suolo) (Bondy
S.C., 1988).
La tossicità del piombo nei confronti del sistema nervoso è nota da
tempo, gli antichi Egizi e i Romani ne facevano un diffuso uso come
cosmetico, nella manifattura di oggetti, addizionato al vino come
dolcificante e conservante, e nella costruzione di case. Plinio il Vecchio fu
il primo ad ipotizzare un danno dall’inalazione di vapori di
fermentazione del vino addizionato con acetato di piombo, mentre B.
Franklin è stato il primo a definire l’intossicazione da piombo come un
rischio occupazionale (Waldron H., 1973).
Diversi studi hanno ormai confermato che l’intossicazione da
piombo determina una riduzione della facoltà intellettiva ed effetti
neurotossici in particolare legati al fattore età (Landrigan PJ, et al.,
1975), in uno specifico studio Canfield et al. hanno dimostrato quanto
un’esposizione precoce in età infantile anche a dosi relativamente basse
sia associata ad una ridotta capacità cognitiva che si protrae nell’età
adulta (Canfield RL, et al., 2003). Inoltre esisterebbe una relazione di
dose dipendenza tra la concentrazione ematica di piombo e gli effetti
neurotossici, un incremento di 10 mg/dL della concentrazione di
piombo nel sangue è stata associata ad una diminuzione del quoziente
di intelligenza, ad una minore capacità di coordinamento motorio
mani-occhi, di quella verbale e di relazione logica del linguaggio
grammaticale (Schwartz B.S., et al. 2000; Needleman H.L., et al., 1990;
Canfield R.L., et al., 2003).
Questo aspetto sarebbe giustificato da diversi elementi: i bambini
possono ingerire o inalare più piombo per unità di peso corporeo, sono
più vulnerabili all’effetto tossico e hanno un più alto grado di
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assorbimento da ingestione rispetto agli adulti. Infatti mentre questi
ultimi assorbono tra il 5-15% del piombo ingerito ed in genere si ritiene
che meno del 5% venga realmente assorbito, nel caso dei bambini è stato
visto che in una regolare dieta possano assorbire una quantità del 40%
del piombo ingerito e trattenerne oltre il 30% di questa quantità.
L’effetto tossico sarebbe amplificato dal fatto che, il piombo
normalmente viene depositato nel tessuto midollare, dal momento che
i bambini ne possiedono in quantità minore rispetto agli adulti, il
piombo resta nel circolo sanguigno libero di poter esercitare la propria
tossicità in diversi distretti corporei. I bambini, inoltre, non
possedendo un sistema nervoso del tutto sviluppato, soprattutto per la
barriera ematoencefalica, subiscono effetti più invasivi rispetto ad un
individuo adulto.
Il piombo non essendo strettamente necessario all’omeostasi
dell’organismo umano, può non essere metabolizzato rapidamente con
un conseguente accumulo tissutale (nel sangue, nei tessuti molli, nel
midollo e nei denti). Quindi valutare la concentrazione di piombo nel
sangue non rappresenta un accurato indicatore di esposizione totale ma
solo di esposizione recente, mentre la quantità di piombo nel midollo e
nei denti è normalmente considerato un indicatore di esposizione
cumulativa anche se non fornisce alcuna indicazione sul tempo e la
durata della stessa. Nella maggior parte dei casi è stato rilevato che per
avere un effetto di deficit neurologico è necessario un livello di piombo
40 mg/dL nel sangue (vedi tabella 3.2.2.1) (World Health Organization,
1973).
La principale fonte di esposizione in età adulta è di tipo occupazionale
ed è associata ad un deficit della manualità, della capacità esecutiva, della
memoria e della capacità verbale (Schwartz BS, et al. 2000). Dati
epidemiologici su lavoratori anziani hanno evidenziato che le funzioni
cognitive si riducono progressivamente in relazione al tempo di
esposizione trascorso (Stewart WF, et al., 1999), ma a questo si può
aggiungere una suscettibilità individuale di tipo genetico, infatti portatori
di almeno un allele per l’apolipoproteina E-4 sarebbero più sensibili
all’effetto tossico del piombo (Stewart WF, et al., 2002).
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Tabella II.2.2.1: concentrazione di piombo nel sangue e diversi effetti sull’uomo e sul
bambino (adattata da World Health Organization, 1973).
Concentrazione di piombo nel sangue (µg Pb/dl)
Bambini 150 Adulti
morte ]-
encefalopatia
neuropatia
anemia
colica
]]]]-
emoglobina ↓
100
-[ anemia
-[ ↓ longevità
50
40
coproporfirina urinaria e δ-ALA ↑
velocità di conduzione nervosa ]-
-[ encefalopatia
-[ ↓ sintesi dell’emoglobina
neuropatie periferiche
sterilità (uomo)
nefropatia
↑ coproporfirine urinarie e δ-ALA
30
-[ ↑ pressione arteriosa sistolica (uomo)
↓ acutezza uditiva
metabolismo della vitamina D µ ]-
20
-[ ↑ protoporfirina eritrocitaria (uomo)
-[ ↑ protoporfirina eritrocitaria (donna)
protoporfirina eritrocitaria µ ]-
10
tossicità dello sviluppo ↓
QI; udito; crescita
diminuzione ↓↑ aumento
1
Numerosi studi hanno riscontrato che un’esposizione persistente al
piombo causa un rallentamento nella conduzione nervosa e una alterazione
del metabolismo del calcio (Locktich G. 1993; Orrenius S., et al., 1992).
L’interferenza con i canali ionici del Ca calmodulina-dipendenti
(Markovac J., Goldstein G.W., 1988; Cheung W.Y,. 1984) provoca effetti
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EFFETTO DELL’INQUINAMENTO AMBIENTALE
citotossici mediante perossidazione lipidica delle membrane cellulari con
conseguente alterazione funzionale delle stesse e morte cellulare
(Donaldson W.E., Knowles S.O., 1993; Shafiq-Ur-Rehman S., 1984). Dal
momento che tale fenomeno sembra avvenire in specifiche aree cerebrali,
si può pensare che il piombo sia presente in modo eterogeneo nel Sistema
nervoso centrale (Ali S.F., Bondy S.C., 1989).
Inoltre è stato rilevato che il piombo riduce l’attività dopaminergica
(neurotrasmettitore calcio-dipendente) interagendo con il sistema della
dopamina (Lasley S.M., 1992) e visto che il rilascio di questo
neurotrasmettitore è Ca-dipendente in modo indiretto, il Pb altera il
trasporto del calcio con compromissione della conduzione e della
trasmissione neuronale del sistema nervoso centrale e periferico.
Per alcuni autori sembra che il ruolo del piombo nella malattia di
Parkinson sia dovuta all’esposizione occupazionale associata però anche
al contatto con altri metalli come Fe e Cu.
Ferro
C’è sempre più evidenza a sostegno dell’ipotesi che il ferro sia
coinvolto in diverse malattie neurodegenerative, infatti sarebbe elemento
presente in tutti i meccanismi patogenetici delle malattie stesse, e nello
specifico, la neuroferritinopatia e “atassia di Friedreich” sono associate a
mutazioni nei geni che a loro volta codificano proteine coinvolte nel
metabolismo del ferro.
Il ferro viene accumulato nel cervello in funzione dell’età,
particolarmente nelle regioni che sono coinvolte nella malattia di
Alzheimer, determinando uno stress ossidativo e intervenendo
direttamente sulla formazione della placca, attraverso i suoi effetti sul
processamento della proteina precursore dell’amiloide, mentre nella
malattia di Parkinson vi sarebbe un accumulo di ferro nella substantia
nigra. Il ferro sarebbe all’origine di danni cellulari mediante diversi
meccanismi tutti possibili fattori coinvolti nella neurodegenerazione
(Zecca L. et al, 2004):
1. aumento della formazione di ROS;
2. incremento dello stress ossidativi;
3. aggregazione proteica (alfa-sinucleina).
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EFFETTO DELL’INQUINAMENTO AMBIENTALE
Nelle malattie di tipo neurodegenerative si è evidenziato un aumento
di deposito di ferro nelle regioni cerebrali affette da degenerazione, tale
incremento nel Parkinson è riscontrabile solo nella substantia nigra
degenerata (Bharath S. et al., 2002).
Il ferro presente nel cervello è accumulato da neuromelanina e da
ferritina la quale, sequestrandolo, svolge una azione protettiva. Nei
malati di Parkinson i livelli di ferritina presenti nel cervello sono ridotti,
ma questo non è riscontrabile nel liquido cerebrospinale e nel plasma,
mentre la presenza della neuromelanina, prodotta dai neuroni
catecolaminergici della substanzia nigra e del Locus Coereleus, è da
considerare un processo di autossidazione della dopamina e della
noradrenalina e un indice della vulnerabilità dei neuroni (Gibb W., 1992;
Hirsh E.C. et al., 1988).
La neuromelanina rappresenta la principale fonte di ferro
intraneuronale, ha il ruolo di deposito endogeno di Fe (Connor J. et al.,
1990; Zecca L. et al., 2001) e funge come protettore dai radicali liberi.
Nello specifico la sua struttura presenta due siti di affinità per il ferro
ferrico, il quale è presente in quantità maggiore nei malati di Parkinson
rispetto a soggetti sani (Jellinger K. et al., 1993; Double K.L. et al., 2003).
Studi in vitro, su neuroni dopaminergici mielinizzati vulnerabili alle
alte concentrazioni di ferro, si è osservato che il danno è legato alla
presenza del complesso Fe-neuromelanina, il quale può indurre stress
ossidativo ed effetti neurotossici. La depigmentazione osservabile nella
substantia nigra e nel Locus Coereleus è un’indicazione patologica
importante del morbo di Parkinson.
La neuromelanina sembra avere un meccanismo secondario
nell’eziopatogenesi della malattia poiché l’aumento del ferro è osservabile
solo in stadi avanzati della malattia.
Alluminio
Il cervello è particolarmente suscettibile al danno provocato
dall’alluminio, essendo causa di alcune forme di neurodegenerazione e di
demielinizzazione (Golub M.S. et al., 1999) è stato ben associato ad
alcune forme di demenze come la sclerosi laterale amiotrofica, l’Alzheimer
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EFFETTO DELL’INQUINAMENTO AMBIENTALE
e il Parkinson. È stato ossservato che le cellule della glia sono il principale
target dell’azione tossica dell’alluminio (Campbell A. et al., 2001). Queste
rappresentano il 90% delle cellule del sistema nervoso, sono costituite
dalla microglia e macroglia (astrociti, cellule di Schwann, oligodendrociti)
e svolgono diversi ruoli di supporto all’attività neuronale:
1. comunicazione tra glia e neuroni attraverso una struttura definita
sinapsi tripartita, con l’ausilio di segnali mediati da ioni,
neurotrasmettitori (in particolare glutammato), molecole simili agli
steroidi e al cAMP rilasciate da regioni sinaptiche e non sinaptiche del
neurone (Fields R.D., Stevens-Graham B., 2002);
2. gli astrociti presenti intorno ai neuroni contribuiscono ad una
regolazione dell’efficacia sinaptica sul sistema nervoso centrale,
regolando i livelli di glutammato nello spazio extracellulare; infatti un
eccesso di questo neurotrasmettitore compromette la vitalità cellulare.
Nel caso di alcune malattie come il morbo di Parkinson, la Corea di
Huntington, la malattia di Alzheimer, l’ischemia cerebrale, e la sclerosi
laterale amiotrofica è stato osservato un disequilibrio dell’omeostasi
del glutammato che giustificherebbe il ruolo svolto dagli astrociti
(O’Shea R.D., 2002);
3. le cellule gliali rappresentano un serbatoio per diverse neurotrofine,
proteine in grado di legarsi ai neuroni, di trasdurre segnali
intracellulari che regolano la crescita, la sopravvivenza o le funzioni
neuronali (Reichardt L.F., 2003);
4. gli astrociti possono indurre caratteristiche peculiari alla barriera
ematoencefalica come ridotta permeabilità paracellulare ed elevata
resistenza elettrica, sono responsabili dello sviluppo, della fisiologia e
della funzionalità della barriera stessa (Abbott N.J., 2002; Rieckmann
P., Engelhardt B., 2003);
5. gli astrociti adulti hanno una efficiente capacità di rimuovere le fibrille di
beta-amilode, quindi la disregolazione della clereance di questa proteina
da parte degli astrociti può precedere o essere responsabile nel deposito
rilevato nella malattia di Alzheimer (Wyss-Coray T. et al., 2003). Ciò può
apparire plausibile in quanto è noto che la produzione di beta-amiloide
non è solo legata al processo APP ma anche a scambi di beta-amiloide tra
il cervello e il sangue e viceversa, e allo sviluppo di un sistema di
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EFFETTO DELL’INQUINAMENTO AMBIENTALE
trasporto per il mantenimento di una bassa concentrazione di betaamiloide (Zlokovic B.V., 2004; De Mattos R.B., et al., 2001).
Diversi studi hanno evidenziato come l’azione tossica sugli astrociti
determina una ricaduta sulla sopravvivenza dei neuroni; le possibili
cause di azione sarebbero:
– secrezione di un fattore che renderebbe i neuroni più suscettibili alla
tossicità indotta dal glutammato;
– secrezione di un fattore neurotossico in presenza di glutammato;
– riduzione della secrezione di un fattore protettivo dei neuroni verso la
eccitotossicità del glutammato (Aremu D.A., Meshitsuka S. 2006);
– blocco del rilascio da parte degli astrociti di fattori neurotrofici
protettivi per i neuroni;
– intervento sia sulla funzione delle cellule gliali di comunicazione
intercellulare, agendo sugli ioni e i trasmettitori secreti nell’ambiente
extracellulare e limitando l’attività degli astrociti, sia sui gap
giunzionali attraverso strutture del citoscheletro (Theiss C., Meller K.,
2002; Rothstein J.D. et al., 1996);
– induzione dell’attività ossidativa dello ione superossido (Kong S. et al.,
1992; Pratico D. et al., 2002);
– interazione con i gruppi polari dei fosfolipidi di membrana, seguente
riarrangiamento delle cariche negative con modificazione e
immobilizzazione dei fosfolipidi in particolare quelli deputati al
legame dei metalli e conseguente accumulo locale di substrati
ossidabili (Verstraeten S.V. et al.,1997);
– inibizione della idrolisi del fosfatidilinositolo difosfato a inositolo
trifosfato, importante secondo messaggero, con esocitosi di alcuni
neurotrasmettitori contenuti in vescicole il cui rilascio è
fosfatidilinositolo difosfato dipendente (Huijbregts R.P.H. et al., 2000)
interferire nell’attività della fosfolipasi D il cui ruolo è quello di
organizzazione del citoscheletro (Lassing I., Lindberg U., 1985);
– incremento della produzione di tumor necrosis factor alfa (TNF alfa)
il quale a sua volta stimola la produzione della citochina
proinfiammatoria NF-kB, con conseguente induzione dei processi
infiammatori responsabili della morte dei neuroni e della
proliferazione di cellule gliali reattive (Campbell A. et al., 2002);
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EFFETTO DELL’INQUINAMENTO AMBIENTALE
– la presenza di alluminio nel neurone determina depolarizzazione con
inibizione dello scambio Na+/Ca2+ e accumulo di Ca2+ all’interno
dei mitocondri, conseguente rilascio dagli stessi del citocromo c e
attivazione della apoptosi mediata dalla caspasi-9 (Savory J. et al.,
2003);
– determina stress a livello del reticolo endoplasmatico con attivazione
della apoptosi (Ghribi O. et al., 2001);
– non partecipa direttamente a reazioni redox e non sembra favorire la
formazione di radicali liberi, ma è in grado di accrescere il danno
ossidativo indotto dal ferro, a tal riguardo si è visto che i sali di
alluminio legati al ferro aumentano la perossidasi lipidica (Gutteridge
J.M.C. et al., 1985) e la produzione del radicale ossidrile stimolando
così l’autossidazione della 6-idrossidopamina.
Zinco
Lo zinco è presente nei neuroni in forma legata o libera ma soprattutto
legato al glutammato. In seguito a stimolazione, questo viene rilasciato
nella sinapsi con il ruolo di stabilizzare la neurotrasmissione (Choi D.W.,
Koh J.Y., 1998). A livello sinaptico lo Zn compete con il calcio e penetra
all’interno dei neuroni post-sinaptici attraverso i suoi canali. In
condizioni fisiologiche normali lo Zn viene regolato nella sua delicata
omeostasi dal legame con la proteina metallotioneina. Diversi studi
hanno confermato che alte concentrazioni di Zn rilasciate tra i terminali
pre-sinaptiche e la sinapsi mediano la morte del neurone (Koh J.Y. et al.,
1996), tuttavia non appare ancora ben conosciuto il meccanismo
attraverso cui si espleterebbe l’effetto tossico.
Alcuni studi imputerebbero il fenomeno a carico dei mitocondri con
diverse supposizioni:
– inibizione della catena di trasporto di elettroni (Dineley K.E. et al., 2003);
– inibizione della produzione di energia e induzione della
depolarizzazione mitocondriale (Sensi S.L. et al., 1999);
– inibizione del consumo di ossigeno e riduzione del potenziale
transmembrana nei mitocondri del cervello;
– inibizione del complesso mitocondriale bc1 con produzione di specie
ossidanti (Dineley K.E. et al., 2003);
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– danno al SNC con demielizzazione in soggetti aventi elevati contenuti
sierici di Zn (Prody C.I., Holland N.R., 2000). Probabilmente il danno può
essere causato da un’alta concentrazione di zinco che inibisce
l’assorbimento del ferro, il quale a sua volta ha un ruolo importante nella
sintesi e nel mantenimento della mielina (Connor J.R., Menzies S.L., 1996).
Tuttavia lo zinco sembra implicato nel contrasto dello stress ossidativo
grazie alla sua partecipazione nei meccanismi antiossidanti più
importanti dell’organismo il sistema Cu-Zn-SuperOssido Dismutasi e il
sistema del glutatione (Jenner P., 1993; Barker J.E. et al., 1996).
Mercurio e Metilmercurio
Il mercurio può essere assorbito sia in forma inorganica che organica
come il metilmercurio, quest’ultimo è la forma più comune e anche la più
tossica (WHO, 1976). L’esposizione dell’uomo a questo metallo può
essere sia di tipo professionale che accidentale. L’assunzione di mercurio
è essenzialmente legata al consumo di pesce e prodotti derivati e quindi
risulta correlata con le abitudini alimentari e individuali e i gruppi di
popolazione. Un importante contributo non trascurabile viene dato dalle
amalgame dentali a base di Hg°, usate dai dentisti per le otturazioni.
Il metilmercurio una volta in circolo si distribuisce in tutti i tessuti, nel
sangue viaggia per più del 90% negli eritrociti legato alla cisteina presente
nell’emoglobina, oppure si complessa con il glutatione (GSH). Così
legato il metilmercurio viene trasportato e distribuito soprattutto nel
sistema nervoso centrale, nel fegato, secrezioni biliari e nel rene (Mulder
& Kostyniak, 1985). La concentrazione nel SNC risulta 6 volte superiore
rispetto al sangue e questo è legato alla facilità con cui il metilmercurio
attraversa la barriera emetoencefalica. La maggior concentrazione di
metilmercurio risiede nella sostanza bianca in determinati neuroni
cerebrali, midollari e del ponte, con una localizzazione selettiva nelle
cellule di Purkinje, nel cervelletto e nei neuroni del nucleo dentato.
La tossicità degli organomercuriali deriva dalla grande affinità del
mercurio verso i gruppi tiolici che costituiscono i siti attivi di numerosi
enzimi.
A livello cellulare un effetto ben documentato del metilmercurio è
l’inibizione della sintesi proteica nelle cellule bersaglio, interferendo anche
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EFFETTO DELL’INQUINAMENTO AMBIENTALE
nella sintesi del DNA mitocondriale, nei lipidi, nella mielina, nella
glutatione perossidasi, nel trasporto degli amminoacidi e del glucosio che
attraversano la barriera ematoencefalica. A livello immunitario può
provocare disturbi danneggiando la risposta sia primaria che secondaria
con un calo sulla produzione di anticorpi, in particolare i linfociti T. Può
avere anche effetti mutagenici provocando aberrazioni cromosomiali, e il
motivo sembra essere legato proprio all’alta affinità del mercurio con i
gruppi tiolici, ciò inibirebbe la formazione del fuso mitotico, come avviene
per la colchicina, e quindi formazione di aneuploidia e iperploidia.
Il mercurio può causare danni neuronali attraverso i seguenti
meccanismi:
– induce la formazione di ROS;
– inibisce gli enzimi preposti alla detossificazione dai radicali liberi,
glutatione perossidasi e superossido dismutasi (Hussain S., 1997),
grazie alla formazione di coniugati con composti tiolici come il
glutatione. Elevati livelli di questi coniugati si riscontrano nella SN di
malati di Parkinson (Uversky V.N. et al., 2001);
– determina il rilascio di Ca intracellulare (Chavez E., Holgun C.J.,
1998) causando danni al sistema immunitario (Shenker B.J., 1993).
Alcuni studi in vivo hanno mostrato una relazione dose-risposta fra la
quantità di mercurio assorbita e lo sviluppo del Parkinson (Olson C-G,
Hogsted C., 1981), per cui elevati livelli di questo elemento nel sangue e
nelle urine possono essere considerati utili parametri bochimici per una
possibile diagnosi precoce della malattia.
Gli studi devono ancora dimostrare la correlazione tra l’insorgenza del
Parkinson e le fonti di esposizione quali il cibo contaminato (pesce) e le
amalgame nei denti (Ngim C.H., Devathasan G., 1989).
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stabilito che
nell’uomo la comparsa dei sintomi neurologici è associata a livelli medi
di concentrazione di mercurio nel cervello di circa 5 mg/g.
Studi condotti in vivo e in vitro hanno dimostrato che alcuni
antiossidanti quali selenio, vitamina E (alfa-tocoferolo), vitamina C
(acido ascorbico), ecc. sono capaci di ridurre gli effetti tossici del
metilmercurio (WHO, 1990). L’azione protettiva è probabilmente
collegata al meccanismo con cui gli stessi effetti tossici sembrano
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EFFETTO DELL’INQUINAMENTO AMBIENTALE
esplicarsi, ovvero la rottura del legame C-Hg, che produrrebbe radicali
liberi, responsabili della perossidazione lipidica.
Una curiosità sul metilmercurio di notevole interesse risiede nel fatto
che il rapporto tra la concentrazione nel sangue e capelli nell’uomo è
circa 1:250. Questo rapporto è dato dall’elevata affinità del metilmercurio
per i gruppi sulfidrilici che sono abbondanti nei capelli, infatti
quest’ultimi sono costituiti da proteine (alfa-cheratina) relativamente
ricche di residui di cisteina. Inoltre una volta legato alle proteine del
capello la concentrazione rimane costante nel tempo e le variazioni si
verificano solo sulla parte del capello che deve crescere non sul capello
già fuoriscito dalla cute. Quindi i capelli sono accumulatori e indicatori
della concentrazione di questo contaminante nell’organismo (Airey D.,
1983), inoltre dalle misure longitudinali del capello si può controllare
l’elevoluzione nel tempo della quantità e il periodo di esposizione
dell’individuo. Questa proprietà del capello di agire come accumulatore
di mercurio viene utilizzata per la misura dell’esposizione dell’uomo a
metilmercurio, soprattutto in comunità a rischio.
Cadmio
Osservazioni su coorti di lavoratori esposti in forma acuta hanno
evidenziato sintomatologia del tutto assimilabile al morbo di Parkinson
(Okuda B. et al., 1997).
Sedi di bioaccumulo di questo elemento sono reni, fegato, cervello,
cuore e polmone, ma la sua tossicità è prevalentemente espletata a livello
del fegato e del sistema nervoso attraverso la formazione di ROS e la
perossidazione dei lipidi delle membrane cellulari (Shaikh Z.A. et al.,
1999; Szuster-Ciesielska A. et al., 2000).
Il meccanismo di azione della formazione di ROS non è ancora noto, ma
un possibile meccanismo è rappresentato dall’inibizione del complesso III
della catena di trasporto mitocondriale che blocca il trasferimento di
elettroni, e l’accumulo della molecola semiubichinone, la quale per
instabilità, cede un elettrone all’ossigeno molecolare con formazione del
radicale superossido (Wang Y. et al., 2004). Studi in vivo hanno evidenziato
che il Cd opera la degenerazione dei gangli basali e alterazioni dei
neurotrasmettitori quali serotonina e acetilcolina (Das K.P. et al., 1993).
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EFFETTO DELL’INQUINAMENTO AMBIENTALE
Calcio
L’omeostasi del calcio a livello neuronale è determinante per la
funzionalità delle cellule. In condizioni fisiologiche esiste nelle cellule
neuronali un gradiente transmembrana tale per cui la concentrazione di Ca
libero intracellulare è 4 volte inferiore a quella extracellulare. Tale rapporto
è necessario per l’integrità della cellula, dal momento che, un aumento
intracellulare di Ca libero o un decremento di quello extracellulare può
portare alla morte neuronale (Nelson S.R., Foltz F.M., 1983).
Il corretto equilibrio di bassa concentrazione di Ca libero all’interno
della cellula è normalmente affidata ad un insieme di sistemi tampone
(mitocondri, reticolo endoplasmatico, proteine che legano Ca e processi
fosforilativi ATP-dipendenti) che sequestrano il Ca non appena entra nel
citoplasma. In condizioni patologiche, quali il Parkinson e l’Alzheimer, si
osserva un aumento del deposito di Ca nelle neurofibrille e una elevata
calcificazione nei gangli basali a testimoniare una alterazione dei sistemi
sopracitati (Cross A.J. et al., 1986; Garruto R.M. et al., 1985; Mann
D.M.A., 1988). Il Ca ha un ruolo anche nel danno indotto da stress
ossidativo poiche quest’ultimo causa un aumento dello stesso Ca
intracellulare, inducendo degli eventi a cascata che portano a
neurodegenerazione (vedi figura 3.2.3.1).
Figura II.2.3.1. Schema degli effetti del Ca+2 citosolico nella degenerazione neuronale:
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EFFETTO DELL’INQUINAMENTO AMBIENTALE
Cromo
Il Cr è presente in natura con due stati di valenza prevalenti:
- Cr(III), la forma più stabile risulta essenziale nel metabolismo del
glucosio, del colesterolo, e dei grassi;
- Cr(VI), forte agente ossidante con elevata tossicità soprattutto nei
riguardi del sistema nervoso e immunitario (Barceloux D.G., 1999). La
tossicità di questa forma sarebbe da imputare a forme intermedie
prodotte a livello cellulare come Cr(V), prodotto durante la sua riduzione
a Cr(III) per mezzo della glutatione reduttasi (Stearns D.M. et al., 1995;
Shi X., Datal N.S., 1990). È inoltre noto che il cromo pentavalente
contribuisce alla formazione dei radicali ossido nitrico e ossidrile (Bagchi
D. et al., 2002).
Rame
Il Cu è un elemento spesso associato ad enzimi e proteine, essenziali
per il funzionamento neuronale come il sito catalitico della citocromo c
ossidasi (cox) e nella Cu-Zn-SOD, enzimi implicati nella protezione dal
danno ossidativo. Una carenza nell’organismo di Cu può determinare
l’inattivazione della cox e della funzione mitocondriale con un
conseguente incremento della produzione di ROS (Rotilio G. et al.,
2000). La presenza del rame a livello del cervello è dovuta al legame con
la proteina ceruloplasmina, se il legame con il rame non avviene la
proteina è degradata, come si osserva in alcune malattie
neurodegenerative. Tuttavia tale osservazione si pone in contrasto con
quanto avviene nel liquido cerebrospinale dei pazienti affetti da
Parkinson dove la sua presenza è aumentata, mentre rimane invariata a
livello neuronale (Loeffler D.A. et al., 1996).
Un eccesso di Cu sarebbe anche associato ad una interazione non
fisiologica sia con la alfa-sinucleina nella formazione dei corpi di Lewy
nel Parkinson, sia con l’omocisteina e la proteina beta-amiloide
determinando la produzione di perossido di idrogeno a livello del
cervello e quindi essere coinvolto in danni di tipo ossidativo (White A.R.
et al., 2001; Bremner I., 1998).
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CAPITOLO III
NUOVE FILOSOFIE
SPERIMENTALI
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NUOVE FILOSOFIE SPERIMENTALI
III. 1 INTRODUZIONE
Le nuove tecnologie, basate sull’acquisizione e gestione di migliaia di
informazioni in un unico esperimento, attraverso l’analisi simultanea di
numerose vie e meccanismi molecolari senza precise ipotesi di partenza,
seguono un approccio metodologicamente antitetico a quello
sperimentale classico, basato sulla verifica di una o poche ipotesi
specifiche formulate preliminarmente. Ciò comporta una nuova forma
mentis in ambito sperimentale con:
• una rivoluzione metodologica nella sperimentazione caratterizzata
dall’identificazione di eventi associati con una patologia umana non
più solo a livello di organo o sistema, ma piuttosto a livello di
macro/micro-molecole differentemente alterate nelle diverse fasi delle
singole condizioni morbose;
• una maggiore affidabilità dei dati, una rapidità dei test e una riduzione
dei costi dovuta ad una minore applicazione di protocolli sperimentali
in vivo a favore di una sperimentazione più peculiare e mirata in vitro
(Hartung M.T., 2005);
• la possibile conciliazione dei problemi etici sollevati da più parti
nell’uso di sperimentazione su animali.
La finalità della tossicogenomica è combinare transcrittomica,
proteomica e metabonomica con le informazioni ottenute dagli studi
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NUOVE FILOSOFIE SPERIMENTALI
tossicologici convenzionali, al fine di stabilire il rapporto di causa-effetto
tra geni e stress ambientali nell’induzione dell’effetto tossico.
Il principale elemento di perplessità su tale approccio, cosiddetto
“omico”, è che, se da un lato esso offre la possibilità di raccogliere in un solo
esperimento un enorme mole di informazioni, dall’altro queste non sono
inevitabilmente associate ad un arricchimento in termini di conoscenza.
L’espressione genica successiva all’esposizione ad uno o più sostanze esogene
può essere infatti la conseguenza dell’attivazione di meccanismi tossicologici
associati all’esposizione stessa o può riflettere semplicemente una fisiologica
risposta cellulare di adattamento, sicché l’informazione che origina dalle
tecnologie omiche è potenzialmente fuorviante.
Attualmente da un punto di vista metodologico, le “filosofie”
sperimentali applicate alle nuove tecniche di tossicologia sono due:
L’analisi dei profili attraverso l’uso di correlazioni statistiche tra geni la
cui espressione aumenta o si riduce nella condizione in studio,
indipendentemente dalla effettiva conoscenza delle funzioni geniche e
dei meccanismi alla base delle differenze osservate; questa teoria trova il
suo fondamento in profonde conoscenze di tipo statistico-matematico
applicate alla bioinformatica (Feldman A.L. et al., 2004).
L’analisi funzionale limita l’analisi a geni la cui funzione è nota
cercando di interpretare i meccanismi fisiopatologici alla base delle
differenze osservate, con il fine di identificare e chiarire i meccanismi
molecolari d’azione ad esempio degli xenobiotici, caratterizzarne
parallelamente le tracce molecolari specifiche, utilizzabili per lo sviluppo
di nuovi indicatori biologici (Waters M.D. et al., 2003).
III. 2 I miRNA
I microRNAs (miRNAs) costituiscono un gruppo di piccoli RNA non
codificanti, identificati in vari organismi eucarioti, la cui funzione non
è ancora del tutto conosciuta. Le ricerche hanno evidenziato a loro
carico diverse funzioni biologiche, tra cui regolazione nella
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NUOVE FILOSOFIE SPERIMENTALI
differenziazione cellulare, nello sviluppo animale, nella proliferazione,
nell’apoptosi, possibile coinvolgimento nella tumorogenesi e in alcune
malattie umane (Di Leva G. et al., 2006), tra cui le patologia
neurodegenerative (Lukiw W.J., 2007; Dostie J. et al., 2003) attraverso
un meccanismo di repressione della regolazione genica. Questi piccoli
RNA, la cui lunghezza varia dai 18 ai 22 nucleotidi, possiedono alcuni
un proprio locus di codificazione, altri invece sono contenuti
all’interno di regioni introniche di altre sequenze codificanti, spesso
nello stesso senso; questo suggerisce che probabilmente vengano
trascritti in concomitanza del loro gene ospite. Derivano da trascritti di
maggiori dimensioni i pri-miRNAs dotati di una struttura a forcina, tale
conformazione è essenziale per il riconoscimento e la processazione,
nel nucleo, da parte di una ribonucleasi (RNAsi III, Drosha) che
provvede a tagliare i pri-miRNA in frammenti di 70-100 nucleotidi
(pre-miRNA) con una sequenza che li conforma ancora in una struttura
secondaria a forcina non perfettamente complementare. Il taglio da premiRNA a miRNA avviene nel citoplasma ad opera della RNAsi Dicer
(Hutvagner G. et al., 2001).
Generalmente i miRNA vengono integrati con ribonucleoproteine in
un complesso chiamato miRNP (Mourelatos Z. et al., 2002), e
interagiscono con l’mRNA target attraverso la complementarità delle basi.
Il loro meccanismo di azione nel silenziamento genico si realizzerebbe
secondo due tipi di modalità:
• la degradazione dell’mRNA bersaglio
• il blocco della traduzione dello stesso.
La scelta di uno o dell’altro processo è determinato dalla
complementarietà di sequenza tra una porzione del mRNA e miRNA; nel
caso ci sia un perfetto appaiamento, avviene il taglio dell’mRNA mediato
dal complesso attraverso il patway del RNA interference (Bartel D.P.,
2004). Se l’appaiamento risultante, invece, non è perfettamente
complementare, il miRNA si lega ad una regione non tradotta al 3’
(3’UTR) dell’mRNA bloccandone la traduzione (Lai E.C., 2002).
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NUOVE FILOSOFIE SPERIMENTALI
Figura III.2.1. Schema della biosintesi dei miRNA e del loro processo di silenziamento
genico (da Kosik K.S., 2006).
Vista la loro natura regolatrice, i miRNA si trovano altamente
conservati all’interno di molte specie, e in alcuni casi arrivano a costituire
l’1% del genoma, mostrandosi come il componente regolatore più
rappresentativo (Lagos-Quintana M. et al., 2001; Lagos-Quintana M. et
al., 2002). A dimostrazione della loro importanza e quindi della loro
conservazione filogenetica, diversi miRNA organo specifici espressi nel
topo, sono stati ritrovati nello stesso comparto tissutale nell’uomo; nello
specifico i miRNA (miR-7, -9, -124a, -124b, -125a, -125b, -128, -132, 135, -137, -139, -153, -149, -183, -190, -219) espressi nel cervello di
topo, eccetto per miR-183, hanno il loro parallelo in cellule umane. Studi
sulla loro espressione organo specifica, hanno evidenziato un’elevato
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numero di miRNA isolati nel cervello rispetto a quelli isolati da altri
organi, a dimostrazione del fatto che questi potrebbero essere coinvolti
nella regolazione genica sia nella fase di sviluppo del sistema nervoso che
nella differenziazione neuronale (Sempere L.F. et al., 2004).
Ciò è correlato anche con una differente lunghezza e distribuzione
delle porzioni 3’ UTR dei mRNA target per i geni coinvolti nel sistema
nervoso, infatti quelli legati a questo tessuto hanno porzioni di circa
1.300 nucleotidi, mentre quelli di tessuti non nervosi ne possiedono
circa 700 (Sood P. et al., 2006).
Inoltre il cervello è un organo complesso costituito da una pluralità
cellulare, di cui le cellule neuronali e gliali rappresentano la componente
maggiore, non è quindi da escludere la possibilità di una espressione
differenziale di miRNA diversi a seconda del tipo di cellula. Attualmente
è noto che il gene LIN-28 espresso negli stadi precoci dello sviluppo
neuronale, dell’ipoderma e intestinale viene inibito nella sua espressione
con il procedere del differenziamento delle cellule neuronali (Sempere
L.F. et al., 2004). Diversi studi stanno ponendo attenzione, quindi, al
possibile ruolo regolativo dei miRNA nelle malattie neurodegenrative; ad
esempio, la Atrofia Muscolare Spinale è determinata dalla perdita di
funzione per mutazione o delezione a carico del gene per la proteina
Survival Motor Neuron (SMN), la quale fa parte di un complesso proteico
coinvolto nell’assemblaggio e ricostituzione delle strutture
ribonucleoproteiche a cui sono associate dei miRNA a formare dei
miRNPs. Da tali complessi estratti da diverse linee cellulari di tipo
neuronale sono stati isolati numerosi miRNA di cui alcuni (miR-182a,
miR-182b, miR-188, and miR-207), altamente conservati in organismi
filogenicamente diversi, indicando l’importanza del loro ruolo regolativo,
che insieme ad altri di più recente scoperta (miR-29c, miR-187, and miR217) sono compresi in due distinte subfamiglie con ruolo nella
regolazione genica. In particolare miR-175, sarebbe coinvolto in due
malattie di carattere neurologico: la Sindrome di Waisman e il Ritardo
mentale legato al cromosoma X (MRX3) (Dostie J. et al., 2003).
Un ulteriore supporto alla conferma del ruolo dei miRNA arriva da
uno studio effettuato in vitro su cellule Purkinje, le quali esprimono una
serie di miRNA specifici del tessuto neuronale. In questo contesto è stato
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rilevato che una deficienza funzionale del sistema endonucleasico Dicer
determina un rapido decremento di miRNA specifici per la regolazione
postmitotica della sopravvivenza dei neuroni. Tuttavia l’impatto non è
immediato sulla funzione cellulare, ma l’effetto neurodegenerativo
sarebbe un evento a lungo termine, tale processo di degenerazione
cellulare viene confermato anche in vivo dove si determina atassia sul
topo a partire dalla tredicesima settimana di sperimentazione. Ciò
troverebbe giustificazione del lento progredire riscontrato in alcune
malattie come il Parkinson e l’Alzheimer. È possibile che una regolazione
negativa dovuta all’assenza di miRNA comporti un accumulo di proteine
seguita da una risposta cellulare di tipo cronico che ne determina la
morte (Schaefer A. et al., 2007).
La perdita di funzione di Dicer influirebbe anche sulla riduzione dei
miRNA coinvolti nella regolazione di alcune malattie neurodegenerative,
tra cui la malattia di Huntington, l’atrofia dentatorubropallidoluysiana e
alcune atassie spinocerebellari, la cui eziologia sarebbe legata alla
anomala ripetizione del trinucleotide CAG nelle regioni codificanti dei
rispettivi geni (Gatchel J.R., Zoghbi H.Y., 2005). La presenza di tale
dominio per la poliglutammina (polyQ) determina un’elevata
neurotossicità causata da un anomalo ripiegamento strutturale delle
proteine codificate e un loro accumulo intracellulare con un’alterazione o
una perdita della funzione cellulare (Bilen J. et al., 2006).
Esiste anche una relazione nell’espressione differenziale dei miRNA in
rapporto all’età. Infatti W.J. Lukiw, in un suo lavoro realizzato su
campioni di ippocampo provenienti da feti, individui adulti sani e malati
di Alzheimer, ha evidenziato un pattern di espressione dei miRNA testat,i
diversificato nelle tre classi di campioni, in specifico i miR-9,-125,-128
sono stati rilevati in abbondanza solo nei campioni dei soggetti malati. A
questo si aggiunge che la malattia di Alzheimer è caratterizzata da un
deficit di proteina sinaptica; infatti il mRNA per la sinapsina I è
significativamente ridotto nella sua espressione e possiede ben 14
potenziali siti di legame nella porzione 3’ UTR, mentre il mRNA della
sinapsina II è un target specifico del miR-125b (Rogaev E.I., 2005; Lukiw
W.J. et al., 1996; Lukiw W.J., 2007).
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CAPITOLO IV
LO SVILUPPO COGNITIVO
E LE INFLUENZE DELLE
ESPERIENZE AMBIENTALI
(Interazione tra geni ed ambiente)
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LO SVILUPPO COGNITIVO E LE INFLUENZE DELLE ESPERIENZE AMBIENTALI
Metà del genoma dell’uomo è deputata allo sviluppo del sistema
nervoso centrale (snc). Questo sviluppo non è già compiuto alla nascita
ma prosegue anche nei primi mesi di vita. In particolare, la corteccia
preforontale, area deputata alle capacità cognitive, prosegue il suo
sviluppo fino alla prima età adulta.
In generale lo sviluppo del sistema nervoso centrale non è
determinato solo geneticamente, ma è fondamentale l’interazione con
l’ambiente perché questo avvenga nel miglior modo possibile.
Una scoperta fondamentale degli ultimi anni ha messo in crisi il
vecchio dogma secondo il quale nel SNC non nascano nuove cellule. È
stato dimostrato per esempio che nell’ippocampo, deputato alle funzioni
della memoria a lungo termine, si ha uno sviluppo neuronale anche
nell’età adulta e questo sviluppo dipende in maniera preponderante
dall’apprendimento e quindi dalle nuove esperienze che viviamo.
Le evidenze sperimentali che spiegano lo sviluppo cognitivo emergono
tutte da ricerche recenti e in generale adottano un approccio riduzionista.
Questo si è reso necessario data l’enorme complessità del snc dell’uomo.
Per parlare di sviluppo cognitivo è necessario approfondire anche le
maggiori teorie di riferimento al riguardo.
Ma prima di passare a considerare le teorie sullo sviluppo cognitivo, è
necessario precisare la differenza che esiste tra i concetti di maturazione
e di sviluppo.
La maturazione fa riferimento a tutti i cambiamenti fisici, ivi compresi
i cambiamenti a livello del SNC, che hanno la loro base nel patrimonio
genetico.
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LO SVILUPPO COGNITIVO E LE INFLUENZE DELLE ESPERIENZE AMBIENTALI
Lo sviluppo invece ha la sua base nell’interazione tra la maturazione e
l’apprendimento che invece è veicolato dalle esperienze ambientali.
In effetti, le teorie sullo sviluppo cognitivo dei bambini si muovono su
questi due estremi, ovvero, alcune focalizzano la loro attenzione
prevalentemente sui processi maturativi e quindi di natura genetica,
mentre altre focalizzano la loro attenzione sui processi di sviluppo dove
diventa preponderante l’interazione con l’ambiente.
IV. 1 IL CONTRIBUTO DI JEAN PIAGET
IV.1.1 Introduzione
Jean Piaget si muove nel solco della cosiddetta psicologia genetica, che
focalizza la sua attenzione più sui processi maturativi che sui processi di
sviluppo. Egli, attraverso l’osservazione dei suoi tre figli, Jacqueline,
Lucienne e Laurent, sviluppa una delle teorie più importanti relativa allo
sviluppo cognitivo.
Jean Piaget identifica quattro grandi periodi di sviluppo
dell’intelligenza che vanno dalla nascita e si concludono con
l’adolescenza:
1.
2.
3.
4.
periodo sensomotorio
periodo preoperazionale
periodo delle operazioni concrete
periodo delle operazioni formali.
La peculiarità sta nel sostenere che la velocità con cui si passa da uno
stadio all’altro, anche se risulta influenzata dalle esperienze ambientali, è
strettamente controllata dai processi maturativi che sono determinati
biologicamente. Questo vuol dire che gli apprendimenti da soli non sono
sufficienti perché il bambino passi da uno stadio al successivo. Affinché
questo avvenga, è necessario che le strutture cognitive siano pronte dal
punto di vista della maturazione biologica. Prima di definire i quattro
stadi di sviluppo dobbiamo descrivere i meccanismi di funzionamento
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LO SVILUPPO COGNITIVO E LE INFLUENZE DELLE ESPERIENZE AMBIENTALI
delle strutture cognitive. Essi sono l’assimilazione e accomodamento
(Sempio O.L., 1998).
Processo di assimilazione e accomodamento regolati dall’equilibrazione
L’assimilazione si caratterizza come l’incorporazione di nuove
esperienze alle idee e agli schemi comportamentali o cognitivi già
acquisiti. Praticamente il bambino utilizza un oggetto per compiere
un’attività che già fa parte del suo repertorio motorio o decodifica un
evento in base a elementi che gli sono già noti. L’esempio più immediato
è il comportamento tipico dei bambini di pochi mesi di portare gli oggetti
alla bocca. L’afferrare e il portare alla bocca sono comportamenti che il
bambino ha già acquisito e che ripete ad ogni nuova esperienza/oggetto
che gli si presenta davanti.
L’accomodamento, invece, implica il cambiamento degli schemi
comportamentali o cognitivi già acquisiti per poter utilizzare oggetti o
decodificare eventi che fino a quel momento erano ignoti. Se ci
rifacciamo all’esempio precedente, il bambino che si trova a gestire un
oggetto più grande del solito, sarà costretto a sviluppare uno schema
comportamentale che prevede l’uso di entrambe le mani.
Entrambi questi processi sono regolati da un processo di
equilibrazione, che sostanzialmente mantiene l’omeostasi nell’interazione
con il mondo esterno (Oliverio Ferraris A., et al., 1999).
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LO SVILUPPO COGNITIVO E LE INFLUENZE DELLE ESPERIENZE AMBIENTALI
IV.1.2 Le fasi dello sviluppo cognitivo secondo Piaget
(La psicologia genetica)
Passiamo ora ad analizzare le 4 fasi dello sviluppo cognitivo così come
le ha definite Jean Piaget.
IV.1.3 Fase senso-motoria
La fase senso-motoria si sviluppa dalla nascita e arriva fino ai 2 anni
circa. Il bambino, per comprendere ciò che lo circonda, utilizza i sensi e
le abilità motorie, affidandosi inizialmente ai soli riflessi e più avanti a
combinazioni di capacità senso-motorie. Questa fase è suddivisa in sei
sottostadi come riportato nella tabella IV.1.3.1.
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LO SVILUPPO COGNITIVO E LE INFLUENZE DELLE ESPERIENZE AMBIENTALI
Tabella IV.1.3.1. Sottostadi della fase senso-motoria.
Sottostadio
Caratteristiche principali
1. Comportamenti riflessi
(0-1 mese)
Si tratta essenzialmente di attività riflesse o automatiche, non apprese
ma innate, risulta ancora assente il possesso della nozione di oggetto
e di causalità. Un esempio tipico è la suzione al semplice sfiorare le
labbra del bambino.
2. Reazioni
circolari primarie
(1-4 mesi)
Si tratta di azioni orientate verso il corpo, esse vengono ripetute
nell’eventualità in cui il bambino provochi qualcosa di interessante.
Inizia a svilupparsi il riconoscimento dell’oggetto ma manca la sua
ricerca nel momento in cui esso scompare. E’ esemplificativo di
questo stadio la suzione alla vista del poppatoio.
3. Reazioni
circolari secondarie
(4-8 mesi)
In questo caso le azioni sono orientate verso l’ambiente, inizia la
permanenza dell’oggetto. Un esempio è rappresentato dai movimenti
per muovere oggetti che pendono sulla testa. Il bimbo ritrova in
questo periodo oggetti parzialmente nascosti.
4. Coordinazione delle
reazioni circolari
secondarie
(8-12 mesi)
Questo sottostadio è caratterizzato da azioni ripetute ma orientate
verso una meta. Vi è permanenza dell’oggetto. Ordina i
comportamenti in una successione temporale e lega la causalità alle
attività. Esempi tipici sono la capacità di muovere o manipolare
oggetti semplici per provocare un effetto, ritrovare oggetti nascosti,
per esempio sotto un cuscino.
5. Reazioni circolari
terziarie
(12-18 mesi)
L’elemento più importante in questo sottostadio è l’inizio della
sperimentazione per prove ed errori nell’esplorazione delle
caratteristiche di un oggetto. La permanenza dell’oggetto è ormai
consolidata, è capace di ritrovarlo solo se sottoposto a spostamenti
visibili, i rapporti di causalità si rafforzano. Per esempio, se non è in
grado di raggiungere un oggetto chiede aiuto all’adulto, oppure tira
la coperta sulla quale si trova l’oggetto che cerca.
6. Inizio del pensiero
(18-24 mesi)
È evidente la soluzione di semplici problemi attraverso la
rappresentazione mentale (anticipazione rappresentativa), per
esempio usa dei rialzi tipo una sedia, per poter raggiungere un
oggetto fuori dalla sua portata.
IV.1.4 Fase preoperatoria
Questa fase, che va dai due ai sette anni, si caratterizza per
l’egocentrismo, per cui tutto sarà riferito a se stesso, il bambino crede che
tutti la pensino come lui e che capiscano i suoi pensieri, in effetti uno dei
compiti più importanti di questa fase è il decentramento, ovvero
cominciare a non considerare se stessi come l’unico punto di riferimento.
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LO SVILUPPO COGNITIVO E LE INFLUENZE DELLE ESPERIENZE AMBIENTALI
Inizia una rudimentale capacità di classificazione che intorno ai 4 anni
raggiungerà la forma più semplice, per esempio il bimbo raggruppa tutti
gli oggetti rotondi.
Non è in grado però di sviluppare il principio di Inclusione, per cui
non è in grado di capire che alcune classi sono contenute in altre più
grandi.
Il ragionamento in questa fase non è né deduttivo né induttivo ma
transduttivo, ovvero, se due fatti accadono contemporaneamente, allora
l’uno diventa causa dell’altro. Questa è la base del pensiero superstizioso
nell’adulto.
IV.1.5 Fase delle operazioni concrete
Si sviluppa dai 7 agli 11 anni.
In questo periodo si sviluppa il principio della conservazione, che
progredirà per tutta la fase delle operazioni concrete. Il bambino,
inizialmente, comprende la conservazione della forma e del peso, mentre
acquisterà la conservazione dei volumi alla fine di questa fase.
Tipicamente, un bambino che gioca con della creta sa che facendone
delle palline la quantità resterà invariata e quindi, riunendo le palline,
otterrà la stessa quantità di partenza applicando il principio della
reversibilità.
Diversamente, il principio della conservazione dei liquidi arriva più
tardi. All’inizio di questa fase il bambino non è in grado di capire, per
esempio, che il volume di liquido contenuto in un contenitore alto e
stretto è lo stesso se il liquido viene travasato in un contenitore basso e
largo. Questo tipo di conservazione si ottiene intorno ai dodici anni.
Un’altra acquisizione tipica di questo periodo è la conservazione dei
numeri, il bambino apprende che aggiungere significa rendere più
grande e sottrarre vuol dire rimpicciolire.
È di questo periodo l’acquisizione della logica induttiva, ovvero il
bambino partirà da esperienze concrete per sviluppare principi generali
ed acquisirà solo nella fase successiva la logica deduttiva.
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LO SVILUPPO COGNITIVO E LE INFLUENZE DELLE ESPERIENZE AMBIENTALI
IV.1.6 Fase delle operazioni formali
Questa fase va dagli 11 ai 14 anni.
Come anticipato precedentemente, è di questo
periodo l’acquisizione della logica deduttiva, anche se il
preadolescente non è ancora in grado di sviluppare un pensiero
rigorosamente scientifico.
Può quindi dedurre cosa accadrebbe se delle ipotesi fossero vere. Per
esempio, se i suoi pari insultano un bambino grasso, potrebbe capire
come si sentirebbe se, per ipotesi, anche lui fosse grasso.
Diventa in grado di capire la relatività dei giudizi e dei punti di vista e
sviluppa operazioni sui simboli, come nella geometria e nella matematica.
Molto famoso è l’esperimento del pendolo ideato da Piaget. Al
soggetto viene presentato un pendolo costituito da una cordicella con un
piccolo solido appeso. Deve scoprire quali fattori (lunghezza della
corda, peso del solido, ampiezza di oscillazione, slancio impresso al peso,
che ha la possibilità di variare a suo piacere) determinano la frequenza
delle oscillazioni. Lavorando su tutte le combinazioni possibili in
maniera logica e ordinata, il soggetto arriverà ben presto a capire che la
frequenza del pendolo dipende dalla lunghezza della sua cordicella.
Poiché la ricerca sistematica di soluzioni è tipica di questo periodo, il
preadolescente è anche in grado di capire non solo come le cose sono
effettivamente, ma come potrebbero essere in una situazione ideale e
questo sarebbe alla base della tendenza degli adolescenti a criticare la
famiglia d’origine, i sistemi religiosi, sociali e politici (Canestrari R.,
Godino A., 1997; Del Miglio C.M., 1997).
IV. 2 LO SVILUPPO COGNITIVO NELLA
PROSPETTIVA DI LEV SEMYONOVICH VYGOTSKIJ
IV.2.1 Introduzione
Il principio fondamentale che ispira l’opera di Vygotskij è l’idea che
tutti i processi mentali complessi abbiano un’origine sociale.
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LO SVILUPPO COGNITIVO E LE INFLUENZE DELLE ESPERIENZE AMBIENTALI
Ci troviamo qui sempre nell’ambito della dialettica, tra maturazione
ed apprendimento, come accade con Piaget ma, a differenza di
quest’ultimo, Vygotskij pone l’accento più sui processi di apprendimento
che su quelli di maturazione tipici dello sviluppo per stadi concepito da
Piaget.
Il fulcro dei processi di apprendimento è la mediazione data dagli
strumenti artificiali, come i segni linguistici che vengono usati nel
linguaggio o i numeri che vengono usati nell’attività di
quantificazione, tra pensiero e significato. In questo modo Vygotskij
sottolinea l’importanza del paradigma storico-culturale nella
comprensione dello sviluppo delle funzioni psicologiche superiori
(Sempio O.L., 1998).
La concezione storico-culturale dello sviluppo delle funzioni
psicologiche superiori è data dalla comprensione di due aspetti
fondamentali:
• acquisizione degli strumenti artificiali dello sviluppo, come la lingua
scritta e parlata, il calcolo, il disegno, la musica ecc.
• ridefinizione della struttura stessa, dopo l’acquisizione di questi
strumenti, con lo sviluppo di capacità cognitive come: attenzione
volontaria, memoria logica, pensiero concettuale ecc.
Questa comprensione però non avviene scomponendo gli elementi
fondamentali delle funzioni psicologiche. Come diceva Vygotskij, usando
l’esempio dell’acqua, idrogeno ed ossigeno da soli non hanno le stesse
proprietà dell’acqua, allo stesso modo, per esempio, il pensiero ed i
simboli verbali da soli non bastano a spiegare il pensiero verbale dotato
di significato. In effetti senza significato i simboli matematici o linguistici
sarebbero senza senso ed è il significato ad avere valore psicologico,
mentre i simboli sono pura astrazione.
Lavorando su questi principi Vygotskij, insieme a Lurida, marcò i
confini tra sviluppo filo genetico, sviluppo storico culturale e sviluppo
ontogenetico.
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′ (“classe”,
• La Filogenesi o filogenetica o filogenia, dal greco ϕυλη
“specie”) e Γ′ενεσις (“nascita”, “creazione”, “origine”), è lo studio
dell’evoluzione della vita. È uno strumento fondamentale della
sistematica che si occupa di ricostruire le relazioni di parentela
evolutiva, di gruppi tassonomici di organismi a qualunque livello. La
filogenesi studia origine ed evoluzione di un insieme di organismi,
solitamente di una specie. Un compito essenziale della sistematica è di
determinare le relazioni ancestrali fra specie note (vive ed estinte).
(Tratto da Wikipedia)
• Lo Sviluppo Storico-Culturale
(vedi il paragrafo successivo)
• L’Ontogenesi (letteralmente: genesi, cioè sviluppo, dell’ente) è
l’insieme dei processi mediante i quali si compie l’evoluzione biologica
del singolo essere vivente, evoluzione che quindi presenta
caratteristiche peculiari che differenziano ciascun essere vivente
dall’altro. Essa si contrappone alla filogenesi, ovvero all’evoluzione
propria della specie a cui appartiene il singolo vivente. In alcuni casi,
l’ontogenesi riproduce, soprattutto nel periodo pre-natale, perinatale e
nelle prime fasi della crescita, la filogenesi, come accade, per alcuni
versi, nello sviluppo dell’essere umano. (Tratto da Wikipedia)
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IV.2.2 Lo sviluppo storico-culturale
Le brillanti ricerche di Köhler sulla psicologia delle scimmie
antropoidi e le pubblicazioni sulle ricerche etnoantropologiche,
aiutarono Vygotskij e Lurija a chiarire meglio la psicologia storicoculturale.
Köhler studiando le scimmie antropoidi approdò al concetto di insight.
L’insight è un concetto sviluppato dalla psicologia della Gestalt, scuola a
cui Köhler appartiene, nell’ambito della soluzione dei problemi (probelm
solving). Esso indica una ridefinizione del sistema che permette di
risolvere un “problema”.
Le scimmie antropoidi che Köhler studiava, pur essendo capaci di
insight, non erano in grado di ristrutturare le loro capacità cognitive
conservando quanto appreso grazie all’insight. Le scimmie erano poste di
fronte al problema di raggiungere una banana al di là della loro portata
utilizzando oggetti che si trovavano nel loro campo visivo, in questo caso dei
bastoni. Pur essendo in grado di risolvere il compito grazie all’insight e
quindi all’uso dei bastoni, le scimmie, per quanto evolute fossero, non erano
in grado di appropriarsi dell’oggetto usato e di trasformarlo in uno
strumento artificiale, come invece avviene nell’uomo primitivo. L’uomo
primitivo dopo aver utilizzato un sasso aguzzo per uccidere la preda, si
appropria di questo strumento, lo migliora e lo inserisce nei fondamenti
della sua cultura. Quindi l’attività degli animali nell’interazione con la natura
aumenta di complessità grazie all’uso di oggetti, ma l’attività non viene
modificata dall’uso dell’oggetto stesso come invece è accaduto con gli
uomini primitivi e come accade oggi negli uomini, per esempio con l’uso di
estensioni di memoria come gli hard disk (Oliverio Ferraris A., et al., 1999).
IV.2.3 Il rapporto tra apprendimento e sviluppo mentale. La Zona di
Sviluppo Prossimale
Nello studio dell’apprendimento, Vygotskij non scinde
l’apprendimento dallo sviluppo psichico ma li fonde allo sesso modo in
cui il pensiero nel suo sviluppo si fonde con i simboli linguistici per dare
il linguaggio. È così che elabora il concetto di Zona di Sviluppo
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Prossimale. Per far questo egli rivaluta il concetto di imitazione,
sostenendo che chi imita già possiede le stesse capacità intellettive di chi
sta imitando.
In sostanza, come dice Vygotskij, si tratta di capire che chi è in grado
di risolvere problemi complessi per esempio di aritmetica, anche grazie
ad un aiuto, è già in possesso dei principi di matematica superiore,
altrimenti nessun suggerimento porterà ad alcuna soluzione.
La pedagogia, così, non può non considerare lo sviluppo attuale del
bambino in relazione allo sviluppo potenziale per poter costruire
programmi didattici che portino alla crescita cognitiva. Se si fermasse
solo allo stadio dello sviluppo attuale, l’insegnamento sarebbe sterile e
non porterebbe alcun giovamento al bambino, bloccandolo in processi di
pensiero vecchi.
Qui Vygotskij crea un metodo operativo che deriva direttamente dalle
sue teorie e pone l’accento in concreto sull’ interazione tra
apprendimento sviluppo, cognitivo e contesto ambientale (Del Miglio
C.M., 1997).
IV. 3 LO SVILUPPO COGNITIVO SECONDO
JEROME SEYMOUR BRUNER
IV.3.1 Introduzione
Bruner con il suo lavoro, riprende i concetti esposti da Piaget e
Vygotskij li sintetizza e li sviluppa in un nuovo approccio allo studio
dello sviluppo cognitivo.
È però fondamentale conoscere il periodo storico in cui Bruner
comincia i suoi studi per poterne tracciare un profilo più accurato
(Sempio O.L., 1998).
Gli studi sulla percezione portati avanti dal movimento chiamato New
Look e lo sviluppo della Psicologia Cognitiva, in contrapposizione a
quella Comportamentale, sono la chiave storico-culturale in cui Bruner si
muove e che fanno da cornice alle teorie sullo sviluppo cognitivo che
proporrà.
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Groppo, Scaratti e Oranghi propongono tre punti chiave sui quali si
muove il pensiero di Bruner:
Questi tre temi saranno costante oggetto di studio per Bruner e
verranno rielaborati alla luce delle nuove conoscenze acquisite.
IV.3.2 Gli studi sulla percezione durante la nascita della psicologia
Cognitiva.
Durante il perdurare della prospettiva comportamentista, la psicologia
aveva radicalmente centrato il focus dei suoi studi sul paradigma stimolorisposta.
Gli psicologi della Gestalt, che prima e durante la seconda guerra
mondiale dall’Europa si trasferirono in America, posero le basi per uno
dei più chiari esempi di cambio di paradigma a livello scientifico che
ebbe la sua massima espressione in psicologia.
Non a caso gli studi che iniziarono a minare il paradigma
comportamentista furono quelli sulla percezione. Ci si rendeva conto che
l’approccio stimolo-risposta tralasciava troppe domande e dava risposte
insufficienti per capire appieno il comportamento delle persone. Ciò che
Pavlov e i suoi seguaci avevano dedotto dal mondo animale non era che
una parte dei meccanismi d’azione della nostra mente che, nello sviluppo
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del pensiero simbolico, si discosta ampiamente da quella di qualsiasi
specie vivente.
Bruner si formerà all’Università di Harvard, sotto la direzione del
Professor Boring, in un ambiente fortemente orientato alla psicologia
comportamentista che cercava di capire come si arrivasse alla
rappresentazione interna del mondo partendo dai nostri organi di senso
e sposando il concetto di un mondo interno come rispecchiamento del
mondo esterno, posizione che cambierà radicalmente negli anni a venire.
Come abbiamo detto, gli studi che misero in crisi il paradigma
stimolo-risposta furono quelli sulla percezione, in particolare gli studi
sulla stima delle grandezze che il movimento del New Look portava
avanti intorno alla metà del Novecento. Bruner insieme a Goodman
progettò nuovi esperimenti in cui si tenevano chiaramente in
considerazione variabili come valori, atteggiamenti, aspettative e bisogni
delle persone. I risultati dimostrarono che queste variabili non erano
secondarie nella percezione, iniziava così il lavoro di superamento del
paradigma comportamentista, che portò alla riscoperta della mente come
elemento centrale tra lo stimolo percepito e la risposta comportamentale.
Bruner e Goodman per confermare le loro teorie, chiesero ai loro
soggetti, che erano studenti di dieci anni, di dare un giudizio sulla
grandezza di alcune monete in corso all’epoca negli Stati Uniti appena
venivano loro mostrate. Lo strumento utilizzato era un fascio di luce con
il quale riprodurre la grandezza delle monete. I ragazzi erano per metà
benestanti e per metà di ceto povero.
I risultati dimostrarono che i ragazzi di ceto povero sopravvalutavano
la grandezza delle monete e che in generale, l’errore per tutti era tanto più
grande quanto più valore aveva la moneta.
In questo esperimento sembra chiaro che variabili come valori,
bisogni, atteggiamento e aspettative non siano trascurabili nel fenomeno
della percezione (Oliverio Ferraris A., et al., 1999).
IV.3.3 Lo studio sul pensiero e la formazione di categorie.
Superata la prima metà del Novecento, Bruner inizia a lavorare sulla
cognizione, in particolare, su come la mente forma categorie e le strategie
che segue per farlo.
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I primi studi al riguardo furono quelli di Clark Hull nel 1920, e di
Smoke nel 1932. Il primo userà per i suoi esperimenti degli ideogrammi
cinesi ovvero degli stimoli molto lontani dalla vita quotidiana di qualsiasi
statunitense in quel periodo; il secondo cercherà di ovviare al problema
usando una serie di figure geometriche aventi particolari relazioni spaziali.
Saranno però Bruner, Goodnow e Austin nel 1956 a riprendere questo
filone di ricerca creando una situazione sperimentale più chiaramente
leggibile ai soggetti che affrontavano il test.
L’esperimento si basava sull’uso di ottantuno carte, tutte diverse,
ottenute variando quattro attributi , il colore, la forma, il numero di forme
e la cornice. Ognuno di questi attributi si presentava in tre modalità in
modo da ottenere, appunto, ottantuno carte. In realtà se si considerava un
singolo attributo per volta, le carte potevano essere raggruppate.
Lo scopo del test era inferire la categoria pensata dallo sperimentatore
in base ad un esempio positivo, fornito dallo sperimentatore stesso, a cui
seguivano i tentativi dei soggetti che ottenevano semplicemente una
risposta positiva o negativa alla presentazione della carta da loro scelta.
Le strategie che Bruner e i suoi collaboratori riuscirono a mettere in
evidenza furono quattro:
• Messa a fuoco conservativa: è la strategia ottimale dal punto di vista
economico (ovvero il numero di scelte da effettuare) e di certezza
(individuazione della categoria sottostante). Consiste nel variare un
solo attributo per volta e, se la risposta dello sperimentatore è positiva,
se ne deduce che l’attributo variato è ininfluente per definire la
categoria, in caso di risposta negativa, ovviamente, è il contrario.
• Strategia ad esame successivo: si formula una ipotesi iniziale e la si
valuta. È poco complessa ma diseconomica, anche se in generale
rispecchia un modo comune di comportarsi nella vita quotidiana.
• Strategia ad esame simultaneo: è un processo deduttivo molto
impegnativo e consiste nel valutare più ipotesi contemporaneamente.
• Messa a fuoco variabile: si utilizza il caso positivo come base e si variano
più attributi per volta. Potenzialmente si può individuare la categoria
sottostante con meno scelte, ma solo in caso fortunato.
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Questo esperimento consentì a Bruner e ai suoi collaboratori di
confutare le teorie comportamentiste, per le quali i concetti/categorie sono
realtà intrinseche dell’uomo e statiche, acquisite attraverso processi di
relazione o per associazione e non attraverso processi di inferenza e
strategie dinamiche, dettate anche dal contesto (Del Miglio C.M., 1997).
IV.3.4 Lo sviluppo cognitivo (1966), Piaget e Vygotskij sintesi ed
evoluzione.
Bruner sarà ampiamente influenzato sia da Piaget che da Vygotskij,
pur ritenendo i due studiosi in forte antitesi, l’uno concentrato sullo
sviluppo stadiale quasi automatico e l’altro focalizzato sullo sviluppo
quasi assistito che si concretizza nella Zona di sviluppo prossimale.
Bruner condensò questo confronto interno e i suoi studi ne Lo sviluppo
cognitivo, che pubblicò nel 1966. In questo libro si può vedere la sintesi
degli studi dei suoi predecessori e lo sviluppo di un nuovo approccio in
cui entrambe le prospettive coesistono.
Il tema cardine del libro è la descrizione del sistema di
rappresentazione del mondo ideato da Bruner, in cui confluiscono sia il
sistema stadiale sia quello socioculturale. In effetti, se il sistema si evolve
in una direzione fortemente socioculturale, Bruner lo forza, come dirà lui
stesso, in un sistema in cui le modalità di rappresentazione del mondo
evolvono in una sequenza cronologicamente determinata.
In questo sforzo sintetizzerà l’interazione tra gli aspetti interni dello
sviluppo (genetici) e gli aspetti esterni (sociali).
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In un altro libro pubblicato nello stesso anno, Verso una teoria
dell’istruzione, Bruner chiarirà meglio i concetti dei tre sistemi di
rappresentazione.
IV.3.5 I tre sistemi di rappresentazione del mondo
Cronologicamente la rappresentazione attiva è il primo sistema di
rappresentazione del mondo a svilupparsi. In esso è importante l’azione
conoscitiva sugli oggetti, che si sviluppa tramite la loro manipolazione o
il portarli alla bocca.
Ci troviamo nello stadio sensomotorio di Piaget
Il secondo sistema a svilupparsi è la rappresentazione iconica.
Attraverso l’immagine il bambino inizierà ad estrarre informazioni, per
esempio i primi sistemi di classificazione come il colore, la forma
ecc..oppure imparerà a fare/imitare.
Il terzo sistema, infine, è la rappresentazione simbolica. Essa appare
grazie all’interiorizzazione dei sistemi simbolici, come le lettere nel
linguaggio, i numeri nella matematica o le note nella musica.
Questo è il sistema di rappresentazione più importante secondo
Bruner, perché la cultura amplifica e potenzia le nostre capacità cognitive
e mi piace ripetere anche qui l’esempio di ciò che riusciamo a fare con le
estensioni di memoria forniteci dai computer.
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In realtà i tre sistemi dopo la loro comparsa coesistono per cui, il
modello gerarchico/cronologico in età adulta evolve in un sistema
circolare (Canestrari R., Godino A., 1997).
IV. 4 L’APPROCCIO RIDUZIONISTA E LE PRIME
EVIDENZE SPERIMENTALI SUI PROCESSI
NEURONALI CHE COINVOLGONO LA MEMORIA
(L’Aplysia Californica ed il Nobel per le neuroscienze a E. R. Kandel)
IV.4.1 Introduzione
In un capitolo dedicato allo sviluppo cognitivo e all’interazione tra
geni ed ambiente, non poteva mancare un richiamo agli studi di Kandel.
Premio Nobel per la medicina nel 2000, si pone a cavallo dei due
millenni, riceve il premio per gli studi compiuti nello scorso millennio e
spalanca le porte alle neuroscienze come terreno di studi privilegiato per
il prossimo, tanto da affermare che la biologia della mente rappresenterà
per il ventunesimo secolo ciò che la biologia del gene ha rappresentato
nel secolo scorso. In particolare sarà la biologia della coscienza ad essere
la punta di diamante di tutta la ricerca scientifica.
Ma se la gnomica ha affermato inesorabilmente che il nostro
patrimonio genetico è identico per il 99.9%, la plasticità neuronale ha
riaffermato l’importanza delle esperienze vissute per fare di noi persone
diverse l’una dall’altra.
Il nuovo muro da abbattere è lo stesso muro che la scienza ha dovuto
sgretolare quando affermò che il cuore non è la sede delle emozioni, ma
un muscolo che pompa sangue. Allo stesso modo la ricerca scientifica ci
mostrerà che la mente non si basa su costrutti inconoscibili ma è il
risultato delle fini connessioni di mille miliardi circa di neuroni, e se i
neuroni sono circa mille miliardi, il numero delle loro connessioni è
quasi inimmaginabile. Quasi.
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IV.4.2 La memoria secondo E. R. Kandel (L’approccio riduzionista)
Quando iniziò i suoi lunghi studi sperimentali sulla memoria verso la
fine degli anni 50, Kandel cercò di capire se i neuroni dell’ippocampo,
che sembravano coinvolti nei processi di memoria, fossero
sostanzialmente diversi da altri neuroni del nostro sistema nervoso
centrale (snc). I risultati non portarono grandi scoperte ma evidenziarono
una realtà importantissima: l’elettro-fisiologia dei neuroni
dell’ippocampo, era pressoché simile a quella degli altri neuroni.
Quali erano allora le proprietà di quella parte del snc deputata alla
memoria?
Kandel si rese subito conto che studiare le connessioni neuronali
dell’ippocampo dell’uomo era impresa pressoché impossibile, quindi sposò
l’approccio riduzionista, già usato in biologia per altri scopi, nonostante la
diffidenza di gran parte del mondo accademico di allora. Pensare di
equiparare i processi di memoria dell’uomo a quelli di un gasteropode
sollevava molte critiche. Ma Kandel era convinto che i meccanismi
molecolari dell’apprendimento non avessero subito grossi mutamenti con
l’evoluzione. Fu così che iniziò i suoi studi sull’ Aplysia, una lumaca di mare
gigante, per i vantaggi dati dalle caratteristiche del suo sistema nervoso, la
meno trascurabile delle quali è che si compone soltanto di ventimila cellule
nervose, raggruppate in dieci gangli principali, di notevole spessore e
quindi ideali negli studi di elettrofisiologia.
Il comportamento che prese in esame fu il riflesso di retrazione della
branchia, comportamento che poteva subire modifiche grazie a tre forme
di apprendimento: abituazione, sensibilizzazione e condizionamento
classico.
• Abituazione: nell’abituazione c’è un attenuarsi della risposta
comportamentale in seguito alla presentazione di stimoli neutri. Un
esempio classico di abituazione è la sensazione che proviamo quando
indossiamo i nostri vestiti dopo aver fatto una doccia. Inizialmente i
recettori sensoriali vengono tutti attivati, però con il passare dei
minuti, questa attivazione cesserà perché il snc registra che questo tipo
di stimolo è sostanzialmente neutro.
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• Sensibilizzazione: nella sensibilizzazione invece accade l’opposto, c’è
una intensificazione della risposta comportamentale in seguito alla
presentazione di stimoli nocivi. In questo caso, dopo la presentazione
di stimoli nocivi, si ha sensibilizzazione anche in risposta a stimoli
neutri che, se permangono senza stimoli nocivi, porteranno
nuovamente al fenomeno dell’abituazione.
• Condizionamento classico: fu scoperto dal fisiologo russo Ivan Pavlov.
Lavorando per i suoi studi con i cani egli notò che essi cominciavano
a salivare quando entrava nella loro stanza, ovvero, associavano il cibo,
che è lo stimolo incondizionato perché i cani salivano sempre alla
presenza di cibo, allo stimolo condizionato, ovvero Pavlov stesso, la
cui presenza normalmente non dovrebbe produrre salivazione. Per
confermare la sua deduzione Pavlov fece un esperimento usando come
stimolo condizionato il suono di un campanello che precedeva la
presentazione del cibo. Come si aspettava i cani iniziarono a salivare
anche quando sentivano il suono del campanello.
Kandel inizialmente lavorò sulla sensibilizzazione in Aplysia notando
che, somministrando una scossa dolorosa alla coda dell’animale, si
otteneva come risposta il comportamento di retrazione della branchia,
anche in stimoli successivi di natura neutra. Quindi l’aplysia ricordava lo
stimolo nocivo e questo ricordo si protraeva nel tempo. Se lo stimolo
nocivo si presentava più volte la durata del ricordo aumentava.
Quello che però Kandel non riusciva a capire era come si potessero
verificare processi di apprendimento in circuiti neuronali che
sostanzialmente non variavano granché da un’animale all’altro e che
presentavano interconnessioni molto precise.
IV.4.3 Memoria a breve termine e memoria a lungo termine in Aplysia,
i meccanismi biochimici.
Per affrontare questo studio Kandel ebbe l’idea di verificare l’ipotesi
che Santiago Ramón y Cajal aveva proposto già nel 1894, ovvero che la
memoria dipende dallo sviluppo di nuove connessioni sinaptiche.
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Quello che emerse da questi nuovi studi fu la consapevolezza che
effettivamente i processi di memoria dipendano dalla modifica delle
connessioni sinaptiche. I geni quindi sono responsabili dell’esistenza
delle connessioni, ma la loro efficacia dipende dall’esperienza.
Il passo successivo negli studi di Kandel fu la dimostrazione di come
avvengono i processi biochimici che portano allo sviluppo della memoria
a breve termine e del consolidamento delle tracce mestiche in quella a
lungo termine.
Per cominciare Kandel e i suoi collaboratori cercarono di capire se
fossero coinvolti nei sistemi di memoria, meccanismi di sintesi proteica.
Bloccando la sintesi proteica ci si accorse che la risposta a breve
termine compariva comunque. Poiché fu dimostrato che la risposta a
breve termine compariva anche in caso di iniezione di cAMP nella cellula
presinaptica, e poiché la sua principale funzione consiste nell’attivazione
di protein-chinasi per regolare il passaggio transmembrana di calcio (e
ridurre quello di potassio) attraverso i canali ionici, se ne dedusse che la
memoria a breve termine dipendeva dalla regolazione della quantità di
neurotrasmettitore rilasciato dalla cellula presinaptica.
Quindi, dopo una serie di esperimenti che Kandel portò avanti con
numerosi collaboratori, dedusse che per attivare la memoria a lungo
termine fosse necessaria la sintesi di nuove proteine mentre per quella a
breve termine era sufficiente la regolazione della quantità di
neurotrasmettitore rilasciato dalla cellula presinaptica.
Riassumendo e senza entrare nei dettagli, nella sensibilizzazione, uno
stimolo nocivo provoca il rilascio di serotonina, questa a sua volta con
una serie di passaggi attiva cAMP, se gli stimoli nocivi aumentano,
aumenta anche la presenza di cAMP e questo rende disponibile nella
cellula le protein-chinasi PKA e MAPK. Queste a loro volta, traslocano
nel nucleo e attivano la trascrizione genica a partire dal fattore CREB-1.
Kandel ha dimostrato che se un singolo neurone sensoriale in aplysia
forma circa 1200 sinapsi, in seguito a sensibilizzazione a lungo termine
queste arrivano ad essere circa 2600.
Sorprendentemente però, la sensibilizzazione a lungo termine non
produce un aumento di sinapsi generalizzato a tutta la cellula, bensì
l’aumento di sinapsi si ha solo a livello della sinapsi interessata dagli
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stimoli nocivi. Questo avviene perché lo stimolo da cui parte il processo
a breve termine serve nell’immediato a rendere più efficace la sinapsi,
grazie all’aumento di neurotrasmettitore ma, in caso di stimolazione
continuata, la serotonina rilasciata marca specificamente la sinapsi
interessata. In questo modo le proteine prodotte dall’attivazione genica
grazie a CREB-1 vengono selettivamente impiegate nella sinapsi in
questione (Kandel E.R., et al., 1994; Kandel E.R., 2007; Pally R., 2003).
IV. 5 CENNI SU DISTURBI COGNITIVI
E L’INQUINAMENTO AMBIENTALE
Il cervello umano in via di sviluppo è molto più suscettibile al
danneggiamento causato da agenti tossici rispetto al cervello strutturato
in età adulta. La sensibilità è dovuta al fatto che durante i nove mesi di
vita prenatale rappresentano il momento cruciale di tutto lo sviluppo
trasformandosi da un cordone di cellule lungo la dorsale dell’ectoderma
del feto ad un complesso organo formato da bilioni di cellule altamente
specializzate, organizzate, interconnesse.
Un corretto sviluppo cerebrale richiede che i neuroni si spostino
lungo un preciso cammino dal loro punto di origine fino alla loro
locazione definitiva dove stabiliscono connessioni con altre cellule sia
prossime che distanti.
Tutti questi processi devono avvenire in uno stretto periodo di tempo
e con stadi di sviluppo che devono realizzarsi secondo una corretta
sequenza.
A causa della straordinaria complessità dello sviluppo del cervello
umano molti sono i fattori che possono influenzare il corretto sviluppo
di quest’organo, dai fattori sociali ad i fattori ambientali quale
l’inquinamento da composti chimici o radiazioni.
Il compito degli psicologi è quello di fare in modo che la qualità della
vita, concetto oggi molto usato e abusato, non resti una parola vuota di
contenuti ma sia espressione di cultura della qualità ovvero di una rete di
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relazioni interne ed esterne all’azienda sanitaria, estesa ai servizi
territoriali, ai professionisti, al volontariato affinché il paziente prosegua
e mantenga nel tempo il proprio processo di recupero in un iter
terapeutico armonico e modulato sulle sue esigenze non solo funzionali
ma anche psicosociali.
È sempre più chiaro il nesso causale tra patologia dei
bambini/adolescenti e l’esposizione (acqua, aria, cibo) a diverse classi di
xenobiotici, composti chimici o fisici dell’ambiente, dalla vita embrionale
e fetale all’adolescenza. Questo porta ad una maggiore frequenza di
disturbi neurologici e cognitivi (es. il caso del piombo e del mercurio o
dei composti organici volatili) (Schwartz BS, et al. 2000; Needleman HL,
et al., 1990; Canfield RL, et al., 2003).
Questo è un tema emerso all’attenzione solo negli ultimi anni in Italia,
a differenza degli USA dove riceve molte più attenzioni, soprattutto sul
piano della ricerca che della sorveglianza epidemiologica. Infatti non
esistono dati Italiani raccolti su base di popolazione relativi alle
esposizioni ambientali nel bambino. Le informazioni a disposizione sono
estremamente episodiche e assolutamente insufficienti a fornire un
quadro della situazione.
I bambini sono più vulnerabili all’inquinamento rispetto agli adulti,
questo perché il sistema nervoso in questa età si sviluppa molto più
rapidamente come anche tutto lo sviluppo cognitivo.
Un corpo crescente di evidenze scientifiche associazia l’esposizione
umana a inquinanti organici persistenti (POPs) con varie ripercussioni
sulla salute, inclusi disturbi neuroevolutivi e interferenze sul sistema
endocrino. In uno studio recente (Lee et al., 2007) lo scopo è stato quello
di comparare la prevalenza dei distrurbi dell’apprendimento (LD) e i
disturbi da deficit dell’attenzione (ADD) tra i bambini con diverse
concentrazioni sieriche di neurotossici ambientali in un campione di
popolazione USA. Lo studio è di tipo trasversale su 2246 bambini di 415 anni su cui sono stati dosati il piombo ed il cadmio, e su 278 bambini
di 12-15 anni sono stati dosati i POPs. Questo è un primo studio che
dimostra la correlazione positiva tra le concentrazioni sieriche dei POPs
e i distrurbi dell’apprendimento nei bambini di 12-15 anni. Come ben
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LO SVILUPPO COGNITIVO E LE INFLUENZE DELLE ESPERIENZE AMBIENTALI
già sappiamo molte sostanze di origine industriale hanno effetti clinici
neurotossici negli adulti, mentre gli effetti nocivi sul cervello del feto e
del bambino sono invece praticamente sconosciuti (Lee D.H., et al.,
2007).
Siamo forse davanti alla presenza di diversi effetti tossici dosedipendenti, una silenziosa pandemia di neurotossicità le cui dimensioni
sono ancora sconosciute (Grandjean P. e Landrigan P.J., 2006) e che
certamente richiedono da parte della comunità scientifica un grande
sforzo nel cercare di studiare e quindi prevedere la gravidà e gli effetti
soprattutto a lungo termine, con particolare riferimento all’esposizione di
contaminanti chimici e fisici durante tutto lo sviluppo dell’individuo che
può portare allo sviluppo di malattie cronico degenerative colpendo i più
svariati comparti biologici dell’uomo, compresi tutti i disturbi nella sfera
del cognitivo.
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CAPITOLO V
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CONCLUSIONI
L’influenza dei vari fattori ambientali è quasi sempre vista e calcolata in
termini di mutagenesi ma da un punto di vista quasi esclusivamente
carcinogenico, mentre molti studi (De Magistris R. et al., 2006; Nannipieri
P. et al., 1997; Naccarati A. at al., 2003; Vodicka P. at al., 2004)
evidenziano l’influenza dei fattori ambientali quali induttori di alterazioni
metaboliche riconducibili a molte condizioni patologiche come nel caso
dell’esposizione a campi elettromagnetici che può influenzare la
secrezione della melatonina, la quale ha effetti su molti processi fisiologici
tra quali l’invecchiamento, la modulazione del sistema immunitario,
l’inibizione della crescita tumorale e di particolare interesse lo sviluppo di
disturbi neurocomportamentali e di alcune malattie neurodegenerative
quali Alzheimer, Parkinson ecc. Da tempo si discute su quale sia l’impatto
dell’inquinamento ambientale, fisico e chimico sulla genesi e quindi
sull’incidenza e prevalenza delle malattie neurodegenerative.
Gli studi sull’inquinamento ambientale hanno sempre trattato con una
speciale attenzione i vari ecosistemi (acquatico il mare, terrestre campi
agricoli ecc.), focalizzando l’attenzione sul notevole dispendio di energia
e sui problemi sia di carattere economico che concettuali finalizzati ai soli
processi di risanamento delle aree d’interesse, considerando anche, che
l’inquinamento nei paesi più industrializzati ha acquistato carattere
cronico (Bazzanti M. et al., 1997). Inoltre l’argomento assume un
particolare significato quando ha ridondanza mondiale a causa di
incidenti come nel caso di “Minamata” verificatosi appunto nel golfo di
Minamata, in Giappone nei primi anni ’50, dove molti pescatori e le loro
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famiglie, che si nutrivano principalmente dei prodotti della loro pesca,
vennero colpiti da una grave malattia che danneggiava il sistema nervoso
(Inskip & Piotrowski, 1985). Le indagini portarono all’identificazione di
un’elevata concentrazione di metilmercurio nei prodotti ittici pescati
nella baia, e la sorgente dell’inquinamento venne identificata negli
scarichi di una fabbrica limitrofa. Ciò è a supporto del fatto che nelle
indagini ambientali oltre all’aspetto biologico-tossicologico-sanitario
anche l’aspetto più propriamente chimico-analitico è di rilevante
importanza. Per lo svolgimento di tali indagini occorre disporre di
metodi analitici affidabili, sensibili e selettivi in grado di determinare
anche a livelli di tracce le diverse forme in cui si presentano i vari
inquinanti nei vari comparti ambientali (Caricchia A.M. et al., 1997;
Morabito R. et al., 1998).
Ciò è fondamentale ai fini della comprensione del destino ambientale
degli inquinanti chimici (come ad esempio metalli pesanti, mercurio
ecc.) e per la stima dei rischi potenziali, così da poter individuare
possibili aree a rischio e quindi espressioni silenti di possibili malattie.
La corretta individuazione dei parametri chimici effettivamente
correlabili agli indicatori biologici è di fondamentale importanza per una
significativa utilizzazione allo scopo di definire la qualità della vita.
Alla luce di questo prendono un aspetto diverso i vari studi
nell’ambito dei programmi di ricerca (Sturchio E. et al., 2004 e 2005),
ovvero tutti quei lavori sperimentali atti a comprendere in specifico il
bioaccumulo dei diversi inquinanti in alcuni gruppi animali e vegetali di
interesse anche umano, dove il bioaccumulo viene quindi posto in
relazione alle concentrazioni di questi composti chimici nei diversi
ecosistemi per evidenziare le eventuali differenze di distribuzione delle
diverse forme chimiche (es. mercurio e metilmercurio) e alle diverse
abitudini alimentari e di vita degli organismi viventi sia essi facenti parte
della fauna o della flora (Bellicioni S. et al., 1998; De Simone C. et
al.2000; Morabito R. et al., 1999; Rossi G. et al., 1999).
La possibilità di ottenere oltre al dato analitico anche indicazioni di
tipo tossicologico è senza dubbio di notevole interesse applicativo. Tale
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possibilità deriva dal fatto che la determinazioni analitica sfrutta proprio
il meccanismo alla base della tossicità dei composti in esame. Tali
obiettivi permettono di affrontare i problemi riguardanti l’inquinamento
ambientale non solamente con l’ausilio dei dati relativi alle sole indagini
chimico-analitiche ma in un contesto più ampio attraverso valutazioni
più complete, sino a giungere perfino all’identificazione di “indici di
rischio” aventi un significato più complesso, anche e soprattutto da un
pinto di vista biologico e in termini di “salute umana”.
Il presente libro vuole essere un possibile nuovo punto di vista delle
cause/effetto dell’inquinamento ambientale, un nuovo spunto per possibili
correlazioni tra inquinamento ambientale, stili di vita e sviluppo di malattie.
Molte malattie neurodegenerative hanno espressioni fenotipiche a noi
ben note ma che hanno di ben poco noto per quanto riguarda la
genomica e soprattutto i meccanismi di azione e in particolare come le
alterazioni di questi processi metabolici nella complessità dei sistemi
biologici vengano influenzati da fattori genetici ereditari e non, e quindi
come la loro espressione/regolazione (De Fonzo V. et al.2006) possa
determinare o comunque essere elemento comune nelle malattie
neurodegenerative aprendo così un mondo nel comparto della ricerca
scientifica nel campo dell’invisibilmente piccolo come la nuova frontiera
dei microRNA (miRNA).
In conclusione i risultati di questa panoramica delle problematiche
trattate confermano ed evidenziano l’esigenza di integrare più tipi di
metodologie, al fine di ottenere una migliore rappresentazione delle
diverse situazioni di inquinamento ambientale da parte di classe di
contaminanti differenti in relazione anche al tipo di patologia, distrurbo
o indagine sul rischio di malattia per l’uomo, soprattutto in relazione
all’insorgere e sviluppo delle malattie croniche e degenerative, con
particolare intresse a quelle neurodegenerative che sono quelle che più
affligono il genere umano in quanto legate al crescente aumento, se pur
positivo, dell’aspettativa di vita.
Nella letteratura medica degli ultimi anni, diversi autori auspicano
maggiore attenzione alla diagnosi precoce e alla profilassi, quale unica
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via praticabile nel contrastare le malattie degenerative. È sempre meglio
prevenire l’insorgere di una malattia. Un ambiente più pulito, migliori
abitudini alimentari, uno stile di vita salutare e la diagnosi tempestiva
delle malattie comuni riducono i costi sanitari e conducono a una
migliore qualità della vita, cioè ad una minore incidenza delle malattie.
Per testare e controllare i vari composti chimici sono necessari
approcci precauzionali sempre più nuovi che siano anche in grado di
riconoscere in maniera inequivocabile la vulnerabilità cerebrale durante
tutte le fasi dello sviluppo (Grandjean P. e Landrigan P.J., 2006).
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RIASSUNTO DELLE CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO
CLASSE A RR
Nota 65
Prezzo 1.696,20 Euro
Prezzo ex - factory 1.027,75 Euro
I prezzi indicati non comprendono le riduzioni
temporanee
(determinazioni Aifa 2006-2007)
1. DENOMINAZIONE DEL MEDICINALE
Rebif 44 microgrammi soluzione iniettabile
2. COMPOSIZIONE QUALITATIVA E QUANTITATIVA
Una siringa pre-riempita (0,5 ml) contiene 44 microgrammi (12 milioni UI*) di Interferone
beta-1a**.
Eccipienti: 0,5 ml di acqua per preparazioni iniettabili, 22,5 mg di mannitolo, 0,25 mg di
polossamero 188, 0,06 mg di L-metionina, 2,5 mg di alcool benzilico.
Per l’elenco completo degli eccipienti, vedere paragrafo 6.1
* misurato con saggio biologico dell’effetto citopatico (CPE) contro uno standard interno di
IFN beta1a, a sua volta calibrato contro il vigente standard internazionale NIH (GB23902531).
** prodotto tramite cellule ovariche di criceto cinese (CHO-K1) con la tecnica del DNA
ricombinante.
3. FORMA FARMACEUTICA
Soluzione iniettabile.
Soluzione da limpida ad opalescente, con pH da 3,5 a 4,5 e osmolalità da 250 mosmol/l a
450 mosmol/l.
4. INFORMAZIONI CLINICHE
4.1 Indicazioni terapeutiche
Rebif è indicato nel trattamento della sclerosi multipla con recidive.
Negli studi clinici, ciò veniva caratterizzato da due o più esacerbazioni nei due anni
precedenti (vedere paragrafo 5.1).
Non è stata dimostrata l’efficacia nei pazienti con sclerosi multipla secondaria progressiva in
assenza di esacerbazioni (vedere paragrafo 5.1).
4.2 Posologia e modo di somministrazione
Rebif è disponibile in tre dosaggi: 8,8 microgrammi, 22 microgrammi e 44 microgrammi.
La posologia consigliata di Rebif è di 44 microgrammi tre volte a settimana per iniezione
sottocutanea. Rebif 22 microgrammi, sempre tre volte a settimana per iniezione sottocutanea,
è consigliabile per i pazienti che non tollerano il dosaggio più elevato, secondo il parere del
medico. Il trattamento dovrà essere iniziato sotto la supervisione di un medico esperto nel
trattamento della malattia.
Per i pazienti che iniziano il trattamento con Rebif, è disponibile una confezione contenente
Rebif 8,8 microgrammi e Rebif 22 microgrammi, che corrisponde alle necessità del paziente
durante il primo mese di inizio terapia.
Bambini ed adolescenti:
Non sono stati condotti studi clinici o di farmacocinetica su bambini o adolescenti. Tuttavia
i pochi dati pubblicati suggeriscono che il profilo di sicurezza del medicinale in adolescenti
fra 12 e 16 anni di età, che ricevono Rebif 22 microgrammi tre volte alla settimana per
iniezione sottocutanea, è simile a quello osservato in pazienti adulti. Le informazioni sull’uso
di Rebif in bambini al di sotto dei 12 anni di età sono molto limitate e perciò Rebif non deve
essere usato in questa popolazione.
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Prima di effettuare l’iniezione e 24 ore dopo ogni iniezione si consiglia di somministrare un
analgesico antipiretico per attenuare i sintomi simil-influenzali associati alla
somministrazione di Rebif.
Al momento non è noto per quanto tempo i pazienti devono essere trattati. La sicurezza e
l’efficacia di Rebif non sono state dimostrate oltre 4 anni di trattamento. Si raccomanda di
monitorare i pazienti almeno ogni 2 anni nei primi 4 anni di trattamento con Rebif, e la
decisione di proseguire con una terapia a lungo termine sarà presa dal medico in base alla
situazione di ogni singolo paziente.
4.3 Controindicazioni
– Inizio del trattamento in gravidanza (vedere paragrafo 4.6).
– Pazienti con una storia di ipersensibilità all’Interferone beta naturale o ricombinante, o ad
uno qualsiasi degli eccipienti.
– Pazienti attualmente affetti da depressione grave e/o ideazioni suicide (vedere paragrafi 4.4
e 4.8)
4.4 Avvertenze speciali e precauzioni d’impiego
I pazienti devono essere informati sulle più comuni reazioni avverse associate alla
somministrazione di interferone beta, inclusi i sintomi della sindrome simil-influenzale
(vedere paragrafo 4.8). Questi sintomi sono più evidenti all’inizio della terapia e
diminuiscono in frequenza e gravità con il proseguire del trattamento.
Rebif deve essere somministrato con cautela ai pazienti con disturbi depressivi pregressi o in
corso ed in particolare a quelli con precedenti ideazioni suicide (vedere paragrafo 4.3). È noto
che depressione e ideazioni suicide sono presenti con maggior frequenza nella popolazione
dei malati di sclerosi multipla ed in associazione con l’uso dell’interferone. I pazienti in
trattamento con Rebif devono essere avvisati di riferire immediatamente al loro medico
l’eventuale comparsa di sintomi depressivi o ideazioni suicide. I pazienti affetti da depressione
devono essere tenuti sotto stretto controllo medico durante la terapia con Rebif e trattati in
modo appropriato. La sospensione della terapia con Rebif deve essere presa in considerazione
(vedere anche paragrafi 4.3 e 4.8).
Rebif deve essere somministrato con cautela ai pazienti con una storia di epilessia, a quelli in
trattamento con farmaci anti-epilettici ed in particolare se la loro epilessia non è
adeguatamente controllata dagli anti-epilettici (vedere paragrafi 4.5 e 4.8).
I pazienti con malattia cardiaca, quale angina, scompenso cardiaco congestizio o aritmie,
devono essere tenuti sotto stretto controllo per osservare eventuali peggioramenti delle loro
condizioni cliniche durante l’inizio della terapia con Interferone beta-1a. I sintomi della
sindrome simil-influenzale associati alla terapia con Interferone beta-1a possono essere fonte
di stress nei pazienti con problemi cardiaci.
Sono stati descritti casi di necrosi sul sito di iniezione (NSI) in pazienti in terapia con Rebif
(vedere paragrafo 4.8). Per ridurre al minimo il rischio di necrosi sul sito di iniezione i
pazienti devono essere informati:
• di usare tecniche di iniezione asettiche
• di variare il sito di iniezione ad ogni dose.
Le procedure per l’auto-somministrazione devono essere periodicamente riesaminate
soprattutto se si sono verificate reazioni nel sito di iniezione.
Se il paziente presenta un qualsiasi tipo di lesione cutanea, accompagnata da edema o
essudazione dal sito di iniezione, il paziente deve essere avvisato di consultare il proprio
medico prima di continuare le iniezioni di Rebif. Se i pazienti presentano lesioni multiple,
Rebif deve essere interrotto fino alla completa cicatrizzazione delle lesioni. I pazienti con
lesioni singole possono continuare la terapia se la necrosi non è troppo estesa.
In studi clinici con Rebif aumenti asintomatici dei livelli delle transaminasi epatiche (in
particolare alanina-aminotransferasi (ALT)) sono stati frequenti e una percentuale pari al 1208
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3% dei pazienti ha sviluppato incrementi delle transaminasi epatiche alti più di 5 volte il
limite superiore della norma. In assenza di sintomi clinici, i livelli sierici di ALT devono essere
monitorati prima dell’inizio della terapia e a 1, 3 e 6 mesi dall’inizio della terapia, e in seguito,
controllati periodicamente. Una riduzione della dose di Rebif deve essere presa in
considerazione nel caso i livelli di ALT siano alti più di 5 volte il limite superiore della norma
e la dose deve essere gradualmente riaumentata quando i livelli enzimatici si normalizzano.
Rebif deve essere somministrato con cautela nei pazienti con anamnesi di patologie epatiche
significative o evidenza clinica di patologia epatica in forma attiva o abuso di alcool o
incremento dei livelli di ALT (>2,5 volte i limiti superiori della norma). Il trattamento con
Rebif deve essere interrotto in caso di comparsa di ittero o altri sintomi clinici di disfunzione
epatica (vedere paragrafo 4.8).
Rebif, come altri interferoni beta, può causare danni epatici gravi (vedere paragrafo 4.8), tra
cui l’insufficienza epatica acuta. Non è noto il meccanismo d’azione dei rari casi di
disfunzione epatica sintomatica. Non sono stati identificati specifici fattori di rischio.
All’impiego di interferoni sono associate alterazioni degli esami di laboratorio. L’incidenza
globale di queste alterazioni è leggermente più alta con Rebif 44 microgrammi che con Rebif
22 microgrammi. Pertanto, oltre ai test di laboratorio normalmente richiesti per monitorare i
pazienti con la sclerosi multipla, si raccomanda di eseguire il monitoraggio degli enzimi
epatici, e la conta leucocitaria con formula e la conta delle piastrine ad intervalli regolari (1,3
e 6 mesi) dopo l’inizio della terapia con Rebif e in seguito periodicamente anche in assenza
di sintomi clinici. Questi controlli dovrebbero essere più frequenti quando si inizia la terapia
con Rebif 44 microgrammi. I pazienti in trattamento con Rebif, possono occasionalmente
sviluppare alterazioni alla tiroide o peggioramento di alterazioni preesistenti. Un test di
funzionalità tiroidea deve essere effettuato al basale e, se alterato, ripetuto ogni 6-12 mesi
dall’inizio del trattamento. Se i valori sono normali al basale, non è necessario un esame di
controllo che deve invece essere effettuato qualora si manifesti una sintomatologia clinica di
disfunzione tiroidea (vedere anche paragrafo 4.8).
Cautela e stretta sorveglianza devono essere adottate nella somministrazione dell’Interferone
beta-1a a pazienti con grave insufficienza renale ed epatica e a pazienti con grave
mielosoppressione. Possono svilupparsi anticorpi neutralizzanti anti-Interferone beta-1a.
L’esatta incidenza di tali anticorpi non è ancora definita. I dati clinici suggeriscono che tra i
24 e 48 mesi di trattamento con Rebif 44 microgrammi, circa il 13 – 14% dei pazienti
sviluppa anticorpi sierici persistenti contro l’Interferone beta-1a. E’ stato dimostrato che la
presenza di anticorpi attenua la risposta farmacodinamica all’Interferone beta-1a (Beta-2
microglobulina e neopterina). Sebbene l’importanza clinica della comparsa degli anticorpi
non sia stata completamente chiarita, lo sviluppo di anticorpi neutralizzanti si associa ad una
riduzione dell’efficacia su parametri clinici e di risonanza magnetica.
Qualora un paziente dimostri una scarsa risposta alla terapia con Rebif ed abbia sviluppato
anticorpi neutralizzanti, il medico rivaluterà il rapporto beneficio/rischio per proseguire o
meno il trattamento con Rebif. L’uso di vari metodi per la determinazione degli anticorpi
sierici e le diverse definizioni di positività degli anticorpi limitano la possibilità di confrontare
l’antigenicità tra prodotti differenti.
Solo scarsi dati di sicurezza ed efficacia sono disponibili nei pazienti, non in grado di
deambulare, affetti da sclerosi multipla.
4.5 Interazioni con altri medicinali ed altre forme d’interazione
Non sono stati effettuati studi di interazione con Rebif (Interferone beta-1a) nell’uomo.
È noto che gli interferoni riducono l’attività degli enzimi dipendenti dal citocromo epatico
P450 nell’uomo e negli animali. Occorre prestare attenzione quando si somministra Rebif in
associazione ad altri farmaci con stretto indice terapeutico e in larga misura dipendenti per la
loro eliminazione dal sistema epatico del citocromo P450, quali antiepilettici ed alcune classi
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di antidepressivi. Non è stata studiata in maniera sistematica l’interazione di Rebif con
corticosteroidi o ACTH. Studi clinici indicano che i pazienti con sclerosi multipla possono
essere trattati con Rebif e corticosteroidi o ACTH durante le riacutizzazioni.
4.6 Gravidanza e allattamento
Gravidanza
Sull’uso di Rebif in gravidanza, sono disponibili informazioni limitate. I dati disponibili
indicano che si potrebbe verificare un aumento del rischio di aborto spontaneo. L’inizio del
trattamento in gravidanza è controindicato (vedere paragrafo 4.3).
Donne in età fertile
Le donne in età fertile devono adottare opportune misure contraccettive.
Le pazienti in trattamento con Rebif che iniziano una gravidanza o che hanno desiderio di
avere figli devono essere informate sui rischi potenziali e sulla possibilità di interrompere il
trattamento (vedere paragrafo 5.3). Nelle pazienti che, prima dell’inizio del trattamento,
presentano un elevato tasso di ricadute, deve essere valutata, in caso di gravidanza, la
decisione di interrompere il trattamento con Rebif, rischiando una grave ricaduta o di
proseguire il trattamento con Rebif, aumentando il rischio di aborto spontaneo.
Allattamento
Non è noto se Rebif venga escreto nel latte materno. Tenuto conto del potenziale rischio di
gravi effetti collaterali nei lattanti, è necessario decidere se interrompere l’allattamento o la
terapia con Rebif.
4.7 Effetti sulla capacità di guidare veicoli e sull’uso di macchinari
Sebbene riportati con frequenza ridotta, gli eventi avversi a livello del sistema nervoso
centrale associati all’uso dell’interferone beta, possono alterare la capacità di guidare veicoli
o di usare macchinari da parte del paziente (vedere paragrafo 4.8).
4.8 Effetti indesiderati
a) Descrizione generale
La più alta incidenza di reazioni avverse associate al trattamento con Rebif è correlata alla
sindrome simil-influenzale. I sintomi simil-influenzali tendono ad essere maggiori all’inizio
del trattamento e a diminuire di frequenza con il proseguimento del trattamento. Durante i
primi 6 mesi di trattamento con Rebif il 70% circa dei pazienti potrebbe manifestare i sintomi
della sindrome simil-influenzale caratteristica dell’interferone. In molti pazienti si osservano
anche reazioni nel sito di iniezione, quali lievi infiammazioni o eritema. Sono frequenti
aumenti asintomatici dei parametri di funzionalità epatica e riduzioni della conta leucocitaria.
La maggior parte delle reazioni avverse osservate durante il trattamento con l’interferone beta1a sono lievi e reversibili, e rispondono bene a riduzioni del dosaggio. Nel caso di effetti
indesiderati gravi o persistenti, a discrezione del medico, la dose di Rebif può essere
temporaneamente ridotta o sospesa.
b) Frequenza delle reazioni avverse
Le reazioni avverse riportate di seguito sono classificate in base alla loro frequenza:
Molto comuni
≥ 1/10
Comuni
≥ 1/100 – <1/10
Non comuni
≥ 1/1.000 – <1/100
Rare
≥ 1/10.000 – <1/1.000
Molto rare
< 1/10.000
All’interno di ciascuna classe di frequenza, gli effetti indesiderati sono riportati in ordine
decrescente di gravità.
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Reazioni avverse rilevate nel corso di studi clinici: i dati sono stati estrapolati dai diversi
studi clinici nella sclerosi multipla (placebo = 824 pazienti; Rebif 22 microgrammi tre volte
alla settimana = 398 pazienti; Rebif 44 microgrammi tre volte alla settimana = 727 pazienti)
e mostrano la frequenza delle reazioni avverse osservate a 6 mesi (in eccesso rispetto al
gruppo trattato con placebo). Le reazioni avverse sono elencate di seguito in base alla loro
frequenza e al sistema di classificazione organi medDRA
Classificazione per sistemi e Molto comuni
organi
(≥1/10)
Comuni
(≥ 1/100, <1/10)
Infezioni e infestazioni
Patologie del sistema
emolinfopoietico
Ascesso al sito di
iniezione
Neutropenia,
linfopenia, leucopenia,
trombocitopenia,
anemia
Patologie endocrine
Disfunzione tiroidea
che si manifesta più
frequentemente come
ipotiroidismo o
ipertiroidismo
Disturbi psichiatrici
Patologie del sistema
nervoso
Depressione, insonnia
Cefalea
Patologie gastrointestinali
Diarrea, vomito,
nausea
Patologie della cute e del
tessuto sottocutaneo
Prurito, rash, rash
eritematoso, rash
maculo-papulare
Patologie del sistema
muscoloscheletrico e del
tessuto connettivo
Mialgia, artralgia
Patologie sistemiche e
Infiammazione al sito
condizioni relative alla sede di iniezione, reazione
di somministrazione
al sito di iniezione,
sindrome similinfluenzale
Dolore al sito di
iniezione, astenia,
brividi, febbre
Esami diagnostici
Non comuni (≥
1/1,000, <1/100)
Necrosi al sito di
iniezione, nodulo al
sito di iniezione
Aumento asintomatico
delle transaminasi
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Reazioni avverse rilevate durante la fase post-marketing (frequenza sconosciuta)
Infezioni e infestazioni: infezioni al sito di iniezione, inclusa la comparsa di cellulite
Disturbi del sistema immunitario: reazioni anafilattiche
Disturbi psichiatrici: tentativo di suicidio
Patologie del sistema nervoso: epilessia
Patologie vascolari: eventi tromboembolici
Patologie epatobiliari: epatiti con o senza ittero
Patologie della cute e del tessuto sottocutaneo: angioedema, orticaria, eritema multiforme,
reazioni cutanee simil-eritema multiforme, alopecia
c) Informazioni su gravi reazioni avverse rare e/o frequenti
Rebif, come altri interferoni beta, può causare danni epatici gravi. Non è noto il meccanismo
d’azione dei rari casi di disfunzione epatica sintomatica. La maggior parte dei casi di danno
epatico grave si manifesta durante i primi sei mesi di trattamento. Non sono stati identificati
specifici fattori di rischio. Il trattamento con Rebif deve essere interrotto in caso di comparsa
di ittero o di altri sintomi clinici di disfunzione epatica (vedere paragrafo 4.4)
d) Reazioni avverse associabili alla classe farmacologica
La somministrazione di interferoni è stata associata alla comparsa di anoressia, vertigini,
ansia, aritmie, vasodilatazione, palpitazioni, menorragia e metrorragia.
Un’aumentata produzione di autoanticorpi può svilupparsi durante il trattamento con
interferone beta.
4.9 Sovradosaggio
In caso di sovradosaggio i pazienti devono essere ricoverati in ospedale in osservazione e
deve essere adottata una opportuna terapia di supporto.
5. PROPRIETÀ FARMACOLOGICHE
5.1 Proprietà farmacodinamiche
Categoria farmacoterapeutica: citochine, codice ATC: L03 AB.
Gli interferoni (IFNs) sono un gruppo di glicoproteine endogene dotate di proprietà
immunomodulatorie, antivirali e antiproliferative.
Rebif (Interferone beta-1a) possiede la stessa sequenza aminoacidica dell’interferone beta
naturale umano. Viene prodotto in cellule di mammifero (cellule ovariche di criceto cinese)
ed è quindi glicosilato come la proteina naturale.
L’esatto meccanismo di azione del Rebif nella sclerosi multipla è ancora oggetto di studio.
La sicurezza e l’efficacia di Rebif sono state valutate in pazienti con sclerosi multipla di tipo
recidivante-remittente a dosaggi compresi fra 11 e 44 microgrammi (3-12 milioni UI),
somministrati per via sottocutanea 3 volte a settimana. Ai dosaggi autorizzati, è stato
dimostrato che Rebif 44 microgrammi riduce l’incidenza (circa il 30% in 2 anni) e la gravità
delle esacerbazioni nei pazienti con almeno 2 ricadute nei 2 anni precedenti e con un
punteggio EDSS tra 0-5,0 all’ingresso nello studio. La percentuale dei pazienti con
progressione della disabilità, definita come incremento di almeno un punto della scala EDSS
confermato dopo tre mesi, è stata ridotta dal 39% (placebo) al 27% (Rebif 44 microgrammi).
Nel corso di 4 anni, la riduzione del livello di esacerbazioni si è ridotto in media del 22% in
pazienti trattati con Rebif 22 microgrammi e del 29% nei pazienti trattati con Rebif 44
microgrammi rispetto ad un gruppo di pazienti trattati con placebo per 2 anni e
successivamente con Rebif 22 o 44 microgrammi per 2 anni.
In uno studio della durata di 3 anni in pazienti con sclerosi multipla secondaria progressiva
(EDSS 3-6,5) con evidenza di progressione clinica nei due anni precedenti e che non hanno
manifestato ricadute nelle 8 settimane precedenti, Rebif non ha mostrato effetti significativi
sulla progressione della disabilità, ma ha ridotto la frequenza di esacerbazioni di circa il 30%.
Se la popolazione dei pazienti viene divisa in 2 sottogruppi (quelli con e quelli senza
esacerbazioni nei 2 anni precedenti all’arruolamento nello studio) nel gruppo di pazienti
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senza esacerbazioni non si osserva alcun effetto sulla disabilità mentre nel gruppo di pazienti
con esacerbazioni, la percentuale di quelli che hanno mostrato una progressione della
disabilità alla fine dello studio è risultata ridotta dal 70% (placebo) al 57% (Rebif 22
microgrammi e Rebif 44 microgrammi). Questi risultati, ottenuti in un sottogruppo di
pazienti in un’analisi a posteriori, devono essere interpretati con cautela.
Rebif non è stato ancora studiato in pazienti con sclerosi multipla primaria progressiva,
quindi non deve essere utilizzato in questo gruppo di pazienti.
5.2 Proprietà farmacocinetiche
Nei volontari sani, dopo somministrazione endovena, l’Interferone beta-1a presenta un
declino multi-esponenziale rapido, con livelli sierici proporzionali alla dose somministrata.
L’emivita iniziale è dell’ordine di minuti e quella terminale è di molte ore, per la possibile
presenza di un comparto profondo. Quando somministrato per via sottocutanea o
intramuscolare, i livelli sierici di interferone beta rimangono bassi, ma sono ancora misurabili
fino a 12 - 24 ore dopo la somministrazione. Ai fini dell’esposizione dell’organismo
all’interferone beta le vie di somministrazione sottocutanea e intramuscolare di Rebif sono
equivalenti. Dopo una singola dose di 60 microgrammi, la massima concentrazione
plasmatica, misurata con saggio immunologico, è compresa tra 6 e 10 UI/ml, raggiunta in un
tempo medio di circa 3 ore dopo la somministrazione. Dopo la somministrazione
sottocutanea di dosi uguali ripetute ogni 48 ore per 4 volte, si osserva un modesto fenomeno
di accumulo (circa 2,5 x AUC). Indipendentemente dalla via di somministrazione, evidenti
modificazioni della farmacodinamica sono associate alla somministrazione di Rebif. Dopo una
dose singola, l’attività intracellulare e sierica della 2-5A sintetasi e le concentrazioni sieriche
di beta2-microglobulina e neopterina aumentano entro 24 ore, e iniziano a diminuire entro
i 2 giorni successivi. Le somministrazioni intramuscolare e sottocutanea producono risposte
del tutto sovrapponibili. Dopo somministrazioni sottocutanee ripetute, ogni 48 ore per 4
volte, queste risposte biologiche rimangono elevate, senza alcun segno di sviluppo di
fenomeni di tolleranza.
L’Interferone beta-1a viene prevalentemente metabolizzato ed escreto dal fegato e dai reni.
5.3 Dati preclinici di sicurezza
I dati non-clinici non rilevano rischi particolari per l’uomo sulla base di studi convenzionali
di safety pharmacology, tossicità a dosi ripetute e genotossicità.
Non sono stati effettuati studi di cancerogenesi con Rebif.
È stato condotto uno studio di tossicità embrio-fetale nelle scimmie che ha mostrato l’assenza
di effetti sulla riproduzione. Sulla base di osservazioni con altri interferoni alfa e beta non si
può escludere un aumentato rischio di aborto. Non sono attualmente disponibili
informazioni sugli effetti dell’Interferone beta-1a sulla fertilità maschile.
6. INFORMAZIONI FARMACEUTICHE
6.1 Elenco degli eccipienti
Mannitolo
Polossamero 188
L-metionina
Alcool benzilico
Sodio acetato
Acido acetico
Sodio idrossido
Acqua per preparazioni iniettabili
6.2 Incompatibilità
Non pertinente.
6.3 Periodo di validità
18 mesi.
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6.4 Precauzioni particolari per la conservazione
Conservare in frigorifero (2°C - 8°C). Non congelare. Conservare nella confezione originale
per tenerlo al riparo dalla luce.
6.5 Natura e contenuto del contenitore
Rebif 44 microgrammi (Interferone beta-1a) è disponibile in confezioni da 1, 3 o 12 dosi
individuali (0,5 ml) in siringa di vetro di tipo I da 1 ml con ago in acciaio inossidabile.
È possibile che non tutte le confezioni siano commercializzate.
6.6 Precauzioni particolari per lo smaltimento e la manipolazione
La soluzione iniettabile in siringa pre-riempita è pronta per l’uso. Il prodotto può anche
essere somministrato con un autoiniettore compatibile.
Il prodotto non utilizzato ed i rifiuti derivati da tale medicinale devono essere smaltiti in
conformità ai requisiti di legge locali.
Solo per monosomministrazione. Usare unicamente una soluzione da limpida ad opalescente
che non contenga particelle e segni visibili di deterioramento.
7. TITOLARE DELL’AUTORIZZAZIONE ALL’IMMISSIONE IN COMMERCIO
SERONO EUROPE LIMITED
56, Marsh Wall
Londra E14 9TP
Gran Bretagna
8. NUMERI DELLE AUTORIZZAZIONI ALL’IMMISSIONE IN COMMERCIO
EU/1/98/063/004
EU/1/98/063/005
EU/1/98/063/006
9. DATA DELLA PRIMA AUTORIZZAZIONE/ RINNOVO DELL’AUTORIZZAZIONE
Data della prima autorizzazione: 4 Maggio 1998
Data dell’ultimo rinnovo: 4 Giugno 2003
10. DATA DI REVISIONE DEL TESTO
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Istituto Italiano di Medicina Sociale
Via Pasquale Stanislao Mancini 28
00196 Roma
Tel. 06 3200642/3
www.iims.it
Open Archive: http://e-ms.cilea.it
1ª edizione, novembre 2007
ISBN
978-88-87098-64-8
Coordinamento editoriale
Paolo Ferrazza
Grafica
Pubblishock srl - Roma
Il presente volume è disponibile sul sito www.iims.it.
La riproduzione è libera, con qualsiasi mezzo effettuata
compresa la fotocopia, salvo citare la fonte.
Paolo Ferrazza, laurea specialistica in biologia con indirizzo Biochimico-Fisiologico,
Specialista in Biologia Molecolare. Ha dedicato molti anni in laboratorio alla ricerca
di base in genetica molecolare umana e successivamente sulla tossicità e
mutagenesi ambientale. Da molti anni si dedica alle ricerche cliniche sul sistema
nervoso centrale, sta costituendo un gruppo di lavoro che si occupi di avviare delle
ricerche con l’intento di mettere in relazione quanto più possibile i fattori ambientali
e sociali con le malattie neurodegenerative. Attualmente è responsabile delle
ricerche cliniche nella direzione medica di una società multinazionale, Advisor
Scientifico della CRO Opera Srl, consulente di ricerca dell’Istituto Neurologico
Mediterraneo NEUROMED.
Paola Soldati, laurea specialistica in Biologia specializzata in Chimica e Tecnologia
delle Sostanze Organiche Naturali. Ha dedicato molti anni alla ricerca di base nel
campo della tossicologia ambientale, successivamente ha lavorato sia in laboratorio
nell’ambito del controllo qualità per poi dedicarsi all’attività di ricerca clinica orientata
alle malattie neurodegenerative.
Andrea Fausto Lijoi, laurea specialistica in Psicologia Clinica e di Comunità, ha
lavorato per dieci anni nei servizi sociali di sostegno ai disabili Psichiatrici, da molti
anni si occupa di ricerca in campo Neuropsicologica. Attualmente lavora presso la
Contract Research Organization Opera Srl come advisor della Neuropsicologica.
Elena Sturchio, laurea specialistica in Biologia specializzata in Patologia Clinica, ha
lavorato molti anni all’attività di ricerca in Biologia Molecolare applicata alla Tossicità
Ambientale. Attualmente è ricercatrice presso l’Istituto Superiore di Prevenzione e
Sicurezza Lavoro (ISPESL) e si occupa di sviluppo di biomarcatori di geno tossicità
e di studi sul rapporto causa-effetto tra geni e stress ambientali.
Membro della Commissione Interministeriale di Valutazione per le Biotecnologie.
Esperto ISPELS della Commissione Interministeriale di Valutazione sugli organismi
geneticamente modificati.
Barbara Ficociello, laurea specialistica in Biologia specializzata in Microbiologia e
Virologia, ha svolto attività di ricerca nell’ambito della patologia clinica . Attualmente
svolge attività di ricerca presso l’Istituto Superiore di prevenzione e Sicurezza Lavoro
( ISPESL) nel campo della Tossicologia e Mutagenesi Ambientale.
Andrea Paolillo. Medico neurologo, dottore di ricerca in Neuroscienze, ha svolto
per alcuni anni attività di ricerca in Neurologia e in Neuroradiologia, autore di
numerose pubblicazioni sulle malattie neurodegenerative, attualmente responsabile
dell’area neurologica di un’importante società farmaceutica multinazionale.
Copertina
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Pagina 1
A cura di:
PAOLO FERRAZZA
ELENA STURCHIO
Autori:
Depositato presso l’AIFA in data 27/11/07
PAOLO FERRAZZA
ELENA STURCHIO
PAOLA SOLDATI
BARBARA FICOCIELLO
ANDREA FAUSTO LIJOI
ANDREA PAOLILLO
Spunti per possibili correlazioni e
approccio allo sviluppo cognitivo
Presentazione e revisione
Dott. GIOVANNI MARIA PIRONE
Si ringrazia per il prezioso contributo:
Pubblicazione fuori commercio
PAOLO FERRAZZA
ELENA STURCHIO
Codice IMM0224
Marcella Valente Neurologa
Ada Mariggiò Psicologa, Psicoterapeuta
Franco Barattini Direttore Medico Opera Srl.
Istituto Italiano di Medicina Sociale