La delinquenza organizzata in Campania la società in cui si
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La delinquenza organizzata in Campania la società in cui si
2. La delinquenza organizzata in Campania e la società in cui si sviluppa “Ogni sforzo sarà vano se, nel tempo stesso in cui si cerca di estirpare il male con mezzi repressivi, non si adoperano efficacemente i mezzi preventivi. Io non mi stancherò mai di ripeterlo: finchè dura lo stato presente di cose, la camorra è la forma naturale e necessaria della società che ho descritto. Mille volte estirpata, rinascerà mille volte”. (Pasquale Villari, 1885). 2.1 Che cos’è la camorra “Parafrasando Tolstoj nell’incipit di Anna Karenina si potrebbe affermare che ogni territorio senza criminalità è felice allo stesso modo, ogni territorio dominato dalla criminalità è, invece, infelice ciascuno a suo modo” (Sales Isaia, 2006, P. 7). Non tutto il crimine presente in Italia è di tipo mafioso, sul piano giudiziario si è giunti a definire che cosa sia “un’associazione di stampo mafioso”, ma, in realtà, dal punto di vista storico, antropologico, sociologico si commetterebbe un gravissimo errore nell’accomunare sotto l’unica definizione di “mafia italiana” fenomeni criminali profondamente diversi l’un dall’altro per origine, modalità di sviluppo, ambiente sociale, rapporti con il mondo esterno. La camorra non è la 30 Mafia. Questa affermazione non vuole assolutamente ridimensionare il fenomeno. Quando parliamo di Mafia, bene o male, conosciamo l’universo a cui ci stiamo riferendo, immediatamente è chiaro che Mafia è un comportamento ed un’organizzazione al tempo stesso. Quando parliamo di Camorra la questione si fa decisamente più complessa. Usare il termine camorra per indicare una particolare criminalità organizzata non è corretto. Non esiste a Napoli o in Campania un’unica organizzazione cui fanno riferimento tutti i malavitosi che vi operano, né tanto meno il termine camorra sottolinea un’élite criminale che si differenzia dalla delinquenza comune. Camorra è un termine convenzionale cui non corrisponde nulla di concreto. Tutto è la camorra tranne che un’organizzazione centralizzata, non esiste la camorra esistono le bande di camorra, le quali, però, non sono riunite in una federazione di bande criminali, non vi è alcuna consuetudine all’intesa, come generalmente, invece, avviene nella Mafia. Non esiste un fenomeno criminale unico, centralizzato, che prevede una strategia d’azione unitaria e conforme a cui tutte le bande, i clan e gli uomini violenti, che si definiscono camorristi, debbano fare riferimento. La camorra è l’unione tra criminalità comune, criminalità organizzata e criminalità d’élite (Sales Isaia, conferenza, 16 maggio 2006). “Per camorra intendiamo, dunque quel insieme di clan e di bande uniti dalla specificità delle azioni criminali e dal comune contesto 31 in cui operano, piuttosto che dalle comuni modalità organizzative di operare” (Sales Isaia, 2006, p. 8). Camorra sono, quindi, le attività che svolgono i camorristi. È necessario sottolineare che finora è stato impossibile e, in futuro sarà improbabile, dare vita, da parte dei camorristi, a un’organizzazione centralizzata, con una struttura organica e una strategia d’azione comune. Apparentemente questo potrebbe sembrare un difetto, ma così non è, anzi, la forza della camorra e la sua pericolosità sociale stanno proprio nella sua frammentazione. “Se fosse rimasta un’organizzazione centralizzata non avrebbe superato la soglia del Novecento, come avvenne per tutte le forme di criminalità urbane preindustriali delle grandi capitali dell’Europa” (Sales Isaia, 2006, p. 9). La vita economica e sociale di Napoli e del suo Hinterland è caratterizzata da diffuse e stabili forme di illegalità, le quali erano meno palesi prima e durante il fascismo e che diventarono sempre più evidenti ed esplosive dal secondo dopoguerra ad oggi; la frammentazione della camorra si è dimostrata la forma più adatta in grado di farla aderire a tutte le attività illegali presenti nel territorio. La camorra si adegua a tutte le vie illegali che muovono la città di Napoli, le domina, le organizza. Da dove deriva il termine camorra? Gli storici hanno dato differenti interpretazioni. Una fa riferimento al modo in cui il camorrista vestiva, questo indossava una sorta di divisa, una giacca corta detta 32 “gumurra”, da qui deduzioni sulla derivazione della camorra napoletana da una confraternita spagnola nata nel Quattrocento la “Guarduna” i cui membri indossavano, appunto, questa particolare giacca, oppure dai Gamurri, i briganti che vivevano nelle montagne spagnole. Un’ altra interpretazione si riferisce al carattere rissoso del camorrista, per cui il termine camorra deriverebbe dal corrispettivo castigliano di far rissa. La spiegazione più convincente, però, rinvia ad un gioco molto popolare a Napoli, il gioco della morra. Il camorrista era colui che dirigeva il gioco, che prendeva i soldi su di esso. Non a caso, con il passar del tempo, il termine camorra si è sempre più legato, non tanto ad una particolare organizzazione criminale vista in quanto struttura, ma piuttosto come una sorta di tassa sulle attività illegali, cioè il termine camorra stava ad indicare l’estorsione. La camorra è l’unica forma di criminalità organizzata che prende il nome dall’attività che svolge, l’estorsione, e dal ricavo di questa attività, la tangente. “Fare la camorra vuol dire, infatti, estorcere un guadagno da parte di chi è in grado di minacciare o esercitare violenza in caso di rifiuto; prendersi la camorra o esigere la camorra vuol dire capacità di acquisire una tangente da qualsiasi mestiere o professione esercitati”. “Dunque il camorrista è colui che aderisce alla camorra (specifica organizzazione criminale), è, al tempo stesso, colui che esercita la camorra (una specifica attività delinquenziale, l’estorsione, appunto) ed è colui che prende la camorra (la cosa estorta, la tangente tramite la sua attività).” (Sales Isaia, 2006, p. 70). 33 La camorra è plateale, basti pensare al semplice fatto che il significato dello stesso termine non nasconde assolutamente la sua natura delinquenziale e non fa riferimento a qualcosa di “onorifico”. Se la Mafia è omertà ed è legata alla cultura del nascondersi, la camorra è ostentazione ed è legata alla cultura del mostrare. Non a caso i camorristi non si nascondono e non si sono mai nascosti, nel quartiere, nel rione, tutti, chiunque sanno chi è il camorrista il quale enfatizza i segni vistosi del proprio benessere. La camorra ottiene i suoi introiti sulle altre attività illegali e una banda si può definire di camorra quando riesce ad imporre le tangenti alle altre bande. Tra gli scopi primi della camorra c’era quello di disciplinare la violenza e le transazioni legali e illecite. A Napoli vi erano una serie di attività illegali, largamente diffuse come la prostituzione, il gioco d’azzardo, il lotto clandestino, tutte “attività economiche” che si svolgevano liberamente ma che non erano tassate dallo stato, se queste attività venivano comunque svolte e producevano comunque un reddito era necessario tassarle, quindi: “camorra come tassa sulle attività illegali riscossa dalla malavita e non dall’ autorità statale”(Sales Isaia, 2006, p. 78). Coloro che subivano l’estorsione non potevano rivolgersi alla polizia o chiedere la protezione dello stato perché svolgevano un’attività illegale, chi subiva non poteva far altro che accettare perché la sua occupazione era fuori legge. La camorra diviene, dunque, un’autorità, che attraverso il pagamento della tangente, permette lo svolgimento 34 delle attività proibite dalla legge: “una tassa illegale che autorizzava l’illegalità”. La camorra si è sviluppata in un tessuto urbano piuttosto caratteristico: i vecchi vicoli e i bassi, stanze a livello della strada senza alcuna finestra. Fortunatamente oggi molti bassi sono stati tramutati in piccoli esercizi commerciali, botteghe oppure in abitazioni più vivibili e di tipo diverso da quelle di una volta. La famiglia che vive in un vecchio basso non può chiudere la porta d’ingresso, questa deve rimanere necessariamente aperta, perché non esiste nessun’altra finestra o porta attraverso cui possano entrare l’aria e la luce. All’interno del basso, in uno spazio incredibilmente piccolo, vivono intere famiglie, spesso piuttosto numerose, queste sono obbligate ad allargare, nel vero senso della parola, la propria abitazione nel vicolo, che spesso risulta più ospitale del luogo in cui dormono. Ecco che davanti ai bassi, nel vico, troviamo mamme che guardano i propri bimbi giocare, nonne sedute sulle sedie che chiacchierano tra di loro o che fanno l’uncinetto, il vicolo diviene un vero e proprio salotto. “Così, per ragioni di semplice strutturazione del territorio abitativo, si forma una comunità, una comunità di vicinato, la comunità del vicolo, una specie di plurifamiglia. Il territorio esterno al basso non è più considerato pubblico, cioè di tutti, ma considerato come privato, semplice prolungamento del basso e della propria abitazione” (Sales Isaia, 2006, p. 63). 35 Possiamo parlare di appropriazione privata degli spazi pubblici da parte delle famiglie che costruiscono rapporti interfamigliari stabili e duraturi, tutti sanno tutto di tutti, si litiga, si discute, ci si riappacifica, ci si aiuta, tutto davanti all’intera collettività che cresce e vive nel vicolo. Ciò spiega anche lo stretto rapporto che i napoletani hanno con la propria città, ma soprattutto con il proprio quartiere, il proprio rione. È necessario che in questo contesto qualcuno svolga la funzione di regolatore sociale, che dia delle norme in un ambiente che potrebbe scoppiare da un momento all’altro, c’è bisogno di qualcuno che contenga gli animi dei prepotenti. Questo ruolo non viene assunto, come si potrebbe pensare e prevedere dallo Stato, ma dalla camorra che è parte naturale della struttura urbana sopra descritta. La polizia, la legge, intervengono solo nel caso in cui non sia possibile tenere segreta un’azione, come un omicidio, che ha portato conseguenze divenute di dominio pubblico: per tutte le altre questioni c’è la camorra. Eduardo De Filippo in una sua celebre opera “il Sindaco del rione Sanità” scrive del camorrista come di un’autorità per ‹‹limitare la catena dei reati e dei delitti›› (Eduardo De Filippo, in Teatro, 1979, p. 686). Nei vicoli i bambini crescono tutti insieme, tra di loro si individua un capo naturale che diviene il punto di riferimento costante che, pur non avendo nessun tipo di legame familiare con gli altri ragazzi, assume la figura paterna di regolatore che invece è svolta effettivamente dal genitore nella famiglia. Questo spiega perché all’interno della camorra non ci sia una forte ereditarietà familiare 36 trasmessa dai padri ai figli e perché non vi sia una struttura patriarcale. Non è detto che il figlio di un boss sarà un boss, se non ha le qualità adatte non erediterà il controllo della banda. Il boss è un capo naturale. Le gerarchie cambiano velocemente e soprattutto non si basano sul prestigio familiare, ma piuttosto sul prestigio criminale, sulla violenza che porta autorità e autorevolezza. Nella mafia troviamo boss anche molto anziani, nella camorra è rarissimo trovare un boss che superi i sessant’anni e generalmente gli affiliati hanno intorno ai trent’anni. Molte attività illegali non sarebbero possibili senza la presenza di un contesto amico o almeno tollerante, “la camorra esercita, infatti, la propria influenza su un ampio strato sociale che non coincide del tutto con quello delinquenziale” (Sales Isaia, 2006, p. 67). Molti non coprono le attività illegali per omertà ma per assuefazione, sono abituati a convivere con l’illecito, lo considerano normale e ne trovano una giustificazione nella condizione in cui vivono e che li circonda. Per comprendere con più precisione che cosa sia oggi la camorra è necessario andare indietro nel tempo. 37 2.2 Il rapporto tra sottosviluppo, modernità e la questione meridionale Tra il tredicesimo ed il quindicesimo secolo si andava costruendo il predominio della grande città attorno a cui tutto ruotava: Napoli. Tale predominio si confermò nel Cinquecento. Napoli aveva “raggiunto uno splendore difficilmente eguagliabile che si esprimeva nella magnificenza della sua nobiltà, nell’autorità dei suoi tribunali, nell’attività dei suoi artigiani, e nella dimensione e varietà dei suoi commerci” (Pasquale Villani, 1990, p. 7). Napoli, era una magnifica città, che offriva moltissime opportunità, pertanto divenne la meta di un fortissimo flusso migratorio proveniente da tutte le campagne del Mezzogiorno. La povera gente in fuga dalla fame, dalla miseria, dai soprusi dei baroni giungeva a Napoli in cerca di fortuna, o forse, più semplicemente di un’occasione per stare meglio. Anche a Napoli si soffriva la fame, ma sicuramente non si moriva di fame, come avveniva invece nelle campagne. Tra la fine del Quattrocento e la fine del Cinquecento la popolazione si moltiplicò di tre-quattro volte rispetto al quattordicesimo secolo, passando da circa 100.000 a 300-350.000 abitanti, Napoli 38 divenne, dopo Parigi, la seconda città europea fino ad addirittura superarla nel Seicento. In quel secolo i re di Spagna conquistarono Napoli insediando la monarchia attraverso cui lo Stato moderno vinse sul feudalesimo nel Mezzogiorno d’Italia. La monarchia spagnola era caratterizzata da un modello di Stato assoluto centralizzato, non a caso i vicerè costrinsero la nobiltà feudale a risiedere nella capitale per dimostrare il proprio lealismo, ecco che i baroni si trovarono anch’essi a vivere nella condizione di sudditi. In realtà i baroni furono portati nella capitale per meglio evitare rivolte e la presenza della corte a Napoli limitò tantissimo l’uso della violenza privata, infatti spesso i baroni avevano una serie di malavitosi al proprio servizio. La maggior parte delle persone appartenenti ai ceti popolari viveva con un livello di reddito straordinariamente basso e si guadagnava da vivere con lavori temporanei o attività illecite. La disoccupazione cronica, la sottoccupazione, l’occupazione precaria, erano un grave fardello per Napoli e “se la città non avesse offerto infinite possibilità di arrangiarsi con lavori e lavoretti occasionali, con la questua, con piccoli furti di destrezza, non si sarebbe potuto vivere neppure così” (Lepre Aurelio, 1986, p. 65). Lo scippo divenne una vera e propria specialità della povera gente, si trasformò in una professione stabile. Non vi era alcuna simmetria tra l’impetuosa crescita demografica e la lentissima crescita economica della città e i regnanti avevano un 39 grande timore di rivolte e ribellioni. Le paure dei sovrani erano giustificate, basti pensare alla rivolta per il pane del 1595 e alla ribellione guidata da Masaniello nel luglio del 1647 contro l’aumento delle tasse e in particolare della tassa sulla frutta fresca. Croce scriveva: “La ribellione di Masaniello provocò in seguito nei governanti una gran paura della plebe napoletana, una grande cura a tenerla buona” (Croce, 1925, p. 36) . Napoli, nonostante fosse la capitale, non era in grado di guidare l’economia del Regno, al contrario, però, assicurava una fervida vita ideologica, intellettuale e culturale. Non possiamo in alcun modo dimenticare l’Illuminismo napoletano, che nel Settecento rappresenta una delle maggiori espressioni dell’Illuminismo europeo, con autori come Filangieri, Galiani, Pagano, Genovesi, Giannone. Napoli non era la capitale economica del regno, ma sicuramente ne era la capitale intellettuale. Proprio questa contraddizione risulterà evidente nella rivoluzione del 1799. Nonostante la classe liberale che guidava e partecipava alla rivoluzione fosse caratterizzata da una qualità culturale e politica altissima non era in grado di risolvere solo esclusivamente con le proprie forze le contraddizioni, i problemi congeniti che paralizzavano Napoli e il Mezzogiorno. “La storia di Napoli come capitale pagava qui il suo primo e decisivo pedaggio. I privilegi di capitale, la dimensione metropolitana non corroborata da un’adeguata spinta interna, la coltivazione del 40 parassitismo, l’emarginazione di grande masse sottoproletarie, si rivelavano come una strozzatura attraverso la quale anche una rottura rivoluzionaria poteva difficilmente passare”. Così scrive Galasso della fallita rivoluzione napoletana del 1799 (Intervista sulla storia di Napoli, p. 134). Attorno al 1840 la capitale accennò ad un periodo di ripresa anche se la struttura economica e sociale della città non cambiò, una parte grandissima di popolazione viveva ancora senza alcuna sicurezza e non aveva alcun avvenire. Agli inizi del Novecento in molte città europee l’emarginazione era prodotta dalla rivoluzione industriale, la nascita del sottoproletariato urbano si accompagnava alla crescita economica e civile. A Napoli, invece, l’emarginazione era il frutto di un carattere patologico e cronico. Nacque una vera e propria economia della sopravvivenza di cui la plebe aveva il totale controllo, mentre i più violenti gestivano i mercati illegali e legati al vizio. Nacque una dimensione culturale, sociale economica autonoma, permessa dalle istituzioni statali, regolata da norme parallele a quelle ufficiali. Esisteva una sorta di patto non scritto secondo il quale scattava la repressione da parte dello Stato ogni volta in cui la quiete, l’ordine pubblico e gli interessi dei ceti “alti” venivano in qualche modo minati. “Una vera e propria cessione di autorità a ceti formalmente e ufficialmente senza potere economico e politico” (Sales Isaia, 2006, p. 45). 41 Una delle caratteristiche più peculiari di Napoli era la promiscuità sociale delle residenze. Mentre nelle altre città, ormai da tempo, le diverse classi sociali erano separate anche fisicamente e geograficamente dalla struttura urbana, a Napoli negli stessi quartieri, negli stessi rioni, nelle stesse vie e negli stessi vicoli sorgevano sia i maestosi palazzi della nobiltà che le misere abitazioni dei ceti disagiati, i bassi e gli scantinati che si stringevano attorno ad un cortile. Addirittura, spesso, i nobili affittavano parte delle proprie case.“Nella mescolanza si attutisce l’odio di classe, nella convivenza di posizioni sociali così diverse si mitiga l’alterigia delle classi superiori e l’invidia di quelle inferiori” (Sales Isaia, 2006, p. 45). Le masse sottoproletarie e popolari che si sono accumulate nei vicoli, sono state costrette ad adattarsi a situazioni di marginalità, di miseria economica ma anche morale, impossibili da capire per coloro che fanno parte di una realtà esterna, nel contempo però hanno dato vita ad una forza, ad un potere, a radici profondissime, ad una “cultura” che non hanno pari nella storia di altre città europee. La camorra rappresenta un modello di ascesa sociale. Il “mestiere del violento” era uno dei pochi, se non forse l’ unico, che permetteva di vincere la povertà senza essere costretti ad accettare lavori faticosissimi, retribuzioni misere, orari massacranti. Nel passaggio dalla Napoli pre -unitaria alla Napoli unitaria, la città perse il ruolo di capitale che aveva occupato per secoli ma 42 soprattutto “passò dall’arretratezza tradizionale al sottosviluppo capitalistico” (Sales Isaia, 2006, p. 47). L’ epidemia di colera del 1884 aveva fatto migliaia di vittime e l’Italia intera si era resa conto delle tragiche condizioni economiche, urbanistiche, sociali, igienico sanitarie di Napoli. Fu varata una legge sul risanamento la quale prevedeva una serie di interventi con lo scopo di migliorare le condizioni della città ma soprattutto il tessuto urbano del centro storico. Il mercato dell’edilizia crebbe rapidamente diventando ben presto il motore dell’ economia napoletana. Per vent’ anni e più furono costruite case su case che diedero vita a nuovi quartieri. È necessario sottolineare che, nella storia di Napoli, solo le tragedie sono state il motore per promuovere interventi di ristrutturazione urbana e di recupero. Saverio Nitti scriveva che “Il consumo è non solo lo scopo della produzione, ma è l’indice più sicuro della situazione del paese. La civiltà, determinando un aumento continuo dei bisogni, si traduce in uno sviluppo continuo del consumo. I paesi industriali più poderosi sono quelli che consumano di più, quelli dove insieme alla più grande attività è un più alto livello di esistenza” ( Nitti F. S. “L’avvenire industriale di Napoli” in Villari, 1975, p. 330 vol. I). Napoli invece era una delle città in Europa dove si consumava di meno ma, soprattutto gli scarsi consumi tendevano a diminuire sempre più velocemente provocando una depressione crescente della vita 43 economica. La borghesia composta prevalentemente da rentiers, da avvocati, da medici impediva qualsiasi tentativo di trasformazione economica. Mancava una borghesia industriale intraprendente ed inoltre l’educazione tecnica non era per nulla diffusa tra quei pochi che proseguivano gli studi oltre la scuola elementare. (Nitti F. S.) La grande città deperiva ogni giorno di più e il lusso esteriore non bastava a dare la parvenza che la miseria fosse limitata, anzi questa si notava sempre più, essendo sempre più diffusa. La situazione finanziaria del Comune di Napoli era pessima e il comune non riusciva a fare nessun sacrificio per migliorarla. Per quarant’anni il Comune aveva accumulato due milioni l’anno di debiti e il 31 Dicembre 1901 registrava un passivo di circa quattordici milioni (Nitti F. S.). Le imposte sia dirette che indirette erano molto aspre e a causa della costante diminuzione dei consumi era del tutto impensabile introdurne altre per tentare di rifinanziare, anche se minimamente, le casse. Il debito del comune di Napoli era altissimo e superiore a quello di molte tra le città più ricche d’ Europa come Londra, Edimburgo, Lipsia, Milano, Torino (Nitti F. S.). L’ 8 luglio del 1904 fu varata la legge speciale per Napoli, ossia il primo vero e proprio programma di riqualificazione dell’economia partenopea. Secondo la legge era necessaria una trasformazione industriale raggiungibile attraverso l’intervento consapevole e programmato dello Stato, solo così era possibile raggiungere una 44 riqualificazione del tessuto socio- economico di Napoli. Nel 1915, grazie agli effetti della legge del 1904, Napoli divenne la quarta città industriale del paese. Nonostante ciò, però, non nacque un capitalismo napoletano in grado di confermarsi come segmento indipendente del capitalismo italiano; come invece stava avvenendo in altre città del nord, quali Torino, Milano, Genova che si affermavano sempre più come i capoluoghi dell’economia del paese. L’avvento del fascismo non modificò nulla, anzi Napoli fino al 1936 rimase completamente immobile. Napoli tra le città italiane era stata una delle più colpite dai bombardamenti, nulla del patrimonio storico e artistico fu risparmiato; dal 28 settembre al 1 ottobre 1943 la città fu teatro delle cosiddette “quattro giornate di Napoli”, in cui la povera gente di Forcella, dei Quartieri Spagnoli, della Sanità si organizzò spontaneamente per cacciare i tedeschi dai vicoli. Con l’arrivo degli Americani e delle truppe Alleate, Napoli si specializzò nel contrabbando e nel mercato nero che fin da subito ottennero un larghissimo consenso: moltissime persone divennero addetti di questo particolare “settore dell’economia”. Col finire della guerra il contrabbando si diffuse in molte città europee, questa attività però sarà per esse una breve parentesi, nella città partenopea essa, invece, sarà “uno dei motori economici e uno dei principali fattori di tenuta sociale” (Sales Isaia, 2006, p. 50). 45 Il traffico illecito di tabacchi divenne la fondamentale specializzazione del contrabbando, inizialmente i clan marsigliesi e la mafia siciliana avevano un ruolo di predominio, mentre i clan napoletani assumevano una posizione subalterna, fino a quando negli anni Sessanta, furono proprio i partenopei ad affermarsi definitivamente sul mercato nazionale ed internazionale. La camorra diviene una sorta d’autorità delegata implicitamente a governare quei mercati e quei circuiti illegali, dove si scambiano e si vendono merci dove si esercitano i più svariati vizi (prostituzione, lotto clandestino, gioco d’azzardo) e a riscuotere per quest’attività una tassa. “La camorra prende così sembianze politiche in quanto esercita un potere sulla plebe che non ha come finalità quella di cambiarne le condizioni, ma più semplicemente di regolarne le illegalità in modo tale che il loro quotidiano esercizio non vada oltre una certa soglia fissata in rapporto alla sicurezza e alla tranquillità dei ceti alti”. “Disciplinando il disordine dei vasti spazi e mercati illegali, la camorra si presenta come una sorta di Stato della plebe, in quanto fa proprie le due attribuzioni originarie dello Stato moderno: contenimento del disordine pubblico e tassazione”(Sales Isaia, 2006, p. 58). I violenti appartenenti alla camorra finiscono per controllare il disagio impedendogli di esplodere, proprio in quegli spazi urbani dove si è prodotta la loro violenza. La camorra ha da sempre controllato le classi marginali più basse, quelle che la legge non avrebbe mai potuto gestire. 46 Parti consistenti della società hanno trovato e trovano una strada per la mobilità sociale non nelle organizzazioni politiche, da cui, anzi, spesso si sentono abbandonati, ma nell’utilizzo metodico violenza e della sopraffazione. Creative Commons -Copyleft di Vania R. Cicciotti 47 48 49