La delinquenza organizzata in Campania la società in cui si

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La delinquenza organizzata in Campania la società in cui si
2.
La
delinquenza
organizzata
in
Campania e la società in cui si sviluppa
“Ogni sforzo sarà vano se, nel tempo stesso in cui si cerca di
estirpare il male con mezzi repressivi, non si adoperano efficacemente i
mezzi preventivi. Io non mi stancherò mai di ripeterlo: finchè dura lo
stato presente di cose, la camorra è la forma naturale e necessaria
della società che ho descritto. Mille volte estirpata, rinascerà mille
volte”.
(Pasquale Villari, 1885).
2.1 Che cos’è la camorra
“Parafrasando Tolstoj nell’incipit di Anna Karenina si potrebbe
affermare che ogni territorio senza criminalità è felice allo stesso modo,
ogni territorio dominato dalla criminalità è, invece, infelice ciascuno a
suo modo” (Sales Isaia, 2006, P. 7).
Non tutto il crimine presente in Italia è di tipo mafioso, sul piano
giudiziario si è giunti a definire che cosa sia “un’associazione di stampo
mafioso”, ma, in realtà, dal punto di vista storico, antropologico,
sociologico si commetterebbe un gravissimo errore nell’accomunare
sotto
l’unica
definizione
di
“mafia
italiana”
fenomeni
criminali
profondamente diversi l’un dall’altro per origine, modalità di sviluppo,
ambiente sociale, rapporti con il mondo esterno. La camorra non è la
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Mafia. Questa affermazione non vuole assolutamente ridimensionare il
fenomeno. Quando parliamo di Mafia, bene o male, conosciamo
l’universo a cui ci stiamo riferendo, immediatamente è chiaro che Mafia
è un comportamento ed un’organizzazione al tempo stesso. Quando
parliamo di Camorra la questione si fa decisamente più complessa.
Usare il termine camorra per indicare una particolare criminalità
organizzata non è corretto. Non esiste a Napoli o in Campania un’unica
organizzazione cui fanno riferimento tutti i malavitosi che vi operano, né
tanto meno il termine camorra sottolinea un’élite criminale che si
differenzia dalla delinquenza comune.
Camorra è un termine convenzionale cui non corrisponde nulla di
concreto.
Tutto
è
la
camorra
tranne
che
un’organizzazione
centralizzata, non esiste la camorra esistono le bande di camorra, le
quali, però, non sono riunite in una federazione di bande criminali, non
vi è alcuna consuetudine all’intesa, come generalmente, invece,
avviene nella Mafia.
Non esiste un fenomeno criminale unico, centralizzato, che
prevede una strategia d’azione unitaria e conforme a cui tutte le bande,
i clan e gli uomini violenti, che si definiscono camorristi, debbano fare
riferimento.
La camorra è l’unione tra criminalità comune, criminalità
organizzata e criminalità d’élite (Sales Isaia, conferenza, 16 maggio
2006). “Per camorra intendiamo, dunque quel insieme di clan e di
bande uniti dalla specificità delle azioni criminali e dal comune contesto
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in cui operano, piuttosto che dalle comuni modalità organizzative di
operare” (Sales Isaia, 2006, p. 8).
Camorra sono, quindi, le attività che svolgono i camorristi.
È necessario sottolineare che finora è stato impossibile e, in
futuro sarà improbabile, dare vita, da parte dei camorristi, a
un’organizzazione centralizzata, con una struttura organica e una
strategia d’azione comune. Apparentemente questo potrebbe sembrare
un difetto, ma così non è, anzi, la forza della camorra e la sua
pericolosità sociale stanno proprio nella sua frammentazione.
“Se fosse rimasta un’organizzazione centralizzata non avrebbe
superato la soglia del Novecento, come avvenne per tutte le forme di
criminalità urbane preindustriali delle grandi capitali dell’Europa” (Sales
Isaia, 2006, p. 9).
La vita economica e sociale di Napoli e del suo Hinterland è
caratterizzata da diffuse e stabili forme di illegalità, le quali erano meno
palesi prima e durante il fascismo e che diventarono sempre più
evidenti
ed
esplosive
dal
secondo
dopoguerra
ad
oggi;
la
frammentazione della camorra si è dimostrata la forma più adatta in
grado di farla aderire a tutte le attività illegali presenti nel territorio. La
camorra si adegua a tutte le vie illegali che muovono la città di Napoli,
le domina, le organizza.
Da dove deriva il termine camorra? Gli storici hanno dato
differenti interpretazioni. Una fa riferimento al modo in cui il camorrista
vestiva, questo indossava una sorta di divisa, una giacca corta detta
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“gumurra”, da qui deduzioni sulla derivazione della camorra napoletana
da una confraternita spagnola nata nel Quattrocento la “Guarduna” i cui
membri indossavano, appunto, questa particolare giacca, oppure dai
Gamurri, i briganti che vivevano nelle montagne spagnole. Un’ altra
interpretazione si riferisce al carattere rissoso del camorrista, per cui il
termine camorra deriverebbe dal corrispettivo castigliano di far rissa.
La spiegazione più convincente, però, rinvia ad un gioco molto
popolare a Napoli, il gioco della morra. Il camorrista era colui che
dirigeva il gioco, che prendeva i soldi su di esso. Non a caso, con il
passar del tempo, il termine camorra si è sempre più legato, non tanto
ad una particolare organizzazione criminale vista in quanto struttura,
ma piuttosto come una sorta di tassa sulle attività illegali, cioè il termine
camorra stava ad indicare l’estorsione. La camorra è l’unica forma di
criminalità organizzata che prende il nome dall’attività che svolge,
l’estorsione, e dal ricavo di questa attività, la tangente.
“Fare la camorra vuol dire, infatti, estorcere un guadagno da
parte di chi è in grado di minacciare o esercitare violenza in caso di
rifiuto; prendersi la camorra o esigere la camorra vuol dire capacità di
acquisire una tangente da qualsiasi mestiere o professione esercitati”.
“Dunque il camorrista è colui che aderisce alla camorra (specifica
organizzazione criminale), è, al tempo stesso, colui che esercita la
camorra (una specifica attività delinquenziale, l’estorsione, appunto) ed
è colui che prende la camorra (la cosa estorta, la tangente tramite la
sua attività).” (Sales Isaia, 2006, p. 70).
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La camorra è plateale, basti pensare al semplice fatto che il
significato dello stesso termine non nasconde assolutamente la sua
natura delinquenziale e non fa riferimento a qualcosa di “onorifico”.
Se la Mafia è omertà ed è legata alla cultura del nascondersi, la
camorra è ostentazione ed è legata alla cultura del mostrare. Non a
caso i camorristi non si nascondono e non si sono mai nascosti, nel
quartiere, nel rione, tutti, chiunque sanno chi è il camorrista il quale
enfatizza i segni vistosi del proprio benessere.
La camorra ottiene i suoi introiti sulle altre attività illegali e una
banda si può definire di camorra quando riesce ad imporre le tangenti
alle altre bande. Tra gli scopi primi della camorra c’era quello di
disciplinare la violenza e le transazioni legali e illecite. A Napoli vi erano
una serie di attività illegali, largamente diffuse come la prostituzione, il
gioco d’azzardo, il lotto clandestino, tutte “attività economiche” che si
svolgevano liberamente ma che non erano tassate dallo stato, se
queste attività venivano comunque svolte e producevano comunque un
reddito era necessario tassarle, quindi: “camorra come tassa sulle
attività illegali riscossa dalla malavita e non dall’ autorità statale”(Sales
Isaia, 2006, p. 78).
Coloro che subivano l’estorsione non potevano rivolgersi alla
polizia o chiedere la protezione dello stato perché svolgevano un’attività
illegale, chi subiva non poteva far altro che accettare perché la sua
occupazione era fuori legge. La camorra diviene, dunque, un’autorità,
che attraverso il pagamento della tangente, permette lo svolgimento
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delle attività proibite dalla legge: “una tassa illegale che autorizzava
l’illegalità”.
La camorra si è sviluppata in un tessuto urbano piuttosto
caratteristico: i vecchi vicoli e i bassi, stanze a livello della strada senza
alcuna finestra. Fortunatamente oggi molti bassi sono stati tramutati in
piccoli esercizi commerciali, botteghe oppure in abitazioni più vivibili e
di tipo diverso da quelle di una volta.
La famiglia che vive in un vecchio basso non può chiudere la
porta d’ingresso, questa deve rimanere necessariamente aperta,
perché non esiste nessun’altra finestra o porta attraverso cui possano
entrare l’aria e la luce. All’interno del basso, in uno spazio
incredibilmente piccolo, vivono intere famiglie, spesso piuttosto
numerose, queste sono obbligate ad allargare, nel vero senso della
parola, la propria abitazione nel vicolo, che spesso risulta più ospitale
del luogo in cui dormono. Ecco che davanti ai bassi, nel vico, troviamo
mamme che guardano i propri bimbi giocare, nonne sedute sulle sedie
che chiacchierano tra di loro o che fanno l’uncinetto, il vicolo diviene un
vero e proprio salotto.
“Così, per ragioni di semplice strutturazione del territorio
abitativo, si forma una comunità, una comunità di vicinato, la comunità
del vicolo, una specie di plurifamiglia. Il territorio esterno al basso non è
più considerato pubblico, cioè di tutti, ma considerato come privato,
semplice prolungamento del basso e della propria abitazione” (Sales
Isaia, 2006, p. 63).
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Possiamo parlare di appropriazione privata degli spazi pubblici
da parte delle famiglie che costruiscono rapporti interfamigliari stabili e
duraturi, tutti sanno tutto di tutti, si litiga, si discute, ci si riappacifica, ci
si aiuta, tutto davanti all’intera collettività che cresce e vive nel vicolo.
Ciò spiega anche lo stretto rapporto che i napoletani hanno con la
propria città, ma soprattutto con il proprio quartiere, il proprio rione.
È necessario che in questo contesto qualcuno svolga la funzione
di regolatore sociale, che dia delle norme in un ambiente che potrebbe
scoppiare da un momento all’altro, c’è bisogno di qualcuno che
contenga gli animi dei prepotenti. Questo ruolo non viene assunto,
come si potrebbe pensare e prevedere dallo Stato, ma dalla camorra
che è parte naturale della struttura urbana sopra descritta. La polizia, la
legge, intervengono solo nel caso in cui non sia possibile tenere
segreta un’azione, come un omicidio, che ha portato conseguenze
divenute di dominio pubblico: per tutte le altre questioni c’è la camorra.
Eduardo De Filippo in una sua celebre opera “il Sindaco del rione
Sanità” scrive del camorrista come di un’autorità per ‹‹limitare la catena
dei reati e dei delitti›› (Eduardo De Filippo, in Teatro, 1979, p. 686).
Nei vicoli i bambini crescono tutti insieme, tra di loro si individua
un capo naturale che diviene il punto di riferimento costante che, pur
non avendo nessun tipo di legame familiare con gli altri ragazzi,
assume la figura paterna di regolatore che invece è svolta
effettivamente dal genitore nella famiglia. Questo spiega perché
all’interno della camorra non ci sia una forte ereditarietà familiare
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trasmessa dai padri ai figli e perché non vi sia una struttura patriarcale.
Non è detto che il figlio di un boss sarà un boss, se non ha le qualità
adatte non erediterà il controllo della banda. Il boss è un capo naturale.
Le gerarchie cambiano velocemente e soprattutto non si basano sul
prestigio familiare, ma piuttosto sul prestigio criminale, sulla violenza
che porta autorità e autorevolezza.
Nella mafia troviamo boss anche molto anziani, nella camorra è
rarissimo trovare un boss che superi i sessant’anni e generalmente gli
affiliati hanno intorno ai trent’anni.
Molte attività illegali non sarebbero possibili senza la presenza di
un contesto amico o almeno tollerante, “la camorra esercita, infatti, la
propria influenza su un ampio strato sociale che non coincide del tutto
con quello delinquenziale” (Sales Isaia, 2006, p. 67).
Molti non coprono le attività illegali per omertà ma per
assuefazione, sono abituati a convivere con l’illecito, lo considerano
normale e ne trovano una giustificazione nella condizione in cui vivono
e che li circonda.
Per comprendere con più precisione che cosa sia oggi la
camorra è necessario andare indietro nel tempo.
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2.2 Il rapporto tra sottosviluppo, modernità e la
questione meridionale
Tra il tredicesimo ed il quindicesimo secolo si andava costruendo
il predominio della grande città attorno a cui tutto ruotava: Napoli. Tale
predominio si confermò nel Cinquecento.
Napoli aveva “raggiunto uno splendore difficilmente eguagliabile
che si esprimeva nella magnificenza della sua nobiltà, nell’autorità dei
suoi tribunali, nell’attività dei suoi artigiani, e nella dimensione e varietà
dei suoi commerci” (Pasquale Villani, 1990, p. 7).
Napoli,
era
una
magnifica
città,
che
offriva
moltissime
opportunità, pertanto divenne la meta di un fortissimo flusso migratorio
proveniente da tutte le campagne del Mezzogiorno.
La povera gente in fuga dalla fame, dalla miseria, dai soprusi dei
baroni giungeva a Napoli in cerca di fortuna, o forse, più semplicemente
di un’occasione per stare meglio. Anche a Napoli si soffriva la fame, ma
sicuramente non si moriva di fame, come avveniva invece nelle
campagne.
Tra la fine del Quattrocento e la fine del Cinquecento la
popolazione si moltiplicò di tre-quattro volte rispetto al quattordicesimo
secolo, passando da circa 100.000 a 300-350.000 abitanti, Napoli
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divenne, dopo Parigi, la seconda città europea fino ad addirittura
superarla nel Seicento.
In quel secolo i re di Spagna conquistarono Napoli insediando la
monarchia attraverso cui lo Stato moderno vinse sul feudalesimo nel
Mezzogiorno d’Italia. La monarchia spagnola era caratterizzata da un
modello di Stato assoluto centralizzato, non a caso i vicerè costrinsero
la nobiltà feudale a risiedere nella capitale per dimostrare il proprio
lealismo, ecco che i baroni si trovarono anch’essi a vivere nella
condizione di sudditi. In realtà i baroni furono portati nella capitale per
meglio evitare rivolte e la presenza della corte a Napoli limitò tantissimo
l’uso della violenza privata, infatti spesso i baroni avevano una serie di
malavitosi al proprio servizio.
La maggior parte delle persone appartenenti ai ceti popolari
viveva con un livello di reddito straordinariamente basso e si
guadagnava da vivere con lavori temporanei o attività illecite. La
disoccupazione cronica, la sottoccupazione, l’occupazione precaria,
erano un grave fardello per Napoli e “se la città non avesse offerto
infinite possibilità di arrangiarsi con lavori e lavoretti occasionali, con la
questua, con piccoli furti di destrezza, non si sarebbe potuto vivere
neppure così” (Lepre Aurelio, 1986, p. 65).
Lo scippo divenne una vera e propria specialità della povera
gente, si trasformò in una professione stabile.
Non vi era alcuna simmetria tra l’impetuosa crescita demografica
e la lentissima crescita economica della città e i regnanti avevano un
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grande timore di rivolte e ribellioni. Le paure dei sovrani erano
giustificate,
basti pensare alla rivolta per il pane del 1595 e alla
ribellione guidata da Masaniello nel luglio del 1647 contro l’aumento
delle tasse e in particolare della tassa sulla frutta fresca.
Croce scriveva: “La ribellione di Masaniello provocò in seguito
nei governanti una gran paura della plebe napoletana, una grande cura
a tenerla buona” (Croce, 1925, p. 36) .
Napoli, nonostante fosse la capitale, non era in grado di guidare
l’economia del Regno, al contrario, però, assicurava una fervida vita
ideologica, intellettuale e culturale. Non possiamo in alcun modo
dimenticare l’Illuminismo napoletano, che nel Settecento rappresenta
una delle maggiori espressioni dell’Illuminismo europeo, con autori
come Filangieri, Galiani, Pagano, Genovesi, Giannone.
Napoli non era la capitale economica del regno, ma sicuramente
ne era la capitale intellettuale. Proprio questa contraddizione risulterà
evidente nella rivoluzione del 1799.
Nonostante la classe liberale che guidava e partecipava alla
rivoluzione fosse caratterizzata da una qualità culturale e politica
altissima non era in grado di risolvere solo esclusivamente con le
proprie forze le contraddizioni, i problemi congeniti che paralizzavano
Napoli e il Mezzogiorno.
“La storia di Napoli come capitale pagava qui il suo primo e
decisivo pedaggio. I privilegi di capitale, la dimensione metropolitana
non corroborata da un’adeguata spinta interna, la coltivazione del
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parassitismo, l’emarginazione di grande masse sottoproletarie, si
rivelavano come una strozzatura attraverso la quale anche una rottura
rivoluzionaria poteva difficilmente passare”. Così scrive Galasso della
fallita rivoluzione napoletana del 1799 (Intervista sulla storia di Napoli,
p. 134).
Attorno al 1840 la capitale accennò ad un periodo di ripresa
anche se la struttura economica e sociale della città non cambiò, una
parte grandissima di popolazione viveva ancora senza alcuna sicurezza
e non aveva alcun avvenire. Agli inizi del Novecento in molte città
europee l’emarginazione era prodotta dalla rivoluzione industriale, la
nascita del sottoproletariato urbano si accompagnava alla crescita
economica e civile. A Napoli, invece, l’emarginazione era il frutto di un
carattere patologico e cronico. Nacque una vera e propria economia
della sopravvivenza di cui la plebe aveva il totale controllo, mentre i più
violenti gestivano i mercati illegali e legati al vizio. Nacque una
dimensione culturale, sociale economica autonoma, permessa dalle
istituzioni statali, regolata da norme parallele a quelle ufficiali. Esisteva
una sorta di patto non scritto secondo il quale scattava la repressione
da parte dello Stato ogni volta in cui la quiete, l’ordine pubblico e gli
interessi dei ceti “alti” venivano in qualche modo minati.
“Una vera e propria cessione di autorità a ceti formalmente e
ufficialmente senza potere economico e politico” (Sales Isaia, 2006, p.
45).
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Una delle caratteristiche più peculiari di Napoli era la promiscuità
sociale delle residenze. Mentre nelle altre città, ormai da tempo, le
diverse
classi
sociali
erano
separate
anche
fisicamente
e
geograficamente dalla struttura urbana, a Napoli negli stessi quartieri,
negli stessi rioni, nelle stesse vie e negli stessi vicoli sorgevano sia i
maestosi palazzi della nobiltà che le misere abitazioni dei ceti disagiati,
i bassi e gli scantinati che si stringevano attorno ad un cortile.
Addirittura, spesso, i nobili affittavano parte delle proprie case.“Nella
mescolanza si attutisce l’odio di classe, nella convivenza di posizioni
sociali così diverse si mitiga l’alterigia delle classi superiori e l’invidia di
quelle inferiori” (Sales Isaia, 2006, p. 45).
Le masse sottoproletarie e popolari che si sono accumulate nei
vicoli, sono state costrette ad adattarsi a situazioni di marginalità, di
miseria economica ma anche morale, impossibili da capire per coloro
che fanno parte di una realtà esterna, nel contempo però hanno dato
vita ad una forza, ad un potere, a radici profondissime, ad una “cultura”
che non hanno pari nella storia di altre città europee.
La camorra rappresenta un modello di ascesa sociale. Il
“mestiere del violento” era uno dei pochi, se non forse l’ unico, che
permetteva di vincere la povertà senza essere costretti ad accettare
lavori faticosissimi, retribuzioni misere, orari massacranti.
Nel passaggio dalla Napoli pre -unitaria alla Napoli unitaria, la
città perse il ruolo di capitale che aveva occupato per secoli
ma
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soprattutto
“passò
dall’arretratezza
tradizionale
al
sottosviluppo
capitalistico” (Sales Isaia, 2006, p. 47).
L’ epidemia di colera del 1884 aveva fatto migliaia di vittime e
l’Italia intera si era resa conto delle tragiche condizioni economiche,
urbanistiche, sociali, igienico sanitarie di Napoli. Fu varata una legge
sul risanamento la quale prevedeva una serie di interventi con lo scopo
di migliorare le condizioni della città ma soprattutto il tessuto urbano del
centro storico.
Il mercato dell’edilizia crebbe rapidamente
diventando ben
presto il motore dell’ economia napoletana. Per vent’ anni e più furono
costruite case su case che diedero vita a nuovi quartieri.
È necessario sottolineare che, nella storia di Napoli, solo le
tragedie
sono
state
il
motore
per
promuovere
interventi
di
ristrutturazione urbana e di recupero.
Saverio Nitti scriveva che “Il consumo è non solo lo scopo della
produzione, ma è l’indice più sicuro della situazione del paese. La
civiltà, determinando un aumento continuo dei bisogni, si traduce in uno
sviluppo continuo del consumo. I paesi industriali più poderosi sono
quelli che consumano di più, quelli dove insieme alla più grande attività
è un più alto livello di esistenza” ( Nitti F. S. “L’avvenire industriale di
Napoli” in Villari, 1975, p. 330 vol. I).
Napoli invece era una delle città in Europa dove si consumava di
meno ma, soprattutto gli scarsi consumi tendevano a diminuire sempre
più velocemente provocando una depressione crescente della vita
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economica. La borghesia composta prevalentemente da rentiers, da
avvocati, da medici impediva qualsiasi tentativo di trasformazione
economica. Mancava una borghesia industriale intraprendente ed
inoltre l’educazione tecnica non era per nulla diffusa tra quei pochi che
proseguivano gli studi oltre la scuola elementare. (Nitti F. S.)
La grande città deperiva ogni giorno di più e il lusso esteriore non
bastava a dare la parvenza che la miseria fosse limitata, anzi questa si
notava sempre più, essendo sempre più diffusa.
La situazione finanziaria del Comune di Napoli era pessima e il
comune non riusciva a fare nessun sacrificio per migliorarla. Per
quarant’anni il Comune aveva accumulato due milioni l’anno di debiti e
il 31 Dicembre 1901 registrava un passivo di circa quattordici milioni
(Nitti F. S.). Le imposte sia dirette che indirette erano molto aspre e a
causa della costante diminuzione dei consumi era del tutto impensabile
introdurne altre per tentare di rifinanziare, anche se minimamente, le
casse.
Il debito del comune di Napoli era altissimo e superiore a quello
di molte tra le città più ricche d’ Europa come Londra, Edimburgo,
Lipsia, Milano, Torino (Nitti F. S.).
L’ 8 luglio del 1904 fu varata la legge speciale per Napoli, ossia il
primo vero e proprio programma di riqualificazione dell’economia
partenopea. Secondo la legge era necessaria una trasformazione
industriale
raggiungibile
attraverso
l’intervento
consapevole
e
programmato dello Stato, solo così era possibile raggiungere una
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riqualificazione del tessuto socio- economico di Napoli. Nel 1915, grazie
agli effetti della legge del 1904, Napoli divenne la quarta città industriale
del paese. Nonostante ciò, però, non nacque un capitalismo napoletano
in grado di confermarsi come segmento indipendente del capitalismo
italiano; come invece stava avvenendo in altre città del nord, quali
Torino, Milano, Genova che si affermavano sempre più come i
capoluoghi dell’economia del paese.
L’avvento del fascismo non modificò nulla, anzi Napoli fino al
1936 rimase completamente immobile.
Napoli tra le città italiane era stata una delle più colpite dai
bombardamenti, nulla del patrimonio storico e artistico fu risparmiato;
dal 28 settembre al 1 ottobre 1943 la città fu teatro delle cosiddette
“quattro giornate di Napoli”, in cui la povera gente di Forcella, dei
Quartieri Spagnoli, della Sanità si organizzò spontaneamente per
cacciare i tedeschi dai vicoli.
Con l’arrivo degli Americani e delle truppe Alleate, Napoli si
specializzò nel contrabbando e nel mercato nero che fin da subito
ottennero un larghissimo consenso: moltissime persone divennero
addetti di questo particolare “settore dell’economia”.
Col finire della guerra il contrabbando si diffuse in molte città
europee, questa attività però sarà per esse una breve parentesi, nella
città partenopea essa, invece, sarà “uno dei motori economici e uno dei
principali fattori di tenuta sociale” (Sales Isaia, 2006, p. 50).
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Il
traffico
illecito
di
tabacchi
divenne
la
fondamentale
specializzazione del contrabbando, inizialmente i clan marsigliesi e la
mafia siciliana avevano un ruolo di predominio, mentre i clan napoletani
assumevano una posizione subalterna, fino a quando negli anni
Sessanta, furono proprio i partenopei ad affermarsi definitivamente sul
mercato nazionale ed internazionale.
La camorra diviene una sorta d’autorità delegata implicitamente
a governare quei mercati e quei circuiti illegali, dove si scambiano e si
vendono merci dove si esercitano i più svariati vizi (prostituzione, lotto
clandestino, gioco d’azzardo) e a riscuotere per quest’attività una tassa.
“La camorra prende così sembianze politiche in quanto esercita
un potere sulla plebe che non ha come finalità quella di cambiarne le
condizioni, ma più semplicemente di regolarne le illegalità in modo tale
che il loro quotidiano esercizio non vada oltre una certa soglia fissata in
rapporto alla sicurezza e alla tranquillità dei ceti alti”. “Disciplinando il
disordine dei vasti spazi e mercati illegali, la camorra si presenta come
una sorta di Stato della plebe, in quanto fa proprie le due attribuzioni
originarie dello Stato moderno: contenimento del disordine pubblico e
tassazione”(Sales Isaia, 2006, p. 58).
I violenti appartenenti alla camorra finiscono per controllare il
disagio impedendogli di esplodere, proprio in quegli spazi urbani dove
si è prodotta la loro violenza. La camorra ha da sempre controllato le
classi marginali più basse, quelle che la legge non avrebbe mai potuto
gestire.
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Parti consistenti della società hanno trovato e trovano una strada
per la mobilità sociale non nelle organizzazioni politiche, da cui, anzi,
spesso si sentono abbandonati, ma nell’utilizzo metodico violenza e
della sopraffazione.
Creative Commons -Copyleft di Vania R. Cicciotti
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