Marco Brondi - Libertà Edizioni
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Marco Brondi - Libertà Edizioni
LibertàEdizioni ALAN TOU IL FRONTE DEL GELO (ERA ORA) Romanzo LibertàEdizioni Chi cammina s’intorbida. L’acqua corrente non vede le stelle. Chi cammina dimentica. E chi si ferma sogna. Federico Garcìa Lorca, Corrente IL FRONTE DEL GELO (ERA ORA) Falsa Partenza Imperia, un’ora così La stanza era nera, il letto bianco, gli scuri chiusi. La musica girava sugli stessi brani. Da ore. Dal vano attiguo filtrava troppa luce. Rievocazione di atmosfere domenicali, pomeriggi vuoti… un vuoto… era domenica? Non faceva differenza. Era pomeriggio, agosto. L’ultimo. Agatha avrebbe dovuto alzarsi, ma aspettava il momento giusto. E quello era il più sbagliato, il preventivo più errato. Restava poco tempo. C’erano tutti i presupposti per la qualifica di peggiore assoluto. Non lo era, purtroppo… per questo il dolore era più sordo… ineluttabile inutilità. Trovò la forza di levarsi, raggiungere il lungomare, trascinandosi fra incolmabili distanze. Di un mondo ovattato, irraggiungibile, schermato dalla nebbia di un’esclusione superflua: se ne sarebbe andata comunque, ma non in quel momento. Vagò fino alla possibilità: risa e dileggi che non le appartenevano. Ineluttabilità. Finalmente il buio, la stazione, fra poco sarebbe finita e ancora non intravedeva scampo. Un gesto, una parola, sarebbero bastati… il treno arrivava. Salì. Si voltò per l’ultima volta: le labbra di Lui un sorriso di scherno. Le porte si chiusero, ghigliottina su ogni speranza. Una maledizione di troppo. L’avrebbe ucciso. 9 Onda Genova, anni dopo Un baratro. Agatha percorreva la salita verso il cimitero. Lo sentiva incombere alle spalle e non bastavano il mare piatto e turchese e il cielo terso a dissiparlo. Saliva, percependo il vuoto a ogni passo, in bilico sulla voragine. Cercò una preghiera. Il passo era preciso, cadenzato. Il cimitero era lì, chiaro, a picco sul mare, quasi consolante. Sull’angolo a spiovente, appollaiato immobile, un corvo nero cercava una preda ignara. –… thing of evil! prophet still, if bird or devil! – recitò.1 Varcò il cancello ombroso, si segnò. Il baratro era di nuovo lontano. Raggiunse la tomba, annaffiò, sistemò i fiori, strappò erbacce e foglie secche. Immaginò un colloquio, diede un’ultima occhiata e se ne andò. La salita era discesa, lo sguardo a oriente. Fu allora che lo vide. Una sottile evanescenza tra cielo e mare. Annunciava il freddo. La sera sarebbe diventata una linea nera stagliata lungo l’orizzonte, a sommergere i riflessi del tramonto. Il fronte del gelo. Ma ora era sole tiepido, malgrado fosse gennaio. Perché tanto odio? Parole terribili le rimbalzavano nella mente. L’ultimo attacco era stato feroce, assurdo, interminabile. L’aveva sfiancata. Ora riusciva a ripensarlo, intravedendone il disegno. Odio. Era quanto restava, nei giorni migliori. A ogni risveglio, l’onda nera l’assaliva. Visioni di sangue e di morte. Un moto di rabbia, violenza, insofferenza… doveva arginarlo come fantasticheria… legittimarlo, contenerlo. Onda nera, sangue… finzione. – Considerato il fuso orario, potrebbe andare – pensò. 1 Edgar Allan Poe, The Raven. 10 Accese il portatile. Laggiù (Brasile) era sera ed era compito suo. Guardare all’orizzonte. Ieri lì, riparti e non fa differenza… Anni a un tiro di treno. Un viaggio. Macerie. Poche frasi. Meglio immaginare un ponte d’arcobaleno. Un’alternativa preclusa. L’ultima stazione è stata poco fa. La tua ennesima mossa una conferma. Per non dimenticare. La maledetta stazione in cui tutto era possibile. Svanita. Tornarci per la fine, definitiva, silenziosa. L’ultima stretta. Le tue spalle. Per un attimo captare un destino diverso, a piantarsi nel petto. Un dolore. Ma non esiste. Non ci sono treni non ci sono viaggi. L’ultimo è il coronamento della morte. Non sono scesa allora, sono tornata ieri. La fine. Ovviamente ci ripensò, non aveva senso. Era uno spreco. Gli addii non servono più. I viaggi di mezzo massacri alternati. Separazioni, vuoti, ritorni, segnali, ammissioni, fatalità. L’ultimo viaggio i paesi scorrono oltre come un’esequie interminabile. Rimandata in eterno, con una scusa, un’impasse. Possibile solo al crollo di ogni verità. Esclusione d’alternative. Case, strade, mare, scogliere, epitaffi su un mondo che doveva finire. Non così. L’ultimo viaggio li guarda, non indifferenza, insinuante malinconia. Non è sola. Una frase planata un attimo prima della partenza. Tre parole. Cosa significheranno? Questione di personalità. Tre parole. Fine è una. Anche a volerci pensare, a ritorno il vagone era sbagliato. Le luci lampeggiavano, il libro languiva, lo yogurt alla banana, pane, coltello e mortadella della coppia slava annientavano ogni riflessione in un morbo nauseabondo. Una stanchezza ansiosa che non trovava sfogo. Poco tempo ancora, prima dell’arrivo. Prima non l’avrebbe sopportato. Adesso era quasi indifferente, un atto dovuto, senza eccessi né colpe. Anni di stime, accantonamenti di dati, segni, strazi, a scan11 so di equivoci… era tutto già scritto. Non c’erano errori. Una stanchezza inquieta. All’ultimo tratto il treno rallentò… non ce l’avrebbe fatta. Perse la coincidenza. Arrivò. Distrutta. Era buio, rabbrividì, indossò la maschera, recitò l’ultimo atto di quel giorno interminabile. Lo spettacolo era appena iniziato. 12 Le attese Genova, una mattina triste Non erano capelli; erano onde. Onde nemmeno belle. Erano ricci, un po’. Lisci, ugualmente misti ai ricci eccetera. Una macchia mediterranea sulla testa di Lei. Ogni movimento che Lei faceva creava una conseguenza dinamica morbidissima di tutti quei suoi capelli. Un po’ ricci, un po’ mossi, un po’ lisci, comunque sopravvissuti a tante tentate tinture. Adagiato su una specie di panchina, Orazio osservava quel motore capelluto avvicinarsi alla biglietteria: un chiosco semicircolare con due serrande verdi; qualche temporale lontano aveva danneggiato alcune lettere dell’insegna cosicché, in perfetto genovese, si poteva leggere BIG IETTI. Lei era di ritorno; il suo biglietto, fresco di carnet, apparve agli occhi di Orazio più un simbolo, che un semplice oggetto da vidimare. Ritornare era la parte dei viaggi che meno amava. Fra le tre, partenza, transito e ritorno, quello che Ora prediligeva era il transito: descriveva al meglio la sua concezione di reale. Mai nulla fermo, radicato. La macchia indistinta che assumeva il reale attraverso i suoi occhi di viaggiatore senza sosta diveniva un movimento proiettato verso l’astrazione, verso la più lacerante delle consapevolezze: la realtà non esiste o quantomeno ad essa non possiamo affidarci, nella ricerca di un assoluto che tutto spieghi e fissi. La voce di Lei lo strappò a questa tormenta di pensieri nodosi. Poco lontano, bandiere di paesi distanti volteggiavano vicine, schernite dal vento. 13 Dunque, gli addii. Di lì a poco, in quel non-luogo così adatto, la stazione, si sarebbero salutati. La stazione, il posto degli abbracci, delle partenze e dei ritorni. Le stazioni: treni arrivano, treni partono; qualcuno resta, qualcuno torna, qualcuno va. Molti aspettano. Tutto lì. Fra poco, l’addio. Come un bambino attende un’iniezione, anche Orazio serrava le mascelle e fingeva pacatezza, mentre tutto dentro gli ribolliva. Falla finita, vattene Quell’attesa stava assumendo i connotati del transito più brutto di cui avesse memoria. Le attese, come squarci nel tempo, piatti mari, piatti amari, sincronie dislessiche e infinite tabaccate. Un altoparlante disquisiva di trasformazioni di orari e binari; dal bancone del bar troneggiavano ripiene brioches e focacce. Lei armeggiò col portafoglio, alla ricerca di qualche residuo spicciolo, oltre ai soldi arrotolati nelle mutande a vita bassa. Orazio votò per una focaccia ripiena di tonno, maionese e malinconia. Una coca cola gasatissima non lo contagiò e, finita la focaccia, si trascinò fuori dal locale con l’euforia di un condannato alla pena capitale. La corriera che avrebbe accompagnato la loro separazione aveva fatto capolino nel piazzale strombazzando, cinica. Era di un effervescente colore blu, il cartello che ne descriveva la destinazione lampeggiava ossessivo, come il titolo di un blockbuster. Lei afferrò la valigia con una mossa forse studiata e, con un volteggio un po’ ridicolo, prese a scendere le scale. Orazio rimase fermo, in mano aveva una cola sempre meno gasata; guardando le sue spalle, intuì che di tutto il tempo passato insieme, di Lei avrebbe ricordato quelle, in primissimo piano scendere una scala. Abitate da capelli insani, le sue spalle erano l’unica parte di Lei ancora davvero interessate a lui, curiose di lui. La sua andatura, quasi una danza, lo deliziò. Guardandola, non poteva ricon14 durre l’immagine di quella donna a un cliché, a una pagina patinata. Lei era normale, terribilmente normale. Per questo gli piaceva. La sua normalità aveva costituito nella vita di Orazio l’anormalità in tutto e per tutto, la devianza, quasi. Era stata una specie di tempo di recupero che lui avrebbe voluto dilatare all’infinito, senza cambiare nulla. Ma il tempo di recupero finisce anche con il più tenero degli arbitri. La partita era finita. Tutti a casa. L’attesa Lei non parlava, sentiva gli occhi di Ora camminarle sui vestiti, ma serena, portava lo sguardo a spasso per il ponte romano, lì vicino. Il cielo plumbeo non prometteva nulla, né in bene, né in male. Per un attimo, i due si fissarono. Lei gli regalò un sorriso nemmeno pensato. Ora abbozzò una smorfia e si girò. Non poteva cambiare più niente. Poteva soltanto sopportare. Il treno, in ritardo di venti minuti, era esteticamente in linea con i tempi. L’ultimo abbraccio dopo l’annuncio dell’altoparlante aprì a Orazio uno spiraglio sulla possibilità. Una scossa lo attraversò, un’anta si spalancò su un giardino. Un guizzo di luce, di verde, di aria, troncato di netto dal colpo di scuri ingialliti e sbarrati, incastrati nel muro scrostato. La voce chioccia dell’altoparlante s’era imbrigliata: – … ferma a… ci scusiamo per… Basilea… we are sorry… dieci minuti… prima classe… PalermoReggio… soppresso… Torino interregionale… Milano centrale in ritardo di 115 minuti… gentili passeggeri… in testa… Pisa… scusiamo… binario… che, anziché… I passeggeri in panico s’interrogavano l’un l’altro, sbat- 15 tendosi contro occhiali e valige in corsa, senza afferrare verso dove. Lei scostò il capo dalla spalla di lui con una risata. – Come si fa a piangere con un sottofondo del genere? … Arriva. Un bacio – disse selezionando con gli occhi i numeri dei vagoni. – Ciao. – Addio – pensò lei salendo veloce, senza voltarsi più. Orazio evitò di alzare lo sguardo: sapeva che non ne avrebbe incrociato un altro. Scese la scala spintonato dai viaggiatori in discesa, travolto da quelli in salita. – Che giornata di merda. Finalmente in piano, adeguò la vista alla penombra del corridoio, si avviò all’uscita, si bloccò; un’anziana gli passò il trolley sugli anfibi e un impiegato gli piantò il gomito nel fegato. Rimase in bilico tra le imprecazioni, adocchiò la fascia oraria congeniale, lesse, estrasse la penna dal taschino, segnò due incroci sullo scontrino del bar, andò alla biglietteria. Salì sul treno dieci minuti dopo. Biglietto autentico, senza ingaggio né ricambi, niente da leggere. Non importava. Aveva un diversivo, un panorama in movimento… il muro scrostato attendeva la prossima vittima sulla panchina. L’autobus per il ritorno avrebbe ospitato l’indifferenza di un’altra identità. Il panorama scorreva, non lo vedeva. I passeggeri sedevano, maschere vuote. Le loro parole rimbalzavano in una percezione fastidiosa. Chiuse gli occhi su un sipario ferroso. Doveva ricordarsi di scendere, prima o poi. 16 Le responsabilità Genova, mattino prestissimo Scese. Il cielo era vicinissimo, nitido, non ricordava tante stelle cadenti. Di fronte a lei, un distributore di sigarette ammiccava supino. Agatha si avvicinò, mentre una mano afferrava nella borsa fazzoletti, elastici per capelli e agende senza trovare il portafogli. A un tratto lo arraffò, lo aprì traendolo fuori, allo scoperto. Un’esplosione di spiccioli trovò pace solo a terra, mentre tutti rotolavano su se stessi come alla fine di un girotondo. Ce la poteva fare. Raccolse gli spiccioli uno a uno, dominando una rabbia che sentiva venire da lontano. Davanti alle icone luminose fu presa dal panico, poi scelse. Infilò il pacchetto nella borsa, ascoltò il tacchettio dei suoi passi verso l’uscita. Aggiustò la borsa, dimenò i capelli verso il cielo. La città non l’aspettava. Le poche vetture che passavano sembravano giustamente ignorarla. Perché? Era bella, nonostante l’età non fosse delle più fresche, rivestendola tuttavia di un fascino che le ventenni decisamente non riescono ad avere. La strada sembrava un lungo verme confuso circa la direzione da prendere. Nessuno l’aspettava, nessuno la voleva – Checazzo, qualcosa sarà! Osservò la postazione dei taxi, tutti bianchi, tutte vetture nuovissime. Si domandò dove stesse la crisi, in quel parco macchine di auto fiammanti e volgari. Senza chiedere nulla al conducente, salì su una Passat che odorava ancora di concessionario. Sbatté la portiera, svegliando il proprietario. Questi si girò, appoggiò gli occhi sul generoso decolté di una donna che, glaciale, gli chiese: – Mi fa accendere? Vito, il tassista, avrebbe voluto focalizzare l’attenzione della bella sui cartelli generosi di informa17 zioni circa i divieti all’interno della sua Passat nuova. Fra questi, ovviamente, il veto a fumare qualsiasi cosa. Non ne fu capace, Vito, single da sempre, bruttarello e goffo, pregno delle paure e delle aspirazioni dell’uomo medio, guardava ad Agatha come un pellegrino alla Terra Santa. Le allungò così un accendino verde, tremolando un poco. Agatha raccolse lo strumento e, senza degnare di uno sguardo Vito, accese, tossendo a lungo. – Vuole dell’acqua? – chiese l’autista, improvvisandosi cameriere. Agatha soffocò i residui rantolii, affidò a Vito uno sguardo pietoso e, senza pensare all’acqua, indicò la sua destinazione, restituendo ad entrambi la serenità di un chiaro ruolo. La Passat partì in direzione del centro storico. – Di solito, a quest’ora, non vado da quelle parti ma, si capisce, per lei, signora non è un problema. Piuttosto, non ha bagaglio? Agatha sembrava non essere di questo pianeta. Avrebbe gradito, sempre, viaggiare in contesti assolutamente privi di ogni possibilità di contatto umano. Sognava che i taxi non fossero condotti da persone, ma da automi totalmente incapaci di parlare o intrattenere fastidiose conversazioni. Cosa ci faceva a Genova, dopo pochi mesi che parevano anni? Le responsabilità... I suoi ricordi la accompagnarono alla cucina della sua piccola casa quando anche lei, piccola, doveva difendere ogni giorno la sua esistenza dagli attacchi della madre, donna sola, senza marito, senza ambizioni, senza voglie. La stufa era accesa, i pochi legnetti residui nella cassetta attigua agli sportelli languivano in attesa del sacrificio prossimo. Un nudo libro di fiabe, privato della copertina da un attimo di rabbia della piccola albergava sul pavimento coperto di polvere. Agatha guardava la 18 televisione sperando nell’avvento di un cartone animato per rompere la noia di una domenica uggiosa. La madre polemizzava al telefono con la sorella circa la sua cocciuta condizione di vita. Perché abitare in montagna? Perché ritirarsi dal mondo? E Agatha? Non aveva forse diritto di vivere una vita confacente alle aspettative di una bimba della sua età? Due ore per arrivare a scuola, il freddo pungente degli inverni che non davano tregua, i pochi soldi, i quattro giocattoli con cui Agatha si ostinava a sorprendersi. L’assenza di regali, calore, amore. Quando la telefonata si chiuse, coincidendo con le consuete invettive della madre alla sorella, Agatha si preparò a sentirsi per l’ennesima volta sciroppare mille giustificazioni da quella donna un tempo bella che non riusciva nemmeno più a chiamare mamma. Quella volta, però, il tutto le venne risparmiato. Di quel giorno, ricordava soltanto la porta di legno sbattuta e rimasta chiusa, con una maniglia troppo alta. L’indomani, piena di sonno, arrancò alla corriera e, alle otto, prese posto nel suo banco in terza fila. Alle dieci un bidello fece irruzione in classe, sussurrando all’orecchio della maestra qualcosa che ne modificò il consueto colore vermiglio in un verdastro che impressionò Agatha. Non ci fu bisogno che qualcuno le dicesse qualcosa. Lei sapeva già e proruppe in un pianto che assomigliava alla rottura di una diga. Non fece la cartella, non si asciugò gli occhi e non tornò mai più nella baita dove la madre aveva deciso di abitare per l’ultima volta, arrendendosi agli uomini, alle canzoni stonate, alla televisione inutile e alla stufa vuota, come il cuore che aveva deciso di abbandonare freddo. La Passat imboccò una salita mentre dalle nuvole precipitava una pioggia supina. Poco dopo, il lampeggiare della freccia ne indicò la sosta. Agatha tornò a fatica in sé, grata tuttavia per la coincidenza dell’arresto dell’auto con quello, invadente, dei suoi ricordi. Vito la 19 fissò per un attimo, parendo cogliere per qualche misterioso miracolo tutto il suo dramma, il suo focoso disorientamento. – Fanno 7 euro. Non le ho fatto pagare il notturno. Agatha aveva già pronti 10 euro nella mano destra, stretti come un ultimo sudato risparmio. Glieli allungò. Non voleva stare su quella macchina un minuto di più. – Tenga il resto, grazie – disse, senza guardare il suo traghettatore. – Si ricordi, se le serve, Toro 11 – rispose Vito e – scapolo… – aggiunse, senza farsi sentire. L’udito di Agatha era però addestrato a cogliere ogni bisbiglio. Non se ne fece avvedere, ma si girò e regalando una smorfia che era il massimo sorriso consentito in genere ad un estraneo, disse: – Va bene, lo ricorderò. La pioggia aveva reso le piastre a terra immacolati specchi neri: riflettevano il riverbero delle luci comunali trapiantate fra le pietre degli edifici del centro storico. 20 Il senso del bisogno Amsterdam, tempo umido Il treno si liberò di lui dopo quattordici ore di viaggiare eclettico attraverso il Vecchio continente. La Germania non lo aveva sorpreso. La Svizzera lo aveva annoiato. Ciò che, davvero, lo aveva stupito, era stato lo zelo di un controllore italiano (!) che gli aveva duramente contestato l’itinerario segnato sul biglietto del treno. Il biglietto era falso. Era falso, sempre. Normalmente il problema si presentava dopo Chiasso. Prima si respirava a pieni polmoni. Ci si permetteva anche uno spinello in fondo a una carrozza. I controllori italiani non guardavano il particolare, nemmeno per sogno. Lo facevano gli svizzeri. A volte, i tedeschi. Molto fiscali erano gli olandesi ma, a quel punto, si era ormai alla fine del viaggio. A due passi dalla stazione di Amsterdam si avvertiva già l’odore delle cantilene dei tossici che offrivano, delle puttane che mostravano, dei pub che illuminavano, degli italiani che si sfasciavano. La città si rifletteva colorata e stupida nei canali decisi a sfiancare le cromature geometriche. Si arrivava ad Amsterdam e improvvisamente si comprendeva il rigore di Mondrian e la maledizione di Van Gogh: era tutto lì, fra pozzanghere e cieli neri, pollo fritto e figa a nolo. A quel punto, si perdevano gli occhi negli occhi del diligente funzionario olandese: non poteva finire lì. Non per un biglietto. Magari una coltellata o una brutta storia, un amore malandato, un’incomprensione con un buttafuori o una sbronza in mezzo a turchi ostili. Ma non così, la parola fine non poteva essere trascritta su un misero biglietto di treno. Oltretutto, al termine del viaggio. Ciò significava un mare di scartoffie e, non ultimo, dichiarare nulle tutte le obliterazioni precedenti: declinare la stupidità dei colleghi che avevano controllato lo 21 stesso biglietto centinaia di chilometri prima era sempre sconveniente. Per questo il controllore italiano era stato stupefacente. Improvvisamente, le origini e le radici dei popoli erano venute meno: tutto appariva rovesciato. Orazio era stato costretto a scendere dal treno a Milano. Alla Stazione Centrale si era mimetizzato in un cesso e lì, diligente, aveva cancellato con un solvente d’emergenza tutte le tappe dell’itinerario precedente, correggendole con le nuove, esatte, comunicategli per telefono da un amico fidato. Da Milano a Chiasso non aveva subito controlli: aveva semplicemente squadrato il paesaggio attraverso il maxischermo del finestrino scorrere in un’indefessa macchia caldo-fredda fatta di giallo e di verde e di blu. Alla frontiera, la prova del fuoco: un controllare italiano obliterò la carta, offendendola con una ferita profonda; un sorriso pro forma salutò l’ingresso di Ora nell’Europa protestante, laica e senza mare. Si poteva passare. Amsterdam lo attendeva placida, come spesso era d’inverno. Come lei, Harvey, appoggiato a un paletto con le mani nascoste sotto le pieghe dei bicipiti troppo grossi. Nonostante fosse sera inoltrata, inforcava naturalmente occhiali da sole con montatura pesante. Come gli anfibi di Orazio toccarono il selciato che fiancheggiava i binari, Harvey si illuminò, in una sorta di strampalata risposta a uno stimolo da tempo atteso. Avvicinatisi, i due si scambiarono un saluto asciutto e imboccarono un sottopassaggio. Da dietro, apparivano aderire a specie di viventi assai diverse: Ora sembrava un onesto indoeuropeo, fiaccato da una borsa troppo pesante e da pensieri forse ingombranti; Harvey era chiaramente un africano, erede di una tradizione di sradicamenti schiavisti, che avevano vissuto i suoi lontanissimi antenati dall’Africa ai Caraibi. Nel loro passo, diverse storie, passate e future. Quello era il terzo viaggio in un anno, per Ora. 22 Mentre Harvey lo scortava al solito bus, schivando gli inviti del coro dei tossici a comprare cokespeedcrack, Orazio pensò a quanto lontana era adesso la sua casa e quanto vicina, nel contempo. Quanto inimmaginabile era la distanza dalla sua storia, dalla sua infanzia e quanto tutto quel casino gli paresse infinitamente più consono alle sue quattro ossa. – Com’è, italiano? Chiedeva Harvey, di solito, a quel punto, mentre il bus, diligente, li conduceva a Haarlem. E difatti, chiese: – Com’è, italiano? Di solito, Ora sorrideva e, guardandolo di sbieco, rispondeva con una specie di suono che non voleva dire un cazzo, ma che Harvey traduceva con un: – Abbastanza bene, grazie. Orazio, quella volta, però, fu preso dalla voglia di andare a cercare sotto gli occhiali scuri una pur distante forma di vita, un lampo a cui rivolgersi. Una stupida traccia di Dio in un suo simile colored dove specchiarsi e avere quindi un’immagine saggia di sé e del cosmo. Sulle lenti vide però solo la sua faccia tirata più lunga e meno buona ancora, se possibile. Il suo studio doveva essere durato un po’, poiché Harvey venne preso da una delle risate irrefrenabili che lo caratterizzavano e che, di fatto, lasciavano tutto ciò che le aveva precedute in una sorta di stasi. Il loro dialogo era dunque finito così, seppellito da una risata. Orazio prese posto nella solita stanza della solita casa sotto la solita autostrada in mezzo a un sacco di turchi che parevano essere ricchi soltanto di fretta. Aperta la porta, salutò Harvey con un cenno del capo. L’appuntamento era sempre lo stesso: il giorno dopo l’arrivo all’ora di pranzo sotto il Grasshoper. Per economia mentale, si tende spesso ad associare l’illegalità, soprattutto quella connessa alle sostanze psicotrope, a un mondo contorto, spiazzante, conturbato e caotico. Questo è vero forse in ultima analisi, prendendo in considerazione gli effetti di tali sostanze sulle persone 23 che in vari gradi le assumono, a tutte le latitudini del pianeta. Lo step precedente, lo smercio o lo spaccio, è invece un movimento cadenzato e preciso, fatto di puntualità e di poche parole. I mestieri onesti contemplano l’errore in maniera più bonaria, meno ansiosa. L’illegalità presuppone invece disciplina, misura e lucidità; in certe circostanze, può essere vitale avere una buona visione del reale e, in buona dose, è importante sapersi folli. Abbastanza folli da ingoiare ovuli di cocaina e steccarsi il culo con barrette di hashish, conteggiando per ogni elemento che si trattiene l’esatto corrispettivo in denaro. Abbastanza folli da bere succo di limone per stringersi l’ano e invocare gli dèi affinché sul tragitto non intervengano ritardi e/o complicazioni. Abbastanza folli da rincorrere una pazzia e travestirla da identificazione per farla in barba a tutti e magari anche a se stessi. Snake arrivò puntuale, come sempre. Orazio lo fissò nelle lenti scure, alla ricerca di un lampo di luce che traspirasse dalle fessure nere che usava come occhi. Anche in questo caso rinunciò: Snake non aveva nome, non sapeva guardare e benché fosse gennaio lasciava ammirare ai passanti la ragnatela a colori scolpita sul cranio rasato, i serpenti e i draghi che risalendo dal collo si avvinghiavano alle orecchie, finendo a combattersi sulla nuca, prolungando fiamme, code, denti e squame fin nella trama dell’enorme ragno nero che li attendeva all’altra sommità del capo, in uno scontro senza vinti né vincitori. Si diceva che fosse tatuato ovunque, in prevalenza con serpi e rettili reali o chimerici, ma anche con carte geografiche, aforismi, autostrade: uno specchio di sé a scanso di benevole interpretazioni. Dove non era inchiostro erano lame, borchie, anelli, che trafiggevano le labbra, la lingua, il naso, le orecchie e forse altro. Faceva schifo. 24 Lo avrebbe fatto comunque, solo con le decorazioni passava dall’essenza di verme a quella di rettile, più consona al mestiere. Entrarono nel locale, cercarono il luogo idoneo, scambiarono merce con soldi, a ognuno il suo viaggio. Orazio, rispetto a Snake, era una nullità. Ma se era lì era perché lì voleva essere, pensò cercando un punto d’approdo. Passando accanto al bagno l’assalì l’odore acre del vomito; si guardò intorno: nebbia e corpi, scale, stanze, mormorii inadeguati, finché scorse un angolo ragionevolmente abbandonato. Il divanetto rosa a elefantini cremisi e girasoli elettrici fronteggiato dal tavolino zebrato era degno di un’allucinazione dissuadente. Si sedette, scartò la stagnola, estrasse l’accendino e fu sommerso dall’avanzata di un vociare scomposto di urla e risate. I quattro entrarono nella sala, si spintonarono sulle panche al lato opposto e fiondarono un narghilè sul ripiano. – Cazzo gli italiani. Cazzo quello lo conosco… l’impiegato della filiale di credito! Questa è sfiga – pensò Ora buttandosi i capelli sul viso. Sentì una puntura di spillo trafiggergli la nuca, si voltò e acchiappò al volo gli occhiali scuri lanciatigli da Snake. Si alzò e lo seguì fino a un separé in fondo al corridoio. Buio e silenzio; Ora si sedette, rese gli occhiali al rettile intersecando la lama di gelo sprizzargli dalle pupille prima che gli voltasse le spalle e riprese l’operazione interrotta. – Snake non fa favori… non a me – pensava cercando una spiegazione, un secondo fine allo scampato pericolo. Ora squadrò il suo simile specchiandosi nelle lenti scure: non si trovò né intelligente, né pronto. Cercò convulsamente una sigaretta da un pacchetto già vuoto, Snake allungò la sacca del tabacco. – Cos’altro posso fare per te? – ringhiò con un sorriso un po’ storto. Orazio cercava l’indirizzo della calma e dell’imperturbabilità con molto impegno e risultati scarsissimi. Arrotolò una sigaretta troppo grassa e l’accese. – Dimmi – riuscì a dire. 25 Snake però non disse nulla. Si levò gli occhiali, strabuzzando un poco gli occhi. Arrotolò una sigaretta pure lui. – Vedi, il tabacco che uso è bruno. Tutto ciò che amo è bruno: brune le donne, bruno il tabacco, bruno l’arredamento dei posti più caldi, bruno il fumo più intenso e saporito. Hai mai letto Duchaussois? – No. Non mi dai l’idea di uno che legge. – Ci hai dato. Non leggo, di solito, ma Duchaussois ha scritto un romanzo che mi intriga... non ricordo il titolo… è la storia di un tipo che viaggia da trip a trip da Francia a India o giù di lì, che cazzo ne so… – Mmm… – Non chiedermi ora trame o altro. Sai però la cosa che maggiormente mi è rimasta impressa? – Devo chiedertelo per forza, immagino… – Sì. – COSA TI È RIMASTO IMPRESSO? – ...maggiormente? – MAGGIORMENTE? – Uao, che domanda fica... come t’è venuta? Comunque, la cosa che mi è rimasta maggiormente impressa è stata la sua convinzione che un buon shilom lo fai solo e soltanto col tabacco... – Col tabacco…? – Indovina, stronzo! – … Bruno, forse? – Bravo! – Quindi? – Quindi ho ragione: tutto ciò che mi piace è bruno. Lo scrivono anche sui libri! Bruno il tabacco, brune le donne... – ...Bruni i mobili... – ...E bruno il culo che ti farò! – In che senso, scusa? – Harvey ha capito che ci stai fregando. Lo so. Harvey sembra un grosso scimmione alla ricerca di un guinzaglio che lo trattenga ad una gabbia, ma non è così. Sotto quella pelle ruvida si nasconde l’animo contemplativo di uno studioso. È naturalmente curioso. 26 – Anche stronzo, mi vien da dire. Mollami con queste cazzate. Sono pulito e lo sapete. Ora fece per alzarsi. Senza muovere un muscolo, Snake gli fece intendere che poteva non essere conveniente. Ora si risedette ammettendo, di fatto, di essere dalla parte del torto. Nel frattempo altri turisti italiani vagavano gonfi nel locale e ridevano, sguaiati. Uno, il più malconcio di tutti, vomitava in un bicchiere pieno di birra. L’unica ragazza del gruppo, forse la sola ancora sana, urlò; lo strafatto stramazzò, il boccale straripò. Tutto sulla giacca di Snake. Residui schiumosi di cibo gli invasero il collo, un collo fatto ormai di una sola vena, rabbiosa e scattante. Nessuno mosse più un muscolo. Snake rovesciò il tavolo, brandì una sedia per lanciarla nel mucchio dei ragazzi. Ne colpì soltanto uno, che rovinò al suolo, trascinandosene dietro un paio, già di per sé barcollanti. Qualcuno imprecò, il barista era già al cellulare inveendo in una lingua che Snake nemmeno provò a capire; doveva andarsene. Una cameriera piuttosto brutta si avvicinò cauta al tavolo, raccogliendo coi guanti il bicchiere ormai vuoto. Snake si girò verso la sedia di Orazio che era vuota, nuda, libera. Nella strada laterale del coffee shop, Ora correva come un forsennato verso la piazza attigua. Era di nuovo lui. Libero, per ora. 27 Partire Si prese tempo. Contò le ore, i minuti. Si prese la briga di calcolare i secondi, vagheggiando che, nel frattempo, minuti e ore scorressero più lesti. La posizione del sole rimaneva tuttavia fissa, in barba alla frenesia del suo convulso ragionare. Persino le nuvole apparivano immobili e sornione; il vento, distante, non intendeva modificare il paesaggio. Non poteva uscire in quel momento. Non sarebbe convenuto a nessuno. A lui, men che meno. Dunque, prendersi tempo, pazienza. Il cantuccio che aveva trovato, nella frenesia di nascondersi, avrebbe disgustato anche un ratto. L’umidità si attaccava ai vestiti, la luce passava attraverso uno spazio troppo esiguo anche per lui, magro e asciugato da tutto quello che non riusciva a passargli attraverso. Da sopra, non sentiva più alcuna traccia del trambusto che lo aveva indotto a forzare la paralisi iniziale e poi, finalmente, scappare. Ma voleva aspettare, ancora. Attendere qualcosa che, ancora, non si manifestava. Qualcosa che gli avrebbe dato la certezza che poteva essere conveniente davvero uscire. Ancora un po’… Qualche secondo ancora… Iniziò a muovere le cosce, lentamente, avrebbe dovuto correre, forse. Nella peggiore delle ipotesi, lanciarsi in una folle corsa nei vicoli e fare un giro infinito per raggiungere la motocicletta posteggiata vicino al portone. Quello, secondo i suoi calcoli, doveva essere posto ad un paio di metri sopra al piccolo magazzino che stava abitando in quell’ansioso ritaglio di vita. 28 È incredibile quante forme può acquisire la libertà… Una nuvola coprì improvvisamente il sole. Era un segno? Uno che non crede a Niente a volte può credere a Tutto. Respirò. Una, due, tre volte. Deglutì saliva e paura, dimenticò lo stomaco e la nausea. Aveva deciso. Avvicinò la mano al chiavistello arrugginito e si fece inondare dall’aria appiccicosa d’agosto. Era pronto. Era libero. Era Ora. Lo sapeva. Solo fingeva. Amsterdam. Orazio calcò gli anfibi sul suolo della metro una volta di più. Niente Harvey, niente Snake. Doveva partire per un presupposto di continuità, l’illusione di una meta. Partire, per poi tornare. Avrebbe preso un treno, il primo. Calmare le acque, gli animi. Ritornare dopo un viaggetto discreto, senza meta. Poteva permetterselo. Salì alla Central Station, inforcò la linea gialla fino Spaklerweg, lì cambiò per l’arancione, direzione Gondel, abbastanza lontano. La linea gialla e quella arancione differivano per l’utenza: via via che il colore si faceva più scuro diminuivano le ventiquattrore e i vestiti di marca lasciavano spazio all’invasione di tute e scarpe da ginnastica. Scese a Gondel dopo aver realizzato di conoscere meglio Amsterdam di Genova. Per prima cosa cercò un discount d’abbigliamento. Sfilò la maglia sudata nel camerino, indossò jeans nuovi, si sciacquò il muso nel bagno, uscì. Questa volta avrebbe scelto un ostello: niente Harvey, niente Haarlem. Passeggiò nelle vie della periferia, s’allontanò lungo alcuni vicoli dove la prima volta che era arrivato aveva abitato. Case colorate, infinite altezze slavate lo faceva29 no sentire un nano: 1,80 m e chioma nera, lì, non servivano a un cazzo. S’avvicinò al chiosco, ordinò un caffè brodoso, afferrò la cialda del latte concentrato, sola legittimazione. Una pacca dirompente tra le scapole, cialda a dirotto nella tazza, schizzi di caffè negli occhi, misero fine all’attimo di vacuità. – Com’è italiano? Chiese Harvey in una risata dirompente. Ti aggiri in clandestinità? – Puttana… schifa… – inveì Ora mentalmente passandosi la mano sugli occhi. Pagò il caffè, andarono al pub. – Italiano, non so come hai fatto, ma sei arrivato dove dovevi arrivare. Stavamo per incazzarci sul serio – esordì Harvey sfilando gli occhiali neri per l’occasione. Sprizzava quasi allegria. Orazio era allibito, stupefatto, devastato. – Devi sostituire Snake, andiamo subito da lui. Orazio insinuò il sorso di spina rossa nel groppo in gola: – Sono fottuto. Harvey amava la metro, ma era un uomo pragmatico e distruggeva la fretta utilizzando una buona moto inglese. Senza che Ora potesse emettere nemmeno un sospiro, Harvey gli inserì un casco in testa e come un bambino lo posò sulla sella di un due ruote che sembrava concepito per correre. Dopo poco sfrecciavano nelle vie olandesi e soltanto verso Amstel Harvey ebbe l’ardire di chiedergli: –Ti piace la moto? Lasciarono il mezzo in una via del centro, sfilati i caschi camminarono veloci lungo l’argine, fino al barcone di Snake. Harvey salì sul ponte con passo pesante, condusse Ora come un prigioniero sottocoperta. Lì il solito tavolo attendeva una buona chiacchierata dei tre. Snake era seduto a un capo con le mani intrecciate; sfilò gli occhiali: la pupilla dilatata era un pozzo nero, quella spillata pure, ma lasciava presagire un’intensità di vuoto centrale. Orazio fissava la contraddizione chiedendosi cosa avesse ingurgitato per ottenerla. – Mi hanno sgamato, devo levare le tende per un po’. Mi sostituirai: la mia reggia e Harvey sono a tua dispo30 sizione. Al primo sgarro … zac! – disse Snake passandosi l’indice sulla giugulare. Orazio deglutì il groppo, non rispose, pensò: – Merito di quei cazzo di tatuaggi… dozzinale marchio d’identità… meglio arruolarsi nella Legione straniera – fece un cenno col capo, si rassegnò. Harvey e Snake uscirono, diretti alla stazione. Orazio sedette sulla brandina. – Cazzo di onde, ho già il mal di mare… e siamo solo all’inizio – pensò, sbirciando il cesso. 31 Destinazioni Snake attendeva il treno sbirciando in giro. Solo Harvey sapeva. Sarebbe andato al paese. Per un po’. Erano trascorsi due anni dall’ultima volta, qualche tatuaggio fa… Lì nessuno l’avrebbe cercato. Per un po’. Prima del marciapiede fece una sosta in bagno, sniffò abbastanza per la prima tranche. La scorta l’aveva avvolta in tre strati di stagnola e infilzata in una forma di Edamer, buccia rossa, poca puzza. I cani l’avrebbero trovato, ma non era stupido, non così tanto. La vecchia col cestino di gomitoli non sapeva di scortare una formaggetta oltre confine… nel peggiore dei casi se la sarebbe tirata lei. L’aveva terrorizzata proponendole di portarle il bagaglio, ma era buio, gli occhiali di lei erano fondi di bottiglia e la voce di Snake, a declinazione modulare, aveva assunto l’intensità più querula che potesse ricordare dai tempi dei cori in cattedrale. La signora Elvira, delusa dal figlio che s’era cercato un ramengo per un’industria di automobili, attanagliata dall’ennesimo distacco, desiderosa di toccare il suolo patrio, immemore di un sussurro maschio alle orecchie, si lasciò trascinare dalla melodia… lo diceva sempre: – L’abito non fa il monaco – e quel giovane maculato era tanto gentile, tanto pugliese… gli porse la valigia da portare e riporre sul portaoggetti lassù, ad anni luce dalla sua bassezza. Snake era scazzato di dover recitare tante ore: niente stivali sul sedile, rutti o bestemmie, ma non poteva sputare a un colpo di culo: beccare una vecchia barese ad Amsterdam aveva un’incidenza probabilistica infinitesimale. Era stato bambino, riesumò vecchi ricordi, censurò un bel po’ di passaggi e cullò la signora con giochi 32 innocenti, trasferte parrocchiali, delizie culinarie, finché s’addormentò. Il peggio fu a Milano. Tratta irta di fermate e gita scolastica. Non poteva muoversi per non perdere Elvira, frastornata più di lui. Provò invidia a guardarla sferruzzare coi timpani turati dalle cuffie del walkman. La professoressa si accomodò nello scompartimento con tre studenti, over quaranta lei, under sedici loro. Posarono zaini e natiche per alzarsi un secondo dopo. Seduti rimasero la prof e Attilio, così aveva declamato con acuto femmineo accomodandosi. Attilio aveva occhi e ricci neri, lunghe dita, sguardo perso. Guardava il mondo sfilare attraverso il finestrino, senza guardare. Ogni tanto si frugava nel naso, assaggiava, torceva le mani, fissava scorrere senza vedere. Attilio era superbamente tranquillo, fin troppo. Quindi la prof lo esortava a ogni rallentamento, a ogni scorsa di case, campi, fabbriche o fiumi. – Attilio, guarda il fumo delle ciminiere… ti piacerebbe far l’operaio? Attilio, parlo con te. – Sì prof, ho visto, no. – Cosa no? – L’operaio. – Neppure a me. – Attilio, guarda il Po, che bello, ti piacerebbe farci il bagno? Attilio, parlo con te. – No. – Cosa no? – Il bagno. – Neppure a me. – Minchia lo credo, siamo a gennaio, c’è un inquinamento da mutazioni genetiche, manco un ebefrenico c’entrerebbe… perché rompergli i coglioni? – rimuginava Snake. – Attilio, guarda i campi coltivati. Lo sai a cosa? Attilio, guarda che parlo con te… li vedi i campi? – No. – Come no… oggi ti sei alzato col piede sbagliato, non ti si può parlare… rispondi male. 33 – Quanto scassa – pensava Snake. – Basta – pensava Attilio smarrito – sono scemo, scemo, scemo… lasciatemi stare. Balzò a fulmine Eugenio, il compagno di classe pieno di gel e vitalità: – Attilio hai visto i campi? – No no no, non ho visto niente, non c’è niente – urlò Attilio esasperato. – Eh no caro, così non va – sbraitò la prof – cos’hai oggi da esser tanto sgarbato? Ti sei svegliato dalla parte del muro? Cosa c’è nei campi? Grano, mais… chi fa i compiti con te? Eugenio, allora niente più compiti, niente più calcio… – No, va bene, scusi prof, vedo i campi, il mais, il fiume… scusate – pigolò Attilio mortificato – sono scemo, scemo, scemo… ripeteva – La tragedia di essere scemi è che ti trattano da scemo e son più scemi di te… e non ci puoi fare una minchia – pensava Snake accarezzando la lama infilzata nelle mutande. – Se non scendono sgozzo qualcuno… se non lo lasciano in pace, se non per lui almeno per me, la prof avrà qualcosa da ricordare – pensava fremente. – Attilio, mettiti la giacca, alla prossima scendiamo. Attilio? Attilio mosse lievemente le dita, fingendo di non sentire fino al quarto richiamo. Snake accarezzava l’impugnatura, questione di poco, si sarebbe trattenuto, solo uno sprazzo di voluttà… Attilio, rassegnato, si alzò, infilò il piumino, si accodò ai compagni in corridoio. Non ne poteva più. Infinità di paesini abbarbicati, finalmente Bari. Nessuno ad aspettarlo, la formaggetta rimase a Elvira: troppa polizia e lui era un richiamo ineludibile. Salì su un taxi e pedinò l’auto con a bordo signora e figlia… le abbordò sotto al palazzo col pretesto di un mazzo di chiavi smarrito, frugò nella cesta, con un’acrobazia estrasse le chiavi dalla manica, cacciò la formaggetta nel borsone, salutò, tornò sul taxi. Monopoli, il paese. 34 Era in collina, a pochi chilometri dalla città. La vecchia casa tra una villa e una fattoria. Non ci stava più nessuno. Avrebbe dovuto starci lui. Alla nonna sarebbe venuto un colpo a trovarselo davanti così: all’improvviso e con decine di righe in più… doveva avvertirla preventivamente. L’unica soluzione era una sosta al bar. Pomeriggio inoltrato, il bar era zeppo di contadini, muratori, pizzicagnoli, meccanici. Lo guardarono interdetti, un istante, e un levarsi di: – Ciro, sei tu… non ti si riconosce… in forma… finalmente sei tornato… chissà la nonna… e come te le passi là? Bionde a non finire, puoi scommetterci… Ciro, per un attimo, avesse potuto si sarebbe candeggiato… provò un’espressione meno torva, abbozzò un sorriso, s’avvicinò al banco. Al primo sorso un braccio robusto lo prese alle spalle. Si voltò, era Toni, il suo migliore amico. Si strinsero forte. – Ciro, pezzo di… che sorpresa… ci voleva. Ciro-Snake lo guardò, inspirò. Toni sapeva, ogni tanto faceva capolino lassù fra i canali, Toni era raggiante. Erano amici da sempre, da sempre Snake un passo dietro di lui. Questione di mazzo. Toni faceva il meccanico, ufficialmente nessuno sballo, fidanzata, Audi fiammante, tranquillità. Toni era autoctono, aveva varcato il confine solo per raggiungere Ciro. Toni non cercava niente, aveva già tutto. Sembrava James Dean in licenza dal Vietnam. Stravissuto senza spostare un dito. Questione di mazzo: una serie di sfregi e cicatrici ineffabilmente perfetta. Il labbro, l’occhio, lo zigomo, il bicipite, il petto… fascino di ogni donna, estremamente cattivo e attraente. Non gli serviva altro, un bastardo ineguagliabile. Non spiegava mai il perché: una caduta in bicicletta, due in motorino… niente di eroico. Era reduce dal Vietnam. Salirono sull’Audi, raggiunsero la villa-fattoria. – Josephine? – chiese Snake. – Tra due settimane si sposa – rispose Toni gelido. 35 Snake provò un moto di stizza, lo represse, scese dall’auto, nella penombra crepuscolare volse lo sguardo intorno. Degrado. Macerie. In realtà era tutto intero: il giardino pareva il deserto dei Gobi dopo Hiroshima, la casa riesumava dall’aldilà due piani giallo ocra, patio e terrazzi in un ghigno cadaverico di persiane marroni e sprangate. Snake accarezzò il coltello, si sfiorò le palle. Fece un cenno a Toni, si sarebbero rivisti più tardi. Entrò. Evitò d’ispezionare intorno, compose il numero di Josephine. 36 Nemici Monopoli, una giornata di sole Una nonna, amici e parenti, orecchiette, vini, salami e nottata dopo, il pomeriggio giunse JosephineGraziella. Posteggiò la Golf vermiglia, scese. Neri capelli raccolti in una coda striata da un’applique biondo platino, fila di orecchini, jeans attillati a vita bassa, ventre piatto, camicia, maglione, giubbotto, tacchi a spillo, occhiali firmati a grande schermo. Snake provò uno scatto d’ira, l’avrebbe atterrata. Aprì la porta, andò in bagno. Aspirò, tornò. La strinse, la spogliò, la buttò sul letto. Iniziò. Josephine guardava il soffitto, emetteva qualche rantolio, puntava le unghie a smalto metallizzato cinque colori pendant, nella schiena di lui. Fra due settimane si sarebbe sposata. Anche Josephine era stata una bambina: per niente perspicace, per tutto vanitosa, insulsa e obbediente. Snake era stato Ciro, il figlio dell’industriale crepato d’infarto, la madre mai saputo dov’era. Ciro era un investimento, i suoi (di lei) dicevano: – Mi raccomando. Ciro annuiva, la portava via. Un bel po’ d’anni più di lei, diversi tatuaggi fa. Suo fratello Giorgio le diceva sempre che era stupida. Suo fratello era un intellettuale, sapeva tutto. Quindi era stupida. Non le piaceva leggere, tantomeno ragionare. A scuola tirava il sei, qualche sette al secondo quadrimestre, ginnastica, religione e condotta ammirevoli. Scriveva sms di slang e faccine, aveva successo ai compleanni, le amiche la invidiavano, i maschi la palpavano. Con Ciro non parlava. Stava lì, lui toccava e apriva bocca per descriverle le sue amanti o piantarle la lingua in gola. Lei taceva. Lui esplorava. Non era espressiva, non librava fra altezze, sguazzava in una palude di convenienze e futilità. Probabilmente la 37 differenza tra maschio e femmina non consisteva solo nel modo di pisciare… Teneva un’agenda rosa, con un fiocco per sigillo. Lì aveva scritto qualche frase, zeppa di abbreviazioni sgrammaticate, su Snake, sul suo modo di prenderla e sul suo modo di darsi. Quel tanto bastò a sua madre. Josephine fu iscritta a un corso biennale di parrucchiera e mandata in città dalla zia, in attesa che Ciro la sposasse. Fu fatta visitare: non era incinta. La doveva sposare comunque. Ciro fu convocato in famiglia, dopo una serie di rimproveri accettò, niente da eccepire. La vide con un altro. La odiò. La prese per la gola, la violentò. Poi salì sul treno: Amsterdam. Soldi ne aveva in disavanzo, ma qualcosa doveva pur fare. Spacciare, inzepparsi di decorazioni, ogni tanto tornare da lei. Senza preavviso. Era peggio della droga. Non poteva farne a meno. La riempiva d’insulti, umiliazioni. Spariva. A Josephine piaceva inventare acconciature, smaltarsi le unghie, truccarsi, ballare, cucinare. Aveva conosciuto Rodolfo. Si sarebbero sposati. Avrebbe finalmente coronato il suo sogno: un regno di mestoli di legno e casseruole argentate, uscite mondane, vacanze, un giorno i bambini e, chissà, l’invito a un reality show. Snake non si vedeva da un pezzo, meglio così. Ora si dimenava su di lei a ritmo ossessivo. Niente variazioni, un colpo dopo l’altro, qualcuno più forte… Si era stancata di gemere e stringere, guardava il soffitto… percepì la vaghezza di petali di rosa appassiti in caduta libera… in testa le balenò: – Questione di principio… – cosa significasse non lo sapeva, ma Giorgio glielo ripeteva spesso. – Or… org… organza… organo… – di quella roba che aveva raramente provato, oggi non era giornata. Snake imprecava tra sé. Cosa ci fosse in quel trip che s’era sparato nel cervello non sapeva: un groviglio d’ansia e d’oblio, vagamente conficcato tra fegato e ventre, abbozzi d’idee e spasimi sfiancati… Colpo su colpo aveva preso a sudare. Josephine immaginava colature d’inchiostro che non c’erano, la borchia sul prepu38 zio iniziava a infastidirla, le gambe le dolevano. Snake invocava una violenza, una porcata qualsiasi da infliggerle… niente… perseguiva indolente e non riusciva a finire. A lei apparve un vecchio fumetto (di Giorgio): l’uomo seduto lungo il fiume aspetta di veder passare il cadavere del suo nemico. Si volta per pisciare, il cadavere passa, lui si risiede. Scorse una schiena tatuata trasportata dai flutti… – Non sono andata al cesso e non stavo ad aspettare… Mise più giù le unghie, strinse, spinse le anche, cercò un sospiro, lo spruzzo finalmente arrivò. Snake si voltò sulla schiena, respirò. Accese una sigaretta, le descrisse la fisionomia della sua ultima donna. Josephine assestava il dolente piercing ombelicale, quasi chiedendosi cosa glielo diceva a fare… ma rimase in stand by. Giorgio l’aveva imbottita per anni di cognizioni filosofiche, che le sguazzavano nel cervello come verdure nella zuppa di una mensa aziendale. Non riusciva a elaborarle… alzò gli occhi. Quella stanza, quella casa, dove Snake si era dilettato a rigirarla a piacimento, era di un vuoto spettrale… se avesse conosciuto il linguaggio e il pensiero si sarebbe chiesta quale fosse il suo ruolo in tale desolazione. Non se lo chiese, provò un senso di nausea, andò in bagno, accese il cellulare. Tre sms: uno di Rodolfo, uno di Jenny, uno di sua madre. Lesse questo: il vestito era pronto, domani la prova. Ebbe un guizzo di gioia, si vestì. Snake la guardò: – Finalmente non sento più il bisogno di venirti dentro, di ferirti… non me ne frega più. Josephine, che aveva comprato innumerevoli test di gravidanza con la sola consolazione che se fosse nato qualcosa Snake sarebbe sempre tornato, immaginò un pupo a ghirigori… forse era meglio così. Lo guardò e disse: – Avresti fatto meglio ad arruolarti nella Legione straniera. 39 Da dove le fosse uscita non sapeva, tantomeno cosa e dove fosse la Legione ma, una volta tanto, si sentì arguta. Indossò il giubbotto e se ne andò. Snake passò dalla nonna. Seduta in cucina sgranava un rosario. Gli preparò un caffè, era evidente che ne aveva bisogno. Suo nipote era un obbrobrio, ma ringraziava Dio che fosse solo quello. Aveva snocciolato preghiere a decenni invocando pietà. Seppellendo in giardino quintali di lucertole mozze, gattini annegati, uccelli crocifissi, insetti infilzati. Ciro si divertiva così, forse peggio crescendo… inveiva contro non si sa cosa e chi, spaccava mobili e giochi, pestava chiunque… tranne Toni. L’aveva cresciuto lei ed era riuscita a nasconderlo a tutti, anche al marito e al figlio, suo padre. Cosa erano quelle sciagure epidermiche in confronto a un’opzione omicida? Per quanto ne sapeva non era ricercato, non aveva ucciso nessuno, solo si deliziava a vendere eroina e affini per passatempo. Ma questo lo ignorava, era contenta così. Ciro bevve il caffè, Toni strombazzò. Partirono. – Stasera ho bisogno di qualcosa di forte… di un di più che non so cosa sia – disse Ciro-Snake. – Tranquillo, ci penso io – rispose Toni-James, – il viaggio è lungo e ho portato il necessario per rimanere svegli. – Dove trovo tutto? Toni indicò sornione il cassetto del cruscotto, Ciro lo aprì con poca eleganza, estraendone un sacchetto marrone. – Cazzo, nasconderlo almeno? – E poi non lo trovi! Sghignazzarono come due scemi, illusi padrini di un sistema delirante; la strada aveva voglia di ingoiarli. – Senti Ciro, lo sai che non ti chiedo mai molto… però… – Però? – Però, che cazzo ci andiamo a fare a Genova? – Non ho mai visto l’Acquario… – Ah… ti compro lo zucchero filato o preferisci un bel tubo di Smarties? – Senza dubbio, lo zucchero filato! 40 Squame Genova, inverno Le scale mobili la trasportarono al terzo piano del centro commerciale. Prima di prendere una direzione s’appoggiò alla balaustra e guardò giù. Il brulicare di teste saliva, scendeva, camminava, sostava. Due ragazzi si baciavano. Agatha rimase immobile a fissarli, provò una fitta, si voltò. – Quanti sapranno dove andare? Quanti si crederanno innamorati o si sentiranno in trappola, si odieranno o si ameranno? Non lo posso sapere: non lo sanno neppure loro, ma sicuramente quelli veri, lì in mezzo, saranno pochi. Se se ne renderanno conto? E a me cosa importa? Era in pieno caos, perché angustiarsi con degli argomenti spinosi? Cominciò dalla vetrina degli occhiali. La riflessione l’aveva indisposta e i prezzi non miglioravano la situazione. S’infilò in un negozio di vestiti d’infima qualità a rovistare nei mucchi. Cosa cercasse non sapeva: a ogni ingresso se ne dimenticava. Un individuo la scontrò: – Scusa. – Niente. Ci sarebbe stato da rimanere a bocca aperta, ma lei non si scompose. Di sfuggita scorse un groviglio deambulante, tornò a frugare, uscì. – Hai una sigaretta? – Sì. – Grazie. – Di nuovo lui – pensò. – Dai solchi emergerebbe quasi un ragazzo, ma quello sguardo vuoto… Continuò a gironzolare e qualcosa riuscì pure a comprare. Il rumore, la calca, le colonne sonore, le luci artificiali e l’aria condizionata l’avevano innervosita. Non poteva ripartire senza un attimo di relax. Si diresse al bar, ordinò una birra, sedette ai tavoli esterni. Il panorama non era dei migliori: periferia. 41 – Che poi non sarebbe brutto: le colline, il verde… se i palazzi non fossero fatiscenti, sembrerebbe si essere in campagna. Anzi, ci siamo, in una deturpazione di né campagna né città… alberi soffocati dallo smog, panni stesi più sporchi di prima, camion, casermoni e un agglomerato di villaggio montano che sembra uscito da un plastico svizzero sbagliato… distruggono e poi ricreano l’artificio. Troppo tardi. Architetti, consulenti, piani urbanistici… mistificazioni. – Scusa hai da accendere? – Certo – rispose porgendogli l’accendino. Di nuovo lui. – A quanto pare oggi dobbiamo incontrarci, piacere, Ciro. Posso sedermi? – Fai pure, Agatha. – Sei di qui? – Più o meno. – Io e il mio amico siamo arrivati ieri e non conosciamo la città. Sapresti indicarci qualche locale per la serata? – Ma… veramente… – Ciro, un’altra Ceres? – chiese Toni giunto sullo spiazzo. – Sì, ti presento Agatha, stasera ci accompagnerà. – Ciao, Toni. Bevi anche tu? – Ciao, sì grazie, la stessa – rispose e si rivolse all’altro: – Cosa inventi? Non conosco le nuove attrazioni, se ci fossero quelle di un tempo non ci metterei piede, arrangiati. – Se mi rispondi così mi attiri. Andiamo insieme in un posto a caso. Anche a cena. – Non mi pare un’idea centrata, quindi mi piace. Ma togliti dalla testa strane conclusioni. – Cosa vai pensando? – Non penso, osservo. C’è zeppo di ragazze adatte al tuo look. Cosa cerchi? – Perché tu cosa cerchi? – Non sono affari tuoi. – Questa mi sballa… non è possibile. – Questa lo dici a tua sorella. Me ne vado, ciao. 42 – Ma no, scusami… fermati – le disse Ciro premendole il braccio. Toni guardava Agatha. Non capiva cosa ci trovasse Ciro, era bella, ma meno giovane di loro e niente tatuaggi, piercing, scolli, merletti, borchie, spacchi o scoperture sconcertanti… cosa lo attirava? – È scazzata… ecco perché. A me invece sta sui coglioni. Ma dimmi se una così manco mi degna d’uno sguardo, mi considera quanto la sedia, anzi meno perché alla sedia può appenderci la borsa… – Dì un po’, hai un’amica da invitare? – le chiese. – Qui la storia si fa tesa. Non invito nessuno, siete voi che invitate me. – E intanto le pago da bere… – pensava Toni indispettito. Si rividero più tardi e si diressero verso il lungomare. – Tanto pagano loro, non devo pormi il problema – pensava Agatha. – Mi chiamo Ciro, per gli amici Snake – le disse. – Capisco. Se preferisci, posso farlo anch’io. Snake scelse il Grill Steak Fish Beef, ovviamente costoso. Al tavolo Agatha chiese ai nuovi amici quale fosse il loro lavoro, perché si trovassero a Genova, le solite cose. Snake inventò un mitico ruolo di broker olandese, Toni disse la verità e Agatha li informò del suo tedioso mestiere di traduttrice. – Minchia è pure intellettuale… che ci fai con una così? Che ora se mi sfugge una chela o ceffo un verbo mi sputtano… già non mi piace, non posso parlare… vado al cesso a caricarmi – pensò Toni. Terminata la cena uscirono. Camminarono un poco, poi sedettero su una panchina. Toni, scalpitante, si rialzò e riprese a passeggiare. – Te la faresti una striscia? – chiese Snake. – Dipende – rispose Agatha. – Coca. – D’accordo. 43 La conversazione si rianimò, Toni tornò con una ragazza accalappiata al volo e ripartirono. Trovarono un bar con terrazza, musica, gente, entrarono. Toni provò stizza. Snake aveva qualcosa più di lui; lo negava, ma gli rimordeva: Snake era un animale e non c’era verso di eguagliarlo. Certo a lui le donne cadevano addosso indipendentemente… ma non era così potente. Agatha e Snake sedevano su due sdraio appartate di fronte al mare, sorseggiando drink. – È inebetito… le pende dalle labbra… ma cosa ci trova, cosa, che quella guarda nel vuoto e non lo caga manco di striscio? – pensò prima d’alzare i tacchi. – Fa freddo – disse Agatha e Snake le cinse le spalle. – Capisci che ora mio figlio avrebbe quindici anni e io un salone di bellezza, invece no, sgobbo al bar tabacchi e abito in periferia – diceva una donna seduta a destra di Snake alle amiche. – Non dirlo a me, che per lo sciopero dei postali ho perso l’iscrizione al corso di hostess e mi ritrovo a lavare chiome infeltrite, annerire le bionde e imbiondire le nere… e decolorazioni, colpi di sole, riflessi ramati, piastre alle ricce e permanenti alle lisce… che schifo, un giorno o l’altro me ne vado in Messico! – Minchia, queste son sceme proprio… ma che cazzo ne sa di come sarebbe se non fosse stato… suo figlio! Magari non sarebbe un figlio ma una figlia, un efebo o chi lo sa… e lei? Chi glielo dice che non sarebbe caduta dalla scala mentre puliva i vetri? E l’altra? Chi glielo garantisce che il paracadute si sarebbe aperto o che l’avrebbero scartata per scarsità d’ingegno? No, non le reggo – pensava Snake furioso accarezzando il coltello infilzato negli slip e si volse all’amica: – Ma le senti? Non le sopporto… tu ti chiedi come sarebbe se non fosse stato? – Sì, me lo son chiesto tante volte… Probabilmente meglio, escludendo le incognite. Quelle che hanno determinato il com’è… no, non lo so e non lo voglio sapere, sennò mi butto da un dirupo o m’imbottisco di tritolo, 44 ma poi non vedo perché dove cosa chi portare all’inferno. – Andiamo via – le disse, si alzò e l’abbracciò stretta, perdendo il viso nei suoi capelli. Agatha provò un istante di calore, poi si scosse: – No, devo tirarmene fuori… cosa faccio, cosa dico? Snake la portò sulla spiaggia, gelida e buia. Agatha si guardava intorno come in una trance al rallentatore. Voleva scappare, ma non riusciva a staccarsi dal magnetismo di Snake. – C’è freddo, tanto freddo, lasciami andare. – No, tu rimani con me, ti scalderò – rispose lui e pensò: – Ora, in circostanze normali, l’avrei afferrata per i capelli, sbattuta a terra e chiuso, che freddo, che andare… le avrei tolto la voglia di parlare. Ma a lei no, cosa mi succede? – Snake, lasciami – diceva Agatha, ma intanto lo stringeva e pensava: – Non so, non riesco… è come se mi guidasse… Non devo rendere conto a nessuno, ma scopare cosa cambia? Scappo – si divincolò dalla stretta e corse a perdifiato verso la strada. Snake, messa a fuoco la situazione, la riacciuffò. Prendendola alle spalle la voltò, le affondò di nuovo la testa fra collo e capelli e l’accarezzò. Poi sedettero a terra, appoggiati a una barca. – Non aver paura, rimaniamo qui, solo abbracciati… ma non andare – le sussurrò sempre più stupito di se stesso. Agatha appoggiò il capo alla sua spalla, chiuse gli occhi. – Cosa ci faccio qui con un broker? Meglio uno spacciatore, ma cosa importa? È simpatico – pensò. – Non capisco cosa mi accade, è come se mi leggesse dentro… forse dovrei dirle la verità e chiudere senza ingannarla… ma perché?– si tormentava Snake. Risolsero i dilemmi con una sniffata, accesero un falò e conversarono per ore di argomenti strampalati. Non ci capivano granché, ma si separarono allegramente con un bacio e uno scambio di recapiti. 45 Mai scendere dalla fottuta barca Amsterdam, inverno Giorni pigri e gelidi, febbraio. Ha esplorato ogni angolo del barcone, attende. – La… Lanzarote . – Italiano, che cazzo dici? – gli urla Harvey precipitandosi in cabina. – 17 verticale: isola delle Canarie, Lanzarote – risponde Orazio stupito. – Non scherzare. – Non è uno scherzo, è La Settimana Enigmistica. – Italiano, io non so da dove sei uscito, ma non puoi dirlo e non con quelle mani… – dice Harvey buttandosi a peso morto sulla poltrona a versarsi un whisky. – Che hanno le mie mani? – Lascia perdere. Lanzarote… tu vuoi portarmi all’inferno. Ma lo sai cosa vuol dire un viaggio della speranza? Tutti i tuoi sogni, investimento della famiglia, naufragati, sfracellati su uno scoglio a cinquanta metri dalla riva? Lo sai cosa vuol dire la sete, il morso del gelo nelle ossa, i pianti dei bambini nel buio, l’ignoto e un groviglio d’ombre umane che non sono più… finiti in mezzo ai surfisti… biondi, atletici, firmati e abbronzati, a tirarli fuori? Una presa per il culo in grande stile… oltre al danno la beffa… per chi rimane. Senza più niente, una crisalide di stracci su una spiaggia bianca di palme e di alberghi che ridono in faccia alla sconfitta. Per chi rimane… mio fratello non era fra loro. Inabissato, disperso… a Lanzarote. Perché poi ti dico queste cose? Non devo parlare… Che cosa ci fai qui? – disse Harvey alterato dall’ira. – E tu che cosa ci fai? – chiese di rimando Ora. – Ammazzo i surfisti. Quelli che da Lanzarote, Majorca e che cazzo ne so, spostano i loro culi qui, a sballarsi i cervelli che non hanno. Qualcosa in contrario? 46 – Assolutamente no. Giochiamo ai dadi? Prima di lanciare Orazio portò lo sguardo sulle decine di caselle in fila, ordinate sul foglio. Si guardò le mani. – Che cos’hanno le mie mani? – pensò. Osservò Harvey per un po’. Aveva voglia di sorridere, ma ingoiò il tutto. Molte persone pensano che ridere equivalga a sorridere e se anche Harvey l’avesse pensato a Ora non sarebbe piaciuto. Forse nemmeno alla sua faccia. Nel suo personale cruciverba scorse al 15 verticale: – Definizione: Che cazzo ci faccio qui? Cinque lettere. NULLA D’altronde nulla lo faceva anche altrove, sia lontano, sia vicino. – Però, minchia, su un barcone in un canale olandese con un negro a dirmi cosa fare e cosa no. E dove cazzo è Snake? – si chiese. Riguadagnò lucidità, mise a fuoco Harvey, le sue collane da rapstar e aggiunse: – Non dovresti mischiare popper e bamba... – Io metto insieme quello che mi pare. – Mi dici cosa ti rode? – Cosa vuol dire? – Scusa è un italiano un po’ così: voglio dire, cosa ti ho fatto? Sono tre giorni che sono qui, sono tre giorni che mi cerchi per sapere dove sono e per sapere cosa sono. Apri la bocca per rompermi i coglioni. Io sono qui. È quello che so. Sequestrato dall’allegra compagnia di negri Harvey & Snake su un barcone che fa a gara con la putrescenza per la puzza… Che devo fare? Cosa aspetto? Cosa mi aspetto? Vaffanculo, ok? – Guarda che Ciro è italiano. – Va bene, anche Gino lo è. – E chi cazzo è Gino? – No, chi cazzo è Ciro! – Ciro è Snake, stronzo! Sembra negro ma è venuto qua ad Amsterdam da Monopoli. – Da Monopoli! Pensa tu! 47 Orazio scoppiò a ridere. Ogni mese, a volte più volte incontrava un negro italiano che gli vendeva merda olandese. Pazzesco! Ciro! Non andava. Ciro! Quel nome non poteva non rievocargli l’urlo tanto ridicolo quanto disperato della Milo in TV, tanti anni prima. – Ciro! Ciro! Minchia, Ciro! – Il suo pusher d’Olanda, uscito direttamente da un fumetto pulp, stratatuato, straincazzato, strapugliese! La risata si faceva largo in lui, si accampava per erigere nuova vita di continuo. Una risata lo stava seppellendo. Guardò Harvey: – Fammi indovinare: tu sei di Latina! Ora stava ridendo a morire. Harvey restava seduto sul bordo del giaciglio di Snake-Ciro. Aveva l’espressione contratta di un bimbo al quale viene sottratto un balocco. Orazio si allungò sulla branda, sopra di lui. Tenendo la penna in bocca, rollava una canna. Sciolse da una piastra che Harvey chiamava Black Bombay un po’ di pasta che si avvinghiò vogliosa al tabacco nella mano. – Dai vaffanculo! Scherzavo. Non mi sembri di Latina... – Lo credo. Il barcone ondeggiava un poco. Il tempo si faceva brutto e il vento stuzzicava l’imbarcazione, coccolandone gli occupanti, i dadi giacevano inutilizzati sul pianale. Ora propose di fare un caffè e Harvey, tacendo, acconsentì. Il fornello a gas, che Harvey chiamava orgogliosamente cucina, si accese, come ogni volta, aggredendo con la fiamma la barbetta di Orazio il quale, imprecando, mise il pentolino sul fuoco. Raccogliendo in un cucchiaio migliaia di praline di nescafè, vagheggiò un catramino italiano, di quelli che asciugano la bocca e la rendono amara e ruvida. Si voltò a cercare due tazze e un po’ di zucchero, quando scorse il deretano di Harvey battersela verso l’uscita con tutto il suo proprietario. – Negro! Dove cazzo vai? – urlò. 48 Ma Harvey era già stato assorbito dalla folla come acqua da una spugna. Le pozzanghere si erano moltiplicate sul selciato accogliente. Le cose, in Olanda sembravano andare proprio bene: una folla di sani lavoratori imboccava vie diverse animate da desideri, direzioni e bisogni. Andavano bene le cose; proprio bene, in Olanda, paesello protestante mercantile e fiero. Andava bene a tutti, fra i canali, le puttane le industrie, i metro e i bus. E Ora? Orazio raccolse il rantolo dell’acqua in ebollizione, ne smorzò il rancore e la trasformò in caffè, come un buon mago. Il sole era ormai una puntata precedente. Le persone avevano quasi tutte un posto, a quell’ora, in quasi ogni dove. La branda ospitò, tiepida, la carcassa di Ora e le sue quattrossa. Perché Harvey era così carico? Non si diede una risposta: la canna aveva fatto il suo effetto. In pochi minuti, Orazio si fece accogliere fra le morbide braccia di Morfeo. I sogni sono sempre sintomi, chiavi di accesso a elementi e parti di sé imperscrutabili, lontanissime. Remote vite precedenti, richiami di anteriori cieli e posteriori futuri. Ora non amava ricordare, rammentare la sua vita prima di Amsterdam, della Perdita, della Deriva. Arenato? A volte sognava di sé, di una vita nuova fatta di orari e complessi, frustrazioni lavorative e buone relazioni sentimentali, malinconici tradimenti e rancorose serate davanti alla tv. Il barcone dondolava e Ora continuava a camminare salterellando. Con le mani, andava continuamente a grattarsi i polpaccetti che, lungo il tragitto, le ortiche avevano a più riprese addentato. Riusciva sì a trotterellare dietro gli scarponi pesanti del nonno, resistendo al bruciore delle malepiante, ma questo durava soltanto alcuni minuti. Quindi, doveva arrestarsi, grattare la carne per godere qualche istante di un piacere obliquo, che 49 generava un bruciore ancora più intenso, gravato dalla distanza dal passo sicuro dell’uomo davanti a lui, armato di falcetto. D’altronde, la madre, assai sensata, aveva insistito a lungo sull’opportunità di indossare un paio di pantaloni lunghi, ma intestardirsi sui pantaloncini blu dell’Uomo Ragno corti fino al ginocchio era divenuta la crociata di quella giornata di fine marzo. Poi, contava sulla complicità del nonno, determinante nel contenere le ire materne rispetto alla sua fermezza di bimbo. Era emozionatissimo. Il vecchio lo aveva assoldato per “un lavoro da grandi”: era necessario ripristinare il passo per giungere ad un rudere di proprietà e, da lì, “camallare” giù una vasca d’amianto che ancora non si chiamava eternit e che ancora i contadini adoperavano. Il bimbo contemplava la grossa schiena del padre di suo padre avanzare nella macchia e farsi largo, senza difficoltà. Le grosse mani stringevano quell’arnese a mezza luna nell’amputazione continua di rami grossi e piccoli. Intorno a loro, una macchia intricata e fitta sviluppatasi nell’incuria dell’ormai radicata mentalità moderna dominava il paesaggio. Da un cespuglio di bacche rosse, improvvisamente, un serpente fece capolino sul passo muovendosi nella sua direzione. Il terrore lo invase. Non fu capace di urlare, scappare, muoversi: ogni energia pareva averlo abbandonato. Fu lo scarpone del nonno ad abbattersi sulla testa triangolare del rettile, uccidendolo. Il bimbo sgranò gli occhi sul corpo impazzito della serpe che avvolgeva convulso il pantalone dell’uomo. A quello fu sufficiente calcare la suola ancora per riuscire, bestemmiando, a finire l’animale. Le fresche lezioni di catechismo avevano ingigantito il ribrezzo che il bambino sapeva già di provare per i serpenti; in quell’angolo di bosco, il nonno aveva assunto connotati simbolici titanici. Senza tante cerimonie, il bimbo ricevette alcune manate di incoraggiamento sulla testa per continuare il cammino. Per la prima volta si era sentito protetto da un pericolo reale, visibile, concreto. 50 In dialetto, il nonno lo esortò a non farsi mangiare il belino dalle mosche e a proseguire verso il rudere, perché il mondo non poteva mica fermarsi per una biscia. Un po’ scosso, Orazio assaporava un misto fra gratitudine e commozione, augurandosi di riuscire a rendere a quell’uomo, enorme ai suoi occhi, il favore di preservargli vita, magari da grande. Mancava poco alla radura attigua al rudere. Con una forza che a nove anni giudicò sovrumana, il nonno issò sulla sua schiena il recipiente e, di buona lena, fecero ritorno verso casa. Il barcone ondeggiava, sorretto da strana acqua e Ora era sempre lo stesso bambino in un’ atmosfera insostenibile. Nel salotto di casa uomini e donne erano divisi in due gruppi. I primi circondavano un fiasco di vino, le altre la moglie del defunto. I giochi erano fatti. Qualcosa di più grande faceva capolino nella vita di tutti; un vento di trasformazione aveva scompigliato i capelli della testolina di bimbetto sottratto al serpente foriero di morte. Quest’ultima era arrivata in punta di piedi, il nonno era scomparso, nudo, sul tavolo di un ospedale. Il bambino si domandò a più riprese che cosa garantisse il contegno di tutte quelle persone adoperate a mugugnare intorno ai tavoli e alle tappezzerie stinte vicino alle finestre. Nessuno pareva riuscire a intuire il suo dolore. Gridare con tutto il fiato di cui fosse capace, spaccare qualcosa, nulla, in realtà, considerava possibile fare. La stessa paralisi che lo aveva avvolto di fronte al serpente lo conquistò nuovamente, con un terrore ancora più grande, ché nuovamente non aveva volto, né sembianza. Giurò di non voler mai più sentire l’eco del di quel vuoto dentro di lui. Il campanello suonava continuamente; nessuno si muoveva, era sempre più sera e e Ora si issava sulle gambette adesso ferme. Aprire era compito suo. Era giusto. Era Ora. 51 Reportage Genova, inverno … da Islamabad. Una scusante, una guerra, un presupposto di verginità. Islamabad è il nemico, la nuova crociata per liberare la donna velata. Islamabad è lontana, incomparabilmente vicina. Una mutazione talebana a legittimazione americana. Islamabad è là, riuscendo a essere qua. Celata nei meandri di un’inconcepibile realtà. Liberare la donna velata dal dominio ancestrale. Un’ipotesi di progresso, uguaglianza, sviluppo, tolleranza. A modello occidentale. L’America, l’Europa, il qua… Italia, un gradino sopra Islamabad. Un presupposto di verginità. Monouso. Il resto di conseguenza. Prospettiva di progresso, allineamento imitativo. Uguaglianza nella diversità o uniformazione a un modello tarlato. Segni evolutivi al maschile. Se parli sei fuori o, meglio, sei una puttana. Se ti opponi non funzioni. Adeguamento e recitazioni. Agatha non aveva avuto il tempo di porsi il problema che c’era sbattuta contro. Dopo era troppo tardi e la cosa rimase a ronzarle nel cervello. Un’elaborazione teorica inversamente proporzionale alla sua assurdità. Mancava sempre un pezzo all’ingranaggio per distaccare Islamabad. Un rigiro intorno al sesso, una questione di scopate in cui non s’azzecca verso. L’identità di una donna è pur sempre legata all’innocenza fisiologica: verginità. Un po’ come una vacca, necessariamente stupida, materialmente utile. In fondo, poi, cosa importa? Sviluppo e degenerazioni vanno da sé. Non può farci niente. Forse difetta della necessaria atrofia cerebrale per adeguarsi al modello. La sua collezione d’insulti, accuse e minacce è invidiabile. Da far rabbrividire. Non la scuotono più di tan- 52 to, si limitano a schifarla, in una sorta di sfida insensata, in fondo indifferente. Ritaglia trafiletti dai giornali. Islamabad non è lontana. Donne ammazzate, stuprate, picchiate… ce ne sono tutti i giorni. Si potrebbero confrontare con gli incidenti sul lavoro? Ritaglia, guarda i ritratti degli assassini. Molti sembrano bambini indifesi… spesso hanno ripetuto minacce, prima di colpire… nessuno ha pensato ai propri figli. È uno sterminio. Non c’è lapidazione, quella sta a Islamabad. Qui coltelli, ferri da stiro, pugni, calci, fucili… e le persecuzioni dove le mettiamo? Il telefono sorvegliato, i pedinamenti, le apparizioni improvvise? Un incubo. Lei osserva con irritata e rassegnata noncuranza, elenca… Seduta su una panchina, aprì Le affinità elettive, ma spire di serpe avvolsero le pagine e un attimo dopo ricevette un sms. – Di nuovo lui! Va bene, andrò ad Amsterdam… chissà se per giocare in borsa muterà pelle – pensò Agatha fissando le increspature delle onde rifulgere al sole di marzo. Abbandonandosi sullo schienale cozzò col capo contro qualcosa, si voltò. Dietro di lei un crocchio di donne gravide scambiava opinioni su test, scadenze e corredi. Rabbrividì e tornò a Goethe. – Mi sento male solo a sentirle. – Condivido. Agatha alzò di nuovo lo sguardo: erano due mamme sedute sulla panchina accanto, tenendo d’occhio i figli che disputavano una partita di calcio poco lontano. La cosa la confortò: desiderava un figlio, da tempo, ma provava un’istintiva ripulsa per gravidanza e modalità connesse. Non era il dolore a spaventarla, ma l’ineluttabilità di un percorso manovrato… non lo sopportava. – Eppure è così. Adesso mio figlio mi chiede se mi sento sola quando va via col papà. “Ma no” dico io “andate 53 pure”… com’è bella la solitudine – disse la prima mamma. – È vero, che bellezza, poi arriva la sera e si ricomincia. – A mio figlio dico sempre: “Quanto mi sei mancato, non vedevo l’ora di rivederti…” – Anch’io, ma il problema è il padre, mi chiede: “Non ti sono mancato?” “No, anzi…” – E male fai, lo dicevo anch’io, istintivamente, ma così ti tormentano, invece se gli lasci credere il contrario, tutto fila e chi se ne frega. – Tanto comunque fai non funziona – disse una terza mamma appena giunta. – È vero: vi è mai capitato di sentirvi dire: “Non è vero”. Dicono una cosa, ribatti e “No, non è vero”. – Sì, a volte mi chiedo: “Son scema, ho le traveggole?” – “Cioè, è vero, ma non è quello che intendevo, sei tu che mi confondi” spiegano. – Infatti, siamo noi. L’altro giorno ho preso il vocabolario: “Questo è il significato della parola che mi hai rivolto.” “Impossibile, non c’è.” “Come non c’è… è qui.” – No, è un delirio, bisognerebbe registrarli… – Il bello è che sono il sesso forte… ma forte dove? – No, guarda, l’uno per l’altro sono una manica d’idioti. – E se parli? L’altra sera ho detto: “Non ne posso più.” – Anni che lo dico: non serve, peggio ancora. – Cosa mi risponde? “Ho capito, vuoi tradirmi con un altro.” – Infatti, a loro interessa solo quello. Non è che si possa discutere, decidere: tutto si risolve in una scopata… – Che poi chi è che non sa trattenersi? Loro. Ma si sa, hanno un istinto animale. – Direi demenziale, però mi conforta, credevo di essere un caso anomalo, invece no, è un flagello. Agatha non riusciva a seguire la lettura e sorrideva tra sé. Intanto quattro anziani, sedutisi quatti sull’ultima panchina libera, origliavano allibiti le invettive delle tre, così coinvolte dalla discussione da dimenticare il volume e il resto. Scese il tramonto, si alzarono. 54 Agatha osservava il suo bimbo, imprigionato in un palloncino, volteggiare nell’etere… – Dove siamo finiti? – disse uno dei vecchi accennando col capo alle tre in allontanamento. – Tempi moderni… se mia moglie parlasse così la sistemerei io… – disse il secondo. – Peccato che tu una moglie non ce l’hai – aggiunse il terzo. – Ma no rumpimuse u belin – concluse il quarto strizzando l’occhiolino ad Agatha, che li immaginava avvolti nelle kefiah fare da scudo alle granate sioniste, in camice sulle ambulanze della Croce Rossa internazionale o schierati in mimetica davanti agli osservatori ONU. Rabbrividì e sospirò; il palloncino era scomparso. Chiuse il libro e se ne andò. 55 Spostamenti Amsterdam, notte Era Ora anche mentre apriva gli occhi sul cucinino sporco di un barcone olandese galleggiante e non volante. Tossì. Tremava. – Cazzo – pensò. La bocca asciutta gli ricordò di bere. Mentre beveva, sguinzagliò gli occhi alla ricerca del necessario per dimenticarsi un po’. Un po’ di tutto. Trovò il barattolo dei tesori di Snake. Era la seconda volta che lo vedeva. L’anno prima Snake glielo aveva mostrato in un coffeeshop. Doveva essere fatto come un copertone: dentro il barattolo c’era abbastanza per farsi sgamare, costringendo gli sbirri a redigere verbali infiniti sul contenuto dello stesso. Snake parlava a Orazio guardando il barattolo. L’espressione del viso era tutta concentrata sulle pasticche e sulla carta stagnola che si esibivano al di là del vetro. A Orazio venne in mente un bambino intento a fare mostra dei suoi tesori. A un anno di distanza, l’idea di scoperchiare il barattolo, lì solo, lo faceva sentire un po’ come Pandora alle prese con le sue voglie e le sue colpe. Lo aprì, non succedeva niente: nessuna onda aveva travolto la barca, il cielo era sempre più o meno blu e nessuno gli stava diagnosticando una morte cerebrale. Aprì una stagnola grande e caddero alcune pietre di bamba; un involucro di plastica fasciava lamine di oppio come l’uovo di Pasqua!!! come l’uovo di Pasqua!!! Si preparò una striscia, la pippò mentre smascellava come un caimano. – Devo scendere dalla barca – disse a qualcuno che non era lì. – Devo scendere dalla barca. 56 Pensò al cuoco di Apocalypse now, alla sua voglia di mango e alla tigre che aveva incontrato nell’unica occasione in cui era sceso dalla barca – Mai scendere dalla barca – continuava il cuoco a dire. Ora si alzò, chiuse il barattolo e prese la porta senza preoccuparsi di chiuderla; non poteva fermarsi nemmeno un attimo. L’ostinazione nel voler perseguire l’uscita era troppo debole per permettersi di interrompere il proprio corso. Uscito, fu colpito dalle troppe luci e lucette della città ancora in movimento. Saltò sul marciapiede come Armstrong sul suolo lunare e quasi corse per allontanarsi il prima possibile dal canale della barca. Era sera. Era ora. Al duecentesimo passo circa, gli si parò davanti un ragazzo piccolo, scuro, gel, basette, occhiali da sole, chiodo sintetico, movenze sclerotiche. Provò a scansarlo da destra, se lo trovò di fronte, si buttò a sinistra, se lo ritrovò in faccia, tornò a destra… e lui lo scontrò: – Porcoddue stavo passando io – ringhiò incazzatissimo. – Oooh che cazzo dici? Semmai passavo IO! – urlò Ora facendo voltare i passanti – Lo sapevo, italiano – pensò mettendosi in posa da boxeur ma il giovane, dopo un tentennamento a capo voltato, scattò nevrotico tra le fauci della folla. Orazio riprese la marcia e percorse due isolati senza accorgersi di dove stesse andando, finché un guinzaglio gli s’intromise nella falcata. – Puttana… – inveì. – Italiano, finalmente rispunti! – gli urlò Harvey scoppiando in una risata. – Rispunti tu, fottuto negro, perché cazzo sei scappato? – rispose Ora sentendosi i piedi invadere di tepore. – Ma che…? – Heinz, mi sono improvvisamente ricordato della sua passeggiatina… è una bestiola precisa, sai? – disse Harvey indicando un pitbull beige dall’espressione ebete. – Sta minchia, il tuo cane pulcioso m’ha pisciato sugli anfibi! 57 – Cosa vuoi che sia? Dai, accompagnaci al Discount Dog & Pet. – Al discount in piena notte sguazzando nel piscio? – Ventiquattrore su ventiquattro, servizio completo. Ti compro anche un paio di calze. – E mi asciughi i piedi coi capelli. Al discount Ora guardava il culo di Harvey aggirarsi tra scaffali e involucri di ossa sintetiche, collari borchiati e stroboscopici, sabbie aromatizzate, scatolette e risi soffiati dietetici, biologici, equosolidali, cuscinetti scalda sonno, pupazzetti sbranabili, ciotole parlanti. – Ma quanto cazzo è rincoglionito?– pensava strabiliato e irritato dal fetore umido che lo istigava a ogni passo. Harvey non aveva più niente di feroce, svuotava sul rullo il carrello ricolmo con lo stesso sguardo di una nonna che assicura il futuro a un cucciolo umano o animale. Spese una cifra spaventosa per una nonna, irrisoria per un trafficante. Heinz, che lo attendeva in uno dei separé canini all’ingresso, come lo annusò gli corse incontro scodinzolante rasentando lo strozzamento. Harvey passò le buste a Ora e corse a farsi leccare come un bambino ritardato. – Finisce che è pure omosessuale – pensò Ora rassegnato. 58 Genova, un paese, notte Agatha beveva bourbon e fumava. Chiuse l’ultima pagina di Una stagione all’inferno. Il mare era una tavola scura indistinguibile dal cielo opaco e lei sentiva di aver girato in tondo per ritornare al punto di partenza. – Il fatto è che il dove, ora, non importa più, meglio un ponte sull’arcobaleno. Nel dolore ci si può cullare fino ad affondare. Indifferenza è quanto rimane, il vuoto. Non amava tornare al passato, tranne a quegli istanti che, tolto il maltolto, sommavano pochi anni, il resto erano conferme e sgradite sorprese. Detestava i rimpianti e i falsi ritorni. Baratri, muri, stermini, parevano trovare una sbilenca spiegazione. La pietà diventava spietatezza. L’unica risposta era una raccolta di segnali sottili per allestire la fine. Ora che sapeva, perché stare? Il buio si trasformò in muro, cinta su cinta. Un castello grigio, un fossato, intorno una ferita infinita, solco senza sangue né meta. Agatha si allucinava su trip autoindotti. Non aveva mai chiesto ai suoi amici se i loro viaggi fossero migliori… probabilmente sì, altrimenti perché farli? I suoi portavano dritti all’inferno ed era stanca, troppo, per continuare. Recinzioni, macerie, cieli grigi e incisioni asettiche erano uno schifo: meglio l’orrore. L’angoscia, piantata tra stomaco e petto, serviva solo a sfiancarla. Il suicidio andava contro i suoi principi, ma al momento le sembravano insulsi, travolti da un crollo infinito e cosa c’era di meglio che morire per sé, senza attribuire ad alcuno l’onore della dipartita? L’idea del salto non le piaceva: avrebbe preferito delle pillole infallibili, incidersi le vene… ma la scogliera era vicina, bastava uscire. Un urlo bestiale precedette di una frazione di secondo la stretta alla gola. Era riuscito a entrare e Agatha capì subito che non serviva difendersi. Per la prima volta ebbe paura di lui e l’unico modo di fermarlo era tacere, 59 non muoversi. Piangeva. Solo la morte li avrebbe separati. Dopo una riga di: – Dimmi che hai un altro, dimmi chi è, chi ti ha mandato il messaggio sul cellulare, ti ucciderò… – Lasciami, non è vero, vattene… – finalmente allentò la presa. Scuse, lacrime, servivano solo ad aumentare il terrore. – È pazzo, non me ne libererò mai… e ora che faccio, dove vado? Provò ad afferrare il telefono, lui le strinse il polso; tentò di raggiungere la porta, la sbatté contro il muro. Tornò immobile, aspettò che lui si calmasse, poi iniziò a urlare. – Maledetto, cosa ci fai qui? Non t’è bastato ancora, vuoi ammazzarmi? Ammazzami – gridò e corse in camera da letto, prese il coltello a serramanico. Lui, accasciato a terra, singhiozzava. Agatha estrasse la lama, gliela puntò contro, esitò un istante, fatale. Lui intravide un metallo annacquato, balzò in piedi e fuggì. – Cazzo merda cazzo, stavolta lo colpivo… basta! Ma come posso essere così stupida. E che avevo annusato i vestiti del caro estinto prima di buttarli in lavatrice… ma che lavatrice e lavatrice, inceneritore. Estinto un corno, questo estingue me. Di chi è il messaggio sul cellulare? – pensò: – Snake. Perfetto! Infilzò il coltello nelle mutande, prese lo zaino, reliquia di lontane partenze, c’infilò furiosamente qualche vestito, prese l’orario dei treni, chiamò un taxi. Avrebbe ucciso chiunque le si fosse avvicinato, in quel momento. Nessuno l’avvicinò. Occupò uno scompartimento vuoto, il panorama erano ombre di alberi sfreccianti, ogni tanto luci, gallerie nere poco più del cielo; del resto piangeva e non la interessava. Era la sua dannazione, doveva scappare. La pietà schiacciava la rabbia, la rabbia annientava la pietà e non riusciva a liberarsi di lui. Provò un brivido di terrore: 60 – E se mi avesse seguita, se ora me lo trovassi qui? I suoi occhi chiari, la sua aria indifesa, la sua debolezza infinita. Quello sguardo avrebbe voluto trasmutarlo, donargli la forza… una partita persa in partenza, da tempo ci si dibatteva, era il momento di chiudere. – Finché morte non vi separi… non mi sono sottoposta a quella bieca sentenza e ci sono imprigionata lo stesso. I suoi occhi… sì che mi ci trovo, ma lui è un uomo… uomo? Tenebra, mi ucciderà se non lo ucciderò. Il nodo della questione, poi, sta tutto lì. Lui ha un pretesto di vittimismo, ettogrammi di disgrazie presenti passate e future da sciorinare, come se gli altri non fossero sfigati ognuno a suo modo. Ma se hai una concatenazione inenarrabile e incompatibile, a chi lo dici, a cosa serve? Oltre il finestrino buio, balenii, lacrime, il richiamo della morte la riprese. Aprì per valutare la possibilità di scagliarsi dal treno in corsa. Ma la certezza di non scampare mancava: un qualsiasi invisibile ostacolo avrebbe potuto sottrarla alla fine, lasciandola invalida o in balia dei servizi sociali. – No, ci vuole un ponte, un burrone o i binari col treno in arrivo… Oppure vivere, chissà, magari trovare un attimo di respiro. Non lo sapevo, gli credevo, se potessi tornerei indietro per dirgli: “Portami via”. Ma ormai lo so, partirebbe in quarta senza benzina per scagliarmi contro ogni sua mancanza o fallimento. L’apertura della porta la sottrasse dai tetri pensieri. Un giovane dai capelli corvini, la pelle ambrata e il sorriso luminoso irruppe nello scompartimento: – Bibite, panini, patatine… al vostro servizio. Signora, cosa gradisce? Agatha, contratta, rispose: – Una birra. – Bitu non vende alcolici, proibito, ma per lei farà un’eccezione – e aprì la cerniera della borsa termica celata dai panini al piano inferiore del carrello. Mentre le stappava la birra lei si chiese: – Cosa ci fa un carrello delle bibite sul treno in piena notte e dove diavolo è salito? 61 – Bitu sa cosa stai pensando: che cosa ci fa lui sul treno in piena notte? E sai cosa ti dice? Adesso te lo spiega. E così dicendo lottava strenuamente per infilare il mezzo nello scompartimento. La manovra pareva impossibile ma lui, testardo, finì col riuscirci sbrecciando bordi di ingresso e carrello. Buona parte del contenuto finì a terra, infine a forza di colpi lo incastrò di sghimbescio fra i sedili e prese posto trionfante di fronte ad Agatha, che lo fissava sbalordita. Si lisciò i capelli e sorrise: – Bitu molto buono e allegro, Bitu viene da Bangladesh, solo, senza amici e famiglia – esordì. – E ci risiamo… – pensò Agatha. – Bangladesh povero e piovoso, Bitu venuto Italia cercare fortuna ma prima andato Marocco, espulso, Spagna, espulso, Grecia, povera, qui bello, se Bitu potesse parlare con qualcuno, invece solo, solo, solo! – Eh no caro, solo un corno! E dove vivi, dove dormi? – A Genova, con compagni comunità. – Allora vedi che solo non sei, non starmi a stressare. – India grande, compagni Bitu di altre regioni, anche diverse religioni, non così amici come tu credi. – Guarda io non credo niente, piuttosto vorrei sapere perché hai incastrato quel catorcio qui dentro: dove passo per andare in bagno? – Sali sui sedili. – Spiritoso, se non te ne vai urlo. – Ma no, Bitu pacifico e socievole, ti terrà compagnia. Agatha sfiorò il coltello, osservò l’interlocutore. Tutto sommato era un bel ragazzo, non eccessivamente corpulento e poi era armata. – Ma sì, meglio lui dell’angoscia dilaniante, il malefico carretto ostacolerebbe l’eventuale attacco di lui… potrebbe essere qui… e Bitu che mi difende – pensava rivolta ai remoti lampioni che smagliavano il buio oltre il finestrino. – Che pensi? Si chiede Bitu, lo so, gli dirai “Niente”, ma se lui ti raccontasse di quella volta che dal niente… ma no, tu non vuoi discorsi difficili, cose semplici, rilassanti… una favola per conciliare il sonno? Eppure quella 62 volta del niente è memorabile… una fiaba dalle Mille e una notte? Un ciclo del Ramayana? Anche se al matrimonio di sua sorella… ma no, Bitu lascia perdere… Pinocchio, Gilgamesh? Cosa vorresti? – Bitu, se stessi zitto sarei già contenta – rispose lei prima di ripiombare al finestrino. – Una spalla… la tua, una qualsiasi, appoggiarmi un momento – pensò e guardò Bitu. Le sue spalle erano ben proporzionate, ma inadatte, se non pericolose. Appoggiò il capo al sedile, chiuse gli occhi. Immaginò la spalla di lui: una frana, una duna di sabbia che si sgretolava al contatto. Eppure, in quel momento allo sbando, avrebbe voluto crederci ancora, stringerlo… sprofondava. – Quanta gente quel giorno, eppure a Bitu pareva niente al confronto della preghiera… come quella volta del sari di Alina, che aveva gli occhi così neri e sorridenti, almeno fino al giorno in cui Bitu… che poi, fra tutti, sceglierebbe Gilgamesh, se solo se lo ricordasse… per non parlare di quel tale dal giudizio pestilenziale… come si chiama?… Paride, ecco Paride ma, come Bitu stava dicendo, quel giorno la folla, che poi, lasciaglielo dire, fosse stato al posto suo ci avrebbe pensato sei volte a giudicare perché si sa, ogni donna ha qualcosa d’ineffabilmente bello… invece Gilgamesh, che non c’entra col giorno del matrimonio della sorella maggiore di Bitu, quando il niente… anche tu, con gli occhi chiusi, hai un fascino… Bitu pensa, forse starai già dormendo o ti racconterà del matrimonio e in India i matrimoni sono importantissimi, Bitu non vuole dire che dalle altre parti non siano importanti lo stesso… prendiamo in Italia, per esempio… beh comunque al matrimonio della sorella di Bitu… starai dormendo? Le tue palpebre sono un po’ arrossate e Bitu conosce ottimo rimedio ayurveda per le palpebre… ma se fosse pianto, allora non c’è ayurveda che tenga contro la tristezza. Solo allegria, un buon racconto forse, come quello del matrimonio… ma a te, forse, non importa di un matrimonio, indiano poi… ti piaceranno i matrimoni? Il tuo ti piacerà si chiede Bi63 tu? E con chi sarà si chiede ancora? Chissà se hai guardato Bitu… ora dormi, Bitu lo sa, dormirà anche lui. Agatha si sentì sollevata, non sapeva per quanto ancora avrebbe retto lo sconclusionato monologo, sperava che Bitu si sarebbe cullato da solo addormentandosi prima di lei. Bitu, arresosi all’evidenza di aver sortito un effetto soporifero privo di significato, aggirò il carrello, raggiunse la latrina, rientrò nello scompartimento, spense l’interruttore, si allungò sul sedile e s’addormentò. O almeno così credette: dormiva e sognava o vaneggiava? Un tappeto volante lo guidava oltre le nubi, il mondo, sotto, era una minuscola carta geografica, Agatha, cavalcioni sopra di lui, pareva una furia; si eccitava, troppo, sbarrò gli occhi e la guardò. Si dibatté fra l’istinto d’aggressione e la razionalità. Immaginò un giardino, un’amaca, un cocktail e un permesso di soggiorno a tempo indeterminato: – Astuzia batte impulso – pensò e volse lo sguardo al soffitto. Nel contempo Agatha volava su un tappeto, il mare e la terra comparivano a tratti sotto le nuvole soffici e bianche, appoggiava il capo su una spalla. Di chi? Un abbraccio… mentre il tappeto volteggiava su una città grigia, tetra, invernale anche d’estate. Amsterdam. Un rumore interruppe il sogno, si voltò, sfiorò il coltello e si rimise a dormire. Bitu voltò il capo con un ghigno sulle labbra, la osservò, chiuse gli occhi. 64 Arrivi Amsterdam, lo stesso giorno. Più o meno, la stessa ora Dalla notte si era passati alla mattina in un battibaleno. I bagni della stazione erano sempre la tappa finale dell’itinerario lavorativo di Harvey. Lo faceva sentire bene. Gli piacevano le prime ore del mattino, fatte di furgoni sfreccianti, passanti addormentati e zoccole ormai completamente prive del fascino di poche ore prima; gli piaceva ingollare le brioche calde o il pane dolce appena sfornato, guardare intorno a sé le persone normali prendere posto. Guardava tutto con la sufficienza paternalistica di chi la sa lunga. Doveva andare a letto, distendere le gambe e le braccia, liberare tutto il suo corpo. Non la testa. Certe immagini dovevano continuare lo show: ogni notte recava la buona novella chimica a chi di dovere. Non spacciava più per la strada. No. Ormai era rispettabile: non viaggiava in metro, ma in taxi; non stazionava alle fermate del bus per proporre ragazze o bustine; adesso saliva in ascensore, i portieri che prima lo guardavano di sbieco gli aprivano le porte dei loro palazzi. Erano nottate lunghe, ma bene organizzate. Il suo telefono squillava ripetutamente; lungo la città aveva localizzato con Snake punti strategici in cui fare deposito. Nel suo continuo peregrinare, trovava comunque il tempo per due sane bevute e, se gli tirava, una buona scopata. La maggior parte delle ragazze lo conosceva e qualcuna aveva lavorato anche per lui; tutto sommato, era voluto bene: non picchiava spesso e, quando lo faceva, non era troppo duro, non voleva lasciare segni. Quando aveva conosciuto Snake, quel business stava per finire; farcelo entrare significò accelerare la chiusura della Premiata Ditta Pompini a Pagamento. Se Harvey era preciso e distante, Snake si faceva continuamente tra65 volgere dalle situazioni, si scopava tutte le ragazze e, quando picchiava perché gli piaceva farlo, andava giù duro. – Fottuti italiani – pensò. Mentre si incamminava verso il barcone, rammentò la presenza di Orazio e la loro forzata convivenza. Non gli piaceva, l’italiano. Più di una volta avrebbe voluto pestarlo di santa ragione, ma Snake si fidava di lui; non c’era un motivo per quello che Snake faceva, ma Harvey si fidava di lui ed ecco che il cane si mordeva la coda. E poi era vero che non gli piaceva? Pianure, foreste, polder, tulipani? – Dove sono i tulipani? – si chiedeva Agatha avvicinandosi alla meta. Gli arrivi in treno le parevano tutti simili, specie dopo una nottata sui sedili. Bitu dormiva ancora, inconsapevole del pericolo incombente. – Pezzo di asino, se lo becca il controllore finisce in un centro di accoglienza… esisteranno anche in Olanda? E saranno accoglienti come quelli italiani? Blog dei centri di accoglienza italiani, i fantastici CIE, Centri di identificazione ed espulsione…. Con tanto di questionari informativi: se non annegate su una carretta del mare (che pare stiano sostituendo con gli yacht) preferireste marcire qui o disidratarvi nel deserto libico? A uso nazionale, internazionale e del terzo mondo. Uno sproloquio, il terzo mondo non esiste più, come il bipolarismo, l’allineamento, la non proliferazione… reperti obsoleti. Lo sveglio? No… ora si chiamano paesi in via di sviluppo, globalizzazione, corridoio accalcato, pauperizzazione internazionale, riuscirò a passare?… Migranti, clandestini, cosa faccio? Corsa nucleare, strategia del terrore, aspetto o lo vado a svegliare? Scudo spaziale, melting pot… l’Olanda già mi deprime… devo svegliarlo. Tentennò, entrò nella toilette. Intanto Bitu si stiracchiava, apriva la borsa, estraeva le brioche e una micro macchina del caffè. Disincagliò il carrello, si rimise in sesto, 66 indi offrì la colazione all’amica, la abbracciò, le lasciò il suo numero di cellulare e partì a disturbare i viaggiatori. Sulla piattaforma della stazione di Amsterdam Agatha se lo ritrovò alle costole. – Ma non dovevi andare a Copenaghen? – Sì, ma Bitu pendolare intercontinentale, OlandaDanimarca per lui una passeggiata e dopo un minuto già sentiva tua mancanza. – Senti, non stressarmi, ho da fare. – Intendi dire non ansiarmi? Questo dici a Bitu, non capisci che lui segno del destino? – Sì, della sfiga. – Ferma lì e osserva. In un batter d’occhio la caffettiera automatica si convertì in scalda vivande, le bustine di zucchero in senape e ketchup, le brioche in wurstel, la tunica bianca in giubba giallo-rossa; un cartello con prezzario campeggiò sul carrello e insieme fecero ingresso nella città. – Questo è uscito da un fumetto… ma dove la teneva tutta sta roba? – si chiedeva Agatha tentando di scollarselo. – Hai notato? Bitu capace di calarsi in ogni identità. – Indiscutibilmente hai delle qualità, ma ambulante eri e ambulate rimani, non sei diventato un sub, un banchiere o un trapper. Ora ti saluto, ho un appuntamento. – Chissà se stasera, quando ripasserai di qui, troverai il povero Bitu trasmutato in barman o se invece sarà già rinchiuso nelle segrete del carcere. – Ma che segrete, mica siamo in Bangladesh, di qui non ci ripasso e non te l’ho detto io di fare il clandestino. – Certo che no, sono il lignaggio, il fato inesorabile della povertà… il vicolo cieco dal quale Bitu vuole fuggire, perché altri, del suo popolo, di ogni popolo, possano sperare… e tu che fai? Lo lasci qui, esposto al pericolo? – Sì. – Eh no, questo non lo puoi fare! Chi ti ha vegliato su di te? Chi ti ha cullata per farti addormentare, chi ti ha offerto la birra e la colazione? Bitu. 67 – Offerto? Ma se mi hai estorto 20 euro e dilaniato i timpani con discorsi deliranti… come va a finire la storia? – Quale storia? – Che ne so, una di quelle che hai iniziato. – Allora… lascia pensare Bitu… – Evita, scherzavo, non me ne frega niente, vado, ciao. Come raggiunse il marciapiede opposto udì uno stridore di freni, un impatto sordo, frantumazioni vetrose, tintinnii metallici, wurstel a volo radente, salse fluttuanti… l’impulso di fuga cozzò con l’istinto protettivo, nonché con la morale… tornò sui suoi passi. Bitu, in posa moritura attorniato da guidatore e passanti, l’afferrò al polso costringendola a chinarsi: – Portami via, presto o sarà la fine – le sussurrò all’orecchio. Agatha si alzò, passò il suo biglietto da visita all’automobilista convincendolo ad allontanarsi, porse la mano al ragazzo, lo sostenne, recuperò l’ammaccato carrello e insieme si avviarono alla ricerca di uno slargo e una panchina. – Ohi ohi povero Bitu, la malasorte – disse lui prima di mettersi a farfugliare in urdu. Non che si lamentasse, stava ringraziando Shiva per avergli fornito la geniale idea e la prontezza di spirito per realizzarla. Gli dolevano un poco il fianco e la spalla, ma poteva sopportare… tutto calcolato e piangendo celava il sorriso erompente. 68 Incontri Amsterdam, poco dopo Harvey li teneva d’occhio da un pezzo: quei due avevano un che d’anomalo e inquietante… lei italiana e all’apparenza meno sfigata di lui, ma per girare con uno così… – Come dice Ora? Vai con lo zoppo… e lui altro che zoppo, dimentica con che gamba arrancare… però potrebbe servire: niente permesso di soggiorno, nuovo del posto, non si orienta… a meno che non finga. E lei? Come fa a non capire che la prende per il culo… eh no, non ne può più di starlo a sentire, ora si alza… dimmi che si alza – pensava seduto due panchine oltre quella occupata da loro. Agatha infatti si alzò, ma lasciò lì lo zaino. – Oh cazzo, va in farmacia… ora dovrei alzarmi io e rendere lui degno di medicazioni, almeno lei si sbatte per qualcosa… cosa c’ha sto bastardo che ghigna come una iena e scrive sms? Bitu, tra una ditata e l’altra, mirava di sbieco l’ingresso della farmacia. Come la porta scorrevole si mosse infilò il telefono in tasca, chiuse gli occhi e ciondolò il capo. Agatha, vedendolo appisolato, aspirò un alito di libertà: erba e fiori di campo accarezzati dalla brezza, cielo terso e radi fiocchi di nembi… cambiò direzione, avvicinò un passante per consegnarli gli agognati medicamenti, ma nell’indicargli il malcapitato s’accorse che era ben sveglio e sbracciante. Sospirò rassegnata e fece dietrofront, percependo il clic di un chiavistello a doppia mandata. – Ecco Bitu: analgesico, pomata, cotone, garza, disinfettante… iniziamo da questo e se non ti sentirai meglio andremo da un medico. – No, il medico no! 69 – Ma taci una buona volta, mica siamo in Italia e poi ci sono io, per contratto di disgrazia, a coprirti le spalle. – Sì, hai ragione, Bitu sapeva, tu segno del destino. – Piantala, per favore piantala! – sbraitò sbattendo la busta sulla panca. Scalciò rabbiosa una lattina vuota, gli rimboccò la manica, prese il cotone, l’impregnò di disinfettante e si mise all’opera. Bitu gemeva, si contraeva, ansimava tra l’amplesso e la tortura, lacrimava. L’escoriazione al gomito, i graffi alle ginocchia, l’orecchio spellato e arrossato finirono per addolcire l’improvvisata infermiera: non provava ripulsa del sangue, anzi la affascinava, tranquillizzandola. Quando gli fasciò le ferite e passò a spalmare l’unguento su spalla e fianco, Bitu partì con un profluvio di ringraziamenti tra l’italiano, il bengali e l’urdu che la irritarono all’estremo limite, specie quelli comprensibili; gli altri, per quanto ne sapeva, potevano anche essere maledizioni. – Fammi il favore: taci. – Bitu sempre ringrazia, uso di suo popolo: i poveri bengali, divisi, bistrattati dai confini e dalle intemperie, sempre riconoscenti… almeno noi induisti: Krishna, Vishnu, Brahma, Shiva… – Basta, per favore, sta zitto o parla la tua fottuta lingua. – Come osi tu, straniera occidentale, insultare lingua sacra? – Ma no, non la sto insultando, ti ho appena detto di parlarla, almeno non capisco – e nel dirlo si scostò i capelli dal viso, intravedendo un guizzo bestino negli occhi di lui, subitaneamente mutato in lacrimosa opalescenza. – Meno male che non ho avvertito Snake della partenza… o no? Forse in presenza di Snake me ne libererei… ma insomma come faccio? Già gli piombo qui all’improvviso, non posso rifilargli un reietto. Perché altro non è che un miserabile… logorroico, insopportabile, appiccicoso, contortamente colto, il che non è poco perché mi sa che in Bangladesh l’alfabetizzazione sia inferiore che in Italia… mah, dovrei documentarmi. Però non credo che là sia già giunto l’analfabetismo secondario, in mancanza di alfabetismo primario… glielo 70 chiedo? Ma no, che idea idiota… e ora cosa fa? Legge? Siamo in una città sconosciuta, senza meta, stanchi, disorientati, è ferito e legge? Alfabetismo analfabeta… dov’ero rimasta? Questo è un bastardo e devo togliermelo di torno… ah no, vedi che sono prevenuta? Legge la guida turistica… cosa ci fa con la guida di Amsterdam se era diretto a Copenaghen? Allora è bugiardo, infingardo, iellato… – pensava. – Bitu sa cosa stai pensando: cosa ci fa con la guida di Amsterdam se era diretto a Copenaghen? E ora te lo spiega: Bitu… – No, ti prego no, mi è bastato il carrello col matrimonio, ho sonno, sono nervosa, voglio un caffè. Si guardò intorno alla ricerca di un bar apprezzabile e scorse Harvey impegnato col cellulare. – Questo sì che è un vero cattivo e l’abbiamo già incontrato alla stazione. Impossibile non notarlo, decisamente… però avrebbe anche potuto notarlo lui, sennò a cosa mi serve? Certo meglio un essere inutile che sospettoso, però quel tipo cosa ci fa qui? Ma sì, sarà un caso, del resto noi non siamo da meno – pensò. – Hai visto quello come ti guarda? Ci segue da quando siamo usciti dalla stazione, se Bitu non fosse ferito vedi che lo sistemerebbe… – Come non detto, un hindu a declinazione islamica… ora lo spedisco a prendermi un caffè. Bitu respinse la sua richiesta ancor prima che avesse terminato di pronunciarla: – Tu sei matta, Bitu non ti lascia sola con quello là. – Ah non mi lasci sola? Ti lascio solo io e s’alzò veloce. – No, non andare via, non abbandonare il povero Bitu, piuttosto lui va, anche se dolorante, anche se desideri l’altro, ti porterà il caffè. – E una mezza d’acqua. Bitu, claudicando da un piede o dall’altro e alternando con balzi felini, compì in un baleno la missione senza versare una goccia. 71 Harvey a quel punto era davvero scocciato, col cellulare li aveva fotografati in ogni posa: non riusciva a stabilire il motivo, ma li avrebbe ritrovati. – Peccato che non ho portato Heinz, qui ai giardini si sarebbe divertito – sospirò, si alzò e raggiunse il barcone. Ora era partito da giorni per consegne e se e quando avesse fatto ritorno non avrebbe alloggiato più lì, finalmente Snake era tornato al suo posto. Non sapeva bene perché la cosa, anziché lasciarlo indifferente o forse rallegrarlo, un po’ lo amareggiava. Ora, in fondo, piaceva a Heinz, sennò mica gli avrebbe pisciato addosso: parlava poco, bestemmiava meno, reggeva bene, tanto che non capivi mai se fosse fatto o meno, era bravo nei giochi da tavolo e pensava ai cazzi suoi. Escluso Lanzarote… ecco il punto. Ora aveva scovato Lanzarote, Ora riusciva a rallegrarti e ucciderti contemporaneamente, Ora sapeva tutto senza sapere niente e Harvey, disavvezzo al ragionamento per quoziente intellettuale, ignoranza e sconvolgimenti, intuiva il senso senza decifrarlo… semplicemente provava una vaga malinconia, che uccise opportunamente come entrò nel regno di Snake. Snake era a letto, se quello si poteva chiamare così. Dormiva, viaggiava, meditava? Harvey doveva parlargli, preparò un caffè e una striscia. Quando il compare approdò nel mondo dei vivi, Harvey, dopo avergli relazionato su movimenti passati, impegni impellenti e prospettive future, accennò alla strana coppia mostrandogli le foto e questi balzò fulmineamente dalla branda in un diluvio d’imprecazioni. – È qui, capisci è qui, porca… e ora come faccio? Meno male che li hai beccati, hai avuto fiuto… ma lui chi cazzo è?… Fammi pensare, fammi pensare… E intanto pestava i passi avanti e indietro, in tondo e di traverso nell’esiguo spazio a disposizione: – Ora. Bisogna trovare Ora, deve tornare qui. E prima di trovare lui scovami la valigia che ho portato dall’Italia. – Ma che succede? Spiegami – disse Harvey. 72 – Non c’è tempo adesso, devi anche affittarmi un appartamento piccolo, decente e arredato. Subito. A Ora penso io. Harvey, scattando sull’attenti per riflesso condizionato, ebbe appena il tempo di riprendersi afflosciando le spalle, flettendo un poco le ginocchia e rilasciando gli addominali; si diede una grattata alla tempia e inforcò l’uscita. – La valigia cazzo! Prima la valigia! Ma possibile che non ne imbrocchi una? – gli urlò dietro Snake col viso paonazzo e le arterie pulsanti. – Oh, stronzo, mica sono il tuo servo, il tuo lacchè del cazzo, vuoi la valigia? Cercatela! – urlò Harvey di rimando e sbatté la porta. Snake corse verso il ripostiglio, inciampò nella valigia, sbatté il capo contro lo stipite, imprecò nuovamente abbondantemente e si mise a sfilare i vestiti. Fortuna che la nonna, sebbene fosse ormai un uomo fatto, sfatto, inciso e bestiale, continuava a vederlo come il dolce bimbo indifeso che non era mai stato e, nonostante la rassegnazione a farsene una ragione, non rinunciava all’estrema speranza di una maggiore grazia concessa, perché anche ad accontentarsi non ci accontenta mai e poi tentar non nuoce… Insomma la nonna riusciva sempre a rifilargli una valigia stipata dove, oltre a caciotte, olive, olio e salami, si trovavano masse di giacche, cravatte, camicie, cardigan stile english, pantaloni non stiro linea classica, canottiere, boxer, calze di filo e così via. Lui, non sapendo che farsene, ne conservava il minimo, distribuendo il resto fra il socio, che non disdegnava di vestirsi da boss e i cassonetti dell’immondizia, piuttosto che darli alle ripugnanti associazioni caritatevoli. Scartando un paio di ciabatte di pelle fasciate in fogli di giornale, incappò in un articolo sulla fuga di cervelli dilagante in Italia. Pensò che il miglior modo di risolverla fosse bruciarli in partenza e in questo si era già a buon punto, di che preoccuparsi? Appallottolò l’articolo e passò ad altro. 73 Non ebbe l’ardire di provare a indossare qualcosa, eppure avrebbe dovuto farlo: come poteva diventare un broker altrimenti? E tutto per una donna, cosa da non credersi! Da un lato sperava che si sarebbe dileguata in breve per non incasinarsi l’esistenza, dall’altro era impaziente di rivederla e avrebbe voluto moltiplicare all’infinito quell’emozione d’attesa e sorpresa, benché l’ansia lo dilaniasse, gli impegni… il malefico Ora: doveva trovare Ora. Harvey, frattanto, assonnato e incazzato, si aggirava tra le agenzie immobiliari con Heinz al guinzaglio. Lo strattonava furente ogni volta che s’accingeva a pisciare sui gradini, poi se ne pentiva: – Lo so, piccolo mio, papà Harvey si scusa, pensa che stamattina voleva portarti ai giardini, c’era un fottuto indiano da azzannare, potevi cagare in pace… invece no, ma guarda, più tardi ci compriamo quei croccantini che ti piacciono tanto, OK? E poi lo legava alle ringhiere, valutava, stabiliva, fino a che dovette pagare una multa per deiezioni su suolo pubblico da parte della belva avvilita. Ma anche così mantenne la promessa del premio, alternando le coccole a profluvi d’esecrazioni tra un negozio e l’altro. – Fottuto Snake. Non solo lo si nota a chilometri di distanza, che piuttosto poteva arruolarsi nella Legione straniera, ma deve vivere su quella barca laida quando potrebbe abitare in una villa. Cosa ne fa della barca? Naviga? No! Scappa alla polizia? Ma se non sa neppure metterla in moto e se ci riuscisse gli ingranaggi sono arrugginiti per disuso e incuria, manutenzione zero, serbatoio a secco… e come finisce? Che rompe i coglioni a me: Harvey fai questo, Harvey fai quello… per cosa poi? Per ritrovarmi con una multa, Ora di nuovo fra i piedi… Ora… In due ore riuscì a trovare l’appartamento giusto: arredato e ultramoderno. Chiamò Snake che, per ringraziamento, lo incaricò di farlo pulire e di comprare asciugamani e lenzuola, zucchero, the, caffè, aceto, sale, salsa, olio no che aveva quello pugliese, saponette, spa74 ghetti, shampoo, birra, dentifricio, biscotti, spazzolini, tovaglioli e quant’altro avesse reputato necessario per far apparire la casa abitata. Questo provocò un’altra sequela di bestemmie e corollari, ma al termine della giornata l’appartamento era a posto e Harvey poteva finalmente sedersi in pantofole sul divano a guardare la tele, scolare birra e coccolare Heinz. Stranamente non desiderava altro. Snake invece desiderava, eccome, e imprecava ancor di più. Di Agatha nessuna traccia, neppure un sms e non aveva risposto al suo, che taceva quel che sapeva… per Ora la situazione era speculare e tra giravolte sottocoperta, pugni alle pareti, fumate e telefonate finì a letto (se così si può chiamare) afflitto dall’emicrania. Ora e Agatha gli erano necessari, sebbene per motivi diametralmente opposti. Entrambi introvabili, vicini eppur lontani. – Maledizione! – disse un’ultima volta e s’addormentò. 75 Meditazioni Amsterdam, stessa notte e soliti giorni Agatha, seduta sulla branda nella stanza ammuffita di un hotel d’infima categoria, impugnava rilasciava il cellulare, indecisa se rispondere a Snake. Mentire non sapeva, ad abbandonare Bitu non riusciva e s’angustiava vagando con lo sguardo tra la rubrica e le pareti verdognole chiazzate di pedate e infiltrazioni stantie; il lavabo e il bidet, la vana tendina inamidata di polvere a ostruire le confluenze di miasmi del cortile interno, il tavolino sgangherato, gli echi di televisori e sciacquoni. – Cosa ci sto a fare qui? Mi ha invitata Snake… pur sempre meglio della palla al piede nell’altra stanza, che entro dieci minuti busserà. Perché non lo mollo? Ma no, è squattrinato, contuso… Non poteva farsi investire due minuti dopo o finire dilaniato? Oppure rimanere indenne e vendere hot dog in eterno? Invece deve piombarmi addosso… basta, fatemi scendere dalla giostra, non ne posso più. Portami via di qui… ma portami chi? Al destino non si sfugge – e bussarono alla porta. O meglio, bussò Bitu. – Agatha cara, cosa stai pensando? – Stavo dormendo, sparisci. – Non è vero, Bitu lo sa, lo sai. Tu pensavi al destino. – Se non la pianta di leggermi nel pensiero lo disintegro – pensò e disse: – Destino, karma, reincarnazione. Tu dovresti intendertene, una come me cosa poteva essere per reincarnarsi nella gigantografia di un grand guignol? Quale crimine avrò commesso, quale animale immondo sarò stata? – Bitu conosce la trasmigrazione delle anime nel samsara, ma non sa chi eri tu. Sa chi era lui. Un pulcino… E Agatha vide un avvoltoio. – Un cagnolino… E Agatha vide uno sciacallo. 76 – Una coccinella… E Agatha vide una scolopendra. – Basta, sei pure allucinogeno. Lasciami dormire. Ma lui no, non desisteva. – Come tu forse sai, oppure non sai, non si sfugge, Bitu è qui per lo stesso motivo per cui ci sei tu. Se tu sapessi di quando, al tempio di Kali, dove andò camminando e camminando, ma non era solo, con lui c’erano… allora c’era… no, perché poi si confonde. Tanti i templi, tanti gli amici, grande la famiglia. In India le famiglie mica sono uno sputo come da voi. – Da voi dove? – Da voi, che non vuol dire da te e Bitu se l’interrompi perde il filo del discorso. – Ma se è da più di ventiquattrore che non produci una frase compiuta. – Bitu lo farà adesso. Allora… cosa diceva Bitu? Ecco, il tempio di Vishnu. – Non era di Kali? – Di Kali o di Vishnu sempre tempio era. – Sì, ma tu mi stavi raccontando del pellegrinaggio al tempio di Kali. – Bitu ha detto pellegrinaggio? No, ha detto che andava camminando e camminando, il che non è la stessa cosa. – Va beh, taglia. – Se tu interrompi, Bitu si perde. Come la volta al tempio… – Di Kali. – Di Kali, che Bitu cammina, cammina, insieme a Rama, Mujibur, Rajendra, Hasina… ma c’erano anche Sarvepalli e Rajiv… oppure no, loro erano invece al fiume… ecco chi c’era, quel porco di Habib, che se Bitu ci pensa… meglio che non ci pensi… ma… ah, quella volta al fiume fu quasi, anzi fu il preludio, dell’episodio al matrimonio della sorella… che il lurido Habib, lasciaglielo dire, era pure al matrimonio a spargere zizzania e fu per questo che… 77 – Non ricominciare perché è da stanotte che mi zompi col matrimonio e almeno me l’avessi raccontato, invece no! Pinocchio, Paride, Gilgamesh… l’ayurveda… basta! – Allora tu non dormivi… tu fingevi con Bitu. – Dormivo? Come facevo a dormire se mi tormentavi con storie senza capo né coda? Mi indisponi, m’innervosisci! Se non te ne vai urlo, sparisci immediatamente! – Cammina cammina, ma no, camminano insieme: Bitu, Rajendra, Habib, però Habib non c’era all’abluzione… schifoso… camminano allora: Bitu, Mujibur, Hasina… – Domani, fammi il favore, me lo racconti domani, ora volatilizzati sennò urlo, sono stanca, depressa… – Per questo Bitu ti racconterà del samsara… – Ma mi senti o no? Sparisci… conto fino a tre poi grido così forte che non avrai scampo: uno… due… Bitu aggrinzì le sopracciglia, marciò furente per la stanza, chiuse i pugni, tremò, poi riuscì a dominarsi. Sfilò il miglior sorriso del suo repertorio, chinò il capo, le augurò la buonanotte e aggiunse: – Era un giro in tondo, tutto lì, cammina cammina tornano al punto di partenza alla faccia di Kali - sbatté la porta e se ne andò. – Miseria ha concluso… allora è meno scemo di quel che sembra… – pensò lei, spense la luce, chiuse gli occhi, si rilassò… e finì a Mandalay. – Mandalay… cosa c’entra, che manco so dov’è? Ecco, Birmania, o Myanmar… perché finisco là che chissà come sarà? Risaie, sicuro, ma poi?… Pianure, foreste, montagne, bambù… ci saranno i bambù a Mandalay. Bitu, Birmania, Bangladesh… ma guarda che giro per arrivare a Snake, Snake? Cosa m’importa di Snake? Beh, intanto ha una bella voce, pochi capelli, purtroppo, ma essendo un broker potrebbe rimediare… e poi affari suoi, domani scarico il fardello e lo chiamo, dopo tanta fatica vuoi vedere che non lo vedo? 78 Un’alba d’ovatta brumosa filtrò dalle fessure sbilenche della tapparella e Bitu, col viso di Agatha impresso negli occhi, sbalzò dalle coperte e con fare circospetto si avventurò in corridoio, poi dall’ingresso deserto raggiunse l’ingombro sgabuzzino dove aveva riposto (a pagamento) il miracoloso carrello e azionò la caffettiera, che dopo lo scontro funzionava ancora meglio. Agatha, che il caffè se lo portava a letto da sola, sopportò quasi con gratitudine l’intrusione dell’amico che, una volta capito di non poterle sedere accanto, occupò l’unica sedia appropriatamente traballante. – Bitu sa cosa stai pensando. – No, appena sveglia no… posso pensare solo a un omicidio, il tuo, se non la pianti. – Va bene, ti aspetto in sala per la colazione. – Prendi tu – disse Bitu svuotandole nel piatto dei dischi rosa a metà strada tra il wurstel, il prosciutto e la soppressata. – Non lo vuoi? – Bitu non mangia cibo impuro. – Ma sei induista, mica musulmano. – Bitu sarà quel che sarà, ma questa roba fa schifo solo a vedersi. – Non posso contraddirti – rispose lei dopo averne assaggiato una fetta: – ma perché l’hai presa? – Per nutrirti, tu troppo magra e nervosa, Bitu ti curerà. – Se davvero volessi curarmi un’idea ce l’avrei. – E quale? – Trovati un posto dove stare che non sia io – rispose e prese il cellulare. – Che fai? – Cazzi miei – rispose lei connettendosi a internet alla ricerca di un sito sulla comunità indiana. – Dev’esserci, per forza deve esistere, se non indiana cinese, araba, ebraica, turca, qualsiasi cosa dove possa depositarlo – pensava lei. Alzò lo sguardo e lui era lì, in ammirazione contemplativa. Oppressa e stizzita proruppe: 79 – Ma dì, non hai altro da fare che starmi addosso? Non ci son solo io qui, guardati intorno, vatti a cambiare, compra un giornale, vai al cesso… insomma fai qualcosa. – Perché? Bitu sta bene così. – Merda, sono fregata. – Ah, dici così a Bitu? – Ma che Bitu, lo dico alla posta elettronica… ho perso l’ingaggio. – Ingaggio? – La traduzione, niente più traduzione, niente più soldi… il mondo dell’editoria è un campo minato. E Bitu vide l’amaca sganciarsi dal sostegno, il suo corpo piombare e fili spinati, detriti, fango e pietrisco in deflagrazioni di granate spazzare via il suo sogno. Ma si riebbe in un istante: un permesso di soggiorno valeva oro anche in zona di guerra… e lì guerra non ce n’era, anzi aveva di che compiacersi. Era povero di soldi, ma non di parole. – Agatha cara, che vuoi che sia? Sei intelligente, bella, se perdi un ingaggio un altro ne troverai, specie con Bitu al tuo fianco, a riparare ogni torto, illuminare i tuoi giorni, sostenere ogni tua debolezza… niente più tristezza e rimpianti, Bitu penserà a tutto e tu sarai felice. Agatha, che non aveva mai ascoltato tante boiate in un colpo solo, l’osservò incredula. Era folle, ma che dicesse la verità? Si accorse della sua bellezza… e Bitu parlava, parlava, con un timbro perforante. Era così sbagliato, assurdo e inetto da parere la caricatura di un antieroe, così affettuoso da rintronarla distorcendo la sua idiosincrasia romantica. Da un lato. Dall’altro era peggio di cappio alla gola, una cintura di forza, un’unghiata sulla lavagna… non lo reggeva, escluso come capro espiatorio. La comunità indiana non la trovò, tornò in camera, chiamò Snake e nel giro di un’ora abbandonò il piagnucoloso e sperso compagno al primo crocevia. La questione lavorativa la rattristava ulteriormente, per quanto fosse così abituata ai più bassi che alti dell’incertezza 80 costante, che neppure sapeva come avrebbe reagito a una prospettiva di stabilità. Come svoltò l’isolato tirò un respiro di sollievo e provò un moto di gioia, incalzati dal senso di colpa: Bitu l’aveva scocciata al punto da rallegrarla e ora cosa avrebbe fatto? Dove sarebbe andato? In quali pericoli sarebbe incorso? Dubbio su dubbio e passo su passo accantonò l’argomento per seguire il percorso. Bitu intanto, lungi dal rassegnarsi alla sconfitta, una volta lasciato il carrello al compare indiano che lo attendeva al secondo incrocio, la seguiva discretamente memorizzando i nomi delle vie. Era sempre stato bravo a orientarsi e Amsterdam la conosceva bene: vi aveva frequentato un corso di specializzazione sulle applicazioni ayurvediche in floricoltura. Per niente al mondo se la sarebbe lasciata scappare. Agatha scovò una panca di pietra in una piazzetta catturata da un libro di saghe. Tetti aguzzi, camini, pinnacoli, palazzi stretti e sgargianti ostruivano l’incedere del flebile sole, costringendolo a proiezioni frammentate in un perplesso incanto tirolese-fiammingo adatto allo struggimento. – Due ore d’anticipo… potevo stare ancora un po’ con Bitu… che s’arrangi. Dimmi perché io sono qui e tu chissà dove. Perché mi spedisci a Mandalay… perché continuiamo a rincorrerci su strade senza sbocco, dimostrandoci traguardi inesistenti, incontrandoci per annientarci, quando sarebbe bastato… quel che non è più. Svaniti senza consumarci, tu cercandomi, io rassegnandomi. Neppure ormai so se è a te che mi rivolgo oppure no. Non esistiamo più. Il peggio è proprio questo, non credi? Bitu la guardava e non sapeva che fare. Attendere? Agire? Tornò sui suoi passi per riappropriarsi del carrello rapidamente restaurato, dotarsi di un mazzo di tulipani e comparirle alle spalle. – Agatha cara, che fai qui? – Dovrei dirlo io, non credi? Mi hai seguita? 81 – Ma no, figurati, Bitu si sta dirigendo nella city, Piazza Dam, vedrai quanti hot dog durante la pausa pranzo. Ne gradiresti uno? Ancora non l’hai assaggiato. – Se hai una birra e me lo offri… gli ultimi spiccioli li ho spesi per le stanze e il parcheggio del carrello. – Ma certo, comunque lì a due passi c’è un’agenzia di cambio. Prima che finisse la frase vide lo sgomento dipingersi sul viso di lei. – No, non ci credo! Il cassiere della filiale di credito… – Agatha cara, che succede? Hai visto un fantasma? – Sei un demone – gli disse osservando il paffuto, aitante e stempiato trentenne allontanarsi dalla scena con la ventiquattrore in una mano e una ragazzina nell’altra. – Ma no, che dici? Bitu capisce e sa perché è parte di te. – Vade retro tu, la predestinazione e la lettura del pensiero. – Agatha cara, sei confusa e stanca, ho qui la medicina giusta. – Mi mandi in farmacia a sperperare euro-fiorini e hai le medicine mischiate alla senape? – Ayurveda per l’anima, non per il corpo. – Bitu… – Sì? – Vai a cagare. Preparami l’hot dog almeno. Mangiando e bevendo Bitu non si dispensò dal blaterare a raffica. – Il sé è amico del sé per chi ha vinto il sé con il sé, ma, per chi non ha vinto il sé, il sé si comporta come un nemico.2 – Bastaaaaaaaaaaa per favore basta! – Agatha cara, tu non capisci che il mio è amore, solo amore. – Ti sbagli. Se così fosse sarebbe reciproco, è un assunto matematico… almeno per le persone con un barlume di razionalità, il che non è il tuo caso. Comunque, gira e 2 Bhagavadgītā, VI, 6. 82 rigira, tra un quarto d’ora avrò un impegno, quindi vedi di sparire. – E come, con chi, con che soldi? – Non eri diretto a fare affari durante la pausa pranzo? – Sì. – E allora perché non li hai fatti, perché sei rimasto a trivellarmi il cervello? Trasforma il carrello in frigo gelati e vai. – Ma siamo in inverno. – Allora vendi punch, ma sparisci all’istante. – Così, senza un bacio, una promessa? Impossibile concettualizzare l’amore trasponendolo in logaritmi e ortogonali, ignorando come farà Bitu, che era solo e sconsolato e con te il sole è tornato, il gelo è svanito. – Stasera ti telefono, domani ti offro la colazione, ma ora dileguati. – Ti aspetterò. – Impiccati. 83 Children-Geriatric Kindergarten Monopoli, marzo – … amen. Dodici Credo, otto Ave Maria e quattro Padre Nostro possono bastare – pensò Assunta riponendo la scopa nello sgabuzzino. – La verità, a volte, fa schifo, ma che vuoi farci? – meditò ripassandosi l’eye-liner sulle palpebre, un velo di rossetto, una spazzolata ai capelli e via, all’officina. Toni, sdraiato su un carrello sotto un SUV, come scorse i tacchi degli stivali neri girargli intorno sfilò fuori in una delle sue migliori interpretazioni. Assunta ammirò il trailer di Gioventù Bruciata ai suoi piedi e lo salutò: – Salve Toni, ti disturbo? – Buonasera Assunta, ma si figuri, lei non disturba mai e poi per oggi ho lavorato abbastanza. – Già… anch’io… ma non sono qui per l’auto. Certo, una revisionata ai freni, all’olio, magari un cambio non guasterebbe, ma non adesso. – Mi dica, anzi mi segua in ufficio, un attimo e sarò da lei – disse Toni sfregandosi con lo straccio le mani annerite d’unto. Mentre Assunta valutava le donne nude su poster e calendari, Toni aprì il mobile-bar: – Posso offrirle una coca, un succo di frutta, un caffè? – No grazie, preferisco un Martini – rispose lei dopo aver sbirciato all’interno. Lui prese il ghiaccio dal freezer, riempì i bicchieri e si sedette di fronte a lei. – Mi dica. – Hai in previsione qualche giorno di ferie? – A dire il vero no, sa com’è, la crisi si fa sentire, i clienti sono a dir poco dimezzati, tirano a ricambi compatibili e prezzi stracciati o piuttosto girano con l’elastico sul cofano, lo scotch sugli specchietti retrovisori, il silicone sui vetri… 84 – Non importa, te le pago io. – Cosa paga lei? – Le ferie. Dimmi quanto ti servirebbe per week end ad Amsterdam, che dubito possa bastare. – Amsterdam? È accaduto qualcosa a Ciro? – Non ancora e se tu vai, probabilmente non accadrà. – Cosa? – Non lo so, ma Ciro è in pericolo e tu sei l’unico che possa aiutarlo. Lo sai com’è fatto, ha mai dato ascolto a qualcuno? – No. – E invece sì, a te. – A me? Ma cosa dice, che è sempre stato lui a trascinarmi… – Toni… – Sì? – A me non la racconti, non è lui, siete entrambi, ne avete fatte di tutti i colori e cosa ancora combiniate non lo voglio sapere. Tu sei il suo amico, forse l’unico e andrai. Qui ci sono 1000 euro, se non ti basteranno provvederò. – Ma signora, si figuri, non ci pensi nemmeno… – Toni, non fuorviarmi, devi andare da Ciro. – Sì, ma se ritiene che sia in pericolo un motivo l’avrà, le ha telefonato, sa qualcosa? – Mi telefona ogni due domeniche, la sera, l’ultima volta la settimana scorsa… non mi ha detto alcunché di particolare, ma è in pericolo. Vuoi contraddirmi? Vuoi che ti ricordi ogni volta in cui vi ho avvertiti e non mi avete dato ascolto? – No, va bene, che poi mi rimorde la coscienza. Lei è preveggente con Ciro, lo so… – Fino a un certo punto. Perché ignoro cosa intrallazzi lassù, tranne che sia qualcosa di completamente diverso da quel che mi dice, ma non importa… il fatto è che adesso non funziona. Staccò l’assegno, glielo mise nella tasca della tuta e si alzò. 85 – D’accordo, domani è venerdì, finisco l’auto e parto nel pomeriggio. Anzi, finisco adesso e parto domattina. – Buona idea – disse Assunta e si alzò. – Signora, le farò sapere, e complimenti: da bambini la catalogavamo fra le anonime figure del mondo degli adulti senza accorgerci del suo fascino, che conserva tuttora – le disse d’un fiato con le guance arrossate. – Grazie Toni, mi conforti. Effettivamente un tempo ero un’anonima figura e tale sono rimasta per chi mi gira intorno. Un riferimento standard, un’istituzione dove ognuno può rifugiarsi: padre, marito, figli, nipoti… un Kindergarten dall’infanzia alla senilità. Non sono così anonima, ma glielo lascio credere. – Signora, non la seguo. – Non importa. Tu credi che la legittimazione di una donna sia l’obbedienza ai dettami familiari, doveri filiali prima e matrimoniali poi, fino a finire nel cantuccio dei ciarpami quando non serve più? – Ehm… certo che no. – Non ti credo, anche per te è così. Come la vedi tua madre? La immagineresti partire per un soggiorno al Beauty Farm e poi sgommare fino all’aeroporto per volare in Messico o chissà dov’altro, con i soldi ricavati dai residui della dote investiti in azioni? Come la vedresti tua madre se avesse seguito un corso d’inglese, uno di nuoto, uno d’informatica e giocasse in borsa? – Penserei che è una gran puttana. – Allora sono una gran puttana. Chiamami sul cellulare perché a casa non mi troverai e questa è la mail – disse Assunta scarabocchiando su un notes. Drizzò le spalle, lo fissò negli occhi, si voltò con fare marziale, entrò nell’auto, mise in moto e finalmente se ne andò. – Non ci ho capito una minchia… chi è che parte? Mia madre, lei, lei e mia madre insieme? Mah, intanto parto io e il resto chissene… uno stacco di voleva – pensò Toni prima di rimettersi in funzione. 86 Assunta guidava nel buio affidandosi ai fari, in preda ad ansia e sconforto. Non si sentiva più così sicura di sé, forse il Martini, oppure i ricordi rimessi in moto da Toni, ma ormai era fatta, non poteva tornare, non ancora. – Trent’anni, una vita intera con lo sguardo basso e per cosa? Per uno che si scopa le segretarie e mi fa le scene di gelosia se chiamo l’idraulico? Ma sì, vado, parto. Li lascio qui, mio marito e quello scombinato di Ciro. Impazziranno a cercarmi, con Toni che gli dirà del Messico e del Beauty Farm… e lui si accorgerà a quanto poco serva una segretaria, specie ora che gli tira a stento; mio nipote capirà che è arrivato il momento di crescere. Ma sì, che si scervellino pure, che assumano un investigatore privato, che diano le testate nei muri… non mi troveranno. Fra questi pensieri giunse al garage, posteggiò l’auto, percorse due isolati e chiamò un taxi, meta Bari stazione centrale, nella speranza di confondere a sufficienza le tracce. Il treno arrivò, viaggio notturno, cuccetta… i Pirenei non erano poi così vicini e lassù, in uno sperso convento, a chi sarebbe venuto in mente di cercarla? Non le costò molto, né in denaro né in sorrisi, convincere il capotreno a cambiare il suo posto letto sovraffollato con uno vuoto e quando infine si sdraiò era così stanca che il clangore ritmico delle rotaie le parve melodioso. Si voltò su un fianco, chiuse gli occhi, si voltò sull’altro, si mise supina, li sbarrò, li richiuse e niente… nel suo animo albergava l’istintivo richiamo al focolare. Che poi fosse il condizionamento della consuetudine a un focolare dai bagliori infernali, non bastava a dispensarla dalla tormentosa sensazione di trovarsi allo sbaraglio verso un ignoto che non le importava più, un inevitabile troppo tardi. – O forse no – si disse. – Forse c’è ancora tempo, almeno per Ciro… speriamo che Toni arrivi in tempo. 87 Specchi Amsterdam in giornata – Troia puttana, puttana troia… lo specchio nel cesso. Ecco cosa succede a fidarsi di un negro: gli dico trova una casa arredata, mettici quello che manca e lui cosa fa? Appende le tendine bretoni ma non lo specchio… e ora? Potrei dirle che si è rotto, però porta iella… no, lo vado a comprare – brontolava Snake durante il sopralluogo alla casa prima del fatidico appuntamento e intanto si metteva in comunicazione con Harvey, alle prese col caffè, fastidiosi flashback del giorno precedente e pressioni sbavanti di Heinz per la prima pisciata. – Dai un’agitata alla segatura che hai nel cervello e attiva quei due-tre neuroni che hai in dotazione: entro le undici devi aver comprato e montato lo specchio nel bagno… va beh che sei glabro, ma lo saprai, dico lo saprai che mi rado tutte le mattine, lo saprai che in tutti i cessi, anche quelli dell’ultima stazione, ci sta uno specchio? E mi raccomando stasera, quando ti presenti, in tiro e poche parole, senza bestemmie e sputtanamenti. Ehi dico, mi senti? – urlava Snake non udendo risposta. Heinz, che ascoltava con l’orecchio irto, si ritrasse di scatto urtato dai decibel restituendo la linea al padrone, che carpì:… enti? – Tutto OK testa di cazzo, uno specchio nel bagno. Se tu guardassi, anziché urlare, ti accorgeresti che è lì poggiato a terra, dove l’ho trovato: senza più chiodi e coi coglioni pieni delle tue stronzate, non l’ho rimontato, pensaci tu e vaffanculo – rispose Harvey scandendo con lentezza le parole e interruppe la comunicazione. – Ciò non toglie che devo trovare chiodi e martello – pensò Snake furioso. Recuperato l’occorrente si mise all’opera, stese una striscia sulla lastra lucida… 88 – Specchio specchio delle mie brame, che è il più astuto del reame? – sniffò, s’infilò un chiodo in bocca, impugnò il martello, al terzo colpo il chiodo si piegò e – Porca puttana bastarda… – centrò il pollice. Terminata la difficile impresa scompigliato e sudato, si risciacquò, indossò una camicia a tenui fantasie di rombi, un jeans firmato, un paio di mocassini lontanamente imparentati con gli anfibi, si rimirò allo specchio cimentandosi sterilmente a compensare col gel la carenza di chioma, si fece le beffe e si diresse in camera, aprì l’anta a specchiera dell’armadio e rimase basito a guardare l’altro sé. – Nauseante… non posso reggere un giorno così, magari un altro e un altro pure… qui ci vuole un colpo di mano… mah, intanto andiamo. Agatha, ancora seduta, aspettava Snake senza aspettare: – Non è lui che avrei voluto incontrare… ma tu, in un altro tempo, un altro mondo, che or non è più… né lui, né tu… niente nessuno nessuno niente… Arrivò Snake. – Agatha! – Snake! – Che bella sorpresa, non ci speravo quasi… sei infreddolita, è da tanto che sei qui? – le disse abbracciandola – No… cioè… sì, ma non preoccuparti, ero in compagnia. Anzi scusami se irrompo fra i tuoi impegni di lavoro. – Per oggi ho finito, vieni, vorrai pranzare. – A dire il vero no, ma berrei una birra. – OK, andiamo. Harvey, una volta riposto Heinz, fece il punto della situazione. – “… poche parole, senza bestemmie e sputtanamenti.” Gli ordini ai sudditi! Stattene lì a pontificare, senza sapere con chi hai a che fare… Guerra vuoi? E guerra avrai. Entro le cinque dovrei aver finito di combinare e parargli il culo e mi rimarranno due ore libere – pensò, si mise un libro sotto il braccio, sbatté la porta e corse 89 via. Prima ancora che planasse sul marciapiede, il cellulare squillò nuovamente: – Merda, di nuovo Snake – si disse e rispose. – Harvey, cazzo, lo sgabello. Per favore, appena riesci portalo in casa… grazie. – OK, faccio subito – e pensò: – Un vaffanculo gli ha fatto bene, ora ringrazia pure, vorrà dire che accantonerò le ritorsioni – e si diresse al barcone a recuperare il pezzo. – … Un’altra delle sue fisse: non solo vive in un canale secondario su un barcone dissestato, ma deve sedersi in equilibrio sullo sgabello e guai a chi glielo tocca… un bastardo affezionato a un treppiedi vacillante… vacci a capire, ma certo il fatto che lo voglia nel nuovo appartamento è preoccupante: o ci starà un pezzo o ha perso i riferimenti, stasera valuterò. Snake, con lo zaino di Agatha in spalla, scortò l’amica in giro per la città fino al pomeriggio inoltrato, poi si diressero a casa. Agatha, varcando la soglia, si chiese se non fosse finita nella tana del lupo, sostò indecisa nell’ingresso, ma Snake la spinse dolcemente verso l’interno, accompagnandola fino alla camera riservata agli ospiti. – Porca troia non ho controllato se il letto è fatto – si disse, ripose a terra lo zaino e si allontanò: doveva telefonare. Agatha, stanca, si sdraiò: – Che odore di nuovo c’è qui, dev’essere poco che Snake ci abita… mobili hi– tech, il copriletto ha ancora l’etichetta… Ma non riusciva a rilassarsi, aveva bisogno di una doccia. Aprì l’armadio, trovò accappatoi e asciugamani perfettamente ripiegati e rabbrividì: – … Maniaco? In bagno anche la saponetta, il dentifricio, lo shampoo erano nuovi… – … Ossessivo compulsivo? 90 Il soffitto rotondo sosteneva un lampadario ellittico! Le girò la testa. – … Morboso? Possibile che Snake nel poco tempo a disposizione fra la mia telefonata e il nostro incontro abbia organizzato tutto? Non abitava qui… Il castello incantato? Snake era l’orco o il principe azzurro? La risposta veniva da sé, ma in qualche modo appagava Agatha ché i principi azzurri non li reggeva. Un attimo dopo, nello scroscio bollente della doccia, non aveva più voglia di pensare. Si fregò a lungo con l’asciugamano che per la concia respingeva l’acqua anziché assorbirla, estrasse il phon dalla scatola sigillata e una volta asciutta rientrò in camera, lasciò scivolare l’asciugamano e si guardò nel lungo specchio nell’angolo. Rimase ferma a fissarsi, poi girò su se stessa, su un profilo, sull’altro, tornò a fronteggiarsi, scorrendo senza guardarsi negli occhi dall’alto in basso, dal basso in alto, fino a bloccarsi e alzare lo sguardo nel suo. – Non si vede niente. Niente disintegrazioni o voragini e quel bianco nefasto di grigiore sfocato… niente… – sentì l’onda salire, entrarle nel petto, artigliarlo e scavare e non voleva, non doveva pensare… la morsa l’afferrò, si ritrasse e crollò sul letto, la serratura scattò, Snake era tornato. Sollevata per l’opportuno diversivo, Agatha si alzò, si vestì velocemente e si diresse in cucina. Snake l’abbracciò forte, stappò una birra scura, le chiese se gradisse la musica, rispose di no, lo strinse e non le importò. Si sedettero, Agatha sul divano e Snake, molto più allegro di quando era uscito, sullo sgabello, parlarono del più e del meno, tuffandosi a volte nelle rispettive vite, dicendo senza dire e ridendo insieme. Avrebbero dimenticato di cenare se l’orologio a cucù, che Harvey aveva opportunamente acquistato in un negozio di rivendite fallimentari per disturbare con un tocco kitsch (che non sapeva cosa fosse) l’equilibrio asettico dell’arredamento e lo squilibrio neurologico di Snake, che non sopportava il ticchettio delle lancette, detestava 91 le sveglie, aborriva i pendoli, sacramentava alle campane e saltava come una molla al minimo rumore, non avesse emesso una serie di acuti cinguettii, guizzi molleggiati e battute di sportello. Snake sussultò sollevandosi di mezzo metro, dopo vari equilibrismi ondulatori sulle stanghe puntò i piedi, si rimise in sesto e andò in cucina. Non voleva uscire, non aveva idea dei ristoranti della zona e detestava il cibo fiammingo. Sciacquò una pentola e una padella, aprì il frigo, estrasse gli ingredienti, un pacco take-away e si apprestò a preparare una carbonara. Pur non fregandogliene un tubo dei gusti e delle aspirazioni di Agatha, si prodigò nel farle credere il contrario asserendo di non volerla stancare con un’uscita e decantandole le sue doti culinarie. Agatha approvò di buon grado l’iniziativa, si sdraiò sul divano e lo lasciò fare. Si accese una sigaretta, soffiò fuori il fumo liberandosi di immagini e pensieri ossessivi. Come una bambina guizzò in piedi e raggiunse il suo orco in cucina. Le manone di Snake impugnavano una frusta per sbattere le uova. L’abbinamento le suonò strano, quasi incomprensibile, come un neonato che fumasse. Nonostante gli sforzi di manone e tatuaggi la crema non voleva saperne di salire. – Alla faccia dell’arte culinaria – pensò con un sorriso. Mentre Snake iniziava a sudare, Agatha gli si pose di lato, cercando di catturarne lo sguardo inutilmente. Agatha terminò la sigaretta. Con due dita sollevò il mento di Snake. Sorrise. Insieme guardarono l’altra mano di lei lasciar cadere la sigaretta. Il filtro galleggiava in un laghetto arancione in compagnia di alcuni pezzi di cenere alla stregua di sparute scialuppe. L’ira funesta di Snake non si fece attendere: in un attimo una nuova tinta uovo colorò la breccia sul muro generata dal lancio di una scodella pesante come un universo. Non gridò: emise un ruggito sordo, preludio di un silenzio incandescente, spalancò la finestra e scagliò le fruste sul praticello arido e buio; avrebbe preferito un burrone senza fondo, ma era al primo piano… gli parve di scorgere un’ombra in agguato, ma non ebbe il 92 tempo di metterla a fuoco che svanì. Richiuse le ante con violenza, passò uno straccio ad Agatha indicandole con un cenno del capo il muro imbrattato di tuorlo, prese le tre uova superstiti, un’altra scodella, una forchetta e in un attimo riuscì nell’impresa; tagliò la pancetta, si versò ancora birra, girò una sigaretta e l’accese. Agatha lo guardava di sottecchi dibattuta tra rabbia e ilarità: – Infine ce l’ha fatta, inutile, è simpatico – si disse. – Cazzo che voglia di calarle i pantaloni e sbatterla sul tavolo – pensava lui immaginando la scena, ma si represse, non voleva rovinare tutto, peggiorare le conseguenze di quell’intermezzo di scontro che gliel’aveva resa ancor più affascinante. Così si limitò a farle una carezza sui capelli, sollevarglieli e posarle un bacio sulla nuca, prima di estrarre dal mobile tutto l’occorrente per una cena a lume di candela. La tovaglia a quadretti bianchi e rossi era rigida come un baccalà e Snake vi pose delle strategiche fette di pane a distenderne le pieghe, ma rimasero in equilibrio precario sulle rette, allora le abbatté con i piatti, complimentandosi silenziosamente con Harvey per la scelta degli accostamenti: il ragazzo aveva gusto, glielo riconosceva e del resto lo sapeva da come abbinava gli abiti che gli rifilava. La tavola apparecchiata non era romantica, ma poteva andare, calò gli spaghetti nella pentola, prese l’olio per l’ultimo tocco, versò il vino rosso nella caraffa, fece accomodare l’amica, che osservò: – Tutto quel che vedo è nuovo: ti sei trasferito da poco? Snake, imbarazzato, finse uno straripamento dell’acqua in ebollizione e si rifugiò in cucina dirottando l’argomento sulla potenza dei fornelli, infine rispose: – Sì, stavo in un appartamento galleggiante, scaduto il contratto sono venuto qui e ho dovuto comprare tutto l’occorrente, ci abito da circa una settimana. Durante la cena rimasero in silenzio, lui sfiorandole ogni tanto un piede con il suo, intromettendosi piano a stabilire un lieve contatto fra le ginocchia, a intermitten93 za, fino a creare uno stato d’irreale eccitazione. Si guardavano a tratti, poi abbassavano lo sguardo, lei scoppiava a ridere, lui pure… e andarono avanti così per un pezzo, con Snake che si alzava a cambiare i piatti, mettendo in tavola salame e olive pugliesi, formaggi olandesi, frutta secca, biscotti, scolando la cera dalle tre candele rosse, versando un altro bicchiere di vino, infine prese un bourbon e due bicchieri. – Se preferisci ho anche grappa artigianale, vodka, whisky… – No, va bene così, rispose lei, afferrò bicchiere e sigarette e si sedette sul divano. Rimase altamente irritata quando vide Snake passare i piatti sotto lo scroscio del rubinetto e riporli nella lavastoviglie… sembrava una casalinga frustrata, ma anziché esplodere si alzò e andò ad aiutarlo. Stavano vicini, le loro spalle si sfioravano, lui chiuse lo sportello, versò il detersivo e le cinse la vita, prese il bicchiere, la spinse dolcemente sul divano e rimase in bilico tra questo e lo sgabello… lei lo fulminò con lo sguardo, lui scelse il secondo ma incrociò subito le gambe con le sue, in un compromesso reciprocamente soddisfacente: temeva che sedendosi sul soffice gli sarebbe calata l’erezione, invece voleva prolungare quello stato simile alla trance il più a lungo possibile. Quando, al terzo sorso di bourbon, la mano destra di Snake aveva quasi raggiunto il cavallo dei jeans di Agatha, il cucù emise la terza assordante cantilena, al che la mano finì lì di scatto, aprì la zip in un sussulto automatico, lo sgabello cadde, Agatha alzò i fianchi, lui le sfilò mutande e pantaloni a mezza coscia, avvicinò le labbra all’ombelico… suonò il citofono. Scattarono in piedi, ricomponendosi frenetici. – Merda Harvey… me l’ero scordato – bofonchiò Snake dirigendosi alla porta. 94 Intrattenimenti Casa – Bonsoir mes amis, madame… – esordì Harvey entrando a gran passo nel salone; raggiunse Agatha, s’inchinò un poco con una mano sul cuore porgendole con l’altra un enorme mazzo di tulipani multicolore: – Madame, je suis Harvey, enchanté – rialzò il capo, posò i fiori sul tavolino in acciaio e plexiglass, le lambì le dita della mano destra e la baciò impercettibilmente. Snake studiava il socio addobbato in completo gessato grigio, cravatta a farfalline giallo pallido su fondo azzurro, camicia debolmente turchese, gemelli ai polsi, calzature di vernice nera e atterrito scongiurava che questi non avesse in serbo un colpo mancino. Sperò che in francese contenesse gli improperi che affollavano ogni suo albeggio di proposizione e che rimanesse solo il tempo di stupire ed accordarsi per il proseguimento della tresca. Intanto l’erezione si era ritirata al minimo storico, con lo strascico del persistente indolenzimento. Agatha, stupefatta e ammaliata dal possente Harvey, provava l’inquietante sensazione di un dejà vu e si frugava nella memoria. Nel mentre lui aguzzò lo sguardo sui vetri della finestra e corse ad aprirla: – Rien… – disse richiudendola rivolto agli amici – eppur m’era parso di vedere un’ombra… Oh, mais oui, ne raisonnons pas à demandes e problèmes, mais au divertissement, ne c’est pas? – e si sedette sul divano, poco mancò che si sbracasse, ma si ricompose, Snake gli porse un bicchiere e si accomodò sullo sgabello, confidando nel suo influsso confortante. – Oh, quel incarnat, quelle figure… et les lèvres, les cheveux… ah vous êtes une matérialisation sortie par rêves, c’est impossible que vous êtes réel… – disse ad Agatha. 95 – Mais oui! – sbottò Agatha – Ecco dove t’ho visto: ieri alla stazione! – pentendosi all’istante della propria imprevidenza. Snake, per dare il tempo ad Harvey di trovare la risposta adeguata, sbottò a sua volta: – Ieri? Ma non sei arrivata stamattina? – … Ehm, sì, cioè sì e no, ecco, io… – fu la risposta di Agatha, prontamente incalzata da quella di Harvey, già inclusa nel piano: – Oh oui, madame, mais c’est vrai comme-ci comme-ça, invraisemblable vous avez vu mon frère Janis, il est à moi comme le jour à la nuit, si ce n’est pour le visage e le corps… nous sommes gémelles extérieurement, mais non dans l’intériorité… malheureusement il est ma damnation, il ne veut pas savoir de mettre sa tête à place, non plus qu’il fait avec son coiffeur da rasta –le rispose andando inconsciamente a tastare l’elastico e i quintali di gel nei quali aveva imbrigliato i riccioli dopo averli lisciati nella piastra. – E scassam’ù cazz… – tuonò Snake balzando in piedi: – minchia, non ci capisco una sega, manca solo che tu ti metta a recitare. Agatha, che stava per cascarci, fu scossa da un brivido gelido che partì dalla nuca per solcarle la schiena, mentre Harvey, in piedi al centro della sala, declamava: – Con grazia getto lontano il cappello/e piano lascio cadere il mantello/mentre sguaino dal fodero la spada/per colpirti laddove più m’aggrada… – mimando la scena s’impappinò e riprese: – … Facevi bene a restartene zitto./Dimmi, dov’è che vuoi esser trafitto? – e, con un inchino plateale: – Cirano di Bergerac, s’il vous plaît. Agatha scoppiò in una risata isterica, quei due la divertivano un mondo, ma intuiva che qualcosa non andava e non si spiegava i tanti elementi contraddittori che le affollavano la mente… – E se fossero dei folli criminali? Enormi come armadi e io sola in loro compagnia! Nessuno sa che sono qui… 96 Si alzò e corse in camera, afferrò il cellulare e l’infilò nell’orlo delle mutande. Tornando le parve di scorgere un movimento fuori dalla finestra, ma pensò fosse suggestione: la luce era fioca, l’atmosfera assurda, e si distrasse accorgendosi del confabulare dei due: – Mi dici di venire in tiro e poi te ne esci con scassam’ù cazz? – sussurrava Harvey. – Ma sì, quella ha già capito, non tutto… e poi se scassi cosa posso dire? – rispondeva Snake. Agatha si risedette con falsa noncuranza, li osservò, loro le sorrisero e versarono ancora un goccio, disponendosi a caute confidenze. Nel frattempo Bitu, dopo aver rischiato ripetutamente di venir smascherato, decise di abbandonare l’appostamento e si allontanò. Agatha non era sola, anche se non lo sapeva, come non sapeva quale fosse, nel contesto, il pericolo peggiore. – Ragazzi, ditemi quel che m’aspetta, che ciò che pavento mi si sveli in fretta – disse Agatha adeguandosi all’atmosfera. – Da parte mia posso rivelare che il karma mi vuole angustiare, son giunta anticipatamente tallonata da un soggetto insistente. – Ecco il mistero di quel che ieri ero: t’ho scorta da lontano in compagnia d’un tipo strano, parendomi smarrita a distanza t’ho seguita, poi per la tua bellezza t’ho ritratta con destrezza, la foto a Snake mostrai e infine me ne andai, cercando soluzione alla combinazione. – A dir il vero la soluzione l’ho trovata io, ma sorvoliamo, ché poi ne riparliamo. Come accoglierti degnamente… – disse Snake – Su un barcone fatiscente? – interloquì Harvey. – E fatti i cazzi tuoi! – lo rimbeccò Snake. – Insomma a tagliar corto ho estratto un domicilio senza ragione o torto, per questo il tuo sospetto su tovaglie e copriletto non era poi infondato, ma ora è dissipato. 97 – Insomma mica tanto: un rasta alla stazione, un broker su un barcone, una farsa imperfetta mi lasciano interdetta – rispose Agatha. – Se ancora resterai il resto capirai – le disse Snake guardandola con dolcezza. – Beh, io tolgo le tende – disse Harvey alzandosi e raggiungendo la porta: – ci si sente domani. Aprì e si trovò di fronte un giovane disfatto: – Vi ho trovato finalmente… – Ma come hai fatto? – chiese Harvey stupito. – Eh, è lunga a spiegarsi e non ce la faccio… ecco i soldi, dai, dai, presto… – Agatha, riconoscendo la voce, s’avvicinò alla porta: – Di nuovo lui: il cassiere della filiale di credito… guarda com’è conciato… e cosa cerca? Snake la prese alle spalle e l’allontanò, uscì fuori, eseguì rapido la commissione e intimò al cliente: – Sparisci e non venirmi più a cercare senza avvertirmi, intesi? Il cassiere s’infilò la bustina in tasca e fuggì di corsa, finalmente libero e niente più turchi, gorghi e filiali. Agatha riprese a sospettare dei nuovi amici, ripensò anche all’odioso Toni… non le piaceva quella situazione, ma era stanca, era tardi, e meno male che l’arrivo di Harvey aveva interrotto le operazioni… ma ora che lui se n’andava come avrebbe fatto? Per prima cosa si rinchiuse nel bagno e si mirò allo specchio chiedendo alla propria copia una decisione che non arrivava… dove poteva andare? E poi voleva andare? Cosa le importava dei sistemi di Snake, lei era sua ospite, niente di più. E tale sarebbe rimasta. Con l’ultima frase in testa uscì e si rintanò in camera, poi ci ripensò: – Dovrei almeno augurargli la buonanotte – e tornò in sala. Snake non c’era, sospirò e tornò sui suoi passi, ma lui le sbucò alle spalle e la dirottò nell’altra stanza, la sua. Nell’ambiente aleggiava il costante odore di nuovo, non un granello di polvere, tutto in asettico e spoglio 98 ordine. Solo l’anta a specchiera dell’armadio era aperta a ricreare un altro letto. Agatha s’irrigidì e disse: – No, no, sono stanca e… – Taci – le ordinò Snake infilandole in bocca la lingua borchiata e slacciandole i jeans prima di buttarla sul letto. Si calò i pantaloni estraendo un condom dalla tasca, lei urlò, la zittì con una mano sulla bocca e una presa al fianco, poi la guardò negli occhi e si bloccò. Capì che così l’avrebbe persa, allora la strinse a sé, si scusò, le accarezzò i capelli, la baciò sul collo e sulle labbra, e iniziò la discesa togliendosi i vestiti. Agatha accantonò i deboli propositi e, con poca convinzione, lo lasciò fare. Ammirava nella flebile luce i contorcimenti di serpi, catene e basilischi, vagheggiando negli interstizi liberi improponibili congiungimenti in vorticose geometrie. Con la mano di Snake accanto al viso, percorreva le trame e fantasticava anagrammi mentre lui, frustrato, aumentava l’impegno; sentendola sfuggirgli la bramava, lei sentendolo aggrapparsi lo respingeva. Nella sua mente le figure si trasposero e provò ripulsa per il rettile, il suo insinuarsi ambiguo, gli innesti metallici. Si contrasse, lui alzò il capo e le chiese cosa avesse. Rispose: – Niente –, pensando – Se vuoi stare in cima alla classifica del nulla, sei il benvenuto. Gli accarezzò una guancia, poi con le dita valicò lo sfocare della ragnatela dalla nuca alla fiammata del drago inciso fra le scapole. Scese ancora, provò a distaccare la mente dal corpo: chiuse gli occhi, decontestualizzò il sentore vischioso, bloccò analogie o rievocazioni e concesse un barlume di partecipazione. Lui la girò con forza, ora poteva dominarla e lei, sorpresa da tanta audacia per una prima volta, tentò di reagire, ma fu sopraffatta finendo in ginocchio aggrappata alla testiera. L’incastro, netto e preciso come un ingranaggio, scevro da baci ed effusioni, assunse un ritmo selvaggio e rovente che li travolse entrambi finché espirarono, non all’unisono, ma grati per averla chiusa in un tempo decoroso senza gloria né danno. 99 Snake, contraddicendo abitudini e aspettative, si avvicinò ad Agatha, la accarezzò e le posò un lieve bacio sulla guancia. Lei non ricambiò, era concentrata sul ristagno di sperma dell’ultimo atto che, dall’incavo dorsale, le scivolava a intermittenza lungo il fianco. Il residuo le solleticava la pelle, traccheggiando tra l’essiccazione o l’estremo sgocciolamento e rievocando l’incongrua immagine di un laghetto glaciale destinato a estinguersi nella calura. Lui si alzò per recuperare bourbon e sigarette, tornato la trovò voltata su un lato, aveva pianto un poco; le passò il bicchiere, lei si raddrizzò e, con fare indifferente, bevve un sorso e accese una sigaretta. Distesero le lenzuola rigide e provarono a dormire. Snake si sentiva naufragare, il vuoto lo assaliva a ondate, in reminiscenze di sensazioni inafferrabili e sepolte. Giaceva supino senza saper che fare, finché, indipendentemente, il suo braccio s’alzò portando la mano a sfiorare il capo di Agatha. Lei, vagamente affranta e divagante fra i sogni assassinati, provò immenso fastidio e rimase immobile fingendo di dormire. Analizzava sintomi, sfumature e visioni stabilendo classificazioni del dolore da un altro mondo, chiuso e oscuro, insondabile distanza che la separava dalla realtà. In pochi istanti aveva soppesato un dispiacere a bassa intensità, sopportabile e degnamente bilanciato dall’appagamento fisico, che bisogno aveva Snake di disturbarla? Snake, carezzando la sua rigidità più consona a un cadavere che a una dormiente, si sentì trafitto da una lama affilata ed escluso da una distanza di gelo. Si alzò e, rammaricandosi di aver censurato la propria bestialità anziché darvi fondo, sostò a rilassarsi in cucina prima di ritirarsi nell’altra stanza, col proposito di riuscire in breve nell’impresa più difficile che mai gli fosse occorsa o di gettarla nei rovi senza ripensamenti. Agatha si accorse di tutto e, consolata dalla riconquistata solitudine, si addormentò. 100 Scorribande Amsterdam esterni La mattina Agatha si svegliò al clic della serratura. In cucina trovò una caffettiera pronta sui fornelli, brioche e un biglietto di Snake che le augurava un buon risveglio. Il cielo aveva cessato di essere pioggia e mostrava un primo sole come un bel regalo per tutti. Harvey, del sole, non sapeva che farsene; detestava il sole e, tutto sommato, anche il mare, ma da quando era al mondo lo aveva davanti continuamente. Guardava al mare come si guarda a una porta d’emergenza. Tutto brucia, c’è l’uscita. Nella sua vita, il mare lo aveva preso più volte: la prima, era poco più di un bambino. Suo padre aveva venduto tre uliveti per farsi dare settemila euro e mandare suo figlio dallo zio. Bella idea, Harvey, vai in Europa, facci tutti ricchi! La partenza però non fu da ricchi: un pullman con la gente legata per non cadere lo portò fino a Ceuta. Le barche su cui facevano salire tutti erano più derelitte del pullman, se possibile; all’arrivo era notte e li avevano messi a dormire in un grosso prefabbricato dove, comunque, stavano compressi come il gas in una bombola. Durante la notte aveva dormito in piedi dopo aver capito che l’umido del pavimento non era una condensa ma l’effetto di centinaia di pisciate, compresa la sua. Qualche ora dopo, li imbarcarono a forza sui legni che ospitavano grossi evinrude a prima vista poco affidabili. Fu scosso dai ricordi dal bip di un sms ed entrò Snake: – Toni è qui – disse guardando il cellulare – sta parcheggiando. Minchia… proprio ora doveva arrivare… e Ora? L’hai rintracciato? – Niente, non risponde neppure al numero riservato, scomparso e siamo in ritardo con la consegna. Però potremmo usare Toni, che ne dici? 101 – Ma Toni cosa vuoi che ne sappia… – Questo lo credi tu. – Cosa vorresti dire? – Eccomi, ciao, come va? – disse Toni entrando sottocoperta – e abbracciò i due amici. – Sono stanco morto, ho bisogno di una doccia e un letto. – Toni, cosa ci fai qui? – Non sei contento di vedermi? – Sì, certo, però mi sembra strano – rispose Snake. – Beh, è una storia lunga, se disturbo… – Ma no, figurati, da un certo punto di vista capiti a proposito, anche se in effetti avrei qualche problemino… – Ma tanto c’è Harvey a risolvere tutto, dai, non preoccuparti. Devi sapere che Snake si è perso dietro a una… – Eh no! Non t’è bastato quel che hai combinato ieri sera? Taci – gli ordinò Snake. – Toni, mettiti comodo, ti preparo un caffè e poi ti spiego come butta – disse all’amico. Toni, dopo una doccia scomoda e striminzita, si sdraiò sulla branda, con una tazza di caffè e un tiro di coca si rimise in sesto e ascoltò le novità. Aveva deciso di non rivelare a Snake il motivo della visita, ma osservandolo di sottecchi notò che appariva nervoso, aveva il volto tirato e le occhiaie attorniavano uno sguardo incredibilmente più spietato del solito. Harvey, fissato per gli status-symbol, frattanto inseriva Toni nel rango dei privilegiati. L’ultima volta che s’erano incontrati trasudava benessere, ma ora stava esagerando. Giacca, maglione e jeans firmati, Rolex al polso, capelli corti, basette, ciuffo cascante… iniziava a stargli sui coglioni. Il che, tutto sommato, giocava suo favore: non si sarebbe fatto scrupolo di utilizzarlo ai propri fini. Harvey era attentissimo agli aspetti esteriori delle persone: il portamento, la voce, l’abbigliamento, gli accessori, i cellulari, le auto… Per strada, sulla metropolitana, sui bus, al supermercato, nei bar, ai semafori, analizzava, supponeva, catalogava. Detestava i falsi derelitti vestiti da straccioni firmati e compativa gli sciatti mi102 serabili che rincorrevano il trend. Nelle sue oscillazioni d’identità spaziava dal rasta-grunge allo chic senza scomporsi, era una questione di ruoli, sapeva adattarsi alle circostanze fino a immergersi nella parte e preferiva quella dominante. Era fiero d’impersonarla perché gli piaceva l’ostentazione, pur disprezzandone intimamente i rappresentanti. Infiltrandosi nella casta si prodigava a corromperla, assaporando il suo trionfo di fronte alla miseria umana, rispetto alla quale la ricchezza materiale era nullità. Cambiava ruolo senza scordare il suo villaggio, la famiglia e il fratello naufragato rincorrendo una chimera. Non avrebbe dimenticato mai, ogni sua attrazione per il campo avverso era finalizzata alla rivalsa contro ogni emblema di potere: il bianco facoltoso e quanti si adeguavano al suo sistema, a prescindere dalla posizione e dal colore della pelle. Avendo compreso in breve che raccogliendo ortaggi o vendendo ombrelli e partecipando a riunioni, canti o preghiere avrebbe dovuto vivere tre volte per raggiungere lo scopo, che affidandosi ai sistemi d’integrazione governativi avrebbe svolto la funzione di servo, trovò nel business dello spaccio quanto auspicava. Lì poteva vederli strisciare, ridursi a larve, nei casi migliori rovinarsi o crepare, divorati dall’ingranaggio da loro stessi ideato. La conta dei corpi non avrebbe mai approssimato le proporzioni degli abusi perpetrati per secoli contro la sua razza, né gli avrebbe restituito il fratello. Però un certo contributo lo dava, di questo era certo, la sua era una missione e se ne compiaceva. Essendo in tenuta rasta guardò l’ora sul cellulare, inviò un sms, si accordò con gli amici e uscì frettolosamente. Bitu frattanto, dopo aver scovato la postazione adatta al carrello, sbirciava da un lurido chiosco affacciato sul canale i movimenti del nemico. La presenza di Harvey, che aveva subitamente riconosciuto la sera prima, aumentava i rischi del progetto aleatorio che si accingeva a compiere. Più volte, durante l’interminabile apposta103 mento serale, si era lasciato cogliere dal dubbio chiedendosi se non fosse il caso di cambiare i piani prima di riprendere il viaggio verso la Danimarca, meta originaria. Ma poi si ricredeva, quell’incontro era un segno di Shiva: doveva sottrarre Agatha dalle grinfie di quella coppia di scellerati e farla sua. Nel loro giardino avrebbe piantato un banano, immaginava il porticato della villa vittoriana in un’istantanea da soap opera brianzola. L’alternativa era tenebra e per il momento preferiva accantonarla, sebbene a tratti il panico lo assalisse. My dear dead, sono giorni tetri, ho pensato a come sarebbe stato bello poterti raggiungere in una soffitta… Vorrei, ma no, non lo farò… ecco, cancello tutto. Come vorrei riuscire a spiegarti cosa si sente dentro… forse lo sai? Quando il sogno crolla, la voce svanisce e non resta niente. Ma perché dovrei? E tu, perché tu, se tu non sei? Cancello, cancello, cancello. Agatha non inviò la mail e guardò fuori dalla finestra cercando di stabilire un impegno decente per far scorrere le ore verso altre ore, finché anche quel giorno finisse, verso altri giorni… insomma verso. Il cielo cupo e il panorama sul giardino compresso tra lugubri facciate non l’aiutavano. Ci fosse stato un ciuffo d’erba, un ramo non del tutto secco, avrebbe inventato un bosco o un verde giungla e la malinconia sarebbe stata minore. Guardò i tulipani donatele la sera prima nel loro vaso giallo, colorati, fioriti, ma la loro vita era recisa, finita. Rovistò nello zaino alla ricerca della piccola guida, al momento non era un gran problema, come tanti avrebbe cominciato dal Museo Van Gogh, poi sarebbe passata alla tradizione, Van Eyck, Van Dyck, Vermeer… Ma la decisione affogò al primo passo, l’inaffidabile non sense, capace di annientare il suo antidoto contro il nulla, bloccò il movimento. Ma no, doveva andare, non lasciarsi soffocare. 104 Mise il notebook alla ricerca di segnali, non tutti condividevano quel sistema allo sfascio, la miseria intellettiva e materiale che troppo travolgeva. Un minimo dissenso qua e là lo si trovava. L’illusione, forse, che qualcosa si potesse smuovere. Una sovversione non si fa su una tastiera, ma poi la si voleva? Gli strati più disagiati, quanti l’indigenza la provavano davvero, la maggioranza degli abitanti dell’emisfero, usavano forse internet per dibattere sui divari sociali? Se sei povero non hai il PC e non ti fotte di dibattere. Se ti arrabatti per campare arrivi a non porti il problema. Con una deprivazione minore magari usi la parabolica per guardare un reality show anelando di sedere all’ingannevole abbuffata e sfuggire alla condanna. Eppure, anche grazie a internet, che aveva catalizzato il disagio contro la sopraffazione economica e sociale, la rivolta, con quella forza misteriosa che muove i popoli, era scoppiata. Tunisia, Egitto, Libia, dal Maghreb all’Arabia era un incendio, nella quasi indifferenza di chi povero non è… Tutto laggiù stava cambiando e con quali conseguenze, oltre alle migliaia di vite perse nella lotta, ancora non si sapeva; l’occidente guardava e teorizzava. Infine avrebbe scelto la guerra, ma questo doveva ancora accadere, intercalato dal cataclisma del Giappone. In quell’intermezzo temporale Agatha considerava che qui, rispetto a un passato non remoto, la diffusione del sapere era notevolmente aumentata, un sottoprodotto di democrazia si era diffuso, ma il risultato finale non era granché incoraggiante. Probabilmente si preferiva la sudditanza, scevra da elucubrazioni e dubbi, accettare il sistema o collaborare a perpetuarlo, dicendosi che potrebbe andare peggio, senza porsi questioni sul fatto che tanti non possano tirare neppur questo, bastava non pensarli, non guardarli, non cercarli e ogni tanto fare una donazione con qualche zero finale ai principi edificanti a salvaguardia delle deprivazioni. Forse la differenza era che non occorreva essere giornalisti, scrittori, inviati speciali, opinionisti, stilisti, pittori, registi o star, per mandare un segnale di contrarietà che superasse i confi105 ni dei sedili di un autobus, del banco di un bar, dei muri dei palazzi o dei bagni pubblici. Critiche, commenti, iniziative, giravano in web, seppure in una concezione geocentrica, circoscritta al modello dominante più quotato del momento. Erano resistenze o palliativi allo sconforto totale, incertezze vaghe, miraggi di cambiamento? Agatha non sapeva fin dove il mondo nello schermo fosse vero e dove no, fin dove il suo potenziale possedesse incisività. Pensando al suo paese, dove i maggiori oppositori al regime erano comici che non equiparavano la buffoneria dei suoi rappresentanti, rievocava giullari di corte e sorrisi sguaiati. Una delle rare reazioni decenti alla loro indecenza, al momento, era la rete, che infatti tentavano d’imbrigliare, ma in concreto? Infine l’unica certezza, considerato il principio d’indeterminazione e la poca propensione a darsi una risposta sgradita, era che quel diversivo l’aveva distratta per un po’. Condivise qualche link, accese la radio, si cambiò, uscì. 106 Viaggio Strade olandesi Il furgone arrancava spompato sull’asfalto avvolto nella nebbia gelida e Ora, nervoso, stritolava il volante scattando il capo in avanti mimando un’impossibile accelerazione. Il motore era stato controllato, che fosse la benzina? Eppure aveva fatto il pieno… forse il carico, già, cos’era il carico? A intuito non gli pareva eccessivamente pesante, forse era solo un mezzo fottutamente scassato che stava per esalare l’ultimo respiro lì, su una strada maestra in mezzo a una landa desolata in un punto a nord di Amsterdam, adesso che non si leggeva più un segnale e il bianco ovattato diventava grigio, la linea della corsia scompariva e qualche catarifrangente sparso qua e là non forniva l’orientamento. Si stramaledisse ripetutamente, batté il pugno sul cruscotto, spense il talk-show-dibattimento sulle opportunità d’integrazione europeista delle moschee alla luce delle ultime correnti oltranziste xenofobe neonaziste, nel momento in cui una vecchina raccontò dell’ultimo scippo subito. Che poi non erano arabi ma olandesi, comunque le eran costati due costole rotte e una lussazione al femore, così non si poteva andare avanti, se gli arabi se ne fossero stati a casa loro i giovani avrebbero lavorato anziché rubare le pensioni agli altri… che se la guadagnassero la pensione! Ma esisteva ancora la pensione? Lei prendeva la minima più quota del caro estinto, ma suo nipote come sarebbe finito che incassava lavorando meno della minima e rimbalzava gli impieghi in un’ansia interinale degna d’una corsa agli ostacoli? Intervenne un vice assessore a qualcosa dicendo che per chi aveva voglia di rimboccarsi le maniche il lavoro c’era, che suo nipote s’iscrivesse al collocamento intereuropeo e la vecchia latrò che se il collocamento locale 107 lo chiamava e lavare i cessi doveva andare a lavarli anche all’estero? Altre stazioni lì non se ne prendevano e poi di musica Ora non aveva voglia, di niente aveva voglia, magari una canna e dormire, dormire, dormire finché sarebbe finita. Invece doveva guidare, guidare, guidare per giungere in tempo da Snake che gli aveva affidato l’incarico di prelevare al porto di Rotterdam un furgone blindato (blindato per il solo fatto che non aveva le chiavi del portellone, per il resto era sfasciato, bianco, cadente, rigato) e portarlo fino alla base. Essendosi già perso negli affari suoi, non poteva rimandare oltre. Dopo una serie di sobbalzi e rantolii il furgone s’inchiodò definitivamente, Ora si lasciò prendere dal panico e lanciò a squarciagola un – Aaarrrrgggghhhh – che non spaccò le tenebre né ricaricò i due cellulari scarichi, tantomeno riaccese il motore almeno per scaldarsi. L’unico appiglio era la torcia, ma a cosa poteva servirgli in quel sepolcro nebbioso? A controllare il motore! Ci provò: per quanto ne sapeva, circa niente, pareva a posto. Tornò a sedersi, batté furente il capo contro il sedile e rimase a misurare il buio. Totale, gelido. Allora udì o, forse, concepì, un labile lontano suono… schizzò fuori dal mezzo, pastrano e cappuccio, torcia in mano, sigaretta fra le labbra, alla ricerca del rumore. Debole e impreciso, reale o immaginario, cos’altro aveva a portata di mano? Aguzzò le orecchie… niente, era svanito. S’incazzò davvero e prese a calci il lucchetto che serrava il portellone, fino a ricordarsi che per lui i lucchetti non avevano segreti, in un clic veloce l’aprì, ma la serratura era chiusa a chiave. Sebbene le serrature per lui fossero un gioco, bestemmiò, recuperò l’apposito fil di ferro dall’abitacolo, scassinò, entrò. Scatole e scatoloni di cartone marroni o bianchi privi di sigle, impilati in ordine di grandezza, riempivano il vano lasciando un poco di spazio libero per entrare. Assicurati alle pareti dalle corde e ognuno sigillato col nastro adesivo, 108 Ora non poteva scoprire cosa trasportava e forse era meglio per lui. Gli si stavano gelando le dita, gli parve di percepire un motivetto, puntò la torcia contro il muro di bruma, prese fiato, tastò il terreno con i piedi, abbastanza liscio, si diresse verso nord, sebbene non avesse idea di dove fosse il nord. Quando sbatté in quel che decifrò come un tronco d’albero, abete, betulla, frassino… che ne sapeva di alberi, figurarsi a non vederli, capì, andando in diagonale fino a sbattere in un altro, di essere su un sentiero. Continuò e udì un ritornello, si confortò pensando a una casa, un caminetto, un piatto caldo… la melodia cessò; aumentò il passo e ne udì un’altra, che finì l’attimo dopo. Infine scorse un fievole lumino, subito ottenebrato da un banco di foschia. Continuò e, dopo due minuti che gli parvero un’eternità, rivide la luce, filtrava da una finestra. – Sono salvo – pensò. Raggiunse la casa, intravide la porta, bussò, niente. Bussò più forte, attese, niente, cercò tastoni un campanello, non lo trovò, iniziò a battere sull’uscio freneticamente e la porta s’aprì. Dall’anta traspirava una fessura assicurata al catenaccio, insufficiente a scorgere l’interlocutore all’interno ma bastevole ad affogare Ora in una zaffata ai cavoletti di Bruxelles. Non era un cultore gastronomico e digeriva circa ogni tipo di alimento, una delle poche cose che proprio non poteva soffrire, né all’odore, né alla vista, né al palato, erano i cavoletti, lo nauseavano più del latte bollito e del semolino. Era ovvio che in un simile frangente dovessero presentarsi proprio loro, accompagnati dal – Buonasera – di una vocina stridula, echeggiata da un’altra che le sibilava dietro: – Chiudi subito, sei impazzita? Non facciamo elemosina a quest’ora – e questa, voltandosi: – Veramente non la facciamo a nessuna ora, prepotente! – Ho detto chiudiiiiiiiiiiiiiii – e l’anta premette sulle dita di Ora, che spinse leggermente per non farsele stritolare. – E io dico apriiiiiiiiiiiiiiiiii – e la porta si spalancò per magico dispetto; Ora, che a quel punto non interessava 109 più alle due ospiti, si ritrovò a separarle mentre si prendevano per i capelli e i baveri delle vestaglie rischiando di frantumarsi in una caduta rovinosa. – Oddio vuole ammazzarci – urlò la sibilante. – Ma sta zitta cretina, t’ammazzo io se non taci – squittì l’altra e – TarattattataZzzuuuuuuummm – una cantilena assordante raggelò le voci in una sequenza da film muto: telegiornale. – Presto corri – Corri presto – e le due donne balzarono in sala con agilità da cerbiatte, a strappare il telecomando dalle dita adunche del vecchio affondato su una poltrona, avvolto in un plaid tarmato rosso e verde. Ma lui non cedeva, immobile con lo sguardo vacuo sullo schermo, impugnava l’attrezzo in una morsa uncinata di unghie gialle e vene pulsanti, finché le due non lo presero alle spalle con una mossa sleale, per reazione nervosa lui allentò la presa, la sibilante afferrò il telecomando, mandò il volume a qualche decibel di meno, cambiò canale, lo chiuse a chiave nella credenza e sparì. – Luride arpie – sussurrò l’anziano con rancorosa rassegnazione – almeno spegnete, non lasciatemi qui a guardare sti stronzi – urlò poi. Al che Guenda, la più pacifica delle due, si ricordò di Ora, che ancora non era riuscito a presentarsi né a spiegare il motivo dell’inconsueta visita, e lo spinse a sprofondare sulla seconda poltrona. Stretta, soffice, in velluto fiorito, con l’alto schienale adornato da un merletto polveroso, lo intrappolò. Ora si guardò intorno, la sala non era né grande né piccola, zeppa di mobili e mobiletti: credenza, tavolino, una libreria squadrata in legno chiaro, completamente stonata col resto, dov’era incastonato il televisore schermo piatto LCD, un caminetto elettrico con finte braci e suppellettili, ninnoli e portafoto ovunque, giornali, ceste, riviste, gomitoli, un gatto grasso acquattato sul divano pendant alle poltrone, insomma tutto tranquillo. La stanza era in penombra e Anselmo, l’anziano, rimase a fissare lo schermo, Ora armeggiò con la chiave, aprì la credenza e cambiò canale sulle previsioni del tempo e della viabilità. Scoprì co110 sì che l’incidente provocato da un tir aveva bloccato l’autostrada per Amsterdam da ore e si sentì rinascere: aveva un’ottima scusa per il ritardo e nel pensarlo scovò una presa elettrica, frugò nella tasca del giaccone e mise il cellulare in carica. Segnava chiamate perse di Harvey e Snake, accantonò il problema e – Aaahh – sospirò risedendosi, al che Anselmo si voltò a scrutarlo, sbarrò l’occhio buono e quello offuscato dalla cataratta e urlò: – Noooooooo non puoi perseguitarmi ancora, tornatene da dove sei venuto, spirito malvagio! – Ma io… veramente sono rimasto… – balbettò Ora. – Non si preoccupi, fa sempre così – gli sussurrò Guenda ancora nelle vicinanze. – Hans, perché mi tormenti, non sono stato io a far la spia ai tedeschi, son stato catturato insieme a Erich… lasciami morire in pace. – Macché morire, ch’è pronta la cena e piantala con sto Hans, lui non è Hans è… è… – disse Guenda fissando Ora sbigottita e pensando, in preda al panico: – Se Alice avesse ragione? Se fosse venuto per derubarci, seviziarci e ucciderci? E l’ho lasciato entrare… e… e… e… – Mi chiamo Orazio, piacere, passavo di qui e mi si è rotto il… – Orazio, che piacere, io sono Guenda, lui Anselmo, mia sorella Alice è in cucina. – Eh sì, dicevo... vi ringrazio per avermi soccorso… – Guendaaaaaaaaaaaaa ti muovi? Dici la cena è pronta e bla bla bla e bla bla bla e bla bla bla – stridette Alice; e Ora: – Allora lei ha combattuto contro i tedeschi? – Ma che tedeschi e tedeschi… in tempo di guerra era un poppante, Hans, il partigiano, era un nostro vicino di casa – disse Guenda. – Allora ti muovi o no? – urlò di nuovo Alice. – Arrivo, arrivo, ma fammi almeno chiedere a Orazio se gradisce cenare qui – urlò di rimando e disse: 111 – Guardi, non abbiamo granché da offrirle: cavoletti al burro, semolino o latte e biscotti, capirà noi siamo anziani… Ora deglutì a fatica e rispose: – Non ho appetito, grazie. – Oppure wurstel e bistecca, cretina, non ti ricordi che abbiam fatto la scorta al supermercato? – gridò Alice per il solo gusto di farle ripicca. – Ehm dicevo… non vorrei disturbare, ma… magari la bistecca me la cucino io – disse Ora rinfrancato. Adesso che Guenda era terrorizzata, Alice se ne fregava altamente di Ora, l’importante era contrariare la sorella e sapeva di esserci riuscita. Anselmo approfittò della distrazione generale, adocchiò la pendola, agguantò il telecomando e – TatiritiritiBummmmBoooom – assordò tutti quanti con la sigla del notiziario delle 19.30. – Nooooooooooooo presto corri… – Corri presto – urlarono le donne in ansia, al che Ora porse supplicante il palmo della mano al vecchio e lui, con un sorrisetto maligno, gli consegnò il marchingegno. – Non ci faccia caso – gli disse Alice asciugandosi le mani nel grembiule – è appassionato di sigle, guarda e ascolta solo quelle, il problema è il volume. Entrarono in cucina e – TuntuzTuntuzTuntuzTooooom Tanze tanze tanze Tuntz – proruppe dilaniante dal soffitto facendo tintinnare i vetri. – Presto corri… – Corri presto – e le due vecchie si slanciarono trafelate su per le scale. Nel trambusto avevano tralasciato Erich, che si vendicava mettendo a stecca il cd techno inciso dal nipote Fritz. Ora, preoccupato, le seguì lungo il consunto tappeto rosso, quando calcò l’ultimo gradino era tornato il silenzio e rimase in disparte a studiare le sgualciture della passamaneria. – Così di maledetto punto in bianco io non esisto più eh? EEHHH? – urlò il soprano roco Erich dalla sua stanza. – Malefiche megere, invitate gli estranei e mi lasciate qui a marcire. 112 – Ma no, che dici, ti stavamo chiamando per presentarti un giovane… – borbottò Guenda – Ohè, vecchio rimbambito, se eri così curioso perché non sei sceso dabbasso invece di startene qui rintanato?– sibilò Alice e, scorgendo Ora in discesa, lo richiamò: – Vada a conoscere mio marito. Ora entrò nello studio dai muri coperti di librerie straripanti, Erich era Anselmo con qualche capello in più e una cataratta in meno. Accorgendosi dello stupore di Ora disse: – Sì siamo fratelli gemelli, sposati con due sorelle. È dura mio caro, lei non sa quanto, ma ne riparleremo – e si avviarono in sala da pranzo, un’estensione della cucina. Fortunatamente i cavoletti non li voleva nessuno e Alice aveva arieggiato la sala; Ora resistette indenne tra lazzi e dispetti dei quattro signori e, soddisfacendo al minimo la loro curiosità, si fece una vaga idea su come funzionassero. Alice, magra e spigolosa, era malevola e si accaniva contro la sorella in toto, contro il marito meno e contro il cognato zero. I due fratelli, tranquilli e distratti o semplicemente menefreghisti, erano simpatici. Guenda, gentile, bassa e rotondetta, si prodigava per mantenere la serenità ed era in continuo movimento; Cody, il gatto, grasso e scostante, dopo aver curiosato intorno s’acquattò sul cuscino d’una sedia. Furono così gentili da concedergli anche crauti, senape e birra rossa. Ora provò un senso di tepore come non gli accadeva da secoli, l’unica nota stonata era il pensiero del cellulare: avrebbe potuto squillare e rompere l’incanto; si alzò e lo spense. Dopo la cena Anselmo diede un’occhiata fugace all’orologio, spostò la tasca della vestaglia e scattò a tutto volume la sigla del telequiz. Le due donne sobbalzarono allibite, di solito agiva nelle pause, cioè sempre eccetto colazione-pranzo-cena-sonno; Erich rimase impassibile ad attendere il disarmo con la tasca diretta al soffitto e – ZzzAAAaaaaaaUuuuVVzzZTzzzzzz TUNTZEtuntzeTuntzetuntze – rimise in moto il cd per spegnerlo l’attimo dopo. Soddisfatti si spostarono in sala. 113 Confidenze Casa – Eh caro mio, è arduo tirare la giornate. Un po’ facciam da scemi, un po’ lo siamo e non capiamo più da che parte stiamo – disse tagliente Erich riempiendo tre calici di brandy. – Ehm, io non dovrei… – disse sconfitto Anselmo mirando bramoso il fluido ambrato. – Ma sì, che te frega. Il tempo a credito è in scadenza e un goccio in più fa solo bene. Il colesterolo, le coronarie… tutte stronzate per ingobbirci cercando un senso a rasentare il baratro sull’abisso che non paia il dislivello su una palude. Ricordi e rimorsi, più si va avanti più ci si aggrappa a vegetare una vita che sfugge. Mentre voi giovani invocate la morte per sentirvi vivi… è una gran presa per il culo. – Smettila – sbraitò Anselmo risentito. – Lo sente? – riprese Erich rivolto a Ora – Sta lì in balia delle due streghe, guardi come l’han ridotto, sembra decrepito ed è nato mezzo minuto prima di me. Mia moglie Alice mi detesta e propina le cure a lui, sua moglie Guenda lo adora e lo cura pure lei… fanno a gara per accudirlo trascurando me, lo rimpinzano di medicine ammazzandolo sistematicamente. Io esco e a lui viene il raffreddore, io bevo e a lui sale la pressione: somatizza gli anatemi che mi lanciano le mogli ammalandosi al posto mio e non posso salvarlo. Quindi mi associo ai suoi spaccamenti di timpani e tento il recupero. – Taci, che quelle origliano – disse Anselmo. – Vede, un poco migliora – bisbigliò Erich all’orecchio di Ora, avvinto dal ragionamento. – Ma scusi, se sua moglie la detesta perché non divorziate? – chiese. – Eh la fa semplice lei… – rispose Erich: – se io fossi lui – accennando al fratello – mi odierebbe ugualmente. 114 Capirà, siamo circa uguali… per Alice non è questione d’amore, ma di competizione, il suo fine è la rivalsa sulla sorella maggiore. Non c’è scampo, chiunque al posto mio farebbe la stessa fine, al che me ne fotto: rendo un favore a un’ipotetica umanità e soprattutto a mio fratello. Cosa ne farebbero senza di me a proteggerlo? Starebbe col catetere da una parte e la flebo dall’altra ad attendere l’indefinito memento mori. I tre accostarono i bicchieri e Ora, girando una sigaretta, finì catapultato in un’altra realtà, la sua. – Merda, il telefono… – si disse e lo riaccese. Altre tre chiamate perse di Harvey e Snake, che fare? In quel porto insicuro ci stava bene e non gli andava di affrontare i soci, la notte, il gelo… tergiversò un attimo, poi spense, forse avrebbe potuto dormire lì. Neppure il tempo di pensarlo che Erich iniziò a tempestarlo di domande; a tavola si era mantenuto sul vago, ma gli interlocutori volevano saperne di più. Opportunamente giunse Guenda con le pillole a ricordare che si stava facendo tardi e si erano già persi un documentario, un talk-show e un telefilm. I due uomini finsero di ascoltarla e le proposero di ospitare Ora. – Certo, che domande, ho già preparato la stanza, non possiamo mica lasciarlo assiderare – disse e se ne andò. Tornata la quiete i fratelli si concessero un secondo goccetto e Ora si scolò il quinto. Accese ancora una sigaretta e con vari giri di parole, pause e allusioni tendenziose si personificò in rappresentante-venditore di ingranaggi per apparecchiature subacquee, un materiale che difficilmente avrebbe smosso la curiosità degli interlocutori né l’interesse a scroccargli un campione. Doveva dissuaderli dall’accompagnarlo al furgone, attirati dall’inatteso diversivo al tedio quotidiano. Persino Guenda si addormentò più felice al pensiero che al risveglio avrebbe potuto preparare una colazione calorica senza l’accampamento di medicinali di contorno, come quando venivano a trovarla i figli e i nipotini; con questo indugio di tenerezza aveva preparato per Ora la camera dei bambini. 115 Terminata l’esposizione della marea di menzogne intercalate a vaghe verità con una serie di sbadigli, Ora ottenne l’autorizzazione di ritirarsi. L’assembramento di peluche, astronavi, robot, macchinine, bambolotti e costruzioni sparsi tra pavimento, mensole, scrivania, libreria e secondo piano del letto a castello lo lasciò disorientato. Il letto era striminzito, ma la coda penzolante della pantera al piano superiore, il rifulgere di un mostriciattolo fosforescente e l’alternanza di curve e spigoli vagamente stagliata sul buio gli teneva compagnia. Tornando per un attimo nella sua camera di bambino, sebbene meno affollata di quella, s’addormentò dimentico della realtà. Ma la realtà è piena d’inghippi, fra i quali poteva indubbiamente annoverarsi il GSM Interceptor acquistato da Harvey e Snake, mefistofelico meccanismo criptato, ufficialmente riservato a enti governativi e militari, praticamente a quanti potevano permetterselo. Dopo aver impiegato un’ora buona a capire come funzionasse, i due avevano captato il segnale dell’incauto Ora ed erano partiti alla sua ricerca. – È ancora a metà strada dopo tre giorni e non capisco perché il bastardo abbia spento, acceso, spento e riacceso il cellulare, né cosa possa fare in aperta campagna in piena notte, questa storia non mi convince – disse Snake interpretando i segnali e la carta geografica mentre Harvey sparava il SUV a tutta velocità. – Potrebbe aver avuto dei problemi, non è il caso di accanirsi tanto prima di sapere cos’è successo – rispose conciliante il socio. – Ehi, ti si sono ingrippate le sinapsi? Quello vuole fotterci, altro che problemi! Solo che noi siam più furbi di lui… Harvey centrò un fosso e il SUV sbandò. – Non puoi stare attento? Non pagarlo a rate non ti autorizza a sfasciarlo! – gli urlò Snake. – La compagnia di Ora ti ha rammollito, lo difendi pure! E magari pensi alla deforestazione amazzonica ogni volta che ti pulisci il culo. 116 – Pensa al tuo di culo… è che sono preoccupato per Heinz, avrei preferito affidarlo ad Agatha piuttosto che a Toni. – Rincoglionito… una belva deficiente a una ragazza come lei! – Ehi piano con gli insulti, Heinz è un cane di razza e ha stile, sei tu che ti stai annebbiando dietro a una donnetta… Agatha… Agatha… guarda come ti sei conciato. – Conciato io? E il tuo exploit in frac dove lo mettiamo? – Non era un frac, era un gessato. – Ma vaffanculo, pensa a guidare e spero avrai caricato la pistola. Offesi non si rivolsero più la parola. 117 Sogno Dal parabrezza, immoto paesaggio dava inutile mostra di sé. L’autostrada era vuota, deserta. Soltanto il furgone di Orazio tagliava il buio fitto con i fari tondi, ancora carichi di luce. Da poco aveva ripreso a nevicare, il motore aveva smesso di andare e Ora non sostava nei pensieri. I reni gli facevano male; gli succedeva ogni volta che la paura faceva capolino. Non era rara in lui, la paura, così come la commozione, ma era un assiduo frequentatore della rabbia e non si poteva dire che albergasse a lungo nella gioia, a cui offriva visite sporadiche come a una vecchia zia malata a cui semplicemente dire – Come va? La notte era comunque il suo momento prediletto, senza fastidi così grossi da offrirgli la possibilità di mutare abitudini e valori. Correva lungo le città di notte come un pendolare abitudinario; di fatto, la notte aveva avuto la meglio sulla famiglia, sull’onestà, poiché non puoi vivere troppo a lungo di notte onestamente, a meno che non entri in una fabbrica, in un forno o in qualche macchina di lusso. Il furgone si era fermato, la neve iniziava a coprire la targa nera con su scritto NO che sta per Novara ma che Orazio continuava a vivere come la traslitterazione di quanto la sua anima stesse cercando di dire al mondo circostante vuoto di cose e pieno di sé. Agatha dormiva vicino al volante, i capelli lunghi sparpagliati sul sedile come un ragno esploso; di tanto in tanto, mugugnava male parole all’indirizzo di nulla, per poi girarsi, ancora piena di sonno. Orazio cercò di rammentare perché lei fosse lì, di notte, con lui, un furgone guasto, un’autostrada vuota. Contravvenendo ad imperativi morali piuttosto chiari, Ora cercò di aprire il portellone posteriore, provando a 118 pensare allo strumento più adatto per eventualmente forzarlo. Mario, come chiamava in confidenza il Genitore Interiore, urlò che la porta doveva rimanere chiusa se quei balordi gli avevano imposto di lasciarla tale. Orazio non badò più di tanto a Mario... d’altronde dov’era finito quando aveva accettato la proposta di guidare quel pezzo da museo in giro per autostrade era ancora da definirsi. Si fa presto ad urlare che la marmellata si raccoglie col cucchiaio e non con le dita se nel frattempo ti sei già fregato tutto il barattolo dalla dispensa. Andava di lusso che neanche uno stronzo di poliziotto sarebbe passato a fare patente e libretto a quell’ora sotto la neve. Il pensiero del figlio Rocco fece capolino nel già affollato cervello di Orazio. Qualche tempo fa, dopo l’ennesima visita senza senso a casa di Rocco e Daniela, rispettivamente Figlio e Moglie, aveva realizzato di essere molto più affezionato all’idea che aveva di loro, piuttosto che a quelli stessi. L’unico davvero felice di rivedere talvolta Ora era il buon cane Olaf, un bastardone che aveva trovato di notte vicino ad un autogrill impestato da una pioggia torrenziale. Anche il vento esigeva attenzioni ed iniziò così a prendere a spallate Orazio che, appoggiato ad un guardrail pensava alla vanità del tempo come ad una valigia così disordinata da non volerla nemmeno aprire e per questo abbandonare dietro ad un divano in casa di un amico giurando – andandosene – di tornare al più presto a riprenderla. Nevicava e la galleria dietro di lui non sembrava intenzionata a sputare fuori nessuno. Un bosco, lì vagava l’immaginazione di Agatha nel limbo tra il sonno e la veglia. Foglie verdi in alto, foglie secche in basso, arbusti, felci, radi raggi di luce filtranti tra i rami, una magica atmosfera, un fungo rosso carminio calpestato impunemente da uno scarpone lurido e 119 nero… – TOC TOC – Agatha sobbalzò: stavano bussando alla porta. – E ora che faccio? – si chiese allarmata ricordando i due sgherri che l’avevano lasciata sola per partire a tutta birra verso chissà cosa. Non che le dispiacesse, ma ora che doveva fare? Aprire o restarsene avvolta nel tepore delle coperte? – TIC TIC – il visitatore s’era spostato e stava bussando sulla finestra. – Ehi, sono io – disse una voce. – Io chi? – si chiese lei terrorizzata. – Agatha, aprimi, presto! – disse la voce con tono più alto. – Oh no! – urlò lei – Ancora lui, lo sapevo che non me lo toglievo di torno… – inveiva alzandosi dal letto. Infilzò il coltello nelle mutande, indossò l’accappatoio e riavvolse la tapparella. Gli fece segno con l’indice di raggiungere la porta e aprì. – Finalmente! – disse Bitu abbracciandola stretta. – Oh, piano con i convenevoli, che cazzo ci fai qui? Mi hai seguita? Vattene subito! – Ma no, figurati, è che stasera, passando per caso da queste parti, ho visto i tuoi amici che se ne andavano… – Come fai a sapere che sono i miei amici e dove sto? Mi hai seguita! – Che dici, non hai alcuna fiducia in Bitu. Non ti ho seguita, sei tu che non guardi dove metti i piedi e il resto, così non ti sei accorta di Bitu e del suo chiosco sul canale, oggi pomeriggio, quando siete andati a bere l’aperitivo. – Sarà… – mormorò Agatha – in effetti non ti ho visto, comunque non ti avrei invitato, quindi... – Agatha, bisogna scappare. Tu non sai con chi ti sei messa, fuggi via con Bitu. – Dove mi metto sono affari miei, a prescindere dal fatto che non mi sono messa e poi senti da che pulpito viene la predica, vai a casa! – Casa? E quale casa? – Problema tuo e buon motivo per non seguirti a dormire sotto i ponti. 120 – Non dobbiamo dormire, ma partire. – Partire? Mi stavo addormentando, dissolviti all’istante o chiamo Snake. – Ah ah ah, Snake… e Harvey… e Toni… bella combriccola che ti sei scelta – disse Bitu sgarbato. – Tu ora vieni con Bitu, vestiti subito! – le ordinò con sguardo spiritato spingendola in corridoio. – Dove ce li hai i vestiti? Dove dormi? Con lui, certo, gli tieni caldo il letto. – Lurido invertebrato, lasciami immediatamente – urlò Agatha divincolandosi dalla presa, ma si trovò un pugnale thug puntato nel petto e due pozzi di tenebra fissi negli occhi. Era terrorizzata, l’aggressore dal quale era fuggita e Snake messi insieme, in confronto a lui erano dei principianti. – Mi chiedo mi domando e mi dico cosa ho fatto di male per attirare un marasma di squinternati, violenti, paranoici, smidollati come voi – urlò agguantando i vestiti. – VOI chi? Bitu non è voi, vestiti e taci, sgualdrina! Al che Agatha gli lanciò il portacenere e una scudisciata con la fibbia della cintura, che lui, fulmineamente, scansò per poi piegarle l’avambraccio sulla schiena stritolandole il polso e premendo la lama fra le scapole. – Bitu non scherza, ragazza, fai come ti dice. Agatha si rassegnò, si rivestì e uscirono. – Olaf! – urlò Orazio balzando a sedere con la coda della pantera in pugno e battendo la testa contro la branda sovrastante. – Era un sogno – pensò agguantando il peluche dal pavimento. Si terse la fronte dal sudore, si voltò su un fianco e si riaddormentò senza far caso allo stormire delle foglie sferzate dal vento. 121 Bufera – Inverno schifo, pure la tormenta di neve… e st’aggeggio di merda non capta più un cazzo! – urlò Snake. – Calma, calma… a tutto c’è rimedio – disse Harvey conciliante. Snake lo fulminò con lo sguardo, ma lui ormai non ci faceva più caso, scalò la marcia, tolse l’antinebbia e svoltò in una stradina laterale. – Che minchia fai adesso? – T’ho detto a tutto c’è rimedio? Lo sai dove siamo? – E come faccio a saperlo? So solo che appena torniamo lo schermo del GSM incornicerà il muso del porco che ce l’ha venduto. – Bien, invece Harvey, che lo schermo non l’ha guardato, lo sa… Dopo pochi minuti spense il motore e scese. Snake, non riuscendo a vedere altro che nebbia e neve, rimase al suo posto. – Dai, muoviti – gli urlò Harvey aprendo la portiera e lui, dopo aver frugato sotto al sedile, abbottonato la giacca e calzato il cappuccio, sconfortato lo seguì. Dopo pochi passi Harvey si fermò e tirò il battente di una campanella. – Ma che fai? – Sveglio Ingrid. – La maga? Ma che sei matto, a quest’ora di notte? – Embé, avevi un’idea migliore? Se Interceptor ci ha portato qui un motivo ci sarà. La porta si aprì e una donna scarmigliata, ma non sorpresa, li fece entrare. – Vi stavo aspettando da un pezzo – disse introducendoli in una stanza angusta arredata da un tavolo a raso terra e una miriade di cuscini sul pavimento coperto da un 122 tappeto arabescato. Pendagli orientali, candele, qualche maschera alle pareti, mensole e statue lignee qua e là e poco altro. – Beh scusa il ritardo – le rispose Harvey sedendosi a gambe incrociate. – Così vi siete accordati senza interpellarmi – gli disse stizzito Snake approfittando dell’allontanamento di Ingrid, che tornò con tre tazze di the bollente. – Ma no, che dici? – rispose Ingrid che, a dispetto del nome e della latitudine, aveva i capelli corvini, la carnagione olivastra e il corpo minuto. – Dacché la sfera di cristallo si è offuscata in un gorgoglio di melma indecifrata, utilizzo altre risorse per non andare a catafascio – spiegò accennando al globo palustre appoggiato in un angolo. Sorseggiarono in silenzio il the dall’aroma inequivocabile, fumando a turno un joint. Snake era catturato dall’ombra sinistra di una falce ondeggiante proiettata da un amuleto, Harvey si ripuliva le unghie con il coltellino del socio e Ingrid entrava gradualmente in trance fino a perdere l’equilibrio. Harvey la sostenne prontamente con una pila di cuscini, poi alzò lo sguardo sull’ombra di un artiglio semovente al gioco di luce delle candele e un fremito gli percorse la peluria sulla nuca. Snake si voltò a guardarlo, poi si accorse dei residui di sporcizia attaccati alla lama e, smarrendo in un soffio la paura e il disagio che l’avvinghiavano, pestò il pugno sul tavolo. Ingrid sbarrò gli occhi attonita: – La bufera imbianca quanto cercate a poca distanza: strada principale, sei chilometri a destra e mezzo a manca. – Grazie, Ingrid, quanto ti dobbiamo per il disturbo? – sussurrò Harvey. – Cento possono bastare, oppure… – D’accordo – disse Snake estraendo due bustine dalla tasca. – No, non quelle, l’attrezzo scassato che avete in auto. Snake, che diffidava alquanto dei reali poteri di Ingrid, la fissò incredulo: – Ma lo sai quanto costa? E noi dovremmo dartelo per un the e un’indicazione criptica? 123 – Intanto sono due i the e le indicazioni, poi varrebbe se funzionasse… il che non mi pare. – Mi spiace ma mi serve. – Per spaccarlo in testa al venditore, ma non lo troverai, a meno che… – Basta, lascia perdere, che poi pretendi anche la macchina, prendi queste e a buon rendere – disse Snake, posò le buste sul tavolo e si alzò. Le gelide folate di vento eran lungi dal placarsi e solo il pensiero di Ora portò Harvey a non rimpiangere il tepore della casa. Come l’auto partì, Snake, guardando il nevischio scagliarsi in schianti arabescati ridotti dai tergicristalli in acquose trasparenze, osservò: – Neve a piene mani – e, scosso da un brivido di paura: – Che Ingrid sia davvero una maga? – Certo, ne dubitavi? Conosce ogni sorta di magia nera, il vudù, la macumba, pure la cabala… – rispose Harvey. – Insomma ’na iettatrice – sentenziò Snake e ripiombò nel silenzio. – Mani, mani… – rimbombava nella mente di Harvey, che faticava a orientarsi e ancor più a concentrarsi nella guida. La fantasia fluttuava per la stanchezza, gli strascichi del fumo e del the, mentre dai fiocchi volteggianti emergevano le mani di Ora… Ora… Fra poco l’avrebbe raggiunto e, pur sapendo che si sarebbero appostati in agguato ad armi spianate, immaginava un abbraccio che si ripercuoteva nel basso ventre, in un’erezione che, pur contraria ai suoi precetti, cresceva. Posò la mano sinistra sulla patta nel tentativo di sedarla e, sbirciando timoroso il compare, sbandò di nuovo. – Minchia, ora non dirmi che stavi pensando al cane… fermati e scendi che guido io! – urlò Snake. – Ehm… no, non pensavo… è che… Oh, ma che cazzo vuoi? Fin qui nella tormenta chi ti ci ha portato? Harvey, la maga chi l’ha trovata? Harvey… e ancora te ne viene? OK, guida tu e vediamo di cosa sei capace! – sbraitò inchiodando. Prima di scendere diedero un’occhiata al contachilometri e si scambiarono uno sguardo d’intesa: se Ingrid 124 aveva detto il vero avrebbero dovuto trovarsi circa sul posto. Percorsero ancora un chilometro scarso, si rimisero i giacconi, presero due torce e partirono in esplorazione. Harvey cercava inutilmente d’aguzzare la vista, finché andò quasi a sbattere contro il furgone in panne. Chiamò Snake, partito in direzione opposta, col cuore in tumulto e intanto, preoccupatissimo, armeggiava con la portiera; il pensiero che Ora potesse essere lì dentro assiderato gli serrava lo stomaco bloccandogli il respiro. Aprì, niente, corse al portellone… chiuso malamente… niente pure lì. Giunse Snake: – Allora dov’è il bastardo? – Non qui, dev’essere fuggito. – Certo, se starnazzi come un’oca sgozzata non rimane certo ad aspettarci. – Tu sei prevenuto, non sarebbe fuggito. – E tu sei rincoglionito, in pieno raid ti metti a filosofeggiare, sei peggio di quando sbavavi dietro alla ballerina. – Ahò, ma che vuoi? Piuttosto decidiamo un’azione. Se fosse qui sarebbe mezzo assiderato e all’esterno completamente, non si può resistere. – Infatti, saliamo sul furgone. Tentarono di mettere in moto per scaldarsi, ma il motore non dava alcun segno di vita. – Lo sapevo, non ci ha traditi, c’è stato un guasto. – Sì e ha impiegato due giorni a fare una settantina di chilometri… ah ah ah. Comunque dev’essere nei dintorni, a meno che la tua maga e l’Interceptor non siano degli impostori. – Uhm… no… dobbiamo cercare intorno, ma come se non si vede a un palmo dal naso? – Facciamo così: porta qui il SUV e riposiamoci in attesa dell’alba – decise Snake e si approntarono a trascorrere le ultime ore della notte. Harvey, troppo irrequieto per potersi rilassare, fece il primo turno di guardia. Mentre il socio russava, lui tornava alle recenti sensazioni; se ne vergognava, ma non 125 voleva capirle né scacciarle, anzi ambiva a riassaporarle, senza riuscirci più. Si fumò una canna e, trascorsa l’ora di veglia, svegliò pigramente Snake, mandò un pensiero a Heinz s’addormentò. Snake per reagire al dormiveglia scese, urinò, si stiracchiò, abbozzò qualche passo e, preso dallo scazzo, tornò sui suoi passi prima che neve lo inzuppasse. Entrò dal portellone posteriore e si sedette sul pavimento, ossessionato dal desiderio di Agatha e di un caffè. La immaginava intenta a versargliene una tazza, la vedeva sul letto, nuda fra chicchi di caffè… stava impazzendo, doveva toccarsi, lì non c’erano né donne né bar. Quando finì, sospirando s’accorse che lo schizzo era parato sullo schermo del GSM. Biascicò un’invettiva e prese un fazzoletto di carta per pulirlo, muovendolo notò che lo sportello del vano batteria era semichiuso, lo sistemò, accese: l’apparecchio funzionava benissimo e si mise ad armeggiare. 126 Inseguimenti Toni, pesto di alcol, coca, insulti e mazzate subiti dagli sgherri a cui l’aveva gettato in pasto Harvey, con poche istruzioni fasulle e una pacca traditrice, era pure esasperato dagli strattoni di Heinz. Aveva provato ad ammansirlo con le crocchette al coniglio, i biscottini aromatizzati, il latte caldo… ma quello niente, se col padrone era scemo, senza di lui diventava un completo mentecatto. Da un’ora buona anelava di squartarlo, scuoiarlo e usarne la pelle come zerbino, per questo aveva deciso di rifilarlo ad Agatha: vicino a lei la bestia assumeva una docilità demenziale. L’avrebbe svegliata, pazienza, sempre meglio che sopprimere l’animale. E poi era furioso: non solo gli amici l’avevano mandato allo sbaraglio fra la peggiore teppa di Haarlem, ma Lucia aveva risposto alla sua chiamata in ritardo e con un misero sms preconfezionato, un affronto imperdonabile che non poteva domare all’istante. Desiderava vendicarsi, ma doveva rimandare e la rabbia saliva, saliva… Il modo di abbatterla se lo trovò di fronte, in piena tormenta: un uomo che spintonava Agatha in una Skoda nera. Aizzò e sguinzagliò Heinz, che si precipitò ad annusare un cespuglio e ci pisciò sopra, allora scattò di corsa, ma ormai l’auto era partita in quarta e riuscì appena a leggere il numero di targa. Si voltò verso il cane, che nel frattempo aveva percorso un bel tratto in senso inverso e, preso dall’ira, scordò il numero. Riuscì infine ad acciuffare Heinz e, ripromettendosi di dotarlo al più presto di un collare chiodato, lo strattonò in tutti i versi e lo imbavagliò con qualche giro di guinzaglio. – E ora che faccio? Che faccio? – si chiese fradicio e infreddolito. Aveva parcheggiato a pochi metri, caricò la belva ringhiante imprecando al pensiero di come gli avrebbe 127 ridotto l’abitacolo, agganciò il guinzaglio alla maniglia della portiera posteriore e sgommò nella direzione presa dalla Skoda. Fortuna volle che Agatha, in preda a terribili spasmi, fosse riuscita a far accostare il guidatore alla prima area di servizio. Date le condizioni climatiche e l’ora, fu facile scorgerli nel parcheggio desertico e accostare a debita distanza. Lei, piegata in due, si avviava verso il WC incalzata da lui. – Non vorrai entrare, eh, tanto mica posso scappare. – Bene, però Bitu starà qui attaccato alla porta, non hai scampo e spicciati. Agatha entrò nel bagno lurido e gelato, slacciò i pantaloni, tolse il coltello dall’orlo delle mutande e l’infilò nello stivale destro: sarebbe stato più difficile estrarlo, certo, ma anche per lui trovarlo. Tentennò indecisa: e se avesse aperto la porta e gliel’avesse conficcato nello stomaco? Ma ci ripensò, era inesperta, mentre Bitu sembrava capace di maneggiare il pugnale e lì non c’era anima viva che potesse aiutarla; desistette e uscì. Il fetore ristagnante evitò i sospetti di Bitu e tornarono verso l’auto. Toni, accortosi che l’uomo era armato, sebbene non capisse di cosa, cercava il sistema d’intervenire sulla scena quando Heinz, a forza di morsi e contorcimenti, si liberò dall’improvvisata museruola e tra guaiti e latrati saltò sul sedile anteriore. Bitu s’irrigidì allarmato, ma tra la distanza e il buio non riconobbe Toni e la sua auto non l’aveva mai vista; riprese il cammino. Aprì la porta ad Agatha e mise in moto. Come girò la chiave d’avviamento irruppe a tutto volume Psycho Killer dei Talking Heads. Bitu spense con un gesto di stizza e Agatha lo guardò rabbrividendo. Aveva capito che fosse un tipo strano senza percepirne la latente pericolosità e la cosa la indispettiva al punto da farle accantonare la paura. Doveva darsi una spiegazione, uscirne vincente. Pensa che ti ripensa una mezza risposta la trovò: l’insofferenza. Bitu, impietosendola e agendo sui suoi sensi di colpa, la irritava al punto da far128 le tralasciare ogni altro aspetto. Non la interessava, non la attraeva, il suo pensiero fisso era come toglierselo di torno. Inoltre era falso e astuto come un demone, quindi era scagionata, però ora doveva trovare il modo d’uscire dalla trappola. Poiché non sapeva da che parte cominciare, per evitare di scervellarsi provocandosi un’emicrania, tentò di rilassarsi. Appoggiò il capo sul sedile, fissò lo sguardo sulla tormenta e allungò la mano fino allo stereo. Psycho Therapy dei Ramones a volume spiegato, Bitu s’irrigidì e lei scoppiò in un riso isterico. – Ridi di Bitu, eh? Ti fa ridereeeeeeeeeee? – urlò e spense lo stereo. Agatha, passando dal terrore alla rabbia, lo riaccese e Bitu inchiodò, l’auto fece testa-coda sull’asfalto vischioso, poi la fermò, girò l’interruttore e si buttò su di lei afferrandola al collo in una presa soft. La tirò verso di lui e, premendole il capo col suo, riprese a sbraitare: – Ora basta! Non t’importa di Bitu, ma imparerai a rispettarlo, ti dimostrerà il suo valore e guardalo negli occhiiiiiiiiiiiii! – Maledetto bastardo – urlò Agatha con gli occhi chiusi tempestandolo di pugni sulla testa e cercando di divincolarsi. Ma lui aumentò la stretta e la pressione fra le teste… infine lei cedette, scoppiando in un pianto dirotto – Ti prego lasciami, non ti ho fatto niente… Bitu allentò la presa, abbassò il volto e le cacciò la lingua in bocca. – Qui si mette male – pensò Agatha piangente, un po’ per paura, un po’ per strategia. Serrò la bocca inutilmente, lui infilava, stringeva… si lasciò andare e lo baciò. Provò rifiuto, non per il bacio in sé, ma per la modalità repellente. Comunque Bitu, pur preso dalla passione, rimandò il proseguimento e si ricompose. Guardò lo schermo del BlackBerry in modalità GPS, rifletté un istante e ripartì. Commosso dalla disponibilità di Agatha riaccese la radio a basso volume e le accarezzò la mano sinistra, ma dopo poco spense e riafferrò il volante. Intanto Toni, a un centinaio di metri di distanza, riprendeva l’inseguimento. Durante la sosta improvvisa 129 aveva pensato d’intervenire, ma temeva di mettere in pericolo l’incolumità di Agatha. Non la poteva soffrire, ma era pur sempre l’amica del suo migliore amico. Aveva anche tentato di immobilizzare Heinz, ma questo scopriva le zanne a ogni suo gesto e rinunciò. Heinz si sdraiò a terra sul lato destro, col muso a pochi centimetri dal suo piede, Toni cercò di scostarlo temendo che premesse sull’acceleratore, ma la belva rispose con un ringhio sordo. Doveva guidare con un occhio alla strada impervia, uno alla bestia digrignante e mantenere la distanza di sicurezza dalla Skoda. La concentrazione necessaria era sufficiente a lasciare in secondo piano la stanchezza e la rabbia; come il cervello riproponeva il paradosso della situazione, qualche preoccupazione stradale o canina provvedeva a scacciarla. L’impresa andava per le lunghe: Bitu procedeva a passo di lumaca e si fermava continuamente. Era evidente dai segnali di frenata che era un pessimo guidatore e questo favoriva Toni, che aveva imparato a manovrare il trattore a otto anni e a dodici avrebbe potuto tranquillamente prendere la patente. Agatha era esasperata, la paura, la nausea per il procedere a scatti, le strusciate affettuose di Bitu creavano un’atmosfera degna dei peggiori incubi. Aveva provato a pizzicarsi, senza riuscire a svegliarsi, la realtà era quella e non trovava soluzione. Sperava che, a forza di slittare, l’auto finisse una buona volta in un dirupo o contro un albero, ma il meglio ottenuto finora era stato un fosso. Solo un incidente di qualche entità le avrebbe permesso di aggredire l’aggressore e rimpiangeva ogni cinque minuti d’aver nascosto il coltello, doveva riuscire a recuperarlo. Bitu non riusciva a parlare, guidare, ascoltare la musica, accarezzare, inveire e controllare il BlackBerry contemporaneamente. Doveva compiere un’azione per volta, lei se n’era accorta e non faceva che subissarlo di domande: – Cos’è quella roba? (rivolta al cellulare) – Dove mi stai portando? – Sembra che tu sappia già dove andare – Ma io cosa c’entro in tutto questo? – Come fai 130 a conoscere i nomi dei miei amici? – E il carretto dove l’hai messo? – Guarda che se vuoi ci possiamo accordare, tu mi sganci e io… – Ma per sapere dove andare non devi conoscere le coordinate? Quindi sai… Lui per risponderle doveva fermarsi, le faceva una carezza accompagnata da qualche frase sconclusionata, al che lei cambiava discorso o accendeva lo stereo, lui sobbalzava, perdeva la pazienza, scostava la mano e guardava il cellulare. Sospirava, si tirava indietro i capelli, poi la fissava sorridendole bieco e provava a baciarla. Agatha a volte ricambiava, altre veniva sopraffatta dal disgusto e lo mordeva, buttava la testa indietro e batteva contro il vetro, lui la afferrava, poi urlava, si guardava intorno sconsolato e ripartiva. Agatha si era accorta di riuscire a esacerbarlo e le era anche parso di scorgere, nello specchietto retrovisore, i fari di un’auto, ma a cosa poteva servire? Bitu lo specchietto praticamente l’ignorava tenendo lo sguardo fisso sulla strada e non s’era accorto di niente. – Qualche speranza c’è – pensava, per poi ricadere nella più cupa disperazione mandando le dita a sfiorare l’impugnatura del coltello. Iniziò pian piano a estrarlo. All’ennesima fermata Bitu esaminò soddisfatto lo schermo del BlackBerry, si passò la mano fra i capelli, abbozzò un ghigno e si voltò verso la preda. – Ci siamo quasi, cara. – Dove? – Dove non ha importanza, per te, però ora possiamo rilassarci – e sorridendo azionò la leva di ribaltamento del sedile di Agatha. – Aahh ma che fai, sei impazzito? Ribaltò anche quello del guidatore, poi fu su di lei. Agatha afferrò la maniglia, ma la portiera non s’aprì, a tastoni raggiunse la sicura, era bloccata. – Chiusura centralizzata e poi dove vorresti scappare? – Devo fare pipì. – Va bene, scendiamo. Come scese Agatha corse via, ma il terreno era accidentato e coperto di neve, il coltello premeva sulla cavi131 glia e dopo poche falcate lui l’afferrò per la giacca, lei scivolò e cadde. Fine della fuga, provò a guardarsi intorno, ma non vedeva a un palmo dal naso. Bitu la spingeva: –Traditrice, lo sapevo, ma Bitu riuscirà a domarti. Non ora, tranquilla, adesso dobbiamo riposare, quando tutto sarà finito avremo tempo per noi. Agatha, sconfortata, dopo essersi fumata una sigaretta si sdraiò su un fianco coprendosi il viso con la giacca e nonostante il disagio e la paura fu blandita da un vago torpore. Invocò l’esistenza di qualcosa di fermamente esatto che non fosse un’astrazione, ma non riuscì a trovarlo. Solo le apparve un fosco tramonto marino dove affondava un sole impercettibile e una bianca barchetta di carta solcava quiete onde metalliche fino ad annegare. In quel vuoto malinconico s’addormentò. 132 Alba Snake, a forza di smanettare, aveva scovato Cobra, un tipo col quale giocava a burraco online e avevano ripreso l’interminabile sfida. Impegnato com’era ad anticipare l’avversario, s’era estraniato dal contesto. Il previdente Harvey, che aveva impostato la sveglia sul cellulare, stirò gli arti sferrandogli una sberla, uscì e, ammaliato dal soffice biancore, cercò un angolo. Non scorgendo angoli, né strade, né alberi, pisciò sotto la marmitta del SUV, estrasse da uno dei 47 taschini cernierati della mimetica imbottita una cialda di caffè istantaneo, la scosse, bevve e ne porse una Snake. – Fanculo, non potevi darmelo due ore fa? – ringhiò questi indispettito dalla sua consueta ineccepibile organizzazione. – Ah ah ah – rise Harvey beffardo, avrò avuto altro da pensare. – Beh stronzo, intanto guarda un po’ qui – rispose Snake fiero ruotando il GSM verso il socio. – L’hai trovato? – chiese l’altro con un tuffo al cuore ma senza lasciar trasparire il minimo cenno di sorpresa. – È qui. – E quindi? – Si va a prenderlo, ovvio, però prima dobbiamo sondare la zona e preparare l’agguato. – Ma quale agguato… – sospirò Harvey. – Minchia è inutile, rincoglionito ti sei… cosa vorresti fare? Andargli incontro con una scatola di cioccolatini in una mano e un mazzo di rose rosse nell’altra? Quello tenta di fotterci un carico da migliaia di euro, roba da camparci di rendita per i prossimi cent’anni e non facciamo un agguato? – disse Snake rabbioso, con le vene del collo gonfie per lo sforzo di non gridare. 133 – Che cazzo sia sto carico ancora non l’ho capito – bofonchiò Harvey figurandosi lo scenario romantico evocato da Snake. – Logico, eri fatto… e t’ho detto mille volte di presentarti in ordine alle convention. – Non quelle a sorpresa. – Bah, lascia perdere, allora il carico è… sì ma non possiamo perdere tempo in stronzate, si sta facendo chiaro anche se non si vede un cazzo… insomma è una specie di war game, roba esplosiva o giù di lì. – Cioè noi ci siam messi a spacciare videogiochi per bambini… e tu carichi l’esplosivo su una carretta come quella? – disse Harvey accennando al furgone in panne. – Ma no, non è esplosivo e non è un videogame per bambini… è un gioco per adulti. – Pedofilia? No, perché se è così io me ne tiro fuori. – Minchia Harvey, a parte che tu non ti tiri fuori da niente a meno che non lo decida io… – No caro, noi siamo soci alla pari e io mi tiro dove cazzo mi pare, allora dilla tutta: noi non ci tiriamo fuori da niente a meno che non facciamo terra bruciata e scompariamo per sempre. – OK ma la pedofilia fa schifo pure a me, quindi non scassare e pensiamo all’azione, il gioco poi te lo spiego ch’è complicato e manco so com’è fatto e in quale di quelle fottute scatole sia… – E non potevi aprirle? – E non potevi farlo tu? Ne avevi voglia, eh? – Beh no, però ho controllato: le scatole sono tutte sigillate e incastrate e il numero corrisponde, Ora non dovrebbe aver preso niente. – Ha avuto tutto il tempo di trafficare e rimettere in ordine, ma non mi pare il caso di perdere tempo con il carico prima d’aver capito che cazzo sta facendo. – Allora vieni nel mio carruggio, non sei sicuro che… – Ooohh basta, chiudila lì, prendi la pistola, togli la sicura e andiamo, da qualche parte si sarà infilato, ci sarà una casa, un fienile, una bagascia… 134 Toni, esasperato, aveva aperto una scatoletta per Heinz, l’aveva portato a fare i suoi bisogni e finalmente poteva riposarsi. Si sforzava di tenere gli occhi aperti, ma era stanchissimo e frustrato e dopo un quarto d’ora, confortato dal calore del fiato canino sui piedi, finì nel mondo dei sogni. Anche Bitu, nonostante la determinazione a mantenere lucidità, aveva finito per chiudere gli occhi e Agatha, che tramava d’accoltellarlo alla prima occasione e sfiorava con la mano la lama sotto il pantalone, dormiva già da un po’. In quel lasso di tempo, mentre Snake giocava a burraco e Harvey sognava, Ora si era svegliato ed era sceso in cucina agognando un caffè. Nella casa regnava il silenzio frammisto a un lieve russare e scese pian piano le scale. Decise di aspettare ad accendere il cellulare e dopo lunghe ricerche trovò una confezione di caffè solubile. – Meglio di niente – si disse e mise l’acqua a scaldare. Scostò la tenda alla finestra, vide un grigiore imbiancato e capì che non sarebbe stato facile andarsene di lì senza chiamare un meccanico o Snake. Entrambe le prospettiva gli davano il voltastomaco e, attirato dalle alternanze dei merletti alle tendine, sussultò ammettendo quanto già sapeva. Le simmetrie di rombi e girandole gl’interessavano circa quanto quella situazione, che a sua volta gl’importava circa quanto altre storie passate e presenti, in sostanza gli era indifferente. Quindi tanto valeva non tirarla per le lunghe sulle connessioni di fuga, rischiando di prendersi una revolverata dai soci solo perché aveva tergiversato tra un trip e un bordello. Sorseggiando l’intruglio pensò che avrebbe fatto meglio a controllare il carico prima di prendere qualsiasi iniziativa e, tanto per finire di rovinarsi il risveglio, gli tornò in mente quello stupido sogno. Moglie e figlio non ne aveva, il cane era morto da un pezzo e Agatha… cosa c’entrava Agatha? Erano stati compagni di scuola, secoli fa, l’ultima volta che l’aveva incontrata era stato in banca… ah, adesso capiva: la filiale, il cassiere… e vaffanculo a Freud e alle interpretazioni. Spense la sigaret135 ta e tornò al piano superiore per prepararsi a uscire. Fece tutto nel massimo silenzio, sperando che nessuno aprisse la porta della camera, priva di chiave nella serratura, mentre caricava la pistola, una magnum rigata che gli aveva rigirato Harvey e aveva provato una sola volta. Si sentiva un mezzo paranoico, però se il bastardo aveva insistito tanto un motivo ci sarà pur stato. Rievocò l’istante in cui Harvey gliel’aveva messa fra le mani, con un’aria da cospiratore e una strana smorfia sulle labbra che quasi pensò potesse provare emozioni simili all’affetto per qualcuno oltre il suo cane. Si chiese come potesse divagare su certe stronzate in un momento simile, seppure che momento fosse non sapeva. Quando si sentì pronto, in punta di piedi raggiunse la porta di casa, aprì. – Alla buon’ora, dormito bene? – gli urlò Erich in piedi sul patio. – Mer… sì, grazie, ma che ci fa lei in giro così presto con questo freddo? – Oh oh, mi alzo tutte le mattine alle cinque, e il freddo corrobora, rigenera… mi alzo a vado a fare un giro. – Sì ma ci sarà un metro di neve… – E che vuol che sia? – rispose Erich indicando le racchette. Il silenzio, il manto nevoso… il mondo un attimo prima del risveglio è il momento migliore della giornata e poi sono andato a controllare il suo mezzo. – Ma non era proprio il caso… – sussurrò Ora imprecando l’impossibile fra sé e sé. – Possiamo fare un ponte con la mia batteria, oppure possiamo a chiedere ai proprietari del SUV… – SUV? Quale SUV? – chiese Ora in preda al panico. – Quello posteggiato lì a fianco – rispose Erich. – Oh merda, merda, torni in casa, presto – gli disse Ora spintonandolo contro la porta. – Allora c’avevo visto giusto – sussurrò Erich con lo sguardo astuto e soddisfatto appena si furono rintanati in cucina. – Giusto che? 136 – Che lei non la contava giusta… apparecchiature subacquee, ma che, son scemo? – Lasci perdere e rimanga qui, io è meglio che esca – rispose Ora e se ne andò. Harvey e Snake avevano colto Erich aggirarsi intorno al furgone un attimo prima che lui scorgesse loro ed erano riusciti ad allontanarsi, dopodiché l’avevano seguito. Avevano ascoltato da dietro il muro laterale la discussione fra Ora e l’anziano e adesso stavano aspettando: l’idea di irrompere in una casa abitata non li entusiasmava affatto e speravano che Ora tornasse all’esterno in breve. In quel mentre Agatha aveva riaperto gli occhi. Era ultra depressa, intirizzita e aveva la bocca amara. Bitu dormiva, estrasse il coltello dallo stivale ma non dal pantalone. Lo guardò. Con un caffè e una boccata d’aria probabilmente sarebbe riuscita a ottenere un’incazzatura sufficiente a farlo a pezzi, ma così aveva voglia solo di piangere, infatti una lacrima le cadde sul labbro, ma la bloccò. Lacrime uguale soffiata di naso, non poteva permetterselo. Forse non era necessario farlo fuori, ma neppure temporeggiare rischiando di rimetterci lei. La morte girava intorno, la sentiva… Provò a evocare ferite e fiumi di sangue, le migliori scene di Shining, una motosega e arti amputati, gole squarciate, teste spaccate… sì, poteva farcela, anche se così a freddo, lo sapeva, poi sarebbe stata tormentata dai sensi di colpa. Anziché agire si soffermò a fantasticare su colpe reali o attribuite, sconti di pena ne aveva accumulati, con una mossa avventata chissà quanti nuovi incubi si sarebbe trovata… e pensò ai suoi incubi e un’altra lacrima ancora, no, quelli proprio non ci volevano, non adesso. – Basta! – pensò, impugnò la lama con fermezza, la puntò dove presumibilmente poteva trovarsi il cuore di Bitu, avvolto nel giaccone, sfiorò lo stereo con il gomito e – Aaahhhhhhh – urlò spiazzata dalla voce di Ozzy Osbourne in Paranoid. Fortuna riuscì a riporre l’arma prima che Bitu mettesse a fuoco l’insieme. Un senso di sollievo per il mancato omicidio lo provò, ma di risentimento fallimentare 137 pure, cosicché s’avvolse nella giacca e sferrò un calcio nel parabrezza, infrangendolo. Bitu l’afferrò, ma lei svincolò la mano destra, prese un frammento di vetro da terra e glielo conficcò nell’occhio, facendo attenzione a non cavarglielo, che era una schifezza, centrò un poco sopra l’arcata sopraccigliare, dopodiché, mentre lui istintivamente si portava una mano al viso, gli mollò un colpo basso micidiale e imboccò il varco. Riuscì in qualche modo a districarsi e uscire, aveva una mano squarciata e una gamba graffiata, estrasse il coltello per facilitarsi la corsa e Bitu in tutto quel tempo aveva già sbloccato le serrature ed era pronto a seguirla. Agatha correva, non sapeva dove, ma correva. Bitu, tra la ferita all’occhio, la nebbia e il dolore lancinante al basso ventre era decisamente svantaggiato. Agatha raggiunse il furgone, s’avvicinò ai finestrini, picchiò, era vuoto; andò verso il SUV, pure, riprese la complicata corsa nella neve, ma senza sentirne gli effetti. In breve fu vicino alla casa. In quel momento Ora, radente l’anta in posa da telefilm poliziesco con pistola a doppia presa, stava uscendo dalla porta. – Fermo lì – gli urlò Snake puntandogli l’arma attraverso la ringhiera del patio. Ora sobbalzò e, senza scorgere Snake acquattato a terra, intravide una sagoma indefinita in movimento, sparò. Un debole grido, braccia aperte, un balzo indietro e la sagoma s’abbatté a terra, intanto Harvey aveva preso Ora alle spalle disarmandolo e Snake gli stava di fronte tenendogli la canna dell’arma puntata nel fianco. – Ma… ma… – balbettò Ora guardando i due. – Merda – esclamarono Harvey e Snake in coro. – Che cazzo… bloccate i vecchi – disse Ora temendo che questi chiamassero la polizia. La porta era rimasta aperta e Harvey, che aveva capito al volo, era entrato in casa prima ancora che Ora parlasse. Snake invece aveva capito che quello era un gran 138 casino e spostato la pistola dal fianco di Ora per mirare al corpo di Bitu, che era ormai addosso ad Agatha. – Non muoverti! – gli urlò e corse lì, lo bloccò, poi la riconobbe e si accasciò al suolo. Bitu, stupito da tanta imbecillità, pensò che gli avrebbe volentieri trapassato le budella con un colpo, se non avesse lasciato l’automatica sotto il sedile della Skoda, però poteva ancora tirargli un fendente o provare a scappare, ma intanto era stato raggiunto da Ora, così tirò fuori le mani dalle tasche e intonò una litania. Ora, dopo averlo fissato per una trentina di secondi, lo inserì nella tipologia del ladro di polli, gli tolse il pugnale dalla tasca e gli bloccò i polsi sul dorso con la sua cintura. Snake teneva il capo di Agatha poggiato su un braccio, con l’altro le accarezzava il viso pulendole il rivolo di sangue sgorgato dalla bocca. Ma lei non se ne accorgeva. Non aveva capito cosa le avesse tranciato la corsa, nemmeno era riuscita a pensare, solo un vago desiderio d’intravedere oltre la nebbia, stroncato dall’inesorabilità del buio. I suoi occhi erano rimasti aperti e Snake non si capacitava di chiuderli, come di tutto il resto. Non amava ragionare, ma sapeva che lei era l’unica persona finora incontrata capace di suscitargli un’emozione consistente. Sempre che emozione si chiamasse quel che provava a stare con lei, a pensare a lei. Non è che al momento ci riflettesse, stava male, nel fondo più nero del fondo e niente vedeva, nulla sapeva. Non si sarebbe risvegliata, non avrebbe mosso le palpebre, respirato o sorriso, allora le chiuse gli occhi, mormorando: – Quoth the Raven “Nevermore” –3 riprese la pistola da terra, se l’appoggiò alla tempia, premette il grilletto. Toni, che era stato risvegliato dal primo sparo ed era partito, perdendosi, alla ricerca della fonte della detonazione, giunse poco dopo. Troppo tardi. Il pericolo era quello e non era riuscito ad arginarlo, missione fallita. Tirò un pugno in faccia a Bitu, che cadde a terra e urlò – Non sono stato io! 3 Edgar Allan Poe, op. cit. 139 Heinz naturalmente aveva seguito il fiuto anticipando Toni e adesso era in casa a sbafare biscottini ipocalorici tenendo a bada i quattro anziani. Harvey, sorpreso dal lieto imprevisto, aveva faticato assai a fargli rinunciare a inseguire il gatto, ma in quel momento d’emergenza era riuscito a essere severo. I fili dei telefoni li aveva divelti dal muro e i cellulari sequestrati, poi era uscito curioso di capire che cosa stesse succedendo. Ora, in tutto questo, rivedeva il suo sogno insulso e le sbarre di una cella. Harvey lo raggiunse e gli spalmò una pacca sulla spalla, poi vide Agatha e Snake. La ragnatela, inghiottita dal foro ustionante, aveva afflosciato ogni minaccia. Sotto, un rivolo di sangue colava sul petto di Agatha, ov’era poggiato il capo di Snake, per finire a mischiarsi alla pozza purpurea che impregnava la neve sotto di lei. Harvey provò una specie di dolore, ma labile, subito si rese conto che difficilmente quei due sarebbero stati felici insieme e forse era meglio così, sia per Snake, sia per lei, sia per lui. Si fece brevemente illustrare da Ora quanto fosse accaduto, dopodiché, puntando la pistola su Toni e Bitu, chiese spiegazioni a loro. Toni decise di sorvolare sulle rimostranze per la serata malavitosa e la dannosità di Heinz e fece un breve resoconto dalla scena del rapimento di Agatha all’inseguimento dei fuggitivi. Bitu, arrivato il suo turno, iniziò un turpiloquio in urdu-olandese che gli valse un fendente nello stomaco. Harvey non poteva perdere tempo e ne sapeva abbastanza. Da quando aveva incontrato Agatha e Bitu alla stazione si era insospettito e aveva iniziato le ricerche. Grazie alle sue aderenze nel mondo dell’alta finanza e all’ingaggio di un hacker tossicomane, aveva scoperto che Bitu era un agente doppiogiochista al soldo di vari servizi segreti. Il suo ultimo ingaggio consisteva nel recupero del war game trasportato da Ora. Del gioco era riuscito a capire che fosse una sorta di Risiko informatico da combattersi in qualche landa desolata tipo deserto dei Gobi o del Kalahari, do140 ve le parti in lotta dovevano fronteggiarsi per la conquista del mondo. Niente di eclatante, non fosse che qualche stronzo aveva pensato di farlo eseguire sul campo da soldati volontari, trasformandolo in un business di arruolamenti e armi, sperimentali o meno e con tanto di risvolti strategici. Una simulazione realistica ipoteticamente in grado di smaltire armamenti, incrementandone lo smercio oltre i conflitti d’attacco o liberazione sui quali si reggevano le sorti dell’industria bellica e degli apparati militari di numerose nazioni, europee o asiatiche che fossero. Il che aveva reso il gioco appetibile per varie menti distorte su cospirazioni e intrallazzi di potere o di mercato, facendo entrare in campo i servizi segreti. Per non parlare di qualche consulente demenziale che ne aveva ipotizzato una recondita finalità educativa, un incanalamento della violenza intrinseca che avrebbe consentito al maschio dominante di riconquistare il proprio emblema. In sostanza il gioco aveva scatenato un conflitto ancor prima d’iniziare. Tutta questa pappardella complicata Harvey l’aveva parzialmente appresa alla riunione, lasciando credere agli altri di essere strafatto, mentre gli sviluppi glieli aveva schematizzati l’hacker, un giovane pieno d’intelletto, grana e dipendenze che aveva irretito a una serata di beneficenza per i paesi in via di sviluppo, ex terzo mondo, infarcita di troie, cocaina e derivati vari. Questo era quanto sapeva e non aveva perso tempo a spiegarlo ai presenti, cosa gl’importava? Forse a Ora l’avrebbe detto, in un momento di calma, se mai ne fosse capitata l’occasione e non era quella. S’era limitato a dire a Bitu: – Sei una fottuta spia in combutta con quella baldracca di Ingrid, che hai mandato in avanscoperta. Lei, non sapendo un tubo della faccenda, è riuscita a spedirci qui a colpo sicuro solo perché aveva visto il furgone di Ora. Io e Snake c’eravamo quasi cascati ma vedi, tu sei meno scaltro di quanto credi. Hai lasciato a casa sua uno dei tuoi merdosi fermagli di Shiva: quello che tieni appuntato al maglione, lei lo portava sullo scialle. Time out. 141 Alzò la pistola e gli fiondò un colpo al centro della fronte. Bitu avrebbe voluto dirgli che Ingrid, pur essendo una sua informatrice, stavolta non c’entrava e se aveva incontrato Ora era per caso. Ma il suo cervello svalvolato era spiaccicato in grumi sanguinolenti che imbrattavano il candore della neve e che importava poi? Harvey una risposta ce l’aveva e già puntava l’arma contro Toni, che stava tentando di scappare, ma Ora gli prese il polso. – Lascia perdere, abbiamo abbastanza cadaveri da far sparire, quello non sa un cazzo e non parlerà, non gli conviene – chiedendosene subito il motivo, giacché Toni non sapeva chi fosse, né che ruolo avesse. – Mi sta sui coglioni – rispose Harvey, scostò la mano e puntò in basso. La gamba di Toni cedette e lui cadde riverso a terra. Lo raggiunsero, lui si aggrappò agli anfibi di Harvey invocando pietà. – Idiota segaiolo, se avessi voluto ammazzarti l’avrei già fatto, ma tu mi servi vivo. Ci vuole un testimone per questo massacro. I vecchi con questa nebbia non possono vederci, non riusciranno a ricordare quanti colpi son stati sparati e quando, né sanno da chi. Certo, m’hanno visto e hanno ospitato Ora, ma non è un gran problema, non ci troveranno. Farli fuori tutti non mi dispiacerebbe, ma meglio per noi lasciarli illesi. Quindi tu rimani qui. E poi devi parlare con la nonna di Snake. Era un bastardo, non merita pietà, ma insieme abbiamo lavorato bene, con lui finisce un’epoca e questo almeno glielo devo. Aprì una delle tante tasche ed estrasse un fazzoletto pulito, lo passò sul calcio del revolver, lo bagnò nella neve, lo ripassò, l’asciugò, scrollò le scorie di polvere da sparo sulla mano di Bitu e gliela fece impugnare. Indi si pulì la manica dai residui cerebrali, estrasse da un’altra tasca la pistola che aveva sottratto a Ora, fece lo stesso trattamento e ci pressò sopra la mano destra di Toni. A quel punto il più era fatto, Harvey contò i cadaveri, preparò un mezzo schema dello scontro che appuntò su un notes riposto, insieme alla penna, in un’altra tasca ancora; il tutto gli parve abbastanza credibile, lo 142 memorizzò e lo inculcò a Toni, raccomandandogli di lavorare un poco di fantasia. Poi gli consegnò un piccolo notebook acquistato al mercato nero e mai utilizzato, che s’era infilato in una tasca per ogni evenienza e gli disse che l’avrebbe contattato con quello, quindi non doveva cadere nelle mani della polizia. L’unico problema era dove nasconderlo, il solo posto sicuro era la casa dei vecchi. Mandò Ora in avanscoperta col ferito in spalla. Il terreno intorno all’edificio era pieno d’impronte e aveva ripreso a nevicare, con un ramo per cancellare i passi e un po’ di fortuna forse la polizia non sarebbe andata a frugare nell’incasinatissimo capanno degli attrezzi. Ora infilò l’aggeggio dentro una scatola di chiavi inglesi, chiodi vecchi, rondelle, stoppe, martelli, cacciaviti mezzo arrugginiti. L’importante era che ci fossero una mezza trama e un presunto colpevole, in fondo a chi poteva importare di un indiano, del Bangladesh per giunta, uno spacciatore e una free-lance del precariato, italiani per giunta? A nessuno. Anzi la strage sarebbe stata utile ai media per pubblicizzare il nuovo corso: l’era di puttane e droghe in larga scala era al tramonto e con loro se ne sarebbero andati anche i regolamenti di conti fra bande. Naturalmente non era vero un cazzo, era solo uno spostamento d’interessi, una nuova fase di intrallazzi, un passaggio dal fumo all’edilizia, ma Harvey non voleva entrarci, troppo monotono per lui che amava la strada e i coffeshop. Detestava il rischio di trovarsi fuori tempo e fuori luogo, doveva abbandonare la nave prima che affondasse e quello era il momento buono. Finita l’operazione, Ora infilò Toni in casa, lasciò uscire Heinz, che corse a orecchie spiegate a far le feste al padrone e si allontanò. In quel mentre Harvey aveva già trasferito parte del carico dal furgone al SUV, qualcosa dovevano pur lasciare per giustificare il tutto. Il gioco occupava ben poco, nelle altre scatole c’erano pezzi vari di armi, armi complete, munizioni, eroina, pasticche, tutte cose che sarebbero servite come esca. 143 Finalmente poterono allontanarsi. Salirono sul SUV. Ora si sentiva uno straccio, iniziava appena a realizzare di essere un assassino. Aveva ucciso una donna che fra l’altro conosceva. Certo non l’aveva fatto apposta, ma per una frazione di secondo aveva concepito l’opzione di mirare più in basso, senza applicarla. Harvey, pur stravolto, era ancora in pena fase adrenalinica, pensare non gli era mai piaciuto granché, preferiva l’azione, organizzare, ordinare i tasselli e, nonostante gli imprevisti all’orizzonte e il rammarico per la morte del socio, si trovava pienamente a suo agio. La sprovvista giungeva sempre, di questo era ormai certo, ma non gli piaceva lasciarsi cogliere impreparato. In fondo era una sfida, una fottuta sfida nella quale non sapeva rassegnarsi. Vittorie o sconfitte, mai fanghiglie o annaspamenti. Per questo, fra i tanti imprevisti prevedibili, s’era dotato pure di due passaporti falsi in vista di nuove prospettive. Uno avrebbe dovuto essere per Snake ma pazienza, l’avrebbe utilizzato Ora. Certo, pure a rasargli i capelli, riprodurre su di lui gli sfregi decorativi del socio era quasi impossibile, cambiare la foto pure. Quasi… uno spiraglio c’era, intanto dovevano superare l’Europa, fuori da lì la manovra di sganciamento sarebbe stata più facile, soldi, corruzione e ricatto erano dalla sua parte. Pensò al suo ignoto villaggio, là nessuno l’avrebbe scovato e c’erano tanti sorrisi da regalare, tanti bambini ai quali offrire la gioia di un padre che non dovesse emigrare, l’opportunità di utilizzare le proprie risorse anziché lasciarsele sfruttare. Rivide il sorriso del fratello bambino e capì che forse stava esagerando, che un sogno ad occhi aperti è ben lontano dalla realizzazione di un progetto. 144 Ora, sfiancato, era seduto accanto a lui, Heinz riposava nel vano posteriore. Per un istante Harvey provò la sensazione di sentirsi il mondo in mano. Piccolo o grande, dritto o rovescio, in quel momento avverso gli parve che il futuro fosse suo. E solo questo gl’importava, fino al prossimo schianto. Accese la radio, i notiziari non davano alcun barlume di notizia sul massacro, il gelo forse avrebbe reso possibile un ritardo sulla cronologia dell’ora dei decessi e poi la differenza era solo una manciata di minuti, anche se a lui parevano un’eternità. Cambiò su una stazione revival, gli Herman’s Hermits cantavano A wonderful word. Mise il volume a stecca, accelerò. 145 146 INDICE 9 10 13 17 21 28 32 37 41 46 52 56 65 69 76 84 88 95 101 107 114 118 122 127 133 Falsa partenza Onda Le attese Le responsabilità Il senso del bisogno Partire Destinazioni Nemici Squame Mai scendere dalla fottuta barca Reportage Spostamenti Arrivi Incontri Meditazioni Children-Geriatric Kindergarten Specchi Intrattenimenti Scorribande Viaggio Confidenze Sogno Bufera Inseguimenti Alba 147 Stampato in Italia nel giugno 2011 per conto di LibertàEdizioni