Marco Brondi - Libertà Edizioni

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Marco Brondi - Libertà Edizioni
LibertàEdizioni
ALAN TOU
IL FRONTE DEL GELO
(ERA ORA)
Romanzo
LibertàEdizioni
Chi cammina s’intorbida.
L’acqua corrente non vede le stelle.
Chi cammina dimentica.
E chi si ferma
sogna.
Federico Garcìa Lorca, Corrente
IL FRONTE DEL GELO
(ERA ORA)
Falsa Partenza
Imperia, un’ora così
La stanza era nera, il letto bianco, gli scuri chiusi. La
musica girava sugli stessi brani. Da ore. Dal vano attiguo filtrava troppa luce. Rievocazione di atmosfere domenicali, pomeriggi vuoti… un vuoto… era domenica?
Non faceva differenza. Era pomeriggio, agosto.
L’ultimo. Agatha avrebbe dovuto alzarsi, ma aspettava
il momento giusto. E quello era il più sbagliato, il preventivo più errato. Restava poco tempo.
C’erano tutti i presupposti per la qualifica di peggiore assoluto. Non lo era, purtroppo… per questo il dolore
era più sordo… ineluttabile inutilità. Trovò la forza di
levarsi, raggiungere il lungomare, trascinandosi fra incolmabili distanze. Di un mondo ovattato, irraggiungibile, schermato dalla nebbia di un’esclusione superflua: se
ne sarebbe andata comunque, ma non in quel momento.
Vagò fino alla possibilità: risa e dileggi che non le appartenevano. Ineluttabilità. Finalmente il buio, la stazione, fra poco sarebbe finita e ancora non intravedeva
scampo. Un gesto, una parola, sarebbero bastati… il
treno arrivava. Salì. Si voltò per l’ultima volta: le labbra
di Lui un sorriso di scherno. Le porte si chiusero, ghigliottina su ogni speranza. Una maledizione di troppo.
L’avrebbe ucciso.
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Onda
Genova, anni dopo
Un baratro. Agatha percorreva la salita verso il cimitero. Lo sentiva incombere alle spalle e non bastavano il
mare piatto e turchese e il cielo terso a dissiparlo. Saliva, percependo il vuoto a ogni passo, in bilico sulla voragine. Cercò una preghiera.
Il passo era preciso, cadenzato. Il cimitero era lì,
chiaro, a picco sul mare, quasi consolante. Sull’angolo a
spiovente, appollaiato immobile, un corvo nero cercava
una preda ignara.
–… thing of evil! prophet still, if bird or devil! – recitò.1
Varcò il cancello ombroso, si segnò. Il baratro era di
nuovo lontano. Raggiunse la tomba, annaffiò, sistemò i
fiori, strappò erbacce e foglie secche. Immaginò un colloquio, diede un’ultima occhiata e se ne andò.
La salita era discesa, lo sguardo a oriente. Fu allora
che lo vide. Una sottile evanescenza tra cielo e mare.
Annunciava il freddo. La sera sarebbe diventata una linea nera stagliata lungo l’orizzonte, a sommergere i riflessi del tramonto.
Il fronte del gelo.
Ma ora era sole tiepido, malgrado fosse gennaio.
Perché tanto odio? Parole terribili le rimbalzavano nella
mente. L’ultimo attacco era stato feroce, assurdo, interminabile. L’aveva sfiancata. Ora riusciva a ripensarlo,
intravedendone il disegno.
Odio. Era quanto restava, nei giorni migliori.
A ogni risveglio, l’onda nera l’assaliva. Visioni di
sangue e di morte.
Un moto di rabbia, violenza, insofferenza… doveva
arginarlo come fantasticheria… legittimarlo, contenerlo.
Onda nera, sangue… finzione.
– Considerato il fuso orario, potrebbe andare – pensò.
1
Edgar Allan Poe, The Raven.
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Accese il portatile. Laggiù (Brasile) era sera ed era
compito suo.
Guardare all’orizzonte. Ieri lì, riparti e non fa differenza… Anni a un tiro di treno. Un viaggio. Macerie. Poche frasi. Meglio immaginare un ponte d’arcobaleno.
Un’alternativa preclusa. L’ultima stazione è stata poco
fa. La tua ennesima mossa una conferma. Per non dimenticare.
La maledetta stazione in cui tutto era possibile. Svanita.
Tornarci per la fine, definitiva, silenziosa. L’ultima
stretta. Le tue spalle. Per un attimo captare un destino
diverso, a piantarsi nel petto. Un dolore. Ma non esiste.
Non ci sono treni non ci sono viaggi. L’ultimo è il coronamento della morte. Non sono scesa allora, sono tornata ieri. La fine.
Ovviamente ci ripensò, non aveva senso. Era uno
spreco. Gli addii non servono più. I viaggi di mezzo
massacri alternati. Separazioni, vuoti, ritorni, segnali,
ammissioni, fatalità. L’ultimo viaggio i paesi scorrono
oltre come un’esequie interminabile. Rimandata in eterno, con una scusa, un’impasse. Possibile solo al crollo
di ogni verità. Esclusione d’alternative. Case, strade,
mare, scogliere, epitaffi su un mondo che doveva finire.
Non così.
L’ultimo viaggio li guarda, non indifferenza, insinuante malinconia. Non è sola. Una frase planata un attimo
prima della partenza. Tre parole. Cosa significheranno?
Questione di personalità. Tre parole. Fine è una.
Anche a volerci pensare, a ritorno il vagone era sbagliato. Le luci lampeggiavano, il libro languiva, lo yogurt alla banana, pane, coltello e mortadella della coppia
slava annientavano ogni riflessione in un morbo nauseabondo. Una stanchezza ansiosa che non trovava sfogo.
Poco tempo ancora, prima dell’arrivo.
Prima non l’avrebbe sopportato. Adesso era quasi
indifferente, un atto dovuto, senza eccessi né colpe. Anni di stime, accantonamenti di dati, segni, strazi, a scan11
so di equivoci… era tutto già scritto. Non c’erano errori.
Una stanchezza inquieta.
All’ultimo tratto il treno rallentò… non ce l’avrebbe
fatta. Perse la coincidenza. Arrivò. Distrutta. Era buio,
rabbrividì, indossò la maschera, recitò l’ultimo atto di
quel giorno interminabile.
Lo spettacolo era appena iniziato.
12
Le attese
Genova, una mattina triste
Non erano capelli; erano onde. Onde nemmeno belle. Erano ricci, un po’. Lisci, ugualmente misti ai ricci
eccetera. Una macchia mediterranea sulla testa di Lei.
Ogni movimento che Lei faceva creava una conseguenza dinamica morbidissima di tutti quei suoi capelli. Un
po’ ricci, un po’ mossi, un po’ lisci, comunque sopravvissuti a tante tentate tinture.
Adagiato su una specie di panchina, Orazio osservava quel motore capelluto avvicinarsi alla biglietteria:
un chiosco semicircolare con due serrande verdi; qualche temporale lontano aveva danneggiato alcune lettere
dell’insegna cosicché, in perfetto genovese, si poteva
leggere BIG IETTI.
Lei era di ritorno; il suo biglietto, fresco di carnet,
apparve agli occhi di Orazio più un simbolo, che un
semplice oggetto da vidimare.
Ritornare
era la parte dei viaggi che meno amava. Fra le tre, partenza, transito e ritorno, quello che Ora prediligeva era
il transito: descriveva al meglio la sua concezione di
reale. Mai nulla fermo, radicato. La macchia indistinta
che assumeva il reale attraverso i suoi occhi di viaggiatore senza sosta diveniva un movimento proiettato verso
l’astrazione, verso la più lacerante delle consapevolezze: la realtà non esiste o quantomeno ad essa non possiamo affidarci, nella ricerca di un assoluto che tutto
spieghi e fissi.
La voce di Lei lo strappò a questa tormenta di pensieri nodosi.
Poco lontano, bandiere di paesi distanti volteggiavano vicine, schernite dal vento.
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Dunque, gli addii. Di lì a poco, in quel non-luogo
così adatto, la stazione, si sarebbero salutati. La stazione, il posto degli abbracci, delle partenze e dei ritorni.
Le stazioni: treni arrivano, treni partono; qualcuno resta,
qualcuno torna, qualcuno va. Molti aspettano. Tutto lì.
Fra poco, l’addio.
Come un bambino attende un’iniezione, anche Orazio serrava le mascelle e fingeva pacatezza, mentre tutto
dentro gli ribolliva.
Falla finita, vattene
Quell’attesa stava assumendo i connotati del transito più brutto di cui avesse memoria.
Le attese, come squarci nel tempo, piatti mari, piatti
amari, sincronie dislessiche e infinite tabaccate.
Un altoparlante disquisiva di trasformazioni di orari
e binari; dal bancone del bar troneggiavano ripiene brioches e focacce. Lei armeggiò col portafoglio, alla ricerca di qualche residuo spicciolo, oltre ai soldi arrotolati
nelle mutande a vita bassa. Orazio votò per una focaccia
ripiena di tonno, maionese e malinconia. Una coca cola
gasatissima non lo contagiò e, finita la focaccia, si trascinò fuori dal locale con l’euforia di un condannato alla
pena capitale.
La corriera che avrebbe accompagnato la loro separazione aveva fatto capolino nel piazzale strombazzando, cinica. Era di un effervescente colore blu, il cartello
che ne descriveva la destinazione lampeggiava ossessivo, come il titolo di un blockbuster. Lei afferrò la valigia con una mossa forse studiata e, con un volteggio un
po’ ridicolo, prese a scendere le scale. Orazio rimase
fermo, in mano aveva una cola sempre meno gasata;
guardando le sue spalle, intuì che di tutto il tempo passato insieme, di Lei avrebbe ricordato quelle, in primissimo piano scendere una scala. Abitate da capelli insani,
le sue spalle erano l’unica parte di Lei ancora davvero
interessate a lui, curiose di lui. La sua andatura, quasi
una danza, lo deliziò. Guardandola, non poteva ricon14
durre l’immagine di quella donna a un cliché, a una pagina patinata.
Lei era normale, terribilmente normale.
Per questo gli piaceva.
La sua normalità aveva costituito nella vita di Orazio l’anormalità in tutto e per tutto, la devianza, quasi.
Era stata una specie di tempo di recupero che lui avrebbe voluto dilatare all’infinito, senza cambiare nulla. Ma
il tempo di recupero finisce anche con il più tenero degli
arbitri. La partita era finita.
Tutti a casa.
L’attesa
Lei non parlava, sentiva gli occhi di Ora camminarle sui vestiti, ma serena, portava lo sguardo a spasso per
il ponte romano, lì vicino.
Il cielo plumbeo non prometteva nulla, né in bene,
né in male.
Per un attimo, i due si fissarono. Lei gli regalò un
sorriso nemmeno pensato. Ora abbozzò una smorfia e si
girò.
Non poteva cambiare più niente.
Poteva soltanto sopportare.
Il treno, in ritardo di venti minuti, era esteticamente
in linea con i tempi. L’ultimo abbraccio dopo
l’annuncio dell’altoparlante aprì a Orazio uno spiraglio
sulla possibilità. Una scossa lo attraversò, un’anta si
spalancò su un giardino. Un guizzo di luce, di verde, di
aria, troncato di netto dal colpo di scuri ingialliti e sbarrati, incastrati nel muro scrostato. La voce chioccia
dell’altoparlante s’era imbrigliata:
– … ferma a… ci scusiamo per… Basilea… we are
sorry… dieci minuti… prima classe… PalermoReggio… soppresso… Torino interregionale… Milano
centrale in ritardo di 115 minuti… gentili passeggeri…
in testa… Pisa… scusiamo… binario… che, anziché…
I passeggeri in panico s’interrogavano l’un l’altro, sbat-
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tendosi contro occhiali e valige in corsa, senza afferrare
verso dove.
Lei scostò il capo dalla spalla di lui con una risata.
– Come si fa a piangere con un sottofondo del genere?
… Arriva. Un bacio – disse selezionando con gli occhi i
numeri dei vagoni.
– Ciao.
– Addio – pensò lei salendo veloce, senza voltarsi più.
Orazio evitò di alzare lo sguardo: sapeva che non ne avrebbe incrociato un altro. Scese la scala spintonato dai
viaggiatori in discesa, travolto da quelli in salita.
– Che giornata di merda.
Finalmente in piano, adeguò la vista alla penombra
del corridoio, si avviò all’uscita, si bloccò; un’anziana
gli passò il trolley sugli anfibi e un impiegato gli piantò
il gomito nel fegato. Rimase in bilico tra le imprecazioni, adocchiò la fascia oraria congeniale, lesse, estrasse la
penna dal taschino, segnò due incroci sullo scontrino del
bar, andò alla biglietteria.
Salì sul treno dieci minuti dopo. Biglietto autentico,
senza ingaggio né ricambi, niente da leggere. Non importava. Aveva un diversivo, un panorama in movimento… il muro scrostato attendeva la prossima vittima sulla panchina. L’autobus per il ritorno avrebbe ospitato
l’indifferenza di un’altra identità.
Il panorama scorreva, non lo vedeva. I passeggeri
sedevano, maschere vuote. Le loro parole rimbalzavano
in una percezione fastidiosa. Chiuse gli occhi su un sipario ferroso. Doveva ricordarsi di scendere, prima o
poi.
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Le responsabilità
Genova, mattino prestissimo
Scese. Il cielo era vicinissimo, nitido, non ricordava
tante stelle cadenti. Di fronte a lei, un distributore di sigarette ammiccava supino.
Agatha si avvicinò, mentre una mano afferrava nella
borsa fazzoletti, elastici per capelli e agende senza trovare il portafogli. A un tratto lo arraffò, lo aprì traendolo
fuori, allo scoperto. Un’esplosione di spiccioli trovò pace solo a terra, mentre tutti rotolavano su se stessi come
alla fine di un girotondo. Ce la poteva fare. Raccolse gli
spiccioli uno a uno, dominando una rabbia che sentiva
venire da lontano. Davanti alle icone luminose fu presa
dal panico, poi scelse.
Infilò il pacchetto nella borsa, ascoltò il tacchettio
dei suoi passi verso l’uscita. Aggiustò la borsa, dimenò i
capelli verso il cielo. La città non l’aspettava. Le poche
vetture che passavano sembravano giustamente ignorarla. Perché? Era bella, nonostante l’età non fosse delle
più fresche, rivestendola tuttavia di un fascino che le
ventenni decisamente non riescono ad avere.
La strada sembrava un lungo verme confuso circa la
direzione da prendere. Nessuno l’aspettava, nessuno la
voleva
– Checazzo, qualcosa sarà!
Osservò la postazione dei taxi, tutti bianchi, tutte vetture nuovissime. Si domandò dove stesse la crisi, in quel
parco macchine di auto fiammanti e volgari. Senza
chiedere nulla al conducente, salì su una Passat che odorava ancora di concessionario. Sbatté la portiera, svegliando il proprietario. Questi si girò, appoggiò gli occhi
sul generoso decolté di una donna che, glaciale, gli
chiese:
– Mi fa accendere?
Vito, il tassista, avrebbe voluto focalizzare
l’attenzione della bella sui cartelli generosi di informa17
zioni circa i divieti all’interno della sua Passat nuova.
Fra questi, ovviamente, il veto a fumare qualsiasi cosa.
Non ne fu capace, Vito, single da sempre, bruttarello e
goffo, pregno delle paure e delle aspirazioni dell’uomo
medio, guardava ad Agatha come un pellegrino alla Terra Santa. Le allungò così un accendino verde, tremolando un poco.
Agatha raccolse lo strumento e, senza degnare di uno
sguardo Vito, accese, tossendo a lungo.
– Vuole dell’acqua? – chiese l’autista, improvvisandosi
cameriere.
Agatha soffocò i residui rantolii, affidò a Vito uno
sguardo pietoso e, senza pensare all’acqua, indicò la sua
destinazione, restituendo ad entrambi la serenità di un
chiaro ruolo.
La Passat partì in direzione del centro storico.
– Di solito, a quest’ora, non vado da quelle parti ma, si
capisce, per lei, signora non è un problema. Piuttosto,
non ha bagaglio?
Agatha sembrava non essere di questo pianeta. Avrebbe gradito, sempre, viaggiare in contesti assolutamente privi di ogni possibilità di contatto umano. Sognava che i taxi non fossero condotti da persone, ma da
automi totalmente incapaci di parlare o intrattenere fastidiose conversazioni. Cosa ci faceva a Genova, dopo
pochi mesi che parevano anni?
Le responsabilità...
I suoi ricordi la accompagnarono alla cucina della
sua piccola casa quando anche lei, piccola, doveva difendere ogni giorno la sua esistenza dagli attacchi della
madre, donna sola, senza marito, senza ambizioni, senza
voglie.
La stufa era accesa, i pochi legnetti residui nella cassetta attigua agli sportelli languivano in attesa del sacrificio prossimo. Un nudo libro di fiabe, privato della copertina da un attimo di rabbia della piccola albergava
sul pavimento coperto di polvere. Agatha guardava la
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televisione sperando nell’avvento di un cartone animato
per rompere la noia di una domenica uggiosa.
La madre polemizzava al telefono con la sorella circa
la sua cocciuta condizione di vita. Perché abitare in
montagna? Perché ritirarsi dal mondo? E Agatha? Non
aveva forse diritto di vivere una vita confacente alle aspettative di una bimba della sua età?
Due ore per arrivare a scuola, il freddo pungente degli inverni che non davano tregua, i pochi soldi, i quattro giocattoli con cui Agatha si ostinava a sorprendersi.
L’assenza di regali, calore, amore.
Quando la telefonata si chiuse, coincidendo con le
consuete invettive della madre alla sorella, Agatha si
preparò a sentirsi per l’ennesima volta sciroppare mille
giustificazioni da quella donna un tempo bella che non
riusciva nemmeno più a chiamare mamma.
Quella volta, però, il tutto le venne risparmiato.
Di quel giorno, ricordava soltanto la porta di legno
sbattuta e rimasta chiusa, con una maniglia troppo alta.
L’indomani, piena di sonno, arrancò alla corriera e, alle
otto, prese posto nel suo banco in terza fila. Alle dieci
un bidello fece irruzione in classe, sussurrando
all’orecchio della maestra qualcosa che ne modificò il
consueto colore vermiglio in un verdastro che impressionò Agatha.
Non ci fu bisogno che qualcuno le dicesse qualcosa.
Lei sapeva già e proruppe in un pianto che assomigliava
alla rottura di una diga. Non fece la cartella, non si asciugò gli occhi e non tornò mai più nella baita dove la
madre aveva deciso di abitare per l’ultima volta, arrendendosi agli uomini, alle canzoni stonate, alla televisione inutile e alla stufa vuota, come il cuore che aveva deciso di abbandonare freddo.
La Passat imboccò una salita mentre dalle nuvole
precipitava una pioggia supina. Poco dopo, il lampeggiare della freccia ne indicò la sosta. Agatha tornò a fatica in sé, grata tuttavia per la coincidenza dell’arresto
dell’auto con quello, invadente, dei suoi ricordi. Vito la
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fissò per un attimo, parendo cogliere per qualche misterioso miracolo tutto il suo dramma, il suo focoso disorientamento.
– Fanno 7 euro. Non le ho fatto pagare il notturno.
Agatha aveva già pronti 10 euro nella mano destra,
stretti come un ultimo sudato risparmio. Glieli allungò.
Non voleva stare su quella macchina un minuto di più.
– Tenga il resto, grazie – disse, senza guardare il suo
traghettatore.
– Si ricordi, se le serve, Toro 11 – rispose Vito e – scapolo… – aggiunse, senza farsi sentire.
L’udito di Agatha era però addestrato a cogliere ogni
bisbiglio. Non se ne fece avvedere, ma si girò e regalando una smorfia che era il massimo sorriso consentito in
genere ad un estraneo, disse:
– Va bene, lo ricorderò.
La pioggia aveva reso le piastre a terra immacolati
specchi neri: riflettevano il riverbero delle luci comunali
trapiantate fra le pietre degli edifici del centro storico.
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Il senso del bisogno
Amsterdam, tempo umido
Il treno si liberò di lui dopo quattordici ore di viaggiare eclettico attraverso il Vecchio continente.
La Germania non lo aveva sorpreso. La Svizzera lo
aveva annoiato.
Ciò che, davvero, lo aveva stupito, era stato lo zelo
di un controllore italiano (!) che gli aveva duramente
contestato l’itinerario segnato sul biglietto del treno.
Il biglietto era falso. Era falso, sempre.
Normalmente il problema si presentava dopo Chiasso. Prima si respirava a pieni polmoni. Ci si permetteva
anche uno spinello in fondo a una carrozza. I controllori
italiani non guardavano il particolare, nemmeno per sogno. Lo facevano gli svizzeri. A volte, i tedeschi. Molto
fiscali erano gli olandesi ma, a quel punto, si era ormai
alla fine del viaggio. A due passi dalla stazione di Amsterdam si avvertiva già l’odore delle cantilene dei tossici che offrivano, delle puttane che mostravano, dei pub
che illuminavano, degli italiani che si sfasciavano.
La città si rifletteva colorata e stupida nei canali decisi a sfiancare le cromature geometriche. Si arrivava ad
Amsterdam e improvvisamente si comprendeva il rigore
di Mondrian e la maledizione di Van Gogh: era tutto lì,
fra pozzanghere e cieli neri, pollo fritto e figa a nolo.
A quel punto, si perdevano gli occhi negli occhi del
diligente funzionario olandese: non poteva finire lì. Non
per un biglietto. Magari una coltellata o una brutta storia, un amore malandato, un’incomprensione con un
buttafuori o una sbronza in mezzo a turchi ostili. Ma
non così, la parola fine non poteva essere trascritta su un
misero biglietto di treno. Oltretutto, al termine del viaggio. Ciò significava un mare di scartoffie e, non ultimo,
dichiarare nulle tutte le obliterazioni precedenti: declinare la stupidità dei colleghi che avevano controllato lo
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stesso biglietto centinaia di chilometri prima era sempre
sconveniente.
Per questo il controllore italiano era stato stupefacente. Improvvisamente, le origini e le radici dei popoli erano venute meno: tutto appariva rovesciato. Orazio era
stato costretto a scendere dal treno a Milano. Alla Stazione Centrale si era mimetizzato in un cesso e lì, diligente, aveva cancellato con un solvente d’emergenza
tutte le tappe dell’itinerario precedente, correggendole
con le nuove, esatte, comunicategli per telefono da un
amico fidato.
Da Milano a Chiasso non aveva subito controlli: aveva semplicemente squadrato il paesaggio attraverso il
maxischermo del finestrino scorrere in un’indefessa
macchia caldo-fredda fatta di giallo e di verde e di blu.
Alla frontiera, la prova del fuoco: un controllare italiano obliterò la carta, offendendola con una ferita profonda; un sorriso pro forma salutò l’ingresso di Ora
nell’Europa protestante, laica e senza mare.
Si poteva passare.
Amsterdam lo attendeva placida, come spesso era
d’inverno. Come lei, Harvey, appoggiato a un paletto
con le mani nascoste sotto le pieghe dei bicipiti troppo
grossi.
Nonostante fosse sera inoltrata, inforcava naturalmente occhiali da sole con montatura pesante. Come gli anfibi di Orazio toccarono il selciato che fiancheggiava i binari, Harvey si illuminò, in una sorta di strampalata risposta a uno stimolo da tempo atteso. Avvicinatisi, i due
si scambiarono un saluto asciutto e imboccarono un sottopassaggio. Da dietro, apparivano aderire a specie di
viventi assai diverse: Ora sembrava un onesto indoeuropeo, fiaccato da una borsa troppo pesante e da pensieri
forse ingombranti; Harvey era chiaramente un africano,
erede di una tradizione di sradicamenti schiavisti, che
avevano vissuto i suoi lontanissimi antenati dall’Africa
ai Caraibi.
Nel loro passo, diverse storie, passate e future.
Quello era il terzo viaggio in un anno, per Ora.
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Mentre Harvey lo scortava al solito bus, schivando
gli inviti del coro dei tossici a comprare cokespeedcrack,
Orazio pensò a quanto lontana era adesso la sua casa e
quanto vicina, nel contempo. Quanto inimmaginabile
era la distanza dalla sua storia, dalla sua infanzia e
quanto tutto quel casino gli paresse infinitamente più
consono alle sue quattro ossa.
– Com’è, italiano?
Chiedeva Harvey, di solito, a quel punto, mentre il
bus, diligente, li conduceva a Haarlem. E difatti, chiese:
– Com’è, italiano?
Di solito, Ora sorrideva e, guardandolo di sbieco, rispondeva con una specie di suono che non voleva dire
un cazzo, ma che Harvey traduceva con un:
– Abbastanza bene, grazie.
Orazio, quella volta, però, fu preso dalla voglia di
andare a cercare sotto gli occhiali scuri una pur distante
forma di vita, un lampo a cui rivolgersi. Una stupida
traccia di Dio in un suo simile colored dove specchiarsi
e avere quindi un’immagine saggia di sé e del cosmo.
Sulle lenti vide però solo la sua faccia tirata più lunga e
meno buona ancora, se possibile.
Il suo studio doveva essere durato un po’, poiché
Harvey venne preso da una delle risate irrefrenabili che
lo caratterizzavano e che, di fatto, lasciavano tutto ciò
che le aveva precedute in una sorta di stasi.
Il loro dialogo era dunque finito così, seppellito da
una risata.
Orazio prese posto nella solita stanza della solita casa sotto la solita autostrada in mezzo a un sacco di turchi che parevano essere ricchi soltanto di fretta.
Aperta la porta, salutò Harvey con un cenno del capo. L’appuntamento era sempre lo stesso: il giorno dopo
l’arrivo all’ora di pranzo sotto il Grasshoper.
Per economia mentale, si tende spesso ad associare
l’illegalità, soprattutto quella connessa alle sostanze psicotrope, a un mondo contorto, spiazzante, conturbato e
caotico. Questo è vero forse in ultima analisi, prendendo
in considerazione gli effetti di tali sostanze sulle persone
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che in vari gradi le assumono, a tutte le latitudini del
pianeta.
Lo step precedente, lo smercio o lo spaccio, è invece
un movimento cadenzato e preciso, fatto di puntualità e
di poche parole.
I mestieri onesti contemplano l’errore in maniera più
bonaria, meno ansiosa. L’illegalità presuppone invece
disciplina, misura e lucidità; in certe circostanze, può
essere vitale avere una buona visione del reale e, in
buona dose, è importante sapersi folli.
Abbastanza folli da ingoiare ovuli di cocaina e steccarsi il culo con barrette di hashish, conteggiando per
ogni elemento che si trattiene l’esatto corrispettivo in
denaro.
Abbastanza folli da bere succo di limone per stringersi l’ano e invocare gli dèi affinché sul tragitto non
intervengano ritardi e/o complicazioni.
Abbastanza folli da rincorrere una pazzia e travestirla da identificazione per farla in barba a tutti e magari
anche a se stessi.
Snake arrivò puntuale, come sempre. Orazio lo fissò
nelle lenti scure, alla ricerca di un lampo di luce che traspirasse dalle fessure nere che usava come occhi. Anche
in questo caso rinunciò: Snake non aveva nome, non sapeva guardare e benché fosse gennaio lasciava ammirare ai passanti la ragnatela a colori scolpita sul cranio rasato, i serpenti e i draghi che risalendo dal collo si avvinghiavano alle orecchie, finendo a combattersi sulla
nuca, prolungando fiamme, code, denti e squame fin
nella trama dell’enorme ragno nero che li attendeva
all’altra sommità del capo, in uno scontro senza vinti né
vincitori.
Si diceva che fosse tatuato ovunque, in prevalenza
con serpi e rettili reali o chimerici, ma anche con carte
geografiche, aforismi, autostrade: uno specchio di sé a
scanso di benevole interpretazioni. Dove non era inchiostro erano lame, borchie, anelli, che trafiggevano le labbra, la lingua, il naso, le orecchie e forse altro. Faceva
schifo.
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Lo avrebbe fatto comunque, solo con le decorazioni
passava dall’essenza di verme a quella di rettile, più
consona al mestiere.
Entrarono nel locale, cercarono il luogo idoneo,
scambiarono merce con soldi, a ognuno il suo viaggio.
Orazio, rispetto a Snake, era una nullità. Ma se era lì
era perché lì voleva essere, pensò cercando un punto
d’approdo. Passando accanto al bagno l’assalì l’odore
acre del vomito; si guardò intorno: nebbia e corpi, scale,
stanze, mormorii inadeguati, finché scorse un angolo
ragionevolmente abbandonato.
Il divanetto rosa a elefantini cremisi e girasoli elettrici fronteggiato dal tavolino zebrato era degno di
un’allucinazione dissuadente. Si sedette, scartò la stagnola, estrasse l’accendino e fu sommerso dall’avanzata
di un vociare scomposto di urla e risate. I quattro entrarono nella sala, si spintonarono sulle panche al lato opposto e fiondarono un narghilè sul ripiano.
– Cazzo gli italiani. Cazzo quello lo conosco…
l’impiegato della filiale di credito! Questa è sfiga – pensò Ora buttandosi i capelli sul viso. Sentì una puntura di
spillo trafiggergli la nuca, si voltò e acchiappò al volo
gli occhiali scuri lanciatigli da Snake. Si alzò e lo seguì
fino a un separé in fondo al corridoio. Buio e silenzio;
Ora si sedette, rese gli occhiali al rettile intersecando la
lama di gelo sprizzargli dalle pupille prima che gli voltasse le spalle e riprese l’operazione interrotta.
– Snake non fa favori… non a me – pensava cercando
una spiegazione, un secondo fine allo scampato pericolo.
Ora squadrò il suo simile specchiandosi nelle lenti scure: non si trovò né intelligente, né pronto. Cercò convulsamente una sigaretta da un pacchetto già vuoto, Snake
allungò la sacca del tabacco.
– Cos’altro posso fare per te? – ringhiò con un sorriso
un po’ storto.
Orazio cercava l’indirizzo della calma e
dell’imperturbabilità con molto impegno e risultati scarsissimi. Arrotolò una sigaretta troppo grassa e l’accese.
– Dimmi – riuscì a dire.
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Snake però non disse nulla. Si levò gli occhiali, strabuzzando un poco gli occhi. Arrotolò una sigaretta pure
lui.
– Vedi, il tabacco che uso è bruno. Tutto ciò che amo è
bruno: brune le donne, bruno il tabacco, bruno
l’arredamento dei posti più caldi, bruno il fumo più intenso e saporito. Hai mai letto Duchaussois?
– No. Non mi dai l’idea di uno che legge.
– Ci hai dato. Non leggo, di solito, ma Duchaussois ha
scritto un romanzo che mi intriga... non ricordo il titolo… è la storia di un tipo che viaggia da trip a trip da
Francia a India o giù di lì, che cazzo ne so…
– Mmm…
– Non chiedermi ora trame o altro. Sai però la cosa che
maggiormente mi è rimasta impressa?
– Devo chiedertelo per forza, immagino…
– Sì.
– COSA TI È RIMASTO IMPRESSO?
– ...maggiormente?
– MAGGIORMENTE?
– Uao, che domanda fica... come t’è venuta? Comunque, la cosa che mi è rimasta maggiormente impressa è
stata la sua convinzione che un buon shilom lo fai solo e
soltanto col tabacco...
– Col tabacco…?
– Indovina, stronzo!
– … Bruno, forse?
– Bravo!
– Quindi?
– Quindi ho ragione: tutto ciò che mi piace è bruno. Lo
scrivono anche sui libri! Bruno il tabacco, brune le donne...
– ...Bruni i mobili...
– ...E bruno il culo che ti farò!
– In che senso, scusa?
– Harvey ha capito che ci stai fregando. Lo so. Harvey
sembra un grosso scimmione alla ricerca di un guinzaglio che lo trattenga ad una gabbia, ma non è così. Sotto
quella pelle ruvida si nasconde l’animo contemplativo
di uno studioso. È naturalmente curioso.
26
– Anche stronzo, mi vien da dire. Mollami con queste
cazzate. Sono pulito e lo sapete.
Ora fece per alzarsi. Senza muovere un muscolo,
Snake gli fece intendere che poteva non essere conveniente.
Ora si risedette ammettendo, di fatto, di essere dalla
parte del torto.
Nel frattempo altri turisti italiani vagavano gonfi nel
locale e ridevano, sguaiati. Uno, il più malconcio di tutti, vomitava in un bicchiere pieno di birra. L’unica ragazza del gruppo, forse la sola ancora sana, urlò; lo strafatto stramazzò, il boccale straripò.
Tutto sulla giacca di Snake. Residui schiumosi di cibo gli invasero il collo, un collo fatto ormai di una sola
vena, rabbiosa e scattante.
Nessuno mosse più un muscolo. Snake rovesciò il
tavolo, brandì una sedia per lanciarla nel mucchio dei
ragazzi. Ne colpì soltanto uno, che rovinò al suolo, trascinandosene dietro un paio, già di per sé barcollanti.
Qualcuno imprecò, il barista era già al cellulare inveendo in una lingua che Snake nemmeno provò a capire;
doveva andarsene.
Una cameriera piuttosto brutta si avvicinò cauta al
tavolo, raccogliendo coi guanti il bicchiere ormai vuoto.
Snake si girò verso la sedia di Orazio che era vuota, nuda, libera. Nella strada laterale del coffee shop, Ora correva come un forsennato verso la piazza attigua.
Era di nuovo lui. Libero, per ora.
27
Partire
Si prese tempo.
Contò le ore, i minuti. Si prese la briga di calcolare i
secondi, vagheggiando che, nel frattempo, minuti e ore
scorressero più lesti.
La posizione del sole rimaneva tuttavia fissa, in barba alla frenesia del suo convulso ragionare. Persino le
nuvole apparivano immobili e sornione; il vento, distante, non intendeva modificare il paesaggio.
Non poteva uscire in quel momento. Non sarebbe
convenuto a nessuno. A lui, men che meno.
Dunque, prendersi tempo, pazienza.
Il cantuccio che aveva trovato, nella frenesia di nascondersi, avrebbe disgustato anche un ratto. L’umidità
si attaccava ai vestiti, la luce passava attraverso uno
spazio troppo esiguo anche per lui, magro e asciugato da
tutto quello che non riusciva a passargli attraverso.
Da sopra, non sentiva più alcuna traccia del trambusto che lo aveva indotto a forzare la paralisi iniziale e
poi, finalmente, scappare. Ma voleva aspettare, ancora.
Attendere qualcosa che, ancora, non si manifestava.
Qualcosa che gli avrebbe dato la certezza che poteva essere conveniente davvero uscire.
Ancora un po’…
Qualche secondo ancora…
Iniziò a muovere le cosce, lentamente, avrebbe dovuto correre, forse.
Nella peggiore delle ipotesi, lanciarsi in una folle
corsa nei vicoli e fare un giro infinito per raggiungere la
motocicletta posteggiata vicino al portone. Quello, secondo i suoi calcoli, doveva essere posto ad un paio di
metri sopra al piccolo magazzino che stava abitando in
quell’ansioso ritaglio di vita.
28
È incredibile quante forme può acquisire la libertà…
Una nuvola coprì improvvisamente il sole.
Era un segno?
Uno che non crede a Niente a volte può credere a
Tutto.
Respirò.
Una, due, tre volte.
Deglutì saliva e paura, dimenticò lo stomaco e la nausea.
Aveva deciso.
Avvicinò la mano al chiavistello arrugginito e si fece
inondare dall’aria appiccicosa d’agosto.
Era pronto.
Era libero.
Era Ora.
Lo sapeva. Solo fingeva. Amsterdam. Orazio calcò
gli anfibi sul suolo della metro una volta di più. Niente
Harvey, niente Snake. Doveva partire per un presupposto di continuità, l’illusione di una meta. Partire, per poi
tornare. Avrebbe preso un treno, il primo. Calmare le
acque, gli animi. Ritornare dopo un viaggetto discreto,
senza meta. Poteva permetterselo. Salì alla Central
Station, inforcò la linea gialla fino Spaklerweg, lì cambiò per l’arancione, direzione Gondel, abbastanza lontano. La linea gialla e quella arancione differivano per
l’utenza: via via che il colore si faceva più scuro diminuivano le ventiquattrore e i vestiti di marca lasciavano
spazio all’invasione di tute e scarpe da ginnastica. Scese
a Gondel dopo aver realizzato di conoscere meglio Amsterdam di Genova.
Per prima cosa cercò un discount d’abbigliamento.
Sfilò la maglia sudata nel camerino, indossò jeans nuovi, si sciacquò il muso nel bagno, uscì. Questa volta avrebbe scelto un ostello: niente Harvey, niente Haarlem.
Passeggiò nelle vie della periferia, s’allontanò lungo alcuni vicoli dove la prima volta che era arrivato aveva
abitato. Case colorate, infinite altezze slavate lo faceva29
no sentire un nano: 1,80 m e chioma nera, lì, non servivano a un cazzo. S’avvicinò al chiosco, ordinò un caffè
brodoso, afferrò la cialda del latte concentrato, sola legittimazione.
Una pacca dirompente tra le scapole, cialda a dirotto
nella tazza, schizzi di caffè negli occhi, misero fine
all’attimo di vacuità.
– Com’è italiano? Chiese Harvey in una risata dirompente. Ti aggiri in clandestinità?
– Puttana… schifa… – inveì Ora mentalmente passandosi la mano sugli occhi. Pagò il caffè, andarono al pub.
– Italiano, non so come hai fatto, ma sei arrivato dove
dovevi arrivare. Stavamo per incazzarci sul serio – esordì Harvey sfilando gli occhiali neri per l’occasione.
Sprizzava quasi allegria. Orazio era allibito, stupefatto,
devastato.
– Devi sostituire Snake, andiamo subito da lui.
Orazio insinuò il sorso di spina rossa nel groppo in
gola: – Sono fottuto.
Harvey amava la metro, ma era un uomo pragmatico
e distruggeva la fretta utilizzando una buona moto inglese. Senza che Ora potesse emettere nemmeno un sospiro, Harvey gli inserì un casco in testa e come un
bambino lo posò sulla sella di un due ruote che sembrava concepito per correre. Dopo poco sfrecciavano nelle
vie olandesi e soltanto verso Amstel Harvey ebbe
l’ardire di chiedergli: –Ti piace la moto?
Lasciarono il mezzo in una via del centro, sfilati i caschi camminarono veloci lungo l’argine, fino al barcone
di Snake. Harvey salì sul ponte con passo pesante, condusse Ora come un prigioniero sottocoperta. Lì il solito
tavolo attendeva una buona chiacchierata dei tre. Snake
era seduto a un capo con le mani intrecciate; sfilò gli
occhiali: la pupilla dilatata era un pozzo nero, quella
spillata pure, ma lasciava presagire un’intensità di vuoto
centrale. Orazio fissava la contraddizione chiedendosi
cosa avesse ingurgitato per ottenerla.
– Mi hanno sgamato, devo levare le tende per un po’.
Mi sostituirai: la mia reggia e Harvey sono a tua dispo30
sizione. Al primo sgarro … zac! – disse Snake passandosi l’indice sulla giugulare.
Orazio deglutì il groppo, non rispose, pensò:
– Merito di quei cazzo di tatuaggi… dozzinale marchio
d’identità… meglio arruolarsi nella Legione straniera –
fece un cenno col capo, si rassegnò.
Harvey e Snake uscirono, diretti alla stazione. Orazio
sedette sulla brandina.
– Cazzo di onde, ho già il mal di mare… e siamo solo
all’inizio – pensò, sbirciando il cesso.
31
Destinazioni
Snake attendeva il treno sbirciando in giro. Solo
Harvey sapeva. Sarebbe andato al paese.
Per un po’.
Erano trascorsi due anni dall’ultima volta, qualche
tatuaggio fa… Lì nessuno l’avrebbe cercato.
Per un po’.
Prima del marciapiede fece una sosta in bagno, sniffò abbastanza per la prima tranche. La scorta l’aveva
avvolta in tre strati di stagnola e infilzata in una forma
di Edamer, buccia rossa, poca puzza. I cani l’avrebbero
trovato, ma non era stupido, non così tanto. La vecchia
col cestino di gomitoli non sapeva di scortare una formaggetta oltre confine… nel peggiore dei casi se la sarebbe tirata lei. L’aveva terrorizzata proponendole di
portarle il bagaglio, ma era buio, gli occhiali di lei erano
fondi di bottiglia e la voce di Snake, a declinazione modulare, aveva assunto l’intensità più querula che potesse
ricordare dai tempi dei cori in cattedrale.
La signora Elvira, delusa dal figlio che s’era cercato
un ramengo per un’industria di automobili, attanagliata
dall’ennesimo distacco, desiderosa di toccare il suolo
patrio, immemore di un sussurro maschio alle orecchie,
si lasciò trascinare dalla melodia… lo diceva sempre:
– L’abito non fa il monaco – e quel giovane maculato
era tanto gentile, tanto pugliese… gli porse la valigia da
portare e riporre sul portaoggetti lassù, ad anni luce dalla sua bassezza.
Snake era scazzato di dover recitare tante ore: niente
stivali sul sedile, rutti o bestemmie, ma non poteva sputare a un colpo di culo: beccare una vecchia barese ad
Amsterdam aveva un’incidenza probabilistica infinitesimale. Era stato bambino, riesumò vecchi ricordi, censurò un bel po’ di passaggi e cullò la signora con giochi
32
innocenti, trasferte parrocchiali, delizie culinarie, finché
s’addormentò.
Il peggio fu a Milano. Tratta irta di fermate e gita
scolastica. Non poteva muoversi per non perdere Elvira,
frastornata più di lui. Provò invidia a guardarla sferruzzare coi timpani turati dalle cuffie del walkman.
La professoressa si accomodò nello scompartimento
con tre studenti, over quaranta lei, under sedici loro. Posarono zaini e natiche per alzarsi un secondo dopo. Seduti rimasero la prof e Attilio, così aveva declamato con
acuto femmineo accomodandosi.
Attilio aveva occhi e ricci neri, lunghe dita, sguardo
perso. Guardava il mondo sfilare attraverso il finestrino,
senza guardare. Ogni tanto si frugava nel naso, assaggiava, torceva le mani, fissava scorrere senza vedere.
Attilio era superbamente tranquillo, fin troppo. Quindi
la prof lo esortava a ogni rallentamento, a ogni scorsa di
case, campi, fabbriche o fiumi.
– Attilio, guarda il fumo delle ciminiere… ti piacerebbe
far l’operaio? Attilio, parlo con te.
– Sì prof, ho visto, no.
– Cosa no?
– L’operaio.
– Neppure a me.
– Attilio, guarda il Po, che bello, ti piacerebbe farci il
bagno? Attilio, parlo con te.
– No.
– Cosa no?
– Il bagno.
– Neppure a me.
– Minchia lo credo, siamo a gennaio, c’è un inquinamento
da mutazioni genetiche, manco un ebefrenico
c’entrerebbe… perché rompergli i coglioni? – rimuginava
Snake.
– Attilio, guarda i campi coltivati. Lo sai a cosa? Attilio,
guarda che parlo con te… li vedi i campi?
– No.
– Come no… oggi ti sei alzato col piede sbagliato, non
ti si può parlare… rispondi male.
33
– Quanto scassa – pensava Snake.
– Basta – pensava Attilio smarrito – sono scemo, scemo,
scemo… lasciatemi stare.
Balzò a fulmine Eugenio, il compagno di classe pieno di gel e vitalità:
– Attilio hai visto i campi?
– No no no, non ho visto niente, non c’è niente – urlò
Attilio esasperato.
– Eh no caro, così non va – sbraitò la prof – cos’hai oggi
da esser tanto sgarbato? Ti sei svegliato dalla parte del
muro? Cosa c’è nei campi? Grano, mais… chi fa i compiti con te? Eugenio, allora niente più compiti, niente
più calcio…
– No, va bene, scusi prof, vedo i campi, il mais, il fiume… scusate – pigolò Attilio mortificato – sono scemo,
scemo, scemo… ripeteva
– La tragedia di essere scemi è che ti trattano da scemo
e son più scemi di te… e non ci puoi fare una minchia –
pensava Snake accarezzando la lama infilzata nelle mutande. – Se non scendono sgozzo qualcuno… se non lo
lasciano in pace, se non per lui almeno per me, la prof
avrà qualcosa da ricordare – pensava fremente.
– Attilio, mettiti la giacca, alla prossima scendiamo. Attilio?
Attilio mosse lievemente le dita, fingendo di non
sentire fino al quarto richiamo. Snake accarezzava
l’impugnatura, questione di poco, si sarebbe trattenuto,
solo uno sprazzo di voluttà… Attilio, rassegnato, si alzò, infilò il piumino, si accodò ai compagni in corridoio.
Non ne poteva più.
Infinità di paesini abbarbicati, finalmente Bari. Nessuno ad aspettarlo, la formaggetta rimase a Elvira: troppa polizia e lui era un richiamo ineludibile. Salì su un
taxi e pedinò l’auto con a bordo signora e figlia… le abbordò sotto al palazzo col pretesto di un mazzo di chiavi
smarrito, frugò nella cesta, con un’acrobazia estrasse le
chiavi dalla manica, cacciò la formaggetta nel borsone,
salutò, tornò sul taxi. Monopoli, il paese.
34
Era in collina, a pochi chilometri dalla città. La vecchia casa tra una villa e una fattoria. Non ci stava più
nessuno. Avrebbe dovuto starci lui. Alla nonna sarebbe
venuto un colpo a trovarselo davanti così:
all’improvviso e con decine di righe in più… doveva
avvertirla preventivamente. L’unica soluzione era una
sosta al bar.
Pomeriggio inoltrato, il bar era zeppo di contadini,
muratori, pizzicagnoli, meccanici. Lo guardarono interdetti, un istante, e un levarsi di:
– Ciro, sei tu… non ti si riconosce… in forma… finalmente sei tornato… chissà la nonna… e come te le passi
là? Bionde a non finire, puoi scommetterci…
Ciro, per un attimo, avesse potuto si sarebbe candeggiato… provò un’espressione meno torva, abbozzò un
sorriso, s’avvicinò al banco. Al primo sorso un braccio
robusto lo prese alle spalle. Si voltò, era Toni, il suo migliore amico. Si strinsero forte.
– Ciro, pezzo di… che sorpresa… ci voleva.
Ciro-Snake lo guardò, inspirò. Toni sapeva, ogni tanto faceva capolino lassù fra i canali, Toni era raggiante.
Erano amici da sempre, da sempre Snake un passo dietro di lui. Questione di mazzo. Toni faceva il meccanico, ufficialmente nessuno sballo, fidanzata, Audi fiammante, tranquillità. Toni era autoctono, aveva varcato il
confine solo per raggiungere Ciro. Toni non cercava
niente, aveva già tutto. Sembrava James Dean in licenza
dal Vietnam. Stravissuto senza spostare un dito. Questione di mazzo: una serie di sfregi e cicatrici ineffabilmente perfetta. Il labbro, l’occhio, lo zigomo, il bicipite,
il petto… fascino di ogni donna, estremamente cattivo e
attraente. Non gli serviva altro, un bastardo ineguagliabile. Non spiegava mai il perché: una caduta in bicicletta, due in motorino… niente di eroico. Era reduce dal
Vietnam.
Salirono sull’Audi, raggiunsero la villa-fattoria.
– Josephine? – chiese Snake.
– Tra due settimane si sposa – rispose Toni gelido.
35
Snake provò un moto di stizza, lo represse, scese
dall’auto, nella penombra crepuscolare volse lo sguardo
intorno.
Degrado. Macerie. In realtà era tutto intero: il giardino pareva il deserto dei Gobi dopo Hiroshima, la casa
riesumava dall’aldilà due piani giallo ocra, patio e terrazzi in un ghigno cadaverico di persiane marroni e
sprangate. Snake accarezzò il coltello, si sfiorò le palle.
Fece un cenno a Toni, si sarebbero rivisti più tardi. Entrò. Evitò d’ispezionare intorno, compose il numero di
Josephine.
36
Nemici
Monopoli, una giornata di sole
Una nonna, amici e parenti, orecchiette, vini, salami
e nottata dopo, il pomeriggio giunse JosephineGraziella. Posteggiò la Golf vermiglia, scese. Neri capelli raccolti in una coda striata da un’applique biondo
platino, fila di orecchini, jeans attillati a vita bassa, ventre piatto, camicia, maglione, giubbotto, tacchi a spillo,
occhiali firmati a grande schermo.
Snake provò uno scatto d’ira, l’avrebbe atterrata. Aprì la porta, andò in bagno. Aspirò, tornò. La strinse, la
spogliò, la buttò sul letto. Iniziò.
Josephine guardava il soffitto, emetteva qualche rantolio, puntava le unghie a smalto metallizzato cinque colori pendant, nella schiena di lui. Fra due settimane si
sarebbe sposata.
Anche Josephine era stata una bambina: per niente
perspicace, per tutto vanitosa, insulsa e obbediente.
Snake era stato Ciro, il figlio dell’industriale crepato
d’infarto, la madre mai saputo dov’era. Ciro era un investimento, i suoi (di lei) dicevano:
– Mi raccomando.
Ciro annuiva, la portava via. Un bel po’ d’anni più di
lei, diversi tatuaggi fa. Suo fratello Giorgio le diceva
sempre che era stupida. Suo fratello era un intellettuale,
sapeva tutto. Quindi era stupida. Non le piaceva leggere,
tantomeno ragionare. A scuola tirava il sei, qualche sette
al secondo quadrimestre, ginnastica, religione e condotta ammirevoli. Scriveva sms di slang e faccine, aveva
successo ai compleanni, le amiche la invidiavano, i maschi la palpavano. Con Ciro non parlava. Stava lì, lui
toccava e apriva bocca per descriverle le sue amanti o
piantarle la lingua in gola. Lei taceva. Lui esplorava.
Non era espressiva, non librava fra altezze, sguazzava in
una palude di convenienze e futilità. Probabilmente la
37
differenza tra maschio e femmina non consisteva solo
nel modo di pisciare…
Teneva un’agenda rosa, con un fiocco per sigillo. Lì
aveva scritto qualche frase, zeppa di abbreviazioni
sgrammaticate, su Snake, sul suo modo di prenderla e
sul suo modo di darsi. Quel tanto bastò a sua madre. Josephine fu iscritta a un corso biennale di parrucchiera e
mandata in città dalla zia, in attesa che Ciro la sposasse.
Fu fatta visitare: non era incinta. La doveva sposare comunque. Ciro fu convocato in famiglia, dopo una serie
di rimproveri accettò, niente da eccepire.
La vide con un altro. La odiò. La prese per la gola, la
violentò. Poi salì sul treno: Amsterdam. Soldi ne aveva
in disavanzo, ma qualcosa doveva pur fare. Spacciare,
inzepparsi di decorazioni, ogni tanto tornare da lei. Senza preavviso. Era peggio della droga. Non poteva farne
a meno. La riempiva d’insulti, umiliazioni. Spariva.
A Josephine piaceva inventare acconciature, smaltarsi le unghie, truccarsi, ballare, cucinare. Aveva conosciuto Rodolfo. Si sarebbero sposati. Avrebbe finalmente coronato il suo sogno: un regno di mestoli di legno e
casseruole argentate, uscite mondane, vacanze, un giorno i bambini e, chissà, l’invito a un reality show. Snake
non si vedeva da un pezzo, meglio così.
Ora si dimenava su di lei a ritmo ossessivo. Niente
variazioni, un colpo dopo l’altro, qualcuno più forte…
Si era stancata di gemere e stringere, guardava il soffitto… percepì la vaghezza di petali di rosa appassiti in
caduta libera… in testa le balenò:
– Questione di principio… – cosa significasse non lo
sapeva, ma Giorgio glielo ripeteva spesso.
– Or… org… organza… organo… – di quella roba che
aveva raramente provato, oggi non era giornata.
Snake imprecava tra sé. Cosa ci fosse in quel trip che
s’era sparato nel cervello non sapeva: un groviglio
d’ansia e d’oblio, vagamente conficcato tra fegato e
ventre, abbozzi d’idee e spasimi sfiancati… Colpo su
colpo aveva preso a sudare. Josephine immaginava colature d’inchiostro che non c’erano, la borchia sul prepu38
zio iniziava a infastidirla, le gambe le dolevano. Snake
invocava una violenza, una porcata qualsiasi da infliggerle… niente… perseguiva indolente e non riusciva a
finire.
A lei apparve un vecchio fumetto (di Giorgio):
l’uomo seduto lungo il fiume aspetta di veder passare il
cadavere del suo nemico. Si volta per pisciare, il cadavere passa, lui si risiede. Scorse una schiena tatuata trasportata dai flutti…
– Non sono andata al cesso e non stavo ad aspettare…
Mise più giù le unghie, strinse, spinse le anche, cercò
un sospiro, lo spruzzo finalmente arrivò. Snake si voltò
sulla schiena, respirò. Accese una sigaretta, le descrisse
la fisionomia della sua ultima donna. Josephine assestava il dolente piercing ombelicale, quasi chiedendosi cosa glielo diceva a fare… ma rimase in stand by. Giorgio
l’aveva imbottita per anni di cognizioni filosofiche, che
le sguazzavano nel cervello come verdure nella zuppa di
una mensa aziendale. Non riusciva a elaborarle… alzò
gli occhi. Quella stanza, quella casa, dove Snake si era
dilettato a rigirarla a piacimento, era di un vuoto spettrale… se avesse conosciuto il linguaggio e il pensiero si
sarebbe chiesta quale fosse il suo ruolo in tale desolazione. Non se lo chiese, provò un senso di nausea, andò
in bagno, accese il cellulare. Tre sms: uno di Rodolfo,
uno di Jenny, uno di sua madre. Lesse questo: il vestito
era pronto, domani la prova. Ebbe un guizzo di gioia, si
vestì. Snake la guardò:
– Finalmente non sento più il bisogno di venirti dentro,
di ferirti… non me ne frega più.
Josephine, che aveva comprato innumerevoli test di
gravidanza con la sola consolazione che se fosse nato
qualcosa Snake sarebbe sempre tornato, immaginò un
pupo a ghirigori… forse era meglio così. Lo guardò e
disse:
– Avresti fatto meglio ad arruolarti nella Legione straniera.
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Da dove le fosse uscita non sapeva, tantomeno cosa e
dove fosse la Legione ma, una volta tanto, si sentì arguta. Indossò il giubbotto e se ne andò.
Snake passò dalla nonna. Seduta in cucina sgranava
un rosario. Gli preparò un caffè, era evidente che ne aveva bisogno. Suo nipote era un obbrobrio, ma ringraziava Dio che fosse solo quello. Aveva snocciolato preghiere a decenni invocando pietà. Seppellendo in giardino quintali di lucertole mozze, gattini annegati, uccelli
crocifissi, insetti infilzati. Ciro si divertiva così, forse
peggio crescendo… inveiva contro non si sa cosa e chi,
spaccava mobili e giochi, pestava chiunque… tranne
Toni. L’aveva cresciuto lei ed era riuscita a nasconderlo
a tutti, anche al marito e al figlio, suo padre. Cosa erano
quelle sciagure epidermiche in confronto a un’opzione
omicida? Per quanto ne sapeva non era ricercato, non
aveva ucciso nessuno, solo si deliziava a vendere eroina
e affini per passatempo. Ma questo lo ignorava, era contenta così.
Ciro bevve il caffè, Toni strombazzò. Partirono.
– Stasera ho bisogno di qualcosa di forte… di un di più
che non so cosa sia – disse Ciro-Snake.
– Tranquillo, ci penso io – rispose Toni-James, – il viaggio è lungo e ho portato il necessario per rimanere svegli.
– Dove trovo tutto?
Toni indicò sornione il cassetto del cruscotto, Ciro lo
aprì con poca eleganza, estraendone un sacchetto marrone.
– Cazzo, nasconderlo almeno?
– E poi non lo trovi!
Sghignazzarono come due scemi, illusi padrini di un
sistema delirante; la strada aveva voglia di ingoiarli.
– Senti Ciro, lo sai che non ti chiedo mai molto… però…
– Però?
– Però, che cazzo ci andiamo a fare a Genova?
– Non ho mai visto l’Acquario…
– Ah… ti compro lo zucchero filato o preferisci un bel
tubo di Smarties?
– Senza dubbio, lo zucchero filato!
40
Squame
Genova, inverno
Le scale mobili la trasportarono al terzo piano del
centro commerciale. Prima di prendere una direzione
s’appoggiò alla balaustra e guardò giù. Il brulicare di
teste saliva, scendeva, camminava, sostava. Due ragazzi
si baciavano. Agatha rimase immobile a fissarli, provò
una fitta, si voltò.
– Quanti sapranno dove andare? Quanti si crederanno
innamorati o si sentiranno in trappola, si odieranno o si
ameranno? Non lo posso sapere: non lo sanno neppure
loro, ma sicuramente quelli veri, lì in mezzo, saranno
pochi. Se se ne renderanno conto? E a me cosa importa?
Era in pieno caos, perché angustiarsi con degli argomenti spinosi? Cominciò dalla vetrina degli occhiali.
La riflessione l’aveva indisposta e i prezzi non miglioravano la situazione. S’infilò in un negozio di vestiti
d’infima qualità a rovistare nei mucchi. Cosa cercasse
non sapeva: a ogni ingresso se ne dimenticava. Un individuo la scontrò:
– Scusa.
– Niente.
Ci sarebbe stato da rimanere a bocca aperta, ma lei
non si scompose. Di sfuggita scorse un groviglio deambulante, tornò a frugare, uscì.
– Hai una sigaretta?
– Sì.
– Grazie.
– Di nuovo lui – pensò. – Dai solchi emergerebbe quasi
un ragazzo, ma quello sguardo vuoto…
Continuò a gironzolare e qualcosa riuscì pure a comprare. Il rumore, la calca, le colonne sonore, le luci artificiali e l’aria condizionata l’avevano innervosita. Non
poteva ripartire senza un attimo di relax. Si diresse al
bar, ordinò una birra, sedette ai tavoli esterni. Il panorama non era dei migliori: periferia.
41
– Che poi non sarebbe brutto: le colline, il verde… se i
palazzi non fossero fatiscenti, sembrerebbe si essere in
campagna. Anzi, ci siamo, in una deturpazione di né
campagna né città… alberi soffocati dallo smog, panni
stesi più sporchi di prima, camion, casermoni e un agglomerato di villaggio montano che sembra uscito da un
plastico svizzero sbagliato… distruggono e poi ricreano
l’artificio. Troppo tardi. Architetti, consulenti, piani urbanistici… mistificazioni.
– Scusa hai da accendere?
– Certo – rispose porgendogli l’accendino. Di nuovo lui.
– A quanto pare oggi dobbiamo incontrarci, piacere, Ciro. Posso sedermi?
– Fai pure, Agatha.
– Sei di qui?
– Più o meno.
– Io e il mio amico siamo arrivati ieri e non conosciamo
la città. Sapresti indicarci qualche locale per la serata?
– Ma… veramente…
– Ciro, un’altra Ceres? – chiese Toni giunto sullo spiazzo.
– Sì, ti presento Agatha, stasera ci accompagnerà.
– Ciao, Toni. Bevi anche tu?
– Ciao, sì grazie, la stessa – rispose e si rivolse all’altro:
– Cosa inventi? Non conosco le nuove attrazioni, se ci
fossero quelle di un tempo non ci metterei piede, arrangiati.
– Se mi rispondi così mi attiri. Andiamo insieme in un
posto a caso. Anche a cena.
– Non mi pare un’idea centrata, quindi mi piace. Ma togliti dalla testa strane conclusioni.
– Cosa vai pensando?
– Non penso, osservo. C’è zeppo di ragazze adatte al tuo
look. Cosa cerchi?
– Perché tu cosa cerchi?
– Non sono affari tuoi.
– Questa mi sballa… non è possibile.
– Questa lo dici a tua sorella. Me ne vado, ciao.
42
– Ma no, scusami… fermati – le disse Ciro premendole
il braccio.
Toni guardava Agatha. Non capiva cosa ci trovasse
Ciro, era bella, ma meno giovane di loro e niente tatuaggi, piercing, scolli, merletti, borchie, spacchi o scoperture sconcertanti… cosa lo attirava?
– È scazzata… ecco perché. A me invece sta sui coglioni. Ma dimmi se una così manco mi degna d’uno sguardo, mi considera quanto la sedia, anzi meno perché alla
sedia può appenderci la borsa…
– Dì un po’, hai un’amica da invitare? – le chiese.
– Qui la storia si fa tesa. Non invito nessuno, siete voi
che invitate me.
– E intanto le pago da bere… – pensava Toni indispettito.
Si rividero più tardi e si diressero verso il lungomare.
– Tanto pagano loro, non devo pormi il problema – pensava Agatha.
– Mi chiamo Ciro, per gli amici Snake – le disse.
– Capisco. Se preferisci, posso farlo anch’io.
Snake scelse il Grill Steak Fish Beef, ovviamente costoso. Al tavolo Agatha chiese ai nuovi amici quale fosse il loro lavoro, perché si trovassero a Genova, le solite
cose.
Snake inventò un mitico ruolo di broker olandese,
Toni disse la verità e Agatha li informò del suo tedioso
mestiere di traduttrice.
– Minchia è pure intellettuale… che ci fai con una così?
Che ora se mi sfugge una chela o ceffo un verbo mi
sputtano… già non mi piace, non posso parlare… vado
al cesso a caricarmi – pensò Toni.
Terminata la cena uscirono. Camminarono un poco,
poi sedettero su una panchina. Toni, scalpitante, si rialzò e riprese a passeggiare.
– Te la faresti una striscia? – chiese Snake.
– Dipende – rispose Agatha.
– Coca.
– D’accordo.
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La conversazione si rianimò, Toni tornò con una ragazza accalappiata al volo e ripartirono. Trovarono un
bar con terrazza, musica, gente, entrarono.
Toni provò stizza. Snake aveva qualcosa più di lui;
lo negava, ma gli rimordeva: Snake era un animale e
non c’era verso di eguagliarlo. Certo a lui le donne cadevano addosso indipendentemente… ma non era così
potente.
Agatha e Snake sedevano su due sdraio appartate di
fronte al mare, sorseggiando drink.
– È inebetito… le pende dalle labbra… ma cosa ci trova, cosa, che quella guarda nel vuoto e non lo caga
manco di striscio? – pensò prima d’alzare i tacchi.
– Fa freddo – disse Agatha e Snake le cinse le spalle.
– Capisci che ora mio figlio avrebbe quindici anni e io
un salone di bellezza, invece no, sgobbo al bar tabacchi
e abito in periferia – diceva una donna seduta a destra di
Snake alle amiche.
– Non dirlo a me, che per lo sciopero dei postali ho perso l’iscrizione al corso di hostess e mi ritrovo a lavare
chiome infeltrite, annerire le bionde e imbiondire le nere… e decolorazioni, colpi di sole, riflessi ramati, piastre alle ricce e permanenti alle lisce… che schifo, un
giorno o l’altro me ne vado in Messico!
– Minchia, queste son sceme proprio… ma che cazzo ne
sa di come sarebbe se non fosse stato… suo figlio! Magari non sarebbe un figlio ma una figlia, un efebo o chi
lo sa… e lei? Chi glielo dice che non sarebbe caduta
dalla scala mentre puliva i vetri? E l’altra? Chi glielo
garantisce che il paracadute si sarebbe aperto o che
l’avrebbero scartata per scarsità d’ingegno? No, non le
reggo – pensava Snake furioso accarezzando il coltello
infilzato negli slip e si volse all’amica:
– Ma le senti? Non le sopporto… tu ti chiedi come sarebbe se non fosse stato?
– Sì, me lo son chiesto tante volte… Probabilmente meglio, escludendo le incognite. Quelle che hanno determinato il com’è… no, non lo so e non lo voglio sapere,
sennò mi butto da un dirupo o m’imbottisco di tritolo,
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ma poi non vedo perché dove cosa chi portare
all’inferno.
– Andiamo via – le disse, si alzò e l’abbracciò stretta,
perdendo il viso nei suoi capelli.
Agatha provò un istante di calore, poi si scosse:
– No, devo tirarmene fuori… cosa faccio, cosa dico?
Snake la portò sulla spiaggia, gelida e buia. Agatha si
guardava intorno come in una trance al rallentatore. Voleva scappare, ma non riusciva a staccarsi dal magnetismo di Snake.
– C’è freddo, tanto freddo, lasciami andare.
– No, tu rimani con me, ti scalderò – rispose lui e pensò:
– Ora, in circostanze normali, l’avrei afferrata per i capelli, sbattuta a terra e chiuso, che freddo, che andare…
le avrei tolto la voglia di parlare. Ma a lei no, cosa mi
succede?
– Snake, lasciami – diceva Agatha, ma intanto lo stringeva e pensava:
– Non so, non riesco… è come se mi guidasse… Non
devo rendere conto a nessuno, ma scopare cosa cambia?
Scappo – si divincolò dalla stretta e corse a perdifiato
verso la strada.
Snake, messa a fuoco la situazione, la riacciuffò.
Prendendola alle spalle la voltò, le affondò di nuovo la
testa fra collo e capelli e l’accarezzò. Poi sedettero a terra, appoggiati a una barca.
– Non aver paura, rimaniamo qui, solo abbracciati… ma
non andare – le sussurrò sempre più stupito di se stesso.
Agatha appoggiò il capo alla sua spalla, chiuse gli occhi.
– Cosa ci faccio qui con un broker? Meglio uno spacciatore, ma cosa importa? È simpatico – pensò.
– Non capisco cosa mi accade, è come se mi leggesse
dentro… forse dovrei dirle la verità e chiudere senza ingannarla… ma perché?– si tormentava Snake.
Risolsero i dilemmi con una sniffata, accesero un falò e conversarono per ore di argomenti strampalati. Non
ci capivano granché, ma si separarono allegramente con
un bacio e uno scambio di recapiti.
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Mai scendere dalla fottuta barca
Amsterdam, inverno
Giorni pigri e gelidi, febbraio. Ha esplorato ogni angolo del barcone, attende.
– La… Lanzarote .
– Italiano, che cazzo dici? – gli urla Harvey precipitandosi in cabina.
– 17 verticale: isola delle Canarie, Lanzarote – risponde
Orazio stupito.
– Non scherzare.
– Non è uno scherzo, è La Settimana Enigmistica.
– Italiano, io non so da dove sei uscito, ma non puoi dirlo e non con quelle mani… – dice Harvey buttandosi a
peso morto sulla poltrona a versarsi un whisky.
– Che hanno le mie mani?
– Lascia perdere. Lanzarote… tu vuoi portarmi
all’inferno. Ma lo sai cosa vuol dire un viaggio della
speranza? Tutti i tuoi sogni, investimento della famiglia,
naufragati, sfracellati su uno scoglio a cinquanta metri
dalla riva? Lo sai cosa vuol dire la sete, il morso del gelo nelle ossa, i pianti dei bambini nel buio, l’ignoto e un
groviglio d’ombre umane che non sono più… finiti in
mezzo ai surfisti… biondi, atletici, firmati e abbronzati,
a tirarli fuori? Una presa per il culo in grande stile… oltre al danno la beffa… per chi rimane. Senza più niente,
una crisalide di stracci su una spiaggia bianca di palme e
di alberghi che ridono in faccia alla sconfitta. Per chi
rimane… mio fratello non era fra loro. Inabissato, disperso… a Lanzarote. Perché poi ti dico queste cose?
Non devo parlare… Che cosa ci fai qui? – disse Harvey
alterato dall’ira.
– E tu che cosa ci fai? – chiese di rimando Ora.
– Ammazzo i surfisti. Quelli che da Lanzarote, Majorca
e che cazzo ne so, spostano i loro culi qui, a sballarsi i
cervelli che non hanno. Qualcosa in contrario?
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– Assolutamente no. Giochiamo ai dadi?
Prima di lanciare Orazio portò lo sguardo sulle decine di caselle in fila, ordinate sul foglio. Si guardò le
mani.
– Che cos’hanno le mie mani? – pensò.
Osservò Harvey per un po’. Aveva voglia di sorridere, ma ingoiò il tutto. Molte persone pensano che ridere
equivalga a sorridere e se anche Harvey l’avesse pensato a Ora non sarebbe piaciuto. Forse nemmeno alla sua
faccia.
Nel suo personale cruciverba scorse al 15 verticale:
– Definizione: Che cazzo ci faccio qui? Cinque lettere.
NULLA
D’altronde nulla lo faceva anche altrove, sia lontano,
sia vicino.
– Però, minchia, su un barcone in un canale olandese
con un negro a dirmi cosa fare e cosa no. E dove cazzo è
Snake? – si chiese.
Riguadagnò lucidità, mise a fuoco Harvey, le sue
collane da rapstar e aggiunse:
– Non dovresti mischiare popper e bamba...
– Io metto insieme quello che mi pare.
– Mi dici cosa ti rode?
– Cosa vuol dire?
– Scusa è un italiano un po’ così: voglio dire, cosa ti ho
fatto? Sono tre giorni che sono qui, sono tre giorni che
mi cerchi per sapere dove sono e per sapere cosa sono.
Apri la bocca per rompermi i coglioni. Io sono qui. È
quello che so. Sequestrato dall’allegra compagnia di negri Harvey & Snake su un barcone che fa a gara con la
putrescenza per la puzza… Che devo fare? Cosa aspetto? Cosa mi aspetto? Vaffanculo, ok?
– Guarda che Ciro è italiano.
– Va bene, anche Gino lo è.
– E chi cazzo è Gino?
– No, chi cazzo è Ciro!
– Ciro è Snake, stronzo! Sembra negro ma è venuto qua
ad Amsterdam da Monopoli.
– Da Monopoli! Pensa tu!
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Orazio scoppiò a ridere. Ogni mese, a volte più volte
incontrava un negro italiano che gli vendeva merda olandese. Pazzesco! Ciro! Non andava. Ciro! Quel nome
non poteva non rievocargli l’urlo tanto ridicolo quanto
disperato della Milo in TV, tanti anni prima.
– Ciro! Ciro! Minchia, Ciro! – Il suo pusher d’Olanda,
uscito direttamente da un fumetto pulp, stratatuato,
straincazzato, strapugliese! La risata si faceva largo in
lui, si accampava per erigere nuova vita di continuo.
Una risata lo stava seppellendo.
Guardò Harvey:
– Fammi indovinare: tu sei di Latina!
Ora stava ridendo a morire. Harvey restava seduto
sul bordo del giaciglio di Snake-Ciro. Aveva
l’espressione contratta di un bimbo al quale viene sottratto un balocco.
Orazio si allungò sulla branda, sopra di lui. Tenendo
la penna in bocca, rollava una canna. Sciolse da una piastra che Harvey chiamava Black Bombay un po’ di pasta che si avvinghiò vogliosa al tabacco nella mano.
– Dai vaffanculo! Scherzavo. Non mi sembri di Latina...
– Lo credo.
Il barcone ondeggiava un poco. Il tempo si faceva
brutto e il vento stuzzicava l’imbarcazione, coccolandone
gli occupanti, i dadi giacevano inutilizzati sul pianale.
Ora propose di fare un caffè e Harvey, tacendo, acconsentì.
Il fornello a gas, che Harvey chiamava orgogliosamente cucina, si accese, come ogni volta, aggredendo con
la fiamma la barbetta di Orazio il quale, imprecando, mise il pentolino sul fuoco. Raccogliendo in un cucchiaio
migliaia di praline di nescafè, vagheggiò un catramino
italiano, di quelli che asciugano la bocca e la rendono
amara e ruvida.
Si voltò a cercare due tazze e un po’ di zucchero,
quando scorse il deretano di Harvey battersela verso
l’uscita con tutto il suo proprietario.
– Negro! Dove cazzo vai? – urlò.
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Ma Harvey era già stato assorbito dalla folla come
acqua da una spugna. Le pozzanghere si erano moltiplicate sul selciato accogliente. Le cose, in Olanda sembravano andare proprio bene: una folla di sani lavoratori
imboccava vie diverse animate da desideri, direzioni e
bisogni. Andavano bene le cose; proprio bene, in Olanda, paesello protestante mercantile e fiero. Andava bene
a tutti, fra i canali, le puttane le industrie, i metro e i
bus. E Ora?
Orazio raccolse il rantolo dell’acqua in ebollizione,
ne smorzò il rancore e la trasformò in caffè, come un
buon mago.
Il sole era ormai una puntata precedente.
Le persone avevano quasi tutte un posto, a quell’ora,
in quasi ogni dove. La branda ospitò, tiepida, la carcassa
di Ora e le sue quattrossa. Perché Harvey era così carico?
Non si diede una risposta: la canna aveva fatto il suo effetto. In pochi minuti, Orazio si fece accogliere fra le
morbide braccia di Morfeo.
I sogni sono sempre sintomi, chiavi di accesso a elementi e parti di sé imperscrutabili, lontanissime. Remote vite precedenti, richiami di anteriori cieli e posteriori futuri. Ora non amava ricordare, rammentare la sua
vita prima di Amsterdam, della Perdita, della Deriva. Arenato?
A volte sognava di sé, di una vita nuova fatta di orari
e complessi, frustrazioni lavorative e buone relazioni
sentimentali, malinconici tradimenti e rancorose serate
davanti alla tv.
Il barcone dondolava e Ora continuava a camminare
salterellando. Con le mani, andava continuamente a
grattarsi i polpaccetti che, lungo il tragitto, le ortiche
avevano a più riprese addentato. Riusciva sì a trotterellare dietro gli scarponi pesanti del nonno, resistendo al
bruciore delle malepiante, ma questo durava soltanto alcuni minuti. Quindi, doveva arrestarsi, grattare la carne
per godere qualche istante di un piacere obliquo, che
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generava un bruciore ancora più intenso, gravato dalla
distanza dal passo sicuro dell’uomo davanti a lui, armato di falcetto. D’altronde, la madre, assai sensata, aveva
insistito a lungo sull’opportunità di indossare un paio di
pantaloni lunghi, ma intestardirsi sui pantaloncini blu
dell’Uomo Ragno corti fino al ginocchio era divenuta la
crociata di quella giornata di fine marzo. Poi, contava
sulla complicità del nonno, determinante nel contenere
le ire materne rispetto alla sua fermezza di bimbo. Era
emozionatissimo. Il vecchio lo aveva assoldato per “un
lavoro da grandi”: era necessario ripristinare il passo per
giungere ad un rudere di proprietà e, da lì, “camallare”
giù una vasca d’amianto che ancora non si chiamava eternit e che ancora i contadini adoperavano. Il bimbo
contemplava la grossa schiena del padre di suo padre
avanzare nella macchia e farsi largo, senza difficoltà. Le
grosse mani stringevano quell’arnese a mezza luna
nell’amputazione continua di rami grossi e piccoli. Intorno a loro, una macchia intricata e fitta sviluppatasi
nell’incuria dell’ormai radicata mentalità moderna dominava il paesaggio.
Da un cespuglio di bacche rosse, improvvisamente,
un serpente fece capolino sul passo muovendosi nella
sua direzione.
Il terrore lo invase. Non fu capace di urlare, scappare, muoversi: ogni energia pareva averlo abbandonato.
Fu lo scarpone del nonno ad abbattersi sulla testa triangolare del rettile, uccidendolo. Il bimbo sgranò gli occhi
sul corpo impazzito della serpe che avvolgeva convulso
il pantalone dell’uomo. A quello fu sufficiente calcare la
suola ancora per riuscire, bestemmiando, a finire
l’animale. Le fresche lezioni di catechismo avevano ingigantito il ribrezzo che il bambino sapeva già di provare per i serpenti; in quell’angolo di bosco, il nonno aveva assunto connotati simbolici titanici.
Senza tante cerimonie, il bimbo ricevette alcune manate di incoraggiamento sulla testa per continuare il
cammino. Per la prima volta si era sentito protetto da un
pericolo reale, visibile, concreto.
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In dialetto, il nonno lo esortò a non farsi mangiare il
belino dalle mosche e a proseguire verso il rudere, perché il mondo non poteva mica fermarsi per una biscia.
Un po’ scosso, Orazio assaporava un misto fra gratitudine e commozione, augurandosi di riuscire a rendere a
quell’uomo, enorme ai suoi occhi, il favore di preservargli vita, magari da grande. Mancava poco alla radura
attigua al rudere. Con una forza che a nove anni giudicò
sovrumana, il nonno issò sulla sua schiena il recipiente
e, di buona lena, fecero ritorno verso casa.
Il barcone ondeggiava, sorretto da strana acqua e Ora
era sempre lo stesso bambino in un’ atmosfera insostenibile. Nel salotto di casa uomini e donne erano divisi in
due gruppi.
I primi circondavano un fiasco di vino, le altre la
moglie del defunto. I giochi erano fatti. Qualcosa di più
grande faceva capolino nella vita di tutti; un vento di
trasformazione aveva scompigliato i capelli della testolina di bimbetto sottratto al serpente foriero di morte.
Quest’ultima era arrivata in punta di piedi, il nonno era
scomparso, nudo, sul tavolo di un ospedale.
Il bambino si domandò a più riprese che cosa garantisse il contegno di tutte quelle persone adoperate a mugugnare intorno ai tavoli e alle tappezzerie stinte vicino
alle finestre. Nessuno pareva riuscire a intuire il suo dolore. Gridare con tutto il fiato di cui fosse capace, spaccare qualcosa, nulla, in realtà, considerava possibile fare. La stessa paralisi che lo aveva avvolto di fronte al
serpente lo conquistò nuovamente, con un terrore ancora
più grande, ché nuovamente non aveva volto, né sembianza. Giurò di non voler mai più sentire l’eco del di
quel vuoto dentro di lui. Il campanello suonava continuamente; nessuno si muoveva, era sempre più sera e e
Ora si issava sulle gambette adesso ferme. Aprire era
compito suo. Era giusto. Era Ora.
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Reportage
Genova, inverno
… da Islamabad. Una scusante, una guerra, un presupposto di verginità. Islamabad è il nemico, la nuova
crociata per liberare la donna velata. Islamabad è lontana, incomparabilmente vicina. Una mutazione talebana
a legittimazione americana. Islamabad è là, riuscendo a
essere qua. Celata nei meandri di un’inconcepibile realtà.
Liberare la donna velata dal dominio ancestrale.
Un’ipotesi di progresso, uguaglianza, sviluppo, tolleranza. A modello occidentale. L’America, l’Europa, il
qua… Italia, un gradino sopra Islamabad.
Un presupposto di verginità. Monouso. Il resto di
conseguenza. Prospettiva di progresso, allineamento imitativo. Uguaglianza nella diversità o uniformazione a
un modello tarlato. Segni evolutivi al maschile. Se parli
sei fuori o, meglio, sei una puttana. Se ti opponi non
funzioni. Adeguamento e recitazioni.
Agatha non aveva avuto il tempo di porsi il problema
che c’era sbattuta contro. Dopo era troppo tardi e la cosa
rimase a ronzarle nel cervello. Un’elaborazione teorica
inversamente proporzionale alla sua assurdità. Mancava
sempre un pezzo all’ingranaggio per distaccare Islamabad. Un rigiro intorno al sesso, una questione di scopate
in cui non s’azzecca verso. L’identità di una donna è pur
sempre legata all’innocenza fisiologica: verginità. Un
po’ come una vacca, necessariamente stupida, materialmente utile.
In fondo, poi, cosa importa? Sviluppo e degenerazioni vanno da sé. Non può farci niente. Forse difetta
della necessaria atrofia cerebrale per adeguarsi al modello.
La sua collezione d’insulti, accuse e minacce è invidiabile. Da far rabbrividire. Non la scuotono più di tan-
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to, si limitano a schifarla, in una sorta di sfida insensata,
in fondo indifferente.
Ritaglia trafiletti dai giornali. Islamabad non è lontana. Donne ammazzate, stuprate, picchiate… ce ne sono
tutti i giorni. Si potrebbero confrontare con gli incidenti
sul lavoro?
Ritaglia, guarda i ritratti degli assassini. Molti sembrano bambini indifesi… spesso hanno ripetuto minacce, prima di colpire… nessuno ha pensato ai propri figli.
È uno sterminio. Non c’è lapidazione, quella sta a Islamabad. Qui coltelli, ferri da stiro, pugni, calci, fucili… e
le persecuzioni dove le mettiamo? Il telefono sorvegliato, i pedinamenti, le apparizioni improvvise?
Un incubo. Lei osserva con irritata e rassegnata noncuranza, elenca…
Seduta su una panchina, aprì Le affinità elettive, ma
spire di serpe avvolsero le pagine e un attimo dopo ricevette un sms.
– Di nuovo lui! Va bene, andrò ad Amsterdam… chissà
se per giocare in borsa muterà pelle – pensò Agatha fissando le increspature delle onde rifulgere al sole di marzo.
Abbandonandosi sullo schienale cozzò col capo contro
qualcosa, si voltò. Dietro di lei un crocchio di donne
gravide scambiava opinioni su test, scadenze e corredi.
Rabbrividì e tornò a Goethe.
– Mi sento male solo a sentirle.
– Condivido.
Agatha alzò di nuovo lo sguardo: erano due mamme
sedute sulla panchina accanto, tenendo d’occhio i figli
che disputavano una partita di calcio poco lontano.
La cosa la confortò: desiderava un figlio, da tempo,
ma provava un’istintiva ripulsa per gravidanza e modalità connesse. Non era il dolore a spaventarla, ma
l’ineluttabilità di un percorso manovrato… non lo sopportava.
– Eppure è così. Adesso mio figlio mi chiede se mi sento sola quando va via col papà. “Ma no” dico io “andate
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pure”… com’è bella la solitudine – disse la prima
mamma.
– È vero, che bellezza, poi arriva la sera e si ricomincia.
– A mio figlio dico sempre: “Quanto mi sei mancato,
non vedevo l’ora di rivederti…”
– Anch’io, ma il problema è il padre, mi chiede: “Non ti
sono mancato?” “No, anzi…”
– E male fai, lo dicevo anch’io, istintivamente, ma così
ti tormentano, invece se gli lasci credere il contrario,
tutto fila e chi se ne frega.
– Tanto comunque fai non funziona – disse una terza
mamma appena giunta.
– È vero: vi è mai capitato di sentirvi dire: “Non è vero”. Dicono una cosa, ribatti e “No, non è vero”.
– Sì, a volte mi chiedo: “Son scema, ho le traveggole?”
– “Cioè, è vero, ma non è quello che intendevo, sei tu
che mi confondi” spiegano.
– Infatti, siamo noi. L’altro giorno ho preso il vocabolario: “Questo è il significato della parola che mi hai rivolto.” “Impossibile, non c’è.” “Come non c’è… è qui.”
– No, è un delirio, bisognerebbe registrarli…
– Il bello è che sono il sesso forte… ma forte dove?
– No, guarda, l’uno per l’altro sono una manica d’idioti.
– E se parli? L’altra sera ho detto: “Non ne posso più.”
– Anni che lo dico: non serve, peggio ancora.
– Cosa mi risponde? “Ho capito, vuoi tradirmi con un
altro.”
– Infatti, a loro interessa solo quello. Non è che si possa
discutere, decidere: tutto si risolve in una scopata…
– Che poi chi è che non sa trattenersi? Loro. Ma si sa,
hanno un istinto animale.
– Direi demenziale, però mi conforta, credevo di essere
un caso anomalo, invece no, è un flagello.
Agatha non riusciva a seguire la lettura e sorrideva
tra sé. Intanto quattro anziani, sedutisi quatti sull’ultima
panchina libera, origliavano allibiti le invettive delle tre,
così coinvolte dalla discussione da dimenticare il volume e il resto. Scese il tramonto, si alzarono.
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Agatha osservava il suo bimbo, imprigionato in un
palloncino, volteggiare nell’etere…
– Dove siamo finiti? – disse uno dei vecchi accennando
col capo alle tre in allontanamento.
– Tempi moderni… se mia moglie parlasse così la sistemerei io… – disse il secondo.
– Peccato che tu una moglie non ce l’hai – aggiunse il
terzo.
– Ma no rumpimuse u belin – concluse il quarto strizzando l’occhiolino ad Agatha, che li immaginava avvolti nelle kefiah fare da scudo alle granate sioniste, in camice sulle ambulanze della Croce Rossa internazionale
o schierati in mimetica davanti agli osservatori ONU.
Rabbrividì e sospirò; il palloncino era scomparso. Chiuse il libro e se ne andò.
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Spostamenti
Amsterdam, notte
Era Ora anche mentre apriva gli occhi sul cucinino
sporco di un barcone olandese galleggiante e non volante.
Tossì. Tremava.
– Cazzo – pensò.
La bocca asciutta gli ricordò di bere. Mentre beveva,
sguinzagliò gli occhi alla ricerca del necessario per dimenticarsi un po’. Un po’ di tutto. Trovò il barattolo dei
tesori di Snake. Era la seconda volta che lo vedeva.
L’anno prima Snake glielo aveva mostrato in un coffeeshop. Doveva essere fatto come un copertone: dentro il
barattolo c’era abbastanza per farsi sgamare, costringendo gli sbirri a redigere verbali infiniti sul contenuto
dello stesso. Snake parlava a Orazio guardando il barattolo. L’espressione del viso era tutta concentrata sulle
pasticche e sulla carta stagnola che si esibivano al di là
del vetro. A Orazio venne in mente un bambino intento
a fare mostra dei suoi tesori.
A un anno di distanza, l’idea di scoperchiare il barattolo, lì solo, lo faceva sentire un po’ come Pandora alle
prese con le sue voglie e le sue colpe. Lo aprì, non succedeva niente: nessuna onda aveva travolto la barca, il
cielo era sempre più o meno blu e nessuno gli stava diagnosticando una morte cerebrale. Aprì una stagnola
grande e caddero alcune pietre di bamba; un involucro
di plastica fasciava lamine di oppio
come l’uovo di Pasqua!!!
come l’uovo di Pasqua!!!
Si preparò una striscia, la pippò mentre smascellava
come un caimano.
– Devo scendere dalla barca – disse a qualcuno che non
era lì.
– Devo scendere dalla barca.
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Pensò al cuoco di Apocalypse now, alla sua voglia di
mango e alla tigre che aveva incontrato nell’unica occasione in cui era sceso dalla barca
– Mai scendere dalla barca – continuava il cuoco a dire.
Ora si alzò, chiuse il barattolo e prese la porta senza
preoccuparsi di chiuderla; non poteva fermarsi nemmeno un attimo. L’ostinazione nel voler perseguire l’uscita
era troppo debole per permettersi di interrompere il proprio corso. Uscito, fu colpito dalle troppe luci e lucette
della città ancora in movimento. Saltò sul marciapiede
come Armstrong sul suolo lunare e quasi corse per allontanarsi il prima possibile dal canale della barca. Era
sera. Era ora.
Al duecentesimo passo circa, gli si parò davanti un
ragazzo piccolo, scuro, gel, basette, occhiali da sole,
chiodo sintetico, movenze sclerotiche. Provò a scansarlo
da destra, se lo trovò di fronte, si buttò a sinistra, se lo
ritrovò in faccia, tornò a destra… e lui lo scontrò:
– Porcoddue stavo passando io – ringhiò incazzatissimo.
– Oooh che cazzo dici? Semmai passavo IO! – urlò Ora
facendo voltare i passanti
– Lo sapevo, italiano – pensò mettendosi in posa da boxeur ma il giovane, dopo un tentennamento a capo voltato, scattò nevrotico tra le fauci della folla.
Orazio riprese la marcia e percorse due isolati senza
accorgersi di dove stesse andando, finché un guinzaglio
gli s’intromise nella falcata.
– Puttana… – inveì.
– Italiano, finalmente rispunti! – gli urlò Harvey scoppiando in una risata.
– Rispunti tu, fottuto negro, perché cazzo sei scappato?
– rispose Ora sentendosi i piedi invadere di tepore.
– Ma che…?
– Heinz, mi sono improvvisamente ricordato della sua
passeggiatina… è una bestiola precisa, sai? – disse Harvey indicando un pitbull beige dall’espressione ebete.
– Sta minchia, il tuo cane pulcioso m’ha pisciato sugli
anfibi!
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– Cosa vuoi che sia? Dai, accompagnaci al Discount
Dog & Pet.
– Al discount in piena notte sguazzando nel piscio?
– Ventiquattrore su ventiquattro, servizio completo. Ti
compro anche un paio di calze.
– E mi asciughi i piedi coi capelli.
Al discount Ora guardava il culo di Harvey aggirarsi
tra scaffali e involucri di ossa sintetiche, collari borchiati e stroboscopici, sabbie aromatizzate, scatolette e risi
soffiati dietetici, biologici, equosolidali, cuscinetti scalda sonno, pupazzetti sbranabili, ciotole parlanti.
– Ma quanto cazzo è rincoglionito?– pensava strabiliato
e irritato dal fetore umido che lo istigava a ogni passo.
Harvey non aveva più niente di feroce, svuotava sul rullo il carrello ricolmo con lo stesso sguardo di una nonna
che assicura il futuro a un cucciolo umano o animale.
Spese una cifra spaventosa per una nonna, irrisoria per
un trafficante. Heinz, che lo attendeva in uno dei separé
canini all’ingresso, come lo annusò gli corse incontro
scodinzolante rasentando lo strozzamento. Harvey passò
le buste a Ora e corse a farsi leccare come un bambino
ritardato.
– Finisce che è pure omosessuale – pensò Ora rassegnato.
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Genova, un paese, notte
Agatha beveva bourbon e fumava. Chiuse l’ultima
pagina di Una stagione all’inferno. Il mare era una tavola scura indistinguibile dal cielo opaco e lei sentiva di
aver girato in tondo per ritornare al punto di partenza.
– Il fatto è che il dove, ora, non importa più, meglio un
ponte sull’arcobaleno. Nel dolore ci si può cullare fino
ad affondare. Indifferenza è quanto rimane, il vuoto.
Non amava tornare al passato, tranne a quegli istanti
che, tolto il maltolto, sommavano pochi anni, il resto erano conferme e sgradite sorprese. Detestava i rimpianti
e i falsi ritorni. Baratri, muri, stermini, parevano trovare
una sbilenca spiegazione. La pietà diventava spietatezza. L’unica risposta era una raccolta di segnali sottili per
allestire la fine. Ora che sapeva, perché stare?
Il buio si trasformò in muro, cinta su cinta. Un castello grigio, un fossato, intorno una ferita infinita, solco
senza sangue né meta.
Agatha si allucinava su trip autoindotti. Non aveva
mai chiesto ai suoi amici se i loro viaggi fossero migliori… probabilmente sì, altrimenti perché farli? I suoi portavano dritti all’inferno ed era stanca, troppo, per continuare.
Recinzioni, macerie, cieli grigi e incisioni asettiche
erano uno schifo: meglio l’orrore. L’angoscia, piantata
tra stomaco e petto, serviva solo a sfiancarla.
Il suicidio andava contro i suoi principi, ma al momento le sembravano insulsi, travolti da un crollo infinito e cosa c’era di meglio che morire per sé, senza attribuire ad alcuno l’onore della dipartita? L’idea del salto
non le piaceva: avrebbe preferito delle pillole infallibili,
incidersi le vene… ma la scogliera era vicina, bastava
uscire.
Un urlo bestiale precedette di una frazione di secondo la stretta alla gola. Era riuscito a entrare e Agatha capì subito che non serviva difendersi. Per la prima volta
ebbe paura di lui e l’unico modo di fermarlo era tacere,
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non muoversi. Piangeva. Solo la morte li avrebbe separati.
Dopo una riga di: – Dimmi che hai un altro, dimmi
chi è, chi ti ha mandato il messaggio sul cellulare, ti ucciderò…
– Lasciami, non è vero, vattene… – finalmente allentò
la presa. Scuse, lacrime, servivano solo ad aumentare il
terrore.
– È pazzo, non me ne libererò mai… e ora che faccio,
dove vado?
Provò ad afferrare il telefono, lui le strinse il polso;
tentò di raggiungere la porta, la sbatté contro il muro.
Tornò immobile, aspettò che lui si calmasse, poi iniziò a
urlare.
– Maledetto, cosa ci fai qui? Non t’è bastato ancora,
vuoi ammazzarmi? Ammazzami – gridò e corse in camera da letto, prese il coltello a serramanico. Lui, accasciato a terra, singhiozzava. Agatha estrasse la lama,
gliela puntò contro, esitò un istante, fatale. Lui intravide
un metallo annacquato, balzò in piedi e fuggì.
– Cazzo merda cazzo, stavolta lo colpivo… basta! Ma
come posso essere così stupida. E che avevo annusato i
vestiti del caro estinto prima di buttarli in lavatrice…
ma che lavatrice e lavatrice, inceneritore. Estinto un
corno, questo estingue me. Di chi è il messaggio sul cellulare? – pensò:
– Snake. Perfetto!
Infilzò il coltello nelle mutande, prese lo zaino, reliquia di lontane partenze, c’infilò furiosamente qualche
vestito, prese l’orario dei treni, chiamò un taxi. Avrebbe
ucciso chiunque le si fosse avvicinato, in quel momento.
Nessuno l’avvicinò.
Occupò uno scompartimento vuoto, il panorama erano ombre di alberi sfreccianti, ogni tanto luci, gallerie
nere poco più del cielo; del resto piangeva e non la interessava.
Era la sua dannazione, doveva scappare. La pietà
schiacciava la rabbia, la rabbia annientava la pietà e non
riusciva a liberarsi di lui. Provò un brivido di terrore:
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– E se mi avesse seguita, se ora me lo trovassi qui?
I suoi occhi chiari, la sua aria indifesa, la sua debolezza infinita. Quello sguardo avrebbe voluto trasmutarlo, donargli la forza… una partita persa in partenza, da
tempo ci si dibatteva, era il momento di chiudere.
– Finché morte non vi separi… non mi sono sottoposta a
quella bieca sentenza e ci sono imprigionata lo stesso. I
suoi occhi… sì che mi ci trovo, ma lui è un uomo…
uomo? Tenebra, mi ucciderà se non lo ucciderò. Il nodo
della questione, poi, sta tutto lì. Lui ha un pretesto di
vittimismo, ettogrammi di disgrazie presenti passate e
future da sciorinare, come se gli altri non fossero sfigati
ognuno a suo modo. Ma se hai una concatenazione inenarrabile e incompatibile, a chi lo dici, a cosa serve?
Oltre il finestrino buio, balenii, lacrime, il richiamo
della morte la riprese. Aprì per valutare la possibilità di
scagliarsi dal treno in corsa. Ma la certezza di non
scampare mancava: un qualsiasi invisibile ostacolo avrebbe potuto sottrarla alla fine, lasciandola invalida o
in balia dei servizi sociali.
– No, ci vuole un ponte, un burrone o i binari col treno
in arrivo… Oppure vivere, chissà, magari trovare un
attimo di respiro. Non lo sapevo, gli credevo, se potessi
tornerei indietro per dirgli: “Portami via”. Ma ormai lo
so, partirebbe in quarta senza benzina per scagliarmi
contro ogni sua mancanza o fallimento.
L’apertura della porta la sottrasse dai tetri pensieri.
Un giovane dai capelli corvini, la pelle ambrata e il sorriso luminoso irruppe nello scompartimento:
– Bibite, panini, patatine… al vostro servizio. Signora,
cosa gradisce?
Agatha, contratta, rispose:
– Una birra.
– Bitu non vende alcolici, proibito, ma per lei farà
un’eccezione – e aprì la cerniera della borsa termica celata dai panini al piano inferiore del carrello.
Mentre le stappava la birra lei si chiese:
– Cosa ci fa un carrello delle bibite sul treno in piena
notte e dove diavolo è salito?
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– Bitu sa cosa stai pensando: che cosa ci fa lui sul treno
in piena notte? E sai cosa ti dice? Adesso te lo spiega.
E così dicendo lottava strenuamente per infilare il mezzo nello scompartimento. La manovra pareva impossibile ma lui, testardo, finì col riuscirci sbrecciando bordi di
ingresso e carrello. Buona parte del contenuto finì a terra, infine a forza di colpi lo incastrò di sghimbescio fra i
sedili e prese posto trionfante di fronte ad Agatha, che
lo fissava sbalordita. Si lisciò i capelli e sorrise:
– Bitu molto buono e allegro, Bitu viene da Bangladesh,
solo, senza amici e famiglia – esordì.
– E ci risiamo… – pensò Agatha.
– Bangladesh povero e piovoso, Bitu venuto Italia cercare fortuna ma prima andato Marocco, espulso, Spagna, espulso, Grecia, povera, qui bello, se Bitu potesse
parlare con qualcuno, invece solo, solo, solo!
– Eh no caro, solo un corno! E dove vivi, dove dormi?
– A Genova, con compagni comunità.
– Allora vedi che solo non sei, non starmi a stressare.
– India grande, compagni Bitu di altre regioni, anche
diverse religioni, non così amici come tu credi.
– Guarda io non credo niente, piuttosto vorrei sapere
perché hai incastrato quel catorcio qui dentro: dove passo per andare in bagno?
– Sali sui sedili.
– Spiritoso, se non te ne vai urlo.
– Ma no, Bitu pacifico e socievole, ti terrà compagnia.
Agatha sfiorò il coltello, osservò l’interlocutore. Tutto
sommato era un bel ragazzo, non eccessivamente corpulento e poi era armata.
– Ma sì, meglio lui dell’angoscia dilaniante, il malefico
carretto ostacolerebbe l’eventuale attacco di lui… potrebbe essere qui… e Bitu che mi difende – pensava rivolta ai remoti lampioni che smagliavano il buio oltre il
finestrino.
– Che pensi? Si chiede Bitu, lo so, gli dirai “Niente”, ma
se lui ti raccontasse di quella volta che dal niente… ma
no, tu non vuoi discorsi difficili, cose semplici, rilassanti… una favola per conciliare il sonno? Eppure quella
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volta del niente è memorabile… una fiaba dalle Mille e
una notte? Un ciclo del Ramayana? Anche se al matrimonio di sua sorella… ma no, Bitu lascia perdere… Pinocchio, Gilgamesh? Cosa vorresti?
– Bitu, se stessi zitto sarei già contenta – rispose lei
prima di ripiombare al finestrino. – Una spalla… la tua,
una qualsiasi, appoggiarmi un momento – pensò e guardò Bitu. Le sue spalle erano ben proporzionate, ma inadatte, se non pericolose.
Appoggiò il capo al sedile, chiuse gli occhi. Immaginò la spalla di lui: una frana, una duna di sabbia che si
sgretolava al contatto. Eppure, in quel momento allo
sbando, avrebbe voluto crederci ancora, stringerlo…
sprofondava.
– Quanta gente quel giorno, eppure a Bitu pareva niente
al confronto della preghiera… come quella volta del sari
di Alina, che aveva gli occhi così neri e sorridenti, almeno fino al giorno in cui Bitu… che poi, fra tutti, sceglierebbe Gilgamesh, se solo se lo ricordasse… per non
parlare di quel tale dal giudizio pestilenziale… come si
chiama?… Paride, ecco Paride ma, come Bitu stava dicendo, quel giorno la folla, che poi, lasciaglielo dire,
fosse stato al posto suo ci avrebbe pensato sei volte a
giudicare perché si sa, ogni donna ha qualcosa
d’ineffabilmente bello… invece Gilgamesh, che non
c’entra col giorno del matrimonio della sorella maggiore
di Bitu, quando il niente… anche tu, con gli occhi chiusi, hai un fascino… Bitu pensa, forse starai già dormendo o ti racconterà del matrimonio e in India i matrimoni
sono importantissimi, Bitu non vuole dire che dalle altre
parti non siano importanti lo stesso… prendiamo in Italia, per esempio… beh comunque al matrimonio della
sorella di Bitu… starai dormendo? Le tue palpebre sono
un po’ arrossate e Bitu conosce ottimo rimedio ayurveda
per le palpebre… ma se fosse pianto, allora non c’è ayurveda che tenga contro la tristezza. Solo allegria, un
buon racconto forse, come quello del matrimonio… ma
a te, forse, non importa di un matrimonio, indiano poi…
ti piaceranno i matrimoni? Il tuo ti piacerà si chiede Bi63
tu? E con chi sarà si chiede ancora? Chissà se hai guardato Bitu… ora dormi, Bitu lo sa, dormirà anche lui.
Agatha si sentì sollevata, non sapeva per quanto ancora
avrebbe retto lo sconclusionato monologo, sperava che
Bitu si sarebbe cullato da solo addormentandosi prima
di lei.
Bitu, arresosi all’evidenza di aver sortito un effetto
soporifero privo di significato, aggirò il carrello, raggiunse la latrina, rientrò nello scompartimento, spense
l’interruttore, si allungò sul sedile e s’addormentò.
O almeno così credette: dormiva e sognava o vaneggiava? Un tappeto volante lo guidava oltre le nubi, il
mondo, sotto, era una minuscola carta geografica, Agatha, cavalcioni sopra di lui, pareva una furia; si eccitava,
troppo, sbarrò gli occhi e la guardò. Si dibatté fra
l’istinto d’aggressione e la razionalità. Immaginò un
giardino, un’amaca, un cocktail e un permesso di soggiorno a tempo indeterminato:
– Astuzia batte impulso – pensò e volse lo sguardo al
soffitto.
Nel contempo Agatha volava su un tappeto, il mare e
la terra comparivano a tratti sotto le nuvole soffici e
bianche, appoggiava il capo su una spalla. Di chi? Un
abbraccio… mentre il tappeto volteggiava su una città
grigia, tetra, invernale anche d’estate. Amsterdam. Un
rumore interruppe il sogno, si voltò, sfiorò il coltello e si
rimise a dormire.
Bitu voltò il capo con un ghigno sulle labbra, la osservò, chiuse gli occhi.
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Arrivi
Amsterdam, lo stesso giorno. Più o meno, la stessa ora
Dalla notte si era passati alla mattina in un battibaleno. I bagni della stazione erano sempre la tappa finale
dell’itinerario lavorativo di Harvey.
Lo faceva sentire bene.
Gli piacevano le prime ore del mattino, fatte di furgoni sfreccianti, passanti addormentati e zoccole ormai
completamente prive del fascino di poche ore prima; gli
piaceva ingollare le brioche calde o il pane dolce appena
sfornato, guardare intorno a sé le persone normali prendere posto. Guardava tutto con la sufficienza paternalistica di chi la sa lunga. Doveva andare a letto, distendere le gambe e le braccia, liberare tutto il suo corpo. Non
la testa. Certe immagini dovevano continuare lo show:
ogni notte recava la buona novella chimica a chi di dovere. Non spacciava più per la strada. No. Ormai era rispettabile: non viaggiava in metro, ma in taxi; non stazionava alle fermate del bus per proporre ragazze o bustine; adesso saliva in ascensore, i portieri che prima lo
guardavano di sbieco gli aprivano le porte dei loro palazzi.
Erano nottate lunghe, ma bene organizzate. Il suo telefono squillava ripetutamente; lungo la città aveva localizzato con Snake punti strategici in cui fare deposito.
Nel suo continuo peregrinare, trovava comunque il tempo per due sane bevute e, se gli tirava, una buona scopata. La maggior parte delle ragazze lo conosceva e qualcuna aveva lavorato anche per lui; tutto sommato, era
voluto bene: non picchiava spesso e, quando lo faceva,
non era troppo duro, non voleva lasciare segni. Quando
aveva conosciuto Snake, quel business stava per finire;
farcelo entrare significò accelerare la chiusura della
Premiata Ditta Pompini a Pagamento. Se Harvey era
preciso e distante, Snake si faceva continuamente tra65
volgere dalle situazioni, si scopava tutte le ragazze e,
quando picchiava perché gli piaceva farlo, andava giù
duro.
– Fottuti italiani – pensò.
Mentre si incamminava verso il barcone, rammentò
la presenza di Orazio e la loro forzata convivenza. Non
gli piaceva, l’italiano. Più di una volta avrebbe voluto
pestarlo di santa ragione, ma Snake si fidava di lui; non
c’era un motivo per quello che Snake faceva, ma Harvey
si fidava di lui ed ecco che il cane si mordeva la coda.
E poi era vero che non gli piaceva?
Pianure, foreste, polder, tulipani?
– Dove sono i tulipani? – si chiedeva Agatha avvicinandosi alla meta. Gli arrivi in treno le parevano tutti simili,
specie dopo una nottata sui sedili.
Bitu dormiva ancora, inconsapevole del pericolo incombente.
– Pezzo di asino, se lo becca il controllore finisce in un
centro di accoglienza… esisteranno anche in Olanda? E
saranno accoglienti come quelli italiani? Blog dei centri
di accoglienza italiani, i fantastici CIE, Centri di identificazione ed espulsione…. Con tanto di questionari informativi: se non annegate su una carretta del mare (che
pare stiano sostituendo con gli yacht) preferireste marcire qui o disidratarvi nel deserto libico? A uso nazionale,
internazionale e del terzo mondo. Uno sproloquio, il terzo mondo non esiste più, come il bipolarismo,
l’allineamento, la non proliferazione… reperti obsoleti.
Lo sveglio? No… ora si chiamano paesi in via di sviluppo, globalizzazione, corridoio accalcato, pauperizzazione internazionale, riuscirò a passare?… Migranti,
clandestini, cosa faccio? Corsa nucleare, strategia del
terrore, aspetto o lo vado a svegliare? Scudo spaziale,
melting pot… l’Olanda già mi deprime… devo svegliarlo.
Tentennò, entrò nella toilette. Intanto Bitu si stiracchiava, apriva la borsa, estraeva le brioche e una micro macchina del caffè. Disincagliò il carrello, si rimise in sesto,
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indi offrì la colazione all’amica, la abbracciò, le lasciò il
suo numero di cellulare e partì a disturbare i viaggiatori.
Sulla piattaforma della stazione di Amsterdam Agatha
se lo ritrovò alle costole.
– Ma non dovevi andare a Copenaghen?
– Sì, ma Bitu pendolare intercontinentale, OlandaDanimarca per lui una passeggiata e dopo un minuto già
sentiva tua mancanza.
– Senti, non stressarmi, ho da fare.
– Intendi dire non ansiarmi? Questo dici a Bitu, non capisci che lui segno del destino?
– Sì, della sfiga.
– Ferma lì e osserva.
In un batter d’occhio la caffettiera automatica si convertì in scalda vivande, le bustine di zucchero in senape
e ketchup, le brioche in wurstel, la tunica bianca in
giubba giallo-rossa; un cartello con prezzario campeggiò sul carrello e insieme fecero ingresso nella città.
– Questo è uscito da un fumetto… ma dove la teneva
tutta sta roba? – si chiedeva Agatha tentando di scollarselo.
– Hai notato? Bitu capace di calarsi in ogni identità.
– Indiscutibilmente hai delle qualità, ma ambulante eri e
ambulate rimani, non sei diventato un sub, un banchiere
o un trapper. Ora ti saluto, ho un appuntamento.
– Chissà se stasera, quando ripasserai di qui, troverai il
povero Bitu trasmutato in barman o se invece sarà già
rinchiuso nelle segrete del carcere.
– Ma che segrete, mica siamo in Bangladesh, di qui non
ci ripasso e non te l’ho detto io di fare il clandestino.
– Certo che no, sono il lignaggio, il fato inesorabile della povertà… il vicolo cieco dal quale Bitu vuole fuggire,
perché altri, del suo popolo, di ogni popolo, possano
sperare… e tu che fai? Lo lasci qui, esposto al pericolo?
– Sì.
– Eh no, questo non lo puoi fare! Chi ti ha vegliato su di
te? Chi ti ha cullata per farti addormentare, chi ti ha offerto la birra e la colazione? Bitu.
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– Offerto? Ma se mi hai estorto 20 euro e dilaniato i
timpani con discorsi deliranti… come va a finire la storia?
– Quale storia?
– Che ne so, una di quelle che hai iniziato.
– Allora… lascia pensare Bitu…
– Evita, scherzavo, non me ne frega niente, vado, ciao.
Come raggiunse il marciapiede opposto udì uno stridore
di freni, un impatto sordo, frantumazioni vetrose, tintinnii metallici, wurstel a volo radente, salse fluttuanti…
l’impulso di fuga cozzò con l’istinto protettivo, nonché
con la morale… tornò sui suoi passi.
Bitu, in posa moritura attorniato da guidatore e passanti, l’afferrò al polso costringendola a chinarsi:
– Portami via, presto o sarà la fine – le sussurrò
all’orecchio.
Agatha si alzò, passò il suo biglietto da visita
all’automobilista convincendolo ad allontanarsi, porse la
mano al ragazzo, lo sostenne, recuperò l’ammaccato
carrello e insieme si avviarono alla ricerca di uno slargo
e una panchina.
– Ohi ohi povero Bitu, la malasorte – disse lui prima di
mettersi a farfugliare in urdu. Non che si lamentasse,
stava ringraziando Shiva per avergli fornito la geniale
idea e la prontezza di spirito per realizzarla. Gli dolevano un poco il fianco e la spalla, ma poteva sopportare…
tutto calcolato e piangendo celava il sorriso erompente.
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Incontri
Amsterdam, poco dopo
Harvey li teneva d’occhio da un pezzo: quei due avevano un che d’anomalo e inquietante… lei italiana e
all’apparenza meno sfigata di lui, ma per girare con uno
così…
– Come dice Ora? Vai con lo zoppo… e lui altro che
zoppo, dimentica con che gamba arrancare… però potrebbe servire: niente permesso di soggiorno, nuovo del
posto, non si orienta… a meno che non finga. E lei?
Come fa a non capire che la prende per il culo… eh no,
non ne può più di starlo a sentire, ora si alza… dimmi
che si alza – pensava seduto due panchine oltre quella
occupata da loro.
Agatha infatti si alzò, ma lasciò lì lo zaino.
– Oh cazzo, va in farmacia… ora dovrei alzarmi io e
rendere lui degno di medicazioni, almeno lei si sbatte
per qualcosa… cosa c’ha sto bastardo che ghigna come
una iena e scrive sms?
Bitu, tra una ditata e l’altra, mirava di sbieco
l’ingresso della farmacia. Come la porta scorrevole si
mosse infilò il telefono in tasca, chiuse gli occhi e ciondolò il capo.
Agatha, vedendolo appisolato, aspirò un alito di libertà: erba e fiori di campo accarezzati dalla brezza, cielo terso e radi fiocchi di nembi… cambiò direzione, avvicinò un passante per consegnarli gli agognati medicamenti, ma nell’indicargli il malcapitato s’accorse che
era ben sveglio e sbracciante. Sospirò rassegnata e fece
dietrofront, percependo il clic di un chiavistello a doppia mandata.
– Ecco Bitu: analgesico, pomata, cotone, garza, disinfettante… iniziamo da questo e se non ti sentirai meglio
andremo da un medico.
– No, il medico no!
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– Ma taci una buona volta, mica siamo in Italia e poi ci
sono io, per contratto di disgrazia, a coprirti le spalle.
– Sì, hai ragione, Bitu sapeva, tu segno del destino.
– Piantala, per favore piantala! – sbraitò sbattendo la
busta sulla panca. Scalciò rabbiosa una lattina vuota, gli
rimboccò la manica, prese il cotone, l’impregnò di disinfettante e si mise all’opera.
Bitu gemeva, si contraeva, ansimava tra l’amplesso e
la tortura, lacrimava. L’escoriazione al gomito, i graffi
alle ginocchia, l’orecchio spellato e arrossato finirono
per addolcire l’improvvisata infermiera: non provava
ripulsa del sangue, anzi la affascinava, tranquillizzandola. Quando gli fasciò le ferite e passò a spalmare
l’unguento su spalla e fianco, Bitu partì con un profluvio di ringraziamenti tra l’italiano, il bengali e l’urdu
che la irritarono all’estremo limite, specie quelli comprensibili; gli altri, per quanto ne sapeva, potevano anche essere maledizioni.
– Fammi il favore: taci.
– Bitu sempre ringrazia, uso di suo popolo: i poveri
bengali, divisi, bistrattati dai confini e dalle intemperie,
sempre riconoscenti… almeno noi induisti: Krishna, Vishnu, Brahma, Shiva…
– Basta, per favore, sta zitto o parla la tua fottuta lingua.
– Come osi tu, straniera occidentale, insultare lingua sacra?
– Ma no, non la sto insultando, ti ho appena detto di parlarla, almeno non capisco – e nel dirlo si scostò i capelli
dal viso, intravedendo un guizzo bestino negli occhi di
lui, subitaneamente mutato in lacrimosa opalescenza.
– Meno male che non ho avvertito Snake della partenza… o no? Forse in presenza di Snake me ne libererei…
ma insomma come faccio? Già gli piombo qui
all’improvviso, non posso rifilargli un reietto. Perché
altro non è che un miserabile… logorroico, insopportabile, appiccicoso, contortamente colto, il che non è poco
perché mi sa che in Bangladesh l’alfabetizzazione sia
inferiore che in Italia… mah, dovrei documentarmi. Però non credo che là sia già giunto l’analfabetismo secondario, in mancanza di alfabetismo primario… glielo
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chiedo? Ma no, che idea idiota… e ora cosa fa? Legge?
Siamo in una città sconosciuta, senza meta, stanchi, disorientati, è ferito e legge? Alfabetismo analfabeta…
dov’ero rimasta? Questo è un bastardo e devo togliermelo di torno… ah no, vedi che sono prevenuta? Legge
la guida turistica… cosa ci fa con la guida di Amsterdam se era diretto a Copenaghen? Allora è bugiardo, infingardo, iellato… – pensava.
– Bitu sa cosa stai pensando: cosa ci fa con la guida di
Amsterdam se era diretto a Copenaghen? E ora te lo
spiega: Bitu…
– No, ti prego no, mi è bastato il carrello col matrimonio, ho sonno, sono nervosa, voglio un caffè.
Si guardò intorno alla ricerca di un bar apprezzabile
e scorse Harvey impegnato col cellulare.
– Questo sì che è un vero cattivo e l’abbiamo già incontrato alla stazione. Impossibile non notarlo, decisamente… però avrebbe anche potuto notarlo lui, sennò a cosa
mi serve? Certo meglio un essere inutile che sospettoso,
però quel tipo cosa ci fa qui? Ma sì, sarà un caso, del
resto noi non siamo da meno – pensò.
– Hai visto quello come ti guarda? Ci segue da quando
siamo usciti dalla stazione, se Bitu non fosse ferito vedi
che lo sistemerebbe…
– Come non detto, un hindu a declinazione islamica…
ora lo spedisco a prendermi un caffè.
Bitu respinse la sua richiesta ancor prima che avesse
terminato di pronunciarla:
– Tu sei matta, Bitu non ti lascia sola con quello là.
– Ah non mi lasci sola? Ti lascio solo io e s’alzò veloce.
– No, non andare via, non abbandonare il povero Bitu,
piuttosto lui va, anche se dolorante, anche se desideri
l’altro, ti porterà il caffè.
– E una mezza d’acqua.
Bitu, claudicando da un piede o dall’altro e alternando con balzi felini, compì in un baleno la missione senza versare una goccia.
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Harvey a quel punto era davvero scocciato, col cellulare li aveva fotografati in ogni posa: non riusciva a stabilire il motivo, ma li avrebbe ritrovati.
– Peccato che non ho portato Heinz, qui ai giardini si
sarebbe divertito – sospirò, si alzò e raggiunse il barcone. Ora era partito da giorni per consegne e se e quando
avesse fatto ritorno non avrebbe alloggiato più lì, finalmente Snake era tornato al suo posto.
Non sapeva bene perché la cosa, anziché lasciarlo
indifferente o forse rallegrarlo, un po’ lo amareggiava.
Ora, in fondo, piaceva a Heinz, sennò mica gli avrebbe
pisciato addosso: parlava poco, bestemmiava meno,
reggeva bene, tanto che non capivi mai se fosse fatto o
meno, era bravo nei giochi da tavolo e pensava ai cazzi
suoi. Escluso Lanzarote… ecco il punto. Ora aveva scovato Lanzarote, Ora riusciva a rallegrarti e ucciderti
contemporaneamente, Ora sapeva tutto senza sapere
niente e Harvey, disavvezzo al ragionamento per quoziente intellettuale, ignoranza e sconvolgimenti, intuiva
il senso senza decifrarlo… semplicemente provava una
vaga malinconia, che uccise opportunamente come entrò nel regno di Snake.
Snake era a letto, se quello si poteva chiamare così.
Dormiva, viaggiava, meditava? Harvey doveva parlargli, preparò un caffè e una striscia. Quando il compare
approdò nel mondo dei vivi, Harvey, dopo avergli relazionato su movimenti passati, impegni impellenti e prospettive future, accennò alla strana coppia mostrandogli
le foto e questi balzò fulmineamente dalla branda in un
diluvio d’imprecazioni.
– È qui, capisci è qui, porca… e ora come faccio? Meno
male che li hai beccati, hai avuto fiuto… ma lui chi cazzo è?… Fammi pensare, fammi pensare…
E intanto pestava i passi avanti e indietro, in tondo e
di traverso nell’esiguo spazio a disposizione:
– Ora. Bisogna trovare Ora, deve tornare qui. E prima di
trovare lui scovami la valigia che ho portato dall’Italia.
– Ma che succede? Spiegami – disse Harvey.
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– Non c’è tempo adesso, devi anche affittarmi un appartamento piccolo, decente e arredato. Subito. A Ora penso io.
Harvey, scattando sull’attenti per riflesso condizionato, ebbe appena il tempo di riprendersi afflosciando le
spalle, flettendo un poco le ginocchia e rilasciando gli
addominali; si diede una grattata alla tempia e inforcò
l’uscita.
– La valigia cazzo! Prima la valigia! Ma possibile che
non ne imbrocchi una? – gli urlò dietro Snake col viso
paonazzo e le arterie pulsanti.
– Oh, stronzo, mica sono il tuo servo, il tuo lacchè del
cazzo, vuoi la valigia? Cercatela! – urlò Harvey di rimando e sbatté la porta.
Snake corse verso il ripostiglio, inciampò nella valigia, sbatté il capo contro lo stipite, imprecò nuovamente
abbondantemente e si mise a sfilare i vestiti.
Fortuna che la nonna, sebbene fosse ormai un uomo
fatto, sfatto, inciso e bestiale, continuava a vederlo come il dolce bimbo indifeso che non era mai stato e, nonostante la rassegnazione a farsene una ragione, non rinunciava all’estrema speranza di una maggiore grazia
concessa, perché anche ad accontentarsi non ci accontenta mai e poi tentar non nuoce… Insomma la nonna
riusciva sempre a rifilargli una valigia stipata dove, oltre
a caciotte, olive, olio e salami, si trovavano masse di
giacche, cravatte, camicie, cardigan stile english, pantaloni non stiro linea classica, canottiere, boxer, calze di
filo e così via. Lui, non sapendo che farsene, ne conservava il minimo, distribuendo il resto fra il socio, che
non disdegnava di vestirsi da boss e i cassonetti
dell’immondizia, piuttosto che darli alle ripugnanti associazioni caritatevoli.
Scartando un paio di ciabatte di pelle fasciate in fogli
di giornale, incappò in un articolo sulla fuga di cervelli
dilagante in Italia. Pensò che il miglior modo di risolverla fosse bruciarli in partenza e in questo si era già a
buon punto, di che preoccuparsi? Appallottolò l’articolo
e passò ad altro.
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Non ebbe l’ardire di provare a indossare qualcosa,
eppure avrebbe dovuto farlo: come poteva diventare un
broker altrimenti? E tutto per una donna, cosa da non
credersi! Da un lato sperava che si sarebbe dileguata in
breve per non incasinarsi l’esistenza, dall’altro era impaziente di rivederla e avrebbe voluto moltiplicare
all’infinito quell’emozione d’attesa e sorpresa, benché
l’ansia lo dilaniasse, gli impegni… il malefico Ora: doveva trovare Ora.
Harvey, frattanto, assonnato e incazzato, si aggirava
tra le agenzie immobiliari con Heinz al guinzaglio. Lo
strattonava furente ogni volta che s’accingeva a pisciare
sui gradini, poi se ne pentiva:
– Lo so, piccolo mio, papà Harvey si scusa, pensa che
stamattina voleva portarti ai giardini, c’era un fottuto
indiano da azzannare, potevi cagare in pace… invece
no, ma guarda, più tardi ci compriamo quei croccantini
che ti piacciono tanto, OK?
E poi lo legava alle ringhiere, valutava, stabiliva, fino a che dovette pagare una multa per deiezioni su suolo
pubblico da parte della belva avvilita. Ma anche così
mantenne la promessa del premio, alternando le coccole
a profluvi d’esecrazioni tra un negozio e l’altro.
– Fottuto Snake. Non solo lo si nota a chilometri di distanza, che piuttosto poteva arruolarsi nella Legione
straniera, ma deve vivere su quella barca laida quando
potrebbe abitare in una villa. Cosa ne fa della barca?
Naviga? No! Scappa alla polizia? Ma se non sa neppure
metterla in moto e se ci riuscisse gli ingranaggi sono arrugginiti per disuso e incuria, manutenzione zero, serbatoio a secco… e come finisce? Che rompe i coglioni a
me: Harvey fai questo, Harvey fai quello… per cosa
poi? Per ritrovarmi con una multa, Ora di nuovo fra i
piedi… Ora…
In due ore riuscì a trovare l’appartamento giusto: arredato e ultramoderno. Chiamò Snake che, per ringraziamento, lo incaricò di farlo pulire e di comprare asciugamani e lenzuola, zucchero, the, caffè, aceto, sale,
salsa, olio no che aveva quello pugliese, saponette, spa74
ghetti, shampoo, birra, dentifricio, biscotti, spazzolini,
tovaglioli e quant’altro avesse reputato necessario per
far apparire la casa abitata.
Questo provocò un’altra sequela di bestemmie e corollari, ma al termine della giornata l’appartamento era a
posto e Harvey poteva finalmente sedersi in pantofole
sul divano a guardare la tele, scolare birra e coccolare
Heinz. Stranamente non desiderava altro.
Snake invece desiderava, eccome, e imprecava ancor
di più. Di Agatha nessuna traccia, neppure un sms e non
aveva risposto al suo, che taceva quel che sapeva… per
Ora la situazione era speculare e tra giravolte sottocoperta, pugni alle pareti, fumate e telefonate finì a letto
(se così si può chiamare) afflitto dall’emicrania.
Ora e Agatha gli erano necessari, sebbene per motivi
diametralmente opposti. Entrambi introvabili, vicini eppur lontani.
– Maledizione! – disse un’ultima volta e s’addormentò.
75
Meditazioni
Amsterdam, stessa notte e soliti giorni
Agatha, seduta sulla branda nella stanza ammuffita
di un hotel d’infima categoria, impugnava rilasciava il
cellulare, indecisa se rispondere a Snake. Mentire non
sapeva, ad abbandonare Bitu non riusciva e s’angustiava
vagando con lo sguardo tra la rubrica e le pareti verdognole chiazzate di pedate e infiltrazioni stantie; il lavabo
e il bidet, la vana tendina inamidata di polvere a ostruire
le confluenze di miasmi del cortile interno, il tavolino
sgangherato, gli echi di televisori e sciacquoni.
– Cosa ci sto a fare qui? Mi ha invitata Snake… pur
sempre meglio della palla al piede nell’altra stanza, che
entro dieci minuti busserà. Perché non lo mollo? Ma no,
è squattrinato, contuso… Non poteva farsi investire due
minuti dopo o finire dilaniato? Oppure rimanere indenne e vendere hot dog in eterno? Invece deve piombarmi
addosso… basta, fatemi scendere dalla giostra, non ne
posso più. Portami via di qui… ma portami chi? Al destino non si sfugge – e bussarono alla porta. O meglio,
bussò Bitu.
– Agatha cara, cosa stai pensando?
– Stavo dormendo, sparisci.
– Non è vero, Bitu lo sa, lo sai. Tu pensavi al destino.
– Se non la pianta di leggermi nel pensiero lo disintegro
– pensò e disse: – Destino, karma, reincarnazione. Tu
dovresti intendertene, una come me cosa poteva essere
per reincarnarsi nella gigantografia di un grand guignol?
Quale crimine avrò commesso, quale animale immondo
sarò stata?
– Bitu conosce la trasmigrazione delle anime nel samsara, ma non sa chi eri tu. Sa chi era lui. Un pulcino…
E Agatha vide un avvoltoio.
– Un cagnolino…
E Agatha vide uno sciacallo.
76
– Una coccinella…
E Agatha vide una scolopendra.
– Basta, sei pure allucinogeno. Lasciami dormire.
Ma lui no, non desisteva.
– Come tu forse sai, oppure non sai, non si sfugge, Bitu
è qui per lo stesso motivo per cui ci sei tu. Se tu sapessi
di quando, al tempio di Kali, dove andò camminando e
camminando, ma non era solo, con lui c’erano… allora
c’era… no, perché poi si confonde. Tanti i templi, tanti
gli amici, grande la famiglia. In India le famiglie mica
sono uno sputo come da voi.
– Da voi dove?
– Da voi, che non vuol dire da te e Bitu se l’interrompi
perde il filo del discorso.
– Ma se è da più di ventiquattrore che non produci una
frase compiuta.
– Bitu lo farà adesso. Allora… cosa diceva Bitu? Ecco,
il tempio di Vishnu.
– Non era di Kali?
– Di Kali o di Vishnu sempre tempio era.
– Sì, ma tu mi stavi raccontando del pellegrinaggio al
tempio di Kali.
– Bitu ha detto pellegrinaggio? No, ha detto che andava
camminando e camminando, il che non è la stessa cosa.
– Va beh, taglia.
– Se tu interrompi, Bitu si perde. Come la volta al tempio…
– Di Kali.
– Di Kali, che Bitu cammina, cammina, insieme a Rama, Mujibur, Rajendra, Hasina… ma c’erano anche
Sarvepalli e Rajiv… oppure no, loro erano invece al
fiume… ecco chi c’era, quel porco di Habib, che se Bitu
ci pensa… meglio che non ci pensi… ma… ah, quella
volta al fiume fu quasi, anzi fu il preludio, dell’episodio
al matrimonio della sorella… che il lurido Habib, lasciaglielo dire, era pure al matrimonio a spargere zizzania e fu per questo che…
77
– Non ricominciare perché è da stanotte che mi zompi
col matrimonio e almeno me l’avessi raccontato, invece
no! Pinocchio, Paride, Gilgamesh… l’ayurveda… basta!
– Allora tu non dormivi… tu fingevi con Bitu.
– Dormivo? Come facevo a dormire se mi tormentavi
con storie senza capo né coda? Mi indisponi,
m’innervosisci! Se non te ne vai urlo, sparisci immediatamente!
– Cammina cammina, ma no, camminano insieme: Bitu,
Rajendra, Habib, però Habib non c’era all’abluzione…
schifoso… camminano allora: Bitu, Mujibur, Hasina…
– Domani, fammi il favore, me lo racconti domani, ora
volatilizzati sennò urlo, sono stanca, depressa…
– Per questo Bitu ti racconterà del samsara…
– Ma mi senti o no? Sparisci… conto fino a tre poi grido
così forte che non avrai scampo: uno… due…
Bitu aggrinzì le sopracciglia, marciò furente per la
stanza, chiuse i pugni, tremò, poi riuscì a dominarsi. Sfilò il miglior sorriso del suo repertorio, chinò il capo, le
augurò la buonanotte e aggiunse:
– Era un giro in tondo, tutto lì, cammina cammina tornano al punto di partenza alla faccia di Kali - sbatté la
porta e se ne andò.
– Miseria ha concluso… allora è meno scemo di quel
che sembra… – pensò lei, spense la luce, chiuse gli occhi, si rilassò… e finì a Mandalay.
– Mandalay… cosa c’entra, che manco so dov’è? Ecco,
Birmania, o Myanmar… perché finisco là che chissà
come sarà? Risaie, sicuro, ma poi?… Pianure, foreste,
montagne, bambù… ci saranno i bambù a Mandalay.
Bitu, Birmania, Bangladesh… ma guarda che giro per
arrivare a Snake, Snake? Cosa m’importa di Snake?
Beh, intanto ha una bella voce, pochi capelli, purtroppo,
ma essendo un broker potrebbe rimediare… e poi affari
suoi, domani scarico il fardello e lo chiamo, dopo tanta
fatica vuoi vedere che non lo vedo?
78
Un’alba d’ovatta brumosa filtrò dalle fessure sbilenche della tapparella e Bitu, col viso di Agatha impresso
negli occhi, sbalzò dalle coperte e con fare circospetto si
avventurò in corridoio, poi dall’ingresso deserto raggiunse l’ingombro sgabuzzino dove aveva riposto (a pagamento) il miracoloso carrello e azionò la caffettiera,
che dopo lo scontro funzionava ancora meglio.
Agatha, che il caffè se lo portava a letto da sola, sopportò quasi con gratitudine l’intrusione dell’amico che,
una volta capito di non poterle sedere accanto, occupò
l’unica sedia appropriatamente traballante.
– Bitu sa cosa stai pensando.
– No, appena sveglia no… posso pensare solo a un omicidio, il tuo, se non la pianti.
– Va bene, ti aspetto in sala per la colazione.
– Prendi tu – disse Bitu svuotandole nel piatto dei dischi
rosa a metà strada tra il wurstel, il prosciutto e la soppressata.
– Non lo vuoi?
– Bitu non mangia cibo impuro.
– Ma sei induista, mica musulmano.
– Bitu sarà quel che sarà, ma questa roba fa schifo solo
a vedersi.
– Non posso contraddirti – rispose lei dopo averne assaggiato una fetta: – ma perché l’hai presa?
– Per nutrirti, tu troppo magra e nervosa, Bitu ti curerà.
– Se davvero volessi curarmi un’idea ce l’avrei.
– E quale?
– Trovati un posto dove stare che non sia io – rispose e
prese il cellulare.
– Che fai?
– Cazzi miei – rispose lei connettendosi a internet alla
ricerca di un sito sulla comunità indiana.
– Dev’esserci, per forza deve esistere, se non indiana
cinese, araba, ebraica, turca, qualsiasi cosa dove possa
depositarlo – pensava lei.
Alzò lo sguardo e lui era lì, in ammirazione contemplativa. Oppressa e stizzita proruppe:
79
– Ma dì, non hai altro da fare che starmi addosso? Non
ci son solo io qui, guardati intorno, vatti a cambiare,
compra un giornale, vai al cesso… insomma fai qualcosa.
– Perché? Bitu sta bene così.
– Merda, sono fregata.
– Ah, dici così a Bitu?
– Ma che Bitu, lo dico alla posta elettronica… ho perso
l’ingaggio.
– Ingaggio?
– La traduzione, niente più traduzione, niente più soldi… il mondo dell’editoria è un campo minato.
E Bitu vide l’amaca sganciarsi dal sostegno, il suo
corpo piombare e fili spinati, detriti, fango e pietrisco in
deflagrazioni di granate spazzare via il suo sogno. Ma si
riebbe in un istante: un permesso di soggiorno valeva
oro anche in zona di guerra… e lì guerra non ce n’era,
anzi aveva di che compiacersi. Era povero di soldi, ma
non di parole.
– Agatha cara, che vuoi che sia? Sei intelligente, bella,
se perdi un ingaggio un altro ne troverai, specie con Bitu al tuo fianco, a riparare ogni torto, illuminare i tuoi
giorni, sostenere ogni tua debolezza… niente più tristezza e rimpianti, Bitu penserà a tutto e tu sarai felice.
Agatha, che non aveva mai ascoltato tante boiate in un
colpo solo, l’osservò incredula. Era folle, ma che dicesse la verità? Si accorse della sua bellezza… e Bitu parlava, parlava, con un timbro perforante. Era così sbagliato, assurdo e inetto da parere la caricatura di un antieroe, così affettuoso da rintronarla distorcendo la sua
idiosincrasia romantica. Da un lato. Dall’altro era peggio di cappio alla gola, una cintura di forza, un’unghiata
sulla lavagna… non lo reggeva, escluso come capro espiatorio.
La comunità indiana non la trovò, tornò in camera,
chiamò Snake e nel giro di un’ora abbandonò il piagnucoloso e sperso compagno al primo crocevia. La questione lavorativa la rattristava ulteriormente, per quanto
fosse così abituata ai più bassi che alti dell’incertezza
80
costante, che neppure sapeva come avrebbe reagito a
una prospettiva di stabilità.
Come svoltò l’isolato tirò un respiro di sollievo e
provò un moto di gioia, incalzati dal senso di colpa: Bitu l’aveva scocciata al punto da rallegrarla e ora cosa
avrebbe fatto? Dove sarebbe andato? In quali pericoli
sarebbe incorso? Dubbio su dubbio e passo su passo accantonò l’argomento per seguire il percorso.
Bitu intanto, lungi dal rassegnarsi alla sconfitta, una
volta lasciato il carrello al compare indiano che lo attendeva al secondo incrocio, la seguiva discretamente
memorizzando i nomi delle vie. Era sempre stato bravo
a orientarsi e Amsterdam la conosceva bene: vi aveva
frequentato un corso di specializzazione sulle applicazioni ayurvediche in floricoltura. Per niente al mondo se
la sarebbe lasciata scappare.
Agatha scovò una panca di pietra in una piazzetta
catturata da un libro di saghe. Tetti aguzzi, camini, pinnacoli, palazzi stretti e sgargianti ostruivano l’incedere
del flebile sole, costringendolo a proiezioni frammentate
in un perplesso incanto tirolese-fiammingo adatto allo
struggimento.
– Due ore d’anticipo… potevo stare ancora un po’ con
Bitu… che s’arrangi. Dimmi perché io sono qui e tu
chissà dove. Perché mi spedisci a Mandalay… perché
continuiamo a rincorrerci su strade senza sbocco, dimostrandoci traguardi inesistenti, incontrandoci per annientarci, quando sarebbe bastato… quel che non è più.
Svaniti senza consumarci, tu cercandomi, io rassegnandomi. Neppure ormai so se è a te che mi rivolgo oppure
no. Non esistiamo più. Il peggio è proprio questo, non
credi?
Bitu la guardava e non sapeva che fare. Attendere?
Agire? Tornò sui suoi passi per riappropriarsi del carrello rapidamente restaurato, dotarsi di un mazzo di tulipani e comparirle alle spalle.
– Agatha cara, che fai qui?
– Dovrei dirlo io, non credi? Mi hai seguita?
81
– Ma no, figurati, Bitu si sta dirigendo nella city, Piazza
Dam, vedrai quanti hot dog durante la pausa pranzo. Ne
gradiresti uno? Ancora non l’hai assaggiato.
– Se hai una birra e me lo offri… gli ultimi spiccioli li
ho spesi per le stanze e il parcheggio del carrello.
– Ma certo, comunque lì a due passi c’è un’agenzia di
cambio.
Prima che finisse la frase vide lo sgomento dipingersi sul viso di lei.
– No, non ci credo! Il cassiere della filiale di credito…
– Agatha cara, che succede? Hai visto un fantasma?
– Sei un demone – gli disse osservando il paffuto, aitante e stempiato trentenne allontanarsi dalla scena con la
ventiquattrore in una mano e una ragazzina nell’altra.
– Ma no, che dici? Bitu capisce e sa perché è parte di te.
– Vade retro tu, la predestinazione e la lettura del pensiero.
– Agatha cara, sei confusa e stanca, ho qui la medicina
giusta.
– Mi mandi in farmacia a sperperare euro-fiorini e hai le
medicine mischiate alla senape?
– Ayurveda per l’anima, non per il corpo.
– Bitu…
– Sì?
– Vai a cagare. Preparami l’hot dog almeno.
Mangiando e bevendo Bitu non si dispensò dal blaterare a raffica.
– Il sé è amico del sé per chi ha vinto il sé con il sé, ma,
per chi non ha vinto il sé, il sé si comporta come un nemico.2
– Bastaaaaaaaaaaa per favore basta!
– Agatha cara, tu non capisci che il mio è amore, solo
amore.
– Ti sbagli. Se così fosse sarebbe reciproco, è un assunto matematico… almeno per le persone con un barlume
di razionalità, il che non è il tuo caso. Comunque, gira e
2
Bhagavadgītā, VI, 6.
82
rigira, tra un quarto d’ora avrò un impegno, quindi vedi
di sparire.
– E come, con chi, con che soldi?
– Non eri diretto a fare affari durante la pausa pranzo?
– Sì.
– E allora perché non li hai fatti, perché sei rimasto a
trivellarmi il cervello? Trasforma il carrello in frigo gelati e vai.
– Ma siamo in inverno.
– Allora vendi punch, ma sparisci all’istante.
– Così, senza un bacio, una promessa? Impossibile concettualizzare l’amore trasponendolo in logaritmi e ortogonali, ignorando come farà Bitu, che era solo e sconsolato e con te il sole è tornato, il gelo è svanito.
– Stasera ti telefono, domani ti offro la colazione, ma
ora dileguati.
– Ti aspetterò.
– Impiccati.
83
Children-Geriatric Kindergarten
Monopoli, marzo
– … amen. Dodici Credo, otto Ave Maria e quattro Padre Nostro possono bastare – pensò Assunta riponendo
la scopa nello sgabuzzino.
– La verità, a volte, fa schifo, ma che vuoi farci? – meditò ripassandosi l’eye-liner sulle palpebre, un velo di
rossetto, una spazzolata ai capelli e via, all’officina.
Toni, sdraiato su un carrello sotto un SUV, come scorse
i tacchi degli stivali neri girargli intorno sfilò fuori in
una delle sue migliori interpretazioni. Assunta ammirò il
trailer di Gioventù Bruciata ai suoi piedi e lo salutò:
– Salve Toni, ti disturbo?
– Buonasera Assunta, ma si figuri, lei non disturba mai
e poi per oggi ho lavorato abbastanza.
– Già… anch’io… ma non sono qui per l’auto. Certo,
una revisionata ai freni, all’olio, magari un cambio non
guasterebbe, ma non adesso.
– Mi dica, anzi mi segua in ufficio, un attimo e sarò da
lei – disse Toni sfregandosi con lo straccio le mani annerite d’unto.
Mentre Assunta valutava le donne nude su poster e
calendari, Toni aprì il mobile-bar:
– Posso offrirle una coca, un succo di frutta, un caffè?
– No grazie, preferisco un Martini – rispose lei dopo aver sbirciato all’interno.
Lui prese il ghiaccio dal freezer, riempì i bicchieri e
si sedette di fronte a lei.
– Mi dica.
– Hai in previsione qualche giorno di ferie?
– A dire il vero no, sa com’è, la crisi si fa sentire, i
clienti sono a dir poco dimezzati, tirano a ricambi compatibili e prezzi stracciati o piuttosto girano con
l’elastico sul cofano, lo scotch sugli specchietti retrovisori, il silicone sui vetri…
84
– Non importa, te le pago io.
– Cosa paga lei?
– Le ferie. Dimmi quanto ti servirebbe per week end ad
Amsterdam, che dubito possa bastare.
– Amsterdam? È accaduto qualcosa a Ciro?
– Non ancora e se tu vai, probabilmente non accadrà.
– Cosa?
– Non lo so, ma Ciro è in pericolo e tu sei l’unico che
possa aiutarlo. Lo sai com’è fatto, ha mai dato ascolto a
qualcuno?
– No.
– E invece sì, a te.
– A me? Ma cosa dice, che è sempre stato lui a trascinarmi…
– Toni…
– Sì?
– A me non la racconti, non è lui, siete entrambi, ne
avete fatte di tutti i colori e cosa ancora combiniate non
lo voglio sapere. Tu sei il suo amico, forse l’unico e andrai. Qui ci sono 1000 euro, se non ti basteranno provvederò.
– Ma signora, si figuri, non ci pensi nemmeno…
– Toni, non fuorviarmi, devi andare da Ciro.
– Sì, ma se ritiene che sia in pericolo un motivo l’avrà,
le ha telefonato, sa qualcosa?
– Mi telefona ogni due domeniche, la sera, l’ultima volta la settimana scorsa… non mi ha detto alcunché di
particolare, ma è in pericolo. Vuoi contraddirmi? Vuoi
che ti ricordi ogni volta in cui vi ho avvertiti e non mi
avete dato ascolto?
– No, va bene, che poi mi rimorde la coscienza. Lei è
preveggente con Ciro, lo so…
– Fino a un certo punto. Perché ignoro cosa intrallazzi
lassù, tranne che sia qualcosa di completamente diverso
da quel che mi dice, ma non importa… il fatto è che adesso non funziona.
Staccò l’assegno, glielo mise nella tasca della tuta e
si alzò.
85
– D’accordo, domani è venerdì, finisco l’auto e parto
nel pomeriggio. Anzi, finisco adesso e parto domattina.
– Buona idea – disse Assunta e si alzò.
– Signora, le farò sapere, e complimenti: da bambini la
catalogavamo fra le anonime figure del mondo degli
adulti senza accorgerci del suo fascino, che conserva
tuttora – le disse d’un fiato con le guance arrossate.
– Grazie Toni, mi conforti. Effettivamente un tempo ero
un’anonima figura e tale sono rimasta per chi mi gira
intorno. Un riferimento standard, un’istituzione dove
ognuno può rifugiarsi: padre, marito, figli, nipoti… un
Kindergarten dall’infanzia alla senilità. Non sono così
anonima, ma glielo lascio credere.
– Signora, non la seguo.
– Non importa. Tu credi che la legittimazione di una
donna sia l’obbedienza ai dettami familiari, doveri filiali
prima e matrimoniali poi, fino a finire nel cantuccio dei
ciarpami quando non serve più?
– Ehm… certo che no.
– Non ti credo, anche per te è così. Come la vedi tua
madre? La immagineresti partire per un soggiorno al
Beauty Farm e poi sgommare fino all’aeroporto per volare in Messico o chissà dov’altro, con i soldi ricavati
dai residui della dote investiti in azioni? Come la vedresti tua madre se avesse seguito un corso d’inglese, uno
di nuoto, uno d’informatica e giocasse in borsa?
– Penserei che è una gran puttana.
– Allora sono una gran puttana. Chiamami sul cellulare
perché a casa non mi troverai e questa è la mail – disse
Assunta scarabocchiando su un notes. Drizzò le spalle,
lo fissò negli occhi, si voltò con fare marziale, entrò
nell’auto, mise in moto e finalmente se ne andò.
– Non ci ho capito una minchia… chi è che parte? Mia
madre, lei, lei e mia madre insieme? Mah, intanto parto
io e il resto chissene… uno stacco di voleva – pensò
Toni prima di rimettersi in funzione.
86
Assunta guidava nel buio affidandosi ai fari, in preda
ad ansia e sconforto. Non si sentiva più così sicura di sé,
forse il Martini, oppure i ricordi rimessi in moto da Toni, ma ormai era fatta, non poteva tornare, non ancora.
– Trent’anni, una vita intera con lo sguardo basso e per
cosa? Per uno che si scopa le segretarie e mi fa le scene
di gelosia se chiamo l’idraulico? Ma sì, vado, parto. Li
lascio qui, mio marito e quello scombinato di Ciro. Impazziranno a cercarmi, con Toni che gli dirà del Messico e del Beauty Farm… e lui si accorgerà a quanto poco
serva una segretaria, specie ora che gli tira a stento; mio
nipote capirà che è arrivato il momento di crescere. Ma
sì, che si scervellino pure, che assumano un investigatore privato, che diano le testate nei muri… non mi troveranno.
Fra questi pensieri giunse al garage, posteggiò l’auto,
percorse due isolati e chiamò un taxi, meta Bari stazione
centrale, nella speranza di confondere a sufficienza le
tracce. Il treno arrivò, viaggio notturno, cuccetta… i Pirenei non erano poi così vicini e lassù, in uno sperso
convento, a chi sarebbe venuto in mente di cercarla?
Non le costò molto, né in denaro né in sorrisi, convincere il capotreno a cambiare il suo posto letto sovraffollato
con uno vuoto e quando infine si sdraiò era così stanca
che il clangore ritmico delle rotaie le parve melodioso.
Si voltò su un fianco, chiuse gli occhi, si voltò sull’altro,
si mise supina, li sbarrò, li richiuse e niente… nel suo
animo albergava l’istintivo richiamo al focolare. Che
poi fosse il condizionamento della consuetudine a un
focolare dai bagliori infernali, non bastava a dispensarla
dalla tormentosa sensazione di trovarsi allo sbaraglio
verso un ignoto che non le importava più, un inevitabile
troppo tardi.
– O forse no – si disse. – Forse c’è ancora tempo, almeno per Ciro… speriamo che Toni arrivi in tempo.
87
Specchi
Amsterdam in giornata
– Troia puttana, puttana troia… lo specchio nel cesso.
Ecco cosa succede a fidarsi di un negro: gli dico trova
una casa arredata, mettici quello che manca e lui cosa
fa? Appende le tendine bretoni ma non lo specchio… e
ora? Potrei dirle che si è rotto, però porta iella… no, lo
vado a comprare – brontolava Snake durante il sopralluogo alla casa prima del fatidico appuntamento e intanto si metteva in comunicazione con Harvey, alle prese
col caffè, fastidiosi flashback del giorno precedente e
pressioni sbavanti di Heinz per la prima pisciata.
– Dai un’agitata alla segatura che hai nel cervello e attiva quei due-tre neuroni che hai in dotazione: entro le
undici devi aver comprato e montato lo specchio nel bagno… va beh che sei glabro, ma lo saprai, dico lo saprai
che mi rado tutte le mattine, lo saprai che in tutti i cessi,
anche quelli dell’ultima stazione, ci sta uno specchio? E
mi raccomando stasera, quando ti presenti, in tiro e poche parole, senza bestemmie e sputtanamenti. Ehi dico,
mi senti? – urlava Snake non udendo risposta.
Heinz, che ascoltava con l’orecchio irto, si ritrasse di
scatto urtato dai decibel restituendo la linea al padrone,
che carpì:… enti?
– Tutto OK testa di cazzo, uno specchio nel bagno. Se
tu guardassi, anziché urlare, ti accorgeresti che è lì poggiato a terra, dove l’ho trovato: senza più chiodi e coi
coglioni pieni delle tue stronzate, non l’ho rimontato,
pensaci tu e vaffanculo – rispose Harvey scandendo con
lentezza le parole e interruppe la comunicazione.
– Ciò non toglie che devo trovare chiodi e martello –
pensò Snake furioso.
Recuperato l’occorrente si mise all’opera, stese una
striscia sulla lastra lucida…
88
– Specchio specchio delle mie brame, che è il più astuto
del reame? – sniffò, s’infilò un chiodo in bocca, impugnò il martello, al terzo colpo il chiodo si piegò e – Porca puttana bastarda… – centrò il pollice.
Terminata la difficile impresa scompigliato e sudato,
si risciacquò, indossò una camicia a tenui fantasie di
rombi, un jeans firmato, un paio di mocassini lontanamente imparentati con gli anfibi, si rimirò allo specchio
cimentandosi sterilmente a compensare col gel la carenza di chioma, si fece le beffe e si diresse in camera, aprì
l’anta a specchiera dell’armadio e rimase basito a guardare l’altro sé.
– Nauseante… non posso reggere un giorno così, magari un altro e un altro pure… qui ci vuole un colpo di
mano… mah, intanto andiamo.
Agatha, ancora seduta, aspettava Snake senza aspettare:
– Non è lui che avrei voluto incontrare… ma tu, in un
altro tempo, un altro mondo, che or non è più… né lui,
né tu… niente nessuno nessuno niente…
Arrivò Snake.
– Agatha!
– Snake!
– Che bella sorpresa, non ci speravo quasi… sei infreddolita, è da tanto che sei qui? – le disse abbracciandola
– No… cioè… sì, ma non preoccuparti, ero in compagnia. Anzi scusami se irrompo fra i tuoi impegni di lavoro.
– Per oggi ho finito, vieni, vorrai pranzare.
– A dire il vero no, ma berrei una birra.
– OK, andiamo.
Harvey, una volta riposto Heinz, fece il punto della
situazione.
– “… poche parole, senza bestemmie e sputtanamenti.”
Gli ordini ai sudditi! Stattene lì a pontificare, senza sapere con chi hai a che fare… Guerra vuoi? E guerra avrai. Entro le cinque dovrei aver finito di combinare e
parargli il culo e mi rimarranno due ore libere – pensò,
si mise un libro sotto il braccio, sbatté la porta e corse
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via. Prima ancora che planasse sul marciapiede, il cellulare squillò nuovamente:
– Merda, di nuovo Snake – si disse e rispose.
– Harvey, cazzo, lo sgabello. Per favore, appena riesci
portalo in casa… grazie.
– OK, faccio subito – e pensò: – Un vaffanculo gli ha
fatto bene, ora ringrazia pure, vorrà dire che accantonerò le ritorsioni – e si diresse al barcone a recuperare il
pezzo.
– … Un’altra delle sue fisse: non solo vive in un canale
secondario su un barcone dissestato, ma deve sedersi in
equilibrio sullo sgabello e guai a chi glielo tocca… un
bastardo affezionato a un treppiedi vacillante… vacci a
capire, ma certo il fatto che lo voglia nel nuovo appartamento è preoccupante: o ci starà un pezzo o ha perso i
riferimenti, stasera valuterò.
Snake, con lo zaino di Agatha in spalla, scortò
l’amica in giro per la città fino al pomeriggio inoltrato,
poi si diressero a casa.
Agatha, varcando la soglia, si chiese se non fosse finita nella tana del lupo, sostò indecisa nell’ingresso, ma
Snake la spinse dolcemente verso l’interno, accompagnandola fino alla camera riservata agli ospiti.
– Porca troia non ho controllato se il letto è fatto – si
disse, ripose a terra lo zaino e si allontanò: doveva telefonare.
Agatha, stanca, si sdraiò: – Che odore di nuovo c’è
qui, dev’essere poco che Snake ci abita… mobili hi–
tech, il copriletto ha ancora l’etichetta…
Ma non riusciva a rilassarsi, aveva bisogno di una
doccia. Aprì l’armadio, trovò accappatoi e asciugamani
perfettamente ripiegati e rabbrividì:
– … Maniaco?
In bagno anche la saponetta, il dentifricio, lo shampoo erano nuovi…
– … Ossessivo compulsivo?
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Il soffitto rotondo sosteneva un lampadario ellittico!
Le girò la testa.
– … Morboso? Possibile che Snake nel poco tempo a
disposizione fra la mia telefonata e il nostro incontro
abbia organizzato tutto? Non abitava qui…
Il castello incantato? Snake era l’orco o il principe
azzurro? La risposta veniva da sé, ma in qualche modo
appagava Agatha ché i principi azzurri non li reggeva.
Un attimo dopo, nello scroscio bollente della doccia,
non aveva più voglia di pensare. Si fregò a lungo con
l’asciugamano che per la concia respingeva l’acqua anziché assorbirla, estrasse il phon dalla scatola sigillata e
una volta asciutta rientrò in camera, lasciò scivolare
l’asciugamano e si guardò nel lungo specchio
nell’angolo. Rimase ferma a fissarsi, poi girò su se stessa, su un profilo, sull’altro, tornò a fronteggiarsi, scorrendo senza guardarsi negli occhi dall’alto in basso, dal
basso in alto, fino a bloccarsi e alzare lo sguardo nel suo.
– Non si vede niente. Niente disintegrazioni o voragini e
quel bianco nefasto di grigiore sfocato… niente… –
sentì l’onda salire, entrarle nel petto, artigliarlo e scavare e non voleva, non doveva pensare… la morsa
l’afferrò, si ritrasse e crollò sul letto, la serratura scattò,
Snake era tornato.
Sollevata per l’opportuno diversivo, Agatha si alzò,
si vestì velocemente e si diresse in cucina. Snake
l’abbracciò forte, stappò una birra scura, le chiese se
gradisse la musica, rispose di no, lo strinse e non le importò.
Si sedettero, Agatha sul divano e Snake, molto più
allegro di quando era uscito, sullo sgabello, parlarono
del più e del meno, tuffandosi a volte nelle rispettive vite, dicendo senza dire e ridendo insieme. Avrebbero dimenticato di cenare se l’orologio a cucù, che Harvey
aveva opportunamente acquistato in un negozio di rivendite fallimentari per disturbare con un tocco kitsch
(che non sapeva cosa fosse) l’equilibrio asettico
dell’arredamento e lo squilibrio neurologico di Snake,
che non sopportava il ticchettio delle lancette, detestava
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le sveglie, aborriva i pendoli, sacramentava alle campane e saltava come una molla al minimo rumore, non avesse emesso una serie di acuti cinguettii, guizzi molleggiati e battute di sportello.
Snake sussultò sollevandosi di mezzo metro, dopo
vari equilibrismi ondulatori sulle stanghe puntò i piedi,
si rimise in sesto e andò in cucina. Non voleva uscire,
non aveva idea dei ristoranti della zona e detestava il cibo fiammingo. Sciacquò una pentola e una padella, aprì
il frigo, estrasse gli ingredienti, un pacco take-away e si
apprestò a preparare una carbonara. Pur non fregandogliene un tubo dei gusti e delle aspirazioni di Agatha, si
prodigò nel farle credere il contrario asserendo di non
volerla stancare con un’uscita e decantandole le sue doti
culinarie. Agatha approvò di buon grado l’iniziativa, si
sdraiò sul divano e lo lasciò fare. Si accese una sigaretta, soffiò fuori il fumo liberandosi di immagini e pensieri ossessivi. Come una bambina guizzò in piedi e raggiunse il suo orco in cucina. Le manone di Snake impugnavano una frusta per sbattere le uova. L’abbinamento
le suonò strano, quasi incomprensibile, come un neonato che fumasse. Nonostante gli sforzi di manone e tatuaggi la crema non voleva saperne di salire.
– Alla faccia dell’arte culinaria – pensò con un sorriso.
Mentre Snake iniziava a sudare, Agatha gli si pose di
lato, cercando di catturarne lo sguardo inutilmente.
Agatha terminò la sigaretta. Con due dita sollevò il
mento di Snake. Sorrise. Insieme guardarono l’altra mano di lei lasciar cadere la sigaretta. Il filtro galleggiava
in un laghetto arancione in compagnia di alcuni pezzi di
cenere alla stregua di sparute scialuppe.
L’ira funesta di Snake non si fece attendere: in un attimo una nuova tinta uovo colorò la breccia sul muro
generata dal lancio di una scodella pesante come un
universo. Non gridò: emise un ruggito sordo, preludio
di un silenzio incandescente, spalancò la finestra e scagliò le fruste sul praticello arido e buio; avrebbe preferito un burrone senza fondo, ma era al primo piano… gli
parve di scorgere un’ombra in agguato, ma non ebbe il
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tempo di metterla a fuoco che svanì. Richiuse le ante
con violenza, passò uno straccio ad Agatha indicandole
con un cenno del capo il muro imbrattato di tuorlo, prese le tre uova superstiti, un’altra scodella, una forchetta
e in un attimo riuscì nell’impresa; tagliò la pancetta, si
versò ancora birra, girò una sigaretta e l’accese.
Agatha lo guardava di sottecchi dibattuta tra rabbia e
ilarità:
– Infine ce l’ha fatta, inutile, è simpatico – si disse.
– Cazzo che voglia di calarle i pantaloni e sbatterla sul
tavolo – pensava lui immaginando la scena, ma si represse, non voleva rovinare tutto, peggiorare le conseguenze di quell’intermezzo di scontro che gliel’aveva
resa ancor più affascinante. Così si limitò a farle una carezza sui capelli, sollevarglieli e posarle un bacio sulla
nuca, prima di estrarre dal mobile tutto l’occorrente per
una cena a lume di candela.
La tovaglia a quadretti bianchi e rossi era rigida come un baccalà e Snake vi pose delle strategiche fette di
pane a distenderne le pieghe, ma rimasero in equilibrio
precario sulle rette, allora le abbatté con i piatti, complimentandosi silenziosamente con Harvey per la scelta
degli accostamenti: il ragazzo aveva gusto, glielo riconosceva e del resto lo sapeva da come abbinava gli abiti
che gli rifilava.
La tavola apparecchiata non era romantica, ma poteva andare, calò gli spaghetti nella pentola, prese l’olio
per l’ultimo tocco, versò il vino rosso nella caraffa, fece
accomodare l’amica, che osservò:
– Tutto quel che vedo è nuovo: ti sei trasferito da poco?
Snake, imbarazzato, finse uno straripamento dell’acqua
in ebollizione e si rifugiò in cucina dirottando
l’argomento sulla potenza dei fornelli, infine rispose:
– Sì, stavo in un appartamento galleggiante, scaduto il
contratto sono venuto qui e ho dovuto comprare tutto
l’occorrente, ci abito da circa una settimana.
Durante la cena rimasero in silenzio, lui sfiorandole
ogni tanto un piede con il suo, intromettendosi piano a
stabilire un lieve contatto fra le ginocchia, a intermitten93
za, fino a creare uno stato d’irreale eccitazione. Si guardavano a tratti, poi abbassavano lo sguardo, lei scoppiava a ridere, lui pure… e andarono avanti così per un
pezzo, con Snake che si alzava a cambiare i piatti, mettendo in tavola salame e olive pugliesi, formaggi olandesi, frutta secca, biscotti, scolando la cera dalle tre
candele rosse, versando un altro bicchiere di vino, infine
prese un bourbon e due bicchieri.
– Se preferisci ho anche grappa artigianale, vodka,
whisky…
– No, va bene così, rispose lei, afferrò bicchiere e sigarette e si sedette sul divano.
Rimase altamente irritata quando vide Snake passare
i piatti sotto lo scroscio del rubinetto e riporli nella lavastoviglie… sembrava una casalinga frustrata, ma anziché esplodere si alzò e andò ad aiutarlo. Stavano vicini,
le loro spalle si sfioravano, lui chiuse lo sportello, versò
il detersivo e le cinse la vita, prese il bicchiere, la spinse
dolcemente sul divano e rimase in bilico tra questo e lo
sgabello… lei lo fulminò con lo sguardo, lui scelse il
secondo ma incrociò subito le gambe con le sue, in un
compromesso reciprocamente soddisfacente: temeva
che sedendosi sul soffice gli sarebbe calata l’erezione,
invece voleva prolungare quello stato simile alla trance
il più a lungo possibile.
Quando, al terzo sorso di bourbon, la mano destra di
Snake aveva quasi raggiunto il cavallo dei jeans di Agatha, il cucù emise la terza assordante cantilena, al che la
mano finì lì di scatto, aprì la zip in un sussulto automatico, lo sgabello cadde, Agatha alzò i fianchi, lui le sfilò
mutande e pantaloni a mezza coscia, avvicinò le labbra
all’ombelico… suonò il citofono.
Scattarono in piedi, ricomponendosi frenetici.
– Merda Harvey… me l’ero scordato – bofonchiò Snake
dirigendosi alla porta.
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Intrattenimenti
Casa
– Bonsoir mes amis, madame… – esordì Harvey entrando a gran passo nel salone; raggiunse Agatha,
s’inchinò un poco con una mano sul cuore porgendole
con l’altra un enorme mazzo di tulipani multicolore:
– Madame, je suis Harvey, enchanté – rialzò il capo, posò i fiori sul tavolino in acciaio e plexiglass, le lambì le
dita della mano destra e la baciò impercettibilmente.
Snake studiava il socio addobbato in completo gessato
grigio, cravatta a farfalline giallo pallido su fondo azzurro, camicia debolmente turchese, gemelli ai polsi,
calzature di vernice nera e atterrito scongiurava che
questi non avesse in serbo un colpo mancino. Sperò che
in francese contenesse gli improperi che affollavano ogni suo albeggio di proposizione e che rimanesse solo il
tempo di stupire ed accordarsi per il proseguimento della tresca. Intanto l’erezione si era ritirata al minimo storico, con lo strascico del persistente indolenzimento.
Agatha, stupefatta e ammaliata dal possente Harvey,
provava l’inquietante sensazione di un dejà vu e si frugava nella memoria. Nel mentre lui aguzzò lo sguardo
sui vetri della finestra e corse ad aprirla:
– Rien… – disse richiudendola rivolto agli amici – eppur m’era parso di vedere un’ombra… Oh, mais oui, ne
raisonnons pas à demandes e problèmes, mais au divertissement, ne c’est pas? – e si sedette sul divano, poco
mancò che si sbracasse, ma si ricompose, Snake gli porse un bicchiere e si accomodò sullo sgabello, confidando nel suo influsso confortante.
– Oh, quel incarnat, quelle figure… et les lèvres, les
cheveux… ah vous êtes une matérialisation sortie par
rêves, c’est impossible que vous êtes réel… – disse ad
Agatha.
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– Mais oui! – sbottò Agatha – Ecco dove t’ho visto: ieri
alla stazione! – pentendosi all’istante della propria imprevidenza.
Snake, per dare il tempo ad Harvey di trovare la risposta adeguata, sbottò a sua volta:
– Ieri? Ma non sei arrivata stamattina?
– … Ehm, sì, cioè sì e no, ecco, io… – fu la risposta di
Agatha, prontamente incalzata da quella di Harvey, già
inclusa nel piano:
– Oh oui, madame, mais c’est vrai comme-ci comme-ça,
invraisemblable vous avez vu mon frère Janis, il est à
moi comme le jour à la nuit, si ce n’est pour le visage e
le corps… nous sommes gémelles extérieurement, mais
non dans l’intériorité… malheureusement il est ma
damnation, il ne veut pas savoir de mettre sa tête à
place, non plus qu’il fait avec son coiffeur da rasta –le
rispose andando inconsciamente a tastare l’elastico e i
quintali di gel nei quali aveva imbrigliato i riccioli dopo
averli lisciati nella piastra.
– E scassam’ù cazz… – tuonò Snake balzando in piedi:
– minchia, non ci capisco una sega, manca solo che tu ti
metta a recitare.
Agatha, che stava per cascarci, fu scossa da un brivido gelido che partì dalla nuca per solcarle la schiena,
mentre Harvey, in piedi al centro della sala, declamava:
– Con grazia getto lontano il cappello/e piano lascio
cadere il mantello/mentre sguaino dal fodero la spada/per colpirti laddove più m’aggrada… – mimando la
scena s’impappinò e riprese: – … Facevi bene a restartene zitto./Dimmi, dov’è che vuoi esser trafitto? – e, con
un inchino plateale:
– Cirano di Bergerac, s’il vous plaît.
Agatha scoppiò in una risata isterica, quei due la divertivano un mondo, ma intuiva che qualcosa non andava e non si spiegava i tanti elementi contraddittori che le
affollavano la mente…
– E se fossero dei folli criminali? Enormi come armadi e
io sola in loro compagnia! Nessuno sa che sono qui…
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Si alzò e corse in camera, afferrò il cellulare e
l’infilò nell’orlo delle mutande. Tornando le parve di
scorgere un movimento fuori dalla finestra, ma pensò
fosse suggestione: la luce era fioca, l’atmosfera assurda,
e si distrasse accorgendosi del confabulare dei due:
– Mi dici di venire in tiro e poi te ne esci con scassam’ù
cazz? – sussurrava Harvey.
– Ma sì, quella ha già capito, non tutto… e poi se scassi
cosa posso dire? – rispondeva Snake.
Agatha si risedette con falsa noncuranza, li osservò,
loro le sorrisero e versarono ancora un goccio, disponendosi a caute confidenze.
Nel frattempo Bitu, dopo aver rischiato ripetutamente di venir smascherato, decise di abbandonare
l’appostamento e si allontanò. Agatha non era sola, anche se non lo sapeva, come non sapeva quale fosse, nel
contesto, il pericolo peggiore.
– Ragazzi, ditemi quel che m’aspetta, che ciò che pavento mi si sveli in fretta – disse Agatha adeguandosi
all’atmosfera. – Da parte mia posso rivelare che il
karma mi vuole angustiare, son giunta anticipatamente
tallonata da un soggetto insistente.
– Ecco il mistero di quel che ieri ero: t’ho scorta da lontano in compagnia d’un tipo strano, parendomi smarrita
a distanza t’ho seguita, poi per la tua bellezza t’ho ritratta
con destrezza, la foto a Snake mostrai e infine me ne
andai, cercando soluzione alla combinazione.
– A dir il vero la soluzione l’ho trovata io, ma sorvoliamo, ché poi ne riparliamo. Come accoglierti degnamente… – disse Snake
– Su un barcone fatiscente? – interloquì Harvey.
– E fatti i cazzi tuoi! – lo rimbeccò Snake. – Insomma a
tagliar corto ho estratto un domicilio senza ragione o
torto, per questo il tuo sospetto su tovaglie e copriletto
non era poi infondato, ma ora è dissipato.
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– Insomma mica tanto: un rasta alla stazione, un broker
su un barcone, una farsa imperfetta mi lasciano interdetta – rispose Agatha.
– Se ancora resterai il resto capirai – le disse Snake
guardandola con dolcezza.
– Beh, io tolgo le tende – disse Harvey alzandosi e raggiungendo la porta: – ci si sente domani.
Aprì e si trovò di fronte un giovane disfatto:
– Vi ho trovato finalmente…
– Ma come hai fatto? – chiese Harvey stupito.
– Eh, è lunga a spiegarsi e non ce la faccio… ecco i soldi, dai, dai, presto…
– Agatha, riconoscendo la voce, s’avvicinò alla porta:
– Di nuovo lui: il cassiere della filiale di credito… guarda com’è conciato… e cosa cerca?
Snake la prese alle spalle e l’allontanò, uscì fuori,
eseguì rapido la commissione e intimò al cliente:
– Sparisci e non venirmi più a cercare senza avvertirmi,
intesi?
Il cassiere s’infilò la bustina in tasca e fuggì di corsa,
finalmente libero e niente più turchi, gorghi e filiali.
Agatha riprese a sospettare dei nuovi amici, ripensò
anche all’odioso Toni… non le piaceva quella situazione, ma era stanca, era tardi, e meno male che l’arrivo di
Harvey aveva interrotto le operazioni… ma ora che lui
se n’andava come avrebbe fatto?
Per prima cosa si rinchiuse nel bagno e si mirò allo
specchio chiedendo alla propria copia una decisione che
non arrivava… dove poteva andare? E poi voleva andare? Cosa le importava dei sistemi di Snake, lei era sua
ospite, niente di più. E tale sarebbe rimasta. Con
l’ultima frase in testa uscì e si rintanò in camera, poi ci
ripensò:
– Dovrei almeno augurargli la buonanotte – e tornò in
sala. Snake non c’era, sospirò e tornò sui suoi passi, ma
lui le sbucò alle spalle e la dirottò nell’altra stanza, la
sua.
Nell’ambiente aleggiava il costante odore di nuovo,
non un granello di polvere, tutto in asettico e spoglio
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ordine. Solo l’anta a specchiera dell’armadio era aperta
a ricreare un altro letto. Agatha s’irrigidì e disse:
– No, no, sono stanca e…
– Taci – le ordinò Snake infilandole in bocca la lingua
borchiata e slacciandole i jeans prima di buttarla sul letto. Si calò i pantaloni estraendo un condom dalla tasca,
lei urlò, la zittì con una mano sulla bocca e una presa al
fianco, poi la guardò negli occhi e si bloccò. Capì che
così l’avrebbe persa, allora la strinse a sé, si scusò, le
accarezzò i capelli, la baciò sul collo e sulle labbra, e iniziò la discesa togliendosi i vestiti.
Agatha accantonò i deboli propositi e, con poca convinzione, lo lasciò fare. Ammirava nella flebile luce i
contorcimenti di serpi, catene e basilischi, vagheggiando
negli interstizi liberi improponibili congiungimenti in
vorticose geometrie. Con la mano di Snake accanto al
viso, percorreva le trame e fantasticava anagrammi
mentre lui, frustrato, aumentava l’impegno; sentendola
sfuggirgli la bramava, lei sentendolo aggrapparsi lo respingeva. Nella sua mente le figure si trasposero e provò
ripulsa per il rettile, il suo insinuarsi ambiguo, gli innesti metallici. Si contrasse, lui alzò il capo e le chiese cosa avesse. Rispose: – Niente –, pensando – Se vuoi stare
in cima alla classifica del nulla, sei il benvenuto.
Gli accarezzò una guancia, poi con le dita valicò lo
sfocare della ragnatela dalla nuca alla fiammata del drago inciso fra le scapole. Scese ancora, provò a distaccare la mente dal corpo: chiuse gli occhi, decontestualizzò
il sentore vischioso, bloccò analogie o rievocazioni e
concesse un barlume di partecipazione. Lui la girò con
forza, ora poteva dominarla e lei, sorpresa da tanta audacia per una prima volta, tentò di reagire, ma fu sopraffatta finendo in ginocchio aggrappata alla testiera.
L’incastro, netto e preciso come un ingranaggio, scevro
da baci ed effusioni, assunse un ritmo selvaggio e rovente che li travolse entrambi finché espirarono, non
all’unisono, ma grati per averla chiusa in un tempo decoroso senza gloria né danno.
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Snake, contraddicendo abitudini e aspettative, si avvicinò ad Agatha, la accarezzò e le posò un lieve bacio
sulla guancia. Lei non ricambiò, era concentrata sul ristagno di sperma dell’ultimo atto che, dall’incavo dorsale, le scivolava a intermittenza lungo il fianco. Il residuo
le solleticava la pelle, traccheggiando tra l’essiccazione
o l’estremo sgocciolamento e rievocando l’incongrua
immagine di un laghetto glaciale destinato a estinguersi
nella calura. Lui si alzò per recuperare bourbon e sigarette, tornato la trovò voltata su un lato, aveva pianto un
poco; le passò il bicchiere, lei si raddrizzò e, con fare
indifferente, bevve un sorso e accese una sigaretta.
Distesero le lenzuola rigide e provarono a dormire.
Snake si sentiva naufragare, il vuoto lo assaliva a ondate, in reminiscenze di sensazioni inafferrabili e sepolte.
Giaceva supino senza saper che fare, finché, indipendentemente, il suo braccio s’alzò portando la mano a
sfiorare il capo di Agatha.
Lei, vagamente affranta e divagante fra i sogni assassinati, provò immenso fastidio e rimase immobile fingendo di dormire. Analizzava sintomi, sfumature e visioni stabilendo classificazioni del dolore da un altro
mondo, chiuso e oscuro, insondabile distanza che la separava dalla realtà. In pochi istanti aveva soppesato un
dispiacere a bassa intensità, sopportabile e degnamente
bilanciato dall’appagamento fisico, che bisogno aveva
Snake di disturbarla?
Snake, carezzando la sua rigidità più consona a un
cadavere che a una dormiente, si sentì trafitto da una
lama affilata ed escluso da una distanza di gelo. Si alzò
e, rammaricandosi di aver censurato la propria bestialità
anziché darvi fondo, sostò a rilassarsi in cucina prima di
ritirarsi nell’altra stanza, col proposito di riuscire in breve nell’impresa più difficile che mai gli fosse occorsa o
di gettarla nei rovi senza ripensamenti. Agatha si accorse di tutto e, consolata dalla riconquistata solitudine, si
addormentò.
100
Scorribande
Amsterdam esterni
La mattina Agatha si svegliò al clic della serratura.
In cucina trovò una caffettiera pronta sui fornelli, brioche e un biglietto di Snake che le augurava un buon risveglio.
Il cielo aveva cessato di essere pioggia e mostrava un
primo sole come un bel regalo per tutti. Harvey, del sole, non sapeva che farsene; detestava il sole e, tutto
sommato, anche il mare, ma da quando era al mondo lo
aveva davanti continuamente. Guardava al mare come si
guarda a una porta d’emergenza. Tutto brucia, c’è
l’uscita. Nella sua vita, il mare lo aveva preso più volte:
la prima, era poco più di un bambino. Suo padre aveva
venduto tre uliveti per farsi dare settemila euro e mandare suo figlio dallo zio. Bella idea, Harvey, vai in Europa, facci tutti ricchi! La partenza però non fu da ricchi: un pullman con la gente legata per non cadere lo
portò fino a Ceuta. Le barche su cui facevano salire tutti
erano più derelitte del pullman, se possibile; all’arrivo
era notte e li avevano messi a dormire in un grosso prefabbricato dove, comunque, stavano compressi come il
gas in una bombola. Durante la notte aveva dormito in
piedi dopo aver capito che l’umido del pavimento non
era una condensa ma l’effetto di centinaia di pisciate,
compresa la sua. Qualche ora dopo, li imbarcarono a
forza sui legni che ospitavano grossi evinrude a prima
vista poco affidabili.
Fu scosso dai ricordi dal bip di un sms ed entrò Snake:
– Toni è qui – disse guardando il cellulare – sta parcheggiando. Minchia… proprio ora doveva arrivare… e
Ora? L’hai rintracciato?
– Niente, non risponde neppure al numero riservato,
scomparso e siamo in ritardo con la consegna. Però potremmo usare Toni, che ne dici?
101
– Ma Toni cosa vuoi che ne sappia…
– Questo lo credi tu.
– Cosa vorresti dire?
– Eccomi, ciao, come va? – disse Toni entrando sottocoperta – e abbracciò i due amici. – Sono stanco morto,
ho bisogno di una doccia e un letto.
– Toni, cosa ci fai qui?
– Non sei contento di vedermi?
– Sì, certo, però mi sembra strano – rispose Snake.
– Beh, è una storia lunga, se disturbo…
– Ma no, figurati, da un certo punto di vista capiti a proposito, anche se in effetti avrei qualche problemino…
– Ma tanto c’è Harvey a risolvere tutto, dai, non preoccuparti. Devi sapere che Snake si è perso dietro a una…
– Eh no! Non t’è bastato quel che hai combinato ieri sera? Taci – gli ordinò Snake. – Toni, mettiti comodo, ti
preparo un caffè e poi ti spiego come butta – disse
all’amico.
Toni, dopo una doccia scomoda e striminzita, si
sdraiò sulla branda, con una tazza di caffè e un tiro di
coca si rimise in sesto e ascoltò le novità. Aveva deciso
di non rivelare a Snake il motivo della visita, ma osservandolo di sottecchi notò che appariva nervoso, aveva il
volto tirato e le occhiaie attorniavano uno sguardo incredibilmente più spietato del solito.
Harvey, fissato per gli status-symbol, frattanto inseriva Toni nel rango dei privilegiati. L’ultima volta che
s’erano incontrati trasudava benessere, ma ora stava esagerando. Giacca, maglione e jeans firmati, Rolex al
polso, capelli corti, basette, ciuffo cascante… iniziava a
stargli sui coglioni. Il che, tutto sommato, giocava suo
favore: non si sarebbe fatto scrupolo di utilizzarlo ai
propri fini.
Harvey era attentissimo agli aspetti esteriori delle
persone: il portamento, la voce, l’abbigliamento, gli accessori, i cellulari, le auto… Per strada, sulla metropolitana, sui bus, al supermercato, nei bar, ai semafori, analizzava, supponeva, catalogava. Detestava i falsi derelitti vestiti da straccioni firmati e compativa gli sciatti mi102
serabili che rincorrevano il trend. Nelle sue oscillazioni
d’identità spaziava dal rasta-grunge allo chic senza
scomporsi, era una questione di ruoli, sapeva adattarsi
alle circostanze fino a immergersi nella parte e preferiva
quella dominante. Era fiero d’impersonarla perché gli
piaceva l’ostentazione, pur disprezzandone intimamente
i rappresentanti. Infiltrandosi nella casta si prodigava a
corromperla, assaporando il suo trionfo di fronte alla
miseria umana, rispetto alla quale la ricchezza materiale
era nullità.
Cambiava ruolo senza scordare il suo villaggio, la
famiglia e il fratello naufragato rincorrendo una chimera. Non avrebbe dimenticato mai, ogni sua attrazione
per il campo avverso era finalizzata alla rivalsa contro
ogni emblema di potere: il bianco facoltoso e quanti si
adeguavano al suo sistema, a prescindere dalla posizione e dal colore della pelle.
Avendo compreso in breve che raccogliendo ortaggi
o vendendo ombrelli e partecipando a riunioni, canti o
preghiere avrebbe dovuto vivere tre volte per raggiungere lo scopo, che affidandosi ai sistemi d’integrazione
governativi avrebbe svolto la funzione di servo, trovò
nel business dello spaccio quanto auspicava. Lì poteva
vederli strisciare, ridursi a larve, nei casi migliori rovinarsi o crepare, divorati dall’ingranaggio da loro stessi
ideato. La conta dei corpi non avrebbe mai approssimato le proporzioni degli abusi perpetrati per secoli contro
la sua razza, né gli avrebbe restituito il fratello. Però un
certo contributo lo dava, di questo era certo, la sua era
una missione e se ne compiaceva.
Essendo in tenuta rasta guardò l’ora sul cellulare, inviò un sms, si accordò con gli amici e uscì frettolosamente.
Bitu frattanto, dopo aver scovato la postazione adatta
al carrello, sbirciava da un lurido chiosco affacciato sul
canale i movimenti del nemico. La presenza di Harvey,
che aveva subitamente riconosciuto la sera prima, aumentava i rischi del progetto aleatorio che si accingeva
a compiere. Più volte, durante l’interminabile apposta103
mento serale, si era lasciato cogliere dal dubbio chiedendosi se non fosse il caso di cambiare i piani prima di
riprendere il viaggio verso la Danimarca, meta originaria. Ma poi si ricredeva, quell’incontro era un segno di
Shiva: doveva sottrarre Agatha dalle grinfie di quella
coppia di scellerati e farla sua. Nel loro giardino avrebbe piantato un banano, immaginava il porticato della
villa vittoriana in un’istantanea da soap opera brianzola.
L’alternativa era tenebra e per il momento preferiva accantonarla, sebbene a tratti il panico lo assalisse.
My dear dead,
sono giorni tetri, ho pensato a come sarebbe stato bello
poterti raggiungere in una soffitta… Vorrei, ma no, non
lo farò… ecco, cancello tutto.
Come vorrei riuscire a spiegarti cosa si sente dentro…
forse lo sai? Quando il sogno crolla, la voce svanisce e
non resta niente. Ma perché dovrei? E tu, perché tu, se
tu non sei?
Cancello, cancello, cancello.
Agatha non inviò la mail e guardò fuori dalla finestra
cercando di stabilire un impegno decente per far scorrere le ore verso altre ore, finché anche quel giorno finisse, verso altri giorni… insomma verso. Il cielo cupo e il
panorama sul giardino compresso tra lugubri facciate
non l’aiutavano. Ci fosse stato un ciuffo d’erba, un ramo
non del tutto secco, avrebbe inventato un bosco o un
verde giungla e la malinconia sarebbe stata minore.
Guardò i tulipani donatele la sera prima nel loro vaso
giallo, colorati, fioriti, ma la loro vita era recisa, finita.
Rovistò nello zaino alla ricerca della piccola guida, al
momento non era un gran problema, come tanti avrebbe
cominciato dal Museo Van Gogh, poi sarebbe passata
alla tradizione, Van Eyck, Van Dyck, Vermeer… Ma la
decisione affogò al primo passo, l’inaffidabile non sense, capace di annientare il suo antidoto contro il nulla,
bloccò il movimento. Ma no, doveva andare, non lasciarsi soffocare.
104
Mise il notebook alla ricerca di segnali, non tutti
condividevano quel sistema allo sfascio, la miseria intellettiva e materiale che troppo travolgeva. Un minimo
dissenso qua e là lo si trovava. L’illusione, forse, che
qualcosa si potesse smuovere. Una sovversione non si fa
su una tastiera, ma poi la si voleva? Gli strati più disagiati, quanti l’indigenza la provavano davvero, la maggioranza degli abitanti dell’emisfero, usavano forse
internet per dibattere sui divari sociali? Se sei povero
non hai il PC e non ti fotte di dibattere. Se ti arrabatti
per campare arrivi a non porti il problema. Con una deprivazione minore magari usi la parabolica per guardare
un reality show anelando di sedere all’ingannevole abbuffata e sfuggire alla condanna. Eppure, anche grazie a
internet, che aveva catalizzato il disagio contro la sopraffazione economica e sociale, la rivolta, con quella
forza misteriosa che muove i popoli, era scoppiata. Tunisia, Egitto, Libia, dal Maghreb all’Arabia era un incendio, nella quasi indifferenza di chi povero non è…
Tutto laggiù stava cambiando e con quali conseguenze,
oltre alle migliaia di vite perse nella lotta, ancora non si
sapeva; l’occidente guardava e teorizzava. Infine avrebbe scelto la guerra, ma questo doveva ancora accadere,
intercalato dal cataclisma del Giappone.
In quell’intermezzo temporale Agatha considerava
che qui, rispetto a un passato non remoto, la diffusione
del sapere era notevolmente aumentata, un sottoprodotto
di democrazia si era diffuso, ma il risultato finale non
era granché incoraggiante. Probabilmente si preferiva la
sudditanza, scevra da elucubrazioni e dubbi, accettare il
sistema o collaborare a perpetuarlo, dicendosi che potrebbe andare peggio, senza porsi questioni sul fatto che
tanti non possano tirare neppur questo, bastava non pensarli, non guardarli, non cercarli e ogni tanto fare una
donazione con qualche zero finale ai principi edificanti
a salvaguardia delle deprivazioni. Forse la differenza era
che non occorreva essere giornalisti, scrittori, inviati
speciali, opinionisti, stilisti, pittori, registi o star, per
mandare un segnale di contrarietà che superasse i confi105
ni dei sedili di un autobus, del banco di un bar, dei muri
dei palazzi o dei bagni pubblici. Critiche, commenti, iniziative, giravano in web, seppure in una concezione
geocentrica, circoscritta al modello dominante più quotato del momento. Erano resistenze o palliativi allo
sconforto totale, incertezze vaghe, miraggi di cambiamento?
Agatha non sapeva fin dove il mondo nello schermo
fosse vero e dove no, fin dove il suo potenziale possedesse incisività. Pensando al suo paese, dove i maggiori
oppositori al regime erano comici che non equiparavano
la buffoneria dei suoi rappresentanti, rievocava giullari
di corte e sorrisi sguaiati. Una delle rare reazioni decenti
alla loro indecenza, al momento, era la rete, che infatti
tentavano d’imbrigliare, ma in concreto?
Infine l’unica certezza, considerato il principio
d’indeterminazione e la poca propensione a darsi una
risposta sgradita, era che quel diversivo l’aveva distratta
per un po’. Condivise qualche link, accese la radio, si
cambiò, uscì.
106
Viaggio
Strade olandesi
Il furgone arrancava spompato sull’asfalto avvolto
nella nebbia gelida e Ora, nervoso, stritolava il volante
scattando il capo in avanti mimando un’impossibile accelerazione. Il motore era stato controllato, che fosse la
benzina? Eppure aveva fatto il pieno… forse il carico,
già, cos’era il carico? A intuito non gli pareva eccessivamente pesante, forse era solo un mezzo fottutamente
scassato che stava per esalare l’ultimo respiro lì, su una
strada maestra in mezzo a una landa desolata in un punto a nord di Amsterdam, adesso che non si leggeva più
un segnale e il bianco ovattato diventava grigio, la linea
della corsia scompariva e qualche catarifrangente sparso
qua e là non forniva l’orientamento.
Si stramaledisse ripetutamente, batté il pugno sul
cruscotto, spense il talk-show-dibattimento sulle opportunità d’integrazione europeista delle moschee alla luce
delle ultime correnti oltranziste xenofobe neonaziste,
nel momento in cui una vecchina raccontò dell’ultimo
scippo subito. Che poi non erano arabi ma olandesi,
comunque le eran costati due costole rotte e una lussazione al femore, così non si poteva andare avanti, se gli
arabi se ne fossero stati a casa loro i giovani avrebbero
lavorato anziché rubare le pensioni agli altri… che se la
guadagnassero la pensione! Ma esisteva ancora la pensione? Lei prendeva la minima più quota del caro estinto, ma suo nipote come sarebbe finito che incassava lavorando meno della minima e rimbalzava gli impieghi
in un’ansia interinale degna d’una corsa agli ostacoli?
Intervenne un vice assessore a qualcosa dicendo che per
chi aveva voglia di rimboccarsi le maniche il lavoro
c’era, che suo nipote s’iscrivesse al collocamento intereuropeo e la vecchia latrò che se il collocamento locale
107
lo chiamava e lavare i cessi doveva andare a lavarli anche all’estero?
Altre stazioni lì non se ne prendevano e poi di musica Ora non aveva voglia, di niente aveva voglia, magari
una canna e dormire, dormire, dormire finché sarebbe
finita.
Invece doveva guidare, guidare, guidare per giungere
in tempo da Snake che gli aveva affidato l’incarico di
prelevare al porto di Rotterdam un furgone blindato
(blindato per il solo fatto che non aveva le chiavi del
portellone, per il resto era sfasciato, bianco, cadente, rigato) e portarlo fino alla base. Essendosi già perso negli
affari suoi, non poteva rimandare oltre.
Dopo una serie di sobbalzi e rantolii il furgone
s’inchiodò definitivamente, Ora si lasciò prendere dal
panico e lanciò a squarciagola un – Aaarrrrgggghhhh –
che non spaccò le tenebre né ricaricò i due cellulari scarichi, tantomeno riaccese il motore almeno per scaldarsi.
L’unico appiglio era la torcia, ma a cosa poteva servirgli
in quel sepolcro nebbioso? A controllare il motore! Ci
provò: per quanto ne sapeva, circa niente, pareva a posto. Tornò a sedersi, batté furente il capo contro il sedile
e rimase a misurare il buio. Totale, gelido.
Allora udì o, forse, concepì, un labile lontano suono… schizzò fuori dal mezzo, pastrano e cappuccio,
torcia in mano, sigaretta fra le labbra, alla ricerca del
rumore.
Debole e impreciso, reale o immaginario, cos’altro
aveva a portata di mano? Aguzzò le orecchie… niente,
era svanito. S’incazzò davvero e prese a calci il lucchetto che serrava il portellone, fino a ricordarsi che per lui i
lucchetti non avevano segreti, in un clic veloce l’aprì,
ma la serratura era chiusa a chiave. Sebbene le serrature
per lui fossero un gioco, bestemmiò, recuperò l’apposito
fil di ferro dall’abitacolo, scassinò, entrò. Scatole e scatoloni di cartone marroni o bianchi privi di sigle, impilati in ordine di grandezza, riempivano il vano lasciando
un poco di spazio libero per entrare. Assicurati alle pareti dalle corde e ognuno sigillato col nastro adesivo,
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Ora non poteva scoprire cosa trasportava e forse era
meglio per lui.
Gli si stavano gelando le dita, gli parve di percepire
un motivetto, puntò la torcia contro il muro di bruma,
prese fiato, tastò il terreno con i piedi, abbastanza liscio,
si diresse verso nord, sebbene non avesse idea di dove
fosse il nord. Quando sbatté in quel che decifrò come un
tronco d’albero, abete, betulla, frassino… che ne sapeva
di alberi, figurarsi a non vederli, capì, andando in diagonale fino a sbattere in un altro, di essere su un sentiero. Continuò e udì un ritornello, si confortò pensando a
una casa, un caminetto, un piatto caldo… la melodia
cessò; aumentò il passo e ne udì un’altra, che finì
l’attimo dopo. Infine scorse un fievole lumino, subito
ottenebrato da un banco di foschia. Continuò e, dopo
due minuti che gli parvero un’eternità, rivide la luce, filtrava da una finestra.
– Sono salvo – pensò. Raggiunse la casa, intravide la
porta, bussò, niente. Bussò più forte, attese, niente, cercò tastoni un campanello, non lo trovò, iniziò a battere
sull’uscio freneticamente e la porta s’aprì. Dall’anta traspirava una fessura assicurata al catenaccio, insufficiente a scorgere l’interlocutore all’interno ma bastevole ad
affogare Ora in una zaffata ai cavoletti di Bruxelles.
Non era un cultore gastronomico e digeriva circa ogni
tipo di alimento, una delle poche cose che proprio non
poteva soffrire, né all’odore, né alla vista, né al palato,
erano i cavoletti, lo nauseavano più del latte bollito e del
semolino. Era ovvio che in un simile frangente dovessero presentarsi proprio loro, accompagnati dal – Buonasera – di una vocina stridula, echeggiata da un’altra che
le sibilava dietro:
– Chiudi subito, sei impazzita? Non facciamo elemosina
a quest’ora – e questa, voltandosi:
– Veramente non la facciamo a nessuna ora, prepotente!
– Ho detto chiudiiiiiiiiiiiiiii – e l’anta premette sulle dita
di Ora, che spinse leggermente per non farsele stritolare.
– E io dico apriiiiiiiiiiiiiiiiii – e la porta si spalancò per
magico dispetto; Ora, che a quel punto non interessava
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più alle due ospiti, si ritrovò a separarle mentre si prendevano per i capelli e i baveri delle vestaglie rischiando
di frantumarsi in una caduta rovinosa.
– Oddio vuole ammazzarci – urlò la sibilante.
– Ma sta zitta cretina, t’ammazzo io se non taci – squittì
l’altra e – TarattattataZzzuuuuuuummm – una cantilena
assordante raggelò le voci in una sequenza da film muto: telegiornale.
– Presto corri – Corri presto – e le due donne balzarono
in sala con agilità da cerbiatte, a strappare il telecomando dalle dita adunche del vecchio affondato su una poltrona, avvolto in un plaid tarmato rosso e verde.
Ma lui non cedeva, immobile con lo sguardo vacuo
sullo schermo, impugnava l’attrezzo in una morsa uncinata di unghie gialle e vene pulsanti, finché le due non
lo presero alle spalle con una mossa sleale, per reazione
nervosa lui allentò la presa, la sibilante afferrò il telecomando, mandò il volume a qualche decibel di meno,
cambiò canale, lo chiuse a chiave nella credenza e sparì.
– Luride arpie – sussurrò l’anziano con rancorosa rassegnazione – almeno spegnete, non lasciatemi qui a guardare sti stronzi – urlò poi.
Al che Guenda, la più pacifica delle due, si ricordò di
Ora, che ancora non era riuscito a presentarsi né a spiegare il motivo dell’inconsueta visita, e lo spinse a sprofondare sulla seconda poltrona. Stretta, soffice, in velluto fiorito, con l’alto schienale adornato da un merletto
polveroso, lo intrappolò. Ora si guardò intorno, la sala
non era né grande né piccola, zeppa di mobili e mobiletti: credenza, tavolino, una libreria squadrata in legno
chiaro, completamente stonata col resto, dov’era incastonato il televisore schermo piatto LCD, un caminetto
elettrico con finte braci e suppellettili, ninnoli e portafoto ovunque, giornali, ceste, riviste, gomitoli, un gatto
grasso acquattato sul divano pendant alle poltrone, insomma tutto tranquillo. La stanza era in penombra e
Anselmo, l’anziano, rimase a fissare lo schermo, Ora
armeggiò con la chiave, aprì la credenza e cambiò canale sulle previsioni del tempo e della viabilità. Scoprì co110
sì che l’incidente provocato da un tir aveva bloccato
l’autostrada per Amsterdam da ore e si sentì rinascere:
aveva un’ottima scusa per il ritardo e nel pensarlo scovò
una presa elettrica, frugò nella tasca del giaccone e mise
il cellulare in carica. Segnava chiamate perse di Harvey e
Snake, accantonò il problema e – Aaahh – sospirò risedendosi, al che Anselmo si voltò a scrutarlo, sbarrò
l’occhio buono e quello offuscato dalla cataratta e urlò:
– Noooooooo non puoi perseguitarmi ancora, tornatene
da dove sei venuto, spirito malvagio!
– Ma io… veramente sono rimasto… – balbettò Ora.
– Non si preoccupi, fa sempre così – gli sussurrò Guenda ancora nelle vicinanze.
– Hans, perché mi tormenti, non sono stato io a far la
spia ai tedeschi, son stato catturato insieme a Erich…
lasciami morire in pace.
– Macché morire, ch’è pronta la cena e piantala con sto
Hans, lui non è Hans è… è… – disse Guenda fissando
Ora sbigottita e pensando, in preda al panico:
– Se Alice avesse ragione? Se fosse venuto per derubarci, seviziarci e ucciderci? E l’ho lasciato entrare… e…
e… e…
– Mi chiamo Orazio, piacere, passavo di qui e mi si è
rotto il…
– Orazio, che piacere, io sono Guenda, lui Anselmo,
mia sorella Alice è in cucina.
– Eh sì, dicevo... vi ringrazio per avermi soccorso…
– Guendaaaaaaaaaaaaa ti muovi? Dici la cena è pronta e
bla bla bla e bla bla bla e bla bla bla – stridette Alice; e
Ora:
– Allora lei ha combattuto contro i tedeschi?
– Ma che tedeschi e tedeschi… in tempo di guerra era
un poppante, Hans, il partigiano, era un nostro vicino di
casa – disse Guenda.
– Allora ti muovi o no? – urlò di nuovo Alice.
– Arrivo, arrivo, ma fammi almeno chiedere a Orazio se
gradisce cenare qui – urlò di rimando e disse:
111
– Guardi, non abbiamo granché da offrirle: cavoletti al
burro, semolino o latte e biscotti, capirà noi siamo anziani…
Ora deglutì a fatica e rispose: – Non ho appetito,
grazie.
– Oppure wurstel e bistecca, cretina, non ti ricordi che
abbiam fatto la scorta al supermercato? – gridò Alice
per il solo gusto di farle ripicca.
– Ehm dicevo… non vorrei disturbare, ma… magari la
bistecca me la cucino io – disse Ora rinfrancato.
Adesso che Guenda era terrorizzata, Alice se ne fregava altamente di Ora, l’importante era contrariare la
sorella e sapeva di esserci riuscita.
Anselmo approfittò della distrazione generale, adocchiò la pendola, agguantò il telecomando e – TatiritiritiBummmmBoooom – assordò tutti quanti con la sigla
del notiziario delle 19.30.
– Nooooooooooooo presto corri… – Corri presto – urlarono le donne in ansia, al che Ora porse supplicante il
palmo della mano al vecchio e lui, con un sorrisetto maligno, gli consegnò il marchingegno.
– Non ci faccia caso – gli disse Alice asciugandosi le
mani nel grembiule – è appassionato di sigle, guarda e
ascolta solo quelle, il problema è il volume. Entrarono
in cucina e – TuntuzTuntuzTuntuzTooooom Tanze tanze tanze Tuntz – proruppe dilaniante dal soffitto facendo
tintinnare i vetri.
– Presto corri… – Corri presto – e le due vecchie si
slanciarono trafelate su per le scale. Nel trambusto avevano tralasciato Erich, che si vendicava mettendo a
stecca il cd techno inciso dal nipote Fritz. Ora, preoccupato, le seguì lungo il consunto tappeto rosso, quando
calcò l’ultimo gradino era tornato il silenzio e rimase in
disparte a studiare le sgualciture della passamaneria.
– Così di maledetto punto in bianco io non esisto più
eh? EEHHH? – urlò il soprano roco Erich dalla sua
stanza.
– Malefiche megere, invitate gli estranei e mi lasciate
qui a marcire.
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– Ma no, che dici, ti stavamo chiamando per presentarti
un giovane… – borbottò Guenda
– Ohè, vecchio rimbambito, se eri così curioso perché
non sei sceso dabbasso invece di startene qui rintanato?– sibilò Alice e, scorgendo Ora in discesa, lo richiamò: – Vada a conoscere mio marito.
Ora entrò nello studio dai muri coperti di librerie
straripanti, Erich era Anselmo con qualche capello in
più e una cataratta in meno. Accorgendosi dello stupore
di Ora disse: – Sì siamo fratelli gemelli, sposati con due
sorelle. È dura mio caro, lei non sa quanto, ma ne riparleremo – e si avviarono in sala da pranzo, un’estensione
della cucina. Fortunatamente i cavoletti non li voleva
nessuno e Alice aveva arieggiato la sala; Ora resistette
indenne tra lazzi e dispetti dei quattro signori e, soddisfacendo al minimo la loro curiosità, si fece una vaga
idea su come funzionassero. Alice, magra e spigolosa,
era malevola e si accaniva contro la sorella in toto, contro il marito meno e contro il cognato zero. I due fratelli,
tranquilli e distratti o semplicemente menefreghisti, erano simpatici. Guenda, gentile, bassa e rotondetta, si prodigava per mantenere la serenità ed era in continuo movimento; Cody, il gatto, grasso e scostante, dopo aver
curiosato intorno s’acquattò sul cuscino d’una sedia.
Furono così gentili da concedergli anche crauti, senape e birra rossa. Ora provò un senso di tepore come
non gli accadeva da secoli, l’unica nota stonata era il
pensiero del cellulare: avrebbe potuto squillare e rompere l’incanto; si alzò e lo spense.
Dopo la cena Anselmo diede un’occhiata fugace
all’orologio, spostò la tasca della vestaglia e scattò a tutto volume la sigla del telequiz. Le due donne sobbalzarono allibite, di solito agiva nelle pause, cioè sempre eccetto colazione-pranzo-cena-sonno; Erich rimase impassibile ad attendere il disarmo con la tasca diretta al soffitto e – ZzzAAAaaaaaaUuuuVVzzZTzzzzzz TUNTZEtuntzeTuntzetuntze – rimise in moto il cd per spegnerlo
l’attimo dopo.
Soddisfatti si spostarono in sala.
113
Confidenze
Casa
– Eh caro mio, è arduo tirare la giornate. Un po’ facciam da scemi, un po’ lo siamo e non capiamo più da
che parte stiamo – disse tagliente Erich riempiendo tre
calici di brandy.
– Ehm, io non dovrei… – disse sconfitto Anselmo mirando bramoso il fluido ambrato.
– Ma sì, che te frega. Il tempo a credito è in scadenza e
un goccio in più fa solo bene. Il colesterolo, le coronarie… tutte stronzate per ingobbirci cercando un senso a
rasentare il baratro sull’abisso che non paia il dislivello
su una palude. Ricordi e rimorsi, più si va avanti più ci
si aggrappa a vegetare una vita che sfugge. Mentre voi
giovani invocate la morte per sentirvi vivi… è una gran
presa per il culo.
– Smettila – sbraitò Anselmo risentito.
– Lo sente? – riprese Erich rivolto a Ora – Sta lì in balia
delle due streghe, guardi come l’han ridotto, sembra decrepito ed è nato mezzo minuto prima di me. Mia moglie Alice mi detesta e propina le cure a lui, sua moglie
Guenda lo adora e lo cura pure lei… fanno a gara per
accudirlo trascurando me, lo rimpinzano di medicine
ammazzandolo sistematicamente. Io esco e a lui viene il
raffreddore, io bevo e a lui sale la pressione: somatizza
gli anatemi che mi lanciano le mogli ammalandosi al
posto mio e non posso salvarlo. Quindi mi associo ai
suoi spaccamenti di timpani e tento il recupero.
– Taci, che quelle origliano – disse Anselmo.
– Vede, un poco migliora – bisbigliò Erich all’orecchio
di Ora, avvinto dal ragionamento.
– Ma scusi, se sua moglie la detesta perché non divorziate? – chiese.
– Eh la fa semplice lei… – rispose Erich: – se io fossi
lui – accennando al fratello – mi odierebbe ugualmente.
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Capirà, siamo circa uguali… per Alice non è questione
d’amore, ma di competizione, il suo fine è la rivalsa sulla sorella maggiore. Non c’è scampo, chiunque al posto
mio farebbe la stessa fine, al che me ne fotto: rendo un
favore a un’ipotetica umanità e soprattutto a mio fratello. Cosa ne farebbero senza di me a proteggerlo? Starebbe col catetere da una parte e la flebo dall’altra ad
attendere l’indefinito memento mori.
I tre accostarono i bicchieri e Ora, girando una sigaretta, finì catapultato in un’altra realtà, la sua.
– Merda, il telefono… – si disse e lo riaccese. Altre tre
chiamate perse di Harvey e Snake, che fare? In quel
porto insicuro ci stava bene e non gli andava di affrontare i soci, la notte, il gelo… tergiversò un attimo, poi
spense, forse avrebbe potuto dormire lì. Neppure il tempo di pensarlo che Erich iniziò a tempestarlo di domande; a tavola si era mantenuto sul vago, ma gli interlocutori volevano saperne di più. Opportunamente giunse
Guenda con le pillole a ricordare che si stava facendo
tardi e si erano già persi un documentario, un talk-show
e un telefilm. I due uomini finsero di ascoltarla e le proposero di ospitare Ora.
– Certo, che domande, ho già preparato la stanza, non
possiamo mica lasciarlo assiderare – disse e se ne andò.
Tornata la quiete i fratelli si concessero un secondo
goccetto e Ora si scolò il quinto. Accese ancora una sigaretta e con vari giri di parole, pause e allusioni tendenziose si personificò in rappresentante-venditore di
ingranaggi per apparecchiature subacquee, un materiale
che difficilmente avrebbe smosso la curiosità degli interlocutori né l’interesse a scroccargli un campione. Doveva dissuaderli dall’accompagnarlo al furgone, attirati
dall’inatteso diversivo al tedio quotidiano.
Persino Guenda si addormentò più felice al pensiero
che al risveglio avrebbe potuto preparare una colazione
calorica senza l’accampamento di medicinali di contorno, come quando venivano a trovarla i figli e i nipotini;
con questo indugio di tenerezza aveva preparato per Ora
la camera dei bambini.
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Terminata l’esposizione della marea di menzogne intercalate a vaghe verità con una serie di sbadigli, Ora
ottenne l’autorizzazione di ritirarsi. L’assembramento di
peluche, astronavi, robot, macchinine, bambolotti e costruzioni sparsi tra pavimento, mensole, scrivania, libreria e secondo piano del letto a castello lo lasciò disorientato. Il letto era striminzito, ma la coda penzolante della
pantera al piano superiore, il rifulgere di un mostriciattolo fosforescente e l’alternanza di curve e spigoli vagamente stagliata sul buio gli teneva compagnia. Tornando per un attimo nella sua camera di bambino, sebbene meno affollata di quella, s’addormentò dimentico
della realtà.
Ma la realtà è piena d’inghippi, fra i quali poteva indubbiamente annoverarsi il GSM Interceptor acquistato
da Harvey e Snake, mefistofelico meccanismo criptato,
ufficialmente riservato a enti governativi e militari, praticamente a quanti potevano permetterselo.
Dopo aver impiegato un’ora buona a capire come
funzionasse, i due avevano captato il segnale
dell’incauto Ora ed erano partiti alla sua ricerca.
– È ancora a metà strada dopo tre giorni e non capisco
perché il bastardo abbia spento, acceso, spento e riacceso il cellulare, né cosa possa fare in aperta campagna in
piena notte, questa storia non mi convince – disse Snake
interpretando i segnali e la carta geografica mentre Harvey sparava il SUV a tutta velocità.
– Potrebbe aver avuto dei problemi, non è il caso di accanirsi tanto prima di sapere cos’è successo – rispose
conciliante il socio.
– Ehi, ti si sono ingrippate le sinapsi? Quello vuole fotterci, altro che problemi! Solo che noi siam più furbi di
lui…
Harvey centrò un fosso e il SUV sbandò.
– Non puoi stare attento? Non pagarlo a rate non ti autorizza a sfasciarlo! – gli urlò Snake. – La compagnia di
Ora ti ha rammollito, lo difendi pure! E magari pensi
alla deforestazione amazzonica ogni volta che ti pulisci
il culo.
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– Pensa al tuo di culo… è che sono preoccupato per
Heinz, avrei preferito affidarlo ad Agatha piuttosto che
a Toni.
– Rincoglionito… una belva deficiente a una ragazza
come lei!
– Ehi piano con gli insulti, Heinz è un cane di razza e ha
stile, sei tu che ti stai annebbiando dietro a una donnetta… Agatha… Agatha… guarda come ti sei conciato.
– Conciato io? E il tuo exploit in frac dove lo mettiamo?
– Non era un frac, era un gessato.
– Ma vaffanculo, pensa a guidare e spero avrai caricato
la pistola.
Offesi non si rivolsero più la parola.
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Sogno
Dal parabrezza, immoto paesaggio dava inutile mostra di sé. L’autostrada era vuota, deserta. Soltanto il
furgone di Orazio tagliava il buio fitto con i fari tondi,
ancora carichi di luce.
Da poco aveva ripreso a nevicare, il motore aveva
smesso di andare e Ora non sostava nei pensieri. I reni
gli facevano male; gli succedeva ogni volta che la paura
faceva capolino. Non era rara in lui, la paura, così come
la commozione, ma era un assiduo frequentatore della
rabbia e non si poteva dire che albergasse a lungo nella
gioia, a cui offriva visite sporadiche come a una vecchia
zia malata a cui semplicemente dire – Come va?
La notte era comunque il suo momento prediletto,
senza fastidi così grossi da offrirgli la possibilità di mutare abitudini e valori. Correva lungo le città di notte
come un pendolare abitudinario; di fatto, la notte aveva
avuto la meglio sulla famiglia, sull’onestà, poiché non
puoi vivere troppo a lungo di notte onestamente, a meno
che non entri in una fabbrica, in un forno o in qualche
macchina di lusso.
Il furgone si era fermato, la neve iniziava a coprire la
targa nera con su scritto NO che sta per Novara ma che
Orazio continuava a vivere come la traslitterazione di
quanto la sua anima stesse cercando di dire al mondo
circostante vuoto di cose e pieno di sé.
Agatha dormiva vicino al volante, i capelli lunghi
sparpagliati sul sedile come un ragno esploso; di tanto
in tanto, mugugnava male parole all’indirizzo di nulla,
per poi girarsi, ancora piena di sonno.
Orazio cercò di rammentare perché lei fosse lì, di
notte, con lui, un furgone guasto, un’autostrada vuota.
Contravvenendo ad imperativi morali piuttosto chiari,
Ora cercò di aprire il portellone posteriore, provando a
118
pensare allo strumento più adatto per eventualmente
forzarlo.
Mario, come chiamava in confidenza il Genitore Interiore, urlò che la porta doveva rimanere chiusa se quei
balordi gli avevano imposto di lasciarla tale. Orazio non
badò più di tanto a Mario... d’altronde dov’era finito
quando aveva accettato la proposta di guidare quel pezzo da museo in giro per autostrade era ancora da definirsi. Si fa presto ad urlare che la marmellata si raccoglie
col cucchiaio e non con le dita se nel frattempo ti sei già
fregato tutto il barattolo dalla dispensa.
Andava di lusso che neanche uno stronzo di poliziotto sarebbe passato a fare patente e libretto a quell’ora
sotto la neve.
Il pensiero del figlio Rocco fece capolino nel già affollato cervello di Orazio. Qualche tempo fa, dopo
l’ennesima visita senza senso a casa di Rocco e Daniela,
rispettivamente Figlio e Moglie, aveva realizzato di essere molto più affezionato all’idea che aveva di loro,
piuttosto che a quelli stessi. L’unico davvero felice di
rivedere talvolta Ora era il buon cane Olaf, un bastardone che aveva trovato di notte vicino ad un autogrill impestato da una pioggia torrenziale.
Anche il vento esigeva attenzioni ed iniziò così a
prendere a spallate Orazio che, appoggiato ad un guardrail pensava alla vanità del tempo come ad una valigia
così disordinata da non volerla nemmeno aprire e per
questo abbandonare dietro ad un divano in casa di un
amico giurando – andandosene – di tornare al più presto
a riprenderla.
Nevicava e la galleria dietro di lui non sembrava intenzionata a sputare fuori nessuno.
Un bosco, lì vagava l’immaginazione di Agatha nel
limbo tra il sonno e la veglia. Foglie verdi in alto, foglie
secche in basso, arbusti, felci, radi raggi di luce filtranti
tra i rami, una magica atmosfera, un fungo rosso carminio calpestato impunemente da uno scarpone lurido e
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nero… – TOC TOC – Agatha sobbalzò: stavano bussando alla porta.
– E ora che faccio? – si chiese allarmata ricordando i
due sgherri che l’avevano lasciata sola per partire a tutta
birra verso chissà cosa. Non che le dispiacesse, ma ora
che doveva fare? Aprire o restarsene avvolta nel tepore
delle coperte? – TIC TIC – il visitatore s’era spostato e
stava bussando sulla finestra.
– Ehi, sono io – disse una voce.
– Io chi? – si chiese lei terrorizzata.
– Agatha, aprimi, presto! – disse la voce con tono più
alto.
– Oh no! – urlò lei – Ancora lui, lo sapevo che non me
lo toglievo di torno… – inveiva alzandosi dal letto. Infilzò il coltello nelle mutande, indossò l’accappatoio e
riavvolse la tapparella. Gli fece segno con l’indice di
raggiungere la porta e aprì.
– Finalmente! – disse Bitu abbracciandola stretta.
– Oh, piano con i convenevoli, che cazzo ci fai qui? Mi
hai seguita? Vattene subito!
– Ma no, figurati, è che stasera, passando per caso da
queste parti, ho visto i tuoi amici che se ne andavano…
– Come fai a sapere che sono i miei amici e dove sto?
Mi hai seguita!
– Che dici, non hai alcuna fiducia in Bitu. Non ti ho seguita, sei tu che non guardi dove metti i piedi e il resto,
così non ti sei accorta di Bitu e del suo chiosco sul canale, oggi pomeriggio, quando siete andati a bere
l’aperitivo.
– Sarà… – mormorò Agatha – in effetti non ti ho visto,
comunque non ti avrei invitato, quindi...
– Agatha, bisogna scappare. Tu non sai con chi ti sei
messa, fuggi via con Bitu.
– Dove mi metto sono affari miei, a prescindere dal fatto che non mi sono messa e poi senti da che pulpito viene la predica, vai a casa!
– Casa? E quale casa?
– Problema tuo e buon motivo per non seguirti a dormire sotto i ponti.
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– Non dobbiamo dormire, ma partire.
– Partire? Mi stavo addormentando, dissolviti all’istante
o chiamo Snake.
– Ah ah ah, Snake… e Harvey… e Toni… bella combriccola che ti sei scelta – disse Bitu sgarbato. – Tu ora
vieni con Bitu, vestiti subito! – le ordinò con sguardo
spiritato spingendola in corridoio. – Dove ce li hai i vestiti? Dove dormi? Con lui, certo, gli tieni caldo il letto.
– Lurido invertebrato, lasciami immediatamente – urlò
Agatha divincolandosi dalla presa, ma si trovò un pugnale thug puntato nel petto e due pozzi di tenebra fissi
negli occhi.
Era terrorizzata, l’aggressore dal quale era fuggita e
Snake messi insieme, in confronto a lui erano dei principianti.
– Mi chiedo mi domando e mi dico cosa ho fatto di male
per attirare un marasma di squinternati, violenti, paranoici, smidollati come voi – urlò agguantando i vestiti.
– VOI chi? Bitu non è voi, vestiti e taci, sgualdrina!
Al che Agatha gli lanciò il portacenere e una scudisciata con la fibbia della cintura, che lui, fulmineamente, scansò per poi piegarle l’avambraccio sulla schiena
stritolandole il polso e premendo la lama fra le scapole.
– Bitu non scherza, ragazza, fai come ti dice.
Agatha si rassegnò, si rivestì e uscirono.
– Olaf! – urlò Orazio balzando a sedere con la coda della pantera in pugno e battendo la testa contro la branda
sovrastante. – Era un sogno – pensò agguantando il peluche dal pavimento. Si terse la fronte dal sudore, si voltò su un fianco e si riaddormentò senza far caso allo
stormire delle foglie sferzate dal vento.
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Bufera
– Inverno schifo, pure la tormenta di neve… e
st’aggeggio di merda non capta più un cazzo! – urlò
Snake.
– Calma, calma… a tutto c’è rimedio – disse Harvey
conciliante.
Snake lo fulminò con lo sguardo, ma lui ormai non ci
faceva più caso, scalò la marcia, tolse l’antinebbia e
svoltò in una stradina laterale.
– Che minchia fai adesso?
– T’ho detto a tutto c’è rimedio? Lo sai dove siamo?
– E come faccio a saperlo? So solo che appena torniamo
lo schermo del GSM incornicerà il muso del porco che
ce l’ha venduto.
– Bien, invece Harvey, che lo schermo non l’ha guardato, lo sa…
Dopo pochi minuti spense il motore e scese. Snake,
non riuscendo a vedere altro che nebbia e neve, rimase
al suo posto.
– Dai, muoviti – gli urlò Harvey aprendo la portiera e
lui, dopo aver frugato sotto al sedile, abbottonato la
giacca e calzato il cappuccio, sconfortato lo seguì. Dopo
pochi passi Harvey si fermò e tirò il battente di una campanella.
– Ma che fai?
– Sveglio Ingrid.
– La maga? Ma che sei matto, a quest’ora di notte?
– Embé, avevi un’idea migliore? Se Interceptor ci ha
portato qui un motivo ci sarà.
La porta si aprì e una donna scarmigliata, ma non
sorpresa, li fece entrare.
– Vi stavo aspettando da un pezzo – disse introducendoli in una stanza angusta arredata da un tavolo a raso terra e una miriade di cuscini sul pavimento coperto da un
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tappeto arabescato. Pendagli orientali, candele, qualche
maschera alle pareti, mensole e statue lignee qua e là e
poco altro.
– Beh scusa il ritardo – le rispose Harvey sedendosi a
gambe incrociate.
– Così vi siete accordati senza interpellarmi – gli disse
stizzito Snake approfittando dell’allontanamento di Ingrid, che tornò con tre tazze di the bollente.
– Ma no, che dici? – rispose Ingrid che, a dispetto del
nome e della latitudine, aveva i capelli corvini, la carnagione olivastra e il corpo minuto. – Dacché la sfera di
cristallo si è offuscata in un gorgoglio di melma indecifrata, utilizzo altre risorse per non andare a catafascio –
spiegò accennando al globo palustre appoggiato in un
angolo.
Sorseggiarono in silenzio il the dall’aroma inequivocabile, fumando a turno un joint. Snake era catturato
dall’ombra sinistra di una falce ondeggiante proiettata
da un amuleto, Harvey si ripuliva le unghie con il coltellino del socio e Ingrid entrava gradualmente in trance
fino a perdere l’equilibrio. Harvey la sostenne prontamente con una pila di cuscini, poi alzò lo sguardo
sull’ombra di un artiglio semovente al gioco di luce delle candele e un fremito gli percorse la peluria sulla nuca.
Snake si voltò a guardarlo, poi si accorse dei residui di
sporcizia attaccati alla lama e, smarrendo in un soffio la
paura e il disagio che l’avvinghiavano, pestò il pugno
sul tavolo. Ingrid sbarrò gli occhi attonita:
– La bufera imbianca quanto cercate a poca distanza: strada principale, sei chilometri a destra e mezzo a manca.
– Grazie, Ingrid, quanto ti dobbiamo per il disturbo? –
sussurrò Harvey.
– Cento possono bastare, oppure…
– D’accordo – disse Snake estraendo due bustine dalla
tasca.
– No, non quelle, l’attrezzo scassato che avete in auto.
Snake, che diffidava alquanto dei reali poteri di Ingrid,
la fissò incredulo: – Ma lo sai quanto costa? E noi dovremmo dartelo per un the e un’indicazione criptica?
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– Intanto sono due i the e le indicazioni, poi varrebbe se
funzionasse… il che non mi pare.
– Mi spiace ma mi serve.
– Per spaccarlo in testa al venditore, ma non lo troverai,
a meno che…
– Basta, lascia perdere, che poi pretendi anche la macchina, prendi queste e a buon rendere – disse Snake, posò le buste sul tavolo e si alzò.
Le gelide folate di vento eran lungi dal placarsi e solo il pensiero di Ora portò Harvey a non rimpiangere il
tepore della casa. Come l’auto partì, Snake, guardando
il nevischio scagliarsi in schianti arabescati ridotti dai
tergicristalli in acquose trasparenze, osservò:
– Neve a piene mani – e, scosso da un brivido di paura:
– Che Ingrid sia davvero una maga?
– Certo, ne dubitavi? Conosce ogni sorta di magia nera,
il vudù, la macumba, pure la cabala… – rispose Harvey.
– Insomma ’na iettatrice – sentenziò Snake e ripiombò
nel silenzio.
– Mani, mani… – rimbombava nella mente di Harvey,
che faticava a orientarsi e ancor più a concentrarsi nella
guida. La fantasia fluttuava per la stanchezza, gli strascichi del fumo e del the, mentre dai fiocchi volteggianti
emergevano le mani di Ora… Ora… Fra poco l’avrebbe
raggiunto e, pur sapendo che si sarebbero appostati in
agguato ad armi spianate, immaginava un abbraccio che
si ripercuoteva nel basso ventre, in un’erezione che, pur
contraria ai suoi precetti, cresceva. Posò la mano sinistra
sulla patta nel tentativo di sedarla e, sbirciando timoroso
il compare, sbandò di nuovo.
– Minchia, ora non dirmi che stavi pensando al cane…
fermati e scendi che guido io! – urlò Snake.
– Ehm… no, non pensavo… è che… Oh, ma che cazzo
vuoi? Fin qui nella tormenta chi ti ci ha portato? Harvey, la maga chi l’ha trovata? Harvey… e ancora te ne
viene? OK, guida tu e vediamo di cosa sei capace! –
sbraitò inchiodando.
Prima di scendere diedero un’occhiata al contachilometri e si scambiarono uno sguardo d’intesa: se Ingrid
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aveva detto il vero avrebbero dovuto trovarsi circa sul
posto. Percorsero ancora un chilometro scarso, si rimisero i giacconi, presero due torce e partirono in esplorazione.
Harvey cercava inutilmente d’aguzzare la vista, finché andò quasi a sbattere contro il furgone in panne.
Chiamò Snake, partito in direzione opposta, col cuore in
tumulto e intanto, preoccupatissimo, armeggiava con la
portiera; il pensiero che Ora potesse essere lì dentro assiderato gli serrava lo stomaco bloccandogli il respiro.
Aprì, niente, corse al portellone… chiuso malamente…
niente pure lì. Giunse Snake:
– Allora dov’è il bastardo?
– Non qui, dev’essere fuggito.
– Certo, se starnazzi come un’oca sgozzata non rimane
certo ad aspettarci.
– Tu sei prevenuto, non sarebbe fuggito.
– E tu sei rincoglionito, in pieno raid ti metti a filosofeggiare, sei peggio di quando sbavavi dietro alla ballerina.
– Ahò, ma che vuoi? Piuttosto decidiamo un’azione. Se
fosse qui sarebbe mezzo assiderato e all’esterno completamente, non si può resistere.
– Infatti, saliamo sul furgone.
Tentarono di mettere in moto per scaldarsi, ma il motore non dava alcun segno di vita.
– Lo sapevo, non ci ha traditi, c’è stato un guasto.
– Sì e ha impiegato due giorni a fare una settantina di
chilometri… ah ah ah. Comunque dev’essere nei dintorni, a meno che la tua maga e l’Interceptor non siano degli impostori.
– Uhm… no… dobbiamo cercare intorno, ma come se
non si vede a un palmo dal naso?
– Facciamo così: porta qui il SUV e riposiamoci in attesa dell’alba – decise Snake e si approntarono a trascorrere le ultime ore della notte.
Harvey, troppo irrequieto per potersi rilassare, fece il
primo turno di guardia. Mentre il socio russava, lui tornava alle recenti sensazioni; se ne vergognava, ma non
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voleva capirle né scacciarle, anzi ambiva a riassaporarle,
senza riuscirci più. Si fumò una canna e, trascorsa l’ora
di veglia, svegliò pigramente Snake, mandò un pensiero
a Heinz s’addormentò.
Snake per reagire al dormiveglia scese, urinò, si stiracchiò, abbozzò qualche passo e, preso dallo scazzo,
tornò sui suoi passi prima che neve lo inzuppasse. Entrò
dal portellone posteriore e si sedette sul pavimento, ossessionato dal desiderio di Agatha e di un caffè. La immaginava intenta a versargliene una tazza, la vedeva sul
letto, nuda fra chicchi di caffè… stava impazzendo, doveva toccarsi, lì non c’erano né donne né bar. Quando
finì, sospirando s’accorse che lo schizzo era parato sullo
schermo del GSM. Biascicò un’invettiva e prese un fazzoletto di carta per pulirlo, muovendolo notò che lo
sportello del vano batteria era semichiuso, lo sistemò,
accese: l’apparecchio funzionava benissimo e si mise ad
armeggiare.
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Inseguimenti
Toni, pesto di alcol, coca, insulti e mazzate subiti
dagli sgherri a cui l’aveva gettato in pasto Harvey, con
poche istruzioni fasulle e una pacca traditrice, era pure
esasperato dagli strattoni di Heinz. Aveva provato ad
ammansirlo con le crocchette al coniglio, i biscottini aromatizzati, il latte caldo… ma quello niente, se col padrone era scemo, senza di lui diventava un completo
mentecatto. Da un’ora buona anelava di squartarlo,
scuoiarlo e usarne la pelle come zerbino, per questo aveva deciso di rifilarlo ad Agatha: vicino a lei la bestia
assumeva una docilità demenziale. L’avrebbe svegliata,
pazienza, sempre meglio che sopprimere l’animale. E
poi era furioso: non solo gli amici l’avevano mandato
allo sbaraglio fra la peggiore teppa di Haarlem, ma Lucia aveva risposto alla sua chiamata in ritardo e con un
misero sms preconfezionato, un affronto imperdonabile
che non poteva domare all’istante. Desiderava vendicarsi, ma doveva rimandare e la rabbia saliva, saliva…
Il modo di abbatterla se lo trovò di fronte, in piena
tormenta: un uomo che spintonava Agatha in una Skoda
nera. Aizzò e sguinzagliò Heinz, che si precipitò ad annusare un cespuglio e ci pisciò sopra, allora scattò di
corsa, ma ormai l’auto era partita in quarta e riuscì appena a leggere il numero di targa. Si voltò verso il cane,
che nel frattempo aveva percorso un bel tratto in senso
inverso e, preso dall’ira, scordò il numero. Riuscì infine
ad acciuffare Heinz e, ripromettendosi di dotarlo al più
presto di un collare chiodato, lo strattonò in tutti i versi
e lo imbavagliò con qualche giro di guinzaglio.
– E ora che faccio? Che faccio? – si chiese fradicio e infreddolito.
Aveva parcheggiato a pochi metri, caricò la belva
ringhiante imprecando al pensiero di come gli avrebbe
127
ridotto l’abitacolo, agganciò il guinzaglio alla maniglia
della portiera posteriore e sgommò nella direzione presa
dalla Skoda. Fortuna volle che Agatha, in preda a terribili spasmi, fosse riuscita a far accostare il guidatore alla
prima area di servizio. Date le condizioni climatiche e
l’ora, fu facile scorgerli nel parcheggio desertico e accostare a debita distanza.
Lei, piegata in due, si avviava verso il WC incalzata
da lui.
– Non vorrai entrare, eh, tanto mica posso scappare.
– Bene, però Bitu starà qui attaccato alla porta, non hai
scampo e spicciati.
Agatha entrò nel bagno lurido e gelato, slacciò i pantaloni, tolse il coltello dall’orlo delle mutande e l’infilò
nello stivale destro: sarebbe stato più difficile estrarlo,
certo, ma anche per lui trovarlo. Tentennò indecisa: e se
avesse aperto la porta e gliel’avesse conficcato nello
stomaco? Ma ci ripensò, era inesperta, mentre Bitu
sembrava capace di maneggiare il pugnale e lì non c’era
anima viva che potesse aiutarla; desistette e uscì. Il fetore ristagnante evitò i sospetti di Bitu e tornarono verso
l’auto.
Toni, accortosi che l’uomo era armato, sebbene non
capisse di cosa, cercava il sistema d’intervenire sulla
scena quando Heinz, a forza di morsi e contorcimenti, si
liberò dall’improvvisata museruola e tra guaiti e latrati
saltò sul sedile anteriore.
Bitu s’irrigidì allarmato, ma tra la distanza e il buio
non riconobbe Toni e la sua auto non l’aveva mai vista;
riprese il cammino. Aprì la porta ad Agatha e mise in
moto. Come girò la chiave d’avviamento irruppe a tutto
volume Psycho Killer dei Talking Heads. Bitu spense
con un gesto di stizza e Agatha lo guardò rabbrividendo.
Aveva capito che fosse un tipo strano senza percepirne
la latente pericolosità e la cosa la indispettiva al punto
da farle accantonare la paura. Doveva darsi una spiegazione, uscirne vincente. Pensa che ti ripensa una mezza
risposta la trovò: l’insofferenza. Bitu, impietosendola e
agendo sui suoi sensi di colpa, la irritava al punto da far128
le tralasciare ogni altro aspetto. Non la interessava, non
la attraeva, il suo pensiero fisso era come toglierselo di
torno. Inoltre era falso e astuto come un demone, quindi
era scagionata, però ora doveva trovare il modo d’uscire
dalla trappola. Poiché non sapeva da che parte cominciare, per evitare di scervellarsi provocandosi
un’emicrania, tentò di rilassarsi. Appoggiò il capo sul
sedile, fissò lo sguardo sulla tormenta e allungò la mano
fino allo stereo. Psycho Therapy dei Ramones a volume
spiegato, Bitu s’irrigidì e lei scoppiò in un riso isterico.
– Ridi di Bitu, eh? Ti fa ridereeeeeeeeeee? – urlò e
spense lo stereo.
Agatha, passando dal terrore alla rabbia, lo riaccese e
Bitu inchiodò, l’auto fece testa-coda sull’asfalto vischioso, poi la fermò, girò l’interruttore e si buttò su di
lei afferrandola al collo in una presa soft. La tirò verso
di lui e, premendole il capo col suo, riprese a sbraitare:
– Ora basta! Non t’importa di Bitu, ma imparerai a rispettarlo, ti dimostrerà il suo valore e guardalo negli occhiiiiiiiiiiiii!
– Maledetto bastardo – urlò Agatha con gli occhi chiusi
tempestandolo di pugni sulla testa e cercando di divincolarsi. Ma lui aumentò la stretta e la pressione fra le
teste… infine lei cedette, scoppiando in un pianto dirotto – Ti prego lasciami, non ti ho fatto niente…
Bitu allentò la presa, abbassò il volto e le cacciò la
lingua in bocca.
– Qui si mette male – pensò Agatha piangente, un po’
per paura, un po’ per strategia. Serrò la bocca inutilmente, lui infilava, stringeva… si lasciò andare e lo baciò.
Provò rifiuto, non per il bacio in sé, ma per la modalità
repellente. Comunque Bitu, pur preso dalla passione,
rimandò il proseguimento e si ricompose. Guardò lo
schermo del BlackBerry in modalità GPS, rifletté un istante e ripartì. Commosso dalla disponibilità di Agatha
riaccese la radio a basso volume e le accarezzò la mano
sinistra, ma dopo poco spense e riafferrò il volante.
Intanto Toni, a un centinaio di metri di distanza, riprendeva l’inseguimento. Durante la sosta improvvisa
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aveva pensato d’intervenire, ma temeva di mettere in
pericolo l’incolumità di Agatha. Non la poteva soffrire,
ma era pur sempre l’amica del suo migliore amico.
Aveva anche tentato di immobilizzare Heinz, ma
questo scopriva le zanne a ogni suo gesto e rinunciò.
Heinz si sdraiò a terra sul lato destro, col muso a pochi
centimetri dal suo piede, Toni cercò di scostarlo temendo che premesse sull’acceleratore, ma la belva rispose
con un ringhio sordo. Doveva guidare con un occhio alla strada impervia, uno alla bestia digrignante e mantenere la distanza di sicurezza dalla Skoda. La concentrazione necessaria era sufficiente a lasciare in secondo piano la stanchezza e la rabbia; come il cervello riproponeva il paradosso della situazione, qualche preoccupazione
stradale o canina provvedeva a scacciarla.
L’impresa andava per le lunghe: Bitu procedeva a
passo di lumaca e si fermava continuamente. Era evidente dai segnali di frenata che era un pessimo guidatore e questo favoriva Toni, che aveva imparato a manovrare il trattore a otto anni e a dodici avrebbe potuto
tranquillamente prendere la patente.
Agatha era esasperata, la paura, la nausea per il procedere a scatti, le strusciate affettuose di Bitu creavano
un’atmosfera degna dei peggiori incubi. Aveva provato
a pizzicarsi, senza riuscire a svegliarsi, la realtà era
quella e non trovava soluzione. Sperava che, a forza di
slittare, l’auto finisse una buona volta in un dirupo o
contro un albero, ma il meglio ottenuto finora era stato
un fosso. Solo un incidente di qualche entità le avrebbe
permesso di aggredire l’aggressore e rimpiangeva ogni
cinque minuti d’aver nascosto il coltello, doveva riuscire a recuperarlo.
Bitu non riusciva a parlare, guidare, ascoltare la musica, accarezzare, inveire e controllare il BlackBerry
contemporaneamente. Doveva compiere un’azione per
volta, lei se n’era accorta e non faceva che subissarlo di
domande: – Cos’è quella roba? (rivolta al cellulare) –
Dove mi stai portando? – Sembra che tu sappia già dove
andare – Ma io cosa c’entro in tutto questo? – Come fai
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a conoscere i nomi dei miei amici? – E il carretto dove
l’hai messo? – Guarda che se vuoi ci possiamo accordare, tu mi sganci e io… – Ma per sapere dove andare non
devi conoscere le coordinate? Quindi sai…
Lui per risponderle doveva fermarsi, le faceva una
carezza accompagnata da qualche frase sconclusionata,
al che lei cambiava discorso o accendeva lo stereo, lui
sobbalzava, perdeva la pazienza, scostava la mano e
guardava il cellulare. Sospirava, si tirava indietro i capelli, poi la fissava sorridendole bieco e provava a baciarla. Agatha a volte ricambiava, altre veniva sopraffatta dal disgusto e lo mordeva, buttava la testa indietro e
batteva contro il vetro, lui la afferrava, poi urlava, si
guardava intorno sconsolato e ripartiva.
Agatha si era accorta di riuscire a esacerbarlo e le era
anche parso di scorgere, nello specchietto retrovisore, i
fari di un’auto, ma a cosa poteva servire? Bitu lo specchietto praticamente l’ignorava tenendo lo sguardo fisso
sulla strada e non s’era accorto di niente.
– Qualche speranza c’è – pensava, per poi ricadere nella
più cupa disperazione mandando le dita a sfiorare
l’impugnatura del coltello. Iniziò pian piano a estrarlo.
All’ennesima fermata Bitu esaminò soddisfatto lo
schermo del BlackBerry, si passò la mano fra i capelli,
abbozzò un ghigno e si voltò verso la preda.
– Ci siamo quasi, cara.
– Dove?
– Dove non ha importanza, per te, però ora possiamo
rilassarci – e sorridendo azionò la leva di ribaltamento
del sedile di Agatha.
– Aahh ma che fai, sei impazzito?
Ribaltò anche quello del guidatore, poi fu su di lei.
Agatha afferrò la maniglia, ma la portiera non s’aprì, a
tastoni raggiunse la sicura, era bloccata.
– Chiusura centralizzata e poi dove vorresti scappare?
– Devo fare pipì.
– Va bene, scendiamo.
Come scese Agatha corse via, ma il terreno era accidentato e coperto di neve, il coltello premeva sulla cavi131
glia e dopo poche falcate lui l’afferrò per la giacca, lei
scivolò e cadde. Fine della fuga, provò a guardarsi intorno, ma non vedeva a un palmo dal naso. Bitu la spingeva:
–Traditrice, lo sapevo, ma Bitu riuscirà a domarti. Non
ora, tranquilla, adesso dobbiamo riposare, quando tutto
sarà finito avremo tempo per noi.
Agatha, sconfortata, dopo essersi fumata una sigaretta si sdraiò su un fianco coprendosi il viso con la giacca
e nonostante il disagio e la paura fu blandita da un vago
torpore. Invocò l’esistenza di qualcosa di fermamente
esatto che non fosse un’astrazione, ma non riuscì a trovarlo. Solo le apparve un fosco tramonto marino dove
affondava un sole impercettibile e una bianca barchetta
di carta solcava quiete onde metalliche fino ad annegare. In quel vuoto malinconico s’addormentò.
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Alba
Snake, a forza di smanettare, aveva scovato Cobra,
un tipo col quale giocava a burraco online e avevano ripreso l’interminabile sfida. Impegnato com’era ad anticipare l’avversario, s’era estraniato dal contesto. Il previdente Harvey, che aveva impostato la sveglia sul cellulare, stirò gli arti sferrandogli una sberla, uscì e, ammaliato dal soffice biancore, cercò un angolo. Non scorgendo angoli, né strade, né alberi, pisciò sotto la marmitta del SUV, estrasse da uno dei 47 taschini cernierati
della mimetica imbottita una cialda di caffè istantaneo,
la scosse, bevve e ne porse una Snake.
– Fanculo, non potevi darmelo due ore fa? – ringhiò
questi indispettito dalla sua consueta ineccepibile organizzazione.
– Ah ah ah – rise Harvey beffardo, avrò avuto altro da
pensare.
– Beh stronzo, intanto guarda un po’ qui – rispose Snake fiero ruotando il GSM verso il socio.
– L’hai trovato? – chiese l’altro con un tuffo al cuore
ma senza lasciar trasparire il minimo cenno di sorpresa.
– È qui.
– E quindi?
– Si va a prenderlo, ovvio, però prima dobbiamo sondare la zona e preparare l’agguato.
– Ma quale agguato… – sospirò Harvey.
– Minchia è inutile, rincoglionito ti sei… cosa vorresti
fare? Andargli incontro con una scatola di cioccolatini
in una mano e un mazzo di rose rosse nell’altra? Quello
tenta di fotterci un carico da migliaia di euro, roba da
camparci di rendita per i prossimi cent’anni e non facciamo un agguato? – disse Snake rabbioso, con le vene
del collo gonfie per lo sforzo di non gridare.
133
– Che cazzo sia sto carico ancora non l’ho capito – bofonchiò Harvey figurandosi lo scenario romantico evocato da Snake.
– Logico, eri fatto… e t’ho detto mille volte di presentarti in ordine alle convention.
– Non quelle a sorpresa.
– Bah, lascia perdere, allora il carico è… sì ma non possiamo perdere tempo in stronzate, si sta facendo chiaro
anche se non si vede un cazzo… insomma è una specie
di war game, roba esplosiva o giù di lì.
– Cioè noi ci siam messi a spacciare videogiochi per
bambini… e tu carichi l’esplosivo su una carretta come
quella? – disse Harvey accennando al furgone in panne.
– Ma no, non è esplosivo e non è un videogame per
bambini… è un gioco per adulti.
– Pedofilia? No, perché se è così io me ne tiro fuori.
– Minchia Harvey, a parte che tu non ti tiri fuori da
niente a meno che non lo decida io…
– No caro, noi siamo soci alla pari e io mi tiro dove cazzo mi pare, allora dilla tutta: noi non ci tiriamo fuori da
niente a meno che non facciamo terra bruciata e scompariamo per sempre.
– OK ma la pedofilia fa schifo pure a me, quindi non
scassare e pensiamo all’azione, il gioco poi te lo spiego
ch’è complicato e manco so com’è fatto e in quale di
quelle fottute scatole sia…
– E non potevi aprirle?
– E non potevi farlo tu? Ne avevi voglia, eh?
– Beh no, però ho controllato: le scatole sono tutte sigillate e incastrate e il numero corrisponde, Ora non dovrebbe aver preso niente.
– Ha avuto tutto il tempo di trafficare e rimettere in ordine, ma non mi pare il caso di perdere tempo con il carico prima d’aver capito che cazzo sta facendo.
– Allora vieni nel mio carruggio, non sei sicuro che…
– Ooohh basta, chiudila lì, prendi la pistola, togli la sicura e andiamo, da qualche parte si sarà infilato, ci sarà
una casa, un fienile, una bagascia…
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Toni, esasperato, aveva aperto una scatoletta per
Heinz, l’aveva portato a fare i suoi bisogni e finalmente
poteva riposarsi. Si sforzava di tenere gli occhi aperti,
ma era stanchissimo e frustrato e dopo un quarto d’ora,
confortato dal calore del fiato canino sui piedi, finì nel
mondo dei sogni.
Anche Bitu, nonostante la determinazione a mantenere lucidità, aveva finito per chiudere gli occhi e Agatha, che tramava d’accoltellarlo alla prima occasione e
sfiorava con la mano la lama sotto il pantalone, dormiva
già da un po’.
In quel lasso di tempo, mentre Snake giocava a burraco e Harvey sognava, Ora si era svegliato ed era sceso
in cucina agognando un caffè. Nella casa regnava il silenzio frammisto a un lieve russare e scese pian piano le
scale. Decise di aspettare ad accendere il cellulare e dopo lunghe ricerche trovò una confezione di caffè solubile.
– Meglio di niente – si disse e mise l’acqua a scaldare.
Scostò la tenda alla finestra, vide un grigiore imbiancato
e capì che non sarebbe stato facile andarsene di lì senza
chiamare un meccanico o Snake. Entrambe le prospettiva gli davano il voltastomaco e, attirato dalle alternanze
dei merletti alle tendine, sussultò ammettendo quanto
già sapeva. Le simmetrie di rombi e girandole
gl’interessavano circa quanto quella situazione, che a
sua volta gl’importava circa quanto altre storie passate e
presenti, in sostanza gli era indifferente. Quindi tanto
valeva non tirarla per le lunghe sulle connessioni di fuga, rischiando di prendersi una revolverata dai soci solo
perché aveva tergiversato tra un trip e un bordello.
Sorseggiando l’intruglio pensò che avrebbe fatto
meglio a controllare il carico prima di prendere qualsiasi
iniziativa e, tanto per finire di rovinarsi il risveglio, gli
tornò in mente quello stupido sogno. Moglie e figlio non
ne aveva, il cane era morto da un pezzo e Agatha… cosa
c’entrava Agatha? Erano stati compagni di scuola, secoli fa, l’ultima volta che l’aveva incontrata era stato in
banca… ah, adesso capiva: la filiale, il cassiere… e vaffanculo a Freud e alle interpretazioni. Spense la sigaret135
ta e tornò al piano superiore per prepararsi a uscire. Fece tutto nel massimo silenzio, sperando che nessuno aprisse la porta della camera, priva di chiave nella serratura, mentre caricava la pistola, una magnum rigata che
gli aveva rigirato Harvey e aveva provato una sola volta.
Si sentiva un mezzo paranoico, però se il bastardo aveva
insistito tanto un motivo ci sarà pur stato. Rievocò
l’istante in cui Harvey gliel’aveva messa fra le mani,
con un’aria da cospiratore e una strana smorfia sulle
labbra che quasi pensò potesse provare emozioni simili
all’affetto per qualcuno oltre il suo cane. Si chiese come
potesse divagare su certe stronzate in un momento simile, seppure che momento fosse non sapeva. Quando si
sentì pronto, in punta di piedi raggiunse la porta di casa,
aprì.
– Alla buon’ora, dormito bene? – gli urlò Erich in piedi
sul patio.
– Mer… sì, grazie, ma che ci fa lei in giro così presto
con questo freddo?
– Oh oh, mi alzo tutte le mattine alle cinque, e il freddo
corrobora, rigenera… mi alzo a vado a fare un giro.
– Sì ma ci sarà un metro di neve…
– E che vuol che sia? – rispose Erich indicando le racchette. Il silenzio, il manto nevoso… il mondo un attimo
prima del risveglio è il momento migliore della giornata
e poi sono andato a controllare il suo mezzo.
– Ma non era proprio il caso… – sussurrò Ora imprecando l’impossibile fra sé e sé.
– Possiamo fare un ponte con la mia batteria, oppure
possiamo a chiedere ai proprietari del SUV…
– SUV? Quale SUV? – chiese Ora in preda al panico.
– Quello posteggiato lì a fianco – rispose Erich.
– Oh merda, merda, torni in casa, presto – gli disse Ora
spintonandolo contro la porta.
– Allora c’avevo visto giusto – sussurrò Erich con lo
sguardo astuto e soddisfatto appena si furono rintanati in
cucina.
– Giusto che?
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– Che lei non la contava giusta… apparecchiature subacquee, ma che, son scemo?
– Lasci perdere e rimanga qui, io è meglio che esca –
rispose Ora e se ne andò.
Harvey e Snake avevano colto Erich aggirarsi intorno al furgone un attimo prima che lui scorgesse loro ed
erano riusciti ad allontanarsi, dopodiché l’avevano seguito. Avevano ascoltato da dietro il muro laterale la discussione fra Ora e l’anziano e adesso stavano aspettando: l’idea di irrompere in una casa abitata non li entusiasmava affatto e speravano che Ora tornasse all’esterno
in breve.
In quel mentre Agatha aveva riaperto gli occhi. Era
ultra depressa, intirizzita e aveva la bocca amara. Bitu
dormiva, estrasse il coltello dallo stivale ma non dal
pantalone. Lo guardò. Con un caffè e una boccata d’aria
probabilmente sarebbe riuscita a ottenere un’incazzatura
sufficiente a farlo a pezzi, ma così aveva voglia solo di
piangere, infatti una lacrima le cadde sul labbro, ma la
bloccò. Lacrime uguale soffiata di naso, non poteva
permetterselo. Forse non era necessario farlo fuori, ma
neppure temporeggiare rischiando di rimetterci lei. La
morte girava intorno, la sentiva… Provò a evocare ferite
e fiumi di sangue, le migliori scene di Shining, una motosega e arti amputati, gole squarciate, teste spaccate…
sì, poteva farcela, anche se così a freddo, lo sapeva, poi
sarebbe stata tormentata dai sensi di colpa. Anziché agire si soffermò a fantasticare su colpe reali o attribuite,
sconti di pena ne aveva accumulati, con una mossa avventata chissà quanti nuovi incubi si sarebbe trovata… e
pensò ai suoi incubi e un’altra lacrima ancora, no, quelli
proprio non ci volevano, non adesso. – Basta! – pensò,
impugnò la lama con fermezza, la puntò dove presumibilmente poteva trovarsi il cuore di Bitu, avvolto nel
giaccone, sfiorò lo stereo con il gomito e – Aaahhhhhhh
– urlò spiazzata dalla voce di Ozzy Osbourne in Paranoid. Fortuna riuscì a riporre l’arma prima che Bitu mettesse a fuoco l’insieme. Un senso di sollievo per il mancato omicidio lo provò, ma di risentimento fallimentare
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pure, cosicché s’avvolse nella giacca e sferrò un calcio
nel parabrezza, infrangendolo. Bitu l’afferrò, ma lei
svincolò la mano destra, prese un frammento di vetro da
terra e glielo conficcò nell’occhio, facendo attenzione a
non cavarglielo, che era una schifezza, centrò un poco
sopra l’arcata sopraccigliare, dopodiché, mentre lui istintivamente si portava una mano al viso, gli mollò un
colpo basso micidiale e imboccò il varco. Riuscì in
qualche modo a districarsi e uscire, aveva una mano
squarciata e una gamba graffiata, estrasse il coltello per
facilitarsi la corsa e Bitu in tutto quel tempo aveva già
sbloccato le serrature ed era pronto a seguirla.
Agatha correva, non sapeva dove, ma correva. Bitu,
tra la ferita all’occhio, la nebbia e il dolore lancinante al
basso ventre era decisamente svantaggiato. Agatha raggiunse il furgone, s’avvicinò ai finestrini, picchiò, era
vuoto; andò verso il SUV, pure, riprese la complicata
corsa nella neve, ma senza sentirne gli effetti. In breve
fu vicino alla casa.
In quel momento Ora, radente l’anta in posa da telefilm poliziesco con pistola a doppia presa, stava uscendo dalla porta.
– Fermo lì – gli urlò Snake puntandogli l’arma attraverso la ringhiera del patio.
Ora sobbalzò e, senza scorgere Snake acquattato a
terra, intravide una sagoma indefinita in movimento,
sparò.
Un debole grido, braccia aperte, un balzo indietro e
la sagoma s’abbatté a terra, intanto Harvey aveva preso
Ora alle spalle disarmandolo e Snake gli stava di fronte
tenendogli la canna dell’arma puntata nel fianco.
– Ma… ma… – balbettò Ora guardando i due.
– Merda – esclamarono Harvey e Snake in coro.
– Che cazzo… bloccate i vecchi – disse Ora temendo
che questi chiamassero la polizia.
La porta era rimasta aperta e Harvey, che aveva capito al volo, era entrato in casa prima ancora che Ora parlasse. Snake invece aveva capito che quello era un gran
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casino e spostato la pistola dal fianco di Ora per mirare
al corpo di Bitu, che era ormai addosso ad Agatha.
– Non muoverti! – gli urlò e corse lì, lo bloccò, poi la
riconobbe e si accasciò al suolo. Bitu, stupito da tanta
imbecillità, pensò che gli avrebbe volentieri trapassato
le budella con un colpo, se non avesse lasciato
l’automatica sotto il sedile della Skoda, però poteva ancora tirargli un fendente o provare a scappare, ma intanto era stato raggiunto da Ora, così tirò fuori le mani dalle tasche e intonò una litania. Ora, dopo averlo fissato
per una trentina di secondi, lo inserì nella tipologia del
ladro di polli, gli tolse il pugnale dalla tasca e gli bloccò
i polsi sul dorso con la sua cintura.
Snake teneva il capo di Agatha poggiato su un braccio, con l’altro le accarezzava il viso pulendole il rivolo
di sangue sgorgato dalla bocca. Ma lei non se ne accorgeva. Non aveva capito cosa le avesse tranciato la corsa,
nemmeno era riuscita a pensare, solo un vago desiderio
d’intravedere oltre la nebbia, stroncato dall’inesorabilità
del buio. I suoi occhi erano rimasti aperti e Snake non si
capacitava di chiuderli, come di tutto il resto. Non amava ragionare, ma sapeva che lei era l’unica persona finora incontrata capace di suscitargli un’emozione consistente. Sempre che emozione si chiamasse quel che provava a stare con lei, a pensare a lei. Non è che al momento ci riflettesse, stava male, nel fondo più nero del
fondo e niente vedeva, nulla sapeva. Non si sarebbe risvegliata, non avrebbe mosso le palpebre, respirato o
sorriso, allora le chiuse gli occhi, mormorando: – Quoth
the Raven “Nevermore” –3 riprese la pistola da terra, se
l’appoggiò alla tempia, premette il grilletto.
Toni, che era stato risvegliato dal primo sparo ed era
partito, perdendosi, alla ricerca della fonte della detonazione, giunse poco dopo. Troppo tardi. Il pericolo era
quello e non era riuscito ad arginarlo, missione fallita.
Tirò un pugno in faccia a Bitu, che cadde a terra e urlò
– Non sono stato io!
3
Edgar Allan Poe, op. cit.
139
Heinz naturalmente aveva seguito il fiuto anticipando Toni e adesso era in casa a sbafare biscottini ipocalorici tenendo a bada i quattro anziani. Harvey, sorpreso
dal lieto imprevisto, aveva faticato assai a fargli rinunciare a inseguire il gatto, ma in quel momento
d’emergenza era riuscito a essere severo. I fili dei telefoni li aveva divelti dal muro e i cellulari sequestrati,
poi era uscito curioso di capire che cosa stesse succedendo.
Ora, in tutto questo, rivedeva il suo sogno insulso e
le sbarre di una cella. Harvey lo raggiunse e gli spalmò
una pacca sulla spalla, poi vide Agatha e Snake. La ragnatela, inghiottita dal foro ustionante, aveva afflosciato
ogni minaccia. Sotto, un rivolo di sangue colava sul petto di Agatha, ov’era poggiato il capo di Snake, per finire
a mischiarsi alla pozza purpurea che impregnava la neve
sotto di lei.
Harvey provò una specie di dolore, ma labile, subito
si rese conto che difficilmente quei due sarebbero stati
felici insieme e forse era meglio così, sia per Snake, sia
per lei, sia per lui. Si fece brevemente illustrare da Ora
quanto fosse accaduto, dopodiché, puntando la pistola
su Toni e Bitu, chiese spiegazioni a loro.
Toni decise di sorvolare sulle rimostranze per la serata malavitosa e la dannosità di Heinz e fece un breve
resoconto dalla scena del rapimento di Agatha
all’inseguimento dei fuggitivi. Bitu, arrivato il suo turno, iniziò un turpiloquio in urdu-olandese che gli valse
un fendente nello stomaco. Harvey non poteva perdere
tempo e ne sapeva abbastanza. Da quando aveva incontrato Agatha e Bitu alla stazione si era insospettito e aveva iniziato le ricerche. Grazie alle sue aderenze nel
mondo dell’alta finanza e all’ingaggio di un hacker tossicomane, aveva scoperto che Bitu era un agente doppiogiochista al soldo di vari servizi segreti. Il suo ultimo
ingaggio consisteva nel recupero del war game trasportato da Ora. Del gioco era riuscito a capire che fosse una
sorta di Risiko informatico da combattersi in qualche
landa desolata tipo deserto dei Gobi o del Kalahari, do140
ve le parti in lotta dovevano fronteggiarsi per la conquista del mondo. Niente di eclatante, non fosse che qualche stronzo aveva pensato di farlo eseguire sul campo
da soldati volontari, trasformandolo in un business di
arruolamenti e armi, sperimentali o meno e con tanto di
risvolti strategici. Una simulazione realistica ipoteticamente in grado di smaltire armamenti, incrementandone
lo smercio oltre i conflitti d’attacco o liberazione sui
quali si reggevano le sorti dell’industria bellica e degli
apparati militari di numerose nazioni, europee o asiatiche che fossero. Il che aveva reso il gioco appetibile per
varie menti distorte su cospirazioni e intrallazzi di potere o di mercato, facendo entrare in campo i servizi segreti. Per non parlare di qualche consulente demenziale
che ne aveva ipotizzato una recondita finalità educativa,
un incanalamento della violenza intrinseca che avrebbe
consentito al maschio dominante di riconquistare il proprio emblema. In sostanza il gioco aveva scatenato un
conflitto ancor prima d’iniziare.
Tutta questa pappardella complicata Harvey l’aveva
parzialmente appresa alla riunione, lasciando credere
agli altri di essere strafatto, mentre gli sviluppi glieli aveva schematizzati l’hacker, un giovane pieno
d’intelletto, grana e dipendenze che aveva irretito a una
serata di beneficenza per i paesi in via di sviluppo, ex
terzo mondo, infarcita di troie, cocaina e derivati vari.
Questo era quanto sapeva e non aveva perso tempo a
spiegarlo ai presenti, cosa gl’importava? Forse a Ora
l’avrebbe detto, in un momento di calma, se mai ne fosse capitata l’occasione e non era quella. S’era limitato a
dire a Bitu:
– Sei una fottuta spia in combutta con quella baldracca
di Ingrid, che hai mandato in avanscoperta. Lei, non sapendo un tubo della faccenda, è riuscita a spedirci qui a
colpo sicuro solo perché aveva visto il furgone di Ora.
Io e Snake c’eravamo quasi cascati ma vedi, tu sei meno
scaltro di quanto credi. Hai lasciato a casa sua uno dei
tuoi merdosi fermagli di Shiva: quello che tieni appuntato al maglione, lei lo portava sullo scialle. Time out.
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Alzò la pistola e gli fiondò un colpo al centro della
fronte. Bitu avrebbe voluto dirgli che Ingrid, pur essendo una sua informatrice, stavolta non c’entrava e se aveva incontrato Ora era per caso. Ma il suo cervello
svalvolato era spiaccicato in grumi sanguinolenti che
imbrattavano il candore della neve e che importava poi?
Harvey una risposta ce l’aveva e già puntava l’arma
contro Toni, che stava tentando di scappare, ma Ora gli
prese il polso.
– Lascia perdere, abbiamo abbastanza cadaveri da far
sparire, quello non sa un cazzo e non parlerà, non gli
conviene – chiedendosene subito il motivo, giacché Toni non sapeva chi fosse, né che ruolo avesse.
– Mi sta sui coglioni – rispose Harvey, scostò la mano e
puntò in basso. La gamba di Toni cedette e lui cadde riverso a terra. Lo raggiunsero, lui si aggrappò agli anfibi
di Harvey invocando pietà.
– Idiota segaiolo, se avessi voluto ammazzarti l’avrei
già fatto, ma tu mi servi vivo. Ci vuole un testimone per
questo massacro. I vecchi con questa nebbia non possono vederci, non riusciranno a ricordare quanti colpi son
stati sparati e quando, né sanno da chi. Certo, m’hanno
visto e hanno ospitato Ora, ma non è un gran problema,
non ci troveranno. Farli fuori tutti non mi dispiacerebbe,
ma meglio per noi lasciarli illesi. Quindi tu rimani qui.
E poi devi parlare con la nonna di Snake. Era un bastardo, non merita pietà, ma insieme abbiamo lavorato bene,
con lui finisce un’epoca e questo almeno glielo devo.
Aprì una delle tante tasche ed estrasse un fazzoletto
pulito, lo passò sul calcio del revolver, lo bagnò nella
neve, lo ripassò, l’asciugò, scrollò le scorie di polvere
da sparo sulla mano di Bitu e gliela fece impugnare. Indi si pulì la manica dai residui cerebrali, estrasse da
un’altra tasca la pistola che aveva sottratto a Ora, fece lo
stesso trattamento e ci pressò sopra la mano destra di
Toni. A quel punto il più era fatto, Harvey contò i cadaveri, preparò un mezzo schema dello scontro che appuntò su un notes riposto, insieme alla penna, in un’altra tasca ancora; il tutto gli parve abbastanza credibile, lo
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memorizzò e lo inculcò a Toni, raccomandandogli di
lavorare un poco di fantasia. Poi gli consegnò un piccolo notebook acquistato al mercato nero e mai utilizzato,
che s’era infilato in una tasca per ogni evenienza e gli
disse che l’avrebbe contattato con quello, quindi non
doveva cadere nelle mani della polizia. L’unico problema era dove nasconderlo, il solo posto sicuro era la casa
dei vecchi. Mandò Ora in avanscoperta col ferito in
spalla.
Il terreno intorno all’edificio era pieno d’impronte e
aveva ripreso a nevicare, con un ramo per cancellare i
passi e un po’ di fortuna forse la polizia non sarebbe andata a frugare nell’incasinatissimo capanno degli attrezzi. Ora infilò l’aggeggio dentro una scatola di chiavi inglesi, chiodi vecchi, rondelle, stoppe, martelli, cacciaviti
mezzo arrugginiti.
L’importante era che ci fossero una mezza trama e
un presunto colpevole, in fondo a chi poteva importare
di un indiano, del Bangladesh per giunta, uno spacciatore e una free-lance del precariato, italiani per giunta? A
nessuno. Anzi la strage sarebbe stata utile ai media per
pubblicizzare il nuovo corso: l’era di puttane e droghe
in larga scala era al tramonto e con loro se ne sarebbero
andati anche i regolamenti di conti fra bande. Naturalmente non era vero un cazzo, era solo uno spostamento
d’interessi, una nuova fase di intrallazzi, un passaggio
dal fumo all’edilizia, ma Harvey non voleva entrarci,
troppo monotono per lui che amava la strada e i coffeshop. Detestava il rischio di trovarsi fuori tempo e fuori
luogo, doveva abbandonare la nave prima che affondasse e quello era il momento buono.
Finita l’operazione, Ora infilò Toni in casa, lasciò
uscire Heinz, che corse a orecchie spiegate a far le feste
al padrone e si allontanò. In quel mentre Harvey aveva
già trasferito parte del carico dal furgone al SUV, qualcosa dovevano pur lasciare per giustificare il tutto. Il
gioco occupava ben poco, nelle altre scatole c’erano
pezzi vari di armi, armi complete, munizioni, eroina, pasticche, tutte cose che sarebbero servite come esca.
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Finalmente poterono allontanarsi. Salirono sul SUV.
Ora si sentiva uno straccio, iniziava appena a realizzare
di essere un assassino. Aveva ucciso una donna che fra
l’altro conosceva. Certo non l’aveva fatto apposta, ma
per una frazione di secondo aveva concepito l’opzione
di mirare più in basso, senza applicarla.
Harvey, pur stravolto, era ancora in pena fase adrenalinica, pensare non gli era mai piaciuto granché, preferiva l’azione, organizzare, ordinare i tasselli e, nonostante gli imprevisti all’orizzonte e il rammarico per la
morte del socio, si trovava pienamente a suo agio. La
sprovvista giungeva sempre, di questo era ormai certo,
ma non gli piaceva lasciarsi cogliere impreparato. In
fondo era una sfida, una fottuta sfida nella quale non sapeva rassegnarsi. Vittorie o sconfitte, mai fanghiglie o
annaspamenti. Per questo, fra i tanti imprevisti prevedibili, s’era dotato pure di due passaporti falsi in vista di
nuove prospettive. Uno avrebbe dovuto essere per Snake ma pazienza, l’avrebbe utilizzato Ora. Certo, pure a
rasargli i capelli, riprodurre su di lui gli sfregi decorativi
del socio era quasi impossibile, cambiare la foto pure.
Quasi… uno spiraglio c’era, intanto dovevano superare
l’Europa, fuori da lì la manovra di sganciamento sarebbe stata più facile, soldi, corruzione e ricatto erano dalla
sua parte.
Pensò al suo ignoto villaggio, là nessuno l’avrebbe
scovato e c’erano tanti sorrisi da regalare, tanti bambini
ai quali offrire la gioia di un padre che non dovesse emigrare, l’opportunità di utilizzare le proprie risorse anziché lasciarsele sfruttare. Rivide il sorriso del fratello
bambino e capì che forse stava esagerando, che un sogno ad occhi aperti è ben lontano dalla realizzazione di
un progetto.
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Ora, sfiancato, era seduto accanto a lui, Heinz riposava nel vano posteriore. Per un istante Harvey provò la
sensazione di sentirsi il mondo in mano. Piccolo o grande, dritto o rovescio, in quel momento avverso gli parve
che il futuro fosse suo. E solo questo gl’importava, fino
al prossimo schianto.
Accese la radio, i notiziari non davano alcun barlume
di notizia sul massacro, il gelo forse avrebbe reso possibile un ritardo sulla cronologia dell’ora dei decessi e poi
la differenza era solo una manciata di minuti, anche se a
lui parevano un’eternità.
Cambiò su una stazione revival, gli Herman’s Hermits cantavano A wonderful word. Mise il volume a
stecca, accelerò.
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INDICE
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28
32
37
41
46
52
56
65
69
76
84
88
95
101
107
114
118
122
127
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Falsa partenza
Onda
Le attese
Le responsabilità
Il senso del bisogno
Partire
Destinazioni
Nemici
Squame
Mai scendere dalla fottuta barca
Reportage
Spostamenti
Arrivi
Incontri
Meditazioni
Children-Geriatric Kindergarten
Specchi
Intrattenimenti
Scorribande
Viaggio
Confidenze
Sogno
Bufera
Inseguimenti
Alba
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Stampato in Italia
nel giugno 2011 per conto di
LibertàEdizioni