L`interpretazione della croce
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L`interpretazione della croce
Sondrio Cronaca Sabato, 31 marzo 2012 29 Sondrio. Lo scorso lunedì, monsignor Saverio Xeres ha tenuto una conferenza all’Università della Terza Età di Sondrio: “La morte di Gesù e le sue interpretazioni” L’interpretazione della croce «G esù avrebbe dovuto essere lapidato a morte. Era questa la pena capitale prevista dalla legge giudaica per chi come lui era condannato come falso profeta e bestemmiatore. Le autorità giudaiche, però, non potevano emettere ed eseguire sentenze capitali. Il potere romano le aveva private del cosiddetto ius gladiis, il diritto di spada. I capi giudei, perciò, dovettero ricorrere al procuratore romano Ponzio Pilato». Così, Gesù, quest’ebreo palestinese, questo predicatore «che si era più volte dimostrato sovversivo anche nei confronti della Legge religiosa – con il suo comportamento verso gli stranieri, i lebbrosi, le donne, anche le prostitute – fu condannato all’atroce morte “romana” per crocifissione». Con questa precisazione di carattere storico, lo scorso lunedì 26 marzo, monsignor Saverio Xeres ha introdotto la sua, molto applaudita, conferenza rivolta ai soci dell’Università delle tre Età di Sondrio. Titolo della relazione: Il crocifisso più famoso della storia. La morte di Gesù e le sue interpretazioni. Comprendere l’interpretazione di un cittadino romano di allora di fronte alla morte di Gesù è, dunque, questione abbastanza semplice. Ai suoi occhi, il nazareno altro non fu che uno tra i tanti ribelli che Roma continuamente giustiziava con il supplizio orribile e ignominioso della morte di croce. Che cosa sappiamo, però, delle altre interpretazioni degli uomini che gli Agli occhi di un cittadino romano, Gesù non fu che uno tra i tanti ribelli che Roma continuamente giustiziava in croce. furono contemporanei? Le troviamo riassunte in san Paolo, ha spiegato monsignor Xeres, e precisamente nel celebre passo della Prima lettera ai Corinzi, nei versetti che recitano: «Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani [i Greci]; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio». Queste parole dell’apostolo spiegano che quella morte straziante fu solo “stoltezza” per il mondo greco, il mondo della cultura, della filosofia, della ragione. Una morte ancor più dissennata, ha rilevato don Saverio, se paragonata a quella del greco Socrate, che bevve la cicuta in quieta serenità e circondato dall’affetto dei suoi discepoli. Gesù, invece, agonizzò atrocemente al cospetto di poche donne, abbandonato da tutti i suoi tranne uno, Giovanni, tra lo scherno dei passanti. Per i Giudei, la sua morte fu la giusta punizione di un intollerabile scandalo, la sua pretesa di essere addirittura Figlio di Dio. Ben differente l’interpretazione dei “chiamati”, i cristiani che in lui riconobbero il Cristo salvatore, «potenza e sapienza di Dio». Rimane, però la fondamentale domanda: perché Gesù dovette passare attraverso questo supplizio? E in che senso fu necessario per la nostra salvezza? «Il primo tentativo di risposta teologica organica a queste domande», ha spiegato Xeres, «è stato quello di sant’Anselmo». Nella sua opera Cur Deus homo (Perché un Dio uomo), il monaco, teologo e arcivescovo di Canterbury vissuto nel secolo XIXII, tentò una spiegazione razionale. La Croce, per sant’Anselmo, fu un necessario progetto di Dio: solo il Diouomo Gesù avrebbe potuto riparare l’offesa dei peccati che l’umanità commette verso Dio stesso. Don Saverio ha mostrato come questa spiegazione, frutto della cultura di quel tempo, non sia certo tollerabile ai giorni nostri. L’immagine di Dio-padre che sacrifica suo figlio è una spiegazione che ripugna e contrasta non solo con la nostra mentalità, ma con l’immagine di Dio che Gesù stesso ci dà nel Vangelo, quella di un padre che ama suo Figlio. E se non è tollerabile l’idea di un Dio che pretende una riparazione proporzionata ■ “Il Romit” di Sondalo La Croce: simbolo di benedizione N ella chiesa parrocchiale San Francesco di Sondalo, si trova il crocifisso ligneo più antico della provincia di Sondrio, unica testimonianza rimasta di epoca alto-medioevale, un tempo conservata nell’emozionante Chiesa di Sant’Agnese. La tradizione popolare locale ne ha tramandato anche un nome “il Romit”, forse perché legato alla presenza di un eremita. La croce (a destra, nella foto di Federico Pollini) è in legno di larice, mentre il Cristo scolpito è in legno di ontano. Oltre a essere un Cristo vestito ha un’altra particolarità: né i piedi, né le mani sono trafitte da chiodi. Quest’assenza trova riferimento in antiche tradizioni iconografiche che «rifiutavano la rappresentazione disonorevole di Cristo ignominiosamente inchiodato allo strumento della sua passione, per non assimilarlo ai veri criminali che subivano l’onta di questo tipo di supplizio», ha scritto lo studioso Oleg Zastrow, nel suo saggio su “il Romit”, pubblicato dal Bollettino storico Alta Valtellina, nel 2004. Questa riflessione ci riporta alla conferenza di monsignor Saverio Xeres, che ha spiegato come il passaggio della Croce «da simbolo di dannazione a simbolo di benedizione fu conseguenza dell’opera dell’imperatore Costantino», che della croce fece grande uso, riproducendola ovunque, a partire dalle armi dei soldati e dal proprio elmo, così da «trasformarla in elemento caratteristico e costante dell’iconografia imperiale». La croce divenne «simbolo di eventi politici e militari e trovò un suo culmine nelle Crociate in armi», che da pellegrinaggi a Gerusalemme sotto scorta armata divennero, poi, strumento di conquista e sottomissione politica di territori strappati all’Islam. Ma proprio nel momento in cui «l’identificazione politica attorno alla croce raggiunse il proprio vertice storico», ha spiegato don Saverio, «si dimostrò inattuabile e inaccettabile». Inattuabile «perché le crociate furono un fallimento, sia in senso militare che politico» e «soprattutto perché si rivelò che la cristianità unita e compatta attorno al segno della croce sotto la guida del papa era una visione ideale» di fronte alla potente affermazione del potere temporale delle monarchie. Inaccettabile, «perché la riscoperta del Crocifisso evangelico si chiarì nei suoi aspetti di non violenza, povertà, debolezza». Nel momento della più profonda identificazione tra Chiesa e società, tra Croce e potere, si ricomprese che la Croce di Cristo non era compatibile con il potere e la conquista. Araldo di questa “Crociata” fu san Francesco. L’arma e la ricchezza del poverello d’Assisi era una sola: il Crocifisso. per l’offesa ricevuta, nella spiegazione di sant’Anselmo si tralascia per di più la responsabilità degli uomini: «la morte di Cristo appare dovuta a un disegno divino, nel quale gli attori umani sono solo degli strumenti passivi». Nietzche definì questo modo di presentare la morte del Risorto con parole lapidarie: «Un’assurdità spaventosa (…). Il sacrificio dell’innocente per i peccati dei rei. Quale raccapricciante paganesimo!». Nei Vangeli, invece, «la Croce è vista come esaltazione (e non sacrificio!) di Gesù, come compimento dell’Ora cui la sua vita tendeva e come effusione dello Spirito che era in lui». Non la Croce, dunque, ma l’esistenza intera di Gesù, Resurrezione compresa, è motivo di salvezza per l’uomo. E, «invece di ragionare su come Dio avrebbe dovuto o non dovuto comportarsi, è più corretto mettersi di fronte al concreto comportamento di Gesù di fronte alla sua morte». Nei fatti, il figlio di Dio si consegna liberamente alla condanna voluta dagli uomini. Accetta la morte, che gli uomini gli impongono, come suo gesto di condivisione verso l’umanità. La Croce, dunque, è il messaggio dell’Amore totale di Dio nei confronti dell’uomo. «Con questo suo comportamento», ha detto ancora Xeres, «Cristo indica in quale direzione è da intendere la salvezza dell’uomo»: non in un salvare se stessi in vista dell’al di là, ma nel lasciarsi coinvolgere nell’Amore stesso di Dio su questa terra. Questo vuol dire «accettare a nostra volta la Croce, ossia il dono Nei Vangeli «la Croce è vista come esaltazione (e non sacrificio!) di Gesù, come compimento dell’Ora cui la sua vita tendeva». totale di noi stessi, per farci a nostra volta tramite d’amore». Ciò accade quando scegliamo di agire liberamente in Cristo, accogliendo la sua presenza e lasciandoci guidare da lui nelle circostanze della vita. «Solo il peccato, ossia il rifiuto verso di Lui, ci può separare dall’amore». In questo è la nostra libertà di scelta. pagina a cura di MILLY GUALTERONI