prime 45 pagine del libro

Transcript

prime 45 pagine del libro
leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri
http://www.10righedailibri.it
p
Scatti
Jojo Moyes
L’ULTIMA LETTERA
D’AMORE
Traduzione di Anna Tagliavini
©
I edizione aprile 2011
© 2011 Elliot Edizioni s.r.l.
Via Isonzo 34, 00198 Roma
Tutti i diritti riservati
ISBN 978-88-6192-221-1
[email protected]
www.elliotedizioni.com
Per Charles, che con il suo messaggio
ha scatenato tutto questo
Buon compleanno! C’è anche il regalo, che spero ti piacerà…
Ti ho pensato molto, oggi… perché ho deciso che, per quanto ti voglia bene, non sono innamorata di te. Non credo che
tu sia la mia anima gemella. In ogni caso spero davvero che il
regalo ti piaccia e che tu trascorra un compleanno fantastico.
Donna a uomo, lettera
Prologo
A poi X
Ellie Haworth scorge i suoi amici tra la folla e si fa strada attraverso
il bar. Lascia cadere la borsa per terra e posa il telefonino sul tavolo
davanti a loro. Sono già brili – si intuisce dal tono delle voci, dal gesticolare esagerato, dalle risate sguaiate, dalle bottiglie vuote che
hanno davanti.
«Sei in ritardo». Nicky alza il braccio mostrando l’orologio, e
agita un dito in segno di rimprovero. «E non rifilarci il solito “Dovevo finire un articolo”».
«Intervista con la moglie cornuta di un parlamentare. Scusate.
Era per l’edizione di domani» dice infilandosi nell’unico posto
vuoto e riempiendosi il bicchiere con il fondo di una bottiglia.
Spinge il telefono in mezzo al tavolo. «Okay. Vi propongo l’espressione irritante di oggi: “A poi” ».
«A poi?».
«Come saluto. Significa a domani o a più tardi? O è solo un
orrido intercalare da adolescenti, e in realtà non significa un bel
niente?».
Nicky scruta il display. «“A poi” seguito da una X. La X sta
per “kiss”, bacio. È tipo “buonanotte”. Quindi direi a domani».
«Domani, sicuro» dice Corinne. «“Poi” è sempre domani».
Esita. «Oppure potrebbe addirittura significare dopo-domani».
«È molto sciolto».
«Sciolto?».
«Una cosa che potresti anche dire al postino».
«Manderesti un bacio al tuo postino?».
11
Nicky fa un gran sorriso. «Io sì. È stupendo».
Corinne studia il messaggio. «Non credo sia giusto. Potrebbe
significare solo che aveva fretta di fare qualcos’altro».
«Seee. Farsi sua moglie, per esempio».
Ellie lancia a Douglas un’occhiata ammonitrice.
«Che c’è?» ribatte lui. «Volevo solo dire: non credi di aver superato la fase in cui devi decrittare il testo?».
Ellie vuota il bicchiere, poi si sporge in avanti sopra il tavolo.
«Okay. Se devo sorbirmi la predica, ho bisogno di bere qualcos’altro».
«Quando si è intimi di qualcuno tanto da fare sesso nel suo ufficio, direi che gli si potrebbe chiedere in modo diretto quando andare a prendere un caffè».
«Cosa dice il resto del messaggio? E ti prego, dimmi che non
riguarda il sesso in ufficio».
Ellie controlla il telefono, fa scorrere i messaggi. «“Telefonata
complicata da casa. Settimana prossima Dublino ma non so ancora i programmi. A poi X”».
«Si tiene aperte tutte le opzioni» dice Douglas.
«Forse non sa esattamente… come dire… quali sono i programmi».
«Allora poteva dire “Ti chiamo da Dublino”. O addirittura
“Vieni con me a Dublino”».
«Ci porta sua moglie?».
«Non lo fa mai. È un viaggio di lavoro».
«Forse ci porta qualcun’altra» mormora Douglas guardando
la sua birra.
Nicky scuote la testa, pensierosa. «Dio, non era tutto più semplice quando dovevano telefonarti e parlare con te? Se non altro potevi fiutare dal tono della voce se stavano pensando di scaricarti».
«Già» sbuffa Corinne. «E potevi restartene in casa, accanto al
telefono per ore e ore ad aspettare che chiamassero».
«Ah, le notti che ci ho passato…».
«…a controllare se c’era la linea…».
«…e poi buttar giù di corsa, casomai ti stesse chiamando proprio in quel preciso momento».
Sentendoli ridere, Ellie riconosce la verità nelle loro battute;
una piccola parte di lei aspetta ancora di vedere il display illuminarsi per una chiamata. Chiamata che, data l’ora e le “complicazioni a casa”, non arriverà.
Douglas la scorta verso casa. È l’unico dei quattro a convivere
con qualcuno, ma la sua compagna, Lena, è un pezzo grosso delle pubbliche relazioni nel settore tecnologico, e spesso rimane in
ufficio fino alle dieci o alle undici di sera. A Lena non dispiace
che lui esca con i vecchi amici: qualche volta l’ha anche accompagnato, ma per lei è difficile penetrare la barriera fatta di vecchie
battute e di allusioni che risalgono a un decennio e mezzo di amicizia; di solito lascia che ci vada da solo.
«Allora… E tu che mi dici?». Ellie gli dà di gomito nelle costole,
mentre scansano un carrellino per la spesa che qualcuno ha abbandonato sul marciapiede. «Non hai raccontato niente di te, stasera. A meno che non mi sia persa tutto all’inizio».
«Non c’è molto» dice lui, poi esita. Si infila le mani in tasca.
«A dire il vero, non è proprio così. Ehm… Lena vuole un figlio».
Ellie alza lo sguardo su di lui. «Wow!».
«E anch’io» si affretta ad aggiungere. «Ne parliamo da secoli,
ma adesso abbiamo deciso che non ci sarà mai un momento giusto,
quindi tanto vale farlo e basta».
«Vecchio romanticone».
«Sono… mah… abbastanza felice, sul serio. Lena si terrà il lavoro, e io baderò al bambino a casa. Certo, ammesso che tutto vada
come deve andare e…».
Ellie cerca di mantenere un tono neutro. «E tu sei contento
così?».
«Sì. Tanto il mio lavoro non mi piace nemmeno. Non mi piace
più da anni. Lei guadagna una barca di soldi. Penso che sarà piuttosto divertente passare la giornata a sfaccendare per casa con un
bambino».
«Essere genitori è qualcosa di più che sfaccendare per casa…»
comincia lei.
«Lo so. Attenta… sul marciapiede». Con delicatezza la sposta
per scansare quello schifo. «Ma io sono pronto. Non ho bisogno di
12
13
uscire tutte le sere per andare al pub. Voglio passare al livello successivo. Questo non significa che non mi piaccia uscire con voialtri, ma a volte mi chiedo se non dovremmo tutti… cerca di capirmi… crescere un po’».
«Oh, no!». Ellie gli stringe il braccio. «Sei passato al lato oscuro».
«Be’, io non provo per il mio lavoro quello che provi tu. Per te
è tutto, no?».
«Quasi tutto» ammette lei.
Percorrono in silenzio un paio di strade, ascoltando le sirene
in lontananza, gli sportelli delle macchine che sbattono, il chiacchiericcio soffocato della città. Ellie adora questo momento della
sera, rallegrato dall’amicizia, momentaneamente libero dalle incertezze che circondano il resto della sua esistenza. Ha trascorso
una bella serata e adesso è diretta a casa, al suo appartamento così
accogliente. È sana come un pesce. Ha una carta di credito da cui
può ancora attingere in abbondanza, ha progetti per il weekend,
ed è l’unica dei suoi amici a non essersi ancora scoperta nemmeno un capello bianco. La vita è bella.
«Pensi mai a lei?» chiede Douglas.
«A chi?».
«Alla moglie di John. Credi che lo sappia?».
Al sentirla nominare, la felicità di Ellie svanisce. «Non lo so».
E visto che Douglas non commenta, aggiunge: «Sono sicura che
io al suo posto lo avrei capito. Si interessa di più ai bambini che al
marito, a sentir lui. A volte mi dico che forse una piccola parte di
lei è contenta di non doversi preoccupare per lui. Di doverlo rendere felice, capisci?».
«Sì, ti piacerebbe!».
«Può darsi. Ma se proprio devo essere onesta, la risposta è no.
Non penso a lei e non mi sento in colpa. Perché sono convinta
che non sarebbe successo se fossero stati felici o… come dire…
legati».
«Voi donne avete un’idea degli uomini così distorta».
«Secondo te è felice con lei?» chiede, studiando la sua espressione.
«Non ne ho idea. Solo, non credo che debba essere infelice
con sua moglie per venire a letto con te».
L’atmosfera è un po’ alterata e lei, forse rendendosene conto,
con la scusa di sistemarsi la sciarpa gli lascia il braccio. «Tu pensi
che io sia una poco di buono. O che lo sia lui».
Ecco, ha sputato il rospo. Le brucia il fatto che a dirglielo sia
Douglas, il meno intransigente di tutti i suoi amici.
«Non giudico nessuno. Penso solo a Lena, e a cosa significherebbe per lei portare in grembo mio figlio. E l’idea di andare in giro
a inzuppare il biscotto perché lei ha scelto di dedicare a mio figlio
le attenzioni che credevo fossero riservate a me…».
«Quindi lo consideri davvero un poco di buono».
Douglas scuote la testa. «Volevo solo…» Si interrompe. Prima
di formulare la sua risposta alza gli occhi al cielo notturno. «Penso che tu debba stare attenta, Ellie. Tutti questi tentativi di decifrare che cosa intende dire, che cosa vuole, sono tutte stronzate.
Stai sprecando il tuo tempo. Nel mio mondo, di solito, le cose sono
piuttosto semplici. Qualcuno ti piace, tu piaci a qualcuno, vi mettete insieme e in sostanza è tutto qui».
«Carino, il mondo in cui vivi, Doug. Peccato che non somigli
a quello vero».
«Okay, cambiamo argomento. Questo è pessimo da tirar fuori
dopo aver alzato il gomito»
«No». C’è una nota stridula nella sua voce adesso. «In vino veritas eccetera eccetera. Va bene così. Se non altro so come la pensi. Fermiamoci qui. Salutami Lena». Percorre di corsa le ultime
due vie prima della sua, senza voltarsi a guardare il vecchio amico
alle sue spalle.
14
15
Stanno impacchettando The Nation, uno scatolone dopo l’altro, in vista del trasloco nella nuova sede, un edificio con la facciata
in vetro nella zona est della città, su una banchina da poco riqualificata, tutta scintillante. L’ufficio è andato assottigliandosi, una
settimana dopo l’altra: dove una volta c’erano cataste di comunicati stampa, cartelline e ritagli d’archivio, ora ci sono solo scrivanie
vuote, sorprendenti e lucide distese di superfici laminate esposte
al bagliore impietoso delle luci al neon. Sono stati riportati alla luce
ricordi di storie passate, come reliquie di scavi archeologici: bandierine per celebrare anniversari di incoronazioni, elmetti di metallo tutti ammaccati risalenti a guerre remote, certificati incorniciati di premi da tempo dimenticati. Ammassi di cavi giacciono
esposti, riquadri di moquette sono stati rimossi e grandi buchi
aperti nei soffitti, provocando le visite istrioniche di esperti di salute e sicurezza, nonché di una sfilza infinita di visitatori armati di
blocchi per appunti. I settori Pubblicità, Annunci economici e
Sport sono già stati trasferiti sulla Compass Quay. L’inserto del
sabato e la redazione Economia e Finanza Personale si stanno
preparando a traslocare nelle prossime settimane. Cultura e società, il settore di Ellie, seguirà insieme alla Cronaca, con un gioco di mano studiato come una coreografia, in modo che mentre l’edizione della domenica sarà pubblicata nella vecchia redazione di
Turner Street, quella del lunedì salterà fuori, come per magia, dal
nuovo indirizzo.
Lo stabile, sede del giornale da quasi cent’anni, non è più adatto allo scopo, per usare un’espressione poco gradita. Secondo
l’amministrazione non riflette la natura dinamica ed efficiente
della moderna selezione delle notizie. Ha troppi buchi in cui nascondersi, osservano di malumore gli scribacchini quando vengono fatti sloggiare dalle loro posizioni, come patelle che si aggrappano ostinatamente a uno scafo bucato.
«Dovremmo festeggiare» dice nel suo ufficio semivuoto Melissa, caporedattore di Cultura e società. È vestita di seta color vinaccia. Addosso a Ellie l’abito sembrerebbe la camicia da notte di
sua nonna; su Melissa sembra esattamente quello che è: sfacciatissima ultima moda.
«Il trasloco?» Ellie guarda accanto a sé il cellulare, impostato in
modalità silenziosa. Intorno a lei i colleghi del settore restano in
silenzio, con i blocchi per gli appunti sulle ginocchia.
«Sì. L’altra sera parlavo con uno degli archivisti. Dice che ci
sono un sacco di vecchi schedari che non vengono consultati da
anni. Voglio qualcosa sulle pagine femminili di cinquant’anni fa.
Come sono cambiate la mentalità, la moda, le preoccupazioni del-
le donne. Casi concreti messi a confronto, allora e adesso». Melissa apre una cartellina e ne estrae diverse fotocopie in formato A3.
Parla con la tranquilla sicurezza di chi è abituato ad essere ascoltato. «Per esempio, dalle nostre pagine della posta dei lettori: “Che
diavolo posso fare per convincere mia moglie a vestirsi meglio e a
rendersi più attraente? Guadagno 1500 sterline all’anno, e sto iniziando a fare carriera in una società di vendite. Ricevo spesso inviti dai clienti, ma nelle ultime settimane sono stato costretto a
declinare perché mia moglie, detto francamente, è un disastro”».
Si sentono delle risatine sommesse in giro per la stanza.
«“Ho cercato di dirglielo con gentilezza, ma lei risponde che
non gliene importa un fico secco di moda, gioielli e trucco. In tutta sincerità, non ha per niente l’aspetto della moglie di un uomo
di successo, come invece vorrei io”».
John aveva detto a Ellie, una volta, che, con l’arrivo dei bambini, sua moglie aveva perso ogni interesse per il proprio aspetto.
Aveva cambiato argomento quasi subito e non ci era mai più tornato sopra, come se intuisse che quelle affermazioni rappresentavano un tradimento ancora peggiore dell’andare a letto con un’altra. Ellie era stata infastidita da quell’accenno di lealtà da gentiluomo, ma una piccola parte di lei lo ammirava per questo.
E comunque ne era rimasta colpita. Si era immaginata la moglie: sciatta nella sua camicia da notte macchiata, con in braccio
un bambino, mentre rimproverava al marito qualche presunta
mancanza. Aveva avuto voglia di dirgli che lei, con lui, non si sarebbe mai comportata così.
«Si potrebbe girare la domanda a una moderna Donna Letizia». Rupert, il direttore del supplemento del sabato, si sporge in
avanti per sbirciare le altre fotocopie.
«Non sono sicura che sia necessario. Sentite la risposta: “Forse a sua moglie non è mai venuto in mente di dover far parte della sua vetrina. Ammesso che dedichi un pensiero a queste cose,
può darsi che dica a se stessa che è sposata, sicura, felice, quindi
perché preoccuparsene?”»
«Ah» commenta Rupert. «La straordinaria pace del letto matrimoniale».
16
17
«“L’ho visto succedere, e anche molto in fretta, sia a ragazze appena innamorate che a donne intente a crogiolarsi nel comodo involucro di un matrimonio stagionato. Un attimo prima sono perfette come una parete dipinta di fresco, mentre combattono eroicamente con il girovita, raddrizzano le cuciture delle calze, si
tamponano ansiosamente di profumo. Poi un uomo dice ti amo e
un attimo dopo quella splendida ragazza si trasforma in una sciattona. Una sciattona felice”».
La stanza si riempie per qualche istante di educate risatine di
apprezzamento.
«Cosa scegliete, ragazze? Combattere eroicamente con il girovita o diventare una sciattona felice?».
«Mi pare di aver visto un film con quel titolo, poco tempo fa»
dice Rupert. Il suo sorriso svanisce quando si accorge che le risate si sono spente.
«Possiamo tirar fuori un sacco di roba da materiale come questo» Melissa indica la cartellina. «Ellie, potresti andare un po’ a
scavare, questo pomeriggio? Vedi cos’altro riesci a trovare. Teniamoci sui quaranta, cinquant’anni fa. Cento sarebbe troppo alienante. Il direttore vuole che mettiamo in risalto il trasloco in modo
che i lettori sentano di spostarsi insieme a noi».
«Vuoi che vada a spulciare l’archivio?».
«È un problema?».
No, se ti piace sederti in scantinati bui pieni di carta ammuffita sorvegliati da uomini disfunzionali con una mentalità stalinista,
che sembra non vedano la luce del giorno da trent’anni. «Assolutamente no» dice tutta allegra. «Sono sicura che troverò qualcosa».
«Portati qualche praticante per farti dare una mano, se vuoi.
Ho sentito dire che ce ne sono un paio che si aggirano nella redazione moda».
Ellie non si accorge della soddisfazione malevola che attraversa l’espressione del suo caporedattore al pensiero di spedire l’ultima nidiata di aspiranti Anna Wintour nelle viscere del quotidiano. È troppo impegnata a pensare: Merda. Sottoterra il telefonino
non prende.
«A proposito, Ellie, dov’eri stamattina?».
«Cosa?».
«Stamattina. Volevo farti riscrivere quel pezzo sui bambini e il
lutto. Hai presente? Nessuno sembrava sapere dov’eri».
«Ero uscita per un’intervista».
«Con chi?».
Un esperto del linguaggio del corpo, pensò Ellie, avrebbe giustamente interpretato il sorriso vacuo di Melissa come denti scoperti in un ringhio.
«Un avvocato. Una gola profonda. Speravo di preparare qualcosa sul sessismo in tribunale». Le è venuto fuori quasi senza averci pensato prima.
«Sessismo nella City. Non mi sembra certo pionieristico. Cerca di essere alla tua scrivania in orario, domani. I colloqui per sondare il terreno li fai nel tempo libero. Okay?».
«Certo».
«Bene. Voglio un paginone doppio per il primo numero da
Compass Quay. Una cosa del tipo plus ça change…». Scarabocchia qualcosa sul suo taccuino rilegato in pelle. «Preoccupazioni,
pubblicità, problemi… portami qualche pagina più tardi nel pomeriggio, così vediamo cos’hai trovato».
«D’accordo». Il sorriso di Ellie è il più radioso e il più solerte
in tutta la stanza, mentre segue gli altri fuori dall’ufficio.
18
19
Giornata trascorsa nell’equivalente moderno del purgatorio,
batte a macchina, prima di interrompersi per bere un sorso di vino.
L’archivio del giornale. Ringrazia il cielo, tu che sei libero di inventarti tutto.
Lui le ha mandato un messaggio da hotmail. Si è ribattezzato
Penpusher, imbrattacarte; una loro vecchia battuta. Ellie si raggomitola sulla poltroncina con i piedi sotto di sé e rimane in attesa,
sperando che il computer le notifichi la sua risposta.
Sei proprio un’incivile. Io adoro gli archivi, risponde lo schermo.
Ricordami di portarti alla British Newspaper Library, al nostro prossimo appuntamento.
Lei sorride. Tu sì che sai come far divertire una ragazza.
Faccio del mio meglio.
Lo aveva incontrato a una fiera del libro nel Suffolk. Era stata
inviata a intervistare un autore di thriller che aveva fatto fortuna
dopo aver rinunciato ad ambizioni più letterarie. Lui si chiamava
John Armour e Dan Hobson, il suo eroe, era una miscela quasi da
cartone animato di tratti virili fuori moda. Lo aveva intervistato durante un pranzo, aspettandosi da lui una difesa trita e ritrita della
letteratura di genere e forse qualche piagnisteo sull’industria editoriale: intervistare gli scrittori la sfiancava sempre. Si era immaginata un panzone di mezza età, inflaccidito da anni di sedentarietà
alla scrivania. Ma l’uomo alto e abbronzato che si era alzato per
darle la mano era asciutto e lentigginoso, e assomigliava piuttosto
a un agricoltore sudafricano abituato all’asprezza del clima. Era
simpatico, affascinante, autocritico e attento. Aveva rovesciato i
ruoli facendole domande personali, poi le aveva parlato delle sue
teorie sull’origine del linguaggio e della sua convinzione che la
comunicazione si stesse trasformando in qualcosa di moscio e orrendo.
Quando arrivò il caffè, si era resa conto di non aver più preso
appunti da almeno quaranta minuti.
«Ma non le piace il suono di certe lingue?» aveva detto lei appena fuori dal ristorante, mentre tornavano alla manifestazione.
Era quasi la fine dell’anno e il sole invernale era già sprofondato
dietro ai bassi edifici della strada sempre più silenziosa. Lei aveva
bevuto troppo, era al punto in cui la bocca se ne andava per conto suo, in atteggiamento di sfida, prima ancora che lei avesse deciso che cosa dire. Le era dispiaciuto uscire dal ristorante.
«Per esempio?».
«Lo spagnolo. Soprattutto l’italiano. Sono certa che è quello il
motivo per cui mi piace l’opera italiana mentre non sopporto quella tedesca. Tutti quei suoni duri, gutturali». Lui era rimasto zitto a
riflettere, e quel silenzio l’aveva irritata. Aveva cominciato a balbettare: «Lo so che è terribilmente fuori moda, ma io adoro Puccini. Adoro le emozioni intense. Adoro le erre italiane, lo staccato…» Si era interrotta accorgendosi di quanto apparisse ridicolmente pretenziosa.
Lui si era fermato sotto un androne, aveva dato una rapida occhiata alla strada dietro di loro, poi era tornato a rivolgersi a lei.
«L’opera non mi piace». L’aveva guardata dritto negli occhi, mentre lo diceva. Come per sfidarla. Lei aveva sentito qualcosa che
cedeva, proprio giù in fondo allo stomaco. Oddio, aveva pensato.
«Ellie» aveva detto lui dopo un minuto che stavano fermi lì. Era
la prima volta che la chiamava per nome. «Ellie, devo andare a
prendere una cosa in albergo, prima di rientrare al festival. Ti va
di accompagnarmi?».
Ancor prima che lui chiudesse la porta della camera alle loro
spalle, erano già avvinghiati; i corpi premuti uno contro l’altro, le
bocche intente a divorarsi mentre le mani eseguivano l’urgente,
frenetica coreografia necessaria a spogliarsi.
In seguito, ripensando al suo comportamento, si era meravigliata di sé come di una qualche aberrazione osservata con distacco. Si era fatta passare la scena davanti agli occhi centinaia di volte fino a cancellarne l’importanza, l’emozione che l’aveva sopraffatta, lasciando solo i particolari. La sua biancheria di tutti i giorni,
20
21
L’unico archivista umano che c’era mi ha rifilato un pacco di carte sparse. Non sarà certo la più eccitante delle letture da fare a
letto.
Per paura di sembrare sarcastica aggiunge uno smile, ma si dà
della cretina appena le torna in mente che lui ha scritto un articolo per la Literary Review sulle emoticons come emblema di tutto
ciò che non va nella comunicazione moderna.
Era uno smile ironico, aggiunge, premendosi la mano a pugno
contro la bocca.
Aspetta. Telefono. Lo schermo si blocca.
Telefono. La moglie? Lui è in una camera d’albergo a Dublino. Vista mare, le ha detto. Ti piacerebbe. Come avrebbe dovuto
replicare? Allora portami con te la prossima volta? Troppo impegnativo. Sono sicura di sì? Sembrava quasi ironico. Sì, era stata alla
fine la sua risposta, accompagnata da un lungo sospiro che nessuno poteva sentire.
Gli amici dicono che la colpa è solo sua. Una volta tanto, non
può contraddirli.
inadeguata, lanciata a cavallo del servomuto; le folli risatine di entrambi, dopo, sul pavimento, coperti dalla trapunta sintetica e
sgargiante dell’albergo; il modo in cui lui, verso la fine del pomeriggio, aveva restituito allegramente la chiave alla receptionist,
con un’ostentazione di fascino fuori luogo.
L’aveva chiamata due giorni dopo, quando la scioccante euforia di quella giornata cominciava a trasformarsi in qualcosa di più
deludente.
«Che sono sposato lo sai» aveva detto. «Avrai letto i pezzi sul
mio conto».
Ho cercato su Google fino all’ultima noticina, gli aveva riposto in silenzio.
«Non sono mai stato… infedele, prima. Ancora non riesco a
spiegarmi come sia successo».
«Sarà stata la quiche» aveva scherzato lei, con una smorfia di
sofferenza.
«Tu mi hai fatto qualcosa, Ellie Haworth. Non sono riuscito a
scrivere una parola in quarantott’ore». Silenzio. «Mi fai dimenticare quello che voglio dire».
Allora sono spacciata, aveva pensato. Perché appena aveva sentito il peso di lui contro di sé, aveva capito – a dispetto di tutto
quello che aveva sempre detto ai suoi amici in merito agli uomini
sposati, a dispetto di tutte le sue convinzioni di sempre – che le
sarebbe bastato sentire da lui il più piccolo accenno all’accaduto,
per perdersi completamente.
A distanza di un anno, non aveva ancora iniziato a cercare una
via d’uscita.
Lui torna online circa tre quarti d’ora dopo. Nel frattempo lei
ha lasciato il computer, si è preparata un altro drink, ha gironzolato per l’appartamento senza niente da fare, si è controllata la
carnagione nello specchio del bagno e ha raccolto delle calze scompagnate che ha ficcato nel cesto della roba sporca. Sente il ping di
un messaggio e si precipita a sedere.
Scusa. Non volevo metterci tanto. Spero che potremo parlare
domani.
Niente telefonate al cellulare, aveva detto. La bolletta è dettagliata.
Sei in albergo, adesso? Digita in fretta. Potrei chiamarti in camera. Parlarsi a voce era un lusso, un’opportunità rara. Dio, aveva soltanto bisogno di sentire la sua voce.
Devo andare a cena, bellissima. Scusa – sono già in ritardo. A
poi X.
E se ne è andato.
Lei fissa lo schermo vuoto. Adesso starà attraversando con
passo atletico l’atrio dell’hotel, ammaliando il personale della reception, per poi salire nella macchina messa a disposizione dall’organizzazione del festival. Stasera a cena farà un intervento brillante e spontaneo, e poi si comporterà come al solito, divertito e
appena un po’ malinconico, con i fortunati che siedono a tavola
con lui. Sarà là fuori, a vivere la sua vita al cento per cento, mentre lei sembra aver messo la sua in attesa perenne.
Che cazzo stava facendo?
«Che cazzo sto facendo?» dice ad alto voce, spegnendo il computer. Grida la sua frustrazione al soffitto della camera, lasciandosi cadere sul grande letto vuoto. Non può chiamare i suoi amici: hanno sopportato queste conversazioni già troppe volte ed è
fin troppo facile indovinare quale sarebbe la loro reazione – l’unica reazione possibile. Quel che le ha detto Doug le ha fatto male.
Ma lei avrebbe detto le stesse identiche cose a ciascuno di loro.
Si siede sul divano, accende la televisione. Infine, lanciando
un’occhiata al mucchio di carte che ha di fianco, se le mette in
grembo maledicendo Melissa. Una miscellanea, aveva detto l’archivista, ritagli senza data non riconducibili alle categorie più ovvie – «Non ho avuto tempo di esaminarli tutti. Sapessi quante pile
come questa stanno saltando fuori». Era l’unico archivista sotto i
cinquanta, là sotto. Di sfuggita, si chiese come mai non l’avesse mai
notato prima.
«Vedi se c’è qualcosa che ti può servire». Si era sporto in avanti con aria complice. «Tutto quello che scarti buttalo pure, ma
non dirlo al capo. Siamo arrivati al punto in cui non possiamo
permetterci di esaminare ogni singolo pezzo di carta».
22
23
Il perché fu subito evidente: qualche recensione teatrale, un
elenco dei passeggeri di una nave da crociera, alcuni menù di cene
indette dal giornale per festeggiare qualche evento. Sfoglia tutto
quanto, buttando di tanto in tanto un occhio alla televisione. Qui
non c’è niente di esaltante per Melissa.
Ora sta passando in rassegna uno schedario malconcio, sembrano cartelle cliniche. Tutte malattie polmonari, nota distrattamente. C’entra il lavoro in miniera. Sta per buttare tutto il pacco
nel cestino quando il suo sguardo cade su un angolino azzurro
pallido. Lo prende tra indice e pollice e tira, estraendo una busta
scritta a mano. È stata aperta, e la lettera all’interno è datata 4 ottobre 1960.
Mio adorato e unico amore,
dicevo sul serio. Uno di noi deve prendere una decisione, sono
giunto alla conclusione che sia l’unico modo per andare avanti.
Io non sono forte come te. Quando ci siamo conosciuti, ho pensato che tu fossi un essere fragile, una persona da proteggere. Ora
mi rendo conto di quanto avessi torto. Tra noi due, sei tu ad avere più
forza: tu, che sei capace di accettare la possibilità di vivere un amore
come questo, e di sopportare il fatto che non ci sarà mai permesso
viverlo.
Ti supplico, non giudicarmi per la mia debolezza. La mia sola possibilità di sopravvivere è andare dove non potrò vederti mai più, dove
non sarò più ossessionato l’eventualità di vederti in sua compagnia.
Ho bisogno di stare in un posto in cui altre necessità mi costringano
a scacciarti dai miei pensieri un minuto dopo l’altro, un’ora dopo l’altra. Questo, qui, non può accadere.
Accetterò quel posto. Sarò a Paddington Station, binario 4, alle
19,15 di venerdì. Se trovassi il coraggio di venire con me, niente al
mondo mi farebbe più felice.
Se non verrai saprò che, per quanto forte sia quello che proviamo, non lo è abbastanza. Non te ne faccio una colpa, amor mio. So
che nelle ultime settimane hai dovuto sopportare una pressione intollerabile, che schiaccia anche me. L’idea di averti potuto causare la
minima infelicità mi è odiosa.
24
Aspetterò al binario dalle sette meno un quarto. Sappi che tieni
tra le tue mani il mio cuore e ogni mia speranza.
Tuo
B
Ellie la legge una seconda volta, e si ritrova, inspiegabilmente,
con gli occhi pieni di lacrime. Non riesce a smettere di guardare
quella scrittura larga, dalle curve ampie; nella loro immediatezza,
quelle parole balzano verso di lei più di quarant’anni dopo essere
state nascoste. Rigira il foglio, controlla la busta in cerca di indizi.
L’indirizzo è una casella postale: PO Box 13, Londra. Potrebbe
essere un uomo o una donna. Che ne è stato di te, PO Box 13?
chiede silenziosamente Ellie.
Infine si alza, rimette con cura la lettera nella busta e torna al
computer. Apre la finestra della posta e preme AGGIORNA. Più
niente, dopo il messaggio delle diciannove e quarantacinque.
Devo andare a cena, bellissima. Scusa – sono già in ritardo. A
poi X.
25
Parte I
La mia sola possibilità di sopravvivere è andare dove non potrò vederti mai più, dove non sarò più ossessionato l’eventualità di vederti in sua compagnia. Ho bisogno di stare in
un posto in cui altre necessità mi costringano a scacciarti dai
miei pensieri un minuto dopo l’altro, un’ora dopo l’altra. Questo, qui, non può accadere.
Accetterò quel posto. Sarò a Paddington Station, binario 4,
alle 19,15 di venerdì. Se trovassi il coraggio di venire con me,
niente al mondo mi farebbe più felice.
Uomo a donna, lettera.
1
1960
«Si sta svegliando». Un fruscio, una sedia trascinata, poi il brusco
tintinnio degli anelli di una tenda che sbattono tra loro. Il mormorio di due voci.
«Vado a chiamare Mr Hargreaves».
Seguì un breve silenzio, durante il quale si accorse lentamente
di un diverso strato di rumori di fondo – voci smorzate dalla distanza, un’auto di passaggio: un’impressione strana, come se tutto avvenisse da qualche parte sotto di lei. Rimase ferma ad assorbire il tutto, a lasciarlo cristallizzare, a far giocare la sua mente,
farle riprendere terreno, mentre lei identificava ciascun suono per
quello che era.
Fu allora che si rese conto del dolore. Si faceva strada a forza,
risalendo per stadi via via più intensi: prima il braccio, una sensazione acuta e bruciante dal gomito alla spalla; poi la testa: cupo, implacabile. Il resto del corpo le doleva come quando lei…
Quando lei…?
«Arriva tra un attimo. Dice di chiudere le persiane».
Aveva la bocca così riarsa. Chiuse le labbra e inghiottì dolorosamente. Voleva chiedere dell’acqua, ma le parole non uscivano.
Socchiuse appena appena gli occhi.
Due figure indistinte si muovevano attorno a lei. Ogni volta che
credeva di aver capito cosa fossero, si spostavano di nuovo. Blu.
Erano blu.
«Lo sai chi è appena arrivato di sotto, vero?».
Una delle voci si abbassò di colpo. «La ragazza di Eddie Co31
chran. Quella sopravvissuta all’incidente. Scrive canzoni per lui. O
meglio, alla sua memoria».
«Non sarà brava quanto lui, scommetto».
«Ha ricevuto giornalisti tutta la mattina. La caposala non sa
più che pesci pigliare».
Non riusciva a capire cosa stessero dicendo. Il dolore alla testa
era diventato un rumore pulsante, convulso, che saliva di volume
e intensità finché non fu più in grado di far altro che chiudere di
nuovo gli occhi e aspettare che se ne andasse. Poi arrivò il bianco,
come una marea, ad avvolgerla. Con una certa gratitudine, emise
un sospiro silenzioso e si concesse di tornare a sprofondare nel
suo abbraccio.
«Sei sveglia, cara? Hai una visita».
Sopra di lei aleggiava un riflesso, uno sfarfallio. Un fantasma
che si muoveva a scatti prima da una parte e poi dall’altra. Le si
riaffacciò all’improvviso il ricordo del suo primo orologio, di quando aveva proiettato il riflesso del sole dal vetro della cassa al soffitto della stanza dei giochi, mandandolo avanti e indietro e facendo abbaiare il cagnolino.
Il blu era tornato. Lo vide muoversi, accompagnato dal fruscio. E poi ci fu una mano sul suo polso, una breve scossa di dolore, tanto da strapparle un gemito.
«Faccia più piano da quella parte, infermiera» disse la voce in
tono di rimprovero. «Le ha fatto male».
«Mi dispiace moltissimo, Mr Hargreaves».
«Dovremo operarlo di nuovo, quel braccio. Abbiamo messo diversi chiodi, ma ancora non ci siamo».
Un’ombra scura le aleggiò attorno ai piedi. Voleva fortemente
che si consolidasse, ma quella si rifiutava, come pure le sagome blu;
perciò lasciò che gli occhi le si chiudessero.
«Può sedersi qui con lei, se lo desidera. Le parli. È in grado di
sentirla».
«Come vanno le altre… ferite?».
«Temo che rimarrà qualche cicatrice. Soprattutto sul braccio.
E poi ha preso un brutto colpo alla testa, quindi è probabile che
ci voglia un po’, prima che torni completamente in sé. Ma data la
gravità dell’incidente, direi che se l’è cavata con una bella dose di
fortuna».
Qualche istante di silenzio.
«Sì».
Qualcuno le aveva messo accanto una ciotola di frutta. Aveva
riaperto gli occhi e il suo sguardo ci si era soffermato, lasciando che
forma e colore si consolidassero finché si rese conto, con una fitta
di soddisfazione, di riuscire a riconoscere il contenuto. Uva, disse. E di nuovo, facendosi girare in silenzio quella parola nella testa: uva. Le sembrava importante, come se l’ancorasse a quella
nuova realtà.
E poi, con la stessa rapidità con cui erano arrivati, sparirono,
obliterati dalla massa blu scuro che aveva preso posto al suo fianco. Quando le si avvicinò, riuscì solo a individuare un vago aroma
di tabacco. La voce le giunse esitante, forse addirittura un po’ imbarazzata. «Jennifer? Jennifer? Mi senti?».
Quelle parole erano così forti; stranamente invadenti.
«Jenny, cara, sono io».
Si chiese se le avrebbero permesso di rivedere l’uva. Le sembrava indispensabile; succosa, viola, concreta. Familiare.
«È sicuro che riesce a sentirmi?».
«Abbastanza sicuro, ma può darsi che all’inizio comunicare la
stanchi moltissimo».
Mormorii che non riuscì a distinguere. O forse era lei che aveva smesso di provarci. Niente le sembrava chiaro. «Potresti… per
favore…» sussurrò.
«Ma il cervello non è rimasto danneggiato? Nell’incidente? Siete sicuri che non ci saranno… conseguenze…?».
«Come dicevo, ha preso una gran brutta botta alla testa, ma non
ci sono stati segnali clinici allarmanti». Fruscio di carte. «Niente
fratture. Nessun ematoma cerebrale. Tuttavia, queste cose sono
sempre piuttosto imprevedibili, e ciascun paziente è colpito in
modo diverso. Quindi, basta essere un po’…».
«Per favore…» La sua voce era un sussurro appena udibile.
«Mr Hargreaves! Credo stia cercando di parlare».
32
33
«…vorrei vedere..».
Una faccia scese fluttuando su di lei. «Sì?».
«…vorrei vedere…» L’uva, implorava. Voglio solo vedere ancora quell’uva.
«Vuole vedere suo marito!» A questo annuncio trionfante, l’infermiera fece un balzo in avanti. «Credo che voglia vedere suo
marito».
Una pausa, poi qualcuno si curvò verso di lei. «Sono qui, cara.
È tutto… va tutto bene».
Il corpo si ritrasse, e sentì un colpetto, una pacca sulla schiena.
«Ecco, ha visto? Sta già tornando in sé. Tutto a suo tempo, no?».
Di nuovo, la voce di un uomo. «Infermiera? Vada a chiedere alla
caposala di farle preparare qualcosa da mangiare. Niente di troppo consistente. Qualcosa di leggero, facile da mandar giù… E magari, intanto che c’è, può andarci a prendere una tazza di tè». Sentì
dei passi, voci basse che continuavano a parlare accanto a lei. Il suo
ultimo pensiero, mentre la luce tornava ad avanzare da ogni lato,
fu: Marito?
In seguito, quando le dissero quanti giorni era rimasta in ospedale, fece fatica a crederci.
Il tempo era diventato frammentario, ingestibile. Arrivava e se
ne andava in ammassi caotici di ore. Era martedì, colazione. Adesso era mercoledì, pranzo. A quanto pareva, aveva dormito diciotto ore – questo fu detto in tono di disapprovazione, come se assentarsi così a lungo implicasse una certa maleducazione. E poi era
venerdì. Di nuovo.
Certe volte, quando si svegliava era buio e lei spingeva la testa
un po’ più su, verso il cuscino bianco inamidato, per guardare i
movimenti rilassanti del reparto di notte; il rumore soffocato delle calzature morbide, quando le infermiere andavano su e giù per
il corridoio strascicando i piedi; il mormorio occasionale di una
conversazione tra infermiera e paziente. La sera poteva guardare la
tv se voleva, le dicevano. Suo marito pagava l’assistenza privata –
poteva avere quasi qualunque cosa volesse. Lei diceva sempre no,
grazie. Era già abbastanza confusa da quel torrente di informa-
zioni che la scombussolava: ci mancava solo di aggiungerci l’interminabile chiacchiericcio di quella scatola nell’angolo.
Mano a mano che i periodi di veglia si dilatavano e aumentavano di numero, acquisì familiarità con le facce delle altre donne
in quel piccolo reparto. La signora anziana nella camera alla sua
destra, con i capelli corvini impeccabilmente raccolti in una rigida scultura laccata in cima alla testa: i suoi lineamenti fissati in
un’espressione di vaga, sorpresa delusione. A quanto pareva, da
giovane aveva recitato in un film, cosa che si degnava di raccontare ad ogni nuova infermiera. Aveva una voce imperiosa e riceveva
poche visite. C’era la ragazza grassottella nella stanza di fronte, che
piangeva in silenzio nelle prime ore del mattino. Tutte le sere, per
un’ora, una donna più anziana e dai modi spicci – forse la governante? – le portava i bambini. I due ragazzini salivano sul letto,
aggrappandosi a lei, finché la bambinaia ordinava loro di scendere, per paura che facessero «del male alla mamma».
Le infermiere le dicevano i nomi delle altre pazienti, e a volte
anche il loro, ma lei non riusciva a ricordarli. Sospettava che ne
restassero deluse.
Suo Marito, come lo chiamavano tutti, veniva quasi ogni sera.
Indossava un vestito di buon taglio, di serge blu scuro o grigio, le
dava un bacio sbrigativo sulla guancia e di solito si sedeva ai piedi
del letto. Chiacchierava di banalità in tono premuroso, chiedendole com’era il mangiare, se voleva che le facesse mandare qualcos’altro. Ogni tanto si limitava a leggere il giornale.
Era un uomo attraente, forse di una decina d’anni più vecchio
di lei, con un alto profilo aquilino e gli occhi socchiusi, dall’espressione grave. Sapeva, nel profondo, che doveva essere quello
che diceva, che doveva essere sposata con lui, ed era sconcertata
dal non provare niente, quand’era così evidente che tutti si aspettavano ben altra reazione. A volte, quando lui non guardava, lo
fissava in attesa di un sussulto di familiarità. A volte, svegliandosi,
lo trovava lì seduto, il giornale abbassato, che la guardava come
se anche lui provasse qualcosa di simile.
Mr Hargreaves, il primario, veniva tutti i giorni a controllare
la sua cartella clinica e a chiederle di dirgli che giorno era, che
34
35
ora, come si chiamava. Rispondeva sempre giusto, adesso. Riuscì
persino a digli che il primo ministro si chiamava Macmillan e quanti anni aveva lei, ventisette. Ma aveva molti problemi con i titoli
dei giornali, con gli avvenimenti successi prima del suo arrivo in
quel posto. «Verrà anche quello» diceva allora, carezzandole una
mano. «Non si sforzi, ecco, da brava».
E poi c’era sua madre che le portava dei regalini, sapone, shampoo profumato, riviste; come se quelle cose potessero sospingerla
verso una parvenza di quello che, evidentemente, era stata prima.
«Siamo tutti così preoccupati, Jenny tesoro» diceva posandole una
mano fresca sulla testa. Era piacevole. Non familiare, ma piacevole. A volte sua madre cominciava a dire qualcosa e poi brontolava: «Non devo stancarti con le domande. Tornerà tutto. Lo dicono i dottori. Quindi non devi preoccuparti».
Lei non si preoccupava, avrebbe voluto dirle. Si sentiva serena, nella sua piccola bolla. Avvertiva solo una leggera tristezza, perché non riusciva a essere la persona che tutti palesemente si aspettavano. Era a quel punto, quando i pensieri si confondevano troppo, che invariabilmente si addormentava di nuovo.
Finalmente le dissero che andava a casa, una mattina così fredda che le scie di fumo attraversavano il luminoso cielo azzurro invernale sulla capitale come una foresta esile e allungata.
Ormai era in grado di avventurarsi, di tanto in tanto, in giro
per il reparto a scambiare riviste con le altre pazienti che chiacchieravano con le infermiere e, quando ne avevano voglia, ascoltavano la radio. Aveva subito una seconda operazione al braccio
che stava guarendo bene, le avevano detto, anche se la lunga cicatrice rossa dove avevano inserito la placca la faceva trasalire ogni
volta, e lei cercava di nasconderla sotto la manica lunga. Le avevano misurato la vista e controllato l’udito; la pelle era guarita
dalla miriade di graffi provocati dalle schegge di vetro; i lividi erano sbiaditi; la costola rotta e la clavicola si erano abbastanza rinsaldate, tanto da permetterle di sdraiarsi in diverse posizioni senza dolore.
Da tutti i punti di vista appariva, dicevano tutti, «proprio quel36
la di prima», come se il ripeterlo abbastanza spesso potesse aiutarla
a ricordare chi era. Sua madre, nel frattempo, trascorreva ore e
ore a frugare tra mucchi di foto in bianco e nero, per mostrarle di
riflesso la sua vita.
Scoprì di essere sposata da quattro anni. Non c’erano bambini
– a giudicare dal modo in cui sua madre abbassava la voce immaginò che fosse motivo di delusione per tutti. Viveva in una casa
elegante, in un’ottima zona di Londra. Aveva una governante e
un autista, e si sarebbe detto che molte giovani donne avrebbero
dato un occhio per avere la metà di quel che aveva lei. Suo marito
era un pezzo grosso nel settore minerario ed era spesso via, ma la
sua devozione era tale che dopo l’incidente aveva rimandato diversi viaggi importantissimi. Dal tono deferente con cui gli si rivolgeva il personale medico, immaginò che fosse davvero piuttosto importante. Per estensione, riteneva di potersi aspettare a sua
volta un certo rispetto, anche se la cosa le sembrava insensata.
Nessuno parlava molto del modo in cui era arrivata lì, anche
se una volta aveva sbirciato gli appunti dei medici, scoprendo di
aver avuto un incidente d’auto. Nell’unica occasione in cui aveva
insistito con sua madre per sapere cos’era successo, lei era arrossita e, mettendole la manina grassoccia sulla sua, l’aveva pregata
di «non pensarci, tesoro. È stato tutto… terribile e sconvolgente». Le si erano riempiti gli occhi di lacrime e Jennifer, per non
turbarla, aveva cambiato discorso.
Una ragazza ciarliera, con un caschetto di un arancione sfacciato, era arrivata da un altro settore dell’ospedale per farle taglio
e messa in piega. Così si sarebbe sentita molto meglio, le aveva
detto. Jennifer aveva perso un po’ di capelli sulla nuca – glieli avevano rasati per suturarle una ferita – e la ragazza annunciò che lei
era un fenomeno, a nascondere questi segni.
Poco più di un’ora dopo, le resse lo specchio con uno svolazzo. Jennifer fissò la ragazza che la fissava. Abbastanza carina, pensò con una sorta di lontana soddisfazione. Un po’ abbacchiata,
piuttosto pallida, ma un viso gradevole. Il mio viso, si corresse.
«Ha i suoi cosmetici a portata di mano?» chiese la parrucchie37
ra. «Posso truccarla io, se le fa ancora male il braccio. Un po’ di rossetto illumina sempre, signora. Quello, e poco fondotinta».
Jennifer continuò a fissare lo specchio. «Pensa che dovrei?».
«Oh, certo. Una bella ragazza come lei. Posso fare una cosa
molto discreta… ma che le illumina le guance. Aspetti, scendo un
attimo a prendere la mia roba. Ho certi bei colori arrivati da Parigi, e un rossetto Charles of the Ritz che su di lei sarebbe davvero
perfetto».
Suo marito venne a prenderla poco prima dell’ora del tè. Le
infermiere si erano disposte in fila per salutarla, all’ingresso al
piano terra, raggianti nei loro grembiuli inamidati. Lei si sentiva
ancora stranamente debole e incerta sulle gambe, e fu grata per il
braccio che lui le porse.
«Grazie per tutte le cure che avete prodigato a mia moglie.
Mandi il conto al mio ufficio, se non le dispiace» disse alla caposala.
«È stato un piacere» disse lei stringendogli la mano e lanciando un sorriso smagliante a Jennifer. «È una gran bella cosa, rivederla in piedi e in gamba. Ha un magnifico aspetto, Mrs Stirling».
«Mi sento… molto meglio, grazie». Indossava un lungo cappotto di cachemire e un cappellino a scatola intonato. Lui le aveva fatto avere tre completi. Aveva scelto il più sobrio, non voleva
attirare l’attenzione.
Alzarono tutti lo sguardo perché Mr Hargreaves aveva sporto
la testa dal suo ufficio: «Dice la mia segretaria che ci sono dei giornalisti fuori, sono qui per la ragazza di Cochran. Se volete evitare
il chiasso, potete uscire dal retro».
«Sarebbe preferibile. Le dispiace dire all’autista di fare il
giro?».
Dopo tante settimane al caldo del reparto, l’aria gelida fu uno
shock. Si sforzò di tenere il passo di lui, con il fiato che le arrivava
come una breve esplosione. E poi si trovò sul sedile posteriore di una
grossa auto nera, abbracciata dagli enormi sedili di pelle, mentre le
porte si chiudevano con uno scatto dal rumore costoso. La macchina si inserì nel traffico di Londra con un ron-ron sommesso.
Guardò fuori dal finestrino i giornalisti, appena visibili sui gradini dell’ingresso, e i fotografi imbacuccati che confrontavano le
lenti. Dietro di loro, le vie del centro di Londra erano invase di gente che camminava a passo svelto, i baveri rialzati contro il vento,
gli uomini con i cappelli di feltro calcati sulla fonte.
«Chi è la ragazza di Cochran?» disse voltandosi a guardarlo.
Lui stava mormorando qualcosa all’autista. «Chi?».
«La ragazza di Cochran. Quella di cui parlava Mr Hargreaves».
«Credo fosse l’amichetta di un cantante famoso. Hanno avuto
un incidente poco prima…».
«Parlavano tutte di lei. Le infermiere all’ospedale».
Lui sembrava aver perso ogni interesse. «Riporto a casa Mrs
38
39
«Perbacco, come siamo seducenti. Fa proprio bene, vedere una
signora con un po’ di trucco. Dimostra che sta riprendendo il controllo della situazione» disse Mr Hargreaves poco dopo, nel suo
giro di visite. «Non vediamo l’ora di tornare a casa, vero?».
«Sì, grazie» disse educatamente. Non sapeva come comunicargli che lei non aveva idea di cosa fosse, quella casa.
Forse soppesando la sua incertezza, l’uomo la scrutò in volto
per qualche istante. Poi sedette sul bordo del letto, posandole
una mano sulla spalla. «Capisco che deve risultarle tutto alquanto
sconcertante, lei ancora non si sente forse del tutto in sé, ma non
deve preoccuparsi se molte cose non le sono chiare. L’amnesia è
molto comune, dopo una ferita alla testa.
«La sua famiglia le è molto vicina; sono certo che, una volta
che si troverà circondata da oggetti familiari, vecchie abitudini,
amici, giri a fare spese e cose del genere, scoprirà che piano piano
ogni cosa troverà il suo posto».
Lei annuì, obbediente. Aveva capito molto in fretta che sembravano tutti più contenti, quando faceva così.
«Ora, vorrei che tornasse tra una settimana, per controllare
come procede questo braccio. Avrà bisogno di un po’ di fisioterapia per recuperarlo completamente. Ma la cosa più importante è
che deve riposare, e non preoccuparsi di niente. Mi ha capito?».
Era già pronto ad andarsene. Che altro poteva dire, lei?
Stirling, e appena si sarà sistemata vado in ufficio» stava dicendo
all’autista.
«E a lui, cosa è successo?» disse lei.
«A chi?».
«A Cochran. Il cantante».
Suo marito la guardò, come soppesando qualcosa. «È morto»
disse. Poi tornò a rivolgersi all’autista.
Salì lentamente i gradini della grande casa bianca e la porta si
aprì come per magia non appena fu arrivata in cima. L’autista depose delicatamente la valigia nell’ingresso, poi si ritirò. Dietro di
lei, suo marito fece un cenno a una donna in piedi nell’atrio, evidentemente lì per accoglierli. Piuttosto attempata, portava i capelli
scuri stretti in uno chignon compatto e indossava un tailleur blu
scuro. «Bentornata a casa, signora» disse tendendole la mano. Il
sorriso era sincero, e il suo inglese aveva un forte accento straniero. «Siamo così felici di vederla di nuovo bene».
«Grazie» disse lei. Avrebbe voluto usare il nome della donna,
ma le dava fastidio doverlo chiedere.
La donna attese per prendere i cappotti, poi scomparve con
quelli in fondo al corridoio.
«Sei stanca?» Lui piegò di lato la testa per studiare la sua
espressione.
«No. No, sto bene». Si guardò attorno, sperando di riuscire a
celare la delusione: poteva benissimo essere la prima volta che vedeva la casa.
«Adesso devo tornare in ufficio. Posso lasciarti con Mrs Cordoza?».
Cordoza. Non era del tutto estraneo. Provò una piccola scossa
di gratitudine. Mrs Cordoza. «Starò benissimo, grazie. Ti prego,
non preoccuparti per me».
«Torno alle sette… se sei sicura di star bene…» Era chiaro che
aveva fretta di andarsene. Si chinò a baciarle la guancia, e dopo
un attimo di esitazione sparì.
Rimase nell’atrio ad ascoltare i passi che scemavano giù per i
gradini esterni, il ronzio sommesso del motore mentre il macchi-
none si allontanava. La casa le parve a un tratto cupa ed enorme.
Toccò la serica carta da parati, ammirò il parquet lustro, i soffitti
altissimi. Si tolse i guanti con un gesto preciso, deliberato. Poi si
sporse a guardare meglio le fotografie sulla consolle.
La più grande era una foto di nozze in una cornice d’argento lucidissima ed elaborata. Eccola lì, con l’abito bianco aderente, il
viso seminascosto dal velo di pizzo bianco, suo marito con un largo sorriso al suo fianco. L’ho sposato davvero, pensò. E poi: sembro così felice.
Trasalì. Mrs Cardoza le era arrivata alle spalle e adesso era lì,
con le mani intrecciate. «Mi chiedevo se gradirebbe un po’ di tè.
Ho pensato che forse le fa piacere prenderlo nel salottino. Ho acceso il fuoco per lei».
«E sarebbe…» Jennifer sbirciò le diverse porte lungo il corridoio. Poi tornò a guardare la fotografia. Passò un attimo prima che
tornasse a parlare. «Mrs Cordoza… le dispiace offrirmi il braccio? Solo finché mi siedo. Mi sento un po’ incerta sulle gambe».
In seguito non seppe dire con certezza perché non voleva che
la donna capisse che non ricordava praticamente nulla della pianta della casa. Le sembrava, semplicemente, che se fosse riuscita a
fingere, se tutti ci avessero creduto, la sua recita potesse finire per
avverarsi.
La governante aveva preparato la cena: casserole con patate e fagiolini finissimi. L’aveva lasciata nel forno, in basso, disse a Jennifer. Dovette aspettare il ritorno di suo marito prima di poter mettere qualcosa in tavola: il braccio destro era ancora debole, e aveva paura di far cadere la pesante pentola di ghisa.
L’ora che passò da sola, la trascorse aggirandosi per l’enorme
casa, prendendo confidenza, aprendo cassetti e studiando fotografie. La mia casa si ripeteva di continuo. Le mie cose. Mio marito. Un paio di volte si concesse di svuotare la mente e lasciare che
i piedi la portassero dove pensava ci fosse un bagno o uno studio,
e fu gratificata dalla scoperta che qualche parte di lei conosceva
quel posto. Studiò i libri del salottino: con una sorta di vaga soddisfazione si accorse che, per quanto le risultassero in gran parte
estranei, di molti era in grado di riassumere la trama.
40
41
La camera in cui indugiò più a lungo fu la sua. Mrs Cordoza
aveva disfatto la valigia e messo tutto in ordine. Due armadi a muro
si aprivano a rivelare una quantità di vestiti riposti in modo impeccabile. Tutto le andava a pennello, persino le scarpe più logore. Spazzola, profumi e ciprie erano in fila sulla toilette. Aromi
che accolsero la sua pelle in modo gradevolmente familiare. I colori dei cosmetici le si addicevano: Coty, Chanel, Elizabeth Arden, Dorothy Gray – lo specchio era circondato da un piccolo esercito di creme e balsami costosi.
Aprì un cassetto e prese a sollevare strati di chiffon, reggiseni
e altri capi di biancheria intima tutti sete e trine.
Sono una donna che dà importanza alle apparenze, osservò. Sedette a guardarsi nella triplice specchiera, poi iniziò a spazzolarsi
i capelli a colpi lunghi e regolari. Questo è quello che faccio, si ripeté diverse volte.
Nei pochi momenti in cui l’estraneità sembrava avere la meglio,
si tenne impegnata assegnandosi piccoli compiti: risistemare la
biancheria della casa nella credenza al piano terra, tirar fuori piatti e bicchieri.
Lui arrivò poco prima delle sette. Lo attese nell’atrio, con il
trucco rifatto e una lieve spruzzata di profumo su collo e spalle.
Si rese conto che a lui piaceva, questa parvenza di normalità. Gli
prese il cappotto che appese nel guardaroba e gli chiese se voleva
qualcosa da bere.
«Sarebbe magnifico, grazie» disse. Lei esitò, una mano posata
su un decanter.
Voltandosi, lui colse la sua incertezza. «Sì, quello, tesoro.
Whisky. Due dita, con ghiaccio. Grazie». A cena lui si sedette alla
sua destra al grande tavolo di mogano lucido: un’ampia parte della superficie rimase vuota e disadorna. Lei mise nei piatti il cibo
fumante, e lui li sistemò ai loro posti. Questa è la mia vita, si scoprì a pensare guardandosi le mani che si muovevano. Questo è
quello che facciamo di sera.
«Pensavo che potremmo invitare i Moncrieff a cena, venerdì.
Te la sentiresti?».
Lei prese un bocconcino dalla forchetta. «Credo di sì».
«Bene» disse lui annuendo. «I nostri amici chiedono di te. Sarebbero contenti di vedere che sei… tornata quella di prima».
Gli fece un sorriso. «Sarà… piacevole».
«Ho pensato che probabilmente è meglio non fare niente di
speciale per un paio di settimane. Finché non te la senti».
«Sì».
«È ottimo. L’hai fatto tu?».
«No. Ha cucinato Mrs Cordoza».
«Ah».
Mangiarono in silenzio. Lei bevve acqua – Mr Hargreaves aveva sconsigliato qualsiasi alcolico – ma invidiò al marito il bicchiere che aveva di fronte. Avrebbe voluto cancellare quella sconcertante estraneità, smussarla almeno un po’.
«E come vanno le cose al… tuo ufficio?».
Lui stava a testa china. «Tutto a posto. Tra un paio di settimane dovrò andare a visitare le miniere, ma prima voglio essere certo che te la cavi. Naturalmente ci sarà Mrs Cordoza per aiutarti».
Al pensiero di restare sola provò un leggero sollievo. «Sono sicura che andrà tutto bene».
«E poi pensavo che potevamo andare in Riviera, per una quindicina di giorni. Ho degli affari da sbrigare, e il sole potrebbe farti bene. Mr Hargreaves ha detto che potrebbe far bene alle tue…
alle cicatrici». Gli mancò la voce.
«La Riviera» gli fece eco lei. Visione improvvisa del mare illuminato dalla luna. Risate. Tintinnio di bicchieri. Chiuse gli occhi
sperando di costringere l’immagine a farsi più nitida.
«Pensavo che stavolta potevamo andarci in macchina, noi due
soli».
Sparita. Sentì il battito pulsarle nelle orecchie. Calmati, si disse. Tornerà tutto. L’ha detto Mr Hargreaves.
«Laggiù sembri sempre felice. Forse un po’ più felice che non
qui a Londra». Alzò lo sguardo su di lei e poi lo distolse. Eccola
di nuovo, la sensazione di essere sottoposta a un test. Si costrinse
a masticare e a deglutire. «Qualsiasi cosa ti sembri meglio» rispose tranquilla.
Sulla stanza cadde il silenzio, rotto solo dal lento graffiare del-
42
43
le posate sul piatto, un rumore opprimente. Il cibo le parve a un
tratto insormontabile. «In realtà sono più stanca di quel che pensavo. Ti dispiacerebbe molto se andassi di sopra?» Lui si alzò insieme a lei. «Avrei dovuto dire a Mrs Cordoza che bastava una cenetta in cucina. Vuoi che ti aiuti a salire?».
«Ti prego, non disturbarti». Rifiutò con un cenno l’offerta del
suo braccio. «Sono solo un po’ stanca. Sono sicura che domattina
starò molto meglio».
Alle dieci meno un quarto lo sentì entrare in camera. Si era già
messa a letto, acutamente consapevole di ogni cosa: le lenzuola
attorno a lei, il chiaro di luna che filtrava dalle lunghe tende, i rumori lontani del traffico della piazza, i taxi che rallentavano per
far scendere i passeggeri, il saluto educato di qualcuno uscito per
la passeggiata del cane. Era rimasta immobile, aspettando che
qualcosa tornasse a posto con uno scatto, aspettando che la facilità con cui era tornata a immergersi nel suo ambiente fisico invadesse anche la sua mente.
E poi la porta si aprì.
Lui non accese la luce. Sentì lo sbatacchiare sommesso degli
attaccapanni di legno mentre riappendeva la giacca, il risucchio
soffocato delle scarpe quando se le sfilò dai piedi. E di colpo si irrigidì. Suo marito – quest’uomo, questo estraneo – si stava infilando nel suo letto. Si era talmente concentrata a superare ogni singolo istante, che non ci aveva pensato. Era quasi sicura che avrebbe dormito nella camera degli ospiti. Si morse il labbro, chiuse gli
occhi, si costrinse a continuare a respirare lentamente, simulando
il sonno. Sentì che spariva nel bagno, ascoltò lo scroscio del rubinetto, una vigorosa spazzolata ai denti, un rapido gargarismo. I piedi tornarono a calpestare silenziosamente la moquette, e poi lui scivolò tra le coperte, facendo affondare il materasso e strappando un
cigolio di protesta alla testata. Rimase così per un minuto, mentre
lei lottava per conservare un respiro regolare. Oh, ti prego, non
così presto, lo supplicò mentalmente. Ti conosco appena.
«Jenny?» disse lui.
Sentendo la sua mano sul fianco, si costrinse a non sobbalzare.
La mano si mosse, timida. «Jenny?».
Riuscì a lasciar andare un lungo respiro che comunicasse l’innocente oblio del sonno profondo. Lo sentì esitare. Fermò la mano
e poi, sospirando a sua volta, ricadde pesantemente sui cuscini.
44
45