il gigante flessibile e digitale

Transcript

il gigante flessibile e digitale
NUMERO 21 | MAGGIO 2016
STORIE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE
IL GIGANTE
FLESSIBILE
E DIGITALE
Andrea Campora, responsabile
di cyber security e Ict solutions
in Leonardo-Finmeccanica,
racconta la trasformazione
e gli investimenti dell'azienda.
SMART WORKING
20
Lo scenario e le soluzioni che
ci permetteranno di lavorare
meglio, in mobilità e in totale
sicurezza.
SPECIALE PRINTING
40
Alla semplice stampante, oggi le
aziende preferiscono i dispositivi
multifunzione. E si affidano ai
servizi di gestione documentale.
INTERNET DELLE COSE
Dall'industria alle smart city,
dall'agricoltura alla domotica: il
mondo degli oggetti connessi è
sempre più popolato.
Distribuito gratuitamente con “Il Sole 24 ORE”
Reinventiamo la stampa, perché quando
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di stampa nel mercato. Una vera svolta in termini di costi di gestione, che risultano
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SOMMARIO
STORIE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE
4 STORIE DI COPERTINA
Leonardo-Finmeccanica: il gigante flessibile e digitale
N° 21 - MAGGIO 2016
Periodico bimestrale registrato
presso il Tribunale di Milano al n° 378
del 09/10/2012.
9 IN EVIDENZA
La trasformazione che non può aspettare
Dal matrimonio dell’anno nasce Dell Technologies
L’intervista: Banda ultralarga e infrastrutture da condividere
Direttore responsabile: Emilio Mango
Coordinamento: Gianni Rusconi
Hanno collaborato: Alessandro
Andriolo, Piero Aprile, Camilla Bellini,
Valentina Bernocco, Luca Failla, Carlo
Fontana, Paolo Galvani, Michele
Lamartina, Agostino Santoni, Carlo Maria
Eugenio Vaiti
Progetto grafico: Inventium Srl
Foto e illustrazioni: Dollar Photo Club,
Istockphoto, Adobe Stock images,
Martina Santimone, Alberto Ferrero
Con l’open source i Big Data non fanno più paura
16 SCENARI
Più pregi che difetti per il lavoro agile
Lo smart working supera i vincoli di luogo e di orario
Il futuro è liquido
Aziende italiane: a che punto siamo?
Svolta tecnologica: Pmi convinte a metà
25 SPECIALE PRINTING
Un mercato a due facce
Il cliente ha sempre ragione
34 ECCELLENZE.IT
Gruppo Miroglio - Dell
European Space Agency - Suse
Editore, redazione, pubblicità:
Indigo Communication Srl
Via Correggio, 48 - 20149 Milano
tel: 02 36505844
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www.indigocom.com
Stampa: RDS Webprinting - Arcore
© Copyright 2016
Indigo Communication Srl
Tutti i diritti di proprietà letteraria
e artistica riservati.
Hdi Assicurazioni - Citrix
Gala - Retelit
38 ITALIA DIGITALE
Il bilancio dell’Agenda? In attivo
40 OBBIETTIVO SU
Ricoh
45 VETRINA HI-TECH
Bellezza a forma di tavoletta
Il Sole 24 Ore non ha partecipato alla
realizzazione di questo periodico e non
ha responsabilità per il suo contenuto.
49 I QUADERNI
Internet of Things
Pubblicazione ceduta gratuitamente.
STORIA DI COPERTINA | Leonardo-Finmeccanica
La trasformazione digitale
inizia dal cuore tecnologico
delle imprese. Finmeccanica,
ora Leonardo, ha rinnovato
i propri data center
rendendoli software-defined
e aumentando anche le
difese dai cyber attacchi.
F
inmeccanica si trasforma. Cambia nome, è stata recentemente
ribattezzata Leonardo, ma cambia anche infrastrutture e offerta.
Per stare al passo con la “digital trasformation”, ma anche per aiutare i propri
clienti nella stessa delicata fase di cambiamento evolutivo. La divisione Security &
Information Systems si occupa di sviluppo di soluzioni, hosting di sistemi, servizi
e applicazioni sia per il mercato sia per
i clienti interni, con un’attenzione particolare agli aspetti della sicurezza. “È una
transizione importante”, dice Andrea
Campora, senior vice president della linea di business Cyber Security & Ict Solutions, “e la divisione, consapevole che
avrebbe dovuto affrontare un’evoluzione
di mercato, ha avviato nel 2014 un percorso di trasformazione di processi e tecnologie rilevanti per il nostro business”.
Si trattava di costruire un “core” digitale
più agile e integrato con le esigenze dell’azienda e del mercato, un software-defined
data center per abilitare un maggior livello di flessibilità e automazione, riducendo quindi tempi e costi per l’attivazione
di nuovi progetti e assicurando la sicurezza di sistemi, reti e applicazioni.
Da qui è nata la collaborazione con
Vmware per quanto riguarda la realizzazione in Leonardo di un’organizzazione
“cloud-oriented”. “Nel corso del 2015
abbiamo parlato con quasi tutti i player
in grado di offrire soluzioni di virtualizzazione e cloud computing”, ricorda
Campora. “Vmware non ci ha offerto
soltanto le soluzioni tecnologiche più
adatte alle nostre necessità, ma anche
4
| MAGGIO 2016
FLESSIBILITÀ VUOL
DIRE SICUREZZA
una visione dei processi, dell’organizzazione, dei modelli necessari per sfruttare
appieno i benefici delle nuove tecnologie.
Gli specialisti di Vmware Professional
Services con cui ci siamo confrontati ci
hanno trasferito la loro visione di come
affrontare i cambiamenti organizzativi
quale condizione necessaria per passare
a un’organizzaizone cloud-oriented: un
approccio consulenziale, a complemento
della fornitura di tecnologie, che si è rivelato di importanza decisiva”.
Verso il software-defined data center
Una squadra di circa 50 persone di Leonardo, in collaborazione con il team
Emea di Vmware, è al lavoro su un progetto in continua evoluzione. Una prima
versione del software-defined data center
è già stata attivata; alcune piattaforme
sono in fase di migrazione mentre altre
arriveranno successivamente, secondo
una roadmap di progetto di circa 18
mesi. Grazie alla tecnologia vRealize di
Vmware il nuovo datacenter promette
di automatizzare l’erogazione di It “as-aservice” per qualunque tipo di progetto,
dalla gestione della posta elettronica, ai
sistemi Erp, a progetti di outsourcing.
“Conoscevamo il layer di virtualizzazione dei sistemi operativi, considerando
che nel datacenter di Finmeccanica erano già operativi almeno tremila server
virtualizzati con tecnologie Vmware”,
precisa Campora. “Con questo progetto
inseriamo i componenti che consentono
l’automazione e l’orchestrazione delle attività e ottimizzano la gestione dei costi,
rispettivamente con vRealize Automation e con vRealize business”.
Più spinta all’innovazione
“La nuova architettura realizzata con
Vmware consentirà a Leonardo-Finmeccanica di spingere con molta più decisione la leva dell’automazione, il che si
tradurrà in un risparmio in termini di
costi di gestione e di startup per l’erogazione di nuovi servizi”, spiega Campora.
“La flessibilità che il framework di rete
virtuale fornisce ha già dato evidenza di
quanto sia più semplice per noi gestire
l’evoluzione dei nostri servizi”.
Nel caso di un sistema da erogare ex novo,
Leonardo ha ora una maggiore rapidità
di risposta, poiché si abbreviano drammaticamente i tempi di disponibilità del
A sinistra, la control room del Soc
di Chieti. A destra, la centrale
allestita per Expo.
Sotto, il quartier generale di
Leonardo-Finmeccanica.
LEONARDO, ONE COMPANY
Leonardo–Finmeccanica (che nel
2017 assumerà ufficialmente la denominazione Leonardo) è un player
globale nel mercati ad alta tecnologia e tra i maggiori operatori mondiali nei settori dell’aerospazio, difesa e sicurezza. Il gruppo progetta
e realizza prodotti, sistemi, servizi e
soluzioni integrate, destinati sia al
comparto della difesa sia a committenti pubblici e privati del comparto
civile, in Italia e nel resto del mondo.
Nella prima metà del 2014 il nuovo
management ha avviato un percor-
so di profondo cambiamento, con
l’obiettivo di creare un gruppo più
coeso, omogeneo ed efficiente, nel
quale tutti i processi siano centralizzati e integrati. Il nuovo modello
organizzativo include nel perimetro
le società possedute al 100% del
core business aerospazio e difesa,
che vengono trasformate in divisioni
della nuova Leonardo. Una grande
realtà industriale integrata, che opera nei settori elicotteri, aeronautica,
elettronica, difesa, sistemi di sicurezza e spazio.
5
STORIA DI COPERTINA | Leonardo-Finmeccanica
servizio. Al contempo il costo di hosting
della piattaforma è molto più competitivo. Se parliamo, invece, di migrare l’applicazione di un cliente, la flessiblità della
rete virtuale semplifica le fasi di progetto,
riducendo tempi e costi. Uno degli aspetti prioritari per Leonardo – non a caso
l’area di riferimento è denominata Ict
Secure Infrastructure – riguarda la sicurezza. Grazie alla micro segmentazione,
la tecnologia Vmware Nsx è in grado di
offrire una solida sicurezza delle reti, gestita a livello di policy in modo molto
flessibile e affidabile. “Con le tecnologie
Vmware abbiamo già potuto risolvere in
modo semplice problemi di sicurezza che
in precedenza si rivelavano molto onerosi
da gestire”, precisa Campora.
La redazione
A fianco, la sala controllo del Soc;
sopra, una vista del supercalcolatore
Hpc (High Performance Computing)
di Chieti.
LA SOLUZIONE
La divisione Security & Information Systems di Leonardo-Finmeccanica ha intrapreso un cammino di trasformazione che parte
dall’evoluzione della componente
tecnologica infrastrutturale per
traguardare obiettivi di agilità e
semplificazione nell’erogazione di
servizi It. Leonardo ha individuato
in Vmware il fornitore di riferimento per le migliori soluzioni tecno-
6
| MAGGIO 2016
logiche e per un approccio consulenziale che sposa le linee evolutive
proposte dall’azienda nella realizzazione di un software-defined data
center.
Il progetto è in corso ma i benefici
sono già evidenti, soprattutto per
quanto riguarda la sicurezza, oggi
molto più facile da gestire grazie
alla segmentazione delle reti con
Nsx. A ciò si aggiungono flessibilità e agilità della componente infrastrutturale, che ben si adattano a un
business in continua trasformazione e consentono di erogare servizi
It di nuova generazione in un quadro di affidabilità e sicurezza, riduzione dei costi e semplificazione
delle procedure di gestione.
Il software e la tecnologia forniti
da Vmware comprendono la suite vRealize, la piattaforma Nsx,
vCloud Air e i servizi professionali
erogati dal team messo a disposizione di Leonardo da parte della
multinazionale.
La vocazione per la ricerca
aiuta anche l'indotto
Quasi un miliardo e mezzo di investimenti in ricerca e sviluppo. Una cifra che,
indirettamente, influisce sulla digital transformation di tutte le imprese italiane.
Andrea Campora è responsabile della
cyber security & Ict solutions di Leonardo, un ruolo che gli assegna un punto
di vista privilegiato per osservare la trasformazione del colosso industriale, ma
anche delle aziende e organizzazioni che
gravitano attorno a esso.
Andrea Campora
Quanto conta l’innovazione per Leonardo-Finmeccanica?
Leonardo-Finmeccanica guida la classifica delle imprese italiane che investono
in alta tecnologia ed è il quinto gruppo
mondiale e il secondo in Europa per investimenti in ricerca e sviluppo nel settore dell’aerospazio e difesa. Ogni anno la
società impiega circa l’11% dei ricavi per
attività di ricerca e sviluppo (circa 1.426
milioni euro nel 2015), focalizzando
l’attenzione sulla realizzazione di piattaforme e soluzioni a uso duale, utilizzabili
sia in ambito militare sia in ambito civile.
Questi investimenti, ovviamente, ricadono anche sull’indotto, favorendo anche
l’innovazione e la trasformazione digitale
delle piccole e medie imprese.
In Leonardo, inoltre, lavorano circa
13mila tecnici specializzati e circa 11mila
ingegneri, e questo dà un contributo essenziale alla crescita di una “cultura tecnologica” all’interno del nostro sistema
economico.
Quali sono le nuove aree in cui si stanno
concentrando le vostre attenzioni?
Leonardo-Finmeccanica è impegnata a
consolidare e accrescere le proprie competenze nelle piattaforme, nei sistemi, nei
sensori, nei servizi e nella capacità di integrazione per creare soluzioni orientate alle
diverse esigenze del mercato. In ambito
sicurezza, e in particolare sul fronte cybersecurity e Ict, da tempo sviluppiamo le
nostre capacità e risorse guardando ai macrotrend di evoluzione economica e sociale in atto: la digitalizzazione diffusa dei
processi e quella che chiamiamo Industria
4.0, che prevede l’integrazione sempre più
stretta delle tecnologie digitali nei processi
industriali manifatturieri. Cito tre aree del
nostro sviluppo rispetto a queste direttrici: open data, Internet of Things e cloud
computing, per far comunicare tra loro
macchine, organizzazioni e individui; Big
data, analytics e machine learning, per
ricavare valore dai dati raccolti; cybersecurity e servizi di threat intelligence, per
garantire la sicurezza a 360 gradi.
State puntando su aree strategiche
come intelligence, analytics, Big Data?
Da tempo stiamo investendo in questi
ambiti. Sul fronte dei Big Data, prima
ancora che si chiamassero così, abbiamo
realizzato soluzioni per l’analisi del traffico per operatori di comunicazioni mobili, sistemi di monitoraggio energetico di
building e control room per la protezione
del territorio con concentrazione di segnali video, audio, sensori perimetrali e
collegamenti con operatori sul campo.
Con le nostre competenze e soluzioni di
analytics e intelligence supportiamo pure
le agenzie di law enforcement nella ricerca, raccolta e analisi delle informazioni
critiche per le operazioni nazionali di investigazione, di interdizione del crimine
e di prevenzione e gestione delle cyberminacce nell’ambito di programmi di sicurezza nazionale e internazionale.
Come affrontate il tema della cybersecurity?
Come specialisti della cybersecurity riteniamo fondamentale, oggi, combinare
sicurezza informatica e intelligence per
fare un salto di qualità nella protezione
di asset e infrastrutture critiche dalle
sempre più sosfisticate minacce. Con i
Threat Intelligence Services, grazie a algoritmi di machine learning e tecnologie
high performance computing, siamo in
grado di offrire alle imprese la possibilità
di rilevare e individuare nuove vulnerabilità, attacchi informatici in preparazione
e informazioni sottratte illegalmente e
pubblicate in rete. Lo facciamo attraverso il controllo continuo delle fonti Web
e darknet e l’analisi in real time di grandi
quantità di dati, alla ricerca di possibili
indizi.
E.M.
7
IDC MOBIZ MOBILITY FORUM 2016
Dalla Mobile Enterprise all’Enterprise of Everything
22 Giugno | Milano, Centro Svizzero
Scenario
Lavorare fuori sede e in movimento è diventato uno dei volani di crescita per le aziende di ogni dimensione.
Una “mobile-first enterprise” può oggi infatti aspettarsi tangibili miglioramenti nel modo in cui
interagisce con i dipendenti, i clienti e i partner, con benefici visibili nella produttività interna, nella customer
satisfaction, nei processi di business. Tuttavia, IDC coglie ancora alcune criticità, soprattutto lato IT, che
ostacolano il pieno sviluppo della mobility: mancanza di competenze interne, incertezze circa la sicurezza,
investimenti, scarsa conoscenza di ROI e TCO. Due fenomeni aiuteranno le aziende a superare questa
impasse: uno demografico, ovvero il ricambio generazionale della forza lavoro IT; l’altro tecnologico,
l’Internet of Things. Sensori e dispositivi intelligenti connessi creeranno reti di persone e oggetti che
rivoluzioneranno tutti i settori industriali e il nostro modo di vivere. La “mobile enterprise” di oggi diventerà
la “enterprise of everything” di domani.
Key Words
Enterprise Mobility Management (EMM), Mobile Device Management (MDM), Mobile Application
Management (MAM), Mobile Enterprise Application Platform (MEAP), BYOD/CYOD, Mobile security, Cloud,
IoT, M2M, Wearables, Smart working, #GenMobile
Premium
Sponsor
PER INFORMAZIONI
Nicoletta Puglisi, Senior Conference Manager, IDC Italia
[email protected] · 02 28457317
http://www.idcitalia.com/ita_mobiz16
#IDCMobiz16
IN EVIDENZA
l’analisi
IL MONITO DI RENZI E LA TRASFORMAZIONE
DIGITALE CHE NON PUÒ ASPETTARE
Il capo del Governo esalta il piano per la banda larga. Ma c'è chi chiede
un impegno chiaro, per fare dell’Italia un Paese realmente connesso.
L’annuncio, l’ennesimo di Matteo
Renzi in materia tecnologica, è arrivato il 29 aprile in occasione delle
celebrazioni per il trentesimo anniversario del primo collegamento Internet italiano. Il messaggio inviato
ad addetti ai lavori e opinione pubblica può essere sintetizzato così: “Lo
Stato mette i soldi, miliardi di euro,
e dopo tante chiacchiere si parte. La
principale infrastruttura è la banda larga: siamo in presenza di una
rivoluzione, l’Italia vuole viverla e
non subirla, governare e non seguire”. Per digitalizzare il Paese si inizia,
dunque, con il portare le autostrade telematiche ad altissima velocità
ovunque. Giusto. Ma forse questo
non basta. E c’è chi – come Associazione Stati Generali dell’Innovazione, Anorc, Iwa Italia e Cittadinanza
Attiva – lo ha scritto a Renzi in una
lettera aperta pubblicata proprio nel
giorno dell’Internet Day tricolore.
Cinque sono le priorità da soddisfare per rendere possibile “l’Internet
EveryDay” secondo gli scriventi, che
ricordano come non sia un caso che
l’Italia viaggia “in ultima posizione in Europa in base agli indicatori
sull’uso di Internet”. Cinque, quindi,
le tappe da seguire per “costruire un
percorso in cui l’Italia diventi terra di
produzione del futuro e non di mero
consumo digitale. Possiamo farlo. Ma
per farlo dobbiamo essere consapevoli
del ritardo che abbiamo oggi in molti
settori del digitale, a cui ancora purtroppo non si associa una decisa e forte
azione governativa”. L’appello rivolto a
Renzi è per un “impegno ad avviare
iniziative con obiettivi chiari e misurabili e con risorse adeguate, prima di
tutto sulle aree che vengono ritenute
prioritarie”. Quali? Cultura e competenze digitali, innovazione delle
Pmi, innovazione del territorio, crescita digitale e trasformazione della
Pubblica Amministrazione. I comuni
denominatori a queste “misure” sono
l’organicità dei piani e delle politiche
di sviluppo (le iniziative non coordinate sulle smart city sono un esempio
negativo da superare), la necessità di
un quadro di interventi strutturato
volto a creare ecosistemi di settore e
territoriali, l’unicità della governance
di progetti e processi chiave interni,
l’identificazione chiara delle risorse
accessibili e, infine, la definizione
di profili professionali nuovi. “Sono
mesi decisivi per evitare che questa
sia l’ennesima occasione perduta e
per intraprendere un vero percorso di
trasformazione”, si legge nella lettera:
soprattutto su questo assunto, non
possiamo che essere d’accordo.
Gianni Rusconi
MAGGIO 2016 |
9
IN EVIDENZA
L’Emc World 2016
di Las Vegas ha
segnato la fine di
un’era per il colosso
dello storage: la
fusione con la
società texana
si completerà in
ottobre. Joe Tucci
lascerà l’incarico di
numero uno della
federazione.
Joe Tucci e Michael Dell
DAL MATRIMONIO DELL’ANNO
NASCE DELL TECHNOLOGIES
L’unione fa la forza, ma quando due colossi si fondono inevitabilemente qualcosa
deve cambiare. Emc rinascerà sotto l’ombrello di Dell Technologies, nome che
farà la sua comparsa a ottobre, a processo
di acquisizione concluso. Nasce quindi la
“federazione” di aziende completamente
privata più grande del settore It, un gigante che porterà sul mercato soluzioni
e servizi in praticamente tutti i segmenti dell’informatica, dai Pc ai server, dallo
storage alla virtualizzazione. Il brand Emc
comunque non scomparirà, in quanto la
nuova realtà guidata da Michael Dell offrirà le soluzioni enterprise con il marchio
congiunto Dell Emc.
L’annuncio è stato uno dei più importanti dell’Emc World 2016 di Las Vegas,
andato in scena a inizio maggio nella
città del Nevada. Nell’occasione il numero uno della società texana, “ansioso” di
svelare al mondo la propria visione per i
prossimi vent’anni, ha preso il testimone
da Joe Tucci, attuale vertice del gruppo
Emc (chairman, presidente e Ceo), che
lascerà l’incarico a fusione completata.
La nuova azienda opererà con portafogli
“estremamente complementari, in grado
di rispondere alle esigenze attuali delle
aziende impegnate nel percorso della trasformazione digitale”, ha spiegato Dell,
aggiungendo che la nuova “federazione”
10
| MAGGIO 2016
terrà vivi tutti gli altri brand del gruppo
di Hopkinton, vale a dire Emc Information Infrastructure, Vmware, Pivotal, Rsa
e Virtustream.
“I nostri punti di forza principali sono
l’accesso al mid market e la supply chain
globale, mentre Emc ha dalla sua soluzioni
per il mercato enterprise e un’innovazione rilevante”, ha aggiunto il Ceo texano,
sottolineando come le dimensioni della
nuova realtà non saranno un problema
(in un momento storico in cui le aziende tendono a ridimensionarsi e le startup
dominano la scena). La compagnia sarà
privata e potrà decidere senza condizionamenti esterni la propria strategia. Questa
si comporrà sicuramente di nuove soluzioni utili per le sfide del cloud e dell’Internet of Things, tecnologie che richiederanno anche sistemi di storage sempre più
evoluti, per riuscire a gestire in modo efficiente quantitativi di dati in costante crescita. Tra le novità, a Las Vegas si è fatto
spazio Unity, sistema rack configurabile
anche in modalità all-flash (secondo Emc,
il 2016 è l’anno di questa tecnologia) che
presenta funzionalità di storage a file e a
blocchi, indirizzandosi soprattutto ai dipartimenti It di medie dimensioni. Anche
dal punto di vista dei costi, che partono
sotto i 18mila dollari per 75 Terabyte di
capacità.
A.A.
ED ERICSSON SI
ALLEA CON AWS
Annunciata a febbraio al Mobile World
Congress di Barcellona, quella tra Amazon Web Services ed Ericsson è un’alleanza su scala globale destinata a cambiare
il profilo dell’offerta mondiale di cloud,
soprattutto nel segmento delle telecomunicazioni, nel nome della digital transformation.
“L’alleanza riguarda sia l’offerta tecnologica, sia l’attività commerciale, sia i servizi”, spiega Antonio Autolitano, core and
cloud director di Ericsson Regione Mediterranea. “Loro mettono in campo la più
grande infrastruttura di cloud pubblico
al mondo, noi la specializzazione nei
servizi e una presenza capillare che conta 65mila dipendenti in oltre 180 Paesi”.
Una presenza storicamente rivolta alle
telco, ma negli anni più recenti anche alle
imprese di altri settori. Il pilastro dell’offerta di questa nuova partnership è quello
che Ericsson chiama “trusted cloud”. “Il
70% delle aziende che ancora non hanno
iniziato progetti sulla nuvola”, spiega Autolitano, “motivano la loro decisione con
la paura legata al tema della sicurezza dei
dati. Con le nostre competenze e con le
tecnologie comuni siamo in grado di far
toccare con mano ai clienti la solidità delle nostre infrastrutture, anche attraverso
Innovation e Demo Center in tutto il
mondo”.
Antonio Autolitano
AMAZON WEB SERVICES VA IN FUGA
Già leader in termini di potenza erogata, la società di
Bezos continua a investire sul cloud pubblico.
“Cloud computing has become the
new normal”. Ha esordito così Werner Vogels, Cto di Amazon Web Services di fronte al folto pubblico che
lo attendeva a Milano in occasione
dell’Aws Summit di aprile. Con più
di un milione di utenti attivi ogni
mese e con un fatturato di 9,6 miliardi di dollari nel 2015 (che, Vogels
tiene a precisare, si riferisce ai servizi
effettivamente utilizzati), Amazon ha
staccato di parecchie lunghezze gli altri competitor nel segmento del cloud
pubblico, creando una situazione già
vista in altri ambiti dell’It, ovvero un
regime di quasi monopolio.
“Anche in Italia aumentano sempre di
più le startup che chiedono i nostri
servizi”, ha proseguito Vogels, “ma
ci sono pure molte grandi imprese, come Lamborghini, Mediaset ed
Enel”. Quest’ultima, in particolare,
ha realizzato un progetto di dimensioni stupefacenti, portando fuori
dall’azienda il 75% della capacità di
calcolo prima erogata dai data center
interni.
“Le aziende si rivolgono sempre di più
al cloud”, ha spiegato il Cto di Aws,
“perché in questa fase di trasforma-
zione digitale utilizzare le architetture
sulla nuvola è diventata una questione
di sopravvivenza, semplicemente non
si può fare altrimenti. Ovviamente è
anche una questione di efficienza, in
un mondo dove le risorse finanziarie
diventano sempre più scarse e la velocità dei nuovi modelli di business customer-oriented è sempre più elevata”.
Tra i tanti successi inanellati dalla
multinazionale, Vogels annovera anche Redshift, che secondo il manager
è diventato di fatto il data warehouse
basato su cloud di riferimento per le
aziende di qualsiasi settore e dimensione. “Il cloud pubblico”, gli fa eco Nicola Previati, a capo di Aws Italia, “è
il modello destinato a crescere di più
in futuro. Molte aziende stanno riprogettando le loro architetture completamente fuori dal perimetro aziendale,
anche le componenti strategiche”.
Aws e Microsoft: visioni differenti
Al successo di Aws, fotografato in occasione del Summit di Milano, fa da
contraltare una crescita costante anche
del principale competitor mondiale,
Microsoft con il servizio Azure. Le
visioni delle due multinazionali sono,
Werner Vogels
al momento, decisamente distanti:
mentre la prima auspica ovviamente un mondo It costruito sul cloud
pubblico, la seconda insiste sul modello ibrido, convinta del fatto che le
aziende vogliano e debbano decidere
di volta in volta se utilizzare capacità
di calcolo e memorizzazione interna
o esterna.
Se l’approccio di Microsoft sembra
più aderente alla realtà della trasformazione digitale nel breve termine,
sul lungo la possibilità che Aws abbia
centrato la strategia appare concreta,
alla luce del già citato caso di Enel in
Italia ma anche di quello di General
Electric a livello mondiale. La multinazionale ha, infatti, deciso di esternalizzare 30 dei suoi 34 data center nei
prossimi tre anni.
E.M.
IN EVIDENZA
l’intervista
BANDA ULTRA LARGA: CONDIVIDERE
LE INFRASTRUTTURE ESISTENTI
L’assegnazione dei primi bandi di gara è alle porte. Ecco perché esistono
le condizioni per operare ed ecco che cosa è cambiato.
Appuntamento a giugno. L’inizio
dell’estate, salvo intoppi imprevisti,
segnerà la pubblicazione del primo
o dei primi bandi di gara, e a seguire
l’assegnazione della gara stessa all’operatore selezionato da Infratel. Il
piano ultrabraodband da 12 miliardi
di euro (di cui tre già stanziati) entra
dunque nel vivo. Il premier Renzi lo
ha di recente, ancora, eletto a tassello
fondamentale per la trasformazione in
chiave digitale del Paese e gli operatori
sono pronti a muoversi di conseguenza. Ne parliamo con Federico Protto,
Ceo di Retelit.
Federico Protto
una buona notizia perché la competizione fra gli operatori si deve giocare essenzialmente sui servizi e non
sull’infrastruttura. Per noi è un’opportunità e non una minaccia.
I lavori per la banda ultralarga sono
ai nastri di partenza: che cosa ne
pensa?
Occorre, secondo me, fare una distinzione fra i progetti che interessano le
aree bianche a fallimento di mercato,
e quindi i cluster C e D, dove è previsto il contributo pubblico e dove sono
destinate le risorse finanziarie stanziate dal Governo, e quelli in cui gli
operatori si muoveranno in funzione
delle opportunità di mercato.
Non c’è, dunque, il rischio di un
“nuovo monopolio”?
No, se gli operatori si muoveranno
con lungimiranza, sviluppando piani
di rete per le connessioni Ftth (Fiber
to the home, ndr) basati sull’utilizzo
delle infrastrutture esistenti.
Il premier Renzi ha tenuto a battesimo l’ingresso in campo di Enel…
L’endorsement del primo ministro si
può leggere anche come un indiretto messaggio di sollecito destinato a
Telecom Italia e riafferma l’intenzione del Governo di procedere a passo
spedito sull’ultrabroadband. Enel sarà
sicuramente più attiva nelle aree A e
B, poiché è lì che ci sono le maggiori
possibilità di sviluppare new business:
considero la nascita di Open Fiber
Rispetto al passato, qual è l’elemento di svolta per accelerare sulla banda larga in Italia?
Oltre alle risorse messe in campo per
finanziare il piano, credo che il punto
di svolta sia il nuovo quadro regolatorio. Il cosiddetto “decreto scavi”
pubblicato a marzo, che recepisce una
direttiva europea del 2014, regola l’utilizzo delle infrastrutture esistenti e
obbliga gli operatori che le detengono
a metterle a disposizione degli altri. Si
12
| MAGGIO 2016
tratta di un provvedimento che, almeno sulla carta, rimuove gli ostacoli che
spesso hanno impedito, soprattutto a
livello locale, di procedere con l’avvio
delle reti ad alta velocità.
Quindi è fiducioso?
Sì, anche perché l’Agcom ha appena
pubblicato le linee guida delle condizioni di accesso all’infrastruttura
finanziata, elemento imprescindibile
per un virtuoso utilizzo della stessa.
L’ingresso di Enel, l’azione di Agcom
e le decisioni prese dal Governo vanno
a determinare un quadro di manovra
chiaro, in cui gli operatori possono
lavorare insieme per lo sviluppo delle
nuove reti. Faccio un esempio: l’offerta residenziale di Enel può appoggiarsi
all’infrastruttura di backhauling di un
provider come Retelit. Perché non ha
senso fare la guerra sulla infrastrutture
e perché la componente servizio è vitale sotto il profilo della profittabilità.
Possibili intoppi all’orizzonte?
Le condizioni per operare sembra che
ci siano, anche se i rischi non mancano. Penso per esempio alla burocrazia
che rallenta il corso delle gare Consip e, di conseguenza, quello dei lavori. La lungimiranza degli operatori,
aziende municipalizzate e non, è un
requisito vitale per evitare che alcuni
soggetti rafforzino la propria posizione di mancata condivisione delle infrastrutture. Serve, in definitiva, un
approccio culturale che superi i limiti
del modo di fare business tipicamente
italiano.
Gianni Rusconi
INVESTIMENTI
IT IN FRENATA
ON-PREMISE E CLOUD,
DUE PORTE DI ACCESSO AI DATI
La spesa mondiale per le tecnologie digitali calerà quest’anno di mezzo punto percentuale. Il dato lo ha rivelato di
recente Gartner, stimando per il 2016
un giro d’affari di 3.492 miliardi di dollari, meno dei 3.509 dello scorso anno.
Le imprese, insomma, ridurranno dello
0,5%, su scala globale, i budget dedicati alle tecnologie, mentre la razionalizzazione degli investimenti rimarrà una
priorità. Così commentano gli analisti
della società di ricerca americana: “Una
corrente sotterranea di incertezza economica sta spingendo le aziende a stringere la cinghia e la spesa in information
technology è una delle vittime”.
Le risorse verranno destinate soprattutto ai servizi (in crescita del 2,1%) e ai
prodotti strategici per la trasformazione
digitale, mentre verranno tagliati gli acquisti di dispositivi hardware (in calo del
3,7%) e le spese per le telecomunicazioni, il cui giro d’affari si contrarrà di due
punti percentuali per efffeto del continuo calo di tariffe dei servizi Internet e di
telefonia (e non tanto come una minore
propensione alla spesa). Il cloud computing, invece, continuerà a trainare gli
investimenti sui sistemi per i data center
(in salita del 2,1%) e per il software di
classe enterprise (in aumento del 4,2%).
Conciliare sicurezza, flessibilità,
accesso ai dati da qualsiasi luogo e
strumento è la missione di Acronis.
Un’azienda specializzata in software
per la protezione dei dati e la mobility, guidata da una Ceo dai natali
russi e domicilio in quel di Monaco,
a testimonianza dell’importanza del
mercato tedesco. La società pensa,
però, anche al nostro Paese. Telecom Italia è, infatti, il primo di una
lista (ancora da annunciare) di service provider con cui Acronis proporrà
diverse varianti delle sue soluzioni.
Tali soluzioni, nella forma attuale,
presuppongono una custodia dei
dati e delle applicazioni aziendali su
risorse on-premise: si possono utilizzare smartphone, tablet o Pc per accedere da qualsiasi luogo e in modo
sicuro ai dati, mentre questi ultimi
restano custoditi sui server interni all’organizzazione. Nella nuova
forma, invece, si potrà sfruttare la
nuvola come base dello storage. “Alcuni clienti continueranno a usare le
nostre soluzioni on-premise. Altri le
useranno in parte nel cloud, con un
approccio ibrido. Altri passeranno
completamente al cloud”, ha commentato il Ceo, Serguei Beloussov,
Serguei Beloussov
Acronis intraprende una
"seconda via" per le sue
soluzioni di backup e di
accesso mobile.
sottolineando l’esistenza di un’unica
architettura tecnologica fondante.
La strategia è quella di lasciare ai
partner le attività di custodia e gestione dello storage dei clienti, mentre Acronis continuerà a focalizzarsi
sulla data protection e sulle soluzioni di “mobile content management”,
cioè di accesso ai dati, condivisione
e collaborazione. L’applicazione finale potrà essere personalizzata dal
service provider con i propri logo,
colori e grafica.
V.B.
IN EVIDENZA
CON L’OPEN SOURCE, I GRANDI DATI
NON FANNO PIÙ PAURA
L’open source è una strada preferenziale per le aziende che vogliano
accelerare su più corsie: quella della
gestione dei Big Data, ma soprattutto
quella degli analytics e della Business
Intelligence. Ne sono convinti gli
sponsor dell’Hadoop Summit (Yahoo, Microsoft, Emc, Oracle e Sas,
per fare qualche nome), evento che
in aprile ha riunito a Dublino 1.400
partecipanti arrivati da 46 Paesi. “Già
nel primo summit di Hadoop avevamo parlato dell’ambizione di gestire i
dati del mondo e oggi questo slogan
non è cambiato”, ha ricordato Herb
Cunitz, presidente di Hortonworks,
società statunitense che sviluppa piattaforme per la gestione dei dati e per
la creazione di applicazioni. Ispirandosi rigorosamente all’open source.
Fra i diversi annunci di prodotto e di
progetti (anche indirizzati alla community degli sviluppatori) a Dublino
è emerso un tema di fondo, o meglio
una convinzione: solo con l’approccio
aperto, privo di barriere fra le tecnologie, si possono creare piattaforme
per la conservazione e l’analisi dei
Herb Cunitz
Per analizzare grandi volumi
di dati di diversa natura,
l'unico approccio sostenibile
è quello "aperto". Parola di
Hortonworks.
dati capaci di sostenere carichi Big
Data. Quelle che Hortonworks chiama “connected data platform” si distinguono da tutti i precedenti perché
possono eseguire analisi su ogni tipo
di dato: sia quelli statici (tipicamente,
contenuti e ordinati nei database) sia il
flusso continuo prodotto dalle intera-
zioni Web, dai social network, dalle
immagini, dai sensori dell’Internet
of Things, dai log di sicurezza e dalla geolocalizzazione. Sul palco del
summit, il chief technology officer
Scott Gnau ha illustrato alcuni dei
vantaggi dell’open source applicato
agli analytics per specifici settori. Per
il retail, ad esempio, si stima di poter ricavare con le piattaforme di dati
connessi circa 70 milioni di dollari di
risparmi sui sistemi It, un aumento
di fatturato sulle vendite compreso
fra il 3% e l’8%, oltre alla possibilità
di ottenere indicazioni preziose per
ottimizzare la supply chain. Le assicurazioni automobilistiche, invece,
saranno in grado di ridurre del 4%
le perdite analizzando in tempo reale
e più velocemente i comportamenti
di guida dei loro clienti. “Le aziende
che non adottano le connected data
platform scopriranno di essere rimaste indietro e di non aver portato valore aggiunto ai loro clienti”, ha detto
Gnau. “C’è un incredibile valore da
sfruttare ed esiste un incredibile ecosistema per sfruttarlo”.
V.B.
IL SUPERCOMPUTER PER LA RICERCA
È partita a metà aprile l’avventura del
nuovo “cervellone italiano” destinato
alla comunità scientifica: un sistema
progettato dal Cineca sulla piattaforma NeXtScale di Lenovo e frutto di
un piano di investimenti di 50 milioni
di euro. La prima fase di sviluppo del
supercomputer (il cui nome logico è
“Marconi”) sarà progressivamente
completata in poco più di un anno,
entro luglio 2017. Dapprima è prevista l’entrata in produzione di un siste-
14
| MAGGIO 2016
ma capace di raggiungere una potenza di calcolo di 2 Petaflops. Nel corso
dell’anno prossimo la potenza computazionale a disposizione dei ricercatori sarà di circa 20 Petaflops e sarà
abbinata a una capacità di memorizzazione dati di oltre 20 Petabyte. La
seconda fase del progetto inizierà poi
nel 2019 e avrà come obiettivo l’incremento della potenza disponibile
per raggiungere i 50 o 60 Petaflops
entro il 2020.
l’opinione
DEVOPS, STRUMENTO VINCENTE
PER TAGLIARE GLI INSUCCESSI
Un nuovo approccio è necessario, sia nello sviluppo software sia
in alcune dinamiche dell'It aziendale.
Alcuni studi di psicologia hanno evidenziato un aspetto interessante: una
perdita provoca reazioni emotive il
doppio più intense rispetto a una vincita. Insomma, odiamo perdere più di
quanto amiamo vincere. Immaginate
di lavorare nell’ambito dello sviluppo
software e di essere sotto pressione per
il rilascio di un aggiornamento. Siete
consapevoli che potrebbero verificarsi
problemi di performance o qualità, ma
l’idea di dover rimandare il rilascio non
puà essere presa in considerazione. E
dunque, proprio come chi scommette
al casinò, accettate il rischio. Ma, considerando che il banco vince sempre,
che probabilità di successo avete? L’avversione per la sconfitta non riguarda
solo lo sviluppo software, ma anche le
operazioni It e la gestione dei servizi.
Spesso si osserva un approccio molto
rigido rispetto al cambiamento, ma difficile da abbandonare perché è ciò che
ha garantito sbocchi di carriera e sicurezza del posto di lavoro. Pensiamo, per
esempio, a un sistemista che per anni ha
ricevuto un ottimo compenso per i suoi
Michele Lamartina
straordinari e reperibilità. Come possono, dunque, le aziende che si avventurano nel DevOps proteggersi dagli effetti
della paura della perdita dello status quo?
Una prima risposta è liberare lo sviluppo del software dal “fattore scommessa”,
per esempio adottando tecniche come lo
sviluppo test-driven, che consentono ai
programmatori di avere riscontro immediato sulla qualità del software. A questo
si aggiungano strumenti di ultima generazione che rimuovono alcuni limiti
del testing, permettendo di ottenere
un ottimo livello qualitativo dei test in
meno tempo ed evitando inutili rischi.
In secondo luogo, non vanno trascurati
fenomeni come quello delle “shadows
ops”, che nell’era dello sviluppo Agile
stanno divenendo sempre più frequenti
e che consentono di interrompere tanti vecchi processi mirati ad assicurare
compliance e resilienza, i quali ostacolano l’innovazione. Invece di opporsi a
tutto questo, le aziende dovrebbero analizzare a fondo il fenomeno e incoraggiare l’adozione di tali strumenti all’interno dei confini dell’organizzazione, e
il tutto naturalmente sotto la governance dell’It. Ciò permetterebbe di incrementare la qualità e la user experience,
agendo sin dalle prime fasi del disegno
e sviluppo delle applicazioni. Terza e
ultima risposta è dare incentivi in base
ai risultati di business. Piuttosto che ricompensare lo staff in base agli “output”
(line di codice, numero di problemi risolti), si può considerare l’introduzione
sistematica di metriche con cui misurare il personale e incentivarlo sulla base
del contributo ai risultati aziendali.
Michele Lamartina
country leader Ca Technologies
SCENARI | Smart working
La maggior parte delle
imprese associa al modello
"smart" un incremento di
produttività dei dipendenti
e un miglioramento della
reputazione aziendale.
Ma solo in pochi si
preoccupano di aiutare i
manager a gestire questo
cambiamento.
PIÙ PREGI CHE DIFETTI
PER IL LAVORO FLESSIBILE
A
mico o nemico? Il dibattito sul lavoro flessibile, sulle modalità di gestione dei
dipendenti che esulano da
orari canonici e postazioni fisse è sempre
più attuale. E non solo perché al tema è
dedicato un disegno di legge di recente
emanazione (ne parliamo nell’articolo di
pag. 18). L’impatto delle tecnologie sui
processi aziendali, sul ruolo, sulle mansioni e responsabilità dei dipendenti è
oggetto di diversi studi. La ricerca “Flexible Work: Friend or Foe?” realizzata da
Vodafone intervistando ottomila professionisti (dipendenti, manager e dirigenti
di imprese private e organizzazioni del
settore pubblico, di diversi Paesi) evidenzia che il 75% delle aziende ha in16
| MAGGIO 2016
trodotto politiche di lavoro flessibile per
consentire ai propri addetti di organizzare in modo più autonomo, da casa o in
mobilità, la loro giornata. Chi ha adottato pratiche di smart working conferma
di aver visto un significativo miglioramento delle prestazioni e, in particolare,
individua tre assi lungo i quali si evidenziano i maggiori effetti positivi: l’aumento della produttività (citato nell’83% dei
casi), la crescita dei profitti (nel 61%)
e l’impatto sulla reputazione aziendale (nel 58%). Se tecnologie come le reti
mobili e device di ultima generazione,
servizi cloud e banda ultralarga fissa sono
l’anima del lavoro “intelligente”, quali sono le barriere alla sua adozione? Le
risposte, come facilmente immaginabile,
sono diverse. Lo studio di Vodafone, per
esempio, mette in evidenza come esistano pregiudizi culturali nei confronti di
questo strumento e come, in altri casi, la
flessibilità non si sposi con la mentalità
dell’organizzazione. Le preoccupazioni
relative all’equa distribuzione del lavoro
e i possibili attriti fra i dipendenti (cioè
fra quelli che operano in modo flessibile
e quelli che non lo fanno) sono ulteriori
criticità. Per contro, fra i lavoratori che
non usufruiscono ancora di politiche
di smart working emerge come l’introduzione di questo modello avrebbe un
impatto positivo sulla motivazione dei
dipendenti (lo pensa il 55% di questi
soggetti), sulla produttività (il 44%) e
sui profitti (il 30%).
STRUMENTO UTILE,
MA SNOBBATO
Secondo una ricerca condotta a
febbraio dalla società di recruitment online InfoJobs, su un campione di oltre 40mila lavoratori e
400 aziende, lo smart working in
Italia è considerato uno strumento
utile ai fini della produttività e del
“work-life balance”, cioè dell’equilibrio fra vita privata e lavorativa. C’è
però un (preoccupante) rovescio
della medaglia: il 64% delle aziende
ignora i contenuti della proposta di
legge varata a fine gennaio su questo tema, il 39% non è al corrente
nemmeno della sua esistenza e solo
l’8% ne conosce approfonditamente gli elementi. Eppure il lavoro agile è uno dei temi più caldi del dibattito sulla riforma del mercato delle
professioni. L’indagine fa emergere
un quadro sfaccettato, in cui cultura
aziendale, tecnologia e normativa si
intersecano. Aziende e lavoratori, in
ogni caso, concordano sull’impatto
positivo dello smart working sull’operatività e sull’equilibrio tra vita
privata e professionale: per il 25,6%
delle organizzazioni, in particolare,
migliorerebbe le condizioni lavorative dei dipendenti, oltre a incidere positivamente sulla produttività.
Solo l’11% è di parere opposto.
A tutt’oggi, le aziende che ricorrono al lavoro agile sono il 44% del
totale, ma quelle che lo adottano
in maniera strutturata sono meno
del 14%. Oltre il 30% applica invece
politiche mirate di flessibilità limitatamente ad alcune aree e solo il
28,5% ne ha in programma l’attuazione entro i prossimi tre anni. Interessante, infine, il dato che vede
il 49% delle aziende dichiararsi impreparate a mettere in campo lo
smart working dal punto di vista
dell’infrastruttura tecnologica.
Interessante, per capire l’eterogeneità
della diffusione del fenomeno, è la sua
distribuzione a livello di singoli Paesi: il
Regno Unito è al comando nella classifica della fiducia tra datori e dipendenti,
mentre il 52% dei dipendenti tedeschi
ha rivelato di non essere a conoscenza
delle policy di sicurezza della propria
azienda in merito al lavoro flessibile.
E in Italia? Secondo l’indagine, solo il
31% dei lavoratori della Penisola ha beneficiato di strategie di lavoro flessibile
e tale percentuale ci colloca al penultimo posto tra tutti i Paesi coinvolti nella
ricerca, seguiti solo da Hong Kong. Più
incoraggianti sono i dati che fotografano
l’approccio al tema delle aziende italiane.
Il 70% conferma di aver abbracciato lo
smart working, una larga fetta si mostra
potenzialmente favorevole e solo il 6%
risulta contrario.
Più formazione per i manager
Sebbene il lavoro agile si stia diffondendo
sempre di più anche nelle imprese italiane, c’è però un “gap” da colmare per renderlo un beneficio sistemico e trasversale
a ogni organizzazione: la scarsa formazione del management. Una ricerca condotta da Regus su un vasto panel internazio-
nale di imprese clienti (44mila interviste
in 105 Paesi) ha infatti evidenziato delle
palesi contraddizioni fra la valutazione,
molto positiva, che i manager danno del
lavoro degli “smart worker” e la limitata propensione degli stessi ad acquisire
competenze utili per adeguarsi ai nuovi
processi organizzativi. Più precisamente,
il 74% dei manager italiani intervistati (rispetto al 79% della media globale)
dichiara che la propria azienda misura la
produttività dei lavoratori flessibili attraverso la definizione di specifici obiettivi
condivisi, anziché effettuare un tradizionale controllo del tempo dedicato alle
mansioni aziendali. Nella maggior parte
dei casi, inoltre, si riscontra una maggiore produttività in chi lavora da remoto
in modo flessibile. Se gli investimenti in
tecnologie addizionali per ottimizzare la
gestione degli “smart worker” non difettano (li confermano il 51% delle imprese
italiane), il vero problema è la penuria di
iniziative per la formazione del management. Solo poco più di quattro imprese
su dieci ha destinato budget a tale attività, e l’unica consolazione è che su questo
dato il nostro Paese è in linea con la media delle altre nazioni.
Piero Aprile
CON IL MOBILE AUMENTA L’EFFICIENZA
“The Mobile Employee Impact’, ricerca condotta a livello globale da
The Economist Intelligence Unit
per conto di Aruba Networks (divisione di Hpe) conferma l’esistenza
di un effetto misurabile delle tecnologie mobili (smartphone, tablet
e app) sulla qualità del lavoro svolto. Dei 1.865 dipendenti oggetto
di indagine, il 60% ha affermato
di essere più produttivo grazie alla
mobilità, mentre il 45% attribuisce a
quest’ultima un aumento della propria creatività. La possibilità di lavorare sempre e ovunque è l’elemento che più incide sull’operosità dei
dipendenti (lo sostiene il 49% degli
intervistati) mentre il 38% identifica
questa condizione come la più importante per ritenersi soddisfatto
della propria azienda. Ma qual è
la situazione reale? La percentuale di organizzazioni che mettono a
disposizione un ambiente di hotdesking e connettività mobile è più
alta in alcuni Paesi, in particolare
nel Regno Unito (54%), in Australia
e Germania (53%). La media globale è del 46%. Una curiosità: le app
di messaggistica come WhatsApp
sono diffuse nel 31% delle aziende,
con un picco del 66% a Singapore.
17
SCENARI | Smart working
I VINCOLI LEGALI DI LUOGO
E DI ORARIO? SUPERABILI
Tempi e modalità di lavoro
possono diventare più
flessibili, a vantaggio della
produttività, all’interno di
un’adeguata cornice normativa.
Al principio del controllo “a
vista” si sostituisce un più forte
rapporto fiduciario tra datore
e dipendente.
I
l Consiglio dei Ministri del 28 gennaio 2016 ha varato un nuovo disegno di legge recante “misure per
la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire
l’articolazione flessibile nei tempi e
nei luoghi del lavoro subordinato”. Si
tratta di un provvedimento per lo più
ispirato al ddl. “Mosca” (ddl. n.2014/
2014) e che si inserisce nell’ambito
della legislazione sulle tematiche della
conciliazione tra vita privata e lavoro.
Una legislazione finalizzata a superare,
in chiave derogatoria, alcuni vincoli
di natura giuridica alla diffusione del
cosiddetto smart working. È bene
chiarire che non si tratta dell’ennesima nuova forma contrattuale, ma di
una modalità di svolgimento della
prestazione lavorativa, più vantaggiosa
sia per l’aumento della produttività e
la conseguente riduzione dei costi sia
per la conciliazione tra sfera personale
e professionale.
Lo smart working implica un forte
ripensamento dei tradizionali vincoli
legati a luogo e orario di lavoro, puntando su una maggiore autonomia
del dipendente nel definire i termini
delle sue prestazioni a fronte di una
maggiore responsabilizzazione sui
risultati. In particolare, il “lavoro
agile” viene definito come una pre-
18
| MAGGIO 2016
Luca Failla
stazione subordinata che si svolge con
le seguenti modalità: l’esecuzione della mansione lavorativa in parte all’interno dei locali aziendali e in parte
all’esterno, senza alcuna indicazione
di percentuale massima o minima di
orario; la possibilità di utilizzare strumenti tecnologici; l’assenza di una
postazione fissa per le attività svolte
all’esterno dei locali aziendali.
L’obiettivo per il 2016 del legislatore è
quello di superare le rigidità che sono
state causa del conclamato insuccesso
del telelavoro, per lo più determinate dalla stringente applicazione del
Testo Unico in materia di salute e sicurezza. Nel disegno di legge è stata
quindi delineata la struttura generale
di tale nuovo strumento contrattuale,
lasciando ancora una volta spazio alla
contrattazione collettiva di ogni livello per meglio dettagliare tale istituto.
L’ulteriore vantaggio derivante dall’eventuale sottoscrizione dell’accordo
sindacale in tema di lavoro agile è l’applicabilità degli incentivi di carattere
fiscale e contributivo, eventualmente
riconosciuti in relazione agli incrementi di produttività ed efficienza del
lavoro subordinato. In realtà fino a
oggi è stata proprio la contrattazione
collettiva – specie di secondo livello
– a disciplinare il lavoro intelligente.
Numerose aziende, soprattutto multinazionali, hanno ritenuto di adottare tale modello pur in assenza di
una normativa legislativa, mutuando
da esperienze ormai molto diffuse in
altri Paesi. Si pensi, per esempio, che
nella Silicon Valley lo smart working
rappresenta la norma e non l’eccezione. Nella maggior parte dei casi il
lavoro agile è stato implementato per
soddisfare una maggiore necessità di
conciliazione familiare e personale,
ma oggi si assiste a una sua graduale
evoluzione tesa ad ampliarne le finalità verso tematiche diverse (dall’impatto sociale ai consumi, fino alla
mobilità).
La sfida dello smart working si gioca, dunque, da un lato sulla estrema
valorizzazione del rapporto fiduciario
tra datore e lavoratore, che esegue la
propria prestazione professionale al
di fuori del luogo aziendale e senza
vincoli di tempo, e dall’altro sul fronte del rendimento. Quest’ultimo deve
essere posto al centro della prestazione stessa, mentre diventano elementi
marginali il rispetto dell’orario e l’individuazione di un luogo di lavoro.
Si tratta dunque di una sfida di non
poco conto e che necessita anche di
un cambiamento culturale, non solo
da parte di chi usufruisce di tale modalità, ma anche e soprattutto del
management aziendale, finora per lo
più abituato a esercitare un controllo
“a vista” della prestazione lavoro.
Luca Failla,
founding partner di LabLaw
SCENARI | Smart working
IL FUTURO È LIQUIDO
L'80% dei professionisti apprezza i vantaggi di produttività e di libertà organizzativa legati
alle tecnologie. Lo svela una ricerca di Adp, che segnala però anche qualche timore.
L
a tecnologia è uno dei principali
motori dei cambiamenti che si
stanno verificando sul posto di lavoro. Ma i dipendenti sono pronti
ad accettare questa evoluzione? Secondo
una ricerca condotta dall’Adp Research
Institute su oltre 2.400 addetti aziendali
in 13 Paesi (Italia esclusa), la cosiddetta
"forza lavoro” è aperta a un mutamento,
anche radicale, sebbene rimangano numerosi dubbi. L’81% degli intervistati,
per esempio, accoglie positivamente il
fatto di poter essere produttivo da qualsiasi luogo e il 79% pensa che la tecnologia rafforzerà le relazioni interpersonali
malgrado la distanza. L’automazione dei
processi potrebbe però colpire la stabilità
del lavoro, già duramente messa alla prova dalla lunga crisi economica.
La ricerca ha evidenziato e classificato
cinque bisogni dei professionisti di oggi:
libertà, conoscenza, stabilità, autogestione e significato, con differenze sostanziali
tra le quattro macroregioni geografiche
prese in considerazione. Rispetto al resto
del mondo, l’Europa si dimostra più apprensiva nei confronti del cambiamento
a causa anche dell’età media più avanzata
della sua popolazione. Gli europei temono infatti una riduzione dei livelli occupazionali e la spietata concorrenza di altri
mercati, come quello asiatico. Ma questo
non vuol dire che la tecnologia non sia
pervasiva e accettata.
Gli olandesi sono i più ottimisti sul fatto che in futuro sia possibile definire con
maggiore libertà il proprio orario di lavoro: ne è convinto l’88% degli intervistati,
mentre si scende all’83% tra i britannici,
al 75% tra i francesi e al 73% tra i tedeschi. Un quarto degli europei pensa che
la facoltà di svolgere quasi tutti i compiti
dai dispositivi mobili sia un processo già
in corso, anche se il 33% non si è dimostrato entusiasta di questa possibilità. La
mobilità, ovviamente, avrà ripercussioni
dirette anche sugli uffici, storico punto di
riferimento della vita aziendale. La crescente diffusione di smartphone e tablet,
unita all’adozione delle tecnologie cloud,
porterà allo spopolamento di questi luoghi o alla loro trasformazione in strutture
più leggere.
Dal punto di vista della conoscenza, la
maggior parte dei lavoratori del Vecchio Continente ritiene che la tecnologia stia già favorendo relazioni personali
più strette, grazie in particolare ai social
media. Secondo il 31% dei tedeschi, in
proposito, la collaborazione professionale
tramite piattaforme social è un trend ben
consolidato e, in generale, quasi sei europei su dieci pensano che in futuro questi
strumenti diventeranno fondamentali.
Anche tale dato, però, è inferiore rispetto
alle altre aree del mondo.
La “liquidità” del lavoro si rispecchierà
inoltre anche sulla conoscenza, che dovrà continuamente cambiare. È questo
uno degli aspetti che più preoccupa gli
europei: il 52% teme di essere obbligato
ad apprendere rapidamente nuove competenze. Nell’area Asia-Pacifico, invece,
medesime ansie sono state espresse da soli
due intervistati su dieci. L’altro bisogno
fondamentale per gli europei è quindi la
stabilità: l’ipotesi che le imprese possano
assumere solo collaboratori a contratto o
a progetto spaventa il 65% dei lavoratori, anche se il 69% pensa di non subirne
personalmente le conseguenze. La maggior parte degli intervistati, infine, ritiene
che la transizione verso un’occupazione
con un senso personale più profondo
sia già in atto, così come sembra essere
accettato il fatto che le imprese usino la
tecnologia per misurare e incrementare il
benessere dei dipendenti.
Alessandro Andriolo
19
SCENARI | Digital transformation
A CHE PUNTO
SIAMO IN ITALIA?
L’evoluzione delle piccole e medie imprese è ancora frenata
da diversi fattori: dalla carenza di connessioni mobili ad alta
velocità, che inibisce la diffusione del paradigma industria
4.0 nel manifatturiero, allo scarso uso di Internet per attività
di e-commerce. E l’assenza di un cultura tecnologica, in
molte aziende, certo non aiuta.
D
a anni si parla di “digital
transformation” ma ancora
oggi, soprattutto nel confronto con i Paesi esteri,
sembra che in Italia ci sia ancora molto
da fare. Questo è oltremodo vero se si
pensa al processo di digitalizzazione
delle Pmi, la miriade di piccole e medie
attività che costituiscono le basi del nostro sistema industriale ed economico.
Realtà che sempre più spesso vengono
lasciate in balia dei processi di trasformazione, senza avere una chiara visione
delle strategie e delle motivazioni che
stanno alla base del cambiamento. Sicuramente il nostro è, in molti casi, un
Paese di imprenditori illuminati ma,
molto più spesso, i “Brunello Cucinelli” del caso fanno fatica a emergere
dalle routine gestionale di un’attività
rallentata dal prolungato momento di
crisi, dalla mancata comprensione delle
potenzialità delle tecnologie e da scarse
competenze disponibili.
Se, quindi, ci si chiede a che punto siano le Pmi italiane nel processo di digitalizzazione, rispondere diventa complesso: sia perché il numero e la varietà
di imprese rendono difficile una lettura
univoca dei risultati, sia perché spesso
(nel leggere le risposte a domande su
temi tecnologici) si fatica a comprendere quali sia davvero il ruolo del di20
| MAGGIO 2016
gitale all’interno di un’azienda. Qualche considerazione si può comunque
trarre guardando all’ultima rilevazione
dell’Istat sulle realtà nostrane da dieci
e quarantanove addetti, un sottoinsieme che tralascia volontariamente le
micro-imprese e quelle unipersonali
che meriterebbero un discorso a parte. Lo studio esamina, dunque, solo le
circa 187mila aziende che hanno una
massa critica sufficiente per parlare di
funzioni aziendali e internazionalizzazione. Dai dati emerge come quasi tutte dispongano di una connessione Internet, benché una piccola parte (circa
il 2%) rimanga ancora completamente
offline; la percentuale aumenta al 6,1%
se si considera invece l’assenza di una
connessione a banda larga (fissa o mobile) mentre quasi il 40% non possiede
una linea mobile (almeno su rete 3G).
Quest’ultimo parametro assume una
connotazione particolarmente negativa
nell’ottica dello sviluppo di un modello per l’industria 4.0 in Italia e della
creazione di sistemi cyber-fisici all’interno delle fabbriche. In tal senso, la
mancanza di una connessione mobile
ad alte prestazioni inibisce la diffusione
di questo paradigma all’interno delle
Pmi in ambito manifatturiero, che rappresentano circa il 34% delle imprese
analizzate.
Il Web, questo sconosciuto
Un altro dato interessante riguarda la
presenza online di queste aziende, o
tramite un sito Internet o, più genericamente, con una pagina Web (il presidio dei social network da parte delle
Pmi è invece quasi nullo). In questo
caso, emerge come poco meno di un
terzo delle aziende non sia presente su
Internet, mentre chi lo è utilizza il sito
a fini informativi (il 40,2% delle imprese) o per dare visibilità a cataloghi
e listini prezzi (il 32,2%). Solo poco
più del 12% sfrutta il canale online
per gestire ordini o prenotazioni di
prodotti. Quest’ultimo aspetto introduce il tema dell’e-commerce e della
diffusione di questo strumento tra le
“
Parte della responsabilità della
défaillance digitale
delle nostre Pmi è da attribuire
a una relativa debolezza dell’offerta
tecnologica a loro riservata,
e in particolare del canale
e delle terze parti
”
UE: 300 MILIONI PER
L’INNOVAZIONE
Il Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (Feis) e il
Banco Popolare Società Cooperativa hanno firmato di recente un accordo a vantaggio delle
Pmi italiane più innovative per
stanziare, attraverso lo strumento di finanziamento InnovFin,
300 milioni di euro. Tali risorse
sono destinate, nello specifico,
al sostegno diretto di 1.500 imprese attive in progetti ad alto
contenuto tecnologico in settori
chiave per la Ue, quali istruzione
e conoscenza, innovazione ed
economia digitale, energia e infrastrutture di trasporto, risorse
naturali e ambiente.
Pmi. Ancora i dati Istat dicono come
le aziende con 10-49 addetti non siano
attive in modo significativo in questo
canale: solo il 9% ha concluso delle
vendite per via digitale, mentre se si
guarda agli acquisti effettuati in Rete
la percentuale di aziende che si sono
dimostrate attive nel corso dell’anno
precedente alla rilevazione (nel 2014,
quindi) sale al 36%.
Perché, dunque, le piccole e medie
imprese italiane sembrano così restie
ad intraprendere un percorso di trasformazione digitale? Uno dei temi
centrali, molto spesso presente anche
all’interno delle grandi aziende, sicuramente riguarda la scarsa diffusione di una cultura digitale: in molti
casi regna una sorta di disillusione e
di marginalizzazione del ruolo della
tecnologia, percepito sostanzialmente
come estranea al core business aziendale. Va comunque tenuto presente
che parte della responsabilità di questa
“défaillance digitale” delle nostre Pmi
è da attribuire a una relativa debolezza
dell’offerta tecnologica a loro riservata,
e in particolare del canale e delle terze
parti. Negli ultimi anni di difficoltà
nello scenario economico, infatti, si
sono accentuati gli effetti di alcune
criticità di queste aziende, quali la
sottocapitalizzazione e le dimensioni
limitate, che hanno reso più difficoltosa la loro capacità di trasferimento tecnologico e di “consulenza” innovativa.
Da dove ripartire, quindi? Forse in
primo luogo dalla “riforma” del canale, anche da parte dei grandi vendor Ict, in un’ottica di sviluppo delle
competenze e delle tecnologie che poi
vengono concretamente portate nelle
aziende e nei loro sistemi informativi.
Occorre poi sviluppare un meccanismo di diffusione e condivisione delle
esperienze e delle buone practiche, per
mostrare in modo chiaro e trasparente
che un percorso verso la digital transformation esiste ed è percorribile.
Camilla Bellini,
analista di The Innovation Group
21
SCENARI | Digital transformation
SVOLTA TECNOLOGICA:
PMI CONVINTE A METÀ
Secondo uno studio di Idc,
l’adozione degli strumenti
digitali è vista anche
dai dipendenti come un
passaggio fondamentale
per la sopravvivenza delle
piccole e medie imprese.
I ritorni sugli investimenti
sono tangibili, ma la vera
trasformazione dei processi
è appena iniziata.
22
| MAGGIO 2016
L
e piccole e medie aziende che
hanno adottato gli strumenti digitali mostrano uno sviluppo del
proprio business più rapido rispetto a quelle che non lo hanno ancora
fatto. Un assunto forte, certo non nuovo
se pensiamo al fatto che da anni i vendor
Ict provano a valorizzare la componente
tecnologica come un asset vitale dell’impresa e non come un mero costo da iscrivere a bilancio. Ma il messaggio emerso
da una recente ricerca condotta su scala
globale da Idc non va trascurato, per il
semplice motivo che, a dichiararsi convinte dell’efficacia della digitalizzazione,
siano innanzitutto le aziende.
L’indagine, infatti, mostra come le Pmi
stiano iniziando a comprendere e a beneficiare del valore delle tecnologie, e
in modo particolare degli stumenti di
analytics, dei software di collaborazione
e di queli per la gestione della relazione
con i clienti (dal Crm in avanti). Soluzioni, in generale, che permettono ai manager di gestire il business più facilmente e
di reggere la sfida competitiva anche con
le aziende di grandi dimensioni.
Fra gli indicatori più significativi emersi
dallo studio spiccano quelli riguardanti
il tasso di adozione e i benefici ottenuti
attraverso le tecnologie di ultima generazione. Oltre il 39% del campione concorda, per esempio, sul fatto che la partecipazione attiva nella digital economy
sia fondamentale per la sopravvivenza
dell’impresa nei prossimi tre o cinque
anni. Circa un terzo del totale (e oltre
il 45% delle aziende che impiegano dai
nologia”, meno lo è la preoccupazione,
lamentata da un terzo abbondante di imprese (principalmente realtà medio-grandi), di dover fare troppo affidamento sui
dati per prendere decisioni di business
efficaci. Ma a preoccupare veramente è
soprattutto il fatto che quasi un quarto
(il 24,7% per la precisione) delle piccole
e medie imprese del Nord America dichiari di aver fatto “poco o niente” in
termini di trasformazione digitale. Una
cattiva abitudine molto diffusa anche
alle nostre latitudini.
I dipendenti tifano per il digitale
500 ai 999 dipendenti) ha confermato
inoltre di aver registrato un fatturato in
crescita del 10% nell’ultimo anno anche in virtù dell’adozione di strumenti innovativi che connettono persone,
dispositivi e la rete di clienti e partner.
E non parliamo ancora di intelligenza
artificiale, realtà aumentata o sistemi
robotici: il 50,6% delle aziende interpellate utilizza delle comuni applicazioni di
collaboration per accompagnare il proprio processo di trasformazione digitale,
mentre il 38% e il 37% del campione,
rispettivamente, ricorre a soluzioni di
Crm e di business analytics. Tecnologie
consolidate e facilmente accessibili (anche in cloud), che in circa la metà delle
Pmi intervistate hanno permesso di migliorare il flusso di lavoro, semplificare le
operazioni e aumentare la produttività.
Il vero problema sta dunque nella modalità con cui gli strumenti digitali sono
recepiti e compresi. Se è accettabile il
fatto che circa un terzo (tra il 30,4% e
il 36,6%) delle aziende pensi che “le relazioni personali tra i dipendenti non sono
state rafforzate dall’adozione della tec-
Il dato potrebbe trarre in inganno, aprendo a ottimismi non completamente giustificati: il 66% delle Pmi italiane ha rinnovato o sta rinnovando i propri processi
It e il 68% dei dipendenti punterebbe su
cloud computing e mobility a supporto del business. L’indicazione arriva da
una ricerca di Microsoft e Ipsos Mori
di qualche mese fa, la quale ha messo in
evidenza come gli addetti delle medie e
piccole imprese della Penisola si dichiarino come i più pronti a livello europeo ad
abbracciare con forza e fiducia gli strumenti digitali per ottimizzare il proprio
lavoro e l’equilibrio fra vita privata e professionale. Più precisamente, è opinione
diffusa fra gli intervistati che software e
applicazioni più smart, insieme ai device
mobili, potrebbero semplificare il loro
lavoro e migliorare la produttività.
L’importanza attribuita alla tecnologia si
evince anche dal 40% e oltre di dipendenti convinti che il ricorso ai sistemi digitali debba essere una priorità per ridurre i costi e per aiutare la propria azienda
a crescere. Lo studio, infine, sconfessa
anche il luogo comune che descrive le
Pmi italiane come poco sensibili alla necessità di innovare: il 33% dei dipendenti in Italia lavora in aziende che seguono
logiche “paperless” e che sono connesse
online in modo adeguato, mentre un’identica percentuale ritiene che la propria
impresa si stia muovendo verso un modello digitale.
Piero Aprile
IMPRESE INNOVATIVE:
I CRITERI SONO EQUI?
Quali strategie ha adottato l’Italia per incentivare (dal punto
di vista fiscale, innanzitutto) il
passaggio delle imprese innovative dallo statuto di startup e
vere e proprie aziende? L’analisi
di Carmelo Cennamo, docente
dell’Università Bocconi di Milano, è impietosa. Il Governo, osserva l’esperto, ha predisposto
un’intera architettura di incentivi
all’innovazione per le diverse fasi
di vita delle organizzazioni che la
promuovono. E se questo tentativo può considerarsi positivo, dice
Cennamo, molti aspetti della disciplina, ma soprattutto della ratio (oscura) alla base della stessa
lasciano perplessi. I dubbi riguardano i criteri che determinano
lo status di impresa innovativa,
legati perlopiù a requisiti di “possesso” (della laurea per un terzo
del personale, per esempio) o di
natura economica (il fatturato o
la percentuale di spesa in ricerca
e sviluppo) e non di merito sul
processo d’innovazione portato
avanti (per esempio la produzione di macchinari di precisione
che automatizzano la lavorazione
del legno). Il rischio del vincolare
lo status a criteri di possesso, a
detta del docente della Bocconi,
è che qualsiasi soglia determinata
possa risultare arbitraria e portare all’esclusione di casi meritevoli.
Se il numero di Pmi oggi iscritte
nell’apposito registro, circa 140, è
inspiegabilmente esiguo a fronte
delle migliaia di iscrizioni attese,
una ragione ci deve pur essere.
E la domanda sul che cosa si voglia veramente incentivare sotto il
cappello dell’innovazione, intanto, rimane senza risposta.
23
TECHNOPOLIS PER WOLTERS KLUWER TAX&ACCOUNTING
IL VALORE DELLA
COLLABORAZIONE
Il mondo dei professionisti è in evoluzione. Wolters
Kluwer Tax&Accounting lo affianca per sostenere
la crescita della professione in modo efficace e
sostenibile. La collaborazione come strategia di
progresso e di sviluppo.
Lavorare al servizio di un mondo imprenditoriale e produttivo che si evolve e cambia rapidamente è impegnativo. I
professionisti devono mettere in gioco risorse e flessibilità.
Il loro universo è chiamato a prendere decisioni altamente
critiche ogni giorno e necessita del supporto di strumenti
tecnologici per un’attività svolta in piena sicurezza.
Wolters Kluwer da sempre è vicina al mondo professionale
e, conoscendolo molto in profondità, ne anticipa i bisogni.
Wolters Kluwer ha costruito proprio sulla collaborazione il
suo rapporto di fiducia con il mondo professionale.
Wolters Kluwer Tax&Accounting è protagonista del
mercato del software con una importante presenza territoriale che raccoglie e sviluppa l’eredità di marchi storici,
tra cui Ipsoa, Orsa e Artel, e offre al mercato italiano la
partnership di un’azienda inserita in un grande gruppo
internazionale, quotato in Borsa, presente in oltre quaranta Paesi e che ha fatto dell’informazione e dei servizi ai
24
professionisti e alle aziende la propria missione.
Pierfrancesco Angeleri, managing director di Wolters
Kluwer Tax&Accounting Italia sa che la chiave di volta per
lo sviluppo del professionista è nel digitale: “Nello studio
professionale bisogna liberare risorse qualificate e restituirle alle attività di maggiore valore aggiunto, a beneficio
della clientela. È necessaria una visione della capacità di
affiancamento alla clientela e certamente bisogna gestire
gli adempimenti, ma è opportuno toglierli dalla centralità
delle attività. Più consulenza, condivisione e collaborazione sono le nuove frontiere dello studio professionale”.
Per realizzare questo ambizioso progetto servono strumenti adeguati. Direzione Studio SMART di Wolters
Kluwer, per esempio, rappresenta un vero stacco dal
passato e consente al professionista di ottenere in automatico un quadro realistico delle attività dello studio.
Direzione Studio SMART non è uno strumento di controllo
ma una soluzione “ready to use” che permette da subito e
in automatico al professionista “l’ascolto” del proprio studio. In questo modo offre la possibilità di eseguire un’analisi approfondita, che porterà alla maggiore efficienza
dell’organizzazione e del lavoro, nonché a un rapporto
ancora più stretto con il suo cliente, grazie alla neutralità
dell’analisi. Si tratta, dunque, di uno strumento digitale in
grado di rendere il lavoro dello studio più efficace e qualificato, perché in prospettiva libera risorse da dedicare ad
attività a maggiore valore aggiunto.
Per favorire la collaborazione e per liberare il potenziale ancora inespresso dei professionisti, ecco che Wolters
Kluwer propone strumenti quali “webdesk”, un portale
di comunicazione fra lo studio professionale e la clientela. Un contenitore di servizi e di comunicazioni integrato
con le soluzioni gestionali del Gruppo Wolters Kluwer,
che può favorire la condivisione e la collaborazione e può
rendere flessibile e ancor più intelligente l’organizzazione
del lavoro del professionista. Le soluzioni digitali Wolters
Kluwer non servono più solo a elaborare, ma fanno parte
di un insieme reingegnerizzato che consentirà al professionista una gestione delle attività e del tempo condivisa
e razionale. La collaborazione potrà, così, assumere un
valore reale e tangibile poiché il professionista “digitalizzato” potrà dedicare molto più tempo ai servizi a maggiore valore aggiunto e potrà offrire alla sua clientela un
rapporto di partnership ancora più attivo.
SPECIALE | Printing
UN MERCATO A DUE FACCE
Le aziende spendono
meno in soluzioni hardware
e in consumabili, mentre
si affidano sempre di più
ai servizi gestiti. Cloud e
mobile sono i due trend
principali, ma si fa spazio
anche il green.
I
n totale fanno 3,2 miliardi di
euro. È questo il valore dell’office printing oggi in Italia per
Asso.it, l’Associazione dei produttori di sistemi di stampa e di gestione
documentale, secondo cui il segmento
office/business rappresenta il 40% dei
volumi e oltre il 90% del valore complessivo. Numeri e cifre che, se scomposti, evidenziano però due tendenze
inversamente proporzionali: una è
l’appiattimento o il calo contenuti, ma
abbastanza costanti, del business delle
soluzioni hardware e dei consumabili;
l’altra, parallela, è la regolare crescita
dei servizi di stampa gestiti. Nel primo
caso, secondo Asso.it si dovrebbe passare dal giro d’affari di 2,58 miliardi
di euro del 2015 ai 2,55 di quest’anno, per scendere ancora a 2,51 miliardi
nel 2017. Il mercato del printing nella
Penisola è quindi trainato sempre più
dai servizi, in procinto di passare dai
620 milioni di valore dell’anno scorso
ai 686 del 2016, con tassi di crescita
annuali del 10%. In totale, per il 2017
Asso.it stima un volume d’affari di 3,27
miliardi di euro per l’intero settore, con
i servizi che contribuiranno al 23% del
business complessivo. “Il loro merito è
la certificata capacità di ottimizzazione
e razionalizzazione apportata all’organizzazione”, spiega Teresa Esposito,
marketing director business group di
Canon Italia. “L’attuale tendenza per
i managed print service è l’allargamento a nuovi segmenti di mercato, ovvero dalla grande azienda verso la media
impresa”, aggiunge Esposito. Fra le
tendenze puramente tecnologiche, inMAGGIO 2016 |
25
SPECIALE | Printing
vece, vanno citati il cloud e il mobile
printing, che più di tutti soddisfano
l’esigenza di poter lavorare ovunque e
virtualmente da qualsiasi dispositivo.
Secondo stime di Idc, la stampa da
mobile è cresciuta dal 2008 a oggi a un
tasso annuale composto del 20%, con
una decisa accelerazione nell’ultimo
quadriennio, ed entro il 2018 il 75%
della forza lavoro sarà costituito da
dipendenti “mobili”. Technavio punta ancora più in alto, calcolando una
crescita globale del 32,5% nel periodo
2014-2019. Un cambiamento scaturito
anche dall’ingresso nel mondo del lavoro delle nuove generazioni “digitali”.
I numeri positivi traineranno in parallelo anche una maggior richiesta di soluzioni per la sicurezza e di tecnologie
di stampa wireless, come per esempio
la Near Field Communication (Nfc).
La nuvola e le soluzioni senza cavi,
sempre più pratiche ed economiche,
stanno vivendo un ottimo momento
anche nel segmento Soho (small officehome office), dove si tende a preferire
il “tutto in uno” per garantirsi bassi
costi iniziali e di esercizio, funzionalità
elevate e una grande affidabilità. “L’utente è sempre più esperto ed esigente
e l’abbandono progressivo di fasce di
prodotto economiche da parte di diversi vendor ha spostato l’asticella del
valore verso l’alto”, sottolinea Marco
Zanella, marketing product manager
di Brother. Diversa la situazione tra le
Pmi del nostro Paese, che rappresentano la quasi totalità delle aziende tricolori e che nel 2015 hanno contribuito al
77% del valore totale del printing italiano. “L’utilizzo del WiFi nella piccola
e media impresa non è ancora così diffuso, in quanto realtà di questo genere
si affidano molto alla connessione cablata, soprattutto per garantire la sicurezza”. Nell’ambito delle grandi imprese (18% del giro d’affari complessivo) si
riscontra invece un’altra esigenza: ottimizzare il parco macchine, integrando
facilmente i dispositivi all’interno della
rete aziendale e personalizzandoli a se26
conda dei bisogni specifici. Ma sempre
con l’obiettivo finale di razionalizzare
la spesa e di rendere più efficienti anche
i flussi di lavoro. “In ufficio si stampa
sempre meno e si riducono i documenti
cartacei in favore di quelli elettronici,
in tutti i segmenti di business”, spiega
Nicola Vargiu, products & channel
marketing manager, value products
and solutions di Oki Systems Italia.
“E, in contemporanea, si stampa meglio, con una conseguente razionalizzazione del parco macchine aziendale.
snelliscono e ottimizzano la comunicazione delle aziende clienti fornendo
loro supporto a livello di consulenza,
di software e di implementazione.
Il tutto in un’ottica di riduzione dei
volumi di stampa, sia per esigenze di
taglio di costi sia per diminuire l’impatto ambientale. Il secondo aspetto
“è confermato da una ricerca condotta
durante il Cebit 2016: l’89% dei professionisti europei dell’It intervistati
ha affermato che nel corso degli ultimi tre anni le considerazioni ambien-
Da qui la crescente necessità di integrare la stampa e la gestione documentale
all’interno dei sistemi e dei processi
aziendali”.
È chiaro quindi come il mercato sia
oggi in costante trasformazione, malgrado possa essere percepito dall’esterno come statico e ancorato a logiche
tradizionali. Ne è prova la prossima
incarnazione dei servizi gestiti che,
secondo le imprese, si trasformeranno
presto nei più ampi “managed content
service”: soluzioni che razionalizzano,
tali sono diventate più importanti o si
sono comunque mantenute costanti”,
aggiunge Flavio Attramini, head of
business sales di Epson Italia. Le dimensioni dell’impresa contribuiscono,
tuttavia, a cambiare la percezione della
forza lavoro. “Nelle aziende con oltre
cinquecento dipendenti il 62% dei partecipanti pensa che la sostenibilità sia
sempre più rilevante, mentre si scende
al 41% nelle realtà con meno di dieci
persone”.
Alessandro Andriolo
SPECIALE | Printing
IL CLIENTE HA SEMPRE
RAGIONE
I vendor devono soddisfare
aziende sempre più esigenti,
costrette a contenere i
budget ma in cerca di
soluzioni con funzionalità
avanzate: dall’hardware al
software, passando per
l’integrazione dei sistemi
e la gestione documentale.
L
a mobilità, il cloud e un approccio al lavoro più flessibile
e smart hanno ormai spinto i
principali produttori di stampanti a fornire soluzioni in grado di
adattarsi al meglio alle aziende di oggi.
Aziende in cerca di una netta riduzione dei costi, ma che non vogliono rinunciare alle funzionalità più avanzate
e che sembrano seguire sempre più la
tendenza ad acquistare dei dispositivi multifunzione piuttosto che delle
semplici stampanti. “La nostra gamma
di soluzioni e prodotti per la gestione
documentale è molto ampia e viene
rinnovata di continuo per rispondere
a nuove tendenze ed esigenze”, sottolinea Stefano Gelmetti, product marketing manager di Ricoh Italia. Nel
corso del 2016 il produttore lancerà 52
nuovi modelli di dispositivi multifunzione e di stampanti, sia a colori sia in
bianco e nero. “Abbiamo da poco introdotto le soluzioni monocromatiche
Mp 305+Sp e Mp 305+Spf, due modelli A4 che dispongono però di funzioni di stampa, copia e scansione A3.
Proprio per agevolare tendenze quali la
MAGGIO 2016 |
27
SPECIALE | Printing
28
| MAGGIO 2016
ottenere l’ultima versione del dispositivo multifunzione senza doverlo sostituire: con un semplice aggiornamento
software gratuito si possono aggiungere nuove funzionalità, come patch
di sicurezza o applicazioni, utili a risolvere in modo semplice le esigenze
del cliente”. Esigenze che riguardano
anche tutta la gestione dei flussi documentali, in particolar modo nell’ambito del printing professionale. “Prisma
è un vero e proprio Erp di tutto il centro stampa, che permette di gestire in
modo efficace i flussi in entrata e in
uscita, sia cartacei sia digitali”, spiega
Teresa Esposito, marketing director
business group di Canon Italia. L’offerta del colosso giapponese tocca poi
altri tre settori, vale a dire l’information management (con soluzioni verticali e dedicate a risolvere specifiche esigenze per facilitare il cammino verso
la trasformazione digitale); la gestione
dell’output per traghettare le imprese verso i managed content service (il
fiore all’occhiello, in questo caso, è la
piattaforma uniFlow) e, infine, il printing di nuova generazione. “Abbiamo
appena lanciato la Generation 3 delle
nostre stampanti Office imageRunner Advance, dispositivi con funzioni
avanzate di scansione che consentono
anche il riutilizzo delle informazioni
provenienti dai documenti”, continua Esposito. “Oggi su tutti i modelli
possiamo convertire un cartaceo in
diversi formati, come Ooxml, Pptx o
Docx, per riutilizzarlo con Powerpoint
o Word. È inoltre presente di serie la
funzionalità di scansione che permette
LUCA MOTTA - HP
DANIELE PUCCIO - XEROX
FLAVIO ATTRAMINI - EPSON
mobilità e il lavoro intelligente, sono
dotati entrambi di Ricoh Smart Operation Panel, uno schermo touchscreen da 10,1 pollici simile a quello di
un tablet, che grazie a un’interfaccia
intuitiva e personalizzabile semplifica
e velocizza le attività. Il pannello si
collega direttamente con i dispositivi
mobili utilizzando la connessione Nfc,
il Bluetooth oppure con la lettura di
un codice Qr”. Si è concentrata molto
sul lato software Brother, che “negli
ultimi anni ha arricchito sempre di
più i terminali di stampa con funzioni
legate al cloud, interfacce aperte personalizzabili e molteplici kit di sviluppo software per venire incontro alle
esigenze specifiche di vari utenti finali, inclusi quelli ‘sul campo’”, illustra
Marco Zanella, marketing product
manager di Brother. “Poniamo grande
attenzione alla facilità di utilizzo, alla
gestione flessibile della carta e all’affidabilità dei dispostivi, ormai parte
integrante delle attività svolte negli
uffici. Si va quindi dalle stampanti e
dai multifunzione professionali laser
monocromatici, laser a colori e inkjet,
fino ad arrivare alle stampanti portatili
a tecnologia termica e agli scanner”.
Anche Xerox, oltre ad aver perfezionato di recente la componente hardware
del proprio portafoglio, ha lanciato
la tecnologia software Connect Key.
“Abbiamo pensato di garantire l’investimento dei nostri clienti nel tempo”,
commenta Daniele Puccio, presidente, amministratore delegato per l’Italia e general manager, Ecg Southern
Region. “Connect Key permette di
PIETRO RENDA - LEXMARK
NICOLA VARGIU - OKI SYSTEMS
MARCO ZANELLA - BROTHER
di rilevare le pagine bianche all’interno dei documenti acquisiti. Infine, ma
non meno importante, è la dotazione
di un ‘remote operator’ che consente all’It manager di interagire con il
pannello del dispositivo da remoto,
per scopi di helpdesk, configurazione o service”. La parola d’ordine, comunque, è una soltanto: integrazione.
Un obiettivo perseguito ormai a tutti
i livelli e tradotto, dal punto di vista
dell’hardware, nel costante abbandono delle stampanti più piccole in favore delle multifunzioni dipartimentali
“intelligenti”. Una tendenza condivisa
anche da Oki Systems: il futuro del
printing sta proprio nell’integrare i sistemi di stampa con i flussi di dati. “I
dispositivi della serie Mc800 dispongono, compreso nel prezzo della macchina, della soluzione Sendys Explorer,
un sistema documentale light”, illustra
Nicola Vargiu, products & channel
marketing manager, value products
and solutions del gruppo nipponico.
“Quest’applicazione permette di acquisire documenti da varie fonti e di
convertirli, distribuirli o caricarli su
server, oltre a salvarli sulle più diffuse
piattaforme cloud come Google Drive, Microsoft SharePoint, OneDrive
e Dropbox. In questo modo si ha una
maggiore flessibilità per modificare,
accedere, stampare, recuperare e condividere i file, oltre che per operazioni
di ricerca nei contenuti appena digitalizzati. Oggi quindi il multifunzione non serve più solo a stampare e a
copiare, ma anche a elaborare dati in
modo intelligente, a navigare in Inter-
net e ad archiviare e condividere dati
sul cloud”.
È, invece, un’offerta unica nel suo genere quella proposta da Hp, che ha investito molto per lanciare sul mercato
la tecnologia PageWide: un brevetto
diventato poi una vera e propria linea
di prodotto, a fianco delle classiche
inkjet e laser. Grazie all’impiego di
oltre 200mila ugelli montati su una
barra di stampa fissa che copre l’intera
ampiezza della pagina, PageWide riduce i tempi di produzione, in quanto i
dispositivi non devono più spostare il
foglio per riposizionarlo continuamente. Utilizzando più barre assemblabili
insieme è, inoltre, possibile adattare
questa tecnologia a fogli e stampanti di
diverso formato. “Per quanto riguarda
l’inkjet, spaziamo dal mondo consumer a quello home office, fino a quello
delle Pmi”, illustra Luca Motta, printing business director di Hp Italia. “Ad
esempio, l’ultima serie Hp OfficeJet
Pro 8000, caratterizzata dal nuovo
design Hp Print Forward, fornisce ai
clienti produttività ad alte velocità, in
un design compatto che aiuta a preservare spazio in ufficio. Sul fronte della
tecnologia laser, invece, abbiamo presentato un’importante innovazione
per le cartucce, denominata JetIntelligence: una nuova formulazione del
toner Hp ColorSphere 3 incrementa
le performance in termini di produttività, garantendo consumi e costi di
gestioni ridotti”. È la medesima promessa di Epson, che ha scelto però di
puntare con decisione sulle soluzioni a
getto d’inchiostro, proponendo in par29
ticolare due tecnologie molto simili ma
destinate a diversi tipi di utenze. “La
linea Workforce Pro Rips (Replaceable
Ink Pack System) è dotata di sacche
di inchiostro ad altissima capacità, al
posto delle tradizionali cartucce, che
permettono di stampare fino a 75mila
pagine prima di doverle sostituire”,
chiarisce Flavio Attramini, head of
business sales di Epson Italia. A detta di Attramini, in questo modo si
possono abbattere i costi di gestione
(energetici e di manutenzione) anche
dell’89%. Senza rinunciare ai vantaggi
della serie di multifunzione Workforce
Pro: produttività, efficienza e ridotto
impatto ambientale. La seconda linea,
la Ecotank, è pensata per il segmento
small office-home office ed è costituita da multifunzione per i piccoli uffici che “stampano elevati volumi e che
desiderano bassi costi e alta qualità.
Grazie ai serbatoi ricaricabili ad alta
capacità, con una autonomia sino a
11mila pagine, le Ecotank coniugano
convenienza, praticità, qualità e affidabilità in un’unica soluzione”.
Per seguire e alimentare il mercato
della stampa laser (circa un milione di
macchine circolanti in Italia) declinato su dispositivi all-in-one, Lexmarx
ha lanciato infine il tutto in uno
“smart” CX860, definito dallo stesso
vendor come “A3 killer”. “Il celebrato formato A3 resta un prodotto di
nicchia, utilizzato soprattutto in ambito finance e advertising”, commenta
Pietro Renda, channel and supplies
sales director di Lexmark. Il CX860
“è un A4 che sfida le A3. Per noi è un
30
STEFANO GELMETTI - RICOH
TERESA ESPOSITO - CANON
SPECIALE | Printing
mercato nuovo, tuttavia per come è
posizionato offre due vantaggi. Il primo è per gli utenti finali, che possono
beneficiare del costo per copia a colori
più economico del mercato rispetto a
prodotti della stessa fascia. Sebbene
vi siano segnali di ripresa, infatti, la
crisi economica è ancora attuale e costringe le aziende con budget ridotti sa
tenere più a lungo le stesse stampanti
e multifunzione. I rivenditori, invece,
realizzano un margine maggiore rispetto a qualsiasi prodotto della concorrenza venduto a parità di prezzo.
Lo evidenziano i dati di una nostra recente analisi. Questo perché nel costo
dell’hardware sono inclusi le parti di
ricambio, il kit per il mantenimento e
le unità fotoconduttore”.
Alessandro Andriolo
SPECIALE | Printing
LA NUOVA ERA
DEI SERVIZI GESTITI
Riduzione dei costi,
sicurezza e flessibilità sono
i tre principali vantaggi dei
managed print service,
che ormai possono
essere tagliati su misura
per aziende di qualsiasi
dimensione e per vari
settori di mercato.
“I
l mercato dei servizi di
stampa gestiti si caratterizza per un alto tasso di
crescita e per la numerosa
casistica di riconferma dei contratti”.
È netto il giudizio di Marco Zanella,
marketing product manager Brother,
sullo stato attuale dei managed print
service (Mps), che stanno contribuendo sempre più a sostenere il mercato
generale del printing grazie a tassi di
crescita annuali del 10%. Gli Mps
sono quindi i veri protagonisti di oggi
e vengono richiesti dalle aziende perché consentono di monitorare il parco
macchine installato e, di conseguenza,
di ridurre i costi anche in maniera sensibile. Il secondo vantaggio evidente è
la flessibilità dei programmi offerti dai
vendor, che si possono adattare alle
esigenze delle singole realtà. Anche di
quelle più piccole. “Brother dispone di
un programma dedicato proprio alle
piccole e medie imprese”, aggiunge
Zanella. “Le offerte di Mps di Brother
lavorano infatti con la formula ‘acquista e stampa’: l’hardware può essere
escluso dal servizio. Il programma
viene gestito con un portale semplice e
completo, che permette di monitorare
e amministrare in maniera immediata le periferiche di stampa”. Una corretta gestione dell’installato non può,
ovviamente, escludere le funzionalità
di sicurezza, basilari per consentire ai
manager It di avere sempre sott’occhio
la situazione. La protezione dei dati,
infatti, si conferma ancora la princiMAGGIO 2016 |
31
SPECIALE | Printing
pale preoccupazione per i responsabili aziendali. “Con la nuova offerta di
Mps focalizzata sulla sicurezza, chiamata Hp Secure Managed Print Services, vogliamo fornire un servizio che
dia agli esperti la possibilità di aiutare i clienti a salvaguardare il proprio
ambiente di stampa con le più potenti protezioni disponibili nel settore”,
chiarisce Luca Motta, printing business director di Hp Italia. “Mantenendo, quindi, la sicurezza nel tempo
per affrontare le minacce in continua
evoluzione e garantendo i requisiti di
conformità”. Si divide, invece, in due
livelli di servizio differenti l’offerta di
Print 365, nuovo programma pensato
per i partner meno strutturati che verrà attivato nei prossimi mesi.
La grande vitalità attuale dei servizi
gestiti si traduce anche in un’innovazione continua, che sta portando già
oggi gli Mps a evolversi in un modello
ancora più avanzato, capace di rispondere al cambiamento notato dall’associazione Asso.it: il perimetro del mercato si sta modificando, in quanto si
stampa meno in favore di una diversa
gestione documentale. Ecco, quindi, che per Canon si arriverà a breve
all’adozione di managed content service (Mcs): “Un supporto a tutto tondo
Epson, erogata attraverso un capillare
sistema di rivenditori partner, fondamentali per raggiungere soprattutto
le piccole e medie imprese del nostro
Paese. “Le formule sono di due tipi: la
massima personalizzazione sviluppata
dai nostri Rips Premium Partner che si
rivolgono alle medie e grandi aziende
con contratti ad hoc dopo audit approfonditi e, per i rivenditori che dialogano con le Pmi, uno strumento Web
che garantisce semplicità e immediatezza”, sottolinea Flavio Attramini,
head of business sales di Epson Italia.
La seconda formula è basata su Epson
per gestire la trasformazione digitale”,
spiega Teresa Esposito, marketing director business group di Canon Italia.
“Il mercato italiano è molto ricettivo
alla razionalizzazione e sempre più vediamo Mps ed Mcs come aree di grande sviluppo e di progressiva diffusione,
sia nelle grandi aziende sia, progressivamente, nelle realtà medie e piccole”. I
vantaggi principali di un buon servizio
gestito spaziano, per il vendor nipponico, dalla determinazione congiunta
delle policy di stampa alla definizione
e al monitoraggio delle Sla, per arrivare alla creazione di cruscotti analitici
32
| MAGGIO 2016
che permettano una continua osservazione e la verifica periodica dell’infrastruttura per valutare i miglioramenti
dei processi. La chiave è la consulenza
costante. “La tecnologia fine a se stessa non permette alle aziende di ottenere benefici nel lungo periodo e di
guadagnare vantaggio competitivo”,
commenta Stefano Gelmetti, product
marketing manager di Ricoh Italia.
“Sono l’innovazione e l’ottimizzazione
delle informazioni, rese possibile dai
managed document service e dall’approccio di Ricoh, a portare vero valore
aggiunto. Un valore che si estende nel
tempo, dal momento che i nostri servizi prevedono consulenza lungo tutta
la durata contrattuale, per individuare
ulteriori aree di miglioramento e proporre al cliente nuove opportunità”.
Ovviamente, a scenari differenti si
devono applicare logiche e soluzioni
ritagliate su misura per uno specifico
settore. “Oki offre diverse formule
Mps, spesso chiamate anche programmi costo copia, ognuna delle quali è
cucita su misura per il mercato di riferimento”, conclude Nicola Vargiu,
products & channel marketing manager, value products and solutions
di Oki Systems Italia. “Nelle graphic
arts il programma prevede soluzioni
tipiche del settore come ad esempio
la copertura delle stampe, mentre nel
mercato dell’office esistono diverse formule applicabili a singoli dispositivi o
all’intero parco macchine. A fronte di
un contratto con canone mensile, Oki
offre una serie di servizi che vanno
dalla razionalizzazione della flotta di
stampa, alla fornitura di consumabili e all’assistenza onsite. Attualmente
stiamo studiando nuove soluzioni Mps
dedicate al mercato It, dove i dealer
hanno solitamente competenze ed esigenze diverse rispetto agli operatori
del segmento office. Il canale, dal quale stiamo ricevendo importanti riconoscimenti, è prezioso per veicolare queste soluzioni alle piccole e alle grandi
aziende”.
A.A.
TOGETHER TO OVERCOME TOMORROW’S
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OMNICHANNEL CUSTOMER EXPERIENCE
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E-COMMERCE & DIGITAL STRATEGY
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SELECTIVE DISTRIBUTION STRATEGY
TRADE MARKETING MANAGEMENT
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info@valuelab
ECCELLENZE.IT |
Gruppo Miroglio
LA TECNOLOGIA NON PASSA
DI MODA GRAZIE AL RE-HOSTING
Utilizzando software e servizi
di Dell, il gruppo titolare di
undici marchi di abbigliamento
(fra cui Elena Mirò, Motivi e
Oltre) ha eseguito il re-hosting
delle applicazioni di mainframe,
salvaguardando i precedenti
investimenti e riducendo
le spese It.
M
entre sulla passerella e nelle
vetrine dei negozi i modelli,
i colori e i tessuti cambiano
di stagione in stagione, la tecnologia può
anche non passare di moda. Purché si
riesca a modernizzarla, sfruttando il software e i servizi. Così ha fatto Gruppo
Miroglio portando a termine un progetto di re-hosting delle sue applicazioni di
mainframe. Fondata nel 1947, oggi l’azienda è un nome importante nel mercato internazionale del tessile e dell’abbigliamento, con undici brand prodotti
e distribuiti (fra cui Elena Mirò, Motivi,
Dream, Oltre, Caractère) e con circa
1.300 negozi monomarca in Italia e altri
33 Paesi, oltre a cinquemila clienti multimarca e a una significativa presenza nei
centri commerciali. Sul fronte dei costi
dell’It, la situazione di partenza non era
certo ottimale: l’infrastruttura consisteva in sistemi hardware di Ibm su cui
poggiava la piattaforma software Cobol
aziendale, mentre l’esecuzione di tutti i
servizi It era stata affidata in outsourcing
fin dal 2010, nell’intento di convertire
le spese di capitale in operative. Tale assetto, tuttavia, comportava lo svantaggio
della scarsa flessibilità (insufficiente per
poter gestire i picchi di carico) ed elevati
costi di outsourcing (fino a quattro volte
34
| MAGGIO 2016
LA SOLUZIONE
La soluzione di re-hosting è stata
allestita dai servizi di modernizzazione delle applicazioni di Dell
e include un ambiente per lo sviluppo applicativo (Dell Enterprise Cobol), un software per l’esecuzione e l’aggiornamento (Dell
Transaction Processing Environment), uno per la migrazione
rapida delle applicazioni batch a
sistemi aperti (Dell Batch Processing Environment) e uno per la
gestione di basi di dati dati relazionali e non relazionali tramite Sql
(Dell Toad). Attraverso il servizio
Dell ProSupport il cliente ha garanzia di intervento entro quattro
ore dalla segnalazione.
superiori a quelli di gestione interna). Da
qui è nata l’esigenza, duplice, di ottenere
maggiore flessibilità e ridurre le spese It.
Puntando a questi due obiettivi, l’azienda desiderava anche poter salvaguardare
i suoi precedenti investimenti ed evitare
interruzioni di attività, conservando tutti i dati dell’ambiente di programmazione Cobol.
Dopo una prima scrematura, la scelta
è ricaduta su Dell. Come spiega Luciano Manini, chief technology officer
di Gruppo Miroglio, “Lo staff Dell ha
visitato il nostro ufficio diverse volte, eseguendo dimostrazioni pratiche,
perfezionando l’insieme di specifiche e
ascoltando attentamente le nostre esigenze. La soluzione prospettata era una
delle più competitive, ma ciò che ci ha
convinti è il grande numero di funzionalità e l’alta qualità”.
L’implementazione ha richiesto meno di
un mese ed è stata realizzata senza ripercussioni sull’attività dell’azienda, dal momento che non sono state necessarie modifiche di configurazione e che il periodo
di inattività del sistema è stato racchiuso
in un fine settimana. In parole povere,
il processo è passato inosservato, anche
perché i dipendenti di Miroglio hanno
continuato a usare gli stessi applicativi,
con la medesima interfaccia. Al contrario, i vantaggi del cambiamento si sono
visti chiaramente: “Dell ci ha consentito di proteggere i nostri investimenti It
preesistenti”, sottolinea Manini. “Poiché
possiamo riutilizzare l’hardware, stiamo
sfruttando al meglio le nostre risorse di
budget e le competenze esistenti: Il rehosting è più prevedibile e ci aiuta a evitare problemi in futuro”. Tenendo conto
dei costi di hardware, servizio, licenze
software e interventi tecnici, Gruppo Miroglio stima di dimezzare la propria spesa
It nell’arco di cinque anni.
ECCELLENZE.IT |
European Space Agency
LINUX AIUTA GLI ESPLORATORI
DELLO SPAZIO
Spostando le applicazioni finanziarie in un nuovo ambiente software, basato su Suse Linux,
l’Esa ha tagliato i costi di manutenzione e i consumi energetici.
A
nche chi ha lo sguardo perso fra
le stelle, non per sognare ma per
ragioni di scienza, deve fare i conti con questioni materiali. La European
Space Agency (Esa), presente in 22 Paesi
e in Italia con un centro per l’osservazione terrestre ubicato a Frascati, ha utilizzato intelligentemente la tecnologia per tagliare alcuni costi e guadagnare efficienza
operativa. Pur nell’unicità della propria
missione – raccogliere dati sulla Terra e
nell’ambiente spaziale vicino e lontano,
LA SOLUZIONE
L’ambiente basato su Suse Linux
Enterprise Server for Sap Applications gestisce l’Erp e altri software finanziari utilizzati dall’agenzia spaziale. L’infrastruttura
include circa 500 server virtualizzati, in funzione su hardware x86.
Suse Manager è usato per il eseguire il provisioning automatico,
il monitoraggio e la distribuzione
di patch e aggiornamenti. L’Esa
sfrutta anche l’assistenza del Linux Enterprise Server Priority
Support.
per sviluppare servizi e tecnologie satellitari e programmi di esplorazione – l’Esa
ha a che fare con attività comuni a tutte
le aziende. Per esempio, le quotidiane
operazioni di gestione finanziaria, come
fatturazione, contabilità, analisi di dati e
pagamenti ai fornitori. “Le nostre applicazioni finanziarie, in maggioranza basate
su Sap, venivano eseguite in un ambiente
eterogeneo composto da sistemi operativi differenti”, illustra Mauro Del Giudice, application infrastructure service manager dell’Esa. “Per questo motivo i costi
erano molto sostenuti e la fluidità delle
operazioni era ostacolata”. Più precisamente, una parte delle applicazioni poggiava sull’Erp di Sap, e per questa ragione
il vendor tedesco ha collaborato con l’agenzia spaziale per capire quale fosse, tra
quelle disponibili sul mercato, la miglior
soluzione per virtualizzare le applicazioni. “Per poter massimizzare l’efficienza
del reparto finanziario mantenendo i
costi ai minimi termini, sapevamo che
un consolidamento e un’armonizzazione
completa del sistema rappresentavano
fattori di primaria importanza”, precisa
Del Giudice. Dalla selezione è emersa
vincente Suse, con il suo sistema operativo Linux Enterprise Server, adottato
nella versione specifica per il software di
Sap. L’Erp, dunque, è stato spostato su
macchine virtuali e con esso tutte le altre
applicazioni finanziari, mentre per la gestione dei server virtualizzati è stato adottato Suse Manager. Ciliegina sulla torta
sono i servizi di supporto (Linux Enterprise Server Priority Support) di Suse,
scelti dall’Esa per avere assistenza sia su
problemi estemporanei, sia nel lungo
termine per future versioni dei software.
Con questo progetto l’agenzia spaziale ha
raggiunto l’obiettivo del taglio dei costi,
oltre ad aver centralizzato, consolidato
e armonizzato i suoi sistemi. Dal precedente, eterogeneo insieme di 150 server
fisici si è passati, infatti, a un ambiente
virtualizzato di 500 server funzionanti
su hardware x86. “Implementando Suse
come il nostro sistema operativo principale”, sottolinea Del Giudice, “abbiamo
ottenuto un consolidamento completo
delle operazioni finanziarie tagliando del
40% i costi di manutenzione. Questo ci
permette di portare avanti i nostri processi finanziari molto più rapidamente
e accuratamente. Eliminando così tante
macchine fisiche, inoltre, abbiamo potuto tagliare i costi energetici e di raffreddamento del 10%”.
MAGGIO 2016 |
35
ECCELLENZE.IT |
Hdi Assicurazioni
PROTEZIONE, RISPARMI E LIBERTÀ
CON LA VIRTUALIZZAZIONE
La società specializzata in
polizze per auto, per protezione
della persona e delle attività
ha adottato la tecnologia di
Citrix nella sua sede direzionale
e nelle circa 600 agenzie.
Sia per l’accesso da desktop,
sia da mobile.
C’
è una tecnologia che mette
insieme le promesse di maggiore efficienza, sicurezza,
flessibilità di lavoro e risparmi energetici:
si chiama virtualizzazione. L’italiana Hdi
Assicurazioni, parte del gruppo tedesco
Talanx, l’ha abbracciata completamente
nella sua sede direzionale e nelle circa 600
agenzie sparse lungo lo Stivale. Prima di
questo passaggio tecnologico, l’azienda
aveva a che fare con le tipiche complessità
delle organizzazioni distribuite e alcune
specifiche del suo settore: gestire un’infrastruttura tecnologica frammentata,
mantenendo ovunque un elevato livello
di sicurezza e protezione dei dati sensibili
dei clienti. Hdi, infatti, opera prevalentemente nell’ambito delle polizze auto, dei
fondi pensione, delle assicurazioni sulla
vita e sulle attività.
Il personale delle agenzie adopera oltre
1.500 postazioni di lavoro e mille stampanti, messe a disposizione tramite il
servizio di outsourcing dell’integratore di
sistemi Hitachi Systems Cbt. Ma fa pure
ricorso ai propri device personali, anche
mobile. Il passo in avanti è giunto con la
tecnologia di Citrix, scelta dopo una fase
di test il cui duplice obiettivo era quello di
verificare la normale fruizione di applicazioni di Office Automation e l’erogazione
di altre applicazioni, cruciali per il busi36
| MAGGIO 2016
ness. Sulla selezione hanno giocato sia il
buon posizionamento di mercato di Citrix, sia il rapporto con Hitachi Systems
Cbt (un Solution Partner del vendor), sia
la validità in termini di prestazioni e sicurezza dimostrata durante il test. In particolare, le tecnologie hanno funzionato
bene anche nelle agenzie non raggiunte
da una connettività stabile e veloce.
In quattro mesi di lavori, la società ha
adottato sia la soluzione di Virtual Desktop Infrastructure di Citrix, XenDesktop, sia quella per la distribuzione virtuale di applicazioni, XenApp: entrambe
oggi sono usate da circa 1.200 utenti.
Avendo già precedentemente adottato alcuni servizi di cloud computing, disaster
recovery e business continuity di Hitachi
Systems Cbt, la società assicurativa li ha
poi estesi anche alle postazioni virtualizzate. “Grazie a Hitachi Systems Cct e alla
tecnologia Citrix, Hdi Assicurazioni si è
dotata di una piattaforma che ha permesso di razionalizzare a livello aziendale e
agenziale la gestione del proprio patrimonio hardware e software”, ha affermato
Luca Lanzon, direttore organizzazione,
sistemi informativi e servizi accentrati
della compagnia. “Tale soluzione ha peraltro permesso di adottare un modello,
in linea con la filosofia del Bring Your
Own Device, abilitante all’uso delle pro-
prie soluzioni ‘core’ in mobilità lungo
tutta la catena assicurativa, massimizzandone ulteriormente affidabilità ed efficienza”. Accanto ai vantaggi di sicurezza
e alla flessibilità del Byod, ricorrendo a
terminali thin client è stato ottenuto un
risparmio energetico. Oggi, inoltre, all’azienda bastano tre giorni (invece dei 3045 prima necessari) per avviare una nuova agenzia. E si guarda già al futuro: Hdi
Assicurazioni sta valutando l’adozione di
Cotrox Sharefile come strumento per la
collaborazione a distanza.
LA SOLUZIONE
I dipendenti degli uffici direzionali e degli ispettorati accedono
a dati e applicazioni utilizzando
Citrix XenDesktop e la relative interfaccia Vdi (Virtual Desktop Infrastructure), mentre il
personale delle agenzie fruisce le
applicazioni “core business” attraverso XenApp. Hdi Assicurazioni
ha anche realizzato un’app store
aziendale, tramite cui gli utenti
possono personalizzare il proprio
ambiente di lavoro. I servizi sono
frubili sia da postazione desktop,
sia da smartphone e tablet.
ECCELLENZE.IT |
Gala
L’ENERGIA VIAGGIA IN SICUREZZA
MA A TUTTA VELOCITÀ
Il fornitore di energia elettrica e gas ha scelto Retelit per collegare tramite fibra ottica le sue cinque sedi
principali, potendo contare anche su servizi di sicurezza, housing e backup.
LA SOLUZIONE
Un servizio Vpn Mpls ultra-broadband di ultima generazione collega fra di loro le cinque sedi principali di Gala, includendo un accesso
a Internet ad alta capacità associato
a un servizio di sicurezza personalizzato basato su firewall avanzati.
L’azienda sfrutta anche i servizi di
housing e di backup nel cloud di
Retelit, e si avvale dell’assistenza di
un customer care dedicato. Tutte le
soluzioni rispettano gli standard di
sicurezza previsti dalle certificazioni
internazionali (Iso 27001).
C
omunicazioni e cloud senza
inefficienze, senza rischi per la
sicurezza e anche senza pensieri.
Gala, un fornitore di energia tra i primi
dieci in Italia per volumi di elettricità
venduta, ha scelto di affidarsi a Retelit
per la realizzazione e la gestione della
propria infrastruttura tecnologica. Un’infrastruttura composta sia da tecnologie e
servizi di connettività fra le diverse sedi
sia da risorse allocate su data center esterni, e protetta in ogni suo punto. Fondata
nel 2001, l’azienda è cresciuta e ha differenziato le attività associando all’energia
elettrica anche il gas, fino a raggiungere
nel 2013 ricavi superiori a 1,3 miliardi
di euro e a diventare poi, l’anno scorso,
il fornitore ufficiale di elettricità di Expo
2015. Gala era alla ricerca di un vero e
proprio “partner strategico”, un soggetto del mondo Ict che le consentisse di
“focalizzare le nostre risorse sul core business e garantisse gli stessi standard di
trasparenza, qualità ed efficienza elevati
che noi offriamo ai nostri clienti”, come
spiega Filippo Tortoriello, presidente e
amministratore delegato di Gala. “Ci siamo rivolti a Retelit perché ci ha permesso
di poter fruire di una soluzione personalizzata, affidabile e sicura con tempi di
esecuzione rapidissimi e a costi competitivi”. Il vendor poteva contare anche su
altre buone carte: una rete in fibra ottica
proprietaria estesa lungo più di novemila
chilometri e oltre 16mila metri quadrati
di data center, certificati Iso 27001.
Il primo passo del progetto è stata la realizzazione di una Virtuale Private Network ad alte prestazioni e a larghissima
banda, con cui sono state collegate fra
loro le cinque sedi principali di Gala: su
questa infrastruttura poggia non soltanto
un accesso a Internet ad alta capacità, ma
anche un servizio di sicurezza basato su
firewall. Quest’ultimo è stato personalizzato in funzione delle specifiche esigenze
del cliente e prevede un controllo end-toend di tutti i servizi. Gala ha così potuto
ottenere una maggiore sicurezza in merito alla gestione degli accessi e alla prevenzione delle minacce. A tutto questo
si sono, poi, aggiunti servizi di housing
e di archiviazione nel cloud per i dati di
backup.
Il valore strategico della soluzione è la
sua scalabilità: l’infrastruttura potrà essere ampliata in base alle esigenze che potranno sorgere in futuro, per supportare
l’aumento del traffico senza interventi
costosi, lunghi e invasivi. Il contratto di
fornitura ha una durata di tre anni. Si potranno, inoltre, aggiungere ulteriori sedi
semplicemente collegando, attraverso la
fibra ottica, i nuovi siti all’architettura
esistente. “Abbiamo fornito a Gala una
soluzione personalizzata e scalabile, funzionale alle specifiche esigenze di business
del cliente”, sottolinea Giuseppe Sini,
direttore commerciale di Retelit.
MAGGIO 2016 |
37
ITALIA DIGITALE
IL BILANCIO
DELL’AGENDA?
IN ATTIVO, MA...
Dal premier Matteo Renzi e dal ministro della Pubblica
Amministrazione, Marianna Madia, giungono nuove
rassicurazioni circa i progetti di digitalizzazione del Paese,
dai lavori per la banda larga a Spid. Ma non mancano,
come sempre, le contraddizioni.
D
opo tante chiacchiere si
parte con la banda larga. E
banda larga significa arrivare
almeno con connessioni a
30 megabit dappertutto e con 100 megabit a molte realtà”: il messaggio che
il capo del Governo, Matteo Renzi,
ha proferito collegandosi con il Cnr di
Pisa in occasione dell’Internet Day dello
scorso 29 aprile, per celebrare i trent’anni del primo collegamento italiano alla
Rete, suona ancora una volta come un
annuncio farcito di eccessivi toni propagandistici. Nel dare il via all’iter tecnico
per la messa a punto dei bandi di gara
per la ultrarbroadband nelle aree bianche a fallimento di mercato (i cluster C
e D), il numero uno di Palazzo Chigi ha
rassicurato tutti sul fatto che il Governo
farà la sua parte “in una sfida che è senza
colore politico, ma di tutta l’Italia”.
Renzi ha ricordato che nelle zone A e
B (aree nere) non c’è bisogno dei soldi pubblici: qui, gli operatori privati si
muoveranno secondo la libera concorrenza. Nelle più “sfortunate” zone C e
D, invece, le linee guida per avviare i
lavori del piano ultrabroadband in aprile sono finalmente arrivate in Consiglio
dei Ministri e saranno oggetto di consultazione fino alla fine di maggio, con
l’obiettivo di mettere il Ministero dello
38
| MAGGIO 2016
Sviluppo Economico nelle migliori condizioni possibili per elaborare i bandi di
gara. Compiuto questo primo passo, e a
meno di intoppi “burocratici” dell’ultima ora, a giugno si dovrebbe concretizzare la pubblicazione del primo bando.
A seguire, arriverà, la valutazione delle
proposte tecnico-economiche che gli
operatori invieranno a Infratel: calendario alla mano, l’assegnazione della prima
commessa si perfezionerà probabilmente
subito dopo l’estate.
Dalle parole ai fatti, insomma, nella
migliore delle ipotesi passano dei mesi
perché i tempi tecnici dell’iter normativo-procedurale che regola i piani per la
digitalizzazione sono questi. Sperando
che la Commissione Europea (al momento in cui scriviamo, non ha ancora
dato l’ok al piano italiano per la banda
ultralarga) non metta i bastoni fra le
ruote, magari appellandosi al rischio di
possibile monopolio o distorsione di
mercato nell’ipotesi di un unico maxi
bando che potrebbe comprendere realizzazione e gestione della nuova rete in
macro-regioni. Ipotesi che, di fatto, restringerebbe la partita per le gare a due
soli grandi operatori, e cioè Telecom
Italia ed Enel. Renzi, però, sulle possibili
criticità del piano soprassiede e sul tema
del digital divide rilancia la necessità di
“dare accesso a chi non ha accesso agli
strumenti digitali per creare più democrazia e partecipazione in Italia”.
La banda larga diventa, dunque, emblema del cambiamento e chissà se Renzi ha
preso in considerazione l’appello inviatogli tramite lettera aperta dall’Associa-
“
Abbiamo rispettato oltre il
90% delle scadenze previste
dall’Agenda per la semplificazione
della Pa
”
zione Stati Generali dell’Innovazione,
Anorc e Iwa Italia. Parlando di crescita
digitale, il timore di chi chiede al primo
ministro un impegno forte e concreto è
legato al rischio di una digitalizzazione
inefficace e non autonoma per l’Italia, in
mancanza di un piano industriale per la
crescita che includa realmente il settore
Ict tra gli ambiti strategici, favorisca gli
investimenti privati e abbracci un anche
la ricerca. E la tanto sbandierata trasformazione della Pa? Il partito degli scettici
fa notare come i decreti legislativi di attuazione di quanto previsto dall’Agenda
Digitale sembrino persi fra le maglie di
una burocrazia che resiste e che impedisce il vero cambio di passo. Chi guida il
Ministero competente in materia, invece, è di parere molto diverso
Prossimo obiettivo: Italia Login
“Abbiamo rispettato oltre il 90% delle scadenze previste dall’Agenda per la
semplificazione”. Le parole pronunciate
a fine aprile in Parlamento dalla titolare del Ministero della Pubblica Amministrazione, Marianna Madia, sono
esplicite e supportate anche da numeri.
Sessantasei i semafori verdi ad azioni
previste su carta e ora veri “work in progress”, a cui se ne aggiungono una quarantina di gialli, segno secondo la ministra di “lavori che stanno proseguendo
in linea con i programmi”. Il semaforo
rosso resta, invece, solo su sei azioni previste nel documento di programmazione
digitale.
L’avvio a metà marzo del Sistema Pubblico per l’Identità Digitale (Spid) e quindi
del Pin unico per l’accesso ai servizi online della pubblica amministrazione è per
Madia un passaggio importante, perché
costituisce il pilastro del progetto Italia
Login. Ad oggi sono circa 240 i servizi
delle Pa centrali e locali accessibili con
le credenziali Spid, e fra questi spiccano
quelli dell’Inps, dell’Inail e dell’Agenzia
delle Entrate. Prima della fine del 2017,
come da programma, tutte le pubbliche
amministrazioni aderiranno al sistema
offrendo ai cittadini l’accesso all’insieme completo dei servizi online. C’è insomma ottimismo, dentro le istituzioni,
per lo stato di avanzamento dei lavori e
ancora la Madia ha tenuto a precisare
come fra i pilastri del cambiamento nei
rapporti tra cittadini e Pa ci siano l’anagrafe unica della popolazione (che andrà
a sostituire le ottomila banche dati dei
singoli Comuni) e i pagamenti elettronici negli enti pubblici. Opinione del tutto
condivisibile, ma – da tempo – non è più
il momento dei proclami bensì quello di
agire. Bene e in fretta.
Gianni Rusconi
COMPETENZE DIGITALI: DIGITAL INNOVATION OFFICER CERCASI
In Italia si fa ancora troppo poco per
sviluppare le competenze digitali. La
loro diffusione è a macchia di leopardo: sono presenti nel 73% delle
aziende tecnologiche, ma solo nel
37% degli enti locali. Alle attività di
training si dedicano, in media, solo
6,2 giornate l’anno nelle imprese Ict,
quattro nel settore pubblico e tre
nella maggior parte delle aziende.
I dati sono quelli dell’Osservatorio
delle Competenze Digitali, promosso dall’Agenzia per l’Italia Digitale
e dalle principali associazioni Ict italiane (Aica, Assinform, Assintel e Assinter) e realizzato da NetConsulting
Cube. Il quadro che emerge è quello
di un Paese che rischia di non tenere
il passo con la trasformazione digitale
e di non soddisfare occasioni di lavoro qualificato, proprio per la scarsa
cura rivolta alla costruzione di competenze digitali, specialistiche e non.
E questo accade nonostante grandi
percentuali (dall’80% al 90%) sia di
aziende sia di Pa si dichiarino consapevoli dell’impatto della “digital
transformation” e della necessità di
adeguare le competenze soprattutto
alla luce di trend quali il mobile, l’IoT,
il cloud e i pagamenti elettronici.
Tra i profili più ricercati nelle aziende
attive in campo tecnologico spiccano
quelli del security specialist, dell’en-
terprise architect e del business
analyst. Nelle aziende che, invece,
fruiscono di tecnologie e negli enti
pubblici, in cima alla lista ci sono gli
ultimi due ruoli citati e poi Cio, security manager, amministratori di
database, digital media specialist,
business information manager e
consulenti Ict. Ma ciò che forse più
manca ai vertici di aziende ed enti
pubblici sono una specifica cultura
digitale e professionisti preparati a
guidarla. Non a caso sta emergendo il profilo del cosiddetto “digital
innovation officer”, che rappresenta
l’evoluzione del Cio. Una figura assai
ricercata, ma difficile da reperire.
39
OBBIETTIVO SU | Ricoh
IL DESIGN SPOSA
IL DIGITALE
Ricoh aiuta artisti e designer
emergenti a scatenare la
propria creatività. Non
solo con le periferiche
di stampa, ma anche
con lavagne interattive,
fotocamere a 360 gradi
e nuovi videoproiettori
verticali.
40
| MAGGIO 2016
L
a crasi tra fisico e digitale,
“phygital”, non è proprio il
massimo della poesia, ma il
concetto alla base è decisamente più affascinante: la fusione, in questo caso nel campo dell’arte, tra mondo fisico e digitale.
È stato questo il tema di una mostra
organizzata da Ricoh e dalla rivista
di design Frame a Milano, nel corso
della Design Week di aprile. Il titolo,
“What’s the matter”, evocava la commistione di elementi materici e virtuali, mentre le scenografie realizzate
dallo Studio Laviani davano ancora
più risalto ai lavori dei giovani artisti e
designer autori delle opere “phygitali”
in scena.
Le tecnologie su cui hanno fatto affidamento i creativi digitali fanno parte dell’offerta dei Communication
Services di Ricoh, e hanno incluso
in particolare le lavagne interattive, i
proiettori di nuova generazione (con
proiezione verticale e ottica ultra-corta, ma allo stesso tempo piccoli e trasportabili) e le fotocamere Ricoh Teta,
in grado di realizzare foto e video a
360 gradi.
“Le nostre tecnologie per la comunicazione visiva”, ha detto Alberto
Mariani, director of It infrastructure
Servizio fotografico: Alberto Ferrero
Il proiettore utilizzato
per la mostra è il Ricoh
Pj 4152N, con proiezione
verticale e distanza ridotta
dallo schermo (da 11 a 25
centimetri).
services di Ricoh in Europa, “rappresentano la naturale evoluzione del nostro percorso, che ci vede protagonisti
dell’aiutare le aziende a innovarsi ed
entrare nell’era digitale”.
41
OBBIETTIVO SU | Ricoh
I nuovi proiettori Ricoh sono in grado
di generare immagini con dimensioni
da 48 a 80 pollici, con una luminosità
di 3.500 lumen.
DA TEMPO ESISTE UNA FERTILIZZAZIONE
RECIPROCA TRA IL MONDO DELL'ARTE
E QUELLO DELLE TECNOLOGIE
LUOGO IMMERSIVO
Progettato dallo studio di Ferruccio
Laviani, lo spazio che ha ospitato la
mostra "What's the matter" è stato
realizzato all'interno de La Posteria,
un luogo dedicato agli eventi nel
cuore di Brera.
42
| MAGGIO 2016
I NATIVI DIGITALI NON
RICONOSCONO LA NATURA
IMMUTABILE DEGLI OGGETTI
FISICI E AMANO MISCELARLI
CON LA DIMENSIONE
VIRTUALE
Piccoli e trasportabili, i proiettori
Ricoh della nuova serie Pj Wx41
pesano meno di tre chilogrammi
e si accendono, pronti all'uso,
in soli tre secondi.
43
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BELLEZZA A FORMA
DI TAVOLETTA
Mentre continua l’avanzata dei portatili “ibridi”, con tastiera in dotazione, i vendor non
smettono di proporre modelli “puri” che puntano sulle caratteristiche multimediali e sul design.
P
rotagonisti della rivoluzione
touch, da loro portata per la
prima volta su uno schermo
più grande di quello del telefono. Leggeri, colorati, giocosi, molto
più “smart” di un tradizionale computer. Eppure i tablet, dopo pochi anni
di gloria, hanno già cominciato a perdere popolarità: limitando lo sguardo
all’Europa Occidentale, nel 2015 gli
acquisti sono calati del 10,1% rispetto
al 2014, passando da 41.668 a 38.910
unità. Questi numeri, di Idc, tengono
conto non dei soli modelli “puri” ma
anche di quelli equipaggiati con tastiera “detachable”, spesso definiti come
ibridi o due-in-uno. Questi ultimi,
all’interno del generale trend negativo,
sono invece cresciuti e proprio a loro
in parte si deve parte la sofferenza delle tavolette. La restante colpa, se tale
si può definire, va al successo degli
smartphone di grandi dimensioni o
phablet che dir si voglia. Schiacciati
sui due fronti, da un lato i notebook
convertibili e dall’altro i maxi-telefoni,
i tablet oggi non sono in testa alle priorità di acquisto dell’utente medio. A
questo si aggiunga l’aggravante (o il
merito, a seconda dei punti di vista) di
rappresentare una tipologia di prodotto di non rapida obsolescenza, che può
svolgere il suo lavoro per due o tre anni
prima di essere sostituito. Nonostante
questo o forse proprio per questo motivo, il tablet oggi può dirsi il gadget tecnologico per eccellenza, riservato agli
amanti del bello e delle innovazioni. E
anche come strumento di produttività
conserva una ragione d’essere, specie
per chi è sempre in viaggio o necessita
di uno schermo su cui visualizzare e
mostrare contenuti, più che di un dispositivo per la scrittura. Non è certo
un caso, allora, se i nuovi modelli di
fascia alta o medio-alta puntano spiccatamente sulla multimedialità. Senza
dimenticare il design, che deve coniugare leggerezza e peso piuma.
Il primato della Mela e i follower
Secondo i conteggi di Idc, nel 2015
in Europa Occidentale il primato di
diffusione è spettato ancora una volta
all’iPad di Apple, che pure ha perso
un po’ di market share rispetto all’anno precedente (da quasi 29% a meno
di 25%). Ma la Mela ha anche un secondo primato, quello del miglior intreccio di estetica, innovazioni funzionali ed eccellenza tecnica: lo dimostra
il più recente iPad Pro, declinato nelle
versioni da 12,9 e da 9,7 pollici. Oltre
a rendere i suoi modelli sempre più leggeri e sottili, l’azienda di Cupertino ha
migliorato l’autonomia della batteria
MAGGIO 2016 |
45
VETRINA HI-TECH
(circa dieci ore), la fotocamera (con un
nuovo flash che aiuta a catturare tinte più naturali), la resa dei colori (con
fino al 25% di saturazione in più) e la
definizione dello schermo. La tavoletta da 12,9 pollici visualizza infatti sei
milioni di pixel, la più alta risoluzione
mai proposta su un oggetto marchiato
Apple.
Nei conteggi di Idc per il mercato
dell’Europa Occidentale, la classifica allinea poi, nell’ordine, Samsung,
Lenovo, Asus e Amazon, con il suo
Kindle Fire. Fra le più recenti proposte
della casa sudcoreana spicca il Galaxy
TabPro S, un modello di fascia alta
che punta su efficienza e produttività: bastano, infatti, due ore e mezza
per realizzare una ricarica completa, garantendosi dieci ore e mezza di
funzionamento senza alimentazione.
E strizzano, ugualmente, l’occhio ai
professionisti elementi come il sistema
operativo Windows 10, il connettore
Usb Type-C e il processore Intel Core
M. Il colpo di teatro è, però, un altro:
uno schermo da 12 pollici Super Amo-
led, su cui si può interagire anche con
il pennino stilo incluso in dotazione.
Fra chi, invece, continua a scommettere su Android anche su formati non
piccolissimi c’è Acer: l’azienda ha rinnovato il suo Iconia Tab 10 (con la
variante A3-A40, che succede alla A3A30) migliorandone sia caratteristiche
tecniche sia il design, più elegante e
curato. L’attenzione, in questo caso, si
concentra sulle capacità multimediali
del tablet, che dà il meglio di sé nella
riproduzione di musica e film grazie a
quattro altoparlanti frontali. Hp sta azzardando alcune innovazioni di forma,
come quelle dell’Elite x3: un phablet
da 6 pollici che funziona su Windows
10 e che, abbinato a un accessorio, può
trasformarsi in un sistema desktop
o laptop. L’azienda statunitense non
rinuncia, però, alle tavolette più “tradizionali”, ma anzi ha recentemente
lanciato un modello ambizioso e di
fascia alta, adatto a diventare strumento di lavoro, il Pro Tablet 608 G1. Si
tratta di un dispositivo da 7,9 pollici
basato su Windows, con processori e
grafica Intel e dotato di porta UsbC. Lo schermo di dimensioni risicate
può essere un limite, ma d’altra parte è
possibile collegare il dispositivo a una
docking station portatile (acquistabile
a parte, al pari della tastiera). Decisamente sui generis è il nuovo Yoga Tab
3 Pro di Lenovo, e lo è sia per ragioni
di design, sia di funzionalità: questo
modello da 10,1 pollici non solo ha
un ottimo corredo tecnico (processori
Intel Atom, 32 GB di storage, batteria che promette 18 ore di utilizzo) ma
può essere usato in quattro modalità, a
seconda di come si posizioni il cavalletto di sostegno. Integra, inoltre, un
proiettore grazie al quale una parete o
soffitto si trasformano in uno schermo
per fotografie, video e film. La più recente proposta di Huawei, il MediaPad M2 10.0, racchiude invece nella
scocca monoblocco in alluminio uno
schermo da 10 pollici e si distingue per
due elementi: la buona fotocamera posteriore da 13 megapixel e il lettore di
impronte digitali integrato.
Valentina Bernocco
ACER
ICONIA TAB 10 (A3-A40)
APPLE
IPAD PRO
HP
PRO TABLET 608 G1
Display: 10 pollici (1920x1080 pixel)
Sistema operativo: Android 6.0
Marshmallow
Processore: MediaTek MT8163A
quad-core a 64-bit
Storage: 16/32/64 GB
Display: 12,9” (2732x2048 pixel)
o 9,7’’ (2048x1536 pixel)
Sistema operativo: iOs 9
Processore: A9X
Storage: da 32 a 256 GB
Display: 7,9” (2048x1536 pixel)
Sistema operativo: Windows 10
Processore: Intel Atom x5-Z8500
Storage: 32/64/128 GB
PREZZO: DA 229 EURO
PREZZO: DA 689 EURO
PREZZO: DA 519 EURO
46
| MAGGIO 2016
CON SURFACE PRO 4 MICROSOFT PUNTA
A SOSTITUIRE I NOTEBOOK
Molti strenui critici della tecnologia e
delle scelte di Microsoft hanno dovuto almeno ammettere un certo interesse per le caratteristiche del nuovo
due-in-uno della casa di Redmond. Il
più recente gradino della scala evolutiva dei Surface Pro ha infatti, so-
prattutto grazie a Windows 10, liberato finalmente molta della potenza e
mantenuto molte delle promesse che
i precedenti modelli non erano riusciti a offrire, specie quella di essere una
seria alternativa ai computer portatili.
“La categoria dei tablet e dei due-inuno è cresciuta del 70% nell’ultimo
anno”, dice Evita Barra, direttore
della divisione Windows di Microsoft
Italia, “e il gruppo dei due-in-uno in
particolare si è distinto per la miglior dinamica, arrivando a pesare in pochi mesi il 10% dell’intero
mercato dei Pc. Il nostro merito
è stato quello di aver creato
questo con-
cept di prodotto, che poi anche altri
hanno sposato, e ora disponiamo del
prodotto di riferimento, che finalmente unisce sul serio la portabilità
di un tablet e la produttività di un notebook”.
Il Surface Pro 4 ha uno schermo touch
Pixelsense da 12,3 pollici e risoluzione
2.736x1.824, che insieme alla gamma
di processori (fino a Intel Core i7) e naturalmente a Windows 10, rappresenta
il punto di forza del dispositivo. Questi,
insieme alla tastiera (opzionale), sono
gli elementi che hanno trasformato la
quarta versione del due-in-uno in un
vero “notebook-replacement”. Disponibile in diverse configurazioni di processori e di memoria Ram (da 128 a
512 GB), il Surface Pro 4 ha un prezzo
di partenza di 1.029 euro (Iva compresa), senza tastiera ma con penna inclusa. Il peso è di 766 grammi.
E.M.
HUAWEI
MEDIAPAD M2 10.0
LENOVO
YOGA TAB 3 PRO
SAMSUNG
GALAXY TABPRO S
Display: 10” (1920x1200 pixel)
Sistema operativo: Android 5.1
Processore: Hisilicon Kirin 930,
doppio quad-core
Storage: 16/64 GB
Display: 10,1” (2560x1600 pixel)
Sistema operativo: Android 5.1
Processore: Intel Atom quad-core
Storage: 32 GB
Display: 12,0” (2160x1440 pixel)
Sistema operativo: Windows 10
Processore: Intel Core M dual-core
Storage: 128 GB
PREZZO: DA 399 EURO
PREZZO: DA 449 EURO
PREZZO: DA 1.099 EURO
47
VETRINA HI-TECH
MULTIFUNZIONE DA RECORD
Più rapida e più economica
di una laser, la nuova
stampante multifunzione
a getto d'inchiostro
Pagewide arriva fino
a 55 pagine al minuto.
PA
GE H
MF WIDP
P4 EP
77d RO
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LE CARATTERISTICHE
A COLPO D’OCCHIO
Funzioni: stampa, fax, copia, scanner
Tecnologia: getto d’inchiostro a colori
A4 (Pagewide)
Velocità: 55 pagine al minuto (bozza)
Risoluzione: 1.200x1.200 dpi
Display: touchscreen da 4,3 pollici
Connettività: Usb 2.0, Ethernet, WiFi
Caratteristiche: fronte/retro
automatico, wireless direct, Nfc
Consumo: (stampa standard): 100 W
Rumorosità: (stampa standard): 51 dB
Dimensioni: 530x407x467 mm
Peso: 22,15 kg
PREZZO: 549 EURO
48
| MAGGIO 2016
Il dispositivo multifunzione Pagewide
Pro M477dw fa parte della nuova linea
di periferiche presentate da Hp. Si tratta per la multinazionale di un prodotto
strategico, tanto da essere posizionato,
insieme agli altri modelli della linea
Pagewide, in una categoria a sé stante
e di pari dignità rispetto alle “gloriose”
Inkjet e Laserjet.
Pagewide è a tutti gli effetti una tecnologia a getto d’inchiostro (con i pregi e
difetti dei pigmenti liquidi), ma la sua
unicità consiste nell’aver adottato una
testina di stampa larga tanto quanto un
foglio A4, che consente quindi di eliminare un motore (quello che fa muovere
la testina stessa in orizzontale rispetto al
foglio) con notevoli risparmi in termini
di tempi, layout e consumi energetici.
A dirla tutta, la Pagewide è una tecnologia già nota: viene applicata da anni
con successo alle stampanti a bobina,
ma aveva addirittura fatto già il suo
esordio sui modelli da ufficio di Hp. La
novità, però, è che ora la multinazionale
ne ha fatto una vera e propria linea, su
cui punta molte delle sue carte.
Le soluzioni innovative che gli ingegneri di Hp hanno integrato nella linea
di periferiche non si fermano alla testina, ma coinvolgono anche le funzioni
di connessione (con Wifi e Nfc tra gli
altri) e quelle di sicurezza, ormai indispensabili negli uffici. I progettisti hanno fatto uno sforzo notevole, tanto che
il posizionamento di stampanti e multifunzione Pagewide è piuttosto aggressivo: si va dai piccoli uffici e gruppi di
lavoro alle situazioni in cui una quindicina di utenti fanno affidamento su una
singola macchina, con volumi mensili
di pagine compresi tra ottocento e seimila.
Diciamo subito che la caratteristica di
questo prodotto che colpisce maggior-
mente è la sua velocità: sia la rapidità di
installazione e configurazione, davvero
ai vertici della categoria, sia quella di
stampa, soprattutto del primo foglio
(meno di sette secondi). Anche senza
usare il cronometro, la sensazione che
la Pagewide Pro M477 batta in velocità
le laser di pari categoria (e quindi anche le InkJet) è netta.
Il percorso carta, che prevede ovviamente il fronte/retro automatico, è
semplice ma il multifunzione risulta
leggermente più rumoroso rispetto alle
periferiche laser (comunque meno delle InkJet), un piccolo difetto che viene
perdonato vista la rapidità di uscita dei
fogli stampati.
Per quanto riguarda la qualità di stampa, siamo sicuramente ai più alti livelli
tra i dispositivi a getto d’inchiostro (le
testine Pagewide, sulle grandi macchine da stampa Hp, sono già in grado di
funzionare in altissima definizione).
Ovviamente le pagine risentono dei
classici problemi dell’inchiostro liquido: si inumidiscono, e quindi la carta
comune si “imbarca” leggermente, oltre a non offrire colori particolarmente
brillanti. Complessivamente, comunque, l’obiettivo di Hp ci sembra centrato: la Pagewide Pro M477 è un’ottima alternativa ai multifunzione laser,
rispetto a essi più veloce ed economica
da gestire.
Pregi
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Difetti
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NUMERO 07 | MAGGIO 2016
STORIE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE
50
Scenari
56
Tecnologie
62
Esperienze
p
Tutte le strade del
mondo iperconnesso
Una tappa verso
la trasformazione
Competenze e visione
per reggere l’impatto
del cambiamento
Internet of Things
OGGETTI E DISPOSITIVI CONNESSI CAMBIERANNO FACCIA
ALLA SOCIETÀ, ALLE IMPRESE, ALLE CITTÀ. ECCO COME
SCENARI
CON EFFETTO DOMINO,
L’INTERNET DELLE COSE
AVRÀ UN IMPATTO SUI
PROCESSI AZIENDALI
E INDUSTRIALI E
POI SUI SERVIZI
E SUI PRODOTTI.
SECONDO IDC, NEL
2025 ARRIVEREMO A
CONTARE 80 MILIARDI
DI OGGETTI CHE
DIALOGHERANNO IN
RETE. MA RESTANO
ALCUNI PUNTI
INTERROGATIVI.
TESTO DI VALENTINA BERNOCCO
R
obot industriali, elettrodomestici,
automobili, terminali Pos, televisori, bracciali per il fitness, videocamere, sistemi di monitoraggio
per l’edilizia e l’agricoltura. Apparati e
apaprecchi che comunicano fra di loro,
con la Rete, con le persone: l’elenco non
basta a descrivere il variegato mondo
dell’Internet delle cose. Un mondo che
quotidianamente si popola di circa 5,5
milioni nuovi “oggetti connessi”, secondo
i rilevamenti di Gartner riferiti al 2016.
Il numero rende l’idea di quanto l’IoT sia
ufficialmente uscito dalle nicchie di mercato in cui esiste da tempo per diventare
fenomeno di massa, che accelera la tra50
Tutte le strade del
mondo iperconnesso
sformazione delle fabbriche, la gestione
dell’energia, l’agricoltura, l’automotive
e le smart city, oltre che il lavoro di diverse categorie professionali (dai medici
ai magazzinieri, dagli ingegneri edili ai
commessi di negozio). A detta di Verizon
e del suo ultimo report (“State of the Market: Internet of Things 2016”), mentre il
2015 è stato l’anno della legittimazione
dell’IoT, adesso si può parlare di un’adozione “mainstream”. I vuoti ancora da
riempire, certo, sono moltissimi, ma già
oggi il 72% delle aziende lo considera
come un elemento fondamentale per acquisire un vantaggio competitivo rispetto
alla concorrenza.
“I dispositivi indossabili sono il volto consumer dell’Internet of Things”, ha ben
riassunto un analista di Idc, Vernon Turner, “ma le vere opportunità riguardano
le aziende e il settore pubblico. L’effetto
domino dell’IoT sta facendo muovere i
modelli di business tradizionali”. A detta
di Idc, la tecnologia delle cose connesse
ha dato il “colpetto iniziale” impattando sui processi aziendali e industriali,
mentre ora – proprio come accade nelle
reazioni a catena – stanno per crollare
le tessere del domino successive: prima i
servizi e, infine, i prodotti.
Ma quanto vale, tradotta in denaro, questa
evoluzione? Secondo le stime della stessa
SCENARI
Oracle, Huawei, Ericsson e altri ancora)
ma anche i colossi delle telecomunicazioni (come Vodafone) e del Web.
L‘adozione dell‘IoT è oggi mainstream: il mondo dell’Internet delle cose si
popola quotidianamente di circa 5,5 milioni di nuovi oggetti connessi. Entro
il 2025 si potrebbe arrivare a 80 miliardi di dispositivi dialoganti in Rete.
Idc, nel 2020 il mercato IoT arriverà a valere 1.700 miliardi di dollari, crescendo a
un tasso del 16,9% l’anno. Oltre due terzi
del giro d’affari saranno generati dalla
vendita di dispositivi, sensori, software e
servizi informatici necessari a raccogliere, spostare, conservare e analizzare dati.
Vista la ghiotta opportunità, non è certo
un caso se molti grandi nomi dell’Information e Communication Technology stanno
investendo massicciamente in questo settore, in particolare i vendor specializzati
in reti, sistemi e apparati per data center
(come Cisco, Fujitsu, Schneider Electric,
La cornucopia delle opportunità
Un esempio su tutti sono i 3,2 miliardi
di dollari spesi da Google nel 2014 per
acquistare Nest, la società creatrice
dell’omonimo termostato intelligente.
Ma gli ultimi anni sono tappezzati di
operazioni, più o meno onerose, nell’ambito degli oggetti connessi: la più recente
(già annunciata e valutata 170 milioni di
euro, ma non ancora effettiva) è l’acquisizione da parte di Nokia della francese
Withings, un produttore di dispositivi
(smartwatch, bilance “intelligenti” e misuratori di pressione del sangue) per il
monitoraggio della salute e della forma
fisica. Per gli operatori di telecomunicazioni, invece, le opportunità di guadagno
derivano dal far viaggiare sulle loro reti
fisse o mobili servizi di vario tipo, come
quelli di infotainment delle automobili o
come i sistemi di localizzazione di treni e
mezzi pubblici. Negli Usa, per esempio,
la rete di AT&T conta attualmente più
di 26 milioni di oggetti connessi, mentre
Verizon lo scorso anno ha guadagnato dai
servizi di connettività IoT circa 690 milioni di dollari.
In mezzo al generale ottimismo galleggia,
tuttavia, qualche dubbio. Le ipotesi non
sono tutte concordanti: basti pensare che
le previsioni fatte da Cisco nel 2011 immaginavano per la fine questo decennio il
raggiungimento della soglia dei 50 miliardi di dispositivi dialoganti in Rete, mentre
Idc stima per il 2020 un numero intorno
ai 30 miliardi. Salvo poi pronosticare un
boom per il lustro successivo, con l’idea di
arrivare a 80 miliardi nel 2025. Sul perché
della maggior prudenza degli analisti sul
futuro più immediato si può intuire qualcosa dalle parole pronunciate da Turner
durante una recente convention tenutasi
a San José, in California: “In assenza di
network scalabili, non ci si potrà connettere. Le nostre reti dovranno essere in
grado di gestire tutto questo”. Non solo
sulle opportunità di mercato ma soprattutto sulla progressione delle infrastrutture si gioca, dunque, il futuro del mondo
iperconnesso.
51
SCENARI
LA PENISOLA È PIÙ SMART CON
10 MILIONI DI OGGETTI CONNESSI
Fabbriche, abitazioni, automobili, intere città sono sempre più connesse.
Anche in Italia, dove lo scorso anno
gli investimenti in tecnologie e servizi
di Internet of Things hanno raggiunto
i due miliardi di euro, crescendo del
30% rispetto al 2014. Il dato arriva
dall’Osservatorio Internet of Things
della School of Management del Politecnico di Milano, che ha anche
conteggiato lungo lo Stivale un “esercito” di 10,3 milioni di oggetti connessi tramite rete cellulare (+29%),
a cui vanno aggiunti i dispositivi che
sfruttano altre tecnologie di comunicazione. La lista include 36 milioni di
contatori elettrici collegati mediante
i cosiddetti controllori a logica programmabile, e poi 500mila contatori
gas che sfruttano la radiofrequenza
wireless, e ancora 600mila lampioni
che inviano dati in rete attraverso
l’uno o l’altro metodo. Numeri che in
parte (almeno per quanto riguarda i
contatori gas) sono l’effetto dell’adeguamento a obblighi normativi.
Le soluzioni di smart metering, per la
misura dei consumi, e quelle di smart
asset management (nelle utility, la gestione in remoto per rilevare guasti,
manomissioni, localizzazione e altro
ancora) rappresentano le fette più
grandi nella torta dell’IoT tricolore. Al
terzo posto si piazzano le tecnologie
per i veicoli connessi: oggi in Italia si
contano 5,3 milioni di auto connesse,
un settimo del totale parco circolante. L’opera di colonizzazione dell’Internet delle cose è più acerba, ma in
avanzamento, in settori come l’edilizia smart, la videosorveglianza e la
gestione degli impianti fotovoltaici, la
logistica, la gestione di flotte aziendali e antifurti satellitari.
Ancora scarsa la diffusione della
domotica, sebbene con buone prospettive di crescita: il 79% dei consumatori italiani si dice interessato
ad acquistare prodotti per la smart
home, ma solo uno su quattro lo farà
entro i prossimi dodici mesi.
V.B.
52
L’IMPATTO SUL PIL
DEI PRINCIPALI PAESI AL MONDO,
A FRONTE DELL’AUMENTO DEGLI
INVESTIMENTI NEI SISTEMI
INTERCONNESSI, SAREBBE DI
QUALCHE PUNTO PERCENTUALE
E VARREBBE MILIARDI. IL RUOLO
DEI VENDOR TECNOLOGICI.
TESTO DI GIANNI RUSCONI
Quanto vale l’economia dell’Iot?
O
gni euro investito nell’Internet of
Things ne potrà generare fino a 12 e
permetterà all’Europa di guadagnare
sette punti di Pil da qui al 2025. Lo dice
uno studio a firma di At Kearney, secondo cui l’economia creata dalle cose e dagli oggetti connessi potrebbe aggirarsi intorno ai mille miliardi di euro. Un valore
che andrà ad alimentare la crescita non
solo delle aziende impegnate in questo
settore ma anche i tagli sulle spese degli
utenti finali, singoli cittadini o imprese
che siano. Il saving sui consumi energetici derivante da un uso ottimizzato degli
apparecchi domestici, per esempio, è stimato nell’ordine dei 300 miliardi di euro
mentre per le imprese si calcola un au-
mento di produttività equivalente a 430
miliardi di euro. A livelli di investimenti
effettuati, invece, in Italia si parla per il
2015 di circa 1,95 miliardi di euro, con
una crescita del 28% rispetto al 2014.
Quelle sopra descritte sono comunque
solo alcune delle tante facce dell’Internet
of Things. In ambito industriale, infatti, il
fenomeno potrebbe avere un impatto economico a livello mondiale di 14,2 trilioni
di dollari entro il 2030 mentre in Italia
questo incremento potrebbe valere fino
all’1.1% del prodotto interno lordo. A dirlo
sono i dati di una ricerca di Accenture,
che evidenziano uno scenario sì in forte
evoluzione, ma vincolato a un necessario
cambio di rotta nelle iniziative da dedica-
SCENARI
LE INDUSTRY CHE GUIDANO L’ADOZIONE
Il 2016 è l’anno della svolta per l’Internet delle cose, almeno dal punto di vista della sua diffusione nelle aziende.
Ne sono certi gli analisti di Gartner,
sulla base di un sondaggio condotto
su 465 fra professionisti It e manager.
Secondo lo studio, il 43% delle imprese adotterà una soluzione IoT entro la
fine dell’anno, con una decisa crescita
rispetto al 29% del 2015. E tale percentuale salirà al 4% a fine 2017. Oltre sei
compagnie su dieci hanno pianificato
di adottare sensori, oggetti e dispositivi
intelligenti e connessi, mentre il 36%
delle realtà intervistate non ha dimostrato interesse e tra queste solo il 9%
non crede di avere alcun buon motivo
per dotarsi di questi sistemi. I settori più
attratti dall’Internet of Things, secondo
la ricerca, sono il petrolifero, il manifatturiero e le utility: il 56% delle imprese
che operano in queste industry, infatti,
adotteranno soluzioni IoT entro la fine
del 2016. In futuro potrebbero essere
segmenti verticali più “leggeri” a ricorrere in modo significativo ai servizi
dell’Internet delle cose, soprattutto per
migliorare la customer experience e i
processi che interessano i clienti finali.
re alla diffusione su larga scala delle nuove tecnologie digitali. Gli analisti sono
comunque convinti che i nuovi modelli
aziendali basati su dispositivi e macchine
intelligenti potranno potenziare in modo
decisivo la crescita nei mercati maturi.
Gli Stati Uniti, aumentando del 50% gli
investimenti in tecnologie di Industrial
IoT, potrebbero aggiungere 7,1 trilioni
di dollari al proprio Pil, crescendo del
2,3%. Una prospettiva di crescita importante interessa anche due delle locomotive europee, Germania e Regno Unito,
checon l’IoT potrebbero far lievitare le
rispettive economie, nei prossimi quindici anni, dell’1,7% e dell’1,8% rispetto alle
previsioni. Anche la Cina potrebbe avere
grossi vantaggi nell’investire nelle tecnologie interconesse (più degli altri Paesi
del Bric, e cioè Russia, India e Brasile),
con un impatto potenziale sul Pil di 1,8
trilioni di dollari entro il 2030. L’Italia,
invece, si trova in coda alla classifica
dei Paesi maggiormente predisposti a
cogliere le potenzialità dell’Industrial Internet of Things. Secondo Accenture, gli
investimenti aggiuntivi in questo settore
porterebbero un aumento di produttività stimabile in 197 miliardi di euro, pari
adun salto in avanti dell’1,1%. Ma per ambire a questi obiettivi servono come detto
piani concreti, soprattutto da parte delle
aziende, che dovranno essere capaci di
andare oltre l’obiettivo del miglioramento dell’efficienza, riconoscendo il valore
di business dei dati generati dalle cose
connesse.
Gli investimenti dei vendor hi-tech
Dal 2011 al 2015, gli attori telco e quelli
del comparto tecnologico hanno speso 31
miliardi di dollari nell’Internet delle cose.
Qualcomm, Intel, Vodafone e Google guidano un interesse sempre più strutturato
in questo mercato e lo prova il fatto che
il numero di acquisizioni è salito dalle
quattro del 2011 alle 19 nel 2015. La fotografia l’ha scatta la società di ricerca inglese Ovum, che ha contato nel complesso 76 accordi in diverse aree specifiche
dell’IoT o in qualche modo legate a questo comparto, dai servizi It ai dispositivi
indossabili per arrivare alle auto connesse. Di questi accordi, alcuni costituiscono
passaggi chiave nelle strategie dei singoli
vendor, come l’acquisizione di Altera da
parte di Intel, che ha messo sul piatto
la cifra record di 16,7 miliardi di dollari
per portarsi a casa la tecnologia alla base
di chip programmabili impiegati in una
vasta gamma di apparati e dispositivi in
campo automotive, industriale, medicale
e militare.
53
SCENARI
Progresso possibile, fra business ed etica
IL 70% DELLE AZIENDE PENSA DI OTTENERE DALL'IOT BENEFICI IN TEMPI BREVI. MA QUESTA RIVOLUZIONE
TECNOLOGICA AVRÀ IMPATTI ANCHE SULLA SOCIETÀ E SULLA RIDUZIONE DELL'IMPATTO AMBIENTALE.
TESTO DI VALENTINA BERNOCCO
È
uno strumento formidabile per il business, in tanti e variegati ambiti, ma può
prestarsi a finalità ancor più nobili. L’Internet delle cose può diventare un mezzo
al servizio del benessere individuale (nelle
tecnologie healthcare), sociale (per soluzioni di smart city, trasporto e sicurezza
cittadina) e ambientale. Si può fare: sensori, monitoraggi e analytics sono i presupposti per ottenere un uso più razionale
delle risorse (quelle idriche in agricoltura,
per esempio) e dei combustibili fossili.
Secondo una stima di Frost & Sullivan,
per esempio, i sistemi di gestione delle
flotte automobilistiche basati sull’Internet
of Things e sui veicoli connessi permetterebbero di tagliare i consumi di petrolio di
un 20% o 25%. Questa visione di progresso
è condivisa da molti dirigenti e manager
aziendali, convinti che entro una manciata
di anni le soluzioni IoT saranno usate per
affrontare le sfide ambientali e sociali del
nostro tempo: così emerge dall’indagine
“IoT 2020 Business Report”, commissionata a Redshift Research da Schneider
Electric e basata su circa 2.600 interviste
a decisori di business di medie e grandi
aziende di dodici Paesi, Italia inclusa. La
sola tecnologia, senza politiche nazionali
e internazionali che la promuovano, non
basterà. Ma sarà il fondamentale mezzo
per raggiungere obiettivi come il contenimento del surriscaldamento globale (entro
i due gradi, in base all’accordo raggiunto
da 196 Paesi all’ultima conferenza di Parigi sul cambiamento climatico) tramite la
riduzione dei gas serra, oppure il più equo
utilizzo delle risorse idriche e agricole.
“L’Internet of Things”, commenta Davide
Zardo, vice president della divisione It di
Schneider Electric Italia, “ha in sé una serie infinita di possibilità per aiutare i Paesi
e le loro economie a rispondere alle sfide
planetarie, fra cui il riscaldamento globale,
la scarsità di acqua, l’inquinamento. Per la
maggioranza degli intervistati, infatti, uno
dei principali vantaggi dell’IoT per la società sta proprio nella possibilità di usare
Davide Zardo
Manifattura, il traino degli investimenti
Non meno di 70 miliardi di dollari entro il 2020, rispetto ai 29 miliardi del 2015 e ai 40
miliardi previsti per il prossimo anno: a tanto ammontano gli investimenti in soluzioni IoT
del settore manifatturiero secondo un recente studio di Business Insider. Significativi
incrementi di budget li segneranno in particolare l’industria automobilistica, quella dei
prodotti elettronici, il tessile, l’agricoltura, la sanità e l’aerospaziale. Le diverse applicazioni delle tecnologie connesse vanno dalla robotica alla realtà aumentata, dall’additive
manufacturing ai sistemi di monitoraggio automatico e di manutenzione predittiva.
L’IoT catturerà un crescente interesse nel variegatissimo mondo della produzione e attirerà investimenti importanti, spesso accompagnati da ritorni misurabili. Stando alle
rilevazioni di Tata Consultancy Services, infatti, i produttori che sfruttano l’IoT fra il 2013
e il 2014 hanno osservato, in media, un incremento di fatturato superiore al 28%.
P.A.
54
meglio le risorse”. Schneider Electric sta
attualmente sviluppando tecnologie per la
raccolta, misurazione e gestione dell’energia per diversi ambiti, “dall’Industry 4.0 al
Data Center Infrastructure Management,
dal Power Metering ai sistemi software di
Energy Management, solo per citarne alcuni”, illustra Zardo.
A completare il quadro mondiale del futuro
ridisegnato dalla tecnologia, citiamo una
ricerca di McKinsey secondo cui nei nei
prossimi anni il 40% del giro d’affari delle
soluzioni IoT sarà generato da Paesi in via
di sviluppo. Questi, addirittura più di quanto sapranno fare le economie avanzate,
potranno sfruttare rapidamente i vantaggi
dell’Internet of Things senza avere sulle
spalle il peso di infrastrutture preesistenti.
SCENARI
Il traino dei settori verticali
Che si tratti di etica, progresso o profitto,
siamo in un’epoca di trasformazione. “È
passato il momento di domandarsi se l’Internet of Things produrrà valore”, ha sottolineato Prith Banerjee, chief technology
officer di Schneider Electric. “Per le aziende
è il momento di prendere decisioni e posizionarsi nel modo giusto per sfruttare al
massimo il valore dell’IoT”. Nella già citata
indagine, il 75% delle aziende interpellate
si è detto ottimista sui vantaggi che si potranno ottenere già nel futuro immediato.
Il 63% delle organizzazioni, in particolare,
pensa di poter utilizzare già nel corso di
quest’anno soluzioni IoT che permettano
di migliorare l’esperienza del cliente e il
customer service, mentre analoghe percentuali si attendono risparmi in ambito edile
e industriale grazie a nuove tecnologie di
automazione. “Non tutti gli ambiti industriali”, precisa Davide Zardo, “hanno colto
con la stessa prontezza l’innovazione insita
nelle tecnologie IoT e quindi non tutti cresceranno rapidamente come sarebbe pos-
sibile. Nel futuro immediato le prospettive
di crescita maggiori si concretizzeranno nei
settori che sono oggi all’avanguardia, e cioè
in quelli dei servizi energetici, dell’automazione industriale e dell’autotrasporto”.
Lo scenario generale, in ogni caso, è quello
di una progressiva adozione dell’IoT come
strumento di trasformazione del business.
Un’indagine di Verizon (“State of the Market: Internet of Things 2016”) svela come il
72% delle aziende lo ritenga fondamentale
per acquisire un vantaggio competitivo sulla concorrenza, mentre il 50% è concretamente impegnato a sfruttare i dati raccolti
da sensori e app per scopi di analytics, con
progetti da realizzarsi al massimo entro tre
anni. “Per lungo tempo si è pensato che IoT
fosse una combinazione di tecnologie complesse usata solamente da early adopter”,
ha dichiarato Mark Bartolomeo, vice presidente IoT connected solutions di Verizon.
“Nell’ultimo anno abbiamo invece avuto
la prova di come IoT sia utilizzato da una
vasta gamma di aziende, imprenditori, enti
pubblici e sviluppatori”.
NEL SEGNO DELLA PRIVACY
“L’Internet of Things è una rivoluzione
che può dare vita a un asse portante
del mercato digitale europeo e che
implica dei cambiamenti radicali nella
creazione del valore”. Parole di Antonio Preto, commissario dell’Agcom,
secondo cui la fluidità permanente
della connessione richiede un approccio uniforme. “Il rischio è la frammentazione dei mercati e il lock-in degli utenti ed è indispensabile tutelare i
diritti degli utenti stessi, a partire dalla
tutela dei dati personali”, ha detto ancora Preto sull’argomento.
A inizio aprile, intanto, il Garante della
Privacy italiano (insieme alle Authority di altri 28 Paesi riunite nel Global
Privacy Enforcement Network) ha annunciato l’avvio dell’annuale “privacy
sweep”, indagine a tappeto che analizzerà il fenomeno IoT per stabilire
quali rischi comporti per la vita privata
dei cittadini. Il raggio d’azione dell’analisi (i cui risultati saranno resi noti
il prossimo settembre) è decisamente
ampio e copre i dispositivi più diversi,
dai contatori intelligenti ai termostati
regolabili via Web, dalle auto connesse agli orologi intelligenti che misurano il battito cardiaco e la pressione
sanguigna, fino al controllo a distanza
degli ascensori e ai frigoriferi che segnalano la scadenza dei cibi.
Il Garante italiano, sotto la guida di
Antonello Soro, si occuperà in modo
particolare della domotica, verificando se le condizioni d’uso dei dispositivi prodotti da aziende anche multinazionali rispettino le norme sulla
riservatezza del consumatore e dei
suoi dati.
Se da un lato è necessaria piena trasparenza sulle modalità di trattamento
delle informazioni personali, dall’altro
rimane il grande punto interrogativo
sul futuro dell’IoT in Europa in base
alle nuove regole Ue in materia di privacy dei dati. Un’interpretazione troppo rigida della normativa da parte dei
singoli Garanti, dicono alcuni esperti,
potrebbe rallentare drasticamente il
progresso dell’IoT.
G.R.
55
TECNOLOGIE
Una tappa verso la trasformazione
L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE FA FARE
UN SALTO EVOLUTIVO AGLI
OGGETTI CONNESSI. MA L’IOT È SOLO
UN PASSAGGIO ALL’INTERNO DI
UN PERCORSO PIÙ LUNGO, QUELLO
DELLA DIGITAL TRANSFORMATION.
COME CI SPIEGA L’AMMINISTRATORE
DELEGATO DI FUJITSU IN ITALIA.
TESTO DI VALENTINA BERNOCCO
P
iù che di oggetti connessi e tecnologie, per le aziende ha senso
parlare di trasformazione digitale.
L’Internet delle cose è soltanto una
tappa di un viaggio verso il futuro, un futuro che è fatto di ottimizzazioni e risparmi
56
(pensiamo ai vantaggi della manutenzione preventiva di impianti o edifici, grazie
ai dati raccolti dai sensori), di un uso più
razionale delle risorse (in agricoltura o
nella gestione dell’energia), di responsabilità sociale (con le tecnologie di assistenza
e monitoraggio per malati e anziani), ma
anche di applicazioni di robotica e intelligenza artificiale. In Giappone, per esempio, da un lavoro a sei mani dei ricercatori
di Fujitsu, dell’Università di Nagoya e
dell’Istituto Nazionale di Informatica, è
nato Todai: un robot capace di rispondere
correttamente a quesiti su varie materie.
Dopo anni di “studio”, cioè di machine learning, ha saputo superare diversi test di
ingresso di atenei nipponici. Ne abbiamo
discusso con Bruno Sirletti, presidente e
amministratore delegato di Fujitsu Italia.
Quali vantaggi possono ottenere
le aziende con l’Internet of Things?
Per noi l’IoT non è un obiettivo fine a se
stesso bensì è parte di qualcosa di più
grande, che ha come scopo finale la digital transformation. È un elemento abilitante. Ma dobbiamo capire che i dati
raccolti da sensori e oggetti connessi non
sono sfruttabili immediatamente: serve
la mediazione di software e strumenti di
analytics per trasformarli in informazioni
utili, e serve il supporto del cloud come
infrastruttura di sostegno. Oggi osserviamo già nel concreto alcune realizzazioni
di questa “tappa”, che in futuro includerà
sempre di più anche i robot e l’intelligenza artificiale.
Studi di settore e analisti citano
spesso il problema dell’interoperabilità. Può essere un ostacolo?
Non penso che questo sia realmente un
problema. Gli standard sono in via di
definizione e credo che per l’IoT accadrà
quello che è successo nel mondo dell’informatica con ogni innovazione: inizialmente emergono alcune tecnologie, quelle
più avanzate, poi si va verso l’apertura e
TECNOLOGIE
PROGETTI IOT: PREVALE LA LINEA CONSERVATIVA
Sistemi di sicurezza, tracciamento di dipendenti e beni aziendali, gestione dei
consumi energetici e controllo di qualità. Sono questi, oggi, i principali ambiti di
applicazione dell’Internet of Things, con progetti portati avanti da imprese e organizzazioni che si limitano, nel 58% dei casi, al collegamento di circa mezzo migliaio dispositivi. Non di più, perché la gestione dell’architettura potrebbe altrimenti
diventare troppo complessa. Lo scenario descritto porta la firma della società di
ricerca Current Analysis, che ha intervistato mille manager già coinvolti in progetti
IoT. Secondo lo studio, il 43% delle iniziative è su base nazionale, il 24% locale, il
23% regionale e solo il 10% si estende su scala globale. L’idea di una serie di oggetti intelligenti che comunicano in tempo reale con una piattaforma centralizzata
è, al momento, una mera utopia: soltanto un quarto del campione, infatti, ha già
portato a termine o sta realizzando progetti che prevedono dispositivi in grado di
trasmettere dati in real time. Nella maggior parte dei casi considerati, inoltre, i
device comunicano una volta al giorno o solo quando vengono rilevate anomalie ai
sistemi. Una peculiarità che si può intravedere anche nelle singole voci di spesa.
Le aziende investono poco in telecomunicazioni, preferendo al momento concentrarsi soprattutto sui servizi in cloud e sulle soluzioni software mirate a estrarre
valore dai dati. Current Analysis ha identificato, quindi, quattro tipologie di fornitori
tecnologici che possono aiutare un’impresa nella corretta implementazione di una
strategia IoT: software vendor, hardware vendor, provider di telecomunicazioni e
specialisti in servizi professionali. A dominare è per ora quest’ultima categoria,
vista dalle aziende come referente principale poiché le scelte da compiere riguardano ancora il business, piuttosto che le tecnologie in senso stretto. Il merito riconosciuto ai fornitori di servizi è quello di poter svolgere un ruolo determinante
nel superare i tre maggiori ostacoli nella realizzazione di progetti IoT: sicurezza,
dimostrazione del valore delle singole iniziative e giustificazione dei costi.
G.R.
Bruno Sirletti
la progressiva interoperabilità, finché in
modo quasi autonomo e senza decisioni
dall’alto il mercato seleziona le alternative destinate a imporsi.
Quali sono, allora, le criticità
che osservate?
Non basta l’esistenza di miriadi di oggetti connessi per risolvere ogni problema.
Molte aziende e clienti ci dicono che
vorrebbero intraprendere la digital tran-
sformation ma che non sanno come fare.
Altre hanno messo in campo dei progetti,
rivelatisi però dei fallimenti. L’Internet of
Things funziona se si comprende quale sia
la specifica esigenza da soddisfare e se i
progetti sono realizzati da persone esperte. Parlo di esperienza “di mestiere”, del
personale dell’azienda che conosce il suo
lavoro e le sue necessità, e di esperienza
tecnologica del vendor che deve fare consulenza e contribuire al progetto. Questi
due punti di vista devono incontrarsi.
Quanto è oneroso investire
in progetti IoT?
I costi dipendono molto dai settori. Per
esempio, per una soluzione di retail
analytics l’ordine di grandezza è di qualche decina o centinaia di migliaia di euro,
a seconda delle dimensioni dell’attività.
Si tratta, comunque, di progetti che hanno
un ritorno sull’investimento entro un paio
di anni e che attualmente vengono affrontati con un approccio “tailor made”, in cui
il vendor realizza una soluzione su misura
per il cliente.
Quale futuro immaginate per
l’Internet of Things?
In futuro potranno diventare più diffuse
tecnologie robotiche e di intelligenza artificiale, che oggi stiamo già sperimentando. In Giappone, per esempio, i laboratori
di ricerca di Fujitsu hanno creato un robot
con le sembianze di un orsacchiotto, testato in due aeroporti di Tokio per vendere
polizze di viaggio ai passeggeri in partenza. Ebbene, il sistema si è rivelato più efficace dei venditori in carne e ossa. Il robot
pone all’interlocutore delle domande piuttosto semplici, sulla destinazione, durata
e classe di viaggio, poi prosegue nel questionario differenziandolo in base alle prime risposte ricevute e in base a elementi
non verbali, come il numero di battiti degli
occhi (un segnale di interesse). E per finire propone una polizza assicurativa specifica per i bisogni dell’interlocutore.
57
TECNOLOGIE
Come evitare il rischio di una Babele
IL DIALOGO FRA DECINE DI MILIARDI DI OGGETTI
CONNESSI, PIATTAFORME CLOUD E APPLICAZIONI
PASSA PER STANDARD E MODELLI COMUNI.
L'IMPERATIVO È ANALIZZARE IN TEMPO REALE
UN IMPONENTE FLUSSO DI DATI.
TESTO DI PIERO APRILE
C
i sono tanti, troppi, standard e nessuno
è chiaramente vincente sull’altro. Le
circa 300 piattaforme IoT in esercizio
oggi nel mondo suggeriscono l’idea
che ci sia un evidente rischio di confusione tecnologica, di una cacofonia di protocolli che mal si conciliano con l’esigenza
di un linguaggio universale che dovrebbe
facilitare e stimolare la comunicazione fra
oggetti, persone e processi connessi. La
normalizzazione dei dati, secondo diversi
addetti ai lavori, è il compito prioritario
delle piattaforme dell’Internet of Things
e in particolare di quelle che offrono grande facilità di integrazione a livello di Api
(Application Programming Interface, le
interfacce di programmazione), che sono
disegnate per favorire le funzioni di data
analytics e l’interazione fra sistemi cloudbased differenti.
Dieci tecnologie a cui guardare
Sicurezza, analisi dei dati, connettività,
processi, sistemi operativi ad hoc e molto
altro ancora. Nel calderone dell’Internet
delle cose, nei prossimi anni, “cuoceranno” sicuramente parecchi ingredienti.
Gartner ne ha individuati dieci esaminando il grado di interesse mostrato dalle aziende su opportunità e temi critici
dell’IoT. Dieci “applicazioni” in grado di
orientare le sviluppo tecnologico delle reti
degli oggetti connessi nei prossimi anni. E
in cima alla lista c’è la security. Entro il
2018 osserveremo progressi dell’hardware
e del software mirati a soddisfare questa
esigenza, ma allo stesso tempo si andrà
accentuando il problema della scarsità di
competenze: molti degli attuali problemi
di sicurezza, infatti, derivano da errori
di progettazione o di implementazione,
L’IOT “SU MISURA” E IN FORMA DI SERVIZIO
Una piattaforma infrastrutturale di integrazione, un marketplace e una componente
di servizi professionali. È questo il tridente messo in campo da Ericsson, in occasione della recente fiera di Hannover, per dare vita al proprio IoT Accelerator: un
acceleratore tecnologico (non finanziario) che il colosso svedese andrà a proporre
alle aziende per semplificarne il processo di avvicinamento al mondo dell’Internet
delle cose. Nello specifico, il pacchetto racchiude soluzioni per la gestione di dati
e dispositivi, per la fatturazione, per la connettività e per gli analytics. Tutto, ovviamente, è basato sul cloud e offerto in modalità as-a-Service. Il marketplace è
invece sia un contenitore di app sia un portale di sviluppo collaborativo, il cui fine è
quello di aiutare le imprese a realizzare applicazioni in stretta collaborazione con il
proprio ecosistema dei partner. Infine, l’offerta di servizi professionali include tutto
il portafoglio di Ericsson, per coprire la filiera “dalla A alla Z”: dal setup iniziale alla
consulenza, passando per lo sviluppo applicativo e per l’integrazione di componenti
tecnologiche e sistemi.
58
risolvibili solo disponendo di personale
qualificato. Il secondo tema caldo è quello
degli analytics: per comprendere i dati che
transitano dagli oggetti connessi saranno
necessari nuovi algoritmi, nuove architetture e un approccio più strutturato al
machine learning. In terzo luogo, Gartner
parla di Iot Device Management, una pratica che richiede tecnologie context-aware
e state-aware e in cui, nei prossimi anni, si
osserveranno “significative innovazioni”.
Quanto alle reti, nel lungo periodo (entro
il 2025) quelle a bassa potenza e a corto
raggio si affermeranno come dominanti.
Le tecnologie radiomobili tradizionali,
infatti, non possono garantire né le fun-
TECNOLOGIE
OGGETTI RIPROGRAMMABILI E INTERFACCE TRASPARENTI
Come mai c’è tanto interesse intorno all’Internet delle cose? Perché l’IoT “permette di
creare prodotti più intelligenti e capaci di migliorare nel tempo”, come ci spiega Danilo Poccia, Emea evangelist di Amazon Web Services. “Qui sta uno dei vantaggi dei
dispositivi connessi: un prodotto vecchio di dieci anni oggi è in grado di fare cose che
al momento della sua nascita nemmeno esistevano. Con un semplice aggiornamento
software si può aggiungere un servizio musicale o modificare le funzioni associate a un
pulsante”. Un esempio è lo “smart speaker” di Sonos, azienda californiana che ha cominciato a vendere i primi prodotti connessi nel 2006 e che da allora ha esteso il supporto a più di sessanta servizi musicali, incluso lo streaming. Un altro caso di soluzione non
immaginabile in passato è Philips HealthSuite, una piattaforma digitale che attraverso il
cloud gestisce più di sette milioni fra apparati connessi, sensori e applicazioni mediche
utilizzate sia dai pazienti, sia dal personale medico. Appoggiandosi alla piattaforma IoT
di Amazon, Philips può acquisire, processare e reagire a dati raccolti in tempo reale da
un insieme eterogeneo di dispositivi.
C’è poi un altro motivo per interessarsi all’IoT: i dispositivi connessi avvicinano le aziende ai clienti perché sono in grado di fornire feedback che aiutano a capire le modalità
d’uso dei dispositivi stessi, le preferenze degli utenti e ciò che gli utenti non gradiscono.
“In un certo senso”, spiega ancora il manager di Aws, “questo ricorda la metodologia agile applicata allo sviluppo software, secondo la quale si implementano piccoli
aggiornamenti che vengono poi messi in produzione rapidamente, in modo da usare i
feedback per capire il passo successivo da compiere. Grazie ai feedback provenienti
dagli oggetti connessi, il medesimo approccio agile può essere applicato allo sviluppo
dell’hardware”.
Un’altra interessante conseguenza dell’IoT riguarda l’interfaccia dei prodotti. “Per
anni”, prosegue Poccia, “siamo stati abituati a interfacce di mediazione, come tastiere
o mouse nel caso dei computer, oppure telecomandi pieni di pulsanti per i televisori.
Qualche anno fa, poi, i display tattili hanno permesso di creare interfacce simulate e
questo ha portato nuovi utenti, per esempio persone anziane oppure molto giovani, a
interagire con dispositivi come smartphone e tablet. Adesso, con i dispositivi connessi,
l’interfaccia è diretta, perché il prodotto stesso è l’interfaccia da toccare o da stringere
fra le mani. E quelle sempre più sofisticate, come il riconoscimento vocale, rendono
naturale la comunicazione”. Un esempio è Amazon Echo, uno smart device attraverso
il quale è possibile interagire con diversi servizi usando la voce: basta chiedere, e si
possono ricevere notizie o impostare un timer mentre si è impegnati a cucinare.
zionalità né i costi operativi di cui le applicazioni IoT necessitano. Serviranno, al
contrario, soluzioni economicamente più
vantaggiose sia a livello di infrastrutture
hardware sia per la gestione delle reti stesse, in grado di supportare un’alta densità
di connessioni a fronte di una larghezza di
banda contenuta.
Un altro tassello chiave per l’IoT di domani riguarda i processori. Entro il 2019,
infatti, negli oggetti connessi spopoleranno quelli a 8-bit di fascia bassa, ma già
nel 2020 i modelli a 32-bit inizieranno a
sostituirli. Curiosamente, Gartner non immagina una fase di affermazione di massa
per i chip “intermedi” a 16-bit. Quanto ai
sistemi operativi, l’inadeguatezza di piattaforme complesse e avide di risorse quali
Windows e Apple iOs diventerà palese intorno al 2020, anno in cui si affermeranno
alternative software “minimali” e poco esigenti in termini di memoria e di energia.
Alcune applicazioni pensate per l’Internet of Things produrranno dati in grandi
volumi, spesso legati all’esigenza di un’analisi in tempo reale. Già oggi esistono
sistemi capaci di generare decine di migliaia di eventi al secondo, mentre in ambito telco e telematico (nell’automotive
in primis) si arriva a milioni di eventi al
secondo: per poter gestire questi numeri,
saranno sempre più necessarie piattafor-
me di tipo “distributed stream computing”. C’è quindi un’altra e più generica
tipologia di piattaforma che dovrà essere
definita, mettendo insieme in un’unica
soluzione componenti infrastrutturali diversi, sistemi di controllo e di sicurezza,
piattaforme di comunicazione, aggiornamenti del firmware, modelli di acquisizione e di gestione dei dati.
Non si potrà fare a meno, infine, di standard ed ecosistemi dedicati per l’IoT, ovvero di regole comuni sintetizzate in Api
universalmente valide. Solo così gli oggetti connessi e le applicazioni potranno
comunicare fra loro senza il rischio che
l’Internet delle cose diventi una Babele.
59
TECNOLOGIE
Le mille possibilità dell’IoT e i gap da colmare
L’INTERNET OF THINGS NON CONOSCE CONFINI APPLICATIVI, SPAZIANDO DALL’AUTOVETTURA CHE DIALOGA
CON I SENSORI A BORDO STRADA, AI SISTEMI CHE MONITORANO PARAMETRI AMBIENTALI. MA ANDRANNO
DEFINITI GLI STANDARD COMUNI E BISOGNERÀ CREARE PRODOTTI SICURI “BY DESIGN” .
TESTO DI CARLO MARIA EUGENIO VAITI, CHIEF TECHNOLOGIST AND STRATEGIST EMEA DI HEWLETT-PACKARD ENTERPRISE
N
el mondo dell’Internet of Things gli
standard sono necessari per garantire interoperabilità tra i domini e
all’interno degli stessi. Su questo processo influiscono le legislazioni, le regole, le procedure di qualificazione e certificazione dei prodotti. In un ambito che
contempla anche l’uso contemporaneo
e coordinato di tecnologie assai diverse
STARTUP ITALIANE DA ESPORTAZIONE
Solair è una startup bolognese (di
Casalecchio di Reno, per la precision)
appena acquisita ( itermini dell’operazione non sono noti) da Microsoft.
Attiva dal 2011, è specializzata in soluzioni di Internet of Things rivolte a
vari settori industriali, fra cui manifatturiero, retail, food&beverage e
trasporti. Più che i natali inglesi del
suo Ceo, Tom Davis, ad aver stimolato
l’interesse dell’azienda di Redmond è
la vicinanza delle rispettive offerte. Le
soluzioni Solair per la customizzazione e il deployment dell’IoT poggiano
infatti sulla piattaforma di cloud pubblico Azure e, come ha sottolineato
Davis, “sono progettate per aiutare
le aziende di qualsiasi settore a usare l’Internet of Things per ottenere più
efficienza e redditività”. La tecnologia
della startup verrà gradualmente integrata nella Azure IoT Suite. Muovendosi sulle proprie gambe, Solair ha comunque già ottenuto successi. In Italia
ha aiutato un produttore di macchine
del caffè, Rancilio Group, a monitorare da remoto i propri dispositivi e a
ottimizzare la supply chain, mentre in
Giappone è stata scelta da numerose
aziende del comparto manifatturiero.
60
(cloud, mobile, machine-to-machine, security, networking) appare chiaro che ci
si troverà di fronte a una continua evoluzione degli standard di riferimento.
L’Internet of Things non conosce però
confini applicativi, spaziando dall’autovettura che dialoga con i sensori a
bordo strada o con i veicoli che precede,
ai sistemi che monitorano parametri
ambientali, per arrivare ad applicazioni
utili alla localizzazione o per identificare un paziente e monitorare specifiche
patologie, anche tramite connessioni
remote. Alla verticalizzazione delle soluzioni corrisponde una verticalizzazione
degli standard.
Un ruolo decisivo per assicurare un
assessment tecnologico adeguato è
TECNOLOGIE
assegnato quindi agli enti di standardizzazione come l’Aioti (l’Alleanza per
l’Internet of Things, promossa nel 2015
dalla Commissione Europea), che però
stanno operando da relativamente poco
tempo in campo IoT. A oggi, gli standard
funzionali esistenti sono estremamente
frammentati: i nove principali enti hanno prodotto (a tutto febbraio 2016) 418
standard, di cui 278 dedicati all’architettura It. A questi, occorre aggiungere il
contributo offerto da un’ampia tipologia
di organismi associativi, pubblici o privati, finalizzati alla produzione di standard o alla creazione di un ecosistema di
sviluppo di specifiche condivise.
Il viaggio verso la società digitale
Secondo Hpe, sicurezza e privacy sono
al primo posto fra i rischi legati al pas-
BASSI CONSUMI, QUALITÀ E COPERTURA: I VANTAGGI DEL NARROWBAND IOT
Un consumo energetico molto contenuto, bassi costi dei componenti e un’eccellente
copertura: sono i vantaggi della tecnologia Narrowband IoT (Nb-IoT), una delle possibili
strade per portare le connessioni dell’Internet of Things ovunque, anche in luoghi remoti
e ostici da raggiungere. Senza scendere in tecnicismi, basti dire che questo metodo di
tipo “Low Power Wide Area” ha ottenuto l’approvazione del 3Gpp, un’organizzazione internazionale che riunisce diverse alleanze ed enti regolatori nel campo delle telecomunicazioni: lo standard è in via di definizione. E l’Nb-IoT ha il pieno sostegno di Huawei, che
sta lavorando al suo sviluppo fin da un paio di anni, con la collaborazione di Vodafone.
L’azienda cinese si è detta certa del suo avvento già entro la fine del 2016. Secondo Zhu
Cheng, il dirigente a capo della divisione Cellular IoT della società cinese, entro il 2020 si
conteranno tre miliardi di oggetti connessi tramite rete mobile, e a far da traino a questi
numeri saranno le applicazioni di smart metering e quelle per le smart city. Huawei non
teme la concorrenza di altre tecnologie proprietarie per la trasmissione dei dati dell’IoT,
tecnologie che hanno tentato di imporsi in modo “molto, molto aggressivo”, ha detto
Cheng, ma che non possono vantare i medesimi vantaggi di standardizzazione, qualità del servizio, sicurezza, basso consumo e copertura del segnale. Lo scorso febbraio
Huawei e Vodafone hanno annunciato l’intenzione di creare un centro di ricerca per
lavorare insieme sull’Nb-IoT: aprirà i battenti nel Regno Unito, a Newbury.
saggio al paradigma dell’Industry 4.0.
Per questo stiamo lavorando per offrire
un’architettura IoT che sia sicura in ambito end-to-end e soprattutto “by design”,
ossia sin dallo sviluppo delle applicazioni associate ai vari settori verticali, in
particolare all’automotive, all’oil&gas e
al manifatturiero, attualmente in testa
alle nostre priorità.
Nei processi industriali iniziano a delinearsi le prime implementazioni di
“fabbriche intelligenti”, soprattutto con
alcuni operatori delle telecomunicazioni e in cooperazione con alcune startup.
Tali progetti hanno come scopo quello di
dotare gli impianti produttivi di reti mobili Lte ultra-broadband dedicate, con
servizi di telecomunicazione dati, video
e voce, a sostegno di soluzioni di videosorveglianza, monitoraggio dei mezzi
in movimento e trasmissione di allarmi
(sulla base di sensori fissi o indossati dal
personale). Nel settore manifatturiero si
stanno sviluppando anche servizi legati
alla diagnostica predittiva, al workforce
management, alla sicurezza e all’efficienza dei costi di esercizio attraverso
l’automazione intelligente.
Nelle aziende, tuttavia, in molti casi non
si sono ancora pienamente compresi i
vantaggi raggiungibili con i progetti IoT,
non sono state sviluppate applicazioni
concrete e molte realtà lamentano ancora una mancanza di competenze specifiche a causa della mancanza di formazione. Nell’intraprendere un percorso
verso l’Internet delle cose, inoltre, oggi
le aziende non considerano l’investimento in sicurezza come una solida base
per salvaguardare il proprio business.
E invece un attacco cybercriminale provoca nel migliore dei casi delle notevoli
ricadute sul business, se non la perdita
di segreti commerciali e proprietà intellettuali. Molte volte la posizione dell’azienda è reattiva e non proattiva.
In ogni caso, il 2016 rappresenterà un
anno strategico per l’adozione dell’Internet of Things. La vera sfida, adesso,
è quella di dimostrare il ritorno sugli investimenti dei progetti che tante aziende hanno messo in campo. In Italia, in
particolare, alcuni settori si dimostrano
più reattivi di altri: quello della mobilità urbana e dei trasporti pubblici, per
esempio, è fra i più maturi e giù sfrutta
piattaforme per l’erogazione di dati in
real time e per l’offerta di servizi (l’acquisto di biglietti, per esempio). Anche il
comparto delle smart grid è molto ricettivo per via della normativa focalizzata
sull’efficienza energetica e sulla riprogettazione delle città metropolitane in
chiave di smart city.
61
ESPERIENZE
Reggere l’impatto del cambiamento
L’INTERNET OF EVERYTHING RICHIEDE COMPETENZE E VISIONE. LE PERSONE
DIVENTANO UNO SNODO FONDAMENTALE PER L’EVOLUZIONE TECNOLOGICA.
TESTO DI AGOSTINO SANTONI, AMMINISTRATORE DELEGATO DI CISCO ITALIA
N
on si contano più, ormai, le voci che
confermano come l’Internet of Things
– e per estensione l’esplosione della
connettività fra oggetti, dati, processi e
persone di cui l’IoT è un elemento chiave
– offra un’opportunità senza precedenti a
imprese, persone e interi Paesi. Allo stesso tempo, le medesime voci richiamano
l’attenzione sulla necessità di prepararsi,
capire il cambiamento e riflettere attentamente su come esso possa meglio applicarsi al proprio business o alle caratteri-
stiche del tessuto economico e sociale di
un Paese che vuole fare dell’innovazione il
propulsore della propria crescita.
Come punto di partenza basti un dato,
che Cisco ha reso noto già un anno fa attraverso uno studio del Global Center for
Business Transformation: entro cinque
anni, quattro aziende leader di mercato su
dieci saranno scalzate dal loro primato da
realtà più dinamiche e pronte a cavalcare
la trasformazione digitale. Una trasformazione che, nella gran parte dei casi, ancora
RISAIE E VITIGNI PIÙ SMART GRAZIE A SENSORI E SATELLITI
Per fare l’albero ci vuole il seme, questo è scontato. Ma se con le nuove tecnologie
si riuscisse a seguire tutto il ciclo di vita del seme e a migliorarne la resa, riducendo
i costi? L’agricoltura smart è già una realtà, in buona parte fondata sul tecnologie di
Internet of Things quali i sensori e i dispositivi connessi che permettono ai produttori
di raccogliere dati dal suolo e dalle piante. Oppure di ridurre l’impatto ambientale
razionalizzando l’irrigazione e l’impiego di pesticidi. Nelle risaie della Tenuta Castello,
a Desana, in provincia di Vercelli, la tecnologia viene utilizzata sia per la semina sia
per lo spianamento. I trattori vengono collegati a un satellite e ad apparecchi laser
che aiutano l’operatore a svolgere un lavoro di grande precisione.
L’agricoltura smart è un pallino anche per alcuni vendor tecnologici. Ericsson, per
esempio, ha recentemente annunciato che collaborerà con MyOmega, Intel e Telenor Connexion per creare un servizio di connettività sicura “punto-a-punto” per
l’IoT dedicato ai produttori di vino. La soluzione che nascerà da questo sodalizio permetterà di raccogliere i dati ambientali attraverso sensori e gateway connessi a un
servizio cloud, per poi usare tali informazioni per realizzare analisi predittive.
62
non è arrivata all’attenzione dei board di
direzione delle aziende. Nello studio si
analizzavano dodici diversi settori economici, ma se volessimo trasferire questa
riflessione a livello di singoli governi e di
singoli Paesi non avremmo troppe difficoltà. E anche per gli ecosistemi di innovazione e per le città vale lo stesso principio.
Nella corsa sempre più rapida dell’innovazione, chi si ferma è potenzialmente
perduto. Questa “iperconnettività”, intrecciandosi con altre occasioni legate alla
ESPERIENZE
Agostino Santoni
tecnologia (dal cloud ai Big Data, per arrivare al mobile), crea una nuova normalità
fatta di accelerazione, che si può affrontare soltanto con il supporto di una visione
del futuro collettiva, la quale ricomprenda
l’azienda e il suo pubblico, un territorio e
i suoi abitanti.
Come vorrei che fosse, tra cinque anni,
vivere nella città che amministro? Che
cosa vorrei offrire ai miei clienti, e in che
forma me lo chiederanno? Come possiamo
costruire innovazione insieme? Il futuro e
le opportunità della tecnologia nell’era
dell’Internet “di tutte le cose”, oggi mai
come prima assumono la forma di una
rete, e mai come prima mettono al centro
le persone quale snodo fondamentale. Le
persone ma anche le loro competenze,
perché se la tecnologia trasforma ogni
aspetto della vita è necessario essere
pronti a utilizzarla, a domarla, a indirizzarla verso i propri obiettivi. Insieme
alla capacità di elaborare una visione, le
competenze sono la chiave nascosta del
successo nell’affrontare l’impatto tecnologico.
Venti su venticinque dei profili professionali più ricercati dalle aziende nel 2016,
secondo una recente analisi fatta da LinkedIn e riportata dal World Economic
Forum, sono di area tecnologica. Con salti tecnologici che in cinque anni trasformano radicalmente lo scenario, chi inizia
oggi un corso di laurea quadriennale è
“matematicamente” già indietro.
Nel nostro Paese sappiamo che le difficol-
tà sono evidenti, soprattutto se guardiamo
alla realtà della piccola e media impresa,
proprio quella che corre il rischio più grande e che avrebbe le massime opportunità
dal crearsi una rivoluzione tecnologica
“su misura” per le proprie caratteristiche
e specificità. È una situazione complessa,
che però si può affrontare facendo delle
competenze digitali – oltre che dell’accesso alle risorse digitali – un nuovo terreno
comune di sperimentazione nella collaborazione fra un settore pubblico illuminato
e un settore privato che non teme la sfida
dell’innovazione.
Lavorando insieme a un ecosistema che
allinei sistema educativo, ricerca, condizioni favorevoli allo sviluppo di realtà innovative e il contributo di quelle imprese
che siano già più avanti nella strada della
digitalizzazione, a supporto di chi deve ancora intraprenderla, l’Italia non perderà il
treno del cambiamento. E ritroverà, anche
attraverso la tecnologia, quella capacità di
eccellere che già è stata sua in passato.
L’IOE AIUTA LA MEDICINA
L’Internet of Things, o meglio l’Internet of Everything (IoE), significa
anche salute: dalla telemedicina di
prima maniera alla raccolta dati direttamente sul corpo dei pazienti,
attraverso sensori connessi, fino ai
sistemi di monitoraggio a distanza.
La sanità in “formato digitale” è fatta
di esperienze come quella dell’Asl
dell’Alto Adige, che ha realizzato un
innovativo modello gestionale per la
cura dei pazienti oncologi. Appoggiandosi alla tecnologia di Telepresence di Cisco, l’azienda sanitaria ha
collegato sette presidi sul territorio,
permettendo a medici fisicamente
lontani tra loro di lavorare in tempo
reale sulla medesima cartella clinica e di condividere sessioni video
interdisciplinari per migliorare i percorsi terapeutici dei pazienti. Se bisognava scegliere tra fax e telefono
o spendere tempo per incontrarsi in
sede, oggi gli strumenti dell’IoE permettono di gestire in rete l’operatività e le informazioni.
63
ESPERIENZE
Alla scoperta dei rischi cyber
nascosti nelle nostre case
SECONDO LE STIME DI GARTNER,
QUEST’ANNO NEL MONDO SI SPENDERANNO 348 MILIONI DI DOLLARI
IN TECNOLOGIE E SERVIZI DI SICUREZZA PER L’IOT, E LA CIFRA SALIRÀ
A 840 MILIONI NEL 2020. I BUDGET
DA SOLI NON BASTERANNO: SI
DOVRANNO SUPERARE ERRORI
DI PROGETTAZIONE E DI GESTIONE
DEGLI OGGETTI CONNESSI.
TESTO DI VALENTINA BERNOCCO
P
erché i sogni dell’Internet delle cose
non si trasformino in incubi servono
strategie, investimenti, migliori conoscenze e un bel po’ di correttivi tecnologici. La strada è lunga, ma praticabile.
Pur con i distinguo necessari fra oggetti
molto diversi che rientrano nel calderone
dell’IoT – impianti industriali, centrali
elettriche, ma anche elettrodomestici,
sistemi di domotica, videosorveglianza e
dispositivi indossabili – in generale oggi
il livello di sicurezza è inferiore a quello
delle infrastrutture tecnologiche classiche, dei server, dei computer o degli
smartphone. E c’è un primo motivo: uno
strumento di protezione basilare, quale la
crittografia end-to-end dei dati, è ancora
scarsamente diffuso. Può dunque capitare, ed è capitato, che alcuni “connected
device” da usare in abbinamento a un’app
per lo smartphone vengano intercettati
per spiare gli utenti, catturare immagini
con la fotocamera oppure ottenere la password di una rete WiFi domestica (come
nel caso di un citofono smart che non proteggeva adeguatamente tale informazione
dallo sguardo degli hacker).
Un fondamentale contributo per un futuro più sicuro dovrà, dunque, arrivare
dai vendor di tecnologie e servizi per il
mondo connesso. Ma anche i destinatari
e i gestori dell’IoT dovranno cambiare approccio. Incredibilmente, se si pensa alla
delicatezza della materia trattata, gli impianti di produzione dell’energia non rappresentano un’eccezione positiva, anzi.
ASSICURAZIONI A RISCHIO DISRUPTION?
Le nuove tecnologie e la crescente domanda di servizi digitali possono fare saltare gli
schemi delle compagnie assicurative, chiamate a raccogliere una sfida lanciata dagli
attori emergenti di questo mercato, come le startup e l’universo fintech. È il messaggio,
forte, emerso dal “World Insurance Report 2016” di Capgemini, secondo cui la continua
evoluzione degli strumenti legati all’Internet of Things, combinata con i comportamenti e
le preferenze dei clienti della Generazione Y (i cosiddetti Millennials), impone un radicale
cambiamento ai tradizionali attori del mondo insurance. L’IoT e la prossima ondata di
innovazioni tecnologiche relative a ecosistemi intelligenti per la casa, device indossabili,
robot e automobili impongono un passaggio verso nuovi modelli di business e nuove
forme di interazione con i clienti. Nel mondo connesso, infatti, i dati raccolti dai sensori e dagli oggetti intelligenti aumenteranno la “risk transparency”, impattando sulle
dinamiche di offerta e di pricing, di governance e di controllo del rischio stesso. Eppure,
nonostante questa minaccia incombente, le società di assicurazione stanno oggi sottovalutando in modo significativo le modalità con cui le tecnologie connesse saranno
adottate. E non gioca certo a loro favore il fatto che quasi un Millennial su due (il 47%) si
dica propenso ad acquistare una nuova polizza direttamente da aziende “trainate dalla
tecnologia”, invece che da quelle convenzionali.
P.A.
64
Utilizzando il motore di ricerca Shodan,
per esempio, a vari ricercatori e in tempi
diversi è capitato di individuare sistemi
facilmente hackerabili. In più di un caso,
sia in Francia (a Tolosa) sia in Italia,
l’infrastruttura Scada di piccole centrali
idroelettriche è risultata tutt’altro che a
prova di intrusione. Per un hacker sarebbe
stato quindi possibile attivare o fermare
il generatore dell’impianto, mentre nella
centrale idroelettrica di Tolosa gli amministratori It non si erano premurati di
impostare una password di accesso alla
connessione di rete.
Secondo uno studio realizzato lo scorso
anno da Chatham House, un ente non
governativo britannico che si interessa di
politica estera, nemmeno sulle centrali
nucleari possiamo dormire sogni tranquil-
ESPERIENZE
ABITAZIONI PIÙ INTELLIGENTI
MA PIÙ FACILI DA ESPUGNARE
li. “Molti sistemi di controllo industriale”,
si legge nel report, “sono intrinsecamente insicuri, perché la misura di sicurezza
non sono state incluse nella progettazione iniziale”. Altri problemi sono il diffuso
utilizzo di software commerciali di terze
parti (convenienti dal punto di vista dei
costi, ma più soggetti al rischio di hackeraggio) e l’insufficiente preparazione tecnica del personale.
In questo scenario a tratti catastrofico c’è,
però, una buona notizia. Secondo recenti
stime di Gartner, in tutto il mondo la spesa per la “IoT security” salirà dagli attuali
348 milioni di dollari fino a 840 milioni nel
2020. L’incremento sarà inizialmente moderato, per poi accelerare a fine decennio
grazie a migliori competenze, cambiamenti organizzativi e offerte di servizi più
scalabili. Tra i settori, quelli più impegnati
nel rafforzamento della sicurezza saranno l’automotive e i trasporti su rotaia e
via aerea, il mondo delle fabbriche e gli
impianti agricoli. Ma per alimentare e far
crescere l’IoT applicato a diversi contesti
sarà necessario, dicono gli analisti, tenere
il passo con le esigenze di monitoraggio,
detenzione delle minacce, controllo degli
accessi e con altre necessità di sicurezza.
Non un’impresa da poco. La stessa Gartner, fra l’altro, ipotizza che nel 2020 oltre
un quarto degli attacchi informatici diretti
alle aziende coinvolgeranno l’Internet of
Things. A questa ascesa delle minacce,
però, non corrisponde un adeguato incremento dei budget di sicurezza aziendali,
che all’IoT dedicheranno appena il 10% in
più di quanto non facciano oggi.
Lavatrici, termostati, lampadine,
impianti di videosorveglianza e televisori: la connettività oggi pervade le nostre abitazioni. Portandosi
dietro, purtroppo, anche il rischio
di intrusioni cybercriminali. Fra i
novemila intervistati di un’indagine condotta da Vanson Bourne per
conto di Intel in diversi Paesi (l’Italia non è stata inclusa), il 66% si è
detto molto preoccupato che i dati
presenti nelle smart home possano
essere violati dai criminali informatici.
Vista la scarsa diffusione di sistemi
di crittografia “end-to-end” in molti
oggetti e servizi connessi, la preoccupazione è più che lecita. Qualora
anche le tecnologie di “encryption”
diventino la norma, non necessariamente saranno una barriera
inattaccabile. Sistemi intelligenti
oggi avanzatissimi ed elitari, come
i computer quantistici del Mit di Boston, stanno imparando a eseguire
calcoli complessi in meno tempo
e – in un futuro non specificato –
potranno trasformarsi in potenti
“macchine decrittografiche”.
A detta di Lori MacVittie, principal technical evangelist di F5 Networks, “si dovrebbe insistere sul
promuovere dei test di sicurezza
per ogni applicazione a cui l’oggetto può accedere in rete. Sia che si
trovi nel cloud sia nel data center,
l’applicazione deve essere testata
e protetta”. Un ulteriore aiuto potrà
arrivare dalle tecnologie di riconoscimento biometrico, oggi appena all’esordio. Fra gli intervistati
dell’indagine Vanson Bourne, tre
su quattro si sono detti preoccupati
dell’eccessivo numero di password
da memorizzare per gli oggetti e
i sistemi IoT delle smart home. In
alternativa, il 54% opterebbe per
l’autenticazione tramite impronta
digitale, il 46% per il riconoscimento vocale e il 42% per la scansione
dell’iride.
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ESPERIENZE
GLI INVESTITORI SONO ANCORA
POCHI MA IL MOVIMENTO DELLE
IMPRESE INNOVATIVE CHE
OPERANO NEL MONDO IOT
È IN FERMENTO. ANCHE OLTRE
I CONFINI NAZIONALI.
TESTO DI PIERO APRILE
Per le startup italiane una grande opportunità
C
ase intelligenti, auto connesse, smart
agriculture e smart city: questi gli ambiti di azione delle startup italiane
che operano nell’ecosistema Internet of
Things. Non sono moltissime (l’Osservatorio del Politecnico di Milano ne ha
recensite una quarantina, rispetto alle
350 attive su scala globale) e non sanno
attrarre neppure corposi finanziamenti
(su una raccolta mondiale di oltre cinque
miliardi di dollari) dagli investitori istituzionali. Anzi, tutt’altro. Solo una su sette
è stata interessata da operazioni oltre il
milione di euro e solo una su tre ha beneficiato di investimenti significativi. Ma il
dinamismo del fenomeno è tale, secondo
vari addetti ai lavori, da concedere di essere ottimisti.
Abitazioni residenziali e veicoli connessi
sono, in ogni caso, gli ambiti più vivaci: vi
guardano realtà come la bergamasca Almadom.us, le pisane Laqy e Wriggle Solutions, la romana CarMe. In particolare,
un terzo delle nuove imprese monitorate è
attivo in campo smart home, a conferma
della centralità acquisita dalla casa nell’ecosistema Internet of Things. Nomi sconosciuti al grande pubblico come iBebot,
che sviluppa soluzioni per il monitoraggio
dell’ambiente e della salute delle persone, Movibell, che spazia ad ampio raggio
nelle applicazioni di gestione remota degli
oggetti in ambito smart city, Sal Engineering e Melixa, specializzate in sistemi
intelligenti per l’agricoltura, Smart-I e
66
ParkSmart, impegnate nell’ambito della
mobilità sostenibile, concorrono a formare
una “community” che cerca opportunità e
spazi vitali di crescita in uno dei segmenti a maggior potenziale di tutto il mercato IoT. Non è un caso, infatti, che alcune
startup abbiano deciso di andare a cercare
(e trovare) fortuna fuori dai confini della
Penisola. Empatica, che opera dalle sedi
di Milano e Boston, è una di queste e ha
saputo raccogliere due milioni di dollari
negli Stati Uniti.
Non mancano, come detto, segnali incoraggianti di un’accelerazione interna,
come la maggiore consistenza degli investimenti indirizzati alle startup più giovani, a realtà come 1Control e Morpheos (nate entrambe nel 2015 e finanziate
rispettivamente con 500mila e 800mila
euro) o come Xmetrics e Over Technologies (capaci di catturare un milione di
euro nel 2014). Le recenti acquisizioni,
da parte di Intel e Microsoft, delle nostrane Yogitech e Solair sono un’ulteriore testimonianza che l’innovazione IoT
“made in Italy” proveniente dal basso ha
valore e può far breccia nel cuore delle
grandi multinazionali tecnologiche.
E non mancano, infine, progetti che
guardano all’esportazione delle tecnologie dell’Internet of Things nostrane. È
il caso di Ingdan Italia, joint venture
italo-cinese che nasce grazie all’interesse di Cogobuy, colosso della componentistica elettronica. In pochi mesi la
compagnia ha raccolto oltre un migliaio
di progetti relativi a soluzione hardware
ed è in procinto di portare quattro startup nella Shenzen Valley, una delle aree
di manufacturing più importanti al mondo in campo elettronico, per incontrare
i produttori locali, aziende della distribuzione e potenziali investitori. Ingdan
nasce come piattaforma per raccogliere
innovazione e mettere in connessione
startupper, maker e Pmi con la Cina, e ha
un obiettivo ambizioso: creare il primo
ecosistema hardware IoT europeo.
LA FAVOLA DI YOGITECH
Dalla provincia di Pisa alla Silicon Valley. La storia di Yogitech, azienda nata
nel 2000 e specializzata in sicurezza
funzionale in ambito industriale (rivolti
all’automotive, ai trasporti ferroviari
e al settore medicale) ha conosciuto
una svolta in aprile, quando è stata
ufficializzata la sua acquisizione da
parte di Intel, per una cifra non resa
nota. La società entrerà presto a far
parte dell’Internet of Things Group del
colosso di Santa Clara, ma la sede e il
team di lavoro resteranno in Italia. L’obiettivo a tendere è quello di sfruttare
la tecnologia e il know-how di Yogitech per realizzare componenti avanzati per i sistemi di guida autonoma e
assistita dei veicoli.
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