LE PROTEINE SIERICHE Importanza diagnostica del
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LE PROTEINE SIERICHE Importanza diagnostica del
LE PROTEINE SIERICHE Importanza diagnostica del tracciato elettroforetico delle proteine plasmatiche Nell’organismo umano le uniche proteine facilmente disponibili a scopo di studio sono quelle del sangue; nonostante costituiscano solo una piccola frazione di tutte le proteine presenti nell'organismo, esse sono estremamente importanti per il clinico, giacché le loro variazioni quantitative e qualitative possono fornire indicazioni molto utili ai fini diagnostici. Nel plasma umano sono presenti più di 100 proteine diverse, sintetizzate in massima parte dal fegato e, per una quota minore, dalle plasmacellule (immunoglobuline), dal sistema monocito/macrofagico (alcuni fattori del complemento) e dalle cellule della parete intestinale (alcune apolipoproteine). Nella diagnostica automatizzata di routine il dosaggio delle proteine del sangue viene effettuato preferenzialmente da campioni di siero, per evitare errori quantitativi dovuti alla presenza dei fattori della coagulazione; in condizioni normali, la concentrazione delle proteine sieriche varia tra 6 e 8 g/dl. Se le proteine diminuiscono si può pensare ad insufficienza epatica, nefrosi con permeabilizzazione dei capillari, malattie da malassorbimento o ridotto apporto dietetico. Per differenziare qualitativamente le proteine se ne valuta il profilo elettroforetico, con il quale si stratificano le proteine a seconda del diverso peso molecolare. L’elettroforesi consente di separare su un idoneo supporto solido (gel di agarosio o acetato di cellulosa) le proteine sieriche in base alla loro carica ed al loro peso molecolare. Le bande vengono poi colorate: l’intensità della colorazione è proporzionale alla quantità di proteine, e viene calcolata tramite densitometro. Dalla scansione densitometrica delle singole frazioni si ottiene un tracciato (profilo) in cui le singole bande sono rappresentate da picchi di diversa altezza e larghezza, la cui area è proporzionale al contenuto proteico delle rispettive frazioni Dalla separazione elettroforetica delle proteine sieriche si ottengono 5 frazioni principali che corrispondono, partendo dal polo anodico (carico positivamente) fino ad arrivare a quello catodico (carico negativamente): 1. albumina 2. α1 globuline 3. α2 globuline 4. β globuline 5. γ globuline 53 - 68% (3,2 - 5,6 g/dL) 2,4 - 5,3% (0,1 - 0,4 g/dL) 6,6 - 13,5% (0,4 - 1,2 g/dL) 8,5 - 14,5% (0,6 - 1,3 g/dL) 10,7 - 21% (0,5 - 1,6 g/dL) Rapporto albumina/globuline: 1,2 - 1,7 Le diverse specie proteiche che costituiscono una singola banda possono essere differenziate facendo reagire campioni di plasma con anticorpi policlonali specifici: i complessi antigene-anticorpo che si formano conferiscono al siero una leggera torbidità, che viene quantificata mediante determinazione nefelometrica. Per la determinazione di basse concentrazioni proteiche si ricorre a tecniche più sensibili (tecniche immunometriche) basate sull’uso di anticorpi monoclonali e di specifici indicatori, o traccianti, capaci di rivelare la presenza di complessi antigene-anticorpo: le tecniche più utilizzate a questo scopo sono i metodi enzimo-immunometrici, che utilizzano enzimi come traccianti. Albumina: è la proteina ematica a più elevata concentrazione (tra 3,6 e 5,3 g/L) ed è pertanto la 1 principale responsabile della pressione oncotica del plasma; è un carrier per sostanze insolubili in acqua (bilirubina, NEFA), ormoni (tiroxina, triiodiotironina, cortisolo, aldosterone), farmaci (salicilati, warfarina, clofibrato, fenilbutazone) e ioni (il 40% del calcio sierico), oltre a rappresentare una riserva di aminoacidi a scopo nutrizionale. Ha emivita di 14-20gg. La sua degradazione avviene a livello renale, epatico e intestinale La sua concentrazione plasmatica viene utilizzata principalmente come indice di funzionalità epatica e dello stato nutrizionale: l’albuminemia diminuisce inoltre nelle nefropatie con proteinuria, nelle ustioni, e nelle enteropatie protido-disperdenti; la riduzione dei suoi livelli plasmatici costituisce un elemento caratterizzante la “risposta della fase acuta”. Prealbumina o transtiretina: non è precursore dell’albumina ma è così chiamata perché migra davanti alla albumina; è sintetizzata dal fegato ed è presente nel siero e nel liquor, dove costituisce una delle componenti proteiche maggiori. Trasporta tiroxina (trans-ti-retina) e la RBP (Retinol Binding Protein); svolge principalmente una funzione di trasporto per aminoacidi, enzimi, farmaci, ormoni e vitamine; ha una emivita di 2 giorni e, per questo motivo, rappresenta un indice di funzionalità epatica e/o dello stato nutrizionale più precoce rispetto all’albumina. Come l’albumina, i suoi livelli plasmatici si riducono durante la “risposta della fase acuta”. Alfa-1 globuline: • Alfa1-antitripsina: circa il 90% del picco delle α1-globuline è costituito dalla α1-antitripsina (AAT); la AAT è una anti-proteasi che si lega alla tripsina e ad altri enzimi proteolitici (quali elastasi, collagenasi, chimotripsina, plasmina e trombina), inattivandoli: è una proteina della fase acuta il cui ruolo fisiologico consiste nel controllare l’azione istolesiva degli enzimi liberati dai leucociti (polimorfonucleati neutrofili) nel corso dei processi infiammatori Il deficit di AAT può causare enfisema polmonare e epatopatia: la patologia polmonare si manifesta nella 3a - 4a decade di vita ed è provocata dalla mancata inibizione della elastasi rilasciata dai leucociti in risposta alla presenza di agenti irritanti (quali il fumo) nelle vie respiratorie, con conseguente azione distruttiva dell’enzima sul parenchima polmonare; la malattia epatica si manifesta invece in età pediatrica con una epatite cronica che può evolvere in cirrosi e in epatocarcinoma, conseguente all’accumulo nel reticolo endoplasmatico degli epatociti di una forma di proteina mutata che non riesce ad essere trasferita all’apparato del Golgi e quindi eliminata dalla cellula. Il deficit di α1-antitripsina si trasmette come carattere autosomico recessivo; ha una incidenza di 1/2000-4000 nati vivi, che la pone tra le più comuni malattie genetiche gravi. Sono note più di 75 varianti del gene (localizzato in 14q32.1), classificate con un codice a lettera dalla A alla Z, delle quali più di 20 determinano variazioni rilevanti nella funzionalità dell’enzima: ◦ la variante M, presente in omozigosi in più del 90% della popolazione europea, è associata a normali valori dell’enzima. ◦ la variante Z determina in omozigosi una riduzione dei livelli di enzima circolante dell’8590%: questi pazienti hanno un elevato rischio di sviluppare la patologia polmonare e nel 20% dei casi sviluppano una epatopatia; in eterozigosi (MZ) la riduzione dell’enzima è solo del 50% e mancano le manifestazioni cliniche. ◦ la variante S determina in omozigosi una riduzione dell’enzima del 40% senza manifestazioni cliniche, mentre causa enfisema polmonare solo quando in eterozigosi con Z in soggetti fumatori ◦ la variante Null, molto rara, è associata in omozigosi alla totale assenza dell’enzima e, quindi, ad un elevatissimo rischio di sviluppare la patologia polmonare • Alfa1-glicoproteina acida (o orosomucoide): la sua funzione non è stata ancora perfettamente compresa: le omologie nella sequenza aminoacidica con le immunoglobuline suggeriscono un suo ruolo ancestrale nel sistema immunitario; è una proteina della fase acuta che aumenta in 2 • • particolare in corso di malattie autoimmuni quali LES e AR; è inoltre un inibitore del progesterone. Alfa1-fetoproteina: è una albumina fetale sintetizzata nel sacco vitellino e, a partire dal 4°mese di gravidanza, dal fegato fetale; dall’8° mese la sua concentrazione sierica decresce rapidamente, consensualmente ad una aumenta produzione di albumina. Durante la gravidanza un suo aumento indica difetti del tubo neurale, spina bifida o gravidanza gemellare, mentre una sua riduzione è associata alla sindrome di Down. In età adulta il suo aumento è associato alla presenza di epatocarcinoma.. Alfa-lipoproteine (HDL). Alfa-2 globuline: • Alfa2-macroglobulina: è una anti-proteasi molto aspecifica e molto potente, che interviene nella regolazione dei processi emocoagulativi (come la α2-antiplasmina inibisce l’azione fibrinolitica della plasmina sulla fibrina, legandosi ad essa) e della risposta immunitaria, oltre a veicolare ormoni quali il somatotropo e l’insulina. Il suo ruolo fisiologico è così importante che non sono mai stati descritti deficit congeniti, probabilmente incompatibili con la vita. Ha peso molecolare molto alto (800.000) e, come dimensione, è seconda solo alle IgM: pertanto, anche nei casi di grave proteinuria (sindrome nefrosica) non si perde con le urine, ma rimane nel siero, determinando un tracciato elettroforetico caratteristico. Non è una proteina della fase acuta. • Aptoglobina: è una proteina della fase acuta in grado di combinarsi con l'emoglobina libera rilasciata nel plasma in seguito ad emolisi intravascolare: i complessi aptoglobina-emoglobina vengono rimossi dal plasma in pochi minuti ad opera del sistema reticoloendoteliale, dove vengono metabolizzati in aminoacidi e ferro; l’aptoglobina è pertanto fisiologicamente preposta a prevenire le perdite urinarie di emoglobina (e quindi di ferro) che si determinerebbero nei casi di emolisi intravascolare. Nelle emolisi intravascolari i livelli ematici di aptoglobina risultano ridotti; l’aptoglobina aumenta, invece, in corso di neoplasie, traumi e processi infiammatori. • Ceruloplasmina: lega e trasporta il rame; se manca (morbo di Wilson) il rame si accumula in cervello e prostata. È una proteina di fase acuta. • Alfa2-antiplasmina: inibisce la plasmina. È una proteina di fase acuta. • Pre-beta2 lipoproteine (VLDL). Beta-globuline: • Transferrina (β1): (proteina negativa della fase acuta) è la proteina deputata al trasporto del ferro nel plasma; nelle anemie sideropeniche i livelli plasmatici di transferrina aumentano (per meccanismo compensatorio) dando origine ad un modesto picco nella regione β • C3 del complemento (β2): (proteina della fase acuta) • Antitrombina III: (proteina della fase acuta) inibisce la cascata coagulativa agendo principalmente sul fattore II (trombina) e sui fattori IX, X, XI e XII • Beta-lipoproteine (LDL) Gamma-globuline: • Immunoglobuline: IgG, IgA, IgM (e, meno rappresentate in condizioni normali, IgD ed IgE); IgA è a cavallo con le β globuline; aumentano nelle infiammazioni. • Fibrinogeno (fattore I della coagulazione): tra i fattori della coagulazione è quello a più elevata concentrazione plasmatica (200 - 400 mg/dL); si riscontra a cavallo con le beta-globuline dopo separazione delle proteine plasmatiche, mentre risulta assente quando l’elettroforesi viene condotta sulle proteine sieriche. • Proteina C reattiva: (proteina della fase acuta, classificata da alcuni tra le β globuline) così denominata perché capace di legare il polisaccaride C della parete cellulare dello Streptococcus 3 Pneumoniae; in realtà è in grado di legare molti altri polisaccaridi appartenenti a batteri, protozoi e parassiti, oltre che fosfolipidi e sfingolipidi di membrana, cromatina ed istoni; una volta complessata, la PCR attiva la via classica del complemento attraverso il fattore C1q; promuove inoltre la clearance di detriti tessutali ed è ritenuta essere una opsonina. Alterazioni e patologia: • infiammazione acuta o lesioni distruttive (neoplasie estese, necrosi ischemiche, traumi, ustioni): aumento delle α2-globuline (aptoglobina) e, in misura minore, delle α1-globuline (1-antitripsina) • infiammazioni croniche: aumento “a base larga” del picco delle γ globuline associato ad un moderato aumento delle α2-globuline • epatopatia cronica: aumento “a base larga” del picco delle γ globuline attraverso l’ingresso nel circolo sistemico di sangue enterico portatore di Ig ed inversione del rapporto albumina/globuline per diminuzione dell'albumina • sindrome nefrosica (proteinuria elevata, ipoabuminemia, edemi generalizzati, iperlipemia e ipercolesterolemia): riduzione della albumina con aumento delle α2-globuline (α2-macroglobulina e pre-β-lipoproteine) e delle β-globuline (β-lipoproteine) • ipo/agammaglobulinemia: si appiattisce o scompare il picco gamma • anemia sideropenica: modesto aumento delle β-globuline per un aumento della transferrina • gammopatia monoclonale: presenza di un picco “a base ristretta” nella zona delle γ-globuline • deficit di α1-antitripsina: riduzione / scomparsa del picco delle α1-globuline Importanza diagnostica delle proteine della fase acuta e della VES Il termine “fase acuta” si riferisce all’insieme degli eventi sistemici che accompagnano l’infiammazione acuta, costituiti principalmente da febbre, anoressia, leucocitosi, aumentata sintesi di alcuni ormoni (quali ACTH, cortisolo, adrenalina) e variazione dei livelli ematici di alcune proteine sintetizzate dal fegato, definite “proteine della fase acuta”; mentre sono risposte locali la vasodilatazione, l’aggregazione piastrinica, etc. La fase acuta è sostenuta e regolata da mediatori chimici liberati dal sito o dai siti della infiammazione, che hanno come bersaglio specifici recettori posti su cellule distanti dal luogo della loro secrezione. La risposta della fase acuta è veloce, efficace, standardizzata e caratteristicamente aspecifica; essa viene infatti attivata da svariate condizioni che producono una lesione o uno stress tessutale, quali quelle che si determinano in corso di infezioni, reazioni immuno/allergiche, ipossia, infarti, traumi, ustioni, interventi chirurgici, neoplasie maligne ed altre. Si definiscono proteine della fase acuta tutte le proteine la cui concentrazione plasmatica aumenta almeno del 25% durante un processo infiammatorio. Le proteine della fase acuta sono prodotte dal fegato e la loro sintesi epatica è mediata principalmente dalla IL-6 liberata nel luogo dell’infiammazione da cellule immunitarie e non-immunitarie, inclusi fibroblasti, macrofagi, cellule epiteliali ed endoteliali; la produzione di IL-6 è indotta a sua volta dalla IL-1 liberata dai macrofagi attivati dai linfociti T helper e dal TNFα prodotto anch’esso dai macrofagi. Le proteine plasmatiche che, secondo questi criteri, possono essere incluse tra le proteine della fase acuta sono oggi più di trenta: alcune (fattori del complemento, PCR) sono opsonine e fattori chemiotattici per neutrofili e macrofagi; altre (α1-antitripsina, α1-antichimotripsina) sono antiproteasi che neutralizzano le proteasi liberate da neutrofilli e macrofagi; altre (fibrinogeno) sono fattori della coagulazione che bloccano le emorragie, contribuiscono ad intrappolare i microrganismo nel focolaio infiammatorio e promuovono la guarigione delle ferite; altre (aptoglobina, emopessina, ceruloplasmina) sono degli “spazzini” (scavengers) dei residui dei processi distruttivi in quanto hanno azione antiossidante e riducono i livelli dei radicali liberi dell’ossigeno che si liberano dalla reazione infiammatoria; altre (proteina C reattiva) si legano a particelle estranee o a detriti cellulari e ne promuovono la clearance, contribuendo ad eliminare materiale che potrebbe fare persistere l’infiammazione e produrre reazioni 4 autoimmunitarie contro antigeni nucleari; altre (emopessina, ceruloplasmina) sono proteine leganti metalli che prevengono perdite di ferro trasportandolo alle cellule del sistema reticolo endoteliale e sottraendolo così ai batteri. • • • • • • • • • • • • • α1 glicoproteina acida α1 antitripsina α1 antichimotripsina amiloide A sierica (SAA) [famiglia di apolipoproteine che si legano alle HDL dopo la loro sintesi ed hanno la capacità di influenzare il metabolismo del colesterolo durante il processo infiammatorio: la persistente produzione di SAA nell'infiammazione cronica può portare allo sviluppo di alcuni tipi di amiloidosi] α2 antiplasmina α2 macroglobulina aptoglobina (α2) antitrombina III (β) ceruloplasmina (α2) C3 (β2) plasminogeno (β2) PCR (β / γ) fibrinogeno (β / γ) Più recentemente sono state identificate una serie di proteine plasmatiche la cui concentrazione ematica tende a ridursi durante un processo infiammatorio; tali proteine, denominate “proteine negative” della fase acuta, sono costituite da: • albumina • transtiretrina • α1 fetoproteina • retinol binding protein (α2) • transferrina (β1) • Fattore XII (β) Il significato della riduzione di queste proteine durante la fase acuta della risposta ed i meccanismi che ne regolano le variazioni plasmatiche non sono stati ancora perfettamente chiariti. Proteina C reattiva (PCR): per le sue caratteristiche costituisce la proteina plasmatica che meglio si adatta ad una valutazione diretta e quantitativa della risposta della fase acuta; è prodotta dal fegato sotto stimolo di IL-6, in assenza di infiammazione la sua concentrazione ematica è bassa (intorno ad 1 mg/dl, e comune mai superiore a 10 mg/dl), e non dipende né dell’età né da altri fattori individuali; ha una emivita breve (< 24 ore) ed una velocità di eliminazione dal sangue costante, pertanto la sua concentrazione plasmatica dipende esclusivamente dalla entità della sintesi epatica; il suo aumento si osserva 6-8 ore dopo il danno tessutale e procede in maniera esponenziale, raddoppiando ogni 8-9 ore e raggiungendo il picco massimo dopo 48 ore, con valori anche centinaia di volte superiori a quelli di riferimento; i livelli rimangono elevati durante la fase acuta e ritornano rapidamente alla normalità con l’esaurirsi del processo infiammatorio; alti livelli relativamente costanti sono da correlare con neoplasie, epatiti croniche, febbre reumatica; pochi sono i processi patologici che non producono un incremento (elevato o modico) dei livelli plasmatici di questa proteina. L'alternativa di laboratorio può essere la SAA che però decresce un po' più lentamente. Fibrinogeno: glicoproteina di 340 Kda, fino a 180-350 mg/dL, emivita 4gg. Aumenta nelle infiammazioni, con il fumo, la gravidanza, e i contraccettivi orali; diminuisce per 5 epatopatie o CID. Più che valutare direttamente il fibrinogeno, visto che questo influenza la VES si valuta quest’ultima. VES (velocità di erìtrosedimentazione): la distanza tra il livello superiore del plasma e l’inizio degli eritrociti sedimentati è la VES. V.n.: < 15 ♂, < 20 ♀ (con un incremento durante il periodo mestruale); aumenta dopo i 50aa: < 20 ♂, < 30 ♀. Quando una colonna di sangue, addizionato di sodio citrato per non far coagulare, viene lasciata in posizione verticale, gli eritrociti sedimentano verso il fondo attratti dalla forza gravitazionale, in quanto la loro densità è superiore a quella del plasma. La VES misura la velocità di sedimentazione delle emazie nel plasma in cui sono sospese, esprimendola come distanza dopo un’ora, in millimetri, (mm/h) tra il livello iniziale del sangue e la parte superiore della colonna di eritrociti sedimentati in un campione posto verticalmente in un tubo di vetro di 20 cm con Ø 2,8 mm, a temperatura ambiente. La velocità di sedimentazione degli eritrociti si può calcolare applicando la legge di Stokes; tale legge si riferisce a particelle ideali sferiche, alle quali possiamo comunque approssimare la morfologia degli eritrociti. 2 V= 2 r d 1 −d 2 g 9η dove V = velocità di sedimentazione; r = raggio delle particelle sferiche; d1 = densità delle particelle sferiche; d2 = densità del fluido di sospensione; g = accelerazione di gravità; η = viscosità del liquido. La VES è quindi direttamente proporzionale alla massa degli eritrociti ed inversamente proporzionale al loro numero e alla viscosità del sangue; in condizioni normali le emazie mostrano una scarsa predisposizione alla aggregazione in quanto le forze che favoriscono la loro coesione (forze di Van der Waals) sono superate dalle cariche negative delle membrana cellulare (potenziale Z), che tendono alla repulsione; gli eritrociti precipitano quindi solo per il loro peso. Alcune delle proteine prodotte dal fegato durante un processo infiammatorio diminuiscono la naturale repulsione elettrica degli eritrociti, favorendone l’aggregazione (formazione di rouleaux) ed aumentandone la massa e la velocità di sedimentazione. Le proteine che maggiormente causano aggregazione dei globuli rossi sono il fibrinogeno (per le sue caratteristiche strutturali fortemente asimmetriche e la presenza di cariche positive), le IgM, le IgG ed, in misura minore, tutte le altre globuline, mentre l’albumina e la prealbumina ritardano l’aggregazione eritrocitaria. La VES aumenta parallelamente al fibrinogeno e non è dunque direttamente indicativa di patologia; può però fungere da campanello d’allarme per • infiammazioni • stati febbrili • anemie • malattie infettive • tumori maligni • epatopatie acute e croniche • leucemie acute e croniche • macrocitosi • disprotidemie • affezioni renali • allergie • gravidanza • età > 50 anni Essendo strettamente dipendente dalla concentrazione ematica delle proteine della fase acuta, la VES rappresenta una misura “indiretta” della fase acuta della risposta; inoltre: • è poco standardizzata • è dipendente dall’età del paziente • è dipendente da parametri eritrocitari (numero e dimensione) e dalla viscosità del sangue 6 • • si modifica con una certa latenza rispetto all’inizio e alla fine della fase acuta presenta una ampiezza di valori ristretta Il valore clinico della VES risiede comunque nel fatto che essa costituisce un metodo semplice ed a buon mercato per la valutazione dei processi infiammatori e di altri processi patologici; nella pratica clinica, la misura della VES viene applicata con tre principali finalità: • rivelare la presenza di processi infiammatori per i quali esiste già un sospetto o una evidenza clinica • controllare il decorso o lo stato di attività di una malattia infiammatoria cronica • individuare condizioni neoplastiche o infiammatorie occulte E’ estremamente improbabile che una VES alterata possa associarsi ad uno stato di buona salute. 7 L'EMOSTASI Il termine emostasi comprende tutti i meccanismi fisiologici che l'organismo mette in atto per evitare perdite di sangue. Grazie alla funzione emostatica l'organismo può fare cessare il sanguinamento di una ferita, pur mantenendo nello stesso tempo la necessaria fluidità del sangue nel compartimento intravascolare; un'insufficiente emostasi porta alla emorragia, mentre l'incapacità di mantenere il sangue fluido porta alla trombosi. Attualmente è assai più facile caratterizzare laboratoristicamente i difetti che causano emorragia piuttosto che quelle situazioni, potenzialmente curabili, che predispongono alla trombosi. L’emostasi fisiologica richiede una complessa serie di interazioni tra glicoproteine plasmatiche, piastrine circolanti e cellule dell’endotelio vascolare: la distinzione tra emostasi primaria e secondaria deve pertanto essere considerata solo come uno strumento esplicativo, in quanto le diverse fasi del processo emostatico e fibrinolitico sono strettamente interdipendenti e non rigidamente sequenziali; allo stesso modo, la distinzione in via intrinseca e via estrinseca della cascata coagulativa appare più un artificio didattico in quanto esistono una serie di feedback che rendono le due vie strettamente interconnesse tra loro. Il processo emostatico inizia quando il sangue viene a contatto con sostanze diverse da quelle presenti sulla superficie endoteliale delle pareti dei vasi: è costituito da una fase primaria e da una fase secondaria: • l’emostasi primaria consiste nella rapida formazione di un agglomerato di piastrine, chiamato tappo emostatico primario, nella zona della lesione; avviene in pochi secondi ed è fondamentale per arrestare la fuoriuscita di sangue dai vasi capillari e dalle venule • l’emostasi secondaria porta, per attivazione del sistema della coagulazione, alla formazione della fibrina, i cui filamenti rafforzano il tappo emostatico primario, dando origine al tappo emostatico secondario; richiede alcuni minuti ed è importante soprattutto per bloccare la fuoriuscita del sangue dai vasi di calibro maggiore I. Emostasi primaria L’emostasi primaria è caratterizzata dalla formazione del tappo emostatico primario, costituito principalmente da piastrine. Le piastrine (Ø 1 – 4 µm, spesse 1 µm, 150.000 - 400.000 per µL, vita media 10 – 12 gg) sono prodotte per frammentazione del citoplasma dei megacariociti midollari, e vengono rimosse da parte dei fagociti mononucleati del sistema reticolo-endoteliale; presentano un sistema di invaginazioni della membrana, il sistema canalicolare aperto, costituito dalla membrana plasmatica trilaminare che, invaginandosi profondamente all’interno della cellula, aumenta notevolmente la superficie di contatto con l’ambiente esterno; il sistema è avvolto da un un glicocalice contenente specifiche glicoproteine recettoriali (Gp Ia, IIa, IIIa, Ib, IIb), nonché recettori per trombossano e trombina. Inoltre presentano un sistema tubulare denso costituito dal reticolo endoplasmatico liscio derivato da quello del megacariocita di origine, in stretto contatto con il sistema canalicolare aperto, all’interno del quale si svolgono funzioni biochimiche fondamentali quali il trasporto del calcio ed il metabolismo dell’acido arachidonico e dell’AMP ciclico. All’interno si osservano: • un complesso sistema citoscheletrico costituito da microtubuli e microfilamenti localizzati principalmente nella regione equatoriale • granuli alfa, contenenti proteine adesive (fattore di vonWillebrand, fibronectina, trombospondina); fattori della coagulazione (fibrinogeno, fattore V, HMWK); inibitori della fibrinolisi (PAI-1, α1-antiplasmina); sostanze ad azione antieparinica (β-tromboglobulina, fattore piastrinico 4); modulatori di crescita (PDGF, TGF-β) • granuli densi, contenenti ATP/ADP, Ca2+, fosforo e serotonina 8 La reazione piastrinica viene attivata dal contatto delle piastrine stesse con la matrice extracellulare esposta a seguito della perdita di cellule endoteliali, e può essere schematizzata in tre fasi principali: 1. adesione delle piastrine al connettivo sottoendoteliale esposto (collagene, proteoglicani, fibronectina) mediante i recettori Ia e IIa appartenenti alla famiglia delle integrine: i recettori GpIa e GpIIa consentono alle piastrine di legarsi direttamente al collagene con un legame però poco stabile, mentre i recettori GpIb consentono alle piastrine di legarsi al collagene per interposizione del vWF : si ha lo shape change da forma discoidale a forma sferica con protrusione di pseudopodi. Si ha così l’adesione del monostrato. 2. attivazione delle piastrine, indotta dal contatto di collagene, trombossano A2 (TXA2) e trombina con specifici recettori della membrana piastrinica, ha come esito la liberazione di una serie di sostanze contenute nei granuli piastrinici o neosintetizzate dalle piastrine stesse; tali sostanze comprendono molecole ad attività vasocostritrice e/o pro-aggregante (serotonina, TXA2, ADP, Ca++), fattori della coagulazione (fibrinogeno, fattore V) ed inibitori della fibrinolisi (PAI-1, α2antiplasmina). In questa fase si ha anche l’espressione in superficie del complesso fosfolipidico (FP3) che fornisce il sito di nucleazione critico per il legame del calcio e dei fattori della coagulazione : • PLC: DAG + IP3 → contrazione dei filamenti e degranulazione ◦ liberazione ADP ◦ Liberazione serotonina → vasocostrizione ◦ Liberazione Ca2+ ◦ Fattore piastrinico di crescita → proliferazione endotelio e muscolo. • PLA2: stacca l’ac. grasso in posizione 2 (a. arachidonico), che, aggredito dalla ciclossigenasi, libera PgG2 e PgH2, dalle quali è prodotto il trombossano A2, che vasocostringe ed attiva le piastrine analogamente al collagene. 3. aggregazione mediata principalmente dall’ADP liberato dai corpi densi: l’ADP modifica infatti la conformazione del complesso recettoriale glicoproteina (Gp) IIb/IIIa, rendendolo in grado di legare il fibrinogeno. Il fibrinogeno è un cofattore importante di questa fase in quanto si interpone a ponte tra i complessi GpIIb/IIIa consentendo la formazione di grandi aggregati piastrinici; il legame tra fibrinogeno e complessi recettoriali GpIIb/IIIa viene poi stabilizzato dal cross-linking della trombospondina liberata dai granuli α delle piastrine. Il trombossano A2 (TXA2), oltre ad essere un potente agente vasocostrittore, è un importante attivatore della aggregazione piastrinica; i trombossani derivano dalla via ciclossigenasica del metabolismo dell’acido arachidonico che si libera dalla membrana delle piastrine per azione delle fosfolipasi attivate dal legame tra ADP e lipidi di membrana. L’enzima ciclossigenasi viene inibito dall’acido acetilsalicilido e da tutti gli altri farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS): l’inibizione della sintesi di TXA2 da parte di questi farmaci è una causa comune di sanguinamento nei pazienti trattati e rappresenta il presupposto per l’azione di alcuni farmaci antiaggreganti. La trombina provoca la contrazione delle piastrine, che si saldano. Il processo viene limitato soprattutto dall’endotelio sano, che libera PGI 2 (prostaciclina) e NO che impediscono l’aggregazione; PGI2 è anche antiattivante, svolgendo azione opposta al TXA 2. Vengono liberati in seguito all’azione della trombina sull’endotelio. Il tappo primario è sufficiente a bloccare l’emorragia nei piccoli vasi. Patologie della fase 1 (adesione) Malattia di von Willebrand: è la patologia coagulativa ereditaria più frequente al mondo, con una prevalenza di circa 8 pazienti ogni 1000 abitanti (l’emofilia ha una prevalenza di 1/10.000 maschi). È provocata dal deficit quantitativo o qualitativo del fattore di von Willebrand conseguente a mutazioni del gene codificante il fattore, localizzato sul cromosoma 12. Si trasmette secondo una modalità autosomica dominante a penetranza 9 incompleta (solo in rari casi recessiva). A seconda della mutazione, le manifestazioni cliniche possono essere estremamente variabili: in un numero non trascurabile di pazienti la malattia può restare del tutto asintomatica, mentre i casi severi (che presentano emorragie articolari o interne) sono rari (circa 1,5 soggetti / milione di abitanti). Nei pazienti sintomatici, le manifestazioni cliniche più caratteristiche sono costituite da ecchimosi ed ematomi non proporzionali all'intensità del trauma, epistassi, gengivorragie e mestruazioni abbondanti (l’adolescente danese che giunse all'osservazione di von Willebrand nel 1926 morì di metrorragia in occasione del suo quarto ciclo mestruale): inoltre, a seguito di situazioni chirurgiche od odontoiatriche anche non particolarmente impegnative (tonsillectomia, appendicectomia, estrazioni dentali), i pazienti manifestano sanguinamenti eccessivi e prolungati. La diagnosi si basa sul riscontro dell’allungamento del tempo di sanguinamento e dell’aPTT (con PT normale), oltre che sul dosaggio del fattore di von Willebrand. Il test di aggregazione piastrinica con ristocetina risulta alterato, mentre si ha aggregazione con agonisti naturali (ADP e altri). Sindrome di Bernard Soulier: E’ una patologia molto rara (colpisce un individuo su un milione) provocata dal deficit quantitativo o qualitativo della glicoproteina Ib (denominata, con termine più aggiornato, GPIb-V-IX ) conseguente a mutazioni dei geni che codificano per le quattro subunità del complesso recettoriale, GPIbα, GPIbβ, GPV e GPIX, localizzati, rispettivamente, sui cromosomi 17p12, 22q11.2, 3q29 e 3q21. Si trasmette secondo una modalità autosomica recessiva manifestandosi clinicamente in omozigosi, spesso in figli di genitori consanguinei. E’ anche nota una forma di malattia trasmessa per via autosomica dominante. La triade diagnostica è costituita da: 1. sindrome emorragica che si presenta nella infanzia/adolescenza con le stesse manifestazioni descritte nella sindrome di von Willebrand (principalmente epistassi, gengivorragie, menorragie ed emorragie post-traumatiche o chirurgiche); 2. piastrinopenia; 3. presenza di piastrine giganti a livello del sangue periferico. La diagnosi si basa sul riscontro di piastrinopenia, piastrine giganti ed allungamento del tempo di sanguinamento, oltre che sulla determinazione della espressione del complesso recettoriale GPIb-V-IX. Come nella sindrome di von Willebrand, il test di aggregazione con ristocetina è alterato, mentre l’aggregazione con ADP o con altri agente aggreganti naturali (collagene, epinefrina o trombina) risulta normale. Patologie della fase 3 (aggregazione) Tromboastenia di Glanzmann: patologia rarissima (nel 1995 si conoscevano solo 200 casi al mondo!) provocata dal deficit quantitativo o qualitativo della glicoproteina IIb /IIIa conseguente alla mutazione dei geni che codificano per il complesso recettoriale (dimero), localizzati sul cromosoma 17. Si trasmette secondo una modalità autosomica recessiva, manifestandosi clinicamente in omozigosi spesso in figli di genitori consanguinei. Le manifestazioni cliniche sono le stesse che si osservano nelle altre condizioni in cui è presente un deficit della funzione piastrinica: sanguinamenti cutanei o mucosi in seguito a traumi minimi che si presentano nella infanzia/adolescenza, epistassi, gengivorragie, menorragie ed emorragie post-traumatiche o chirurgiche. La diagnosi si basa sul riscontro di un tempo di sanguinamento prolungato con tempi di coagulazione (aPTT e PT) normali e normale conta e morfologia delle piastrine. Contrariamente alle sindromi di von Willebrand e di Bernard Soulier, nella tromboastenia di Glanzmann i test di aggregazione sono alterati con tutti gli agenti aggreganti naturali (ADP, collagene, epinefrina o trombina), mentre risulta normale il test con la ristocetina. La 10 diagnosi viene completata dalla misurazione dei livelli di GPIIb/IIIa, di GPIIb e IIIa separatamente, e del legame con il fibrinogeno utilizzando anticorpi monoclonali specifici mediante citometria a flusso o tecniche di immunoblotting. II. Emostasi secondaria A seguito del danno vascolare, le cellule endoteliali sintetizzano fattori che, in sinergia con fattori prodotti dalle piastrine, attivano la cascata coagulativa. Tale cascata consiste in una serie di conversioni di proenzimi inattivi in enzimi attivi secondo il seguente schema: un enzima (il fattore attivato) agisce su un substrato (il fattore successivo nella forma non attiva) in presenza di un cofattore che accelera la reazione. Queste tre componenti fondamentali sono assemblate sul complesso fosfolipidico (FP3) espresso sulla superficie delle piastrine e tenute assieme dagli ioni calcio. Il processo è detto coagulazione, ed è catalizzato dai fattori della coagulazione, glicoproteine di provenienza epatica presenti nel sangue in forma inattiva; al termine della cascata enzimatica si ha, tramite il fXa (in presenza di fV), l’attivazione della protrombina in trombina: questa stacca al fibrinogeno i fibrinopeptidi A e B consentendo l’aggregazione della fibrina in polimeri uniti tra loro dal fattore XIII (via comune). Trombina e fibrina consolidano il tappo emostatico piastrinico (tappo emostatico secondario o definitivo), conferendogli stabilità e resistenza alle sollecitazioni pressorie. 1) via intrinseca, dovuta a componenti presenti nel VIA INTRINSECA sangue Superficie Nel sangue si trova il complesso fXII – HMWK – PK - fXI (HMWK: chininogeno ad alto PM; PK: precallicreina); al XII XIIa HMWK contatto con sostanze normalmente non presenti (es. XI XIa PK collagene, vetro…) il fXII si attiva, attivando a sua volta IX IXa FT + VIIa la callicreina che completa l’attivazione di fXII VIII • fXI → fXIa Ca ++ FP3 ++ • fXIa attiva fIX, che in presenza di calcio, Ca X Xa fosfolipidi e fVIII agisce su fX. proteina C attivata proteina S • HMWK → chinine V FP3 • plasminogeno → plasmina. ++ VIA ESTRINSECA Danno tessutale fattore tessutale FT (tromboplastina) VII attivazione inibizione AT III Ca 2) via estrinseca, attivata dalla liberazione di FT La lesione endoteliale provoca il rilascio di fattore tissutale o tromboplastina, che attiva il fVII; insieme, in presenza di calcio, vanno ad attivare il fX. trombomodulina II (protrombina) IIa (trombina) XIII, Ca ++ I (fibrinogeno) ENDOTELIO fibrina solubile fibrina insolubile Questa suddivisione, tuttavia, non è valida in vivo: in realtà, infatti, la via intrinseca riveste una importanza solo minimale, e, per quanto riguarda la via estrinseca, il fVIIa non va ad attivare direttamente il fX a causa di un inibitore di tale reazione: fVIIa attiva invece il fIX, che attiva il fX. contatto del sangue circolante con il fattore tessutale XI XIa IX complesso FT + VII + VIIa IXa VIII X Xa V protrombina trombina fibrinogeno fibrina 11 Il fibrinogeno è costituito da due metà simmetriche formate da tre catene peptidiche (Aα, Bβ e γ) legate da ponti disolfuro; al M.E. appare in forma trinodulare con dominio centrale (E) che contiene le parti amminoterminali delle catene, legate dai ponti, e due domini carbossiterminali D. La trombina stacca i fibrinopeptidi A e B, e il monomero di fibrina residuo si lega D-E ad un altro; il dimero a sua volta si unisce ad altri a formare il polimero insolubile. Il fattore XIII (FSH: fibrin stabilizing factor) e gli ioni calcio stabilizzano i polimeri di fibrina con formazione di legami covalenti tra due domini D adiacenti e tra i domini D ed E. La presenza nel siero dei FpA e B, dosabile, è indice dell’attività coagulativa. Sostanze ad azione anticoagulante: al di fuori del circolo il sangue può essere mantenuto liquido rimuovendo tutto il fibrinogeno oppure aggiungendo sostanze anticoagulanti. Si distinguono due gruppi di sostanze ad azione anticoagulante: 1. Sostanze chelanti il calcio, che di fatto sottraggono il calcio alla cascata coagulativa: • citrato • ossalato • EDTA (acido etilendiaminico tetracetico) sotto forma di sali di sodio e di potassio 2. Inibitori della trombina: • eparina: esalta l’attività antitrombinica dell’antitrombina III fattore I II III V VII VIII IX X XI XIII XII HMWK PK denominazione fibrinogeno protrombina fattore tessutale proaccellerina o fattore labile proconvertina fattore antiemofilico A fattore antiemofilico B o fattore di Christmas fattore di Stuard antecedente plasmatico della tromboplastina fattore stabilizzante la fibrina fattore di Hageman o fattore di contatto chininogeno ad alto perso molecolare o fattore di Fitzgerald precallicreina o fattore di Fletcher emivita (ore) 90 60 concentrazione plasmatica (mg%) 200 – 400 20 % richiesta per l’emostasi 30 40 p.m. 18 0,5 – 1 10 – 15 340.000 70.000 46.000 330.000 6 14 25 0,2 0,05 – 0,15 0,3 – 0,4 5 – 10 10 – 40 10 – 40 48.000 300.000 54.000 40 50 0,6 – 0,8 0,4 10 – 15 20 – 30 55.000 180.000 96 2,5 1 – 5 320.000 55 0,3 0 75.000 168 0,7 0 110.000 0,15 – 0,5 0 85.000 12 fVIII: cofattore di fIXa. In mancanza di fVIII si ha in vivo il blocco della coagulazione, cosa che non avverrebbe se vi fosse la rigida divisione in via estrinseca ed intrinseca. fXII: la sua mancanza, essendo la via intrinseca poco o nulla importante, non causa diatesi emorragica, bensì ipercoagulabilità per mancata attivazione della plasmina da parte della callicreina. Fattori vitamina K-dipendenti: i fattori II (protrombina), VII, IX e X necessitano della vitamina K per svolgere la loro azione biologica. Questi fattori sono sintetizzati nel fegato dove una carbossilasi vitamina K-dipendente catalizza un’unica modificazione post-traduzionale che aggiunge un secondo gruppo carbossilico al carbonio γ dell’acido glutammico presente nei precursori dei fattori vitamina K dipendenti (la vitamina K agisce da substrato per l’enzima γ glutamil-carbossilasi che catalizza l’aggiunta di un gruppo carbossilico): a coppie, questi residui di acido γ-carbossi-glutammico legano il calcio, consentendo ai fattori suddetti di ancorarsi ai fosfolipidi piastrinici carichi negativamente e di poter svolgere, quindi, la loro funzione; in assenza di vitamina K, i fattori II, VII, IX e X vengono ugualmente sintetizzati dal fegato, ma risultano funzionalmente inattivi. Sebbene anche le proteine inibitrici la cascata coagulativa C ed S siano vitamina K-dipendenti, il defict di vitamina K produce una sintomatologia emorragica Il blocco del processo carbossilativo previene la coagulazione: si può intervenire tramite competitori della vit. K come il dicumarolo o la warfarina; situazioni di deplezione della flora batterica intestinale possono causare avitaminosi K. Sebbene anche le proteine inibitrici la cascata coagulativa C ed S siano vitamina K-dipendenti, il deficit di vitamina K produce una sintomatologia emorragica. III. Fase fibrinolitica Il sistema fibrinolitico è fisiologicamente preposto alla dissoluzione dei trombi e dei coaguli di fibrina: tale compito è svolto dalla plasmina, una proteasi che viene generata da un precursore ematico inattivo, il plasminogeno. Il plasminogeno può essere attivato attraverso: • una via estrinseca: l’attivatore tissutale del plasminogeno t-PA, prodotto dall’endotelio, va ad attivare il plasminogeno che si trova adeso al coagulo di fibrina, agendo dove ce n’è bisogno • una via intrinseca: i fattori “di contatto” (fXII, fIX, callicreina, HMWK) attivano la urochinasi, che attiva a sua volta il plasminogeno. L’attivazione della plasmina è prevenuta dai PAI (plasmin-activator inhibitors), mentre la sua attività è bloccata dalla α2-antiplasmina e dalla α2-macroglobulina. ATTIVAZIONE INTRINSECA ATTIVAZIONE ESTRINSECA Fattori di contatto: F XIIa, F XIa, HMWK, callicreina t-PA PAI urochinasi attiva plasminogeno plasmina α 2-antiplasmina α 2-macroglobulina attivazione inibizione fibrina fibrinogeno (dissoluzione del tappo emostatico) FDP FDP Ddimero 13 Manifestazioni cliniche associate a deficit dell’emostasi Patologia dell’emostasi primaria: un deficit dell’emostasi primaria non andrà tanto ad influire sulle emorragie da lesione, quanto su quelle di capillari e venule che si ritrovano ad avere un tappo efficace non più in secondi, ma in minuti. Si avranno • petecchie: piccole emorragie capillari con diametro di circa 1-2 mm di colorito rosso violaceo, frequenti nelle zone dove maggiore è la pressione idrostatica o dove c’è pressione o frizione esterna • porpore: emorragie con diametro > 3 mm costituite da un insieme di petecchie Ø<1cm • ecchimosi: versamenti emorragici sottocutanei di diametro tra 1 e 2 cm, inizialmente di colore rosso-blu, poi verde-blu e quindi giallo-oro • ematomi: versamenti emorragici profondi che spesso dissecano le fasce muscolari; possono avere esiti clinicamente insignificanti (lividi) così come gravissimi, finanche mortali (versamento retroperitoneale da dissecazione di un aneurisma dell’aorta) • versamenti ematici in cavità dell’organismo: emotorace, emopericardio, emoperitoneo, emartro • sanguinamenti da determinati distretti dell’organismo: gengivorragia, epistassi, ematemesi, melena, ematuria, menorragia e metrorragia Le cause possono essere • riduzione delle piastrine: da chemioterapici anti-proliferativi, da infiltrazione neoplastica midollare, da deficit di vitamine emoattive • aumentato sequestro splenico • aumentata lisi da opsonizzazione anticorpale • alterazioni genetiche della funzionalità ◦ Gp Ia-IIa: rarissima ◦ Gp Ib: malattia di Bernard-Soulier ◦ vWf ◦ Gp IIb e IIIa: malattia di Glanzmann • alterazioni acquisite: sono le più frequenti e date perlopiù da farmaci antinfiammatori non steroidei, che bloccano la ciclossigenasi con riduzione del trombossano; dovrebbe parimenti diminuire la produzione di prostaciclina, ma ciò non accade perché le cellule endoteliali, avendo il nucleo, possono ri-sintetizzare la ciclossigenasi. --Indagini di laboratorio per la valutazione della emostasi primaria Tempo di sanguinamento (o di emorragia): viene determinato effettuando una piccola incisione superficiale lunga ½ cm e profonda 0,5 mm sulla rete capillare della faccia volare dell’avambraccio, in una zona pulita, esente da malattie della pelle e lontano dalle vene superficiali, mantenendo una pressione venosa costante di 40 mmHg con uno sfigmomanometro e cronometrando la durata della fuoriuscita del sangue dalla ferita. Il test viene eseguito in maniera accuratamente standardizzata provocando una incisione di profondità e lunghezza costante con una lama calibrata o con un bisturi automatico: i pazienti con un tempo di sanguinamento superiore ai 10 minuti presentano un rischio emorragico aumentato. V.n.: >10’ (nei soggetti normali tra 3-6 minuti). Conta piastrinica: V.n.: 150.000 - 400.000 / µL • > 100.000 / µL: i pazienti sono asintomatici e il tempo di sanguinamento rimane nella norma • 50.000 - 100.000 / µL: il tempo di sanguinamento è lievemente allungato, ma senza alcuna sintomatologia emorragica • < 50.000 / µL: il tempo di sanguinamento è allungato; si osservano porpore cutanee dopo traumi 14 • minimi e sanguinamenti a livello mucoso in seguito a piccoli interventi chirurgici < 20.000 / µL: notevole rischio di sanguinamenti spontanei intracranici e in altri sede interne Test dell’adesività piastrinica: misura la capacità delle piastrine di aderire ad una superficie estranea. Si fa passare del plasma spinto da una pompa a perfusione continua con piastrine in un cilindro con microsferule di vetro. Il risultato viene espresso in percentuale di piastrine trattenute, determinando il numero di piastrine trattenute rispetto a quelle presenti nel sangue dello stesso paziente non trattato. V.n.: 70 – 98% Test dell’aggregazione piastrinica: valutata in laboratorio mettendo a contatto un plasma ricco di piastrine con sostanze di cui è nota la capacità di indurre aggregazione; le sostanze utilizzate a questo scopo sono il collageno, l’adrenalina e la trombina (che agiscono inducendo il rilascio di ADP dalle piastrine), oppure direttamente l’ADP. L’entità della aggregazione viene quantificata misurando la variazione di torbidità della soluzione dopo aggiunta delle sostanze aggreganti utilizzando un aggregometro, strumento capace di registrare in continuo le variazioni della trasmissione ottica (trasmittanza) di un campione mantenendolo a temperatura costante e in delicata agitazione (indagine nefelometrica - variazione della trasmissione ottica). Test di aggregazione con ADP: l'ADP induce aggregazione piastrinica modificando la conformazione del complesso Gp IIb/IIIa rendendolo così in grado di legare il fibrinogeno; l’aggregazione piastrinica indotta dall’ADP dipende quindi dalla normale presenza, oltre che del fibrinogeno, delle glicoproteine IIb e IIIa. La mancata aggregazione in vitro dopo aggiunta di ADP o di altri agenti aggreganti naturali è tipica della malattia di Glanzmann. Test di aggregazione con ristocetina: l’antibiotico ristocetina attiva in vitro i recettori piastrinici GpIb per il vWF, producendo una aggregazione piastrinica che presuppone la presenza sia del vWF sia della glicoproteina Ib. Risposte anomale alla ristocetina (mancata aggregazione) si avranno caratteristicamente in pazienti con malattia di von Willebrand o con malattia di Bernard-Soulier. La diagnosi differenziale tra queste due condizioni viene posta aggiungendo al campione di sangue del paziente il siero di un soggetto normale, cioè contenente il fattore di Von Willebrand: dopo riesecuzione del test, in caso di malattia di Bernard-Soulier non si avrà aggregazione, mentre le piastrine mostreranno una normale aggregazione in caso di malattia di von Willebrand tempo di sanguinamento allungato normale conteggio piastrine normale ridotto test di adesività normale ridotto test di aggregazione con ADP test di aggregazione con ristocetina --Indagini di laboratorio per la valutazione della emostasi secondaria Tempo di tromboplastina parziale attivata (aPTT): valuta la via intrinseca e comune (fI, II, V, VIII, IX, X, XI, XII, HMWK e PK). Si esegue aggiungendo al plasma-citrato del paziente agenti attivanti (caolino), una emulsione di 15 fosfolipidi (sostituti piastrinici) e ioni calcio, e cronometrando il tempo necessario alla formazione del coagulo. I valori sono normalmente espressi in secondi (v.n. tra 28 e 40 secondi) o come rapporto (ratio) tra il tempo del plasma in esame e quello di un campione di plasma normale di controllo. Tempo di protrombina (PT o tempo di Quick): valuta la via estrinseca e comune (fI, II, V, VII e X). Si esegue aggiungendo al plasma-citrato del paziente tromboplastina tessutale e ioni calcio, e cronometrando il tempo necessario alla formazione del coagulo. I valori sono normalmente espressi in secondi (v.n. tra 11 e 13 secondi) o come rapporto (ratio) tra il tempo del plasma in esame e quello di un campione di plasma normale di controllo. Test di complementazione attivazione via intrinseca (caolino fosfolipidi calcio) attivazione via intrinseca (caolino fosfolipidi calcio) aggiunta di plasma di un paziente con emofilia A aggiunta di plasma di un paziente con emofilia A emofilia A emofilia B emofilia A emofilia B aPTT allungato aPTT allungato aPTT allungato aPTT normale La terapia anticoagulante con eparina associata ad antagonisti della vitamina K per via orale (farmaci dicumarolici) rappresenta il trattamento standard delle trombosi venose acute e delle embolie polmonari; la terapia anticoagulante cronica per via orale viene inoltre utilizzata nella prevenzione dell’ictus in pazienti a rischio di embolie cardiogene o derivanti da arterie vertebrali o da carotidi aterosclerotiche parzialmente stenotiche; in questi casi, i dosaggi dei farmaci anticoagulanti vengono definiti sulla base delle variazioni indotte sui tempi di coagulazione: • l’aPTT permette l’ottimizzazione dell’impiego della eparina • il PT viene utilizzato per monitorare il trattamento con farmaci dicumarolici Per ottenere una migliore standardizzazione della terapia con antagonisti della vitamina K è stato adottato il sistema INR (International Normalized Ratio) che prevede che il PT ratio sia corretto per la sensibilità della tromboplastina determinata sulla base dell’ISI (International Sensitivity Index). PT paziente INR = PT controllo ISI Valutazione della formazione / degradazione della fibrina: • determinazione dei fibrinopeptidi A e B: i fibrinopeptidi A e B (FpA e FpB) si producono in seguito all'azione proteolitica della trombina sul fibrinogeno; la molecola residua (monomero di fibrina) va incontro a polimerizzazione e, in presenza del fattore XIII, produce un coagulo stabilizzato. L’aumento nel siero dei FpA e FpB è indice di una intensa attività coagulativa; attualmente sono disponibili immunodosaggi molto sensibili sia per il FpA sia per il FpB, anche se più comunemente viene dosato il solo FpA. • dosaggio dei prodotti di degradazione della fibrina e del fibrinogeno (FDP) e del D-dimero: I parametri di laboratorio che vengono utilizzati per la valutazione del sistema fibrinolitico sono rappresentati dal dosaggio degli FDP e del D-dimero. 16 Gli FDP (fibrinogen degradation products) derivano dall’azione della plasmina indistintamente sul fibrinogeno, sul monomero di fibrina e sul polimero di fibrina instabile. Il dominio D-dimero è invece un prodotto specifico della degradazione operata dalla plasmina sulla fibrina stabilizzata dal fattore XIII in quanto non è presente né nella molecola originale del fibrinogeno, né nei suoi prodotti di degradazione, né nella fibrina solubile. In particolare il D-dimero è dosato per valutare trombosi profonde, embolia polmonare e CID. Tempo di trombina: dipende dalla concentrazione del fibrinogeno e dalla eventuale presenza di anticoagulanti che agiscono sulla trombina (es. eparina o FDP); è utile per monitorare la validità di trattamenti prolungati con fibrinolitici quali streptochinasi, urochinasi e t-P4. Al plasma citrato si aggiungono calcio e trombina. Se si allunga si allungano anche aPTT e PT. --Trombofilia E’ definita trombofilia una condizione clinica in cui il paziente, di età inferiore ai 45 anni, dimostra una inusuale predisposizione al tromboembolismo arterovenoso ed una tendenza alle recidive, anche in assenza di cause scatenati evidenti; tale condizione viene anche chiama stato ipercoagulabile o di ipercoagulabilità. I soggetti portatori presentano una riduzione del 50% della proteina; si hanno sintomi a partire dai 20 anni. Gli stati di ipercoagulabilità hanno un rilevanza clinica importante: studi post-mortem eseguiti su pazienti ospedalizzati hanno infatti indicato che che il tromboembolismo rappresenta il 10% delle cause di morte ed è una concausa in un ulteriore 15% dei casi Può essere causata da • deficit di AT III • deficit di proteina C • resistenza di fV alla proteina C attivata (fattore V di Leiden) • iperomocisteinemia: • mutazioni nel gene della protrombina • Sindrome da anticorpi anti fosfolipidi • Utilizzo di contraccettivi ormonali Associazione di fattori trombogenici: dal punto di vista epidemiologico è importante ricordare anche diventa sempre più evidente la coesistenza, nello stesso paziente, di più fattori trombogenici. In questi casi, il rischio di trombosi è molto più che additivo; ad esempio, se il fattore V di Leiden è associato al deficit di antitrombina, di proteina C o di proteina S, l’incidenza di trombosi venose ricorrenti diventa, rispettivamente, il 92%, il 73% ed il 72%. Allo stesso modo, se uno dei fattori precedentemente descritti si associa ad un’altra condizione predisponente la trombosi, quale la gravidanza, l’assunzione di contraccettivi orali, la terapia estrogenica sostitutiva, la presenza di una neoplasia, l’immobilità o il decorso post-operatorio, il rischio di trombosi aumenta in maniera molto significativa. Diagnosi: • attività degli anticoagulanti naturali antitrombina III, proteina C e proteina S I difetti ereditari degli inibitori naturali della coagulazione (antitrombina III, proteina C e proteina S) determinano uno stato di ipercoagulabilità e predispongono i pazienti alla trombosi: il deficit di uno di questi fattori anticoagulanti è documentabile nel 6-7 % dei pazienti con trombosi, con una prevalenza complessiva nella popolazione generale inferiore allo 0,5 %. Queste condizioni sono ereditate come tratti autosomici dominanti a penetranza variabile; lo stato di omozigosi è incompatibile con la sopravvivenza, mentre i soggetti eterozigoti presentano o una riduzione (tipo I) o un deficit funzionale (tipo II) della proteina interessata. Il rischio relativo di trombosi venosa per questi pazienti è superiore 5 volte (deficit di antitrombina III), 6 volte (deficit della proteina S) e 7 volte (deficit della proteina C) a quello della popolazione che non presenta deficit ereditari dei rispettivi fattori; la presentazione clinica è 17 • • • • simile in tutti i casi ed è caratterizzata da anamnesi famigliare fortemente positiva per trombosi, episodi ricorrenti di trombo-embolismo e sintomi che iniziano intorno ai 20 anni. ricerca delle mutazioni del gene del fattore V In una percentuale di pazienti di razza bianca variabile tra il 2 ed il 15% si riscontra una mutazione del gene che codifica per il fattore V; tale mutazione è detta di Leiden dalla città Olandese in cui è stata identificata per la prima volta (1994). La mutazione (G1691A) determina la sostituzione della arginina con la glutamina in posizione 506 ed abolisce un sito di clivaggio della proteina C nel fattore V, prolungando in questo modo l’effetto trombogenico del fattore V e determinando, pertanto, uno stato di ipercoagulabilità. I soggetti etrozigoti hanno un rischio relativo di trombosi da 5 a 7 volte superiore a quello della popolazione che non presenta la mutazione, mentre nei soggetti omozogiti (2% circa dei pazienti affetti) il rischio diventa fino a 80 volte superiore; oggi si ritiene che il fattore V di Leiden renda conto del 25% dei pazienti con trombosi venosa profonda ricorrente o embolia polmonare. ricerca delle mutazioni del gene della protombina Il rischio di trombosi venosa profonda risulta essere aumentato anche in pazienti con un specifica mutazione puntiforme nel gene della protombina, che consiste nella conversione di G in A in posizione 20210 (G20210A). La mutazione si localizza nella regione 3’ non tradotta (3’UT) del gene, e determina un aumento del 30% dei livelli plasmatici di protrombina attraverso una traduzione più efficiente o una maggiore stabilità dell’mRNA. La prevalenza della mutazione nella popolazione generale oscilla tra l’1 ed il 2%; i soggetti eterozigoti hanno un rischio relativo di trombosi venosa 2,8 volte superiore a quello che si riscontra nella popolazione che non presenta la mutazione: essi rappresentano circa il 18% dei pazienti con storia familiare di trombosi venosa e il 6% dei pazienti con un primo episodio di trombosi venosa profonda determinazione dei livelli ematici di omocisteina V.n.: 5 - 15 µmol/Lt. Fino a 30 µmol/Lt sono classificati come moderati, fino a 100 µmol/Lt intermedi, superiori a 100 µmol/Lt abnormi. L’omocisteina è un aminoacido solforato che deriva dalla demetilazione della metionina assunta dalla dieta; l’omocisteina viene poi rimetilata formando metionina o transolforata a costituire cisteina. La trasformazione dell’omocisteina avviene ad opera di tre enzimi (la metilenetetraidrofolato reduttasi, la cistationina beta-sintetasi e la metionina sintetasi) la cui funzione è condizionata dall’acido folico e dalle Vitamine B6 e B12. L’innalzamento dei livelli plasmatici di omocisteina, conseguente ad un blocco delle vie di trasformazione, è associato ad una aumentata incidenza di aterosclerosi e di trombosi venosa. L’iperomocisteinemia contribuisce alla aterosclerosi avendo un effetto tossico sulle cellule endoteliali e facilitando l’ossidazione delle LDL, e alla trombosi venosa inducendo la liberazione del fattore tessutale da parte dei monociti ed inibendo l’espressione e l’attività della trombomodulina. Oggi si stima che circa il 10% dei pazienti con trombosi abbiano aumentati livelli ematici di omocisteina, condizione che si riscontra nel 4,8% della popolazione generale. ricerca di anticorpi antifosfolipidi La sindrome da antifosfolipidi (APS) è una condizione caratterizzata da episodi di trombosi, perdita fetale ricorrente e piastrinopenia causati da un gruppo di autoanticorpi detti anticorpi antifosfolipidi; può essere primitiva o secondaria ad una malattia autoimmune sistemica (solitamente il lupus eritematoso sistemico). Gli anticorpi antifosfolipidi sono immunoglobuline appartenenti alle classi IgG o IgM capaci di interferire con il normale processo di coagulazione del sangue; sono costituiti prevalentemente dall’anticoagulante lupico e da anticorpi anti-cardiolipina. La prevalenza della APS nella popolazione generale è intorno al 2 - 4%; i pazienti affetti hanno un rischio di trombosi ricorrenti dal 22 al 69% più alto rispetto ai pazienti che non presentano gli autoanticorpi. 18 CID: coagulazione intravasale disseminata La CID (coagulazione intravasale disseminata), nota anche come coagulopatia da consumo o sindrome da defibrinazione, è una alterazione trombo-emorragica provocata dalla attivazione sistemica della cascata coagulativa che porta simultaneamente alla formazione intravascolare di trombi e all’esaurimento delle piastrine e dei fattori della coagulazione. La CID può quindi manifestarsi con segni e sintomi in relazione all’ipossia dei tessuti o con infarti causati dai microtrombi o, ancora, come una malattia emorragica dovuta alla deplezione dei fattori richiesti all’emostasi; la presentazione clinica può variare in misura notevole, e ciò può rendere difficoltosa l’identificazione delle strategie diagnostiche e terapeutiche adeguate. La CID è sempre secondaria ad una condizione patologica che attiva la cascata coagulativa a qualsiasi livello: attivazione piastrinica, attivazione della via intrinseca, attivazione della via estrinseca, deficit dei meccanismi di inibizione (antitrombina III, proteina C, proteina S). Nella pratica clinica, le cause più frequenti di CID sono comunque rappresentate dal massivo rilascio in circolo del fattore tessutale e da diffusi danni delle cellule endoteliali. • CID da liberazione del FT (attivazione della via estrinseca della coagulazione): ◦ patologia ostetrica (50% delle CID): distacco di placenta, embolia di liquido amniotico, ritenzione di feto morto, aborto nel secondo trimestre di gravidanza ◦ neoplasie epiteliali (carcinomi del polmone, del pancreas, del colon e dello stomaco) ed ematologiche (leucemia promielocitica acuta) (25%) ◦ sepsi da Gram- (edotossina) ◦ embolia adiposa ◦ emolisi intravascolare acuta: trasfusione di sangue incompatibile, interventi in circolazione extracorporea, malaria, emoglobinuria parossistica notturna ◦ danno tissutale esteso: ustioni, congelamenti, traumi, ferite d’arma di fuoco • CID da danni alle cellule endoteliali (attivazione della via estrinseca, delle piastrine e della via intrinseca della coagulazione): ◦ IC circolanti (LES) ◦ infezioni vasali: batteriche (meningococco, rickettsie) o virali (arbovirus, varicella, vaiolo, rosolia) ◦ colpo di calore ◦ shock (in particolare settico) ◦ vasculiti ◦ anossia ◦ acidosi • CID da immissione in circolo di sostanze ad azione diretta: ◦ veleno di serpente (la vipera Russel attiva fX; altri veleni attivano il fII) ◦ pancreatite acuta (la tripsina attiva fX e fII) Forme cliniche • forme acute: quadro clinico dominato da manifestazioni emorragiche, a volte imponenti • forme subacute: quadro clinico caratterizzato da sintomi ischemici a carico di vari organi (cervello, cute, rene, polmone, intestino) conseguenti alla trombosi del microcircolo e/o da emorragie di lieve entità conseguenti al consumo di fattori della coagulazione • forme croniche: quadro clinico silente, in cui l’attivazione della coagulazione è documentabile solo in base ai dati di laboratorio; tali forme possono scompensarsi dando luogo a sindromi acute o subacute Diagnosi: • indici di attivazione del sistema della coagulazione e del sistema fibrinolitico ◦ aumento di fibrinopeptidi A e B, FDP, D-dimero; 19 • ◦ diminuzione dell'antitrombina III indici di consumo dei fattori della coagulazione e delle piastrine ◦ ipofibrinogemia ◦ diminuzione degli altri fattori della coagulazione (in particolare V e VIII) ◦ allungamento di PT e aPTT ◦ piastrinopenia 20 ESAMI DI LABORATORIO DI PRIMO LIVELLO PER LO STUDIO DELLA FUNZIONALITÀ EPATICA Il fegato svolge innumerevoli funzioni metaboliche, essendo intermedio nel metabolismo dei carboidrati, dei lipidi, delle proteine, degli ormoni steroidei, depurando l’organismo da tossici, bilirubina, ammoniaca, fungendo da deposito per le vitamine liposolubili e sintetizzando le proteine plasmatiche e i fattori della coagulazione. • metabolismo dei carboidrati: glicogenosintesi, glicogenolisi, gluconeogenesi, conversione in glucosio di altri monosaccaridi • metabolismo dei lipidi: biosintesi e trasformazione degli acidi grassi, sintesi di trigliceridi, colesterolo, fosfolipidi, lipoproteine e corpi chetonici • metabolismo proteico: sintesi e degradazione delle proteine, catabolismo degli aminoacidi • metabolismo degli ormoni steroidei • metabolismo ed escrezione della bilirubina • sintesi ed escrezione degli acidi biliari • coniugazione e detossificazione: bilirubina, acidi biliari, farmaci, ecc. • biosintesi dell’urea • formazione dell’acido urico • deposito: vitamine A, D, K, B12, ferro, rame Il fegato svolge un ruolo fondamentale nel mantenimento dell’omeostasi metabolica, operando importanti trasformazioni delle numerose sostanze che, sia come nutrienti che come prodotti terminali di altri metabolismi, gli arrivano con il sangue; di conseguenza, le molteplici attività dell’organo sono riflesse direttamente in molte delle sostanze presenti nel plasma o in altri liquidi dell’organismo. E’ del tutto evidente che analisi o misure relative ad alcune di queste sostanze possono risultare particolarmente indicative della integrità strutturale e funzionale del fegato; queste indagini di laboratorio vengono pertanto definite ”prove di funzionalità epatica”. In considerazione della grande varietà di funzioni svolte dal fegato e del fatto che una richiesta di tutti i test disponibili sarebbe onerosa per il paziente e dispersiva per la diagnosi, nella pratica clinica in presenza di una malattia epatica accertata o sospetta si selezionano solo alcune indagini, le più informative, specifiche, ed essenziali, indicative delle funzioni epatiche fondamentali; tali indagini sono chiamate esami di primo livello, costituite dalla valutazione di: 1. bilirubina totale e frazionata 2. enzimi sierici indicatori di danno epatocellulare e di colestasi 3. proteine sieriche 4. fattori della coagulazione 1. Bilirubina La bilirubina è il prodotto di degradazione dell’eme: la produzione giornaliera di bilirubina (250-350 mg) deriva in massima parte (80-85%) dal catabolismo dell’emoglobina degli eritrociti invecchiati e, per il restante 15-20%, dalla eritropoiesi inefficace; una minima quota di bilirubina deriva inoltre dal ricambio di proteine contenenti eme quali mioglobina, citocromi e catalasi. La bilirubina non coniugata è liposolubile e, pertanto, potenzialmente tossica; essa viene immessa in circolo, dalle cellule del sistema reticolo-endoteliale, legata all’albumina e, in questa forma, raggiunge il fegato. Nel fegato la bilirubina viene veicolata all’interno degli epatociti dove si lega a proteine citosoliche (glutatione-S-transferasi o ligandina o proteina Y, e proteina Z) che prevengono il suo rientro nel circolo ematico e la sua diffusione all’interno di compartimenti epatocitari non idonei; viene quindi trasferita nel reticolo endoplasmatico dove l’enzima uridina difosfato-glucuronil transferasi (UGT) provvede alla sua coniugazione con 2 molecole di acido glucuronico: la bilirubina coniugata è idrosolubile e, in questa forma, può essere eliminata con la bile: viene secreta dagli epatociti nei 21 canalicoli biliari attraverso un processo ATP-dipendente mediato da un trasportatore multispecifico di anioni organici chiamato MRP2 (multidrug resistance-associated protein 2). In condizioni normali, nel sangue è quindi prevalente la forma “indiretta” legata all'albumina; la forma “diretta” si trova nella bile. Giunta nel lume intestinale con la bile, la bilirubina viene degradata (deconiugata e ridotta) ad urobilinogeno, prodotto incolore e idrosolubile. L’urobilinogeno ha tre diversi destini metabolici: • la quota maggiore viene ossidata a stercobilina e urobilina ed eliminata con le feci, alle quali conferisce il caratteristico colore bruno • una quota minore viene casualmente riassorbita a livello intestinale e ritorna al fegato tramite il circolo portale (circolo entero-epatico della bilirubina) • una piccola quota riassorbita salta il filtro epatico tramite circoli collaterali, raggiunge il circolo sistemico ed è eliminata con le urine quando raggiunge i reni La stima della concentrazione ematica della bilirubina viene determinata mediante metodo fotometrico misurando gli azo-derivati ottenuti dalla reazione (detta di “Van der Bergh”) tra la bilirubina e lo ione diazonio dell’acido sulfanilico (diazoreattivo di Ehrlich). La bilirubina coniugata è idrosolubile e reagisce direttamente con lo ione diazonio (bilirubina diretta); la bilirubina non coniugata, invece, è insolubile in acqua e reagisce con lo ione diazonio solo se viene prima solubilizzata con alcoli o con altri solventi (bilirubina indiretta). Bilirubinemia totale: 0,1 - 1 mg/dL (1,7 – 17 µmol/L) Diretta: 0 - 0,2 mg/dL (0 – 3,4 µmol/L) Indiretta: 0,2 - 0,8 mg/dL (3,4 – 13,7 µmol/L) [si ricava per differenza tra bil. totale e bil. diretta] Ittero: il fenomeno saliente di un disturbo del metabolismo della bilirubina è l’ittero: con tale termine si intende la colorazione giallastra della sclere e della cute conseguente ad un eccesso di bilirubina; perché un ittero cominci a farsi apprezzare clinicamente occorre che la bilirubinemia raggiunga valori di 2 – 2,5 mg/dl. Sulla base del rapporto tra bilirubina diretta e indiretta, gli itteri si classificano in: • itteri da iperbilirubinemia prevalentemente non coniugata, in cui l’80-85% della bilirubina sierica è non coniugata ◦ Itteri da iperproduzione di bilirubina o “pre-epatici” ▫ emolisi: la produzione di eritrociti da parte del midollo in seguito ad emolisi può aumentare al massimo fino ad 8 volte; pertanto, l’emolisi da sola non produce mai valori di bilirubinemia superiori a 4 - 5 mg/dl. Nei casi di emolisi protratta si possono formare calcoli costituiti da sali di bilirubina nella colecisti o nelle vie biliari. Le anemie emolitiche che più spesso provocano questa forma di ittero sono la sferocitosi ereditaria, l’anemia falciforme e l’anemia da deficit enzimatici (G6PD). ▫ eritropoiesi inefficace: alcune anemie (principalmente la talassemia major e le anemie francamente megaloblastiche) sono caratterizzate da un significativo aumento dell’eritropoiesi inefficace, che può arrivare a produrre fino al 70% della bilirubina totale; anche in questi casi l’ittero è comunque sempre modesto. ▫ degradazione dell’eme di raccolte extravascolari di eritrociti: itteri di lieve entità possono derivare da estesi infarti tessutali (soprattutto polmonari), emorragie interne (dalla rottura di un aneurisma dell’aorta allo stillicidio da errate manovre per il posizionamento di un catretere) o ematomi di grandi dimensioni ◦ Itteri da difetti della captazione epatica (rari) ▫ assunzione di farmaci o mezzi di contrasto che che provocano una inibizione competitiva del legame tra bilirubina e ligandina ▫ deficit di ligandina (sindrome di Gilbert) 22 • ◦ Itteri da ridotta o assente attività glucuronil-transferasica ▫ ittero fisiologico del neonato: provocato da un deficit transitorio di glucuroniltransferasi. Nella vita intrauterina la bilirubina fetale viene eliminata dalla placenta: alla nascita l’attività glucuroniltransferasica è fisiologicamente ridotta, e ciò giustifica l’insorgenza dell’ittero. Il 97% dei nati a termine ha una iperbilirubinemia tra le seconda e la quinta giornata che nel 65% dei casi supera i 5 mg/dl e che, solitamente, regredisce spontaneamente nel corso delle due settimane successive. In casi eccezionali (soprattutto in neonati prematuri) i livelli di bilirubina possono essere superiori. Quando si superano i 20 mg/dl si può avere l’ittero nucleare, causato dal passaggio di bilirubina attraverso una immatura barriera ematoencefalica e precipitazione della stessa nei Nuclei encefalici della Base, ricchi di componenti lipidiche, e in altre aree cerebrali. La “maturazione” enzimatica può essere stimolata dalla somministrazione di barbiturici al neonato o alla madre. Nei pazienti con valori particolarmente alti di bilirubinemia si ricorre alla fototerapia, basata sul principio che, sottoposta ad intensa illuminazione con luce bianca o azzurra, la bilirubina si trasforma in una serie di isomeri idrosolubili (fotoisomerizzazione) che vengono eliminati con la bile anche senza coniugazione. ▫ sindrome di Gilbert: malattia autosomica prevalentemente dominante, con prevalenza intorno all’8% ed incidenza maggiore nel sesso maschile; è causata da una mutazione del gene UGT1 (uridina difosfato grucuronil-transferasi 1) che riduce l’attività transferasica dal 65 al 90%. I valori di bilirubina sono solitamente tra 1,2 e 3 mg/dl; solo raramente superano i 5 mg/dl, restando comunque sempre inferiori ai 6 mg/dl. È una condizione benigna, ma cronica, che si manifesta raramente prima del secondo decennio di vita, spesso in modo occasionale; l’ittero è per lo più asintomatico e solo raramente è accompagnato da affaticamento, malessere e dolore addominale. L’iperbilirubiminemia è accentuata da stress quali sforzo fisico, febbre, malattie infettive, stati post-operatori (spesso per interventi odontoiatrici), assunzione di elevate quantità di alcol, e soprattutto digiuno. Un aspetto che può essere usato a scopo diagnostico è l’aumento della bilirubina sierica a seguito di un digiuno prolungato o di un regime di restrizione calorica, mentre la somministrazione di fenobarbital riduce la bilirubinemia fino a riportarla ai valori normali. Alcune forme sono dovute ad un deficit di ligandina. La diagnosi della sindrome di Gilbert è una diagnosi per esclusione, coadiuvata dall’anamnesi familiare. ▫ sindrome di Crigler-Najjar I: condizione autosomica recessiva causata da una mutazione del gene UGT1 che determina la completa assenza di attività glicuronil transferasica. L’iperbilirubinemia è elevata (20-50 mg/dl); si presenta nel neonato ed è permanente. Prima della fototerapia la malattia portava a morte nei primi anni di vita per encefalopatia da bilirubina; con l’avvento della fototerapia e del trapianto di fegato la prognosi di questi pazienti è notevolmente migliorata. In questi casi, il trattamento con fenobarbital non ha alcun effetto. ▫ sindrome di Crigler-Najjar II: malattia autosomica prevalentemente recessiva causato da una mutazione del gene UGT1 che determina un deficit enzimatico severo ma non assoluto. Il quadro clinico può variare da paziente a paziente. L’encefalopatia da bilirubina è rara. Solitamente l’ittero può rimanere latente fino all’adolescenza, con valori di bilirubinemia tra 6 e 20 mg/dl. La terapia di elezioni è con fenobarbital, che riduce la bilirubinemia del 25%. itteri da iperbilirubinemia combinata, in cui la quota sierica coniugata supera il 50%. La bilirubina diretta si ritrova nelle urine. 23 ◦ Itteri da difetti ereditari della funzione escretoria epatica ▫ Sindrome di Dubin-Johnson: rara malattia autosomica recessiva a buona prognosi. Si manifesta con un ittero ricorrente, raramente accompagnato da nausea, vomito, dolore addominale e debolezza. I valori di bilirubinemia sono solitamente intorno ai 2-5 mg/dl, e solo raramente raggiungono i 20-25 mg/dl. L’ittero è causato dalla incapacità di secernere bilirubina per il deficit ereditario della proteina di trasporto ATP-dipendente MRP2 (multidrug resistance-associated protein 2). Morfologicamente la sindrome è caratterizzata dalla presenza di un pigmento bruno-nerastro nelle cellule epatiche centrolobulari, probabilmente costituito da metaboliti della noradenalina che gli epatociti non riescono a riversare nelle vie biliari. ▫ Sindrome di Rotor: malattia autosomica recessiva ancora più rara della precedente, con la quale condivide lo stesso quadro clinico-laboratoristico. Non presenta pigmenti scuri all’interno degli epatociti. L’eziologia è del tutto sconosciuta; si ritiene che la sindrome sia dovuta non tanto ad un defict di escrezione, quanto piuttosto ad una alterazione dei processi di deposito intraepatocitario della bilirubina. ◦ Itteri da difetti acquisiti della funzione escretoria epatica: ▫ malattie epatocellulari: epatiti/cirrosi: la bilirubina viene coniugata ma viene secreta nel sangue (bilirubina diretta): l'iperbilirubinemia è quindi mista. Feci a- o ipocoliche. L'urobilinogeno riassorbito non viene captato dal fegato: presenza di bilirubina ed urobilinogeno nelle urine, che sono ipercromiche. ▫ ostruzione delle vie biliari: la bilirubina diretta refluisce retrograda dalle vie biliari, attraverso l'epatocita, nel sangue. Conseguentemente c'è bilirubina nelle urine (ipercromiche). L'urobilinogeno è assente: feci acoliche. 2. Enzimi sierici da danno epatocellulare e colestasi Da soli possono aumentare in varie patologie, ma un loro aumento contemporaneo è fortemente indicativo di danno colestatico. • aspartato aminotrasferasi (AST) o transaminasi glutamico-ossalacetica sierica (sGOT): trasferisce il gruppo amminico dall’acido aspartico all’acido alfa-chetoglutarico determinando la sintesi di acido ossalacetico; è presente sia nei mitocondri sia nel citosol delle cellule di diversi tessuti tra cui fegato, miocardio, muscolo scheletrico, reni, cervello, pancreas, polmoni, leucociti e eritrociti (in ordine decrescente di concentrazione) V.n.: 10 - 37 U/L • alanina aminotrasferasi (ALT) o transaminasi glutammico-piruvico sierica (sGPT): trasferisce il gruppo amminico dall’alanina all’acido alfa-chetoglutarico determinando la sintesi di acido piruvico; è presente principalmente nel citosol degli epatociti e delle cellule renali. V.n.: 10 - 40 U/Lt. Rapporto AST/ALT (o sGOT/sGPT): ≥ 1 → è indicativo di epatite virale > 2 → è indicativo di epatite alcolica • • • Fosfatasi alcalina (ALP): appartiene alla classe delle idrolasi: a pH alcalino rimuove i gruppi fosfato da proteine e da altre molecole. Si distinguono 4 forme isoenzimatiche organo specifiche: epatica, ossea, placentare ed intestinale. La forma epatica facilita il trasporto dei sali biliari: quando i sali biliari si accumulano nelle vie biliari per una colestasi, la sua sintesi viene indotta. V.n.: 31 - 97 U/Lt. 5’-nucleotidasi: idrolizza il fosfato 5’ del pentosio dei nucleotidi; non ha valore di per sé ma conferma come epatico un eventuale innalzamento della fosfatasi alcalina. gamma-glutamil-transpeptidasi (γ-GT): Trasferisce radicali γ-glutammilici da diversi peptidi a L-aminoacidi o ad altri peptidi; è un indice molto sensibile di malattia epatica ma poco specifico, 24 in quanto aumenta in condizioni quali l’obesità, il diabete e l’alcolismo cronico, ed in corso di malattie pancreatiche, cardiache, renali e polmonari. V.n.: 8 - 37 U/lt ♂, 5 - 24 U/lt ♀. 3. Proteine sieriche La maggior parte delle proteine sieriche è sintetizzata dal fegato; nel corso di malattie epatiche di lunga durata si verifica una diminuzione della concentrazione delle proteine plasmatiche totali e, in particolare, della albumina, che rappresenta la principale proteina plasmatica prodotta dal fegato Le γ globuline sono prodotte da linfociti e plasmacellule contenute principalmente negli organi emolinfopoietici e diffusamente presenti nello stroma quasi tutti i tessuti; nelle malattie epatiche croniche si assiste ad un aumento delle γ-globuline che si associa ad una diminuzione della albumina: si osserva pertanto una inversione del rapporto albumina/globuline (normalmente tra 1,2 e 1,7) che scende facilmente sotto alla unità e può anche arrivare a 0,5. Diminuzioni della trans-tiretina sono indicative di danno recente, avendo essa emivita di 2gg. 4. Fattori della coagulazione Il fegato sintetizza la maggior parte dei fattori che intervengono nel processo di coagulazione del sangue; stati di grave insufficienza epatica determinano pertanto una ridotta produzione dei fattori della coagulazione e, conseguentemente, un allungamento del tempo di protrombina (PT) o tempo di Quick (test che valuta l’efficacia della via estrinseca e comune della coagulazione) e del tempo di tromboplastina parziale attivata (aPTT) (test che valuta l’efficacia della via intrinseca e comune della coagulazione). Il fattore VII, essendo tra i fattori della coagulazione quello con più breve emivita, è il primo a diminuire nel sangue periferico di pazienti con un deficit funzionale epatico; poiché la carenza di questo fattore causa un allungamento del PT, nei deficit funzionali epatici il PT risulterà alterato più precocemente dell’aPTT. 25 DIAGNOSI DI LABORATORIO DELLE DISLIPOPROTEINEMIE Le lipoproteine sono un complesso di macromolecole eterogenee, costituite da una parte proteica e da una parte lipidica, la cui funzione è quella di trasportare lipidi nel sangue: ogni particella lipoproteica contiene un nucleo centrale idrofobico (core) costituito da lipidi non polari (principalmente trigliceridi e colesterolo esterificato), circondato da un rivestimento superficiale idrofilo costituito da proteine (apolipoproteine) e lipidi polari (fosfolipidi e piccole quantità di colesterolo non esterificato). Le apolipoproteine (apo) sono sostanze anfipatiche costituite da una parte idrofilica e da una parte lipofilica; esse forniscono stabilità strutturale alle lipoproteine e consentono la solubilità ed il trasporto delle particelle lipoproteiche nel plasma. Le apolipoproteine hanno anche la funzione di cofattori per enzimi specifici e di molecole di riconoscimento per recettori cellulari di membrana; pertanto, oltre ad avere un importante ruolo strutturale, determinano anche il destino metabolico delle particelle sulle quali risiedono. classe densità (g/L) Le lipoproteine vengono distinte, in base alla ∅ (Å) diversa densità, in 5 classi principali: • chilomicroni chilomicroni ≈ 930 • VLDL (very-low-density lipoproteins) 800 – 12000 • IDL (intermediate-density lipoproteins) • LDL (low-density lipoproteins) VLDL 930 – 1006 • HDL (high-density lipoproteins) 300 – 800 LDL 1019 – 1063 180 – 280 β IDL HDL 1063 – 1210 50 – 120 α Lipoproteine HDL, chilomicroni Apo Apo Apo Apo 17414 46465 264000 540000 6630 Apo CII 8900 Apo CIII 8800 Apo D 20000 Apo E 34145 fegato B100, CI-III, TG 55, EC 12 E C 7, FL 18, Pr 8 VLDL 28016 composizione (% peso) pre-β pre-β lente PM apolipoproteine intestino AI, AII, B48, TG 90, EC 3 CI-III, E C 2, FL 4, Pr 1 1006 – 1019 230 – 350 Apo AI Apo CI origine (catodo) origine IDL Apo AII AIV B48 B100 elettro foresi B100, CIII, E TG 23, EC 39 C 9, FL 19, Pr 19 B100 fegato, AI, AII, intestino CI-III, D, E TG 6, EC 42 C 8, FL 22, Pr 22 TG 5, EC 15 C 5, FL 25, Pr 50 Funzione molecolare componente strutturale delle HDL ed attivatore della LCAT HDL, chilomicroni non nota HDL, chilomicroni non nota chilomicroni assemblaggio e secrezione dei chilomicroni VLDL, IDL, LDL assemblaggio e secrezione delle VLDL dal fegato; componente strutturale delle VLDLIDL-LDL; ligando del recettore per le LDL chilomicroni, VLDL, può inibire la captazione epatica dei IDL, HDL chilomicroni e dei residui delle VLDL chilomicroni, VLDL, attiva la LPL IDL, HDL chilomicroni, VLDL, inibisce la LPL; può inibire la captazione IDL, HDL epatica dei chilomicroni e dei residui delle VLDL HDL CETP (cholesterol ester transfer protein): enzima che trasferisce esteri del colesterolo dalle HDL alle IDL/LDL chilomicroni, VLDL, ligando per l'unione di diverse lipoproteine al IDL, HDL recettore per le LDL Una delle acquisizioni più importanti nello studio delle lipoproteine è derivata dall’aver stabilito che il loro trasporto nel plasma non è un processo passivo nel quale le diverse lipoproteine si comportano 26 come particelle inerti; il trasporto delle lipoproteine nel plasma deve invece essere considerato un processo dinamico, durante il quale le lipoproteine sono continuamente degradate e risintetizzate, con passaggio di componenti proteiche e lipidiche dalle lipoproteine di una classe alle lipoproteine di classi diverse. I lipidi sono composti altamente energetici: 1 g di trigliceridi sviluppa 9,4 calorie, contro le 4,1 calorie di un grammo di glucosio. Il metabolismo dei lipidi può essere schematicamente riassunto in tre tappe fondamentali: 1. trasporto dei lipidi esogeni 2. trasporto dei lipidi endogeni 3. trasporto inverso del colesterolo Il colesterolo alimentare che arriva al fegato ha diversi destini metabolici; può infatti: • essere utilizzato per la sintesi della membrana plasmatica delle cellule epatiche • essere utilizzato per la sintesi degli acidi biliari primari (colico e chenodesossicolico) necessari per l’assorbimento intestinale dei grassi alimentari e delle vitamine liposolubili • essere eliminato direttamente con la bile • essere ridistribuito dal fegato ai tessuti periferici attraverso le VLDL Il fegato è anche in grado di sintetizzare colesterolo ex novo a partire da due molecole di acetil-CoA grazie all’azione di un enzima specifico, la idrossi-metil-glutaril-acetilcoA-reduttasi (HMG-CoAreduttasi) 1. Trasporto dei lipidi esogeni: i chilomicroni Il trasporto dei lipidi esogeni assunti con la dieta (circa 100 g/giorno) è operato dai chilomicroni, che svolgono due due funzioni fondamentali: • forniscono i trigliceridi alimentari direttamente ai tessuti muscolare e adiposo • trasportano il colesterolo alimentare al fegato I lipidi esogeni vengono assorbiti dall’intestino tenue, che li ingloba nei chilomicroni, lipoproteine caratterizzate da ApoB48 (strutturale), AI, AII e AIII: in circolo cedono le ApoAI alle HDL, ricevendone in cambio ApoCII; ApoCII catalizza l’idrolisi dei trigliceridi attivando la LPL (lipo-protein-lipasi) di membrana delle cellule endoteliali dei capillari del tessuto adiposo e muscolare, che assumono gli a. grassi così liberati: i chilomicroni diventano piccoli e densi, e si trasformano in residui (remnants) particolarmente ricchi di colesterolo ed ApoE, tramite la quale vengono assunti dal fegato scomparendo così dal sangue entro 12 ore dal pasto. Il colesterolo alimentare assunto con la dieta (circa 1 g/giorno) che arriva così al fegato viene utilizzato per la sintesi della membrana, degli acidi biliari, viene eliminato nella bile o è ridistribuito ai tessuti tramite le VLDL, insieme al Chol neosintetizzata a partire dall’Acetil-CoA grazie all’enzima HMG-CoA reduttasi. 2. Trasporto dei lipidi endogeni: VLDL - IDL- LDL Questo sistema di trasporto distribuisce i trigliceridi sintetizzati dal fegato al tessuto adiposo e muscolare (VLDL) ed il colesterolo di derivazione epatica ai tessuti periferici (LDL) • i trigliceridi sintetizzati dal fegato sono trasportati al tessuto adiposo e muscolare dalle VLDL • il colesterolo di derivazione epatica è trasportato ai tessuti periferici e di nuovo al fegato dalle LDL Nel fegato, trigliceridi e esteri del colesterolo vengono assemblati in VLDL che presentano alla secrezione ApoB100 (prodotto completo del gene che nell’intestino produce ApoB48), e in circolo assumono ApoCII ed ApoE dalle HDL; analogamente ai chilomicroni, tramite idrolisi dei trigliceridi ad opera della LPL attivata dalla apo CII, cedono trigliceridi e colesterolo alle cellule adipose e muscolari, impoverendosi di trigliceridi e trasformandosi in IDL; queste hanno due diversi destini metabolici: in 27 parte sono captate dal fegato, in parte continuano a perdere trigliceridi acquisendo colesterolo esterificato dalle HDL e trasformandosi nelle LDL. Le LDL contengono quasi esclusivamente colesterolo, e tramite ApoB100 lo trasportano alle cellule che presentino il recettore per le LDL: la maggior parte delle LDL è captata dal fegato, mentre la rimanente quota è ceduta ai tessuti periferici che utilizzano il colesterolo come precursore per la sintesi degli ormoni steroidei (surreni, gonadi), per la sintesi di vitamine liposolubili (cute), o per il turnover della membrana plasmatica (cellule nucleate del sangue, renali, muscolari lisce, endoteliali e fibroblasti) Il fegato rimuove le LDL circolanti grazie alla presenza di specifici recettori capaci di riconoscere e legare la componente proteica apo-B100 delle LDL; il numero di tali recettori può variare da 15.000 a 70.000 per cellula, ed è regolato dalla concentrazione di colesterolo all’interno degli epatociti stessi. Il rilascio intracellulare di colesterolo che consegue alla captazione delle LDL per endocitosi produce 3 principali effetti: • l’attivazione dell’enzima acetilCoA-colesterolo aciltransferasi (ACAT), che favorisce l’esterificazione ed il deposito di colesterolo all’interno degli epatociti; • l’inibizione dell’enzima HMG-CoA-reduttasi, con conseguente blocco della sintesi intraepatica di colesterolo; • l'induzione della espressione della proteina SRE (Sterol Response Element), che agisce sulla regione "promoter" del gene per il recettore delle LDL, disattivandolo; pertanto, maggiore è la concentrazione di colesterolo nell’epatocita, minore sarà il numero di recettori per le LDL espressi dall’epatocita stesso, e viceversa. Farmaci utilizzati per ridurre la colesterolemia: inibitori dell’ HMG-CoA-reduttasi (statine), sequestratori degli acidi biliari (colestiramina e colestipolo). 3. trasporto inverso del colesterolo: le HDL Questo sistema serve al trasporto del colesterolo proveniente dal catabolismo cellulare dai tessuti periferici al fegato, ed è mediato dalla HDL. Le HDL si formano in circolo dalla coalescenza di fosfolipidi e apolipoproteine (ApoAI ed ApoAII). L’ApoAI è sintetizzata da fegato e intestino, mentre l’ApoAII è sintetizzata esclusivamente dal fegato. Le HDL3 (HDL neoformate o nascenti) prelevano il colesterolo non esterificato dai tessuti periferici e lo esterificano grazie all’azione di un enzima specifico, la LCAT (lecitina-colesterolo aciltrasferasi), di cui l’ApoAI costituisce un cofattore essenziale. Questo processo aumenta la capacità delle HDL di acquisire colesterolo; aumentano perciò le dimensioni e diminuiscono la densità, a formare le HDL2. In circolo, grazie all’azione dell’enzima CETP (cholesterol ester transfer protein, oggi identificato con la ApoD), queste possono trasferire esteri del colesterolo su altre lipoproteine (sistema VLDL – LDL), ricevendo in cambio trigliceridi e fosfolipidi. Le HDL ricche di colesterolo (HDL mature) vengono poi rimosse dal plasma mediante captazione epatica attraverso recettori specifici per le ApoA (scavenger receptor class BI). Le HDL circolanti costituiscono, inoltre, un serbatoio di apolipoproteine (CII ed E) che scambiano con chilomicroni e VLDL. c-LDL, c-HDL, trigliceridi e malattie cardiovascolari Le malattie cardiovascolari (cardiopatia coronarica e malattie cerebrovascolari) rappresentano la più frequente causa di morte nel mondo occidentale. Un grande numero di prove sperimentali e di dati epidemiologici hanno dimostrato che il processo aterosclerotico, principale responsabile del danno ischemico che si determina nei pazienti con malattie cardiovascolari, è accelerato dalla presenza di una iperlipoproteinemia e che la correzione, anche parziale, della iperlipoproteinemia riduce significativamente la mortalità cardiovascolare; ciò è risultato vero sia in studi di prevenzione primaria, cioè in pazienti senza precedenti segni di malattie cardiovascolari, sia in studi di prevenzione secondaria, cioè su pazienti già colpiti da episodi riconducibili ad una malattia cardiovascolare. I numerosi studi prospettici condotti a partire dalla secondo metà del secolo scorso hanno chiarito il 28 rapporto tra le diverse componenti lipidiche presenti nel sangue periferico ed il rischio di malattie cardiovascolari; in particolare è risultato che: • l’aumento dei livelli plasmatici di colesterolo-LDL rappresenta un importante fattore di rischio per l’insorgenza di aterosclerosi e, quindi, di malattie cardiovascolari • l’aumento dei livelli di colesterolo-HDL rappresenta un forte indice di protezione dalle malattie cardiovascolari • l’aumento dei livelli di trigliceridi rappresenta una condizione di rischio per l’insorgenza di aterosclerosi, ma la associazione con le malattie cardiovascolari risultata meno evidente di quella dimostrata per il colesterolo-LDL Le LDL promuovono l’aterogenesi in quanto: • alterano la funzione endoteliale e si accumulano nell’intima, dove vanno incontro a modificazioni principalmente ossidative • inducono le cellule endoteliali ad esprimere citochine chemiotattiche e molecole di adesione per i monociti • inducono il differenziamento dei monociti in macrofagi e la loro trasformazione in cellule schiumose Le HDL prevengono l’aterogenesi in quanto: • inibiscono l’ossidazione delle LDL grazie alla attività dell’enzima paraoxonasi e all’azione riducente delle apolipoproteine A • inibiscono l’espressione di molecole di adesione per i monociti sulla superficie delle cellule endoteliali • promuovono l’efflusso di colesterolo dai macrofagi, riducendo la formazione delle cellule schiumose È opinione ormai ampiamente condivisa che l'aterosclerosi sia il risultato di un processo infiammatorio che si sviluppa in risposta a danni metabolici (diabete, ipercolesterolemia), fisici (ipertensione) o comportamentali (abitudine al fumo). Tali danni, riconosciuti come i principali fattori di rischio per lo sviluppo dell’aterosclerosi, inducono la produzione di citochine pro-infiammatorie (TNFα e IL1), di molecole di adesione (E-selectine, VCAM, ICAM) e di cellule tipiche della risposta infiammatoria (monociti/macrofagi, linfociti e piastrine). Esistono inoltre evidenze molto chiare che dimostrano un ruolo centrale del processo infiammatorio non solo nella insorgenza della placca aterosclerotica, ma anche nel suo accrescimento e nella nello sviluppo delle complicanze (rottura in primis). Si è pertanto ipotizzato che le proteine della fase acuta possano rappresentare indicatori indiretti di aterosclerosi silente, costituendo uno strumento aggiuntivo per la definizione del rischio cardiovascolare individuale. Risultati ancora preliminari, ma già consistenti sul piano del numero dei pazienti analizzati, hanno dimostrato che i livelli di proteina C reattiva (PCR) sono significativamente associati allo sviluppo di malattie cardiovascolari, mostrando un potere predittivo indipendente e, talvolta, addirittura superiore a quello espresso dai tradizionali fattori di rischio. Secondo alcuni autori la PCR potrebbe addirittura avere un ruolo “diretto” nello sviluppo e nella progressione delle lesioni aterosclerotiche, costituendo quindi non tanto un marcatore di rischio quanto piuttosto un vero e proprio fattore di rischio cardiovascolare. Lipoproteina a o Lp (a): è una frazione proteica con densità tra IDL ed HDL e migrazione elettroforetica pre-β. V.n.: < 20 mg/dL La Lp (a) è una componente quantitativamente minore nella popolazione lipoproteica generale: la sua importanza clinica deriva dal fatto che un incremento su base genetica dei livelli sierici di questa lipoproteina è stato associato ad un aumento del rischio di sviluppare cardiopatia coronarica, probabilmente per omologia della sequenza di Apo(a) e del plasminogeno: tale omologia suggerisce che la Lp (a) possa competere con il plasminogeno nel legame con il tPA (attivatore tessutale del plasminogeno), inibendo così l’attività fibrinolitica basale del tPA circolante ed instaurando uno stato pro-trombotico. 29 Iperomocisteinemia: l’omocisteina è un aminoacido solforato intermedio della metionina; viene poi rimetilata a Met o transolforata a Cys da tre enzimi, la metilentetraidrofolato reduttasi, cistationina betasintetasi e metionina sintetasi, enzimi B12 e folato dipendenti. Ha effetto tossico sull’endotelio, riduce l’espressione della trombomodulina con conseguente ridotta attivazione della proteina C; facilita l’ossidazione delle LDL. V.n.: 5 - 15 µmol/Lt; fino a 30 sono classificati come moderati, fino a 100 intermedi, superiori a 100 abnormi. Diagnosi di laboratorio delle iperlipoproteinemie Il laboratorio di analisi può fornire al clinico, in tempi brevi e con costi contenuti, informazioni sui valori di concentrazione dei principali lipidi plasmatici ai fini di un orientamento diagnostico e di eventuali opzioni terapeutiche. Le indagini relative ai lipidi presenti nel siero consistono nel dosaggio: 1. dei trigliceridi 2. del colesterolo totale 3. della frazione di colesterolo riferibile alle HDL ottenuta precipitando le lipoproteine che contengono apo-B (VLDL, IDL, LDL) e dosando il colesterolo presente nel sovranatante (originato, a questo punto, dalle sole HDL) Il calcolo della frazione riferibile alle LDL viene invece ottenuto matematicamente applicando la formula Friedewald: nei campioni prelevati a digiuno, il colesterolo presente nelle VLDL e nelle IDL corrisponde a concentrazione dei trigliceridi / 5 (se espressi in mg/dL) o concentrazione dei trigliceridi / 2,2 (se espressi in mmol/L). Tale approssimazione (detta “di Friedewald”) è da ritenersi valida quando la concentrazione di trigliceridi risulti inferiore a 400 mg/dl. In queste condizioni (che, nella pratica clinica, si realizzano nella stragrande maggioranza dei casi), la frazione di colesterolo riferibile alle LDL può essere calcolata applicando la seguente equazione: col. totale = col. LDL + col. HDL + col. VLDL + col. IDL → col. LDL = col. totale - col. HDL - col. VLDL - col. IDL → col. LDL = col. totale - col. HDL - (col. VLDL + col. IDL) → col. LDL = col. totale - col. HDL - trigliceridi / 5 (mg/dL) = col. totale - col. HDL - trigliceridi / 2,2 (mmol/L) colesterolo totale: < 200 mg/dl nell’adulto; < 180 mg/dl nel giovane trigliceridi: 150 - 200 mg/dl colesterolo-LDL: < 130 mg/dl ( < 100 mg/dL se con altro fattore di rischio, < 70 se con pregresso fatto ischemico); val. limite: 130 - 159 mg/dl; rischio elevato: > 160 mg/dl colesterolo-HDL: > 35 mg/dl (secondo alcuni > 40 mg/dl) ♂; > 45 mg/dl ♀ col. LDL 3 col. HDL col. totale 5 col. HDL 1. Classificazione “di laboratorio”, o “fenotipica”, delle iperlipoproteinemie secondo Frederickson fenotipo I IIa IIb III IV V analisi delle lipoproteine: chilo VLDL IDL LDL ++ + ++ ++ + ++ ++ N ++ ++ ++ N/- analisi dei lipidi: colesterolo trigliceridi + ++ ++ ++ + + +++ N ++ ++ ++ ++ aspetto del siero (dopo 16 ore a 4°C) tappo cremoso e siero limpido siero chiaro, colore giallo-arancio siero chiaro o lievemente torbido siero torbido con strato cremoso siero torbido o opalescente tappo cremoso e siero torbido Questa classificazione si basa ancora oggi sullo schema proposto da Frederickson nel 1970; essa prevede la ripartizione delle varie forme di iperlipoproteinemia in 6 fenotipi distinti in base: 30 1. all’aspetto del siero (dopo una notte a +4°C) 2. alla composizione di colesterolo e trigliceridi 3. alla analisi elettroforetica delle lipoproteine 2. Classificazione “patogenetica” delle iperlipoproteinemie La classificazione delle iperlipoproteinemie secondo Frederickson, pur essendo ancora in uso nella pratica clinica, presenta il grosso limite di non considerare né i difetti metabolici alla base del disordine lipidico, né il carattere primitivo o secondario del disordine stesso: inoltre, non tiene conto del comportamento delle HDL. Una classificazione più moderna delle iperlipoproteinemie si basa invece sull’inquadramento patogenetico delle stesse e prevede la distinzione di forme primitive, da causa genetica, e di forme secondarie, associate cioè ad altre patologie. • Iperlipoproteinemie primitive (da causa genetica): ◦ ipercolesterolemia isolata ▫ ipercolesetrolemia familiare ▫ difetto familiare di apo B100 ▫ ipercolesterolemia poligenica ◦ ipertrigliceridemia isolata ▫ ipetrigliceridemia familiare ▫ deficit familiare di LPL ▫ deficit familiare di apo C II ◦ ipercolesterolemia con ipertrigliceridemia ▫ iperlipidemia familiare combinata ▫ disbetalipoproteinemia • Iperlipoproteinemie secondarie: ▫ da diabete mellito ▫ da ipotiroidismo ▫ da ostruzione delle vie biliari ▫ da sindrome nefrosica ▫ da disgammaglobulinemia ▫ da etanolo 31 ESAMI DI LABORATORIO PER LA DIAGNOSI DEL DIABETE MELLITO E PER IL MONITORAGGIO DEL PAZIENTE DIABETICO Il termine “diabete” (δία βάινο, letteralmente “scorro attraverso” ) è correlato al sintomo della poliuria. Sulla base delle caratteristiche delle urine sono state storicamente distinte due forme di diabete: • il diabete mellito, causato da una ridotta attività biologica della insulina e caratterizzato dalla emissione di urine zuccherate • il diabete insipido, molto più raro, causato da un deficit di ADH e caratterizzato dalla emissione di urine insapori e particolarmente ipotoniche ormone origine insulina pancreas - aumenta la captazione cellulare del glucosio - stimola la glicogenosintesi, la sintesi di acidi grassi e trigliceridi, e la sintesi proteica - inibisce la glicogenolisi, la proteolisi e la lipolisi pancreas - stimola la glicogenolisi - stimola la gluconeogenesi - stimola la chetogenesi pancreas - inibisce il rilascio di glucagone e di insulina surrene - stimola la glicogenolisi - stimola la lipolisi - induce la sintesi del glucagone surrene - stimola la gluconeogenesi - stimola la lipolisi ipofisi - aumenta il rilascio di cortisolo - stimola la lipolisi ipofisi - antagonista dell’insulina - stimola la lipolisi tiroide - stimola la glicogenolisi - stimola l’assorbimento intestinale degli zuccheri glucagone somtostatina adrenalina cortisolo ACTH GH tiroxina principali effetti metabolici effetto sulla glicemia diminuzione aumento aumento aumento aumento aumento aumento aumento Riserve energetiche nell'uomo: I lipidi rappresentano la principale forma di deposito di energia del nostro organismo: il loro elevato equivalente calorico (9,5 kcal/g) e la loro elevata quantità (un uomo adulto di 70 kg possiede circa 15 kg di lipidi) ne garantiscono infatti un potenziale calorico complessivo di circa 140.000 kcal. I glucidi hanno un equivalente calorico di sole 4 kcal/g ed il loro contenuto totale nell’adulto è più basso (glucosio ematico 7 g, glicogeno epatico 75 g, glicogeno muscolare 400 g): pertanto, il loro potenziale calorico complessivo è di sole di 2.000 kcal; ciononostante, i glucidi sono componenti essenziali del nostro organismo in quanto costituiscono un substrato preferenziale per alcuni tessuti (sistema nervoso centrale, globuli rossi, midollare del surrene) ed in specifiche circostanze (digiuno breve, esercizio fisico breve). Le proteine costituiscono circa il 40-50% del peso corporeo totale; sono costituite da amminoacidi, il cui equivalente calorico corrisponde a 4,2 kcal/g. Proinsulina: 86 aa, formata da catena A (21aa), catena B (30aa) e peptide C (31aa) che viene staccato e secreto insieme all’insulina. La secrezione dell’insulina è stimolata dalla glicemia, ed inibita dalla somatostatina; ormone antagonista diretto è il glucagone, insieme ad adrenalina, cortisolo, ACTH, GH e tiroxina. Principali effetti biologici: • stimola l’ingresso di glucosio nelle cellule riducendo la glicemia • stimola la glicogenositesi e inibisce la glicogenolisi • stimola la glicolisi e inibisce la gluconeogenesi • stimola la sintesi di acidi grassi e trigliceridi e inibisce il catabolismo lipidico 32 • • • • • • riduce la chetogenesi favorendo l’ingresso dell’acetil-coenzima-A nel ciclo di Krebs stimola l’ingresso di aminoacidi nelle cellule (soprattutto muscolari) riducendo l'aminoacidemia facilita l’avvio della formazione di catene peptidiche, stimolando quindi la sintesi proteica, e riduce la proteolisi favorisce l’ingresso cellulare di potassio e l’uscita di sodio favorisce la sintesi degli acidi nucleici stimola la crescita dei tessuti esercitando una azione anabolizzante Diabete mellito Il diabete mellito è una condizione caratterizzata da un patologico aumento della concentrazione di glucosio nel sangue conseguente ad una carenza assoluta o relativa, rispetto al soggetto normale di uguale peso e costituzione, dell’attività biologica dell’insulina. Il deficit insulinico si riflette sul metabolismo intermedio e terminale non solo del glucosio, ma anche degli aminoacidi e dei lipidi, cosicché il diabete mellito si presenta come una condizione morbosa che abbraccia tutti gli aspetti metabolici dell’organismo e che, con le sue complicanze, può interessare praticamente tutti gli organi e gli apparati; la sindrome può decorrere completamente asintomatica o manifestarsi con patologie a carico di differenti organi fino ad essere una condizione gravemente invalidante per la vita di relazione, con esito anche fatale. Il diabete è diagnosticato nel 3% della popolazione italiana; circa il 10% di questi pazienti è affetto da diabete di tipo 1 ed è in trattamento insulinico, mentre il restante 90% è affetto da diabete di tipo 2 ed è in trattamento con insulina (10%), con ipoglicemizzanti orali (60%) o con la sola dieta (30%). A questa quota di diabete diagnosticato si deve aggiungere una quota, dello stesso ordine di grandezza, di diabete non diagnosticato, rappresentato esclusivamente da diabete di tipo 2; ciò significa che nel nostro paese vi sono non meno di 3.000.000 soggetti diabetici, solo per la metà riconosciuti come tali. inoltre, il 50% dei casi diagnosticati ha già almeno una complicanza al momento della diagnosi. La prevalenza del diabete di tipo 2 aumenta con l'età; al di sopra dei 65 anni, oltre il 10% della popolazione italiana risulta affetta da diabete. • • • • diabete di tipo 1 (T1DM) diabete di tipo 2 (T2DM) altri tipi (forme da causa nota): ◦ difetti genetici della funzione delle cellule beta (MODY ed altri) ◦ difetti genetici dell’azione insulinica ◦ malattie del pancreas esocrino (pancreatiti, traumi, pancreasectomia, neoplasie, fibrosi cistica, emocromatosi, altre) ◦ endocrinopatie (acromegalia, sindrome di Cushing, glucagonoma, feocromocitoma, ipertiroidismo, aldosteronoma, somatostatinoma) ◦ indotto da farmaci o da sostanze chimiche (vacor, pentamidina, acido nicotinico, glucocorticoidi, ormone tiroideo, agonisti β-adrenergici, tiazide, fenitoina, inteferone α, altre) ◦ infezioni (rubella congenita, citomegalovirus, altre) ◦ altre forme non comuni immuno-mediate ◦ altre sindromi genetiche talvolta associate al diabete (sindrome di Down, sindrome di Klinefelter, sindrome di Turner, atassia di Friedreich, corea di Huntington, sindrome di Lawrence-Moon Beidel, distrofia miotonica, porfiria, sindrome di Prader-Willi, altre) diabete gestazionale Complicanze del diabete La malattia diabetica, in costante aumento nella società industrializzata, costituisce un importante problema sanitario e sociale per l’elevata frequenza con la quale si accompagna a complicanze croniche, 33 spesso invalidanti, conseguenti allo sviluppo di gravi lesioni vascolari che si producono diversi anni dopo l’insorgenza della malattia, e che sono provocate dagli elevati livelli di glucosio nel sangue; tali complicanze comprendono: • la microangiopatia diabetica (retinopatia, neuropatia, nefropatia), caratterizzata dall’ispessimento della membrana basale dei capillari e dalla compromissione dei parenchimi interessati per il ridotto apporto di ossigeno e nutrienti • la macroangiopatia diabetica, che è alla base delle complicanze aterosclerotiche di cui il diabete è un importante fattore di rischio, comprendenti la coronaropatia, la vasculopatia periferica e la malattia cerebrovascolare Criteri per la diagnosi di diabete ADA (American Diabetes Association) - 1997 Soggetto normale: glicemia a digiuno < 110 mg/dl 2hrPPG (two-hour post-prandial plasma glucose) < 140 mg/dl Intolleranza al glucosio: 2hrPPG: 140 - 200 mg/dl Alterata omeostasi glucidica: glicemia a digiuno : 110 - 125 mg/dl Diabete mellito: riscontro in almeno due occasioni di: • sintomi di diabete mellito associati al riscontro casuale di valori ematici di glicemia ≥ 200 mg/dl • glicemia a digiuno (FPG: fasting plasma glucose) ≥ 126 mg/dl • 2hrPPG ≥ 200 mg/dl dopo un carico di 75 g di glucosio DIABETE DIABETE ≥ 126 mg/dl ≥ 200 mg/dl < 126 mg/dl < 200 mg/dl ALTERATA OMEOSTASI GLUCIDICA INTOLLERANZA AL GLUCOSIO ≥ 105 mg/dl ≥ 140 mg/dl < 105 mg/dl < 140 mg/dl NORMALE METABOLISMO GLUCIDICO NORMALE METABOLISMO GLUCIDICO GLICEMIA A DIGIUNO (FPG) • • • • • • • GLICEMIA DOPO CARICO DI GLUCOSIO (2hrPPG) Indagini di laboratorio per la diagnosi di diabete glicemia a digiuno e 2 ore dopo il pasto (2hrPPG) glicosuria insulinemia basale e 2 ore dopo il pasto chetonemia e chetonuria (T1DM) ricerca di specifici auto-anticorpi (T1DM): 1. anticorpi anti-cellule pancreatiche (ICA: Islet Cell Antibodies) 2. anticorpi anti-insulina (IAA: Insulin Auto Antibodies) 3. anticorpi anti-acido glutammico decarbossilasi (GADA: Glutamic Acid Decarboxylases Autoantibodies, o anti-GAD65), 4. anticorpi anti-tirosinfosfatasi (IA2) tipizzazione per gli antigeni HLA (T1DM) diagnosi molecolare delle forme genetiche 34 Criteri per la diagnosi di diabete in gravidanza Test di screening: da eseguire tra la 24a e 28a settimana di gravidanza. glicemia digiuno 1 ora 2 ora 3 ora test di test diagnostico screening (50g) (100g) 105 mg/dl 140 mg/dl 190 mg/dl 165 mg/dl 145 mg/dl Diabete di tipo 1 (T1DM) Il T1DM deriva da una grave mancanza di insulina dovuta alla riduzione della massa globale di cellule β. In genere insorge nell’infanzia e diviene manifesto e grave nella pubertà, da cui il termine: “diabete giovanile”. I pazienti dipendono dall’insulina per la loro sopravvivenza e senza terapia sostitutiva sviluppano gravi complicazioni metaboliche acute quali la chetoacidosi e il coma, da cui il termine “diabete insulino dipendente” (IDDM: insulin dependent diabetes mellitus). Patogenesi: L’elemento fondamentale di questa forma di diabete è rappresentato dalla distruzione delle cellule β insulari. L’ipotesi patogenetica più accreditata prevede che tale distruzione sia determinata da un processo autoimmune scatenato da un agente ambientale sconosciuto in individui geneticamente predisposti. • L’importanza dei fattori genetici è documentata dalle seguenti osservazioni: ◦ i bambini che hanno un parente di primo grado affetto presentano un maggiore rischio di sviluppare la malattia rispetto ai coetanei che non hanno parenti di primo grado affetti (fenomeno della aggregazione familiare); ◦ l’incidenza di concordanza cumulativa in fratelli di pazienti affetti da diabete di tipo 1 è del 10%, cioè 20 volte superiore a quella della popolazione generale della stessa età; ◦ l’incidenza di concordanza cumulativa fra gemelli omozigoti è tra il 35 ed il 50 % (a seconda delle diverse casistiche), e può arrivare al 70% nei soggetti che hanno entrambi gli allei del sistema HLA ad alto rischio di malattia; ◦ il diabete di tipo 1 risulta fortemente associato con specifici antigeni di istocompatibilità di classe II (in particolare HLA-DR3, HLA-DR4 e HLA-DQ2); l’allele HLA-DR2 avrebbe invece un ruolo protettivo. • L’importanza dei fattori ambientali è documentata dalle seguenti osservazioni: ◦ i casi di T1DM aumentano nelle popolazioni che migrano verso aree geografiche ad alta incidenza; ◦ in alcune nazioni quali Polonia, Nuova Zelanda, Estonia e Stati Uniti, sono state registrate “epidemie” di T1DM, per la maggior parte nella prima metà degli anni ’80; ◦ nei mesi invernali si osserva una aumento dell’incidenza della malattia. I fattori ambientali potenzialmente responsabili sono stati identificati in: ▪ infezioni virali (Coxsakie B, Citomegalovirus, Epstein-Barr, Parotite, Rotavirus ed altri); ▪ alimenti (proteine del latte vaccino assunte prima del 4 mese di vita, glutine, altri); ▪ tossine ? Sebbene l’esordio del T1DM sia solitamente improvviso, la malattia in realtà risulta da una attacco autoimmune di tipo cronico delle cellule beta, presente da anni prima dell’inizio delle manifestazioni cliniche. Iperglicemia e chetosi si determinano quando più del 90% delle cellule beta è stato distrutto. Il ruolo dei meccanismi autoimmunitari è sostenuto da diverse evidenze: • insulite: l’infiltrato cellulare che si osserva nei modelli animali durante le fasi iniziali del diabete consiste per lo più di linfociti CD8+ e da un numero variabile di CD4+ e macrofagi; i linfociti CD4+ di animali malati possono trasmettere la malattia a animali sani, confermando il ruolo importante dell’autoimmunità T mediata; inoltre, una infiltrazione linfocitaria è sempre documentabile nei 35 • soggetti morti con diabete di recente insorgenza; autoanticorpi circolanti diretti contro le cellule insulari (ICA) e altri auto-anticorpi si ritrovano nella maggior parte dei soggetti con T1DM di recente diagnosi e sono spesso presenti nel periodo di “prediabete”; inoltre, circa il 10% dei soggetti con diabete T1DM è portatore di altri disordini autoimmuni organo-specifici quali la malattia di Graves, la malattia di Addison e la tiroidite di Hashimoto. Il diabete di tipo 1 esordisce nel 95% dei casi prima dei 25 anni e, comunque, sempre prima dei 35. Il paziente tipico ha aspetto fisico normale o deperito, comunque non obeso. I sintomi possono comparire bruscamente e sono costituiti da: • poliuria, cioè diuresi osmotica provocata dalla glicosuria, talvolta associata a sintomi di disidratazione • polidipsia, cioè sete intensa conseguente alla perdita di acqua ed elettroliti • polifagia, cioè aumento dell’appetito conseguente al passaggio da una fase anabolica insulinodipendente ad una fase catabolica da deficit insulinico • progressivo calo ponderale • debolezza muscolare • chetoacidosi La chetoacidosi diabetica è indotta da un grave deficit insulinico associato ad un incremento assoluto o relativo del glucagone che si produce: • nel diabete di tipo 1 non sufficientemente trattato o non ancora trattato con insulina, o in seguito a brusca interruzione della terapia con insulina • nel diabete di tipo 1 o, raramente, di tipo 2 in seguito alla liberazione di un eccesso di ormoni controregolatori dell’insulina conseguente a stress fisici (infezioni, traumi, interventi chirurgici, ecc.) o emozionali Per fornire alle cellule fonti energetiche alternative al glucosio, l’organismo ricorre la catabolismo dei lipidi (lipolisi); dalla mobilitazione degli acidi grassi liberi (NEFA) e del loro accelerato catabolismo epatico (β- ossidazione) si produce un eccesso di acetil-CoA che non può entrare nel ciclo di Krebs per difetto del suo partner naturale, l’acido ossalacetico. Dalla condensazione delle molecole di acetil-CoA formatesi in eccesso si producono i corpi chetonici (acido acetacetico, acido β-idrossibutirrico e acetone) che possono giungere ad alterare l’equilibrio acido base, orientandolo nel senso della acidosi; l’acidosi a sua volta può scompensarsi in seguito a condizioni intercorrenti (infezioni o altri tipi di stress) e precipitare il coma chetoacidosico. capacità dell’insulina di regolare l’iperglicemia rappresentazione schematica del periodo di “luna di miele” stess acuto periodo di luna di miele diabete manifesto chetoacidosi I I 12 13 I 14 anni Diabete di tipo 2 (T2DM) Il diabete di tipo 2 rappresenta l’80 – 90% delle forme di diabete: si manifesta dopo i 40 anni (da cui il 36 termine “diabete dell’età adulta”) in pazienti tipicamente sovrappeso; l’esordio è sintomatologicamente graduale e spesso l’iperglicemia è un riscontro occasionale durante indagini di laboratorio di routine in soggetti asintomatici. Questi pazienti solitamente non sviluppano chetoacidosi (da cui il termine “diabete non insulino dipendente” - NIDDM: not insulin dependent diabetes mellitus), mentre in caso di scompenso può verificarsi un coma iperosmolare. I pazienti con diabete di tipo 2 presentano due caratteristiche fisiopatologiche fondamentali: • una alterata produzione di insulina da parte delle cellule β • una resistenza dei tessuti periferici all’azione della insulina Patogenesi: Si possono riconoscere tre fasi nell’andamento della malattia: • una prima fase con glicemia normale nonostante la presenza di elevati livelli di insulina, segno di resistenza periferica all’insulina • una seconda fase in cui si assiste ad un aumento della resistenza all’insulina con progressiva diminuzione della tolleranza al glucosio e conseguente comparsa di iperglicemia post-prandiale • una terza fase in cui non si modifica significativamente la resistenza all’insulina, ma • si assiste ad una riduzione della secrezione della insulina che determina l’insorgenza di iperglicemia a digiuno e diabete franco Il coma iperosmolare è caratterizzato da una disidratazione imponente prodotta da una diuresi eccessiva non controbilanciata da un apporto idrico adeguato. Clinicamente si manifesta con iperglicemia gravissima (anche >1000 mg/dl), iperosmolarità, ipovolemia e ipernatriemia, insieme a segni di interessamento del sistema nervoso centrale che possono andare dall’obnubilamento del sensorio fino al torpore e al coma: sono spesso presenti malattie concomitanti di vario genere e il coma può essere precipitato dalla somministrazione di farmaci quali diuretici, corticosteroidi e fenitoina. • • • • • • • Fattori di rischio per il diabete di tipo 2 familiarità per il diabete (parenti di primo grado affetti da diabete mellito di tipo 2) obesità: IBW (ideal body weight) > 120% o MBI (body mass index) > 27kg/m2 appartenenza a popolazioni a rischio: afro-americani, ispano-americani, americani autoctoni, americani-asiatici, abitanti delle isole del Pacifico precedente riscontro di alterata tolleranza al glucosio o alterata glicemia a digiuno madri di feti macrosomici (con peso > 4,032 Kg) o con diabete gestazionale ipertensione (PA > 140/90) colesterolo HDL < 35 mg/dl e/o trigliceridi > 250 mg/dl LADA: Latent Autoimmune Diabetes in Adults (Late-onset Autoimmune Diabetes of Adulthood) Slow Onset Type 1 diabetes - Type one-and-a-half (1.5) diabetes Caratteristiche principali: • insorge in età adulta (solitamente oltre i 25 anni) • si presenta come diabete di tipo 2 (per l’età e per l’assenza di chetoacidosi) in soggetti non obesi che solitamente non presentano familiarità per il diabete • inizialmente può essere controllato con la dieta e con ipoglicemizzanti orali • nel giro di pochi mesi sviluppa gradualmente insulino-dipendenza • non presenta resistenza periferica all’insulina • presenta bassi valori di peptide C • è positivo agli auto-anticorpi (anti-GAD65) • • Indagini di laboratorio per il monitoraggio del paziente diabetico glicemia/glicosuria insulinemia 37 • • • • peptide C: frammento di 31 aminoacidi che si stacca dalla proinsulina e si libera in circolo dalle cellule β-pancreatiche in quantità equimolari all’insulina emoglobina glicata (HbA1c): quota di emoglobina legata al glucosio; riflette una glicemia media relativa ai 30-60 giorni precedenti il prelievo indici di funzionalità renale: micro-albuminuria, BUN (blood urea nitrogen), creatininemia assetto lipidico: colesterolo totale e frazionato, trigliceridi L’emoglobina glicata (HbA1c) rappresenta il prodotto di una reazione non enzimatica tra una molecola di glucosio e il gruppo amino-terminale (-NH2) della valina presente nelle catene β dell’emoglobina. Tale reazione avviene in due fasi delle quali la prima, reversibile, conduce alla formazione di una base di Schiff (aldimina) e la seconda, irreversibile, alla formazione di un prodotto di Amadori, la chetoamina (HbA1c). Un incremento transitorio della glicemia può produrre la formazione di una notevole quantità di aldimine, reazione comunque reversibile con la normalizzazione dei valori glicemici; la persistenza di iperglicemia rende invece tale reazione irreversibile, per cui la molecola di emoglobina resterà “glicata” sino alla morte del globulo rosso. • • “goals” del trattamento del paziente diabetico glicemia a digiuno < 120 mg/dl HbA1c < 7% Screening per la diagnosi di diabete di tipo 2 in soggetti asintomatici L'introduzione di uno screening per la diagnosi di diabete di tipo 2 in soggetti asintomatici viene fortemente incoraggiato dalle seguenti considerazioni: • un gran numero di individui che risulterebbero affetti da diabete mellito secondo i criteri correnti sono inconsapevoli della loro malattia • studi epidemiologici suggeriscono che, relativamente al diabete di tipo 2, l’intervallo tra insorgenza e diagnosi della malattia potrebbe essere intorno ai 10 anni • il 50% dei pazienti con diabete di tipo 2 presenta, già al momento della diagnosi, una o più complicanze specifiche del diabete mellito Come test di screening è stato proposto di valutare la glicemia a digiuno ogni 3 anni in tutti gli individui di età superiore ai 45 anni; nei soggetti “a rischio” è consigliabile iniziare lo screening a partire da una età più precoce. 38 ESAMI DI LABORATORIO PER LA VALUTAZIONE DELLA FUNZIONALITÀ RENALE I. Esame della urina: 1. esame delle caratteristiche fisiche 2. esame delle caratteristiche chimiche 3. esame microscopico del sedimento urinario II. Determinazione della concentrazione ematica di composti azotati non proteici: 1. uremia (BUN: blood urea nitrogen) 2. creatininemia 3. uricemia III. Clearance renali: 1. clearance dell’inulina e della creatinina per la determinazione del filtrato glomerulare 2. clearance del PAI per la determinazione della portata renale plasmatica IV. Prove funzionali: 1. prova di diluizione 2. prova di concentrazione I. Esame della urina 1. Caratteristiche fisiche: • colore colore rosso cause patologiche - emoglobina - mioglobina - porfirine arancio - pigmenti biliari giallo intenso - urina molto concentrata giallo chiaro verde - diabete - biliverdina - batteri (pseudomonas) - mioglobina - pigmenti biliari - nessuna marrone blu • • cause non patologiche - farmaci - coloranti - bietole - rabarbaro - farmaci contro infezioni vie urinarie - carote - fenacetina - nitrofurantoina - nessuna - vitamine - farmaci psicoattivi - diuretici - nitrofurani - alcuni sulfamidici - diuretici aspetto: liquido o torbido peso specifico: il rapporto tra il peso in grammi della sostanza ed il peso di un uguale volume di acqua distillata a 4°C. In condizioni normali il peso specifico dell’urina varia tra 1,014 e 1,026 (dette poi 1014 e 1026): se il peso specifico scende sotto 1,014 si parla di ipostenuria, situazione che si verifica quando il rene perde, in parte, la sua capacità di concentrare e diluire le urine; quando i reni perdono completamente questa capacità, il peso specifico delle urine rimane costantemente uguale a quello del filtrato glomerulare, cioè intorno a 1,007 (isostenuria). Nelle poliurie le urine hanno solitamente basso peso specifico (con l’eccezione importante del diabete) mentre nelle oligurie il peso specifico delle urine è solitamente aumentato. 2. Caratteristiche chimiche: • pH: il pH dell’urina varia fisiologicamente tra 4,5 a 8; normalmente è comunque intorno a 6 (oscillando tra 5,5 e 6,5), dunque debolmente acido: il pH urinario risulta ridotto negli stati di acidosi mentre sarà aumentato negli stati di alcalosi. 39 • • L’acidità urinaria aumenta in caso di digiuno, se si segue una dieta particolarmente ricca di cibi carnei e di grassi, in caso di prolungato esercizio muscolare o in seguito all’assunzione di farmaci acidificanti; viceversa, la reazione delle urine sarà alcalina se si segue una dieta vegetariana, se si assumono farmaci alcalinizzanti o nel caso di ritenzione urinaria con urine che ristagnano a lungo nella vescica (ipertrofia prostatica). Glucosio e corpi chetonici: normalmente il glucosio non è presente nelle urine se non in tracce; quando la glicemia supera i 180-200 mg/dl, la capacità del carrier specifico per il riassorbimento tubulare del glucosio viene superata e, pertanto, si osserva la comparsa di glucosio nelle urine (glicosuria). I corpi chetonici originano dall’incompleto catabolismo dei lipidi; nelle urine sono rappresentati per il 78% da acido β-idrossibutirrico, per il 20% da acido acetacetico e per il 2% da acetone; la chetonuria è un reperto caratteristico del diabete mellito scompensato e del digiuno prolungato. Proteine: nelle urine di un soggetto normale si riscontrano solo tracce di proteine, quantificabili con valori di perdita proteica giornaliera compresi tra 40 e 80 mg (valore massimo 150 mg). La presenza di valori superiori di proteine nelle urine è indicata con il termine di proteinuria. La proteinura può essere la conseguenza o di una alterazione dei glomeruli, che lasciano filtrare una quantità abnormemente elevata di proteine, o di una diminuita capacità dei tubuli di riassorbire le proteine Se valutate qualitativamente le proteinurie sono classificate in fisiologiche, glomerulari, tubulari e miste. Se valutate quantitativamente sono invece classificate in lievi (< 1 g/die), moderate (1- 3 g/die) e gravi (> 3 g/die). Il tracciato elettroforetico della proteinuria fisiologica deve essere eseguito su proteine fortemente concentrate e presenta le seguenti caratteristiche: l’albumina è poco evidente e in quantità minore (30-40%) rispetto alle globuline; le globuline anziché presentarsi come frazioni ben distinte appaiono come una zona continua indifferenziata. ◦ Le proteinurie glomerulari sono caratterizzate dalla presenza nelle urine di proteine ad alto peso molecolare (PM > 70.000); sono espressione di un danno glomerulare e costituiscono il tipo più frequente di proteinurie patologiche. Le proteinurie glomerulari sono a loro volta distinte in altamente selettive se viene escreta quasi esclusivamente albumina (PM 69.000), selettive quando assieme all’albumina sono escrete proteine con PM tra 70.000 e 100.000 (ad esempio la transferrina, con PM 90.000 ) e non selettive quando sono escrete proteine con PM superiore a 100.000, fino al passaggio nelle urine di quasi tutte le proteine plasmatiche. ◦ Le proteinurie tubulari sono caratterizzate dalla presenza nelle urine di proteine a basso PM (tra 10.000 e i 30.000), dette microglobuline, quali la β2-microglobulina (PM 11.000), il lisozima (PM 14.500) e la α2-microglobulina o RBP (retinol binding protein: PM 21.000); sono generalmente di modica entità e testimoniano un ridotta capacità del tubulo renale di riassorbire le proteine a basso peso molecolare normalmente filtrate del glomerulo. ◦ Le proteinurie sono frequentemente prodotte dal sommarsi di un’alterazione glomerulare e di un’alterazione tubulare: si hanno così le proteinurie miste, caratterizzate dalla presenza nell’urina di un notevole numero di frazioni proteiche, comprendenti: ▫ albumina ▫ frazioni proteiche plasmatiche ▫ frazioni proteiche caratteristiche della proteinuria tubulare (microglobuline) Overflow proteinuria: questo tipo di proteinuria è anche detta pre-renale per sottolineare che non è dovuta a nefropatia; compare quando si determina l’aumento della concentrazione plasmatica di una proteina con basso peso molecolare (PM) dovuta ad iperproduzione. La proteinuria di Bence Jones (PM tra 25.000 e 40.000) rappresenta un esempio classico di overflow proteinuria; altre proteine interessate possono essere la mioglobina (PM 17.000), l’emoglobina (PM 64.000), il lisozima (PM 14.500), la α1-antitripsina (PM 45.000) e la α1-glicoproteina acida 40 • • • (PM 44.000). Emoglobina: la molecola di emoglobina ha dimensioni tali da passare il filtro glomerulare (PM 64.000): tuttavia normalmente ciò non avviene in quanto l’emoglobina è contenuta all’interno dei globuli rossi. Nella emolisi intravascolare, l’emoglobina che si libera in circolo viene captata dall’aptoglobina e veicolata al sistema reticoloendoteliale: la capacità dell’aptoglobina di legare l’emoglobina è però saturata da concentrazioni ematiche di emoglobina superiori a 100-150 mg/dl; pertanto, il riscontro di emoglobina nelle urine indica la presenza di una emolisi intravascolare importante. Si può avere emoglobinuria anche nei casi di sanguinamento delle vie urinarie con successiva parziale emolisi delle emazie all’interno delle urine; in questo caso l’emoglobinuria si associa ad ematuria. Bilirubina e urobilinogeno: la bilirubina non coniugata (indiretta) è insolubile in acqua e non passa il filtro glomerulare mentre la bilirubina coniugata (diretta) è idrosolubile e può quindi passare il filtro glomerulare; in condizioni normali la bilirubina circolante è per la maggior parte nella forma non coniugata e, pertanto, non si riscontra nelle urine. L’urobilinogeno si forma nell’intestino per riduzione della bilirubina libera: per lo più viene eliminato con le feci, mentre una piccola quota viene riassorbita ed eliminata poi con la bile ed, in minima parte, attraverso il rene (0,5-1,5 mg/24 ore); pertanto, in condizioni normali l’urobilinogeno è presente nelle urine solo in tracce. Nitriti: la presenza di nitriti nelle urine è indice di una elevata carica batterica; il test è giustificato dal fatto che numerose specie batteriche (Escherichia coli, Aerobacter, Proteus, Klebsielle, Pseudomonas, Enterococchi, Stafilococchi ed altre) riducono i nitrati (derivati dalla assunzione di verdure fresche con la dieta) a nitriti. La negatività del test non consente di escludere la presenza di batteri nelle urine, in quanto alcuni germi non riducono i nitrati; c’è inoltre la possibilità che il soggetto non abbia nitrati nelle urine, oppure che l’urina esaminata non sia rimasta in vescica per un tempo sufficiente alla trasformazione dei nitrati da parte dei batteri. 3. Esame microscopico del sedimento urinario: il sedimento urinario si ottiene dalla centrifugazione di 10-15 mL di urina a velocità moderata in una provetta a fondo conico: dopo decantazione del sovrastante e risospensione in 0,2 - 0,5 ml una goccia del sedimento viene posta su un vetrino ed esaminata al microscopio. In condizioni normali il sedimento urinario è scarsissimo ed offre a considerare isolate cellule epiteliali derivate dallo sfaldamento degli epiteli che ricoprono le vie genitali, l’uretra e la vescica; potranno inoltre essere evidenziate sostanze minerali amorfe o organizzate in cristalli. • Le cellule dei tubuli renali sono poco più grandi dei leucociti e presentano un grande nucleo ovale. • Le cellule transizionali sono più grandi e meno rotonde delle precedenti e presentano un nucleo proporzionalmente più piccolo. • Le cellule epiteliali squamose sono ancora più grandi, di forma poligonale e nucleo molto piccolo. I cristalli dipendono principalmente dalla dieta e dal pH delle urine; non hanno un preciso significato patologico (anche se sono più frequenti in corso di infezioni delle vie urinarie). Nelle urine a reazione acida si possono osservare cristalli di acido urico, urati amorfi e cristalli di ossalato di calcio, mentre le urine a reazione basica possono presentare cristalli di fosfato di ammonio e magnesio, cristalli di fosfato di calcio e fosfati amorfi. Lo studio della natura dei cristalli è giustificato principalmente in pazienti con malattia litiasica, allo scopo di definire la composizione di calcoli. Reperti patologici: • cilindri: i cilindri sono formazioni che riproducono a stampo il lume dei tubuli distali e dei dotti collettori, dove si formano per particolari condizioni di pH, stasi e concentrazione urinaria; la loro matrice è costituita da proteine e, pertanto, sono reperto frequente di glomerulopatie; a seconda della composizione si distinguono cilindri amorfi e cilindri cellulari (epiteliali, ematici, 41 • • • • leucocitari). muco: il muco è un reperto non necessariamente patologico, legato ad uno stato irritativo delle mucose urinarie con effetto di stimolo sulla secrezione delle cellule mucipare; i cilindri di solo muco sono detti cilindroidi. globuli rossi: in presenza di eritrociti nel sedimento si parla di ematuria; il termine ematuria macroscopica si riferisce ad una ematuria rilevabile ad occhio nudo, al contrario si dice microscopica. Sulla base del quantità di eritrociti presenti nell'ematuria macroscopica si distingue inoltre la microematuria (riscontro di un basso numero di globuli rossi) dalla macroematuria (globuli rossi distribuiti a tappeto). Gli eritrociti raramente si presentano con la loro tipica forma a disco biconcavo, ma molto più spesso sono rigonfi (urine ipotoniche) o disidratati (urine ipertoniche): la loro morfologia dipende quindi dalla osmolarità dell’urina. Le urine non dovrebbero contenere eritrociti; tuttavia qualche globulo rosso può essere talvolta riscontrato anche nelle urine di soggetti in buono stato di salute. Le principali cause di ematuria sono rappresentate da glomerulopatie, tumori delle vie urinarie, traumi renali, litiasi delle vie urinarie, infarti renali, necrosi tubulare acuta, infezioni della alte e basse vie urinarie e stress fisici; le urine possono inoltre risultare contaminate da eritrociti provenienti dalla vagina in donne mestruate o da traumi conseguenti a recente cateterismo vescicale. globuli bianchi: la presenza di leucociti nelle urine (leucocituria) è indicativa di una processo infettivo delle vie urinarie; si parla di piuria quando l’elevato numero di leucociti presenti conferisce all’urina un aspetto torbido. batteri e parassiti: la presenza di batteri nelle urine (batteriuria) è un reperto costante: si definisce patologica una batteriuria con > 105 Unità Formanti Colonie/mL di urina; oltre a batteri, nelle urine si possono riscontrare funghi (Candida) o parassiti (Trichomonas vaginalis, Trichomonas hominis). II. Determinazione della concentrazione ematica di composti azotati non proteici I principali composti azotati non proteici presenti nel sangue sono l’urea, la creatinina e l’acido urico. Il rene elimina con le urine questi composti in concentrazione assai più elevata di quanto non si trovino nel plasma (l’urea è concentrata circa 60 volte e la creatinina circa 50); affinché questo lavoro possa svolgersi è necessaria una normale funzionalità renale e una normale portata renale plasmatica: se uno di questi due fattori si riduce, le sostanza azotate non vengono più eliminate in maniera adeguata e si accumulano nel sangue. La valutazione di questi fattori è il migliore metodo per esaminare la funzione renale. 1. Uremia e BUN (blood urea nitrogen): L’urea è il prodotto di fissazione della ammoniaca che deriva dalla transaminazione e dalla deaminazione ossidativa degli aminoacidi, unità costitutive delle proteine; è prodotta dal fegato (ciclo dell’urea) ed è eliminata principalmente per via renale. In soggetti con un normale apporto proteico giornaliero nella alimentazione (1g/kg di peso) i valori ematici di urea sono compresi tra 20 e 45 mg/dl. Tale valore aumenta, in mancanza di patologia renale, nelle alimentazioni iperproteiche, a seguito di stress intensi, per emorragie gastrointestinali (che causano ipovolemia ed insufficienza renale), con attività renale ridotta al 25-50% del normale; inoltre, in caso di rallentato transito tubulare, l’urea tende ad essere riassorbita passivamente. Alternativamente alla concentrazione ematica dell’urea, nella diagnostica di laboratorio viene più spesso determinata la concentrazione ematica dell’azoto ureico (BUN: blood urea nitrogen): dato che nella molecola di urea (PM 60) sono contenuti due atomi di azoto (PA 14), il rapporto urea / azoto ureico corrisponde a 60 / 28, cioè a 2,14; pertanto, in soggetti con un normale apporto proteico giornaliero nella alimentazione (1g/kg di peso) i valori ematici di azoto ureico sono compresi tra 9 e 20 mg/dl. 42 2. Creatininemia: La creatinina è l’anidride interna della creatina, dalla quale si forma per perdita di una molecola d’acqua. La creatina è sintetizzata dal fegato a partire da 3 aminoacidi (argirina, glicina e metionina) e si trova per il 95% nel muscolo dove, fosforilata a fosfocreatina, svolge un importante ruolo energetico. La creatinina è il prodotto finale del catabolismo della fosfocreatina e della creatina; ha valori ematici compresi tra 0,5 e 1,2 mg/dL e viene eliminata esclusivamente per via renale tramite filtrazione glomerulare (se si eccettua una minima quota secreta dai tubuli). Contrariamente all’urea (la cui concentrazione nel sangue è legata all’assunzione di proteine) la produzione di creatinina nell’organismo è esclusivamente endogena e la sua concentrazione nel sangue non è pertanto influenzata dall’apporto alimentare. 3. Uricemia: L’acido urico è il prodotto terminale del catabolismo purinico nell’uomo. La sintesi di acido urico, catalizzata dall’enzima xantina ossidasi, si compie soprattutto nel fegato. Immesso nel sangue, dove per il 96% si trova sotto forma di urato monosodico non legato a proteine, arriva ai reni dove viene filtrato, parzialmente riassorbito e, di nuovo, parzialmente secreto prima di essere definitivamente eliminato con l’urina. La concentrazione ematica di acido urico corrisponde a 2,5-7 mg/dl. L’acido urico è poco solubile in acqua; se, nelle urine, raggiunge elevate concentrazioni, precipita rapidamente sotto forma di cristalli di urato, determinando la formazione di calcoli renali. Similmente, in pazienti con alti livelli di acido urico nel sangue, cristalli di urato si depositano nei tessuti molli, in modo particolare nelle articolazioni: ciò determina una sindrome clinica denominata gotta. III. Clearance renali Si definisce clearance (to clear: depurare) di una sostanza la quantità di plasma che viene depurata di quella sostanza nell’unità di tempo: il calcolo della clearance si basa sull’assunto che ogni sostanza rimossa dal plasma si ritrova simultaneamente nelle urine; pertanto, la concentrazione nel plasma di una certa sostanza (P), moltiplicata per il volume di sangue depurato di essa in 1 minuto (vale a dire il valore della clearance C) deve essere uguale alla concentrazione della stessa sostanza nelle urine (U) moltiplicata per la quantità di urina eliminata nell’unità di tempo (V), ossia: C × P = U ×V C = U ×V P Le prove di clearance vengono utilizzate principalmente per la valutazione del filtrato glomerulare, cioè del volume di preurina prodotta dal glomerulo nell’unità di tempo per ultrafiltrazione del sangue circolante. La sostanza ideale da utilizzare a questo scopo dovrebbe presentare le seguenti caratteristiche: • essere filtrata completamente dal glomerulo • non essere né riassorbita né secreta dal tubulo • non legarsi a proteine plasmatiche • non essere metabolizzata dall’organismo • non essere eliminate attraverso altri emuntori o dispersa nei tessuti • essere priva di tossicità e ben tollerata • poter essere dosata con facilità e sicurezza La sostanza che meglio risponde ai suddetti requisiti è l’inulina, polisaccaride esogeno costituito prevalentemente da unità di D-fruttosio (PM 5.000): l’inulina viene completamente filtrata dal glomerulo ed eliminata con le urine senza essere né riassorbita né secreta dal tubulo; pertanto, la sua clearance corrisponde esattamente alla quantità di liquido filtrato dai glomeruli nell’unità di tempo. Per comodità di esecuzione, nella pratica clinica si ricorre più spesso alla creatinina, sostanza 43 endogena che presenta però il limite di essere parzialmente secreta dalle cellule del tubulo renale, soprattutto quando i valori ematici si alzano per un deficit di filtrazione; tale limite viene comunque controbilanciato da un errore tecnico relativo alla metodica utilizzata per la determinazione della creatinina che tende a sovrastimare la concentrazione di creatinina sierica rispetto a quella urinaria. Si raccolgono le urine di un minuto, si quantifica (mg) la creatinina in esse contenuta, si valuta la quantità di creatinina plasmatica in 100ml; si calcola poi la clearance. V.n.: 70 - 135 ml/min ♂, 70 - 120 ml/min ♀. Una riduzione del filtrato glomerulare può verificarsi in seguito ad una: • riduzione della portata renale plasmatica, che si verifica, ad esempio, nei casi di grave caduta della pressione arteriosa in seguito a stati di shock, emorragie acute o disidratazione • riduzione della superficie filtrante dei glomeruli, che si verifica ad esempio in corso di glomerulonefrite cronica, glomerulosclerosi diabetica, pielonefrite cronica La portata renale plasmatica (PRP) è data dalla quantità di plasma che circola attraverso l’apparato escretorio renale nell’unità di tempo. Condizione basilare per la determinazione della PRP è l’impiego di una sostanza che, in un solo passaggio attraverso il rene, venga completamente estratta dal sangue (non importa se ad opera del tubulo o del glomerulo) e totalmente escreta con le urine. La clearance di tale sostanza, vale a dire la quantità di plasma depurata dalla stessa nell’unità di tempo, corrisponderà al volume di plasma che attraversa il rene nell’unità di tempo cioè, appunto, alla PRP. La sostanza che meglio di ogni altra risponde ai suddetti requisiti è il sale sodico dell’acido para-ammino-ippurico (PAI), sostanza esogena che viene eliminata dal sangue sia per filtrazione glomerulare sia per secrezione tubulare. Una condizione fondamentale per l’uso del PAI nella determinazione delle PRP è che la sua concentrazione ematica rimanga sotto i 10 mg/ml: oltre questo valore, infatti, si supera sia la capacità di filtrazione glomerulare sia la capacità di secrezione tubulare. IV. Prove funzionali Le prove funzionali sono indagini estremamente semplici che consentono di valutare la funzionalità del tubulo renale; esse studiano la capacità dei reni di adattare l’eliminazione urinaria a condizioni di sovraccarico o di carenza d’acqua. 1. Prova di concentrazione: Il paziente deve svuotare la vescica e consumare una cena priva di liquidi alle 18, senza assumere altro alimento liquido o solido; alle 6, alle 8 e alle 10 della mattina successiva si raccolgono tre campioni di urina: in condizioni di normale funzionalità tubulare, negli ultimi due campioni, o almeno in uno di essi, il peso specifico deve superare 1,025. 2. Prova della diluizione: Al soggetto digiuno dalla sera precedente si fa svuotare la vescica e quindi si somministrano 1200 cc di acqua che devono essere bevuti in 30 minuti; nelle successive 4 ore, ogni 30 minuti si raccolgono separatamente le urine formate: in condizioni di normale funzionalità tubulare, il peso specifico di almeno uno dei due primi campioni deve scendere a un valore di 1,003. 44 LE ALTERAZIONI DELL’EQUILIBRIO ACIDO-BASE La quantità di ioni H+ presenti all’interno delle cellule e nella maggior parte dei liquidi exatracellulari (con l’eccezione di alcuni distretti quali urina e succo gastrico) è estremamente bassa (solitamente tra 35 e 45 nmol/L) e di gran lunga inferiore a quella degli altri principali ioni presenti nell’organismo. Ciononostante, data la sua elevata reattività, la concentrazione dello ione H + è sottoposta ad un rigoroso controllo da parte di complessi meccanismi omeostatici, che consentono di mantenerne i valori entro limiti rigidamente ristretti. La concentrazione degli ioni idrogeno è circa tre milioni di volte più basa di quella degli ionio sodio e centomila volte più bassa di quella degli ioni potassio. ione concentrazione nmol (1 x 10-9 mol) / L sodio (Na +) cloro (Cl-) bicarbonato (HCO3-) potassio (K+) calcio (Ca ++) magnesio (Mg++) idrogeno (H+) 145.000.000 95.000.000 24.000.000 4.500.000 2.500.000 1.000.000 40 Proprio per la sua concentrazione estremamente bassa, la quantità di ione H + presente nei fluidi biologici viene solitamente espressa con la formula del pH: pH = – log10 [H+] moli/L La formula del pH è stata introdotta, ed è comunemente utilizzato nella pratica clinica, per semplicità e praticità di calcolo, in quanto è in grado di esprimere i valori molto bassi dello ione H + con numeri semplici e adimensionali. La concentrazione fisiologica di ioni H+, corrispondente a 0,00000004 moli/L, viene pertanto espressa con un valore di pH di 7,4, e le due concentrazioni limite compatibili con la sopravvivenza, corrispondenti a 0,00000016 moli/L e 0,000000016 moli/L, sono espresse con valori di pH, rispettivamente, di 6,8 e 7,8. Esistono almeno tre motivi per i quali l’organismo deve mantenere il pH entro limiti ristretti: • la maggior parte degli enzimi necessari ai processi vitali ha una cinetica di attivazione con massima attività a pH 7,4, che diminuisce progressivamente con il variare del pH verso l’alto o verso il basso, fino ad azzerarsi ai limiti estremi di 6,8 e 7,8; • molte molecole hanno gruppi tampone che legano gli H+: modificazioni del pH cambiano il grado di protonazione di tali gruppi, producendo quindi variazioni della loro funzione; • il pH influenza i flussi transmembrana del potassio e della quota ionizzata del calcio, intervenendo quindi nella regolazione dell’attività cardiaca e neuromuscolare. In condizioni normali il pH del sangue arterioso varia tra 7,36 e 7,44. Nel tentativo di impedire o limitare al massimo le variazioni del pH, l’organismo dispone di una serie di meccanismi protettivi che entrano in funzione in modi ed in tempi differenti ogni qualvolta si determini una variazione della concentrazione idrogenionica; tali meccanismi sono schematicamente suddivisi in ematici, respiratori e renali: in pratica, peraltro, le loro azioni sono strettamente coordinate ed interdipendenti. sistema tempi di attivazione massima efficacia - sistemi tampone secondi 1 - 2 ore - polmoni minuti 12 – 24 ore - reni ore 3 – 4 giorni 45 • I meccanismi ematici sono i primi ad intervenire e sono costituiti dai sistemi tampone. Si definiscono sistemi tampone quelle sostanze che, in risposta ad un cambiamento dell’acidità dei liquidi causato dall’aggiunta di un acido o di una base possono, in modo istantaneo, accettare o donare protoni (ioni H+) limitando in questo modo le variazioni della concentrazione idrogenionica. Le soluzioni tampone più efficaci presenti nel nostro organismo sono costituite da un acido debole e dal suo sale con una base forte; meno frequentemente le soluzione tampone del nostro organismo sono costituite da una base debole e dal suo sale con un acido forte. I rapporti tra le diverse componenti che costituiscono un sistema tampone sono regolati dalla equazione di Henderson-Hasselbalch; secondo tale equazione, quando il sistema tampone è costituito da un acido debole e dalla sua base coniugata forte, il pH della soluzione dipende dalla costante di dissociazione dell’acido in essa disciolta (pK) e dal rapporto tra le concentrazioni delle specie dissociata (cioè della base, [A -], che accetta protoni) ed indissociata (cioè dell’acido, [AH], che cede protoni): pH = pK log [ A¯ ] [ AH ] 1. Sistemi tampone a componente prevalentemente “chiusa” (esauribili) a) processi di tamponamento cellulare • sistema H+-proteina / Na+-proteina • sistema emoglobina ridotta / ossigenata b) processi di tamponamento extracellulare • sistema fosfato bisodico / monosodico • sistema fosfato monopotassico / bipotassico 2. Sistemi tampone a componente prevalentemente “aperta” (rigenerabili) • sistema bicarbonato / acido carbonico: [H2O] + [CO2] ↔ [H2CO3] ↔ [H+] + [HCO3-] Sul piano funzionale il sistema “aperto” bicarbonato / acido carbonico sovrasta i sistemi chiusi in quanto: − è presente in quantità maggiore rispetto agli altri: bicarbonato / acido carbonico: 65% proteinati / proteine: 35% emoglobinati / emoglobina: < 1% fosfato bibasico / monobasico: < 1 % − è il più ubiquitario: ac. carbonico fosfati proteine Hb fluido interstiziale X plasma X X X eritrociti X X X cellule X X X ossa X X − è il solo che può rigenerarsi scambiando le sue componenti con l’esterno. Riferita al sistema tampone bicarbonato / acido carbonico, l’equazione di Henderson-Hasselbalch diventa: pH = pK log [ HCO3 ¯ ] [ H 2 CO 3 ] pH = pK log pH = pK ' log [ HCO3 ¯ ] [CO 2 ][ H 2 O ] [ HCO 3 ¯ ] (K’ = costante di dissociazione dell’acido carbonico in H 2O = 800 x 10-9 mol/L a 37°C ) [CO 2 ] Secondo la legge di Henry, la quantità di un gas fisicamente disciolto in una soluzione è 46 direttamente proporzionale alla sua pressione parziale; pertanto: (α = costante di solubilità della CO2 in H2O [ HCO 3 ¯ ] = 0,031 a 37°C ) α ⋅P a CO 2 24 mEq/ L pH = 6,1 log 0,031 ×40 mmHg pH = pK ' log pH = 6,1 + log 20 = 6,1 + 1,3 = 7,4 Ponendo il pH uguale a 7,4 e considerando il pK’ uguale a 6,1 è possibile determinare le condizioni necessarie affinché il pH del sangue venga mantenuto costante: 7,4 = 6,1 log [ HCO 3 ¯ ] = 6,1 log [ H 2 CO 3] 20 1 Pertanto, ogni rapporto di 20 : 1 tra bicarbonato e acido carbonico produrrà un pH di 7,4. • Compenso polmonare Il polmone, variando la ventilazione alveolare, è in grado di variare l’eliminazione della CO 2; l’acidosi stimola la ventilazione mentre l’alcalosi la deprime. La capacità di compenso polmonare è rapida ed efficace, ma non può comunque superare i limiti costituiti dalla capacità di lavoro dell’apparato respiratorio. • Compenso renale Il rene, pur intervenendo più lentamente, ha minori limiti funzionali e risulta essere particolarmente efficace nel compensare variazioni del pH ematico; la funzione renale nell’equilibrio acido base si attua attraverso tre diversi meccanismi: ◦ riassorbimento di bicarbonato sangue cellula tubulare lume tubulare HCO 3 - anidrasi carbonica CO2 + H2O HCO 3 Na+ H2 CO3 HCO 3 - + H+ Na+ H+ + HCO 3- Na+ H2 CO3 H2O + CO2 ◦ generazione di bicarbonato ex novo sangue cellula tubulare lume tubulare HPO 4 -- anidrasi carbonica CO 2 + H2O HCO 3 Na+ H2 CO3 HCO 3 - + H+ Na+ Na+ H+ + HPO4 -H 2PO 4- escrezione di fosfati: acidità titolabile (*) (*) acidità titolabile: quantità di basi che servono a portare il pH delle urine al pH del sangue 47 ◦ escrezione di acidi sangue cellula tubulare lume tubulare anidrasi carbonica CO 2 + H2O HCO 3 Na+ H2 CO3 HCO 3 - + H+ Na+ glutamina ac.a-cheto glutarico + NH3 H+ Na+ NH4 + NH3 escrezione di cloruro di ammonio --Acidosi e alcalosi metaboliche e respiratorie Si definisce “acidosi” quel disturbo che tende ad aggiungere acidi o rimuovere alcali dall’organismo, “alcalosi” invece quello che rimuove acidi o aggiunge alcali; quando queste alterazioni comportano un variazione del pH nel sangue si avrà uno stato di “acidemia” (pH < 7,36) o di “alcalemia” (pH > 7,44). La definizione “metabolica” indica quel tipo di alterazione caratterizzata da una primitiva variazione nella concentrazione di bicarbonati, mentre “respiratoria” indica una variazione primitiva a carico dell’anidride carbonica. Acidosi respiratoria: L’acidosi respiratoria è provocata da un aumento di anidride carbonica nel sangue arterioso (ipercapnia) conseguente ad una riduzione della ventilazione alveolare. Analisi di laboratorio Nel sangue arterioso: • pH diminuito (< 7,36) o normale • PaCO2 aumentata (> 42 mmHg) • bicarbonati aumentati (> 25 mEq/L): ad ogni aumento di 10 mmHg della PaCO 2 l’aumento di bicarbonati è in acuto un di 1 mEq/L e in cronico di 3-4 mEq/L • frequente iperkaliemia Nelle urine: • pH acido • bicarbonati diminuiti, acidità titolabile aumentata • eliminazione di NH4Cl aumentata Alcalosi respiratoria: l’alcalosi respiratoria è provocata da una diminuzione di anidride carbonica nel sangue arterioso (ipocapnia) conseguente ad un aumento della ventilazione alveolare. Analisi di laboratorio Nel sangue arterioso: • pH aumentato (> 7,44) o normale • PaCO2 diminuita (< 38 mmHg) • bicarbonati ridotti (< 23 mEq/L) a seconda del compenso: ad ogni riduzione di 10 mmHg della PaCO2 la riduzione di bicarbonati è in acuto di 2 mEq/L e in cronico di 5 mEq/L • frequente ipokaliemia Nelle urine: • pH alcalino • bicarbonati aumentati, acidità titolabile diminuita 48 • eliminazione di NH4Cl diminuita Acidosi metabolica: l’acidosi metabolica è caratterizzata da una riduzione del pH conseguente ad una riduzione della concentrazione ematica di bicarbonati Analisi di laboratorio Nel sangue arterioso: • pH diminuito (< 7,36) o normale • PaCO2 diminuita (< 38 mmHg) a seconda del compenso: ad ogni riduzione dei bicarbonati di 1 mEq corrisponde una riduzione della PaCO2 di 1,2 mmHg • bicarbonati diminuiti (< 23 mEq/L) • frequente iperkaliemia Nelle urine: • pH acido • bicarbonati diminuiti, acidità titolabile aumentata • eliminazione di NH4Cl aumentata Alcalosi metabolica: l’alcalosi metabolica è caratterizzata da un aumento del pH conseguente ad un aumento della concentrazione ematica dei bicarbonati Analisi di laboratorio Nel sangue arterioso: • pH aumentato (> 7,44) o normale • PaCO2 normale o aumentata (> 42 mmHg) a seconda del compenso: ad ogni aumento dei bicarbonati di 1 mEq corrisponde un aumento della PaCO2 di 0,5 – 0,7 mmHg • bicarbonati aumentati (> 25 mEq/L) • frequente ipokaliemia Nelle urine: • pH alcalino • bicarbonati aumentati, acidità titolabile diminuita • eliminazione di NH4Cl diminuita ACIDI BASI ACIDOSI: pH ↓ RESPIRATORIA : METABOLICA: ↑ PaCO2 ↓ PaCO2 ↑ HCO3↓ HCO 3- ACIDI BASI ALCALOSI: pH ↑ RESPIRATORIA: METABOLICA: ↑ PaCO2 ↓ PaCO2 ↑ HCO 3 ↓ HCO3 - Emogasanalisi (EGA) L’indagine di laboratorio utilizzata per l’approccio diagnostico ai disturbi all’equilibrio acido-base è l’emogasanalisi (EGA). L’ EGA si esegue su un prelievo di sangue arterioso eseguito sull’arteria radiale con inclinazione dell’ago a 30°tenendo la mano del paziente in lieve dorsiflessione; in alternativa si utilizzano l’arteria femorale o l’arteria brachiale. Il campione deve essere analizzato immediatamente per evitare gli effetti del metabolismo cellulare; se il campione viene raffreddato in ghiaccio il risultato è comunque ritenuto attendibile anche dopo 30 - 60 minuti dal momento del prelievo. Disordini emogasanalitici: Un approccio razionale alla diagnosi dei disordini emogasanaltici impone di partire sempre dal pH per 49 definire una acidosi (pH < 7,36) o una alcalosi (pH > 7,44) scompensate: in condizioni di acidosi una PaCO2 ridotta (< 38 mmHg) è indice di eziologia metabolica, mentre una PaCO 2 elevata (> 42 mmHg) è indice di eziologia respiratoria; in condizioni di alcalosi una PaCO 2 aumentata (> 42 mmHg) è indice di eziologia metabolica mentre una PaCO2 diminuita (< 38 mmHg) è indice di eziologia respiratoria. disordine alterazione primaria alterazione secondaria effetto finale acidosi respiratoria ↑ PaCO2 ↑ [H+] ↓ pH acidosi metabolica ↓ PaCO2 ↑ [H+] ↓ pH alcalosi respiratoria ↓ [HCO3-] ↓ PaCO2 ↑ [HCO3-] ↓ [HCO3-] ↓ [H+] ↑ pH alcalosi metabolica ↑ [HCO3-] ↑ PaCO2 ↓ [H+] ↑ pH Disordini semplici e complessi In patologia umana è difficile la presenza di “disordini semplici” in quanto spesso vi è compromissione e/o co-interessamento di più organi (ad esempio scompenso cardiaco in un paziente con broncopneumopatia cronica e/o insufficienza renale e/o perdita di liquidi per diarrea o vomito): in tali condizioni ci si trova di fronte a quelli che vengono definiti “disordini complessi” o “misti”. Nei disordini misti dell’equilibrio acido base il compenso atteso non è rispettato. disordine Alterazione primaria Risposta compensatoria attesa limiti Acidosi respiratoria acuta pCO2 Aumento di 1 mEq/L dei bicarbonati per ogni 10 mmHg di aumento della anidride carbonica 30 mEq/L Acidosi respiratoria cronica pCO2 Aumento di 3,5 mEq/L dei bicarbonati per ogni 10 mmHg di aumento della anidride carbonica 45 mEq/L Alcalosi respiratoria acuta pCO2 Riduzione di 2 mEq/L dei bicarbonati per ogni 10 mmHg di diminuzione della anidride carbonica 18 mEq/L Alcalosi respiratoria cronica pCO2 Riduzione di 5 mEq/L dei bicarbonati per ogni 10 mmHg di aumento della anidride carbonica 12 - 15 mEq/L Acidosi metabolica [HCO3-] Diminuzione di 1,2 mmHg della anidride carbonica per ogni mEq/L di caduta dei bicarbonati 10 – 15 mmHg Alcalosi metabolica [HCO3-] Aumento di 0,7 mmHg della anidride carbonica per ogni mEq/L di aumento dei bicarbonati 55 mmHg 50