1 pag_01.cdr - Premio Letterario "Federico Ghibaudo"

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1 pag_01.cdr - Premio Letterario "Federico Ghibaudo"
Liceo
Scientifico
"Frisi"
Monza
Premio
Letterario
Federico Ghibaudo
9/5/80 - 9/1/95
"Federico
Ghibaudo"
Liceo Scientifico
"Frisi" -1a G - a.s.94/95
Gerardiana Basket
Monza
anno 2001
a
7 edizione
Premio Letterario "Federico Ghibaudo"
“L’INDICE”
Primo premio
Secondo premio
Terzo premio
Tiziano Erriquez
Giorgia di Tolle
Chiara Grumelli
4a - D pag.
4a - D pag.
4a - A pag.
5
6
14
Premi giuria
“
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“
“
“
Roberta Casati
Vincenzo Calvaruso
Ilaria Costantino e
Alice Vanzati
Stefania Giovini
Michele Altieri
5a - B pag.
5a - H pag.
16
19
4a - G pag.
5a - A pag.
2a - G pag.
22
23
26
3a - H
5a - G
5a - G
4a - L
5a - D
5a - H
4a - F
5a - F
2a - G
2a - H
2a - H
2a - H
1a - F
5a - B
29
33
34
37
39
40
41
44
47
48
49
50
51
53
altri componimenti
in ordine di presentazione:
Elisa Vimercati
Elisabetta Valcamonica
Valentin Besoiu
Valentino Brioschi
Cristina Sanvito
Cristina Vitale
Roberta La Placa
Gloria Fuso
Roberta Vatri
Giulia Dossi
Mattia Craighero
Luca Belloni
Ilaria Pasquini
Chiara Penati
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Premio Letterario "Federico Ghibaudo"
“ELENCO FINALISTI PRECEDENTI EDIZIONI”
1995
1°Class.
2°
3°
Alexandra Bonfanti
Loredana Lunadei
Arianna Ferrario
2a F
2a G
1a G
1996
1°Class.
2°
3°
Martino Redaelli
Elena Cattaneo
Marika Pignatelli
4a A
4a G
3a C
1997
1°Class.
2°
3°
Niccolò Manzolini
Matteo Pozzi
Elena Cattaneo
4a A
3a I
5a G
1998
1°Class.
2°
3°
Lorenzo Piccolo
Matteo Pozzi
Lucia Gardenal
4a A
4a I
2a I
1999
1°Class.
2°
3°
Dacia dalla Libera
Lorenzo Piccolo
Vincenzo Calvaruso
3a E
5a D
3a H
2000
1°Class.
2°
3°
Giulia Pezzi
Dacia dalla Libera
Cristina Sanvito
4a G
4a E
4a D
Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"
“LA GIURIA”
Valentina Dossi
Riccardo Perri
Cristina Nobis
Alessandra Zanetti
Riccardo Cinquini
Mattia Muratore
Silvia Corti
Gabriele Zaniboni
Laura Castagnaro
Tommaso Terragni
1a - I
1a - G
2a - E
2a - D
3a - H
3a - A
4a - E
4a - D
5a - B
5a - E
“IL CONCORSO”
Il concorso è riservato agli studenti del Liceo “Frisi” ed ha
un grosso difetto, i vincitori ufficiali sono pochi, mentre ogni
partecipante, che ha messo nero su bianco le sue idee, le sue
esperienze, la sua fantasia, la sua anima, per farle conoscere
agli altri, ogni partecipante, è un vincitore.
Ma le regole consolidate per i concorsi, che sono poi le
stesse che spingono a partecipare, richiedono una classifica
che, per le innumerevoli varianti in campo, non potrà che
essere imperfetta.
I componimenti sono quelli originali, non è stato previsto
nessun intervento sugli stessi da parte di nessuno, con
l’obiettivo di non creare interferenze di nessun genere sulla
spontaneità degli elaborati.
Invitiamo pertanto ogni singolo lettore a trovare il SUO
componimento preferito e a far suo lo stile ed il messaggio in
esso contenuto. Questo concorso vuole infatti proporsi come
punto di ritrovo, come un punto di confronto, una palestra
per idee, sentimenti ed emozioni.
“INTERNET”
I testi di tutti i concorsi, dal primo fino all’attuale
si possono trovare su internet al seguente indirizzo:
http://www.premio-liceofrisi.it
Concorso Letterario “Federico Ghibaudo”
“LA BIBLIOTECA”
in bilbioteca sono disponibili
per la consultatione,
i fascicoli delle precedenti edizioni del Concorso...
...oltre una copia dei seguenti libri premio:
1996
L’Alchimista - Paulo Coelho - Bompiani
1997
Messaggio per un’aquila che si crede un pollo
Istruzione di volo per aquile e polli
Antony de Mello - Piemme
1998
Il viaggio di Theo Catherine Clèment
Longanesi
1999
Abbiate coraggio Francesco - Alberoni
2000
Perchè credo in Colui che ha creato il mondo
Antonio Zichicci - il Saggatore
2001
Il mondo di Sofia - Jostein Gaarder
Longanesi
Premio Letterario "Federico Ghibaudo”
Secondo Classificato
“LO SPECCHIO”
di Giorgia di Tolle - 4a D
Io non so che cosa sia uno specchio.
So che in tanti ci hanno ragionato sopra traendo il massimo della loro scienza. E' metafora
di tutto, di tutto questo grande cosmo che in qualche modo è fuori e dentro di noi, nascosto
nelle nostre più intime contraddizioni: ogni parola in più sarebbe sprecata, come una
candela accesa sul sole.
Ma non per questo non ho niente da dire sull'argomento, perché per me lo specchio porta
un volto che non è né quello del mondo, né il mio: il mio specchio è un ragazzo di dieci
giorni più vecchio di me, incontrato per caso alla festa dei mio quindicesimo compleanno...
...Era una festa speciale, per noi bambini di II D, non so per quale incantesimo disciolto
nell’aria eravamo tutti eccitati: accadde di tutto, si formarono molte coppie quella sera, un
po' per cuore un po' per l'alcool. Io, per l'alcool piangevo disperata il mio amore perduto,
come solo il cuore spezzato di un'adolescente sa fare. Era il mio compleanno, ma per
quanto mi riguardasse ero morta, completamente soggiogata dal dolore... e poi nel mio
sogno etilico mi vedo trasportare in una stanza illuminata e silenziosa, in cui rimbomba
piano l'eco della musica.
La telecamera balla, crolla seguendomi a terra, si ferma su due occhi azzurri. "Posso
restare?" la sua ragazza, nonché l'amica che stava tentando di consolarmi lo caccia, ma io lo
faccio restare: si erano messi insieme quella sera, mi sentivo in colpa a tenerli separati.
Stacco.
Frammenti di memoria persi nel tempo.
I pezzi rotti si muovono come i brandelli di scopa nell'apprendista stregone di Topolino.
La telecamera gira e confonde tutto nella luce.
Pausa.
Primo piano sui due occhi azzurri. Parole frammentate dalla memoria d'alcool.
“Jo’ smetti di piangere. lo so che il dolore non si cancella in una sera, ma cerca di reagire...”
“E perché? Lui era l'unico, ormai...” “E’ qui che ti sbagli. Vedi piccola, tu ora sei come,
come un ragazzino che sta imparando a suonare la chitarra, e il suo maestro gli insegna il
DO, il primo accordo. E il ragazzino è felice e comincia a giocare con il suo DO che diventa
DO-, DO settima... per lui è tutta la musica, ma in fondo, è solo un Do... e la settimana dopo
il maestro gli insegna il SOL e il ragazzo capisce che non si può costruire tutta la musica su
un semplice DO... magari si può fare con un SOL non so.. il ragazzino deve aspettare la sua
nota perfetta” “Per me è perfetto il DO” “...un accordo ben fatto che non suona è ben fatto,
ma non perfetto” “...un giorno potrebbe suonare” “non se le corde sono rotte” “...io non
capisco...” “capirai. Ora non puoi... sei troppo sbronza!”. Sorrisi tra le lacrime, la
telecamera sale fino a inquadrare il cielo bianco di calce.
I cocci roteano in alto, incerti sul da farsi.
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Stacco. Cambio scena.
Scuola. Un grosso casermone grigio fatto a svastica, mezzo pieno d'amianto.
Interno. Voci che corrono crepando il silenzio.
Folla. La telecamera è in campo lungo sulla gente.
Si avvicina. Inquadra gli occhi azzurri che mi raggiungono.
“Jo’!... ho fatto una cosa per te ieri... tutto bene?” “Si, ho solo un po’ di mal di testa.,.
l'alcool di sabato si fa sentire... E’ solo un altro maledetto lunedì” “Si be...” Tira fuori un
cassetta “E' musica jazz... un pezzo lo suono io col piano... spero ti piaccia, ci vediamo”
Folla. Lui che ne viene inghiottito. La telecamera fissa sulla cassetta. Le mie mani la
aprono “Buon ascolto! Un abbraccio forte... il tuo nuovo amico, Alex”.
Tra i cocci in aria balena uno scintillio di riflesso.
Piano piano attacca la colonna sonora. In crescendo.
La tipica canzone da film di quando le cose vanno meglio.
La telecamera non si ferma un momento. La musica inonda le parole, si spezzano
immagini di noi collegati dal filo sottile del telefono, baci e abbracci per gli auguri di
Natale, risate che illuminano i laghetti azzurri davanti a un caffè in un bar, noi due
abbracciati che affrontiamo il gelo, la sua mano tra i mie riccioli e poi le note si fanno
sentire ancora più forte, il sole si scalda tutto è bianco luce stop.
La musica si dissolve piano piano. Ripresa dall'alto, il cielo carico di pioggia, la telecamera
entra dal cancello del grigio casermone fatto a svastica che si affaccia timido alla primavera.
Sotto la tettoia un piccolo stereo diffonde musica hip-hop e di fianco i pannelli vengono
riempiti dai writer, togliendo un po' di grigiore dal cielo. 27 marzo 1999, giornata dell'arte
studentesca. La mattina sembra piena di colori, nell'aria una strana atmosfera, quasi
un'anticipazione del giugno a venire. Io sono li con alcune amiche non facciamo altro che
ridere e accennare qualche passo a ritmo di musica. All’improvviso mi allontano, la
telecamera mi segue: varco la porta della scuola, l'hip-hop scompare e lascia il posto al punk
del concerto che cresce assordante mentre entro nell'auditorium, trovo i miei laghi azzurri e
balliamo tutto il tempo, le nostre anime sopra di noi che si fondono in cielo.
I cocci sfolgorano di riflessi. Due di loro si ricompongono.
La scena si riapre nella sala a concerto finito, la massa è andata via, un gruppetto strimpella
senza amplificatore, io e lui poco distanti. "Allora Jo’, domani rivedi il tuo amore perduto?
“Si, domani esco col gruppo, ma lui... ultimamente è più perduto che amore” “Come mai 'sta
novità?” “Be... diciamo che forse ho trovato il mio SOL” -Si illumina- “Davvero?! E non mi
dici niente?! Dai chi è? State insieme?” “Non essere ridicolo, è solo un altro accordo ben fatto
che non suona. E’ troppo grande per me... E’ proprio vero che nascono i grandi amori in
autogestione!” “Non dirmi che è Pier!”. No, non era Pier. Nonostante tutte le ragazzine del
mio anno gli andassero dietro, per me era il solito buffoncello: simpatico da morire, ma
niente di speciale. In autogestione faceva coppia fissa con un suo compagno di classe che
normalmente non si notava: troppo basso, troppo nevrotico... ma non per me. Per me lui
era... speciale, credeva veramente negli ideali che aveva predicato per una settimana, aveva
una passione e un ardore contagiosi, mi aveva aperto gli occhi facendomi capire che anche
noi studenti dobbiamo cercare di migliorare la scuola e far sentire la nostra voce, che anche
noi potevamo cambiare il mondo. Dopo quella settimana non sono più stata la stessa
persona: mi aveva ammaliata, con quel suo fare arrogante che in fondo celava un'anima di
profondità e timidezza. Mi sentivo sua discepola. Le nostre classi erano vicine e si parlava
piuttosto spesso, ma poi i rapporti si erano congedati dopo che la notizia della mia
adorazione era trapelata per errore in classe, e da lì al mondo. Racconto tutto questo ad Alex
mentre la telecamera si sposta a inquadrarlo nel gruppetto dei ragazzi di quarta che suona
senza amplificatore, stagliato contro il bianco delle pareti, unico in piedi, che canta con gli
altri con gli occhi illuminato da un sorriso, come una di quelle immagini eteree da commedia
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romantica che si muovono fluttuando al rallentatore con l'audio che scompare per focalizzare
l'attenzione sull'eroe amato. Ovviamente cantavano "More than words". I laghetti azzurri si
fanno lenti scrutatrici. "Lascia perdere Jo’, non è il tipo per te" Per un momento i miei occhi
fiammeggiano di rabbia: che diritto ha di giudicare cosi?! Lui capisce “Cioè, intendevo dire
che... non vi vedo insieme, ecco tutto” “Ma nemmeno io! Lo so che è assurdo! Però... hai
presente quella sensazione che si prova quando sai che se solo lui ti conoscesse veramente,
non solo...” “...non solo mollerebbe lo splendido modello con cui vive, ma si renderebbe conto
che...” in coro “... che tu sei l'unica persona con cui vuole veramente invecchiare”.
Ci sorridiamo, complici.
Tra i cocci comincia a delinearsi una forma definita.
Si apre una nuova scena nel fragore di una festa, lo stesso luogo di quella del mio
compleanno.
La telecamera vede attraverso gli occhi di Alex, mi cerca tra i nostri amici che ballano “Jo’ ti
devo parlare, ti spiace se saliamo?”.
Stacco.
L'inquadratura è su un salotto immerso nell'oscurità, accendo un'alogena che diffonde un
sommesso chiarore diffuso.
“Dimmi tutto” “Stasera ho trovato la mia nota perfetta, Jo’... Jo’ è cosi bella.... E’ è oltre il
mondo, è il FA, la nota perfetta che si pone a regina sopra tutte le altre” “Chi?” “Come
chi?! La Raffaella!... Jo’, Jo’ l'ho trovata è lei!” Gli sorrido mentre prosegue a parlare, i
suoi occhi in dissolvenza si sovrappongono all'immagine di lei che balla illuminata da un
riflettore invisibile. “Lo so che è lei, devo fare qualcosa. Devo parlarle. E’ solo che ho
paura di rovinare tutto, insomma... io vorrei uscire con lei, ma se poi non va? Se poi ci
faccio la figura del perfetto idiota? O peggio, se si rivela una delusione?” “hai mai visto
Will Hunting? A un certo punto Matt Damon dice di non voler più rivedere Minnie Driver
perché ha paura di scoprirla imperfetta, cosi Robin Williams gli risponde: 'ti svelo un
segreto: lei non è perfetta, il punto è se siete perfetti l'uno per l'altra'... e io dico che val la
pena rischiare , non trovi? Se non altro per essere certo di non perdere il tuo tempo dietro
a una stronza!” “Pensi che sia una stronza?” “Penso che dovresti scoprirlo tu. Bisogna
saper osare” “...in fondo lo penso anch'io. Magari un giorno mi farò trovare sotto casa
sua”
E' la cosa più giusta... siamo troppo uguali io e te, abbiamo lo stesso cervello, ci finiamo le
frasi a vicenda!"
“Parlare con te è come guardarmi allo specchio: uguale a me e nello stesso tempo
complementare... come uno specchio”
Dissolvenza. In sottofondo comincia piano un nuovo pezzo di colonna sonora.
I cocci roteano come ballerini in aria per l'ultima volta. La telecamera li accompagna
piano mentre prendono il loro posto in uno specchio ancora crepato.
La musica cresce mentre tutto si confonde nella luce “Sarò il tuo specchio /rifletterò ciò
che sei/ nel caso in cui tu non lo sappia/ sarò il vento, la pioggia e il tramonto/ la luce
sulla tua porta per mostrarti che sei a casa/ Trovo difficile credere che tu non sappia/ la
bellezza che sei/ ma se è cosi lasciami essere i tuoi occhi/ una mano nella tua oscurità/
così non avrai paura/ sarò il tuo specchio”
E mentre la musica scioglie i cuori la telecamera fa esplodere la primavera in tutto il suo
splendore; le immagini girano e poi scompaiono veloci: alberi in fiore, cielo azzurro caldo
che di lassù vede le nostre risate, le nostre chiacchiere al telefono dalla stanza inondata di
sole, noi soli in mezzo a una folla allegra e poi tutto si confonde, gira, i colori si mischiano
la musica si dissolve bianco luce stop.
Silenzio. Cambio scena.
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Una taverna umida per l'afa di giugno.
Il telefono è uno di quei vecchi modelli a muro, tutto rosso, tenuto sulla parete da una
quantità inverosimile di silicone, la telecamera segue lenta il lungo filo attorcigliato fino al
pavimento.
Io sono rincantucciata in un angolo con un quaderno sdrucito in grembo, la voce scorre
veloce la serie di letterine disordinate scritte sopra.
L'azione comincia a lettura conclusa.
"Ti piace? Ieri stavo male, dovevo andare al parco con i miei compagni ma non mi
reggevo in piedi. Poi quando mi sono sentita meglio ho pensato al mio SOL e ho scritto
tutto quello che mi veniva in mente, cos'è stato per me conoscerlo... dici che si capisce?”
Jo', è veramente bello certo che si capisce ci hai messo l'anima... secondo me dovresti
darglielo” “Si certo Ale e per cosa? Per dimostrargli ancora una volta di essere solo una
bimbetta stupida che gli va dietro?” “direi piuttosto il contrario. Ti ricordi la storia della
Raffaella? Alla fine mi hai convinto e mi sono presentato sotto casa sua e abbiamo parlato
per tutto il pomeriggio... è stato un gesto più che stupido, però da allora ci parliamo.
Certo lei non è caduta ai miei piedi, ma parliamo. Non sto dicendo che se glielo dai
diventerete amici, ma è un modo per dimostragli che vali molto di più di quello che
pensa... e poi ti conosco, se non lo facessi te ne pentiresti, vero?” “Mmm, ci devo pensare...
Ale?” “si?” “Come fai a leggermi dentro ancora prima di me?”
“Magia”.
Lo specchio riassorbe le crepe. L'immagine appare luminosa, calda, sicura.
Cambio scena.
Sole abbagliante, voci chiassose, giardinetto esterno la scuola: 10 giugno 1999, ultimo
giorno, i ragazzi sono cosi allegri da sembrare pazzi, giocano come bambini con le pistole
ad acqua. Io sono in mezzo a loro e tremo come una corda di violino. “Ale non ce la
faccio sono un'idiota e poi no, dopo quello che è successo in classe ho solo voglia di
sparire! La Chiara ha portato la macchina fotografica e il prof ha chiamato su il mio SOL e
quando è arrivato l'ha sparaflesciato e tutti si sono messi ad urlare il mio nome e io ero
seduta in un angolo che piangevo di imbarazzo... non voglio essere più vista da occhio
umano, figurati mettermi in mostra in quel modo!” Lui mi prende la testa tra le mani, la
telecamera fissa su di noi. Brevi flash che inquadrano i miei e i suoi occhi. “Jo’, calmati.
Devi farlo. Vuoi che quel disastro di prima sia il ricordo di te che avrà per tutta l'estate?
No, e allora fatti coraggio, anche perché se non lo fai potresti pentirtene per tutta la vita e
io non voglio stare qui a sentirmi le tue lagne. Fa’ vedere chi sei” Lo abbraccio forte e
scompaio nella folla, pronta a compiere il mio destino. Quel racconto, spero sia ancora tra
le mani del mio SOL.
... E poi affrontai un'intera estate senza il mio specchio, disperso in Francia e poi al lago. in
quei folli, magici mesi mi resi conto di quanto la nostra amicizia fosse importante: non era
la solita conoscenza scolastica, era l'altra faccia di me stessa, l'unico che fosse in grado di
capirmi completamente... mi mancava cosi tanto, mi mancava la nostra complicità, la
nostra sintonia. Pensai molto a lui e all'inizio di settembre mi ritrovai alla fontana ad
aspettare senza sapere bene chi: un amico... o forse qualcosa di più?
Ero un fascio di nervi con un grosso groppo in gola; avrei rovinato tutto con l'amore? o forse
era il nostro destino? Era davvero amore? Poi lo vedo chiudere la portiera della macchina e
avanzare verso di me con un sorriso che subito ricambio e lo schema diventa quello dei grandi
film sentimentali dei tempi d'oro di Hollywood, la telecamera salta tra i primi piani. “Jo'!”
“Ale!” “Jo’!” “Ale”: ci corriamo incontro e la scena si apre per mostrare nel mezzo della piazza
il puntino di noi abbracciati. Io non capisco più niente, il nodo scende fino all'imboccatura
dello stomaco, resta li fermo con i miei dubbi mentre la scena si sposta in pizzeria dove ci
sommergiamo di racconti: d'amore, di mare, di bravate estive e siamo cosi contenti di
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rivederci che non ci si crede; “ma come ho fatto tre mesi senza di te?” e non so chi dei due
l'abbia detto, so solo che lo pensavamo entrambi. le luci sono calde le voci avvolgenti, il
volume si alza, voci, rosso silenzio. Un abbraccio di saluto sotto una stellata irreale. Il nodo
si fa più stretto.
Dissolvenza. Nero.
La scena si riapre tre mesi più tardi a casa di lui. Sette dicembre 1999: stiamo per andare nel
locale dove ci sarà la nostra festa di compleanno: sedici anni, il tempo della nostra vita.
Io sono in corridoio mentre aspetto che lui finisca di cambiarsi in camera. Cammino
nervosamente avanti e indietro, il nodo sempre più stretto, controllando ogni particolare nello
specchio. La porta si apre ed esce quello vero, i nostri occhi controllano il risultato finale: i
calzoni blu scuro, il vestito lungo verdone, la campanella tra i riccioli scuri, i lucenti capelli
biondi, laghi azzurri, occhi scuri: ci sorridiamo in una scintilla. Uscendo di casa ringrazio i
suoi genitori per avermi ospitato. “Figurati” mi risponde suo padre “ormai sei di famiglia”.
Sorriso imbarazzato.
Buio. Cambio scena.
"Alee! Sono tesa come una corda di violino non ce la faccio più! Ma quando arrivano tutti?
E se poi ci bidonano? E... e se...” “Jo', tesoro, sta’ buona Rilassati. Siamo in anticipo, non è
successo niente, coraggio... e ti prego va' dentro che ci sono meno due gradi e sei lì in
canottiera!” Mi stampa un bacio sulla fronte. Un po’ va meglio, anche se comunque il freddo
non lo sento. Rientro nel locale e lascio che sia lui ad occuparsi di tutto: accogliere gli ospiti,
farsi pagare... lo vedo col sorriso sulle labbra attraverso il vetro mentre la stanza si riempie e
la gente m'investe e mi rendo conto che so esattamente quello che sta dicendo, conosco ogni
sua battuta, ogni sua reazione per ciascuno dei volti conosciuti e non che gli si fanno avanti...
è come se anch'io fossi lì fuori. Rientro e mi accompagno dove ormai stanno ballando tutti,
finalmente mi rilasso.
Musica. Cambio scena.
Poche ore più tardi. Il cuore della festa. La torta giace sul tavolo appena violata, le bottiglie
di spumante sparse vuote per il locale, i free drink consumati nelle mani del barista.
Un momentaneo silenzio viene infranto dal dolce attacco di “Always”, le luci cambiano, si
fanno più soffuse, mi sento prendere per mano e trascinare sulla pista. occhi scuri, pozze
azzurre, blu calmo tutt'intorno, un sussurro “mi hai cambiato la vita Jo’, è merito tuo se ora
sono cosi felice, mi hai salvato” ...il mondo scomparso, finalmente anche i miei dubbi si
sciolgono, il nodo risale, trascina le nostre anime sposate in cielo. “Io ti amo Ale. Ma non
come un ragazzo noi... noi siamo oltre l'amicizia e oltre l'amore, siamo tutte e due le cose.
Non ci metteremo mai insieme, perché cosi lo saremo per sempre” “siamo specchi” la
telecamera sopra di noi inquadra tutta la scena, tutto il locale inondato di musica di cui noi
siamo una lucina tra le tante.
Stacco.
Nello specchio compare un'immagine, ed è quella di Alex. Tutto appare chiaro, pulito, felice.
... Segui un periodo meraviglioso, d'affetto e mutuo soccorso.
Ricordo i giorni
dell'autogestione '99, in cui tutti credevano che stessimo insieme. Lui era rimasto a scuola
invece di andare con i suoi compagni a fare le spese di Natale perché il primo giorno l'avevo
guardato con occhi imploranti. “Ti prego Ale ho bisogno dei tuo aiuto. Quest'anno sono
nell'organizzazione e devo essere brava... devo dimostrare al mio SOL che sono in gamba, che
ricordo i suoi insegnamenti, che davvero mi ha cambiato la vita... ti prego!” Lui guardò la sua
classe e poi la lasciò andare “Ok. Se questo è importante per te, ti darò una mano” Sorrisi. E
cosi quella quotidiana follia ci vide sempre insieme, come se il nostro compleanno fosse stato
in realtà il nostro matrimonio.
E poi... poi crollò tutto, perché la perfezione non resiste a lungo.
Passate le feste ci trovammo sempre più lontani: ci si vedeva solo a scuola e neanche sempre,
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il telefono era raro; scivolavamo piano nelle nostre vite, in una primavera che mi ha visto
crescere motto dal punto di vista spirituale. Conobbi un amico con cui cominciai a vedere i
folletti e a sentire l’anima del mondo,
l'Alchimista di Coelho sul comodino perenne... insieme avevamo sviluppato una teoria
secondo la quale il mio piccolo SOL, ormai ricordo d'amor perduto, fosse il mio personale
“dio Brahama”, creatore della mia mente poiché, come disse una volta Alex, noi siamo
l'insieme delle persone che abbiamo conosciuto e dunque, pensammo noi, più qualcuno ti
colpisce più ne beviamo l'aura, e “Brahama” più di tutti partecipa alla tua creazione, è
quell'essere senza il quale non saresti più la stessa persona... potevamo sembrare matti, ma
per noi era reale, ed ero sicura che anche Alex avrebbe capito.
Mi sbagliavo.
E' dura dipingere le disfatte, specialmente se cosi repentine..
Si riapre la scena nella sua taverna, mentre organizziamo la festa di carnevale.
E’ molto che non ci si vedeva, parto come una macchinetta per aggiornarlo sui mie nuovi
orizzonti spirituali.
“Ormai ho raggiunto il mio Nirvana interiore, anche con il mio Brahama: lui ha fatto molto
per me, e ora devo essere io ad augurargli tutto il bene e la felicità di questo mondo con la
sua tipa... li vedo spesso all'intervallo... sembrano ricoperti di zucchero... tenerini!” “Il tuo
che?” “Il mio dio Brahama, te l'ho spiegato prima, la teoria mia e di Lu... “Jo', ma quando
smetterai di vivere in un paradiso di nuvole?! Sei troppo astratta, devi mettere i piedi per
terra... non sei più una bambina, perciò non comportarti come tale!” “Non è un paradiso di
nuvole, è una metafora come un'altra... potrei anche dirti che lui è il LA, la chiave di volta
su cui si basa tutta l'accordatura della chitarra...” La telecamera inquadra il suo volto che mi
guarda paternalista “Jo’, non ho più quindici anni, i prossimi saranno diciassette... ho
imparato a stare al mondo, chiacchiere simili sono inutili”. Lo guardo con occhi spalancati,
incredula, le parole morte in gola. Lui non ci fa caso.
Buio. Cambio scena.
Poche ore più tardi. Il salone è mezzo pieno di invitati. Solito panico pre-festa.
"Ale per favore dammi una mano dove metto i cappotti? Chi manca? Abbassa la musica se
no non sento il citofono... Alee!” “Jo', finiscila, non è possibile che tu impazzisca a ogni
festa! Non organizzarle più se ogni volta devi rompere le palle cosi! Fa’ tu, io devo parlare
con la Silvia”. Si chiude in una stanza e ne riemerge solo molto dopo, a festa quasi conclusa.
Attacca Aiways. Lo guardo con un sorriso. “Vieni a ballare” “No, non ho voglia” “Dai Ale, è
la canzone del nostro compleanno!” “Ah si? Non me lo ricordavo... dai non ho voglia, fa
niente” “Come 'fa niente'?! ma te ne frega ancora della nostra amicizia o no? Ci rivediamo
dopo mesi di silenzio, mi lasci sola ad accogliere i TUOI amici a casa TUA e non sai dirmi
altro che sono una bambina astratta e ti dimentichi perfino delle nostre canzoni?!” “Non
farne un dramma non mi sembra il momento qui davanti a tutti, dai” Mi giro e me ne vado,
la telecamera segue le mie lacrime dagli occhi alle guance che gli ho nascosto per non
mostrargli le mie ferite. Troppo orgoglio per dargli questa soddisfazione.
Dissolvenza.
La sua immagine si sfuma, lo specchio ondeggia pericolosamente come un pendolo
impazzito. La figura rimane sospesa.
Buio.
Scuola, corridoio, atrio interno davanti alla 3^ I, la sua classe. Lo vedo in disparte col
faccino triste che si affaccia al cielo come per chiedere risposta. Gli cingo la vita da dietro
“Tesoro che c'è?”. Mi scrolla via. “Niente” "Senti, se ti va ne parliamo venerdì, tanto
dobbiamo già uscire a pranzo per chiarirci dopo la festa...” “No, sono affari miei, non puoi
capire”. Rimango li impietrita finché la fine dell'intervallo non mi riporta in classe. Con le
lacrime che mi pungono le guance comincio a pensare che ora che ha trovato la sua 'Silvia
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lui non abbia più bisogno di me.
Il colpo affonda in profondità, lo specchio cade a terra, il fumo nero non permette di vedere
cosa ne resta.
Stacco. Cambio scena.
Venerdì. Il sole tiepido di marzo illumina la terra ancora fredda d'inverno. Io e Alex
sediamo in un bar l'uno di fronte all'altra.
“Allora, che problema c'è? Perché le cose non sono più come prima, da un po' di tempo a
questa parte?” “Problema? Non c'è nessun problema Jo’, sei tu che esageri. La nostra
amicizia non è in discussione, non è cambiato niente, e solo che ho un po’ di casini per i fatti
miei, sto crescendo, è inevitabile” “Lo so anch'io sono cresciuta tanto in questi mesi, ma io
non rinnego il passato come invece fai tu... e non ti tengo fuori dalla mia vita” “Quelli sono
affari miei e basta” “Credevo che ogni cosa fosse affare NOSTRO” “Jo' non è niente, sto solo
cambiando e non rinnego il mio passato, me lo lascio semplicemente alle spalle” “Si Ale ho
notato... non sarà che ti stai lasciando alle spalle anche me per caso?” “per favore non fare
la melodrammatica adesso” “Non sto facendo la melodrammatica è solo che un tempo
risolvevamo insieme ogni problema... Crescevamo insieme... e ora...” “ma non c'è nessun
problema da risolvere per me, sarà un problema tuo se per te esiste...” “Credevo che ogni
problema fosse NOSTRO” “Jo’ dai non è vero. Il punto è che io sto cambiando e devo
cambiare da solo... vedi, se la mia sorellina di otto anni toglie dalla parete il poster di barbie
per metterci quello di Ricky Martin, lo deve fare da sola, senza che io intervenga... e cosi
anche tu non devi intervenire con me” “Buffo, credevo di essere la tua migliore amica, non
tua sorella maggiore” “Non far finta di non aver capito... dai, per me è tutto risolto... lo sai
che sei la cosa più importante che ho.,. andiamo che oggi devo essere a casa presto?”
Il fumo si dirada, piccoli frammenti giacciono a terra, brillano come un filtro magico gettato
che piano piano va estinguendo il suo potere... niente è eterno, nemmeno la nostra
immagine. Dissolvenza.
La telecamera segue i miei passi lenti che tornano a casa, la più triste delle canzoni si
diffonde piano, si vedono scorrere i mesi, esplode il caldo di maggio, giugno e la fine della
scuola, le follie di luglio, il mare d'agosto, la musica sempre più alta, sempre più triste,
sempre più in contrasto con l'allegria delle immagini, quasi a simbolizzare l'ombra della mia
perdita, tutto corre veloce le note gridano, un tramonto rosso sangue accompagna la loro
malinconica fine, la telecamera si alza e inquadra il blu del cielo d'oriente, oscurità buio
silenzio. Stop.
La scena si riapre timida e umida nell'atrio del casermone fatto a svastica.
Settembre 2000: il silenzio viene rotto dal discreto viavai dei ragazzi qui per saldare i debiti.
Io siedo su una delle panche e ripasso storia dell'arte: il mio esame sarebbe iniziato di li a
poco.
Alzo la testa un momento: al di là del vetro Alex sta controllando i suoi orari.
Non ci si vedeva dalla fine della scuola. E anche prima, era solo di un “ciao” di sfuggita nei
corridoi. In luglio gli avevo spedito un tramonto dall'Irlanda, ma non aveva ottenuto
risposta.
Mi vede mi saluta mi sorride.
Lascio il libro aperto sulla panca e mi avvicino a lui in silenzio. Siamo in piedi, occhi negli
occhi.
La mia mente pensa solo a restare fredda e indifferente, il cuore rimbalza tra sentimenti
opposti. “Ciao” -gli rispondo- “come mai qui?” “Inglese... com'è andata l'estate?” “Bene”
“Storie?” “Una, ma sta in Polonia... e tu?” “Benone, come sempre... e ora, come va?” “Bene,
e a te?”
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Vedo i suoi occhi tentennare, diventare rossi e riempirsi di lacrime. “Malissimo” mi stringe
a sé e comincia a singhiozzare, la mia pelle bagnata sotto le sue guance. L'ombra che mi
aveva accompagnata per tutti quei mesi si illumina e scompare. Ricambio l'abbraccio, il mio
cuore si acquieta, gli tolgo lo zaino, lo faccio sedere e lo cullo come fosse un gattino. A
poco a poco si calma. Aveva appena rischiato la vita cadendo in moto: era sotto shock.
Continuo a cullarlo mentre tutti i suoi compagni, Silvia compresa, restano in disparte e
scompaiono in classe.
La musica cresce “Quando pensi che la notte ti abbia visitato/ quando dentro ti senti
scombussolato e stanco/ lascia che io ti sia accanto/ sarò il tuo specchio".
..E la telecamera si allontana lasciandoci fondere in un'unica anima, nonostante i litigi e le
incomprensioni, l'inquadratura è su tutto l'atrio, il puntino di noi abbracciati sublima il
tempo per restare li in eterno...
... Vorrei, vorrei davvero poter dire che questo è il finale su cui scorrono i titoli di coda.
Ma non è cosi.
Dopo quell'attimo di tenerezza tutto è continuato come se nulla fosse successo, con quattro
parole da conoscenti quando ci si incontrava per caso nei corridoi.
Qualche tempo fa parlavamo dei più e del meno e lui dice “E tu quand'è che fai la patente?”
“Fra nove mesi, appena compio i diciotto?” “Ma non li hai già... Ah no che anche tu più o
meno li fai alla fine dell'anno... ottobre, novembre... no?” certo Ale, come dici tu. Ed è
ancora convinto che tutti i nostri problemi siano stati risolti, mentre io ormai ho imparato a
vivere senza di lui...
...Non si può aggiustare uno specchio.
I pezzi rotti a poco a poco hanno ripreso vigore assumendo un'altra forma, il volto dei mio
Ale è sparito, lasciando dietro di sé solo un'ombra di ricordo d'amore, mentre lui è perso in
quel labirinto di specchi che è la vita.
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Premio Letterario "Federico Ghibaudo”
Terzo Classificato
“MANOSCRITTO TROVATO IN UNA BOTTIGLIA”
(da A.E.Poe)
di Chiara Grumelli - 4a A
Mi presento: sono lo specchio in quella vetrina all’angolo fra via Delle Medaglie
d’Oro e via Dei Mille, avete presente? sono due strade molto frequentate.
sicuramente sarete passati davanti a me centinaia di volte e avrete gettato una
veloce quanto distratta occhiata per controllare che tutto in voi fosse in ordine.
Magari, invece, vi siete proprio fermati e, con la scusa di interessarvi ai brutti
articoli in vetrina, vi siete guardati, anzi, esaminati, dal cappello alla punta delle
scarpe. Il mio padrone non è stupido: sa bene che uno specchio attira
l’attenzione anche su un negozio di ami da pesca. Infatti aveva ragione: magari
non sono in molti ad entrare, ma quasi tutti si fermano e (si) osservano. Quello
che però voi non sapete è che se voi guardate in me, io guardo in voi con
altrettanta attenzione e maggiore acutezza, perché io non mi fermo
all’apparenza, io riesco a tuffarmi in voi. Per esempio, mi è passata davanti una
ragazza, una giovane donna di 28 o 29 anni. Camminava veloce, mi ha lanciato
solo una rapida occhiata gettandosi dietro le spalle i capelli lisci e neri. Ma io,
insieme a quel gesto di vanità, sapiente e sbarazzino, ho visto volare dietro le
spalle tutte le sue insicurezze e le frustrazioni di un mese in un nuovo ufficio.
Deve sopportare le avances del capo e contemporaneamente ricoprire un
incarico di grossa responsabilità. Deve dimostrare ai suoi genitori, a quei
maschilisti dei suoi colleghi, a se stessa e al mondo intero che può farcela. Se
almeno avesse qualcuno accanto... (trema)... un uomo, non come Lui. che anche
ieri sera l’ ha lasciata così, con la solita sensazione, sporca... basta debolezza: tira
fuori le unghie e i denti... e se ne va.
Una volta davanti a me si è fermato un uomo. Doveva essere sui 65 anni. Si
guardò i baffi grigi e col dito seguì il loro andamento curvo. I suoi occhi miti.
infossati, guardavano lontano, non in me, non nello specchio, come poteva
sembrare. Erano occhi tristi, occhi di chi è stanco della sua vita, di chi si è reso
conto che il meglio è passato, molte occasioni sono andate perdute e quello che
resta è un lavoro mediamente buono e il mal di schiena quando ci si alza alla
mattina... la mediocrità: niente di peggio, pensava da ragazzo... però non era
pentito delle sue scelte. O meglio, sapeva che razionalmente non avrebbe potuto
agire meglio. Il suo lavoro, sua moglie, i suoi figli sono stati tutti fonte di gioia
nella sua vita. Eppure ora si trovava a chiedersi come sarebbe stato girare per il
mondo con una matita e un blocco di fogli bianchi... a stento trattenne una risata
immaginandosi con barba e capelloni. E’ vero, l’idea sembrava ridicola, eppure
non riusciva ad abbandonarla. Non era più giovane, non poteva più viaggiare e
abbandonare ogni cosa. Però non tutto è perduto. Riprenderò quel progetto nel
cassetto dell’armadio, lo schizzo di quel quadro che non ho mai fatto vedere a
nessuno, pensava con entusiasmo. La creatività mi ridarà l’irrazionalità che ho
perso in tutti questi anni. Sperava solo che sua moglie, i suoi figli non ridessero
di lui... e poi se ne andò.
Dopo di lui passò una ragazzina di circa 17 o 18 anni al massimo. Mentre
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controllava che il colletto della maglietta nuova fosse ancora sull’attenti come lo
aveva lasciato, si chiedeva chi mai avrebbe creduto che una giovane abbigliata e
accessoriata come lei potesse essere interessata agli ami da pesca. Ma non
poteva fare a meno di controllare ogni minimo particolare: stava per immergersi
in una vasca di piranha, e doveva prepararsi al peggio. Sono i particolari che
contano, pensava, gli accessori. Sapeva bene che sono l’atteggiamento, la
sicurezza che conquistano, ma come crearseli in un ambiente dove nessuno ha
voglia né tempo di considerare qualcuno che non è all’avanguardia? Da un anno
era alla disperata ricerca di un’amicizia stabile, e non voleva che questo
ennesimo tentativo si concludesse a causa di una morale retorica da film
americano, sui buoni sentimenti e le amicizie che vanno al di là delle apparenze.
Non che non le desiderasse - le amicizie. intendo - ma in diciassette anni di vita
non aveva mai incontrato nessuno del tutto insensibile all’esteriorità e al trucco e
aveva quindi concluso che o una persona così meravigliosa non esiste o mentre
la cercava non era né giusto né salutare passare i suoi sabati sera in casa a
leggere un buon libro (per quanto interessante potesse essere). Poi era stanca
del suo vittimismo e di aspettare che qualcuno si accorgesse del suo dolore. Ad
essere sinceri. ammetteva, neanche io mi accorgo delle sofferenze degli altri e,
visto che è improbabile che io sia l’unica ragazza triste nel mondo postadolescenziale, penso che l’infelicità non sia così evidente, ognuno ha le sue
nuvole da scacciare... questa considerazione le presentava quelli che stava per
incontrare persone più umane, il suo obiettivo sembrava più vicino. Non è che
ora si sentisse più felice: aveva appena scoperto che la teoria della valle di
lacrime non era poi così assurda, però si sentiva meno sola...
Io sono uno specchio, solo uno specchio purtroppo. Immagino di potervi
raccontare tutto, queste storie e molte altre, ma non ho la possibilità di
comunicare, l’unica Virtù che invidio a voi uomini, così insicuri e vulnerabili. Ho
un’unica speranza, che un giorno una piccola ragazza che una volta si fermò a
guardarmi, decida di scrivere ciò che stava pensando mentre mi osservava.
Immaginava di essere uno specchio, che non guardava soltanto le persone, ma si
tuffava al loro interno. Affido i miei pensieri a lei, bottiglia inconsapevole di
trasportare per il mare le memorie di un vecchio naufrago.
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Premio Letterario "Federico Ghibaudo”
Premio Speciale Giuria
“LO SPECCHIO”
di Roberta Casati - 5a B
Uno specchio. Due oggetti.
Uno si riflette, l’altro è riflesso.
Sono due gemelli perfetti.
Uno è cosi., l’altro è lo stesso.
Tuttavia su uno specchio di cristallo
non due ma mille figure sono coinvolte in un ballo.
Rimbalzano, girano, ruotan come matte;
sono riflesse, diffuse, rifratte.
Sulla distesa brillante di una laguna si
rispecchia tranquilla la luna,
si osserva, si ammira, vanitosa,
mentre avvolta nella notte riposa.
Quell’immagine tonda e silenziosa
si alza ed inizia una danza vorticosa:
gira, rimbalza, cammina senza posa,
finché si adagia su una pietra preziosa.
L’immagine riflessa dalla laguna
sulla perla si è proiettata
e così quell’immensa luna
in una gemma si è tramutata.
Quel gioiello brilla incastonato
in un anello d’oro zecchino
che il ragazzo le ha regalato
nel giorno di San Valentino.
Ora passeggiano mano nella mano,
passano davanti a una vetrina,
la loro figura è riflessa dal piano,
ecco che si stacca, si alza, cammina
gira nell’aria cercando delle mete
finché si posa su uno specchio che
occupa tutta la parete.
Lì davanti le ballerine sono raccolte
e si esercitano con le giravolte.
Il tutù, i nastrini, le scarpette:
lo specchio li attira e li riflette
e cosi essi volteggiano in alto,
fanno un giro, un balzo, un salto.
Infine quei veli bianchi e rosa
si adagiano sul vestito di una sposa
diventano strascico, bouquet, fiocchi,
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armonia di colori e gioia per gli occhi.
Gli sposi arrivano, felici in viso,
li sommerge una pioggia di riso.
Le immagini di quei chicchi lanciati
nell’aria
cominciano una danza allegra e varia:
salgono, salgono sempre di più
e all’improvviso ricadono giù:
scendono come fiocchi morbidi e bianchi
e sulla terra si posano stanchi,
coprono i tetti con un manto lieve;
candidi, soffici: sono la neve!
Sulla montagna più elevata
formano un ciuffo di panna montata,
una bianca distesa ghiacciata
che dal sole è accarezzata.
La neve si crogiola al dolce tepore
e non si accorge dei suo grave errore:
quei caldi, affilati raggi solari
sciolgono pian piano i suoi cristalli
regolari.
L’alta montagna innevata
inizia a piange disperata:
fiumi, torrenti e cascate
le rigano i fianchi e le vallate.
Dirompente e dirotto è il pianto
di quell’immenso monte affranto:
le sue lacrime, veloci
scorrono verso le foci.
Il mare le inghiotte e in un momento
nulla rimane del loro movimento.
Il rombo, il frastuono, il moto impetuoso
s’immergono nella quiete dei mare
silenzioso.
La massa delle acque si perde in
lontananza,
vibrano le onde come in una danza,
fino all’orizzonte l’oceano si dispiega,
lui che nella calma ogni moto annega.
Quella distesa blu profondo
ricopre e avvolge tutto il mondo.
E’ un manto d’acqua viva
che lambisce ogni riva
e raggiunge anche la lontana laguna
dove ancora si sta specchiando la luna.
Quel placido astro d’argento
non si è mosso neanche un momento:
appollaiato nel cielo terso,
sempre al suo posto, nell’universo.
Ma intanto gli specchi hanno giocato
e tante immagini hanno viaggiato.
Lampi, luci, riflessi, colori
si sono rincorsi con mille richiami,
fragili raggi e improvvisi bagliori
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si sono intrecciati come ricami.
Gli specchi in un vortice di frenesia,
la luna nella sua immobile malia:
due mondi diversi e separati,
due universi paralleli e differenziati
che sono tuttavia fra loro connessi
da un filo sottile di lampi e riflessi.
In quale dei due noi stiamo vivendo?
In quale dei due io sto scrivendo?
Quale dei due chiamiamo realtà?
Gli specchi in movimento o la staticità?
Immagini e riflessi o corpi e consistenza:
cosa è reale e cosa è parvenza?
Chissà se c’è una risposta?
Chissà dove essa è riposta?
Forse in un libro polveroso e vecchio.
Forse dietro il vetro lucido di uno
specchio.
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Premio Letterario "Federico Ghibaudo”
Premio Speciale Giuria
“DiScUsSiOnI / eSsElFiR”
di Vincenzo Calvaruso - 5a H
"SUCCEDAVA SEMPRE CHE A UN CERTO PUNTO UNO ALZAVA LA TESTA... E LA
VEDEVA. E’ UNA COSA DIFFICILE DA CAPIRE. Voglio dire... ci stavamo in più di
mille, su quella nave, tra ricconi in viaggio, e emigranti, e gente strana, e noi... Eppure
c'era sempre uno che per primo... la vedeva. Magari era lì che stava mangiando o
passeggiando, semplicemente, sul ponte... magari era lì che si stava aggiustando i
pantaloni... alzava la tesa un attimo, buttava un occhio verso il mare... e la vedeva.
Allora si inchiodava, lì dov’era, gli partiva il cuore a mille, e, sempre, tutte le maledette
volte, giuro, sempre, si girava verso di noi, verso la nave, verso tutti, e gridava: "
S:
Solo, troppo solo. Infinitamente lontana da ogni forma che si possa definire reale,
irrisolvibile è la mia solitudine.
I.R.: Soluzione
S: La voglia mi abbandona
nessuno mi perdona
non voglio diventare
quell'uomo che del cercare,
fa il suo destino
senza mai pace
per tutto il cammino.
La terra non giace
non si ferma mai
e a ciò non mi dò pace.
I.R.: L'astratto
timore incute
al re del concreto?
Questa per noi la vita?
S: cammino sofferto
di un umile errante,
fiducia né amore avverte,
ma solo il desio
di una fine certa,
unico augurio di
chi vive morendo.
Questa è per me la vita.
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I.R.: Visione nera di un concetto che fa parte della tua mente. Non è cosi il tuo cammino.
Riprova ancora una volta.
S:- Vita? Si è persa
nell'apparenza,
porta chiusa
alla verità...
...che possa portare a credere
di vivere in un mondo
in cui non cerchi più la
speranza
di non morire per la vita
S: Visioni opposte, pessimismi implicitamente irreversibili ma incompatibili in questo modo non
si può sperare di avere l'opportunità di cogliere quell'attimo di cui tutti abbiamo diritto e che ci fa
andare avanti attraverso tutte le sofferenze. Non saremo mai... Ff... fe... felic... i.
I. R.: Non capisco quello che stai dicendo
S: Ti faccio una domanda: la felicità?
I.R.: Antica speranza
di essere felice
spentasi nel vuoto
che permane nella
anima colpita.
S: il problema?
il grande buco nero nel quale la luce rimane imprigionata a causa del grande campo che
non le permette di uscire.
I.R.: Io, il campo e la luce i miei sentimenti.
L’esterno non riesce a percepire quello che c’è dentro di me, una si sofferma soltanto in
superficie dove non c'è niente, ma
appare un calcolo freddo, isterico e utilitaristico privo di scrupoli, che non ha nulla a che fare
con la mia interiorità.
S: Gli uomini?
I.R.: E cosa centra ora, di punto in bianco, questa domanda inaspettata tanto da lasciarmi senza
fiato che sembra quasi un
sibilo pronunciato da un’anima muta che vuole riflettere sul particolare umano?
S: Non lo so.
C’è un modo di fare gli uomini che non facciano del male?
I.R.: Se la deve essere chiesta anche Dio, questa, al momento buono.
Non so. Ma ci proverò.
S: Se proprio ci devono essere degli uomini, che almeno volino, e lontano.
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I.R.: L’uomo appare gettato in mezzo all'esistenza come un paio di dadi. Tutto nella vita ha
l'apparenza di un caso: sono stato scelto per caso, a caso mi debbo comportare, a caso
scomparirò.
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Premio Letterario "Federico Ghibaudo”
Premio Speciale Giuria
“LO SPECCHIO”
di Ilaria Costantino e Alice Vanzati - 4a G
Applausi e pochi passi per raggiungere il modesto camerino dopo la stancante
esibizione, per ritornare alla realtà dal sogno e alla noia dalla fantasia. Il trucco
mi impedisce di respirare e di godere del vento sulle guance, così aumento il
passo per raggiungere l’ormai dimora e la sedia sotto lo specchio. Cotone, acqua
e sapone tra le mani, poi sulla faccia. Il silenzio mi permette di sentire i miei
pensieri, così ne approfitto per ascoltarli, lo specchio me li lascia vedere, Ii
guardo. Guardo il mio viso, riflesso, osservo la pelle rosea non più coperta dal
cerone, le rughe tracciano sul mio viso strade incerte ed irregolari: la mia vita.
Liberarmi dalla mia maschera da clown è sempre più difficile e frustrante,
perché significa tornare ad una realtà insoddisfacente, ad un’esistenza di cui mi
domando il senso. E questo specchio è l’immagine severa ed intransigente della
verità, mi getta agli occhi l’anonimia di ciò che sono stato e sono adesso. Chi
sono io per gli altri? Essere clown è sinonimo di perdere la propria identità per
gran parte delle persone che incontro, ma accantonarla comporta rinunciare a
me stesso? In fondo cosa importa? E a chi importa? Loro mi cercano per qualche
minuto, non pretendono poi molto, non sono interessati alla pene della verità
ma alla stupidità della finzione... tutto ciò cui aspirano è qualche sorriso, un po’
di serenità ... e ciò che io chiedo loro in cambio sono matte risate e applausi
scroscianti. Tutto il resto è mio, appartiene alla mia storia che non è stata
soddisfacente come avrei voluto, e questo specchio me lo rinfaccia, mostrandomi
i segni delle difficoltà sulla fronte, del dolore sulle guance. E poi? Riesco anche
ad intravedere rughe che legano le mie labbra al naso ... e quelle non sono linee
causate da eventi negativi, da altre esperienze da riporre lontano nella mia
mente, queste leggere scanalature della mia pelle sono il simbolo dei miei ampi
sorrisi, forse non frequenti quanto ho sempre sperato... ma sono esistiti, è un
dato di fatto. Ne prendo certo coscienza, nell’osservarle mi affiorano i visi
sorridenti non solo di tutti gli spettatori divertiti quando indosso i panni di
clown, ma anche dei miei amici, dei miei cari, felici per ciò che sono davvero,
per quello che ho saputo dare loro, rallegrati dal mio non aspetto, ma dalla mia
persona. Il resto è solo apparenza. Ma non è forse quest’apparenza ciò che mi
rende vivo non è grazie a questa che sono vivo ... Cosa sarei senza le mille
polveri magiche che colorano i miei occhi? E un fiore nel taschino? Il simpatico
capello? E la mia buffonaggine? Questo mondo mi conosce come colui che volge
in ridicolo la serietà... e niente più! E non credo sia un male! Proprio io ne ho
bisogno per non riflettere troppo su ciò che uccide il mondo! In ogni caso come
ogni uomo banalmente mi chiedo chi sarei potuto essere se solo avessi compiuto
scelte diverse... forse qualsiasi cosa avessi fatto mi avrebbe portato qui... davanti
ad un’immagine sciolta soltanto da acqua. O forse, chissà...
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Premio Letterario "Federico Ghibaudo”
Premio Speciale Giuria
“SPECCHIO”
di Stefania Giodini - 5a D
Cosa vedo?
(cosavedocosavedocosavedo?)
...l’eco rimbomba
nell’eco ripetuta
dei miei occhi
(miei?)
Respiro
(respiro)
velieri cristallizzati si sciolgono
allo sguardo,
trasportano passeggeri
stupefatti d’essere se stessi
...me stessa?
(me stessa?)
Unione indifferenziata
di contrasti netti
appartamenti subaffittati
a emozioni bianche
o nere
...oscillo tra uno e meno uno...
uno?
(uno?)
i numeri
sdoppiati
(sdoppiali)
non sanno più chi sono...
“...non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?”
fisso l’immagine attraverso il nulla
sempre lei,
sempre immagine,
non mi muovo
(non si muove,)
...se la spezzassi?
(spezzassi?)
Frantumerei un istante di tempo e di spazio,
esisterebbe quest’aria,
questa stanza
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... esisterei?
(esisterei?)
La mano fredda
sul vetro freddo
orizzonte freddo
di un pensiero mio
solo mio
sempre mio
...e suo
(suo)
Se la toccassi?
La toccherò?
O semplicemente precipiterò
nell’oscillante nulla?
O la mia mano
continuerà
in un un’eterna mano,
afferrerò
un anello mancante,
un cerchio si chiuderà,
una moneta
spezzata
si ricomporrà?
(ricomporrà?)
La mano si muove
una mano che non è mia
(non mia)
non è quella
(non quella)
si alza
e si abbatte
come un urlo muto
sulla parete
di ghiaccio
delirante...
Un’altra me
(non me non me non me)
alza
un’altra mano
infetta di un ritardo
infinitesimale
(zerovirgolazerozerozero istanti che urlano)
e si abbatte
come un urlo muto
sulla parete
di ghiaccio
delirante....
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(Silenzio?)
Un universo muto si riflette
in leggeri frammenti di specchio
vaganti...
(...cosa vedo?
...infnito nulla?
...se la spezzassi?
...esisterei?
...ricomporrà?
...?)
Il mondo
è mia
(mia mia mia mia)
rappresentazione.
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Premio Letterario "Federico Ghibaudo”
Premio Speciale Giuria
“RICORDI”
di Michele Altieri - 2a G
La notte era arrivata senza che se ne accorgesse. Il tempo non aveva più significato.
Con lo sguardo fisso Elena osservava la pioggia scrosciante battere sul vetro. Sentiva il
rumore dolce e costante ipnotizzarle la mente. Non c’era nessuno in casa. Nel camino
ardeva l’ultimo tizzone mentre sul tavolo della stanza un bicchiere semi vuoto
rispecchiava il suo stato d’animo. Il letto disfatto non le impediva di indossare un paio
di pantaloni ed una maglietta piuttosto attillata. Aveva un bel fisico e il suo sguardo
inquietante, con i suoi lineamenti mistici, erano un omaggio prezioso della natura.
Intenta a contemplare l’alone lasciato dalla sua mano sulla finestra, non si era
nemmeno accorta di ciò che stava stringendo nell’altra. Ad un tratto, come se un
pensiero improvviso le avesse sfiorato la mente, il suo sguardo si localizzò sulla sua
immagine riflessa nel vetro. L’oscurità incombeva dietro a quel volto non più allegro.
E nello stesso istante si rese conto di avere una fotografia tra le dita. Nel rimirarla, un
angolo della bocca si mosse verso l’alto, in un movimento quasi impercettibile. Non ce
l’avrebbe fatta a sorridere. Nell’istantanea tutti i suoi compagni d’avventure estivi si
trovavano schierati in riva al mare, perso tra i volti scontati degli amici spuntava un
viso diverso. Giorgia.
- Beata te! Chissà come ti divertirai in Sardegna - diceva Giorgia quando la scuola era
orinai finita da settimane - io dovrò restare a Monza. Siamo in due: io e il caldo.
Elena non se la sentiva proprio. Anche se non era una sua amica, le dispiaceva udire
quella frase senza poter fare nulla.
- Perché non vieni con me?
Davanti a quelle parole a Giorgia sembrò di impazzire: non vedeva l’ora. Le due
partirono assieme. Giorgia si sarebbe fermata solo due settimane. La prima sera le due
si trovarono in camera da letto. Entrambe alla ricerca di un vestito non scontato da
indossare.
- Perché non provi questo? - disse Giorgia - ce l’ho da un po’ ma va ancora di moda.
Moda. Elena aveva sentito quella parola poche volte. La notte era trascorsa tranquilla
tranne per il fatto che, come al solito, Giorgia aveva trovato subito un compagno per le
due settimane sarde mentre Elena, veterana del luogo, faceva fatica a trovarne uno per
sè.
- Ti devi dare una svegliata - le ripeteva spesso l’amica - i ragazzi non verranno mai da
te se non li provochi.
Anche questa frase le era parsa una novità. Col passare dei giorni la presenza di
Giorgia cominciò ad elettrizzare la vita fin troppo scontata di Elena e lei stessa iniziò ad
imitarla e ad adottarla come esempio. Al termine della vacanza, però, l’esempio era
diventato una fissazione, e la fissazione una mania. Elena aveva deciso che avrebbe
voluto assomigliare in tutto e per tutto a Giorgia, ma non aveva capito che questo
sarebbe stata la causa della sua rovina.
Elena riprese a camminare per la stanza. Troppi ricordi amareggianti. Buttò un pezzo
di legno sul focolare ormai fioco. Ma non sarebbe riuscita a ravvivarlo. Era troppo
tardi. Così buttò un occhio sulla libreria imponente, dal fascino antico. Lì conservava i
suoi ricordi più profondi. Balzò allo sguardo, come una fiamma chiara in un inferno
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oscuro, un vecchio volume: Il ritratto di Dorian Gray. Spinta da un volere quasi
soprannaturale Elena lo prese in mano. Abbozzò nuovamente una sorta di sorriso, ma
la bocca in un istante si inumidì di dolci lacrime. Nel sfogliare il romanzo incontrò un
petalo di rosa, lasciato seccare tra le pagine.
- Un omaggio alla tua bellezza divina.
- Grazie Gabri, non ti dovevi disturbare, queste rose sono stupende. Grazie davvero
amico mio.
Nel corridoio della scuola il frastuono dell’intervallo non impediva il generarsi di
questa breve conversazione.
- Mi rendo conto di averti trattata male - proseguì Gabriele - ma ora sono più maturo e
provo anche un sentimento più maturo: io ti amo, Elena.
Quelle parole le avevano proibito qualsiasi risposta.
- Ti capisco - riprese Elena come se stesse cercando di recuperare dopo un colpo subito
- anch’io provavo le stesse cose. Ma adesso è diverso...
- Lo so che è diverso. Tu non sei più la stessa. Cosa ti è successo? Prima dell’estate
non eri così. Ho aspettato a dirtelo ma mi sono fatto un’idea. Ti stai lasciando
condizionare troppo da Giorgia.
- Smettila. Non ti permetto di offendere la mia migliore amica.
- Amica? Se lo fosse davvero non cercherebbe con insistenza la tua rovina.
- Attento, non tollero un comportamento del genere da parte tua.
- Ma guardati! La tua situazione scolastica sta precipitando in maniera smodata. Sei
diventata una ragazza immorale. Non riesci più a capire il valore dei sentimenti e, cosa
peggiore di tutte, non capisci chi davvero ti vuole bene.
Un rivolo rosso sgorgò dalle sottili dita di Elena. Stringeva le rose con tutto il suo
rancore. Gabriele le scorse una brillantezza anormale negli occhi. Incapace di reggere
la situazione la ragazza cominciò a correre, a scappare.
- Brava Elena, corri, vai a casa. Ma fammi un piacere: guardati allo specchio e cerca di
capire cosa vedi.
Le sue parole si dissolsero nell’aria. Come il fumo dopo uno sparo.
Il libro le cadde di mano. Le pagine spiegazzate urtarono il gelido marmo del
pavimento in un tonfo sordo. Elena credeva di sentire ancora il profumo inebriante
della primavera. Le pareva di udire voci melodiche di colorati volatili. Ma il pensiero
si infranse con lo stridere di pneumatici sul vialetto di casa. Quel fastidioso rumore
evocava la morte. Non erano forse grida, quelle che udiva dal profondo del cuore?
- Ehi bella! Non vedo il tuo uomo. Ti accompagno a casa?
L’atmosfera fuori dal locale era asmatica. Facce poco raccomandabili popolavano
quella comunità notturna. L’aria fredda era una strana sensazione di benessere.
Un’ancora di salvezza dai fumi dell’alcol.
- Sei sicuro di essere sano?
La risposta errata di Elena stizzì notevolmente il giovane amico notturno. - Smamma.
Me ne cercherò un’altra.
- Vengo io con te - Giorgia irruppe a salvare la situazione e poi, rivolta all’amica datti
una svegliata, Elena.
Ancora quelle parole. Le rimbombarono in testa più di quanto non fosse mai successo
prima.
- Non te la prendere - giunse un nuovo ragazzo - sali in macchina con me. Seguiremo
la tua amica.
Elena acconsentì con un gesto meccanico, le pareva l’unica soluzione. Dopo che montò
sulla vettura iniziò ad avere freddo. Un brivido gelido le corse lungo la schiena. Il suo
accompagnatore accese il riscaldamento e fece partire il motore. La macchina
avanzava silenziosa nella notte, a breve distanza da quella sulla quale era salita
Giorgia. La velocità costante, la temperatura mite e l’ora tarda non le conciliavano il
sonno. Era stranamente agitata.
- Se vuoi puoi dormire - disse il ragazzo.
27
Ma Elena ripensava alle parole dell’amica e a tutto quello che avevano significato fino a
quel momento. Vide immagini crudeli schiarirsi nella mente, e cercò di eliminarle.
Purtroppo non ci riusciva. Rumori, odori, colori le si attorcigliavano in testa creando
una colonna luminosa, piena di fascino. Il vortice di caos aumentava e si ingrandiva a
velocità spasmodica. D’un tratto vide una luce molto intensa annebbiarle qualsiasi tipo
di pensiero. Un lampo capace di squarciare sia cielo sia terra. Poi nulla. Elena perse i
sensi. Al suo risveglio si trovò sdraiata. C’erano arnbulanze e macchine della polizia.
Non impiegò molto a scoprire la verità. Le due vetture erano finite fuori strada. Lei
era l’unica sopravvissuta.
Il suono freddo del campanello la destò dai suoi pensieri. Presa di soprassalto corse ad
aprire la porta. Era Gabriele.
- Bella serata - esordì - non trovi?
- Francamente non mi sento in vena di convenevoli. Dai perché sei venuto.
- Si direbbe che le buone maniere abbiano dimenticato il tuo indirizzo.
- Oh, basta con gli scherzi. Se sei venuto per parlarmi, allora parla. Altrimenti
preferirei che te ne andassi.
- Ascoltami bene Elena, e questa volta cerca di capire. lo ti ho sempre ritenuta una
brava ragazza, ma da quando ti sei legata a Giorgia hai come cambiato carattere. Sei
diventata la sua immagine, ti sei fatta plagiare. Ora so che non mi ascolterai mai, però
cerca di credere a chi può vedere le cose da un lato obiettivo.
- E’ inutile parlare di questo, soprattutto adesso che non c’è più.
E ancora una volta, in quella lunga nottata, le brillarono gli occhi.
- Anche se lei non c’è - riprese Gabriele - tu stai vivendo nel ricordo e, ogni volta che la
mattina ti svegli, guardandoti allo specchio scorgi il suo volto. Non il tuo.
- Se hai finito con le prediche... - lo interruppe nuovamente Elena.
- Va bene. Fà pure come vuoi. Comunque ero venuto a dirti che sono in partenza.
- Partenza?
- Si, i miei genitori vanno a stare in Brasile per lavoro ed io li seguirò.
- E me lo dici cosi?
- In che altro modo avrei dovuto, secondo te?
Elena non riuscì a dire più nulla.
- E’ stata una scelta difficile, ma alla fine ho dovuto prenderla. Valutando la situazione
mi sono accorto di una cosa: la persona più importante della mia vita sei tu. Io ti amo,
e lo sai bene. Purtroppo se il mio amore non è corrisposto sono costretto a
dimenticarti, e forse saprai che non sarà facile.
A causa di uno strano sentimento Elena cercava con tutte le sue forze di trattenere le
lacrime.
- Io vado, la strada la conosco, ti lascio questa lettera. Mi hai sempre detto che volevi
te ne scrivessi una. Eccola. Peccato che sia anche l’ultima.
Su queste parole Gabriele uscì e Elena rimase sola con la sua disperazione. Il
caminetto si era ormai spento. Si sdraiò sull’unico divano della stanza. Ripensava agli
innumerevoli bivi della sua vita, cercava di comprendere quale fosse stata la svolta
errata. Tutto vano. Mentre i suoi sogni crollavano, gli occhi gonfi dalle lacrime
inquadrarono nuovamente la fotografia di Giorgia. Il volto pareva deformarsi in un
diabolico sorriso. Poi prese in mano la lettera. La guardò con molta attenzione. Solo
ora comprendeva quanto Gabriele era stato importante. Un grido lacerante le trafisse il
cuore. Elena si abbandonò all’oscurità, mentre la pioggia continuava a cadere.
Costante, ingannevole, amara.
28
Premio Letterario "Federico Ghibaudo”
“LO SPECCHIO”
di Elisa Vimercati-3a H
Nacqui per la seconda volta, con le stesse difficoltà della prima nascita, avevo
dovuto lasciare le cose di sempre, sicure e tranquille, per entrare nell’infinito.
Appena nata mi trovavo da sola in un luogo buio e molto silenzioso. Guardai
attraverso la luce debole: davanti ai miei occhi si stagliavano delle macchie
confuse, indistinguibili e lontane. Non si sentiva nessun suono.
Abituatami alla penombra, notai che c’era vicino a me un oggetto, ma non
riuscivo a capire che cosa fosse.
Decisi di avvicinarmi ad esso per distinguerlo meglio: non sarebbe stato saggio
muoversi per veder gli oggetti lontani, non curandosi di ciò che è più vicino.
Trascinatami fino all’oggetto, riuscii ad identificarlo: si trattava di uno specchio,
che non era nuovo e sembrava essere lì da sempre.
Vi guardai dentro, e non vidi riflessa la mia immagine: o meglio, il riflesso c’era,
ma era una sagoma dai tratti incerti, come se tra me e lo specchio si fosse
interposto un sottile velo bianco.
Rimasi immobile per il dolore, guardandomi intorno.
Quello era un prato, ed era pieno di fiori: la maggior parte erano margherite,
frammezzate da gruppetti di primule, tulipani rossi e gialli.
Li circondava l’erba, piena di floridi germogli di un bel verde vivo. tutto era
dorato dai raggi di un sole di mezzogiorno, che, alto nel cielo, emanava un forte
calore.
Sopra i fiori svolazzavano delle farfalle, con le loro ali simili a fine tessuto
innervato di complicate cuciture. Due in particolare attrassero la mia attenzione:
una aveva sulle ali quattro bellissime macchie dai vivaci colori, l’altra le aveva
bordate di giallo e di nero.
Istupidita dalla botta appena ricevuta e dal caldo, rimanevo ferma, con lo
sguardo perso sulle farfalle, le orecchie piena del ronzio degli insetti che, unici,
animavano quel posto apparentemente disabitato.
Per quello che la mia posizione mi permetteva di vedere, non scorgevo
costruzioni, né alberi, né altro che potesse procurarmi un po’ di ombra.
Sempre più accaldata mi lasciai cadere sull’erba: al contatto era fresca e
morbida, e per un momento provai sollievo. Ma il caldo diventava sempre più
pesante, non riuscivo ad alzarmi ma allo stesso tempo desideravo poter fuggire
da quel sole, levarmi l’afa di dosso.
Come invidiavo quelle farfalle! erano solo degli insetti, eppure la loro condizione
era migliore della mia: almeno loro potevano volare, e procurarsi così un po’ di
refrigerio.
La mia momentanea impotenza ad alzarmi, in quella situazione, mi causò molta
rabbia. E fu questa rabbia che, alla fine, mi fece alzare: mi sollevai con un moto
di stizza, e mi misi a camminare. Ora che mi ero alzata il paesaggio era più
chiaro: ero in mezzo ad uno sterminato prato, circondato dalle montagne; non
c’era nessun albero, così andai ad esplorare quel mondo surreale.
Dopo aver camminato tanto da sentire le gambe muoversi da sole, finalmente
29
vidi un bosco.
Quel bosco mi sembrò la salvezza, e mi ci tuffai dentro piena di gioia. Mi sedetti
sotto una grande quercia: com’era piacevole l’ombra!
Sonnecchiai per un po’, troppo stanca per proseguire.
Mi svegliò un ragno, che oscillava sulla mia testa mentre tesseva la ragnatela con
cui avrebbe teso trappole.
Scattai su dal disgusto, e proseguii. Ora che non pensavo più solo a ripararmi,
iniziò a prendermi la paura: “Che posto è mai questo? E’ così deserto... e se
incontrassi qualcuno di pericoloso? Dopotutto non ho nessuno che mi aiuti... ”.
Rabbrividii, ed iniziai ad agitarmi. Cercavo razionalmente di porre argine alla
corrente di pensieri così lugubri, ma sapevo che non sarei riuscita a controllarmi.
E come avrei potuto, di fronte all’assurdità di quel viaggio? Ero finita chi sa come
in un mondo sconosciuto, senza saper perché ero lì e soprattutto senza sapere
come avrei potuto uscirne.
Ciò che avevo intorno non contribuiva certo a rincuorarmi: i rami erano molto
più fitti e creavano una cappa scura, nonostante non fosse ancora notte. C’erano
continui rumori, gli animali che si muovevano nel sottosuolo. Sobbalzavo ad
ogni fruscio, ad ogni ramo che incontravo sulla strada, ad ogni foglia secca che
schiacciavo. La paura cresceva, irrazionalmente, stava diventando una vera e
propria angoscia. Mi sentivo così sola! Non sapevo dove andare e cosa fare, ma
questo sarebbe sembrato molto più facile con qualcuno accanto.
Continuai a camminare disperata, inciampai e caddi, scivolando per alcuni metri
tra i cespugli, verso il basso.
Mi rialzai... e quello che vidi mi mozzò il respiro.
Davanti a me c’era un paesaggio stupendo: da alcune rocce sporgenti precipitava
una cascata, che andava a formare una conca. Nell’acqua limpida si specchiava
ogni sorta di alberi, che spiegavano grandi foglie.
Dai rami pendevano rampicanti inerti, che sfioravano l’acqua, increspandone la
superficie; tra le rocce che circondavano quel laghetto spuntavano alberi con
bellissimi fiori rosa e bianchi, che aprivano le loro corolle, diffondendo nell’aria
un dolcissimo profumo.
Feci per scendere a dissetarmi, ma di colpo mi fermai.
Vidi qualcuno chinato sull’acqua, completamente vestito di bianco; non potei
dire se fosse stato uomo o donna: non riuscivo a vederne il volto, ed anche il
corpo era avvolto da un lunga cappa bianca.
Stavo per fuggire, quando alzò il volto e mi vide.
Rimasi paralizzata dalla paura, mentre diceva: “Ciao, ti aspettavo. Ma non avere
paura, sono un amico.”
La sua voce era calda, accogliente: certo non mi era nemico. Così iniziai a
riempirlo di domande: “Chi sei tu? Perché io sono qui, e dove mi trovo?” Lo so,
si dovrebbe essere diffidenti con gli estranei, ma può essere cattivo qualcuno che
vive in un luogo del genere? Inoltre ero troppo curiosa.
“Quante domande! Cercherò di risponderti, per quanto mi è possibile. Alla prima
domanda ho già risposto, per cui passerò alle altre.
Allora, seconda risposta: ti trovi qui per esplorare questo luogo, nient’altro. Per
quanto riguarda la terza... bè, non devo essere io a dirtelo, lo scoprirai tu stessa.”
Che tipo loquace! Bè, non mi restava altro che tenermi la mia curiosità. Con mio
grandissimo stupore risalimmo la cascata nuotando: e il mio misterioso “amico”
stava davanti, ed io mi aggrappavo a lui quasi a peso morto. Non gli chiesi
spiegazioni: sapevo che non me le avrebbe date.
Seguimmo per un po’ il corso del fiume, inoltrandoci nel bosco, ora in
compagnia di un’altra persona, mi appariva diverso: non avevo più paura.
Più volte rischiai di cadere, ma quello che camminava con me mi venne sempre
in aiuto.
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Uscimmo dalla foresta, andando verso nuovi luoghi: camminammo per
montagne aguzze e morbide distese di sabbia, attraverso lande deserte e
rigogliose valli. Incontrammo anche numerosi animali, curiosamente, quello che
più mi sorpresi di vedere fu un gatto, le cui abitudini erano perfettamente
domestiche; in quel momento la nostalgia di casa fu forte: dissi che volevo
tornare a casa, che non m’importava di conoscere quel mondo e non volevo
aspettare oltre.
Il mio compagno di viaggio mi disse che per il momento non avrei potuto ancora
tornare, ma che non sarebbe mancato molto.
Questo mi risollevò: avevo pensato di dover rimanere lì per sempre.
Continuammo a camminare: entrammo in una gola, molto lunga, buia e fredda.
Quando uscimmo da questa, vedevamo davanti a noi il mare, infinito e
bellissimo: il cielo si era fatto di piombo, rimaneva bianca la sottile linea bianca
che segnava l’orizzonte.
Il paesaggio era buio, ma il mio occhio arrivava a vedere la luce, e quella
penombra mi riempiva il cuore di gioia, mi comunicava il senso dell’immensità
che si stendeva davanti a me.
Percorremmo la scogliera per un centinaio di metri, poi imboccammo un
cunicolo che portava sottoterra.
Vidi il viso della mia guida irrigidirsi, e avanzai titubante con lei. Sfociammo in
un cunicolo scavato da uno dei fiumi sotterranei.
Seguimmo il corso d’acqua, mentre le pareti diventavano sempre più umide e
l’odore del salmastro si sentiva più forte.
“Tra poco sboccheremo sul mare. Lì sta attenta”. Cosa voleva dire? Come aveva
detto, poco dopo uscimmo allo scoperto.
Guardai in alto: riuscivo a vedere il cielo, ma gran parte del paesaggio era fuori
dalla mia visuale, a causa delle rocce che ci circondavano.
Eravamo in una sorta di vulcano, però più basso di quelli normali, e cavo.
Le pareti rese sottili dal lavorio del vento e dell’acqua nel corso degli anni,
presentavano numerosi fori, ampie finestre naturali da cui si intravedeva
l’indimenticabile paesaggio.
La marea era riuscita a scavare numerosi cunicoli da cui penetrava all’interno.
I nostri piedi però non toccavano l’acqua: poggiavamo su alcune rocce che
spuntavano dall’acqua formando grandi piattaforme.
Fu allora che la vidi: di fronte a noi, in mezzo a quel luogo, si stagliava un’oscura
figura, che si confondeva con il nero del cielo.
Non diceva una parola, ci stava davanti con aria minacciosa, ostile “Ecco, ora
devi stare pronta: dobbiamo combattere”.
“Combattere io?! Figuriamoci! Non ho mai combattuto in tutta la mia breve vita,
e non ho intenzione di cominciare proprio ora! E poi, sentiamo, perché dovrei
combattere?”
“Ora non te lo posso dire, ma poi, forse...”
“A certo, devo battere chi non conosco assieme a chi conosco appena, per un
motivo che non conosco! Non aspetterai che ti dica di sì!”
“Proprio così.”
“Ma nemmeno per sogno. A proposito, non è per caso un sogno, un po’ assurdo
ma tanto ora mi sveglio e mi ritrovo nel mio lettino...”
“Mi dispiace, ma la risposta è negativa. Comunque, dal momento che ti preme di
tornare a casa, com’è naturale, ti posso dire che riuscirai a far ritorno dopo aver
affrontato la battaglia”.
“Bè, in questo caso... comunque ci sei tu che mi aiuti vero?”
“Certamente”.
Avevamo appena finito di parlare, quando quella figura ci attaccò. Certo noi
eravamo in due, ma chi ci stava di fronte era estremamente agile e veloce.
31
Provai un istintivo odio verso di lui: ero decisissima a vincere, in quel momento
non avevo altro pensiero.
Anche il mio compagno non era da meno, e battemmo più volte il nostro
avversario. Stavamo per sconfiggerlo, quando lui colpì molto forte quello che
ormai era un amico, facendogli perdere i sensi.
Andai verso di lui: il velo era caduto e potevo vederlo in faccia.
Quello era il mio volto! D’un tratto scomparve.
Sconcertata, confusa, mi voltai verso l’altro.
Ora anche lui aveva tolto il velo: pure lui aveva il mio viso!
Rimasi a fissarlo per un lungo istante: non provavo nulla, solamente terrore,
vero, forte.
Corsi via, il più lontano possibile da quel luogo. Correvo alla cieca,
forsennatamente, senza direzione.
Corsi, e corsi; finché inciampai e caddi nel vuoto. Sotto di me il nulla.
Pregavo che fosse un sogno, mi aggrappavo disperatamente a questo pensiero
con tutte le mie forze: “E’ un sogno, è un sogno...”
Venni sbalzata fuori dallo specchio, di nuovo in quella stanza.
E allora capii: quello specchio, quando rinacqui all’adolescenza, mi aspettava da
sempre, ed io avrei dovuto rientrarvi.
Non subito: ero troppo scossa.
Ma lo avrei dovuto fare: dovevo ridiscendere, ripercorrere quel mondo,
attraversare il mare, parlare ancora con me stessa, battere me stessa laggiù, nello
strano vulcano...
Mi sarei odiata se non fossi riuscita in questo.
Perché tutto, di questo mondo, era parte di me.
Quel mondo è il mio più profondo “io”, e lo specchio è qui, e non potrei non
usarlo.
Anche se, forse, così sarebbe più comodo...
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Premio Letterario "Federico Ghibaudo”
“FRANGENTI”
di Elisabetta Valcamonica - 5a G
Frangentí
Non come cime di neve
al sole-non soleMistero.
(non io, fu LUI a scegliere me)
Gli viene incontro
il mio volto
(Viene incontro anche a me,
pensa, che strano!
Ma strano non è)
Lo specchio mi chiedi?
Lo SPECCHIO era rotto
La mano?
La mano tremava
(lei)
era ferita
33
Premio Letterario "Federico Ghibaudo”
“SOGNARE...”
di Valentin Besoiu - 5a G
Avete mai avuto la voglia di rivivere una giornata? Magari perché è stata così bella da
volerla rivivere all’infinito, o magari perché pensate che se avreste agito in maniera
diversa la vostra giornata sarebbe andata in maniera diversa.
Era una bella giornata d’estate. Come ogni mattina mi alzai tardi e mi guardai nello
specchio. Eppure, stavolta... Per la prima volta non vidi più la mia figura riflessa allo
specchio, ma uno strano volto, un volto che seguiva i tutti i miei movimenti, un volto
che seguiva il mio sguardo col suo. Mi chiesi chi mai potesse essere quella figura e
perché mi stesse seguendo col suo sguardo. Allora, in segno di sfida, la fissai dritta
negli occhi. Restai immobile per qualche istante a fissare l’intensità dello sguardo di
quella figura cosi strana. Tutto ad un tratto mi sentii attirare verso lo specchio, come
se una potente forza mi volesse attrarre a sé. Lo specchio si avvicinava sempre più al
mio corpo immobilizzato dalla paura. E si avvicinava sempre più... sempre più... fino a
quando... cominciò a sfiorarmi dolcemente con una languida carezza. E poi... mi
svegliai come ogni mattina. Mi precipitai immediatamente a esplorare lo specchio alla
ricerca di qualche segno, di una traccia, di qualcosa che mi potesse far capire cosa fosse
accaduto. Ma non sono stato in grado di trovare nulla di insolito, nulla di strano, nulla
che mi potesse far capire cosa fosse successo. Mi guardai dunque nello specchio alla
ricerca di quella strana figura che prima mi stava guardando e... non vidi altro che la
mia solita faccia. Toccai lo specchio con la mano, prima paurosamente, staccandola di
scatto e con un movimento veloce, poi con curiosità, ma non riuscii a sentire nulla a
parte la freddezza dello specchio. Ma non mi sono arreso, e così cominciai a passare in
rassegna tutte le varie possibilità per tentare di capire cosa fosse successo. Alla fine
arrivai alla conclusione che tutto è stato soltanto un sogno, nient’altro che un sogno.
Ma non riuscivo a capire se esso fosse stato un incubo o un bel sogno, non riuscivo a
capire il senso di quel sogno. E allora, come mi capita in queste situazioni, abbandonai
ogni sorta di pensieri sull’argomento e uscii. Tutto andava bene fino a quando... mi
accorsi che era tutto diverso, il mondo che mi circondava non era più lo stesso. E come
se qualche potenza superiore avesse fatto un incantesimo in modo che ogni mio
desiderio venisse esaudito. Prima i piccoli desideri, poi desideri sempre più grandi,
sempre più grandi, fino al punto che... mi ritrovai senza alcun desiderio. Avevo tutto
quello che volevo, avevo a disposizione tutto quello che ho sempre desiderato, non
c’era nulla che mi mancasse, eppure non ero felice. Era una cosa cosi strana! Chi non
sarebbe stato contento nel vedersi esaudire tutti i suoi desideri, chi non sarebbe stato
felice nell’avere tutto quello che aveva sempre desiderato? Ma io non ero né felice, né
contento. Mi mancava uno scopo per cui dover essere felice. In quel istante mi tornò
in mente una vecchia legenda, una delle tante che si raccontavano sull’antico popolo di
Atlantide. La legenda narrava che questo popolo fosse arrivato ad un tale livello di
conoscenza e di tecnologia che fosse stato in grado di costruire una macchina che
rendesse veri i sogni di tutti i suoi abitanti. Mi sembrò sempre una legenda così strana
che non pensavo potesse essere vera. Ma in quel momento non pensai più che questa
legenda non potesse essere vera, ma che, anzi, mi fosse stato concesso il privilegio di
capire cosa voglia dire una vita in cui tutti i desideri venissero avverati. La paura si
impadronì di me. Avevo paura, paura di perdere quello che avevo ottenuto, ma avevo
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anche la voglia di perderlo. E come quando si desidera ardentemente una cosa, ma
allo stesso tempo anche il suo opposto. Tutto ad un tratto la mia pura si trasformò in
desiderio e come tale venne esaudito. Persi tutto, tutto quello che i miei desideri
avevano costruito. La luminosità di quella giornata iniziata in maniera così spensierata
tutto ad un tratto divenne buia e scura come la notte fonda. I miei occhi si chiusero e
non sentii più nulla. Li riaprii e... mi ritrovai nel mio letto. E così mi svegliai e mi
diressi verso il luogo in cui era iniziato tutto... Guardai lo specchio, lo scrutai in
maniera attenta, ma... non vidi altro che un normalissimo specchio. Allora cosa mai
era successo? Cosa mai era accaduto? Era stato tutto un sogno e niente di più?
Stranamente queste domande me le portai dietro per tutta la giornata. Sperai di
passare una giornata diversa dalla mia solita giornata, ma non fu così. Non vi accadde
nulla di strano, nulla di nuovo, nulla di interessante. O forse ero io che ero troppo
preso da mille pensieri, che continuavano a risuonare nella mia testa, fino a farmela
quasi esplodere. E così arrivò la sera. Era una di quelle bellissime sere d’estate in cui
le nuvole abbandonano il loro posto nel cielo alla luce, alla tenera e dolce luce della
luna, danzante come una Venere su un palco cosparso di stelle che con la loro
brillantezza sembravano seguire i suoi dolci movimenti. La mia mente incominciò a
volare, a uscire dal mio corpo, a innalzarsi verso quella luce così calda e intensa. I miei
occhi si chiusero, e tutto quello che rimase non fu altro che una soave melodia d’amore,
un candido fruscio immerso in un silenzio così tranquillo. Mi sentii sollevare
dolcemente da terra, aprii gli occhi e guardai la terra allontanarsi sempre più da sotto il
mio corpo. Arrivato finalmente a mezz’aria il mio corpo si fermò e io richiusi gli occhi
per sognare ancora, per udire meglio quella soave melodia che mi circondava. Mi
passò in mente un desiderio, il desiderio di capire cosa era successo, ma soprattutto il
desiderio di capire il perché tutto ciò era accaduto. Udii una candida voce sussurrare
tra il fruscio della dolce melodia una frase: “chiedi e ti sarà dato... ma ricorda che più
chiedi più la Felicità si allontanerà da te, ti avvicinerai sempre più alla tristezza...
chiedi e ti sarà dato... chiedi e ti sarà dato tutto quello che desidererai... chiedi tutto
quello che vorrai... ma chiedilo prima di aprire i tuoi occhi... o tutto quello che avrai
ricevuto perderai... non cercare mai... non guardare mai... ti è dato sentire... ti è dato
provare... ma non ti è dato vedere...” invano cercai di capire da dove venisse quella
candida voce, invano cercai di toccare colei che mi parlava così. Il desiderio sì
impadronì di me. O per meglio dire la curiosità si impadronì di me. Tuttavia, rimasi in
silenzio, non pensai più a nulla, mi lasciai trasportare dai sogni. Tutto ad un tratto il
desiderio di sapere cosa stava succedendo mi spinse a ignorare quelle parole e ad
aprire gli occhi... Mi ritrovai nei mio letto... il sole era già alto nei cielo, ma io non
avevo alcuna voglia di alzarmi, non avevo alcuna voglia di passare un’altra giornata a
cercare in vano una risposta. Ma mi rialzai, mi diressi verso lo specchio... Avevo paura,
paura di guardare dentro allo specchio per paura di quello che vi avrei potuto trovare.
Avevo paura di non riuscire a trovare nulla, come era già successo... avevo paura di
trovare qualcosa di insolito... Eppure, mi avvicinai lentamente... prima senza
guardare... poi con gli occhi chiusi mi girai verso lo specchio e lentamente aprii gli
occhi. Rimasi immobile per qualche istante a fissare lo specchio, senza vedere nulla.
Non riuscii a vedere nulla... non vidi nulla dentro allo specchio. La mia figura era
sparita. Era come se un fantasma guardasse dentro allo specchio senza riuscire a
vedere la sua immagine. Improvvisamente sullo specchio cominciarono a vedersi delle
onde, come quelle prodotte da una goccia d’acqua quando cade in un vaso pieno, e
dalle onde cominciò ad intravedersi un’immagine prima sbiadita, poi via via più
limpida, più chiara. Dapprima non riuscii a capire di cosa si trattasse, non riuscii a
distinguere la figura che si stava intravedendo. Poi man mano che essa diventava più
limpida la riconobbi. E incominciai a tremare... Vidi me stesso dall’altra parte dello
specchio. Allora lo specchio iniziò ad avvicinarsi sempre più a me, fino ad accarezzare
il mio corpo e... un’intesa luce si sviluppò, come un lampo durante un temporale. E
proprio come un lampo mi ritrovai a fissare una strana figura dentro allo specchio...
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l’immagine di me stesso. Capii allora il senso di quello che mi era successo...
Il mio desiderio più grande era di vedere i miei desideri esauditi. Ed ecco che ciò
accadde.
Ma quando ciò successe non provai felicità, gioia come sembrerebbe normale a tutti,
ma tristezza, dolore. Perché non avevo più alcun desiderio da esaudire. Capii allora
che la nostra vita non è altro che l’inseguire dei sogni, dei desideri che in realtà non
vorremmo che venissero esauditi, perché sono proprio questi sogni che ci fanno vivere
questa vita alla loro continua ricerca. E capii anche che la mancanza di sogni porta
l’uomo ad uno stato animale, in cui gli istinti più primitivi si scatenano e hanno il
sopravvento sulle nostre azioni. La mancanza di sogni porta a gesti estremi come il
suicidio, mentre il voler vedere esaudito a tutti i costi il nostro sogno non porta che alla
rovina, agli omicidi, alle stragi a tutto ciò che è malvagio. E per questo che i sogni più
grandi dell’uomo non devono essere esauditi. Il desiderio di sapere a tutti i costi cosa
succede, chi sta realizzando i tuoi desideri porta alla rovina di tutto il mondo interiore
di una persona.
Ma era tutto un sogno, soltanto un sogno e niente di più !?
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Premio Letterario "Federico Ghibaudo”
“MALINTESO”
di Valentino Brioschi - 4a L
Malinteso
sedotti da un eco d’amore pubico
fino al riflusso
degli odori superbi del ventre
(mistico santuario che racchiude il feto dei sentimenti)
spontanei e non,
trascinano e purificano
come una sirena
che cancella il desiderio
all’uomo eccitato:
romanticismo e
indifferentismo.
insituabili dello specchio infinito
si estrae dalle cose
dall’intendimento del corpo di una
donna. il principio. il minimo.
da cui parte un oracolo di vizi
gratis
di seni a se stanti dal piacere.
coll’iniziativa di ogni giorno
venire. accasciati nudi
assumendo posizioni che
tra le gambe riservano
teorie mentali perverse9’ipkùòsf.knm
aumentando gli starnuti del cazzo
Amore: formalità
sottoamatore o ritratto?
I sentimenti inflitti
da un pittore alla tela bianca
sono burocratici. I solchi
dell’aratro non raggiungono
mai l’orizzonte. Il viaggio
non esiste che in partenza.infine
sei schiavo.
di convulse ricerche
di se stessi riflessi negli occhi
di un altro specchio di vitrei cocci
che intagliano i nostri nudi piedi, pensieri
le voci plurali si confondono
sfumando le une nelle altre
senza confini precisi
dirigono verso verdi viali
alberati senza suono.
“il Sole ha freddo”
37
Immagine
l’urlo di una farfalla
preservata dall’oblio nel
paese delle idiozie.
l’iride c’inghiotte.
stanco di sopravvivere.
Libidine. Inquietudine.
s’indica una Presenza
col dito e diventa feticcio.
Feticismo morale:
scolpirsi un volto
vuoto tra i deliri e
sentori dello sperma
scoparsi le Statue,
idolatrare le Veneri
congiunti a specchi gemelli
rinchiusi dalla fugacità
dell’essere corpo
lasciando scivolare le mani
lungo il sesso,
ritoccando con la lingua gli
Orli delle labbra-vampiree.
si schiudono gli occhi
per rincorrere sogni febbrili
ancora corpo
Un leone sopito
Come oriente
Come città proibita
Un ramingo piacere
prosciugati a quel punto.
strappati all’istinto.
aggrappati ad una radiosa
che ci ritrae Esuli Stranieri
Alla prima luce opaca del mattino,
che tra i dileggi dell’amore
si è solo ombre.
Mutilata la marea
Abominazione di un gioco
leggero come orme
sui nostri corpi assonnati
si staglia lo spettro
della nostra ossessione.
38
Premio Letterario "Federico Ghibaudo”
“FALSEMBIANTE”
di Cristina Sanvito - 5a D
Tutto ciò che segue è vero.
Era seduta dentro l’alone di luce galleggiante nella stanza buia e scriveva. Cercava di
riprodurre sulla carta quell’immagine che la osservava dall’altro lato dello specchio in
quei simboli neri, altrimenti vuoti.
Falsembiante... si chiese d’improvviso come gli amici le avessero trovato proprio quel
soprannome: ma sentiva senza spiegarselo che le calzava perfettamente.
Di nuovo si concentrò sul volto affacciato da chissà quale altro mondo: e quello la
scrutava con insistenza esasperata, come se avesse desiderato infrangere quel sottile
impercettibile limite cristallino e venirne al di qua...
La piccola pietra scura e lucida incastonata nell’anellino rimandava dalle molteplici
facce frammenti di luce rovesciandoli sulla carta. Vide che la loro presenza creava
scompiglio, scardinava quel precario equilibrio di spazi bianchi e segni scuri che lei era
venuta delimitando con l’inchiostro.
Si era formata sul foglio un’immagine
indecifrabile. Tornò a fissare lo sguardo nello specchio: le macchie di colore si erano
confuse, il volto era sfocato. sembrava sgomento, atterrito... probabilmente,
indifferente, dormiva. La moltitudine affastellata di segni neri sulla carta cresceva
precipitosamente: sempre informe, sempre vuota e senza senso.
Chiuse gli occhi (la penna le scivolò via dalle dita). Ascoltava il sangue fluirle docile
nelle vene (che cosa sarebbe successo se quel fiume avesse deciso di straripare?).
La mano tesa, le dita rigide e lontane fendeva l’aria errando a pochi millimetri da quel
brulichio di schegge scure: le sentiva sfiorarle la pelle aggressive, indomite,
selvaggiamente insignificanti.
Riaprì gli occhi.
Afferrò energicamente la penna,
scrisse: F - A - L - S - E - M - B - I - A - N - T - E.
Ora era riuscita a dare un senso al caos, a riordinare gli infiniti punti luminosi, a
ricostruire l’argine di fondo... ma quel foglio rispecchiava veramente i suoi pensieri?
Le balenarono tre versi nella memoria:
“ come in lo specchio il sol, no altrimenti
la doppia fìera dentro vi raggiava
or con altri, or con altri reggimenti”
(Purg. XXXI, 121-123)
Tutto ciò che precede è falso.
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Premio Letterario "Federico Ghibaudo”
“TRASGRESSIVA FELICITA’: IO O TU ?”
di Cristina Vitale - 5a H
? Percepisci anche tu l’erroneo oblio
di un passato incoerente:
« brandelli di verità
specchio dell’ironia
vento e fragilità
senza più un’anima mia »
e il disincanto di un presente irriverente,
come il colare di un rosso “ti amo”
su uno specchio che legge tutto al contrario.
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Premio Letterario "Federico Ghibaudo”
“LA STANZA”
di Roberta La Placa - 4a F
Lunghe file di parole scorrono davanti ai miei occhi, interminabili.
E’ tardi, gli occhi cominciano a bruciare e la voce si affievolisce. Mi tengo sveglia
a forza di caffè, ma non posso addormentarmi, ho troppo da fare. Chiudo un
libro per riaprirne un altro, riempio quaderni, consumo matite.
Alzo gli occhi per guardare l’orologio, lancette che scandiscono secondi, minuti,
ore. Tempo che aleggia nell’aria che respiro, non si ferma, non torna indietro,
ma avanza inesorabile.
Sono stanca; le palpebre si fanno pesanti, i rumori sembrano provenire da un
mondo lontano, rimbalzano su un muro di gomma prima di giungere a me.
Poi pian piano il freddo della notte sparisce, un tepore accogliente mi avvolge,
sussurra: “Dormi”. Non posso opporre resistenza, sono troppo stanca; ho un
unico desiderio: dormire.....
Neanche una luce, solo il buio intorno a me e silenzio, un silenzio così profondo
che riesco a percepire il battito del cuore e il mio lieve respiro, nient’altro.
Resto immobile, aspettando.
Poi... rumori leggeri e una fioca luce sembrano provenire da lontano. Lievi
ticchettii che diventano sempre più numerosi e vicini, la luce s’intensifica man
mano ed io riesco a distinguere ora un lungo corridoio, ora i contorni di una
porta, poi un’ombra e infine... la luce diventa talmente abbagliante che non
posso nemmeno alzare lo sguardo.
Una risatina sottile e beffarda risuona intorno a me, potrebbe appartenere a
quegli strani esseri che popolano i sogni di tutti dai tempi più antichi.
Inaspettatamente la luce si affievolisce ed io riesco a rialzare gli occhi ed è allora
che lo scorgo, dapprima ne vedo solo l’ombra sfocata sulla parete, poi
l’immagine diventa chiara ed io rimango incredula a guardare. La mia mente
cerca di fuggire, ciò che vedo non è reale, non può esserlo; eppure lui è lì
davanti a me e sorride, ho la sensazione che da un momento all’altro possa
svanire, ma non accade.
Un lampo di malizia attraversa i suoi occhi e i denti si scoprono in un sorriso.
“Seguimi”, la sua voce risuona nel vuoto con una nota di scherno, eppure
qualcosa mi dice che posso fidarmi, che non corro alcun pericolo. Mi avvio
piano seguendo la figura che cammina davanti a me o, meglio, saltella. I suoi
piccoli zoccoli ticchettano sul pavimento di pietra riempiendo la stanza di rumori
leggeri che sembrano quasi scandire il tempo; è strano seguire un fauno, una
creatura che fino a poco tempo prima credevi solo mitologica.
Col suo passo agile mi conduce lungo angusti corridoi dove la sola luce è quella
debole emanata dalla lanterna che la mia piccola guida strige fra le mani;
saliamo scale interminabili, dove gli enormi muri di pietra sembrano volerci
schiacciare. Attraversiamo immensi saloni dove quello stesso chiarore che poco
prima era indispensabile ora appare come una lucciola in un cielo stellato;
stanze adornate di bellissimi affreschi che ritraggono persone di tempi passati,
ma che conservano qualcosa di reale, pavimenti non più in pietra grezza, ma
rivestiti di luccicante marmo, enormi lampadari con splendide rifiniture. Mi
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fermo ad ammirare le bellezze che mi circondano e che, intuisco, non rivedrò
più; il piccolo genio dei boschi appare però impaziente di continuare il nostro
interminabile viaggio e batte il suo minuscolo zoccolo sul marmo, brontolando
fra sé in una lingua a me completamente sconosciuta. Per un po’ riesco ad
ignorarlo, ma non per molto, presto la sua voce echeggia nei saloni
rimproverandone: devo affrettarmi.
Riprendiamo a camminare in un labirinto di corridoi sui quali si aprono ampie
finestre, posso intravedere un giardino dagli splendidi colori che sembra non
aver mai conosciuto il rigore invernale.
Il fauno acconsente, anche se a malincuore, a portarmi nel grande parco; appena
varcato l’enorme portale, m’investe il profumo dei fiori e la fresca brezza di
primavera.
All’ombra dei grandi alberi secolari scorgo giovani, intenti a canti e poesie, sui
prati verdi ninfe che giocano e ridono libere da qualsiasi preoccupazione; poco
lontano grandi centauri si sfidano a gare d’ogni tipo, mentre alcuni fauni
allietano l’aria con le loro splendide melodie. Rimango incredula, spostando lo
sguardo da una parte all’altra dell’immenso giardino; ciò che ho sempre creduto
mitologia ora è lì davanti a me, mi basterebbe fare qualche passo per
raggiungere quel popolo felice, ma ho troppa paura che possa svanire o che io
possa turbare l’equilibrio perfetto che sembra animarlo.
La mia guida mi afferra per una mano, forse comprendendo il nuovo sgomento,
e mi trascina di nuovo attraverso la porta richiudendola, poi, alle sue spalle e
separandomi così da quel mondo fantastico. Per un intero minuto rimango a
fissare i battenti di legno, cercando di convincermi che ciò che ho visto non è
frutto di un’allucinazione. Presto mi giunge alle orecchie la vocina irritata del
nuovo compagno di viaggio che, già lontano, mi esorta a proseguire.
Incerta riprendo il cammino, attraversiamo altri splendidi saloni e fiorentissimi
giardini, ma questa volta il fauno non mi permette di fermarmi, percorre quelle
meravigliose stanza quasi correndo, con quei suoi passetti nervosi.
Poi, inavvertitamente, davanti a noi appare un secondo immenso portale;
intagliati nel duro legno dei battenti sono raffigurati tutti i miti antichi: la
discesa agli inferi di Orfeo, il viaggio del coraggioso Odisseo, il pianto di Achille
per l’amico perduto. Guardando quelle scene ho l’impressione che esse si
animino, mi sembra quasi di sentire il melodioso canto del poeta desideroso di
riportare con sé la sua sposa.
Accanto a me il piccolo genio sorride, con una nota di malinconia negli occhi,
forse gli manca quel mondo lontano; dopo qualche momento si riscuote e due
colpi leggeri sono battuti sulla grande porta di quercia.
Con mia grande meraviglia il portale si schiude, nessuna luce filtra da esso; il
fauno varca la soglia invitandomi a seguirlo, la sua lanterna è l’unica fonte di
luce ed io non esito a seguire il chiarore che diffonde. Poi lo scorgo.
In mezzo alla sala su di un tavolo rotondo di legno sta ritto un grosso gatto, i
suoi occhi gialli esprimono tutta la sapienza di un vecchio saggio che ha ricavato
dalla sua lunga vita la vera conoscenza, il pelo è lucente, sul muso
un’espressione di gioia.
Mi avvicino sicura per la prima volta da quando è iniziato il mio viaggio, non
temo nulla perché ciò che vedo davanti a me è un frammento della mia vita,
della mia famiglia e di me stessa; nei suoi occhi scorgo la mia infanzia, i miei
primi ricordi e mi sento a casa.
Poso una mano sul pelame nero e bianco, la sua schiena s’inarca e l’aria si
riempie di quel ronfare a me familiare che non sentivo da tanto tempo.
“Sei contenta?” Sobbalzo al suono inaspettato di quella voce, non pensavo ci
fosse qualcuno nella stanza.
Alzo lo sguardo e scorgo davanti a me poco distante una figura seminascosta
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nell’ombra, avvolta in un’ampia cappa tanto che il volto rimane coperto e non ne
riesco a distinguere i contorni; eppure sento in lei qualcosa di familiare: dove
l’ho già incontrata?
Poi, interrompendo il filo dei miei pensieri, comincia a parlare, la sua voce
risuona nella stanza e non sembra provenire dalla figura davanti a me, bensì da
un mondo lontanissimo.
Le sue parole, taglienti come tante lame, diventano parte di me imprimendosi
nella mia mente. Poi, così come aveva cominciato, s’interrompe alzando un
braccio ad indicare le pareti intorno a me, la luce diviene molto più forte ed io
posso scorgere, intagliate nei grandi muri, i giorni del nostro mondo; momenti di
gioia e dolore, mescolati a formare una sorta di grande libro.
Guardando rivedo la mia vita, i volti delle persone a me vicine, il mio tempo.
Girando lo sguardo non posso trattenere un gemito di sgomento: orrori,
indescrivibili a parole, sono incisi nella pietra, vedo la prigionia e lo sterminio,
sento il dolore delle persone che chiedono solo pietà; scorgo galeoni antichi che
trasportano uomini strappati alle loro case e venduti come schiavi, popolazioni
sterminate per quel dio chiamato denaro.
I miei occhi sono pieni di lacrime e la mente confusa: “Chi sei?” domando
all’ombra.
“Dunque è passato così tanto tempo? Proprio non ti ricordi di me?”
L’enigmatica figura abbassa il cappuccio che le copre il volto, la luce le inonda il
viso e dai miei occhi sgorgano lacrime di gioia.
Il mio cuore è ebbro di felicità che sembra quasi traboccare e invadere ogni parte
del mio corpo, eppure rimango immobile a fissare davanti a me, come
paralizzata, quel volto, quegli occhi che conosco così bene. Poi il coraggio torna
a fluire nelle mie vene lentamente e la curiosità prevale sulla paura. Sollevo il
braccio portando la mano verso il volto della figura, le mie dita sfiorano quella
pelle bianca che al contatto risulta fredda, come il sangue avesse da tempo
smesso di scorrere sotto di essa.
Ritraggo la mano spaventata, dietro l’ombra sono apparsi mille volti, tutte le
persone che hanno popolato il mondo sembrano essersi riunite lì, dietro la figura
incappucciata, dietro colei che fa parte di me, dietro la mia stessa anima riflessa
dentro il grande specchio.
Una voce mi scuote, sussurra parole che non posso dimenticare, che non voglio
perdere e che mi danno una nuova speranza, ora che ho ritrovato una parte di
me che credevo perduta per sempre.
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Premio Letterario "Federico Ghibaudo”
“LO SPECCHIO”
di Gloria Fuso - 5a F
Vedo una ragazza qualunque, come tutte le altre. Diciannove anni, capelli e
occhi castani, carnagione chiara, carina, a quanto dicono. Una ragazza comune,
che non si fa notare, che passa inosservata tra la folla dei sabato pomeriggio in
centro Monza. Potrebbe fare mille "vasche", andare avanti e indietro senza che
nessuno la fermi per conoscerla. Questo non le dispiace, anzi. Ciò che più le dà
fastidio è camminare ed essere osservata. "Chissà cosa stanno pensando in
questo momento. Magari mi guardano non perché sono carina, ma perché mi
stanno deridendo, si prendono gioco di me alle mie spalle. Beh, Gloria, accelera
il passo, occhi rivolti a terra, e via. Ignorali e fai finta di non averti mai visti. E
poi ti dimentichi di Francesco? Non gli farebbe piacere sapere che cerchi
l'attenzione di altri. Potrebbe ingelosirsi." Eppure, in fondo a tutta la sua
semplicità, sotterrata dalla travolgente timidezza che la fa arrossire, tacere,
sorridere con imbarazzo, c'è tanta voglia di emergere. Tanta voglia di essere
scoperta, capita, penetrata. Nemmeno lei si capisce... come potrebbe farlo un
professore di cui cerca la stima? Vede i suoi amici e le sue compagne spavaldi,
fare battute, divertirsi in classe, ridere con l'insegnante. Anche lei vorrebbe
rapire un sorriso a quell’omaccione che siede dietro la cattedra, anche lei non
desidera nient’altro che far trasparire la sua allegria, la sua dolcezza. Ma un
unico, grande ostacolo le impedisce di buttarsi, dì mettersi in gioco, di scoprire
che anche lei ce la può fare. Sempre quel nemico di vincere, quel rossore, quel
batticuore che le fa sobbalzare il petto non appena vuole intervenire e dire la
sua, quella paura di non dire cose intelligenti, di essere zittita.
"Qui, su questo foglio, puoi dire tutto quello che vuoi. Nessuno potrà toglierti ',a
parola". "Sì, ma è possibile che si annoino, che smettano dì leggere prima della
fine".
"infischiati degli altri, pensa a quello che stai facendo, concentrati sulle tue
capacità. Abbi fiducia in te"'.
Autostìma ... questa parola sconosciuta, irraggiungibile, ma non irrealizzabile..
Si guarda allo specchio, cercando quegli sguardi che non riesce a trovare in
nessuno. Si guarda allo specchio e cerca di penetrare in sé. A volte prende la
spazzola rotonda che di solito usa per arricciarsi i capelli, la impugna e canta nel
bagno, dove l'acustica le fa sembrare di avere una voce importante, calda.
"Potrei fare la cantante!", dice scherzando. E' bello quando osserva il suo sorriso.
I denti dritti, dopo tre anni di apparecchio odontoiatrico che la rendevano un po'
li brutto anatroccolo della scuola media. E poi quegli orrendi occhiali che la
facevano sembrare... vecchia. Sì, vecchia è il termine adatto. Ora, invece, gli
occhi le brillano, ma solo per il riflesso della luce sulle lenti a contatto.
Vorrebbe comunicare coi silenzio delle parole, con la malinconia dei suo
sguardo. Depressione, pessimismo innato. Apatia, noia. Non sa come chiamare
quello stato d'animo che la assale la domenica mattina, quando, appena schiusi
gli occhi, soffoca tra le mille cose da fare.
"Non c'è tempo, non ce la farai mai".
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Non ce la farai mai ... ma che cosa non dovrebbe riuscire a fare? Non deve
partire per una missione, non deve buttarsi da un grattacielo. Deve solo fare il
suo lavoro, studiare. E Gloria studia, si è impegnata tanto che negli ultimi mesi i
suoi voti non erano scesi al di sotto dei sette e mezzo.
"Sono proprio soddisfatta di me!".
Tuttavia, complice forse la primavera, i suoi risultati hanno iniziato ad essere
deludenti, causa quel leggero assopimento che la accompagnava durante tutte le
giornate. Eppure prima, quando "andava bene a scuola", ha dovuto compiere
enormi sforzi per leggere quegli otto sui registri dei professori.
La casa, nido per molti, confine da valicare per altri, era per lei una tana buia.
La sua camera, il suo "piccolo mondo" diventava un rifugio, un riparo che la
nascondesse dagli occhi preoccupati dei genitori, che la abbracciasse nel suo
tepore malinconico. La trapunta
era umida di lacrime, i libri di testo macchiati qua e là dal mascara che colava,
che le anneriva le palpebre, già scure e pesanti. Si chinava sui libri, intrisi di
dovere, di obbligo... "Quest'anno hai la maturità, non puoi mollare proprio
adesso".
Ma nonostante cercasse dì farsi forza da sola, quando di forza lei non ne aveva
nemmeno un grammo, non riusciva a sollevare quel macigno che le premeva
sulla trachea, non riusciva a sciogliere quel nodo alla gola che la teneva a casa
da scuola per giorni. Una settimana, ore ed ore seguita dal suo angelo custode,
che le offriva la sua spalla e cercava di consolarla; una settimana trascorsa tra
centri commerciali affollati che la reinserissero nel mondo, luoghi pubblici
dall’aria pungente che le facessero respirare ossigeno fresco, pulito, non come
l'atmosfera che incombeva tra le quattro pareti della sua stanza. Un senso di
inutilità e di desolazione la tenevano chiusa in quei cinque metri quadri, davanti
a quello specchio che, confidente di tanti suoi pianti, la osservava gli occhi le si
gonfiavano di rossore, le lacrime le rigavano il viso, le labbra digrignavano un
dolore che a stento riusciva a trattenere, ma che tanto desiderava reprimere. E
poi quel piombo che le schiacciava la gola e le impediva di respirare. Lo
specchio ascoltava la sua voce tremante, rifletteva la sua pietosa immagine. Ma
non era bagnato delle sue lacrime, non era afflitto dal suo dolore. Era lì,
impassibile, insensibile, ma pronto a riprodurre ogni singolo singulto, ogni suo
gesto, ogni sua smorfia.
"Mi fai pietà", si ripeteva spesso, cercando di reagire alla sua "crisi", tipica degli
adolescenti a detta di molti, ma di profondo valore per lei.
Una settimana a casa a studiare, per non rimanere indietro con il programma, e
poi di nuovo a scuola, sempre con quel fastidioso magone, tra amici che non
riuscivano a capire il suo piccolo dramma interiore, tra professori che, forse,
vedendola "depressa" e rannicchiato sul suo banco in ultima fila, si saranno
chiesti che cosa potesse affliggerla, o l'avranno snobbata, indifferenti ai propri
studenti, interessati a terminare la lezione perché Il ragazzi, quest'anno avete
l'esame e il programma è mastodontico". Anche nell'ora di educazione fisica,
momento di aggregazione e di svago, qualcosa la estraniava. Le sembrava di
essere isolata dalle altre, di aver perso improvvisamente ,le confidenti più
intime, le amiche più sincere.
Sono bastati quei sette giorni lontano dalla sua scuola a renderla più seria, a non
farla più ridere per le solito battute maliziose delle sue compagne, che ora le
appaiono semplici diciottenni superficiali. Forse è solo maturata, forse le va
stretto quel piccolo mondo di cui fa parte, quella quotidianità che tanto la
annoia e la incupisce. Forse ha vissuto qualcosa che, in fin dei conti, I' ha
arricchita, le ha lasciato un segno indelebile. Ha risvegliato in lei il piacere di
stare con gli altri, la tranquillità della pittura e dell’immaginazione, che lavora e
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prende forma grazie a quei cinque colori ad olio che sulla tela, diluiti, mischiati
tra loro, si sfumano, si moltiplicano. Ha riscoperto il fascino della musica, la
sinuosità del movimenti che accompagnano le note suonate dalla radio, la
leggerezza dì una giravolta, l'energia di una sforbiciata.
Ora, davanti allo specchio, vede i suoi occhi brillare, illuminarsi. Non più per il
riflesso della luce sulle tenti a contatto, ma per la luce che essi stessi irradiano.
Ora, davanti allo specchio, è lei giudice e critica di se stessa, non più quegli
sbruffoni seduti sui muretti di Via Italia. Ora abbandona lo specchio, la sua
immagine, e si avvicina alla finestra della sua camera. In lontananza vede
figurarsi sul vetro il suo corpo, poi solo il suo volto. E tutto si dissolve non
appena rivolge lo sguardo oltre al vetro. Vede il cantiere che ospiterà nuovi
appartamenti, nuove famiglie, nuove storie di vita; spinge ancora più in là gli
occhi e vede le scuole che I' hanno cresciuta fino ai quindici anni; e ancora oltre
vede le montagne, innervate e così vicine. Riesce a scorgere perfino i crepacci
delle loro pareti rocciose, che si ergono nel cielo, limpido ed etereo.
Ora non ha più bisogno di uno specchio che le faccia vedere com'è la realtà. Ora
sente di avere la forza ed il coraggio per poterla costruire da sé.
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Premio Letterario "Federico Ghibaudo”
“LO SPECCHIO”
di Roberta Vatri - 2a G
Orsù ambiguo amuleto
vecchio ancor più dell’uomo
mostra a me quel tuo fasullo riflesso
così che la mia bellezza io rimiri di nuovo.
Suvvia vanesio monile
tu che vedesti ancor più del saggio
mostra a me quell’ingannevole figura
così che io sembri natura di maggio.
Ubbidisco padrona, poiché servo tuo sono
ma ricorda che in cambio ho la tua anima in dono.
Nessuno è più gaio senza l’alma che canta
ma suppongo che di ciò tu te ne vanta.
Bella tu sei ora e piena d’ammirazione
ma non appena ti volterai morirai per l’orrore.
T’avevo avvertita mia ingenua fanciulla
ma tu, come l’altre, ora sei figlia del nulla.
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Premio Letterario "Federico Ghibaudo”
“LO SPECCHIO”
di Giulia Dossi - 2a H
Se mi avessero rivolto la domanda: “Quale importanza credi che abbia per una
persona il suo aspetto fisico?” qualche anno fa, avrei sicuramente scrollato le
spalle e sbuffato, perché la mia “femminilità” mi interessava poco; ma ora che
sto vivendo il periodo dell’adolescenza, sono cambiata molto e ho cominciato a
guardarmi allo specchio con occhi nuovi e ad essere felice di scoprirmi.
L’adolescente, però, secondo me, avverte più importante la vita interiore,
rispetto all’esteriorità e, nello stesso tempo, il disagio di fronte ai mutamenti
notevoli che interessano l’aspetto fisico: le trasformazioni del corpo, infatti, in
questo periodo, sono così rapide e accentuate che segnano l’armonica o la
disarmonica disposizione della personalità, se il conflitto psichico che esse
determinano viene opportunamente o meno superato.
Lo specchio, quindi, oltre ad essere un importantissimo mezzo per la scoperta e
la conoscenza esteriore di noi stessi, è, secondo me, l’oggetto che meglio
rappresenta questa società, in quanto oggi sempre più si dedica una grande
attenzione e, per certi versi, eccessiva alla cura del proprio corpo; i valori estetici
hanno ormai, infatti, un’importanza preponderante, nei costumi della società
contemporanea, all’interno della quale sembra sia decisamente prevalso
“l’apparire” sull’ “essere”.
Ciò comporta un vero e proprio trionfo dell’esteriorità, che addirittura, può
determinare l’appartenenza a un gruppo e l’accettazione da parte della società; il
corpo stesso, quindi, si trasforma in un’unità di misura utile a valutare le
differenze fra un individuo e l’altro.
Invece l’aspetto fisico è si molto importante, ma sicuramente non è tutto, infatti,
bisogna curare anche la bellezza dell’ “anima”, che va riempita di valori positivi.
Perciò credo che colui che cura solo il suo aspetto esteriore, cioè colui che si
guarda spesso allo specchio, inteso come unico strumento grazie al quale
scoprire di avere un’immagine fisica conforme ai canoni di bellezza stabiliti dalla
moda, sia vanitoso e estremamente superficiale; certo non ci si deve trascurare o
non far niente per apparire piacevoli, ma penso che nella vita avrà più “successo”
colui che, pur non essendo bellissimo, avendo, tuttavia, “accettato” la propria
immagine e non essendosi fatto particolarmente influenzare dallo specchio, si
renderà piacente, perché avrà qualcosa da dire e non da dare agli altri.
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Premio Letterario "Federico Ghibaudo”
“LO SPECCHIO”
di Mattia Craighero - 2a H
Specchio.
Impercettibile confine tra l’evidente realtà e il mio
Spirito in conflitto.
Realtà e finzione.
Vita e specchio.
Inizia la recita.
Ogni giorno riprovo il copione, talvolta improvviso la parte.
Venti passi separano l’ingresso dallo specchio.
Cerco l’autoconvinzione davanti ad una lastra immutabile ed
imparziale, stessa sorte quando “voglio” scorgere i miei
turbamenti.
Tra la prosa quotidiana e l’immutabile specchio che è un rito,
c’è la mia stanza che è uno scoglio e lì mi aggrappo.
Mi lascio travolgere dalle batterie roventi e dalle chitarre
urlanti per evadere da me stesso, consapevole che m’attende
lo specchio, a dirmi che sono vittime della mia testardaggine.
Specchio... specchio delle mie brame...
Chi è il più... del reame?
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Premio Letterario "Federico Ghibaudo”
“SPECCHIO”
di Luca Belloni - 2a H
Lo specchio è lo strumento grazie al quale noi vediamo il nostro aspetto estetico
un oggetto che ci aiuta a migliorare il nostro aspetto
Ovunque andiamo c’è sempre uno specchio
Sembra che in qualsiasi luogo dove ci rechiamo la cosa più importante sia l’estetica
Ma lo specchio non è solo questo
Perché rispecchia anche il nostro stato d’animo e il nostro carattere
Riflette la nostra immagine a seconda dei nostri sentimenti in quel momento
Lo specchio ci aiuta a vedere ciò che vedono in noi gli altri
E ci segnala anche i miglioramenti o peggioramenti che compiamo
Senza lo specchio rimarremmo un mistero per noi stessi
Non saremmo partecipi dei nostri sentimenti e quindi di noi stessi
Questi due diversi usi dello specchio lo rendono uno strumento indispensabile
Nessuno oggi ci passa meno di un’ora davanti
Molti lo usano solo per l’estetica
Altri, guardando la propria immagine, riflettono e pensano
Altri ancora fanno entrambe le cose
Così lo specchio ci accomuna tutti
Ci mette a confronto
Fa nascere gelosie e rivalità
E anche un sano spirito di competizione che ci aiuta a migliorarci
Ci siamo visti crescere grazie allo specchio
Siamo quello che siamo grazie allo specchio
Perché lo specchio siamo noi.
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Premio Letterario "Federico Ghibaudo”
“LO SPECCHIO”
di Ilaria Pasquini - 1a F
...all’improvviso, quell’odioso e ripetitivo suono mi svegliò bruscamente come
tutte le mattine.
Non ancora del tutto cosciente allungai la mano sul comodino, accanto al letto,
schiacciai il pulsante della sveglia e la stanza ripiombò nel silenzio. Richiusi gli
occhi quasi volessi convincermi che l’utopia di potermi non alzare fosse vera. La
mia guancia era affondata nel soffice e morbido cuscino. Pareva che l’intero mio
corpo fosse adagiato su una nuvola che fluttuava leggera nel roseo cielo
albeggiante. Dall’esterno potevo udire alcuni rumori di auto o furgoni che
sfrecciavano veloci nella gelida aria mattutina, e mi strinsi più forte sotto le
coperte. Quando, però, percepii il dolce profumo di cioccolata e delle brioches
appena sfornate, che mio padre stava preparando in cucina, fui invogliata ad
alzarmi. Cercai le mie pianelle, senza accendere la luce, per non strappare dalle
braccia di Morfeo mia madre che dormiva nella stanza accanto, poi raggiunsi il
bagno e mi sciacquai la faccia con dell’acqua gelata. Alcune gocce mi scesero giù
per il collo e sentii la pelle come trafitta da mille spilli, ma quantomeno ciò
concorse a destarmi del tutto. Ora dovevo affrontare il compito più arduo:
scegliere quale tonalità di ombretto indossare quella mattina! Presi la mia
trousse nera, l’aprii e cominciai a stendermi sulle palpebre rosate la granulosa
polverina. Poi mi scrutai nello specchio lucente che troneggiava sopra il lavabo.
Il trucco era perfetto, i miei occhi erano perfetti, ma io no... mi resi conto d’un
tratto che l’immagine riflessa non ero veramente io, era una ragazza insicura,
troppo preoccupata di ciò che gli altri pensavano di lei per fermarsi a riflettere,
cercando di capire chi fosse in realtà e che cosa volesse. Mi accorsi che da tre
anni non metteva piede fuori di casa senza essersi prima truccata e vestita, non
certo con un suo stile personale, che esprimesse quello che lei fosse realmente.
ma seguendo di volta in volta la moda e le tendenze del gruppo che frequentava.
Chiusi bruscamente gli occhi, per allontanare dalla mia mente quello stupido
pensiero, ma quando li riaprii mi accorsi di un’atroce verità: la persona riflessa
ero esattamente io! Giorno dopo giorno mi ero costruita una maschera, una
copertura dietro la quale nascondere la parte peggiore di me e soprattutto le mie
paure, ma col tempo aveva soffocato anche i miei sogni e il mio vero essere.
Tutto sommato questa scoperta mi aveva confortato, era un buon segno, ora
potevo prendere provvedimenti, avevo nuovamente in mano la mia vita! Presi
un batuffolo di cotone candido e lo intrisi di struccante, poi guardai lo specchio e
sorrisi amaramente... gettai via il cotone... non avevo il coraggio e la forza di
volontà per uscire di casa struccata. Impugnai la maniglia della porta e me la
richiusi, sospirando, alle spalle, non sapevo a cosa stessi andando incontro! Vidi
dinanzi a me dei granellini cadere dal soffitto, pensai fosse solo dell’intonaco,
alzai lo sguardo e con stupore notai che la polverina non si staccava dalla parete,
ma si materializzava a mezz’aria: come se un essere invisibile avesse rotto una
lunghissima collana e stesse lasciando cadere una ad una le minuscole perline
che la costituivano. A contatto col suolo queste si univano e formavano una
lastra cristallina che continuava a crescere inesorabilmente.
Ero ancora
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appoggiata alla massiccia porta di legno, paralizzata dalla paura e dallo stupore.
Urlando chiesi l’aiuto dei miei genitori, ma non ottenni alcuna risposta. Allora
provai a muovere qualche passo e mi accorsi che in tutta la casa si stavano
erigendo pareti di specchi, mentre quelle di cemento andavano scomparendo nel
nulla, Cercai di raggiungere la porta per fuggire, ma bastarono solo pochi istanti
a farmi perdere l’orientamento. Ora mi trovavo in un lunghissimo corridoio, con
molte diramazioni ed ero circondata da milioni di riflessi. Provai una strana
sensazione come fossi guidata da qualcuno, infatti proseguendo nella giungla di
specchi quando mi trovavo ad un bivio tra due corridoi, immediatamente una
lastra di vetro scendeva a sbarrarmi un’entrata, come fosse una porta stagna ed
io ero costretta a continuare dall’altra parte. Ad un certo punto mi trovai
intrappolata in una camera di specchi. Sentivo l’angoscia crescere dentro di me,
avrei voluto gridare, ma ero cosciente del fatto che a nulla mi sarebbe giovato;
non riuscivo più, però, a trattenere i singhiozzi e dai miei occhi affogati nel
pianto cominciarono a scendere piccoli cristalli liquidi. Le mie lacrime cadevano
sul pavimento una dopo l’altra: come gocce di una fine pioggerella primaverile
che scendono nelle placide acque di un laghetto di montagna, si mischiano e si
perdono in esso. Mi accorsi, infatti, che gli specchi assorbivano le mie lacrime e
mutavano il loro colore ritornando sabbia. Lentamente mi accasciai a terra e
sprofondai le mani tra i granellini dorati e caldi, davanti a me l’oceano infinito
con sfumature verdi e blu, che si schiarivano verso la riva. All’orizzonte, il cielo
si confondeva con il mare, come se dall’alto vi ci si tuffasse per rinfrescarsi dalla
calura. Sulla striscia di sabbia bagnata dal mare, l’acqua lasciava i suoi più
preziosi gioielli: variopinte conchiglie multiformi. Chiusi gli occhi e provai una
sensazione di pace infinita, velata però dalla paura per quel luogo sconosciuto.
Sentivo il profumo del sale, il richiamo dei gabbiani, che volavano a pelo d’acqua
e le onde che dolcemente, ma inesorabilmente, si infrangevano sulla costa.
Sdraiata al centro di questo piccolo “paradiso naturale” ripresi a riflettere,
ragionai a lungo intensamente su di me e sulla mia vita, ma anche sugli altri e
sui rapporti interpersonali. Capii che era inutile fingersi un’altra persona per
essere accettata, perché in questo caso comunque non sarei io quella rispettata o
amata, ma la mia finta immagine e quindi alla fine mi sarei ritrovata da sola. Da
quel momento avrei sempre cercato di farmi apprezzare dagli altri per quello che
ero realmente... si, ci sarei riuscita... all’improvviso, quell’odioso e ripetitivo
suono mi svegliò bruscamente come tutte le mattine...
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Premio Letterario "Federico Ghibaudo”
“SPECCHIO D’ACQUA”
di Chiara Penati - 5a B
Sulle rive del lago mi siedo,
e il riflesso sfuocato io vedo,
circondato da monti innevati,
per la brezza, anch'essi sfuocati.
Tutt'a un tratto un riflesso mi appare,
come d'aquila che vola alta;
una libellula libra nell'aria,
poi si tuffa nello specchio d'acqua.
Ecco ora una sagoma arriva,
come d'angelo dietro di me;
e il riflesso che brilla nell'acqua,
già schiarisce il paesaggio che c'è.
D'improvviso una goccia lì cade,
e l'immagine allora scompare;
e io sola resto a pensare,
alla vita che c’è intorno a me.
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