Il Fondo monetario internazionale ha - Il Sole 24

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12 giugno 2011
di Marco Magrini
Il Fondo monetario internazionale ha subito un attacco informatico che ha mandato in tilt per alcune ore i computer
dell'organizzazione. Un portavoce dell'Fmi ha confermato che il fondo è «pienamente operativo» e che
sull'incidente «è stata aperta un'inchiesta». Quello delle ultime ore è solo l'ultimo di una serie di attacchi che
hanno colpito il sistema informatico del Fondo. Sull'attacco sta indagando l'Fbi. Secondo quanto si è appreso,
l'obiettivo degli hacker sarebbe stato quello di installare un software capace di attribuire lo status di nazione a
quello che gli esperti definiscono «un intruso digitale». (Redazione online)
di Marco Magrini
«Per assurdo, gli iraniani dovrebbero dire grazie», ironizza Ralph Langner, dal palcoscenico del Teatro Drammatico
di Tallinn, davanti a una folla di esperti – civili e militari – della sicurezza. «Grazie di averci attaccati con Stuxnet,
invece che con le armi convenzionali». Perché il virus più insidioso della storia, l'anno scorso è riuscito a mettere in
ginocchio l'impianto di Natanz, dove il regime iraniano arricchiva l'uranio. Ma senza bisogno di lanciare un missile
che avrebbe «infiammato l'intero Medio Oriente», osserva Langner, la cui società è stata la prima a "guardare"
dentro al sofisticato codice di Stuxnet.
Però c'è di più: chiunque l'abbia scritto (c'è chi dice Israele, chi gli Stati Uniti, chi tutti e due) ha fatto un affare.
«Sviluppare Stuxnet sarà costato una decina di milioni di dollari - osserva Langner - ma per un attacco militare ci
volevano 10 miliardi».
Sotto le luci dei riflettori, quasi fosse un attore, Langner illustra le insicurezze dei sistemi digitali ed elettrici per il
controllo industriale, come quello che governava l'impianto iraniano. «Chi riesce a prenderne le redini a distanza –
spiega – è in grado di azionare valvole, pompe e motori di centrali elettriche, acquedotti e perfino reattori nucleari».
Benvenuti nell'era della guerra digitale. Al convegno di Tallinn della Nato, che nella capitale estone ha il suo centro
di ricerca per la difesa cibernetica (CcdCoe), una frase ha risuonato nei tre giorni di dibattito: la «militarizzazione
dell'internet», quasi fosse un ritorno alle sue origini, in seno al Pentagono.
«Si dice che al mondo 36 Paesi stiano ammassando armi digitali - afferma Ilmar Tamm, il colonnello dell'esercito
estone che comanda il CcdCoe – anche se nessuno dice esplicitamente quali». Ma 36 sono molti di più dei
prevedibili Stati Uniti, Cina, Russia e Israele. Ne costruite anche voi, colonnello? «Sì e no», risponde Tamm.
«Quando facciamo le esercitazioni per la difesa, dobbiamo per forza trovare anche soluzioni per l'offesa». Nell'era
del riarmo digitale, le due cose vanno mano nella mano.
«I network sono moltiplicatori di distruzione molto più di quanto si pensasse», spiega durante una pausa dei lavori
Daniel Bilar, direttore della ricerca di Siege Technology, società americana di tecnologie per il conflitto elettronico.
«Rispetto ai tempi della strategia nucleare, siamo in un'epoca dove chi colpisce per primo è avvantaggiato.
Geopoliticamente, è molto pericoloso: più una società è avanzata, più è vulnerabile» a questa guerra che gli esperti
definiscono «asimmetrica». «Abbiamo bisogno di una chiara e dettagliata dottrina Mad per l'éra cibernetica»,
conclude Bilar.
Il paradigma della mutua distruzione assicurata – battezzato Mad - aveva garantito che la Guerra Fredda restasse
fredda. Ora c'è bisogno di qualcos'altro.
Il guaio è che la cyber-deterrenza non sta in piedi. «Il Pentagono – osserva Charlie Miller, una celebre analista
software – dice di essere pronto a rispondere militarmente a un cyber-attacco distruttivo, ma la cosa non ha senso:
è impossibile attribuire la responsabilità di un attacco. Un Paese potrebbe far credere che sia stato un altro, in modo
da scatenargli l'America addosso».
Il primo cyber-attacco è avvenuto qui in Estonia, nel 2007. Un Paese ai primi posti al mondo nell'e-government, i cui
server vennero resi inutilizzabili da un'attacco proveniente dalla Russia, pur senza prove di un'orchestrazione
governativa. «Il rischio non è più teorico - ha detto alla conferenza Toomas Hendrik Ilves, presidente dell'Estonia sin
da quei tempi – e dobbiamo fronteggiarlo con un'alleanza fra pubblico e privato: le università non si possono
permettere di assoldare l'equivalente "cyber" di Ed Teller», uno dei padri della bomba atomica. Secondo un report di
AsdMedia, quest'anno la spesa globale in difesa e offesa digitale arriverà a 12,5 miliardi di dollari.
«Una soluzione sarebbe chiedere aiuto ai giovani hacker», suggerisce Raoul Chiesa, l'ex hacker torinese che è oggi
consigliere dell'Unicri (il braccio anti-criminalità dell'Onu) e sta conducendo una sorta di censimento della comunità
nascosta dei giovani geni del codice software. «Siamo 150 volontari – sentenzia Andrus Padar, un membro della
lega estone per la cyber-difesa, benedetta dal presidente Ilves – e abbiamo senso patriottico».
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Come nel mondo reale, la militarizzazione di internet riguarda anche l'intelligence. «Negli ultimi sei anni abbiamo
monitorato una serie di attacchi di spionaggio – racconta Mikko Hypponen di F-Secure, società di sicurezza
finlandese – apparentemente provenienti dalla Cina e diretti all'Occidente. Ormai lo spionaggio si fa così: perché i
dati non sono più nel mondo reale, ma nei network di computer».
In sala, c'è uno spettatore un po' irriverente. «Secondo lei, in questo teatro c'è qualcuno che ha lavorato alla
creazione di Stuxnet?», chiede. «Beh, io credo che Stuxnet origini più dai servizi segreti che non dall'esercito», gli
risponde imperturbato Ralph Langner. Che poi si rivolge al pubblico: «C'è qualcuno della Cia qui?». Non si è levata
nessuna mano. Ma una risata, sì.
12 giugno 2011
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