L`arte è nostalgia e autobiografia G. Leopardi

Transcript

L`arte è nostalgia e autobiografia G. Leopardi
L’arte è nostalgia e autobiografia
(così Mino Doletti, recensendo Nostàlghia di Tarkowskj, parafrasava, anzi contraddiceva Croce l’arte è fantasia e rappresentazione).
… perch’io sosterrò sempre che gli uomini
grandi quando parlano di sé diventano maggiori
di se stessi, e i piccoli diventano qualche cosa,
essendo questo un campo dove le passioni e
l’interesse e la profonda cognizione ec. non lasciano campo all’affettazione e alla sofisticheria
cioè alla massima corrompitrice dell’eloquenza
e della poesia, non potendosi cercare i luoghi
comuni quando si parla di cosa propria, dove
necessariamente detta la natura e il cuore, e si
parla di vena, di pienezza di cuore… della utilità derivante agli scrittori… del parlar di se stesso comunque paia a prima vista che il parlar di
sé non debba interessar gran fatto gli uditori,
cosa falsissima…
G. Leopardi, Zibaldone
L’invenzione mi è sembrata sempre un ripiego, il sintomo di
un’inadeguatezza: ricorre all’invenzione chi non è in grado di cogliere la
ricchezza di motivi, di intrecci, di significati che lo attorniano. Si inventa
per abbellire, per costruire un finale emblematico, per ricondurre
nell’alveo di una tesi avvenimenti non allineati. L’invenzione serve nelle
favole, nell’avventura, nel salgarismo, nel giallo, nella fantascienza (se si
tratta di cattivi libri, perché in quelli buoni c’è solo rigorosa deduzione:
naturale, se pur estremo, sviluppo di situazioni reali).
Da piccolo sapevo che nei libri veri, quelli per i grandi, c’è la realtà, la
verità, la vita. Questa convinzione, anzi sensazione, era un po’ ingenua
ma non immotivata: Thomas Mann ha scritto del suo Tonio Kroeger:
“…dall’intimo simbolismo e dalla perfetta composizione di particolari
anche poco appariscenti, ma suggeriti dalla realtà. Si direbbe che scene
come quelle della biblioteca popolare o quella del poliziotto siano state
immaginate apposta per amore dell’idea e della trovata. Non lo sono, invece, ma corrispondono esattamente al vero. Anche nella Morte a Venezia
non vi è nulla di inventato… tutto era vero e bastava metterlo a posto perché rivelasse in modo stupefacente la facoltà interpretativa della composizione… durante il lavoro… avevo… la visione di un percorso assoluto”
(Saggio autobiografico, Il Saggiatore, 1972).
“Nulla di inventato”, “Bastava metterlo a posto”. Si potrebbe obiettare
che ha inventato i sentimenti di Ascenbach, anzi il sentimento. Ma si può
inventare un sentimento?
In replica a un giudizio di Chauvet, Manzoni scrisse: “L’essence de la
poésie ne consiste pas à inventer des faits; cette invention est ce qu’il y a
de plus facile et de plus vulgaire dans le travaille de l’esprit, ce qui exige
le moins de reflexion…”.
“De plus vulgaire”.
Ma la verità invocata dal Manzoni, si dirà, era quella storica: niente è
più lontano dal Manzoni dell’idea di autobiografia. Non tanto lontano se
benedetto Mosca, nella prefazione all’edizione Peruzzo ‘84 dei Promessi
sposi, può asserire che Manzoni “a ciascun personaggio aveva infatti prestato una parte di sé, giungendo a psicanalizzarsi, come oggi si direbbe,
per scavare dal subcosciente anche i caratteri malvagi e restare quindi fedele a un segreto impegno autobiografico”. Segreto impegno autobiografico?!
Anche senza voler credere a tanto, Manzoni pensava certamente che la
Storia passa per le vicende della gente comune. Perché nei casi di ognuno
traspare l’ordito di ogni esistenza. E quali migliori casi di quelli
dell’autore per cavare significati senza correre il rischio dell’inesattezza,
di quell’imprecisione più temibile della falsità che additava Flaiano? E
senza dover pressare i Cattaneo perché schiudano a interminabili consultazioni gli antri della Braidense?
Perché l’autore dovrebbe essere semplice cancelliere dei ménage altrui?
Ma qui scansano la parola come fosse sterco. Colmi di ribrezzo per
l’approccio visceral-esistenziale, attendono i Grandi Affreschi affilando
l’armamentario critico (quello buono, d’argento) da sfoderare all’apparire
del nuovo Guerra e pace. Pensano che l’autobiografia possa riguardare
solo il grafomane comune, che tortura il prossimo con impudiche confessioni (in realtà le cose orrende dei grafomani sono proprio i “romanzi”).
Si teme il “fallimento tipicamente americano: quello dello scrittore che
diventa tale solo per raccontare di una esperienza in prima persona” (Vito
Amoruso, La letteratura beat americana). Infatti il disprezzo per i beat, e
per gli americani in genere, parvenue della letteratura, era dovuto soprattutto alla natura autobiografica di molti exploit.
Gli stessi americani se ne facevano un problema. Ecco Edwin Muir, a
proposito de Il vecchio e il mare: “Hemingway è uno scrittore soprattutto
basato sull’immaginazione e la sua immaginazione non si è mai rivelata
con maggior potenza di quella realizzata in questa storia semplice e tragica”. La vicenda era realmente accaduta, nel ‘36. Era accaduta con tale
concordanza di particolari che un pescatore cubano fece causa a Hemingway sostenendo di aver fornito tutto il materiale per il libro. Non conta –
sento l’obiezione – non l’ha vissuta lui, quindi ha immaginato i dettagli, i
pensieri, l’ambientazione, i sentimenti. E chi, allora, è uscito a pesca nella
Corrente ogni giorno che fosse possibile per gran parte della sua vita, chi
ha afferrato centinaia di marlin per lottarci in mezzo agli squali, chi cominciava ad avvertire gli scricchiolii della vecchiaia, chi custodiva nella
memoria i sereni Leoni della gioventù?
Questo tipo di immaginazione io la chiamo autobiografia. Ma mi fischiano le orecchie: sprovveduto ragazzo, per immaginazione noi critici
raffinati intendiamo quello scarto, quella capacità di trasfigurazione, quei
voli del pensiero che caratterizzano ogni opera d’arte, il mettere a posto di
Mann. Ma tutto ciò si applica benissimo anche ai materiali del vissuto.
Perché, allora, scattare come serpenti al solo accenno ai dati biografici?
Antichi sdegni
Tra i primi e più schifati avversari dell’autobiografia, Debenedetti:
quanti giri di frase e argomentazioni speciose contro la “dannata ipotesi”,
la “sottile insidia”, la “pericolosa deformazione” di considerare la Recherche un’autobiografia più o meno larvata. Distinguo, anatemi, perorazioni, proclami. “È un vero e proprio romanzo, un’opera di fantasia, anche se… anche se…” e a ogni anche se fremeva per via dei mille elementi
autobiografici disseminati in tutta l’opera che gli impedivano di inquadrare quest’“opera di fantasia” nella sua concezione di romanzo contemporaneo. Ma che concezione letteraria della letteratura è mai questa, che
un’opera non può valere se non è di pura fantasia, cioè il più possibile
svincolata dalla realtà, dall’esperienza, dalla vita insomma?
Non che, sia chiaro, Debenedetti intenda evidenziare quel salto di qualità che permette al semplice resoconto dei cazzacci propri di trasformarsi
nella proiezione della vita di ciascuno. Non si riferisce Debenedetti al
quid che “… conferisce ad esse (realtà date) quel supersignificato che è il
suo modo d’esperirsi” (Gadda), ammesso che abbia senso stare a evidenziare con tanto sciupio d’inchiostro un concetto così elementare. No, è
proprio che per D. scrittore è sinonimo di inventore. Uno scrittore non
può abbassarsi a copiare dalla vita personaggi e casi.
Nella vita, per D., non si riscontra mai una “precisa e volontaria densità
di significati e, di rapporti”. Possibile che lui non abbia mai riso o pianto
di quelle trame così incredibilmente “precise e volontarie”, le famose “ironie del destino” che qualsiasi imbecille intravede infinite volte?
Eppure il meglio della letteratura sta dove il pronome è io, non un io
schermo, diaframma lirico… infallibile corifeo, ma proprio un io cronachistico, prosaico, fuori dalla necessità di avvincere, rimpolpare, romanzare.
La felicità di Proust sta proprio nell’aver potuto limitarsi a qualche ritocco, soprattutto interpolazioni, a vicende e uomini della propria vita.
Perché, dunque, non sarebbe autobiografia? Perché quel tizio invece di
chiamarsi Venerdì si chiama Giovedì pur avendo le caratteristiche di un
Lunedì ma anche di un Sabato? Perché l’intreccio è costruito? Perché le
simbologie sono ricercate e i personaggi vividi e autonomi?
No, ciò che fa la Recherche appena diversa dalla biografia di Proust è la
viltà. È per viltà – o delicatezza, desiderio di non ferire – che Proust ha
tanto trasposto, modificato, condensato. Non era un disegno artistico a
muovere i mille artifizi con cui ha voluto nascondere la vergogna sua e di
molti suoi amici, ma la viltà che gli venne aspramente rimproverata da
Gide, dal cui Journal apprendiamo che lo stesso Proust si rimproverava
questa indecisione.
Indecisione. Ipocrisia. In tante invenzioni proustiane non c’è alcuna necessità artistica: è stato costretto a fare qualcosa di simile a ciò che Kerouac verrà poi costretto a fare per motivi di marketing da un apposita
clausola editoriale: variare, in ogni diverso romanzo, i nomi veri dei suoi
amici.
I personaggi, del resto, mirabili Frankenstein, costruiti “come Françoise
cucinava quel suo manzo alla moda”, un pezzo di uno e un tratto di
quell’altro, restano poco più che specchi nei quali si riflette la psicologia
dell’unico vero personaggio del romanzo, che se è il “Monsieur qui raconte et qui dit: je” è anche un “narrateur qui est Je et qui n’est pas toujours moi”. Spitzer osserva: “che Proust identifichi se stesso con quell’io
si può desumere dal vocativo “Mon pauvre Marcel” di una lettera di Albertine: ma questo particolare come viene nascosto in secondo piano!”.
Nascosto del tutto, direi io.
Certi suoni sono così compenetrati all’esperienza dell’uomo Proust, certi
nomi così legati all’essenza delle cose, alla loro verità, che non può fare a
meno, per evocare la precisa sensazione destata in lui dal “Mio caro” anteposto al proprio nome (com’è dolce chiamarsi Federico nell’ombra del
mattino, scriveva qualcuno) di sottrarsi, ne La prigioniera, al “dovere” del
romanziere di “creare dei nomi propri che siano insieme inediti ed esatti”.
Getta la maschera, sia pur timidamente, come per ipotesi e defilandosi
dietro a un se (“il che… se dessimo al narratore lo stesso nome dell’autore
di questo libro, avrebbe fatto: Mio Marcel, Mio caro Marcel”) e si arrende
all’impossibilità di caricare di significato un suono, una frase, una sensazione che non siano quelle giunte precisamente ai suoi sensi. E poi ancora, dimentico di ogni finzione, forse obnubilato dalle sofferenze o pungolato dal narcisismo, lascia inesplicabilmente che Albertine scriva al narratore: Mio diletto e caro Marcel… cher Marcel, cher Marcel!
Quello stesso Marcel che, meravigliato della capacità di Dostoievskij di
calarsi nei panni di un assassino, giunge a sospettarlo di omicidio e ammette: “Io non sono un romanziere” (per fortuna, aggiungo io). E continua: “Può darsi che i creatori siano tentati da certe forme di vita che personalmente non hanno mai sperimentate”. Può darsi.
Non è l’io narrante a esprimersi: è Proust stesso che dichiara la sua estraneità al mondo dei romanzieri, dei creatori. Degli inventori da ufficio
brevetti. Lui, come ha sottolineato J. F. Revel, appartiene al mondo dei
memorialisti, alla tradizione di M.me di Sévigné, dei Goncourt.
Alla ricerca di appigli, i sostenitori dell’invenzione rasentano continuamente il ridicolo: nella premessa di Giovanni Bogliolo e Piero Toffano a
un’edizione di All’ombra delle fanciulle in fiore, si sostiene che “la Recherche non è un’opera autobiografica perché della vita del narratore é
raccontato solo quanto è utile all’economia dell’opera, e ogni dettaglio
superfluo è soppresso…”.
Ma in quale autobiografia sono inclusi tutti i dettagli di una vita? Anche
nel più prolisso e deteriore dei memoriali il narratore si concentra
sull’eliminazione del superfluo. E non per rigore creativo ma per
l’impossibilità materiale di stiparli in qualcosa che non sia
un’enciclopedia.
Naturalmente va reso significativo ciò che non è soppresso. E questo
non lo si fa con l’invenzione, perché l’artista – come voleva Ruskin – suo
maestro e ispiratore – “non è che uno scriba, il cui compito non è tanto
immaginare quanto percepire”.
“… Per scrivere quel libro essenziale, l’unico libro vero, un grande scrittore non ha, nel senso comune della parola, da inventarlo, in quanto esiste
già in ciascuno di noi, ma da tradurlo. Il dovere e il compito di uno scrittore sono quelli d’un traduttore…”.
“Un uomo nato sensibile, ancorché privo d’immaginazione, potrebbe
scrivere romanzi stupendi. La sofferenza… i conflitti, tutto questo… potrebbe fornir materia a un libro… bello come se fosse stato immaginato,
inventato…”. E qui davvero esagera Marcel: basterebbe la sensibilità di
un uomo comune, senza neanche studiare un po’ di costruzione. Ma forse
all’epoca un uomo “sensibile” era naturalmente immerso in una scuola di
scrittura creativa.
“E io compresi che il materiale dell’opera d’arte altro non era che la mia
vita passata…”.
Ma già, che sciocco! Non sono parole di Proust ma del Narratore, che
esprime sull’arte, evidentemente, idee diametralmente opposte a quelle
abbracciate dall’autore. Nella sua frenesia d’inventore, infatti, Proust avrebbe inventato apposta, a uso dell’io narrante, tutta una falsa Estetica di
rigorosa coerenza.
Il Narratore, questo sconosciuto.
Altre ricusazioni
Romano Bilenchi (intervista di Grazia Cherchi, in Panorama 16.08.87)
a proposito di Amici in fase di ristampa: “Tutti i fatti di Amici… sono veri
e vissuti in prima persona, e tutte le persone che vi compaiono hanno il
loro vero nome e cognome. Eppure si tratta di racconti, non di saggi, né di
pura memorialistica”. Non ne dubitiamo: la qualità di scrittura fa di qualsiasi cosa “letteratura”: l’atto di un notaio o la lettera dello spedizioniere
di Gadda. E nel passato tante opere erano, nelle intenzioni, pura memorialistica. La grazia della scrittura ce li ha consegnati come letteratura. Ma le
marchese e i Marco Polo non se ne vergognavano. Consideravano la Storia della propria vita più seria e importante dei romanzetti d’invenzione.
In Lo specchio che ritorna, Ed. Spirali (cioè Verdiglione, un finto analista che si fingeva editore per un finto romanzo) Alain Robbe-Grillet “vagabonda fra i ricordi della propria vita, dalle estati nella casa di famiglia a
Kerangoff, in Bretagna, alle esperienze di lavoro coatto nelle fabbriche
della Germania hitleriana, dal suo lavoro di agronomo alla vocazione e
allo sviluppo della carriera letteraria. Il tutto fra antenati, nonni, zii e genitori che” come in ogni autobiografia che si rispetti, “esibiscono tic e manie varie e assortite” (commento sulla Terza pagina della Gazzetta del
Mezzogiorno). Eppure lui scrive nel libro: “Affermo di ricusare l’impresa
autobiografica”. La ricusazione gli è permessa da un filone fantastico che
si sviluppa intrecciato ai suoi ricordi e culmina nel ritorno dello specchio
– magico, siamo quindi in piena fiction (forse) – che dà il titolo al libro.
Non mi permetto di dubitare che questa vicenda immaginaria arricchisca
il libro, lo ispessisca, lo innervi, lo trasfiguri. Tanto, se anche così non
fosse, se non obbedisse a un principio di necessità anzi figurasse come
semplice orpello, state pur certi che ce l’avrebbe schiaffata lo stesso, pur
di ricusare. E che figura ci faceva Alain Robbe-Grillet a proporre un libro
tradizionale? Un semplice, godibilissimo libro? Per di più in odore di autobiografia?
Simenon, freddato da una diagnosi fortunatamente errata, volle lasciare,
immaginandosi (qui davvero siamo nel campo dell’immaginazione, in un
certo senso) prossimo alla morte, una testimonianza di sé al figlioletto di
due anni, che non avrebbe avuto modo di conoscerlo. Con questo solo e
unico scopo, riempì tre quaderni con la storia della sua infanzia. Cosa c’è
di più aderente al vero, di più personale – e quindi più lontano
dall’affettazione, dalla fredda costruzione, dalla ricerca letteraria – del
confessarsi a un figlioletto con il cuore in mano, del tramandargli un ritratto di sé, un ritratto di famiglia? Cos’altro potremmo definire, se no,
autobiografia?
Eppure, sol perché questo racconto – non a caso intitolato Pedigree, vale
a dire: documento biografico ufficiale, storia obiettiva e documentata di
un’ascendenza, atto inoppugnabile – venne riscritto in terza persona su
suggerimento di Gide, Simenon ritenne legittimo affermare di aver scritto
un romanzo.
Marina Jarre, donna dal passato romanzesco, scrive una storia della sua
vita di esattezza quasi anagrafica, un’autobiografia che più sfacciata non
si può e poi spiega all’intervistatore e recensore Giovanni Tesio (Tuttolibri, febbraio 87): “Il mio è un romanzo, non un’autobiografia. È un libro
nato dalla mia incapacità a scrivere un’autobiografia, anche se ciò che
narro corrisponde a quanto ricordo della mia vita”. “Incapacità” di scrivere un’autobiografia! Come se invece del più naturale esercizio del pensiero, la memoria, si trattasse di un numero al trapezio o di un curiosissimo primato da Guinness.
Nell’85 Goffredo Fofi giudica il diario di Maria Pace Ottieri miglior libro dell’anno, insieme a un libro di memorie di Altiero Spinelli. Lungi dal
trarne le dovute conclusioni, Fofi si rammarica di dover rivolgersi alla
non-letteratura.
Quanto a me, se una definizione dovesse farmi vergognare sarebbe proprio di quella di romanziere. Mi sentirei tutt’uno con la Invernizio. Qualsiasi vetta artistica sia stata a indicare in passato, oggi romanzo è la parola
che campeggia sussiegosa sulle copertine degli Harmony.
Vibrisse n° 26