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GENNAIO 2009
DOSSIER
TANZANIA
Occhio
agli aiuti
BRASILE
Nel Nordest
dei contrasti
MEDIORIENTE
Cristiani a rischio
estinzione
MOZAMBICO
Marxismo
neoliberale
1
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anno 111° -1/2009 spedizione a.p.a.2. c.20/c, legge 662/93 - DRT/DCB Torino. “taxe perçue” tassa riscossa - contiene I. R.
In caso di mancato recapito, il mittente chiede la restituzione, impegnandosi a pagare la relativa tassa.
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ANTIOCHIA
«I
l sangue dei martiri è seme di
nuovi cristiani» scrisse un
grande oratore africano dei
primi secoli cristiani, Tertulliano, osservando quanto succedeva ai suoi
tempi. Questo è ben visibile anche
negli Atti degli Apostoli. Dopo la lapidazione di Stefano e conseguente persecuzione contro i discepoli
di Cristo, alcuni di essi, per evitare il
peggio, fuggirono fino ad Antiochia di Siria (At 11,19), terza
città dell’impero romano, dopo Roma e Alessandria, sede del
governatore romano, con circa mezzo milione di abitanti greci, siriani, ebrei; incrocio di razze, culture, religioni.
La persecuzione di Gerusalemme è come un vento che investe un giardino di fiori e dissemina il polline lontano. Questi cristiani profughi da Gerusalemme erano così entusiasti
della loro fede che anche ad Antiochia continuarono non solo a praticarla, ma anche a diffonderla attorno a sé. Dapprima solo tra ebrei là residenti. Alcuni che erano di Cipro e di
Cirene in nord Africa, però, cominciarono a parlare di Gesù
anche ai non-ebrei, ai pagani. «Si misero a predicare anche ai
pagani, annunziando loro il Signore Gesù. La potenza del Signore era con loro, così che un gran numero di persone credette e si convertì al Signore» (At 11,20-21).
La predicazione del vangelo ai pagani è un passo molto importante nella crescita del cristianesimo: apre una nuova
strada. Infatti agli inizi i cristiani di Gerusalemme erano tutti
di origine ebraica e sembra pensassero che Gesù era venuto
solo per gli ebrei. Fu l’entusiasmo di questi cristiani originari
di Cipro e Cirene (abituati cioè a vivere la loro fede ebraica
in un contesto più internazionale, a contatto coi pagani) ad
aprire l’evangelizzazione verso i non-ebrei (greci o pagani).
In seguito sarà soprattutto Paolo a continuare tale missione; ma è bene notare che l’inizio della missione tra i pagani
fu opera di cristiani semplici, senza alcun mandato speciale
degli apostoli, ma solo in forza della loro fede; così pure non
si sa chi per primo abbia portato la fede cristiana a Roma: con
tutta probabilità furono marinai, commercianti, schiavi, che
venendo dall’Oriente per primi condivisero la loro fede nella
capitale dell’impero; Pietro e Paolo arriveranno più tardi e
consacrarono la chiesa con il loro martirio.
Non occorre alcun titolo speciale per essere missionario.
La chiesa è sana soltanto se i suoi laici sono evangelizzatori,
nella famiglia, nel posto di lavoro, nella vita sociale. I primi e
più efficaci missionari sono i genitori cristiani, i quali trasmettono la loro fede ai propri figli con parole e con l’esempio. La chiesa cattolica in
Corea fu iniziata da un gruppo di laici che avevano conosciuto la fede cattolica da contatti con studiosi cinesi. In Giappone decine di migliaia di cattolici conservarono e trasmisero la fede ai loro figli, pur essendo rimasti senza sacerdoti per 200 anni.
F
2
cogliere informazioni di prima mano su quanto sta avvenendo, viene
mandato Barnaba, un cristiano di
ampie vedute e grande empatia.
Contento di quanto vede, egli incoraggia la giovane comunità a restar
fedele al Signore e si ferma per aiutare nell’evangelizzazione. Vedendo
il grande lavoro, ha un colpo di genio e pensa di chiamare un aiutante, Saulo di Tarso col quale per un anno e mezzo lavorerà ad
istruire la comunità. La risposta dei pagani è così entusiasta
che il gruppo di credenti in Gesù si impone all’attenzione dell’ambiente circostante: «Proprio ad Antiochia, per la prima
volta, i discepoli furono chiamati cristiani» (At 11,26).
In seguito giungono ad Antiochia informazioni sulla carestia che ha colpito la Giudea e quindi i cristiani di Gerusalemme. Con generosa solidarietà la comunità di Antiochia
manda aiuti ai fratelli di Gerusalemme: «I discepoli allora decisero di mandare soccorsi ai fratelli che abitavano in Giudea, ciascuno secondo le sue possibilità. Così fecero: per
mezzo di Barnaba e Saulo mandarono i soccorsi ai responsabili di quella comunità» (Atti 11,30-31).
Questo quadretto della nascita della chiesa di Antiochia è
un gioiello nel rappresentare cos’è la chiesa. La comunità nasce su iniziativa di credenti perseguitati che hanno il coraggio di andare oltre gli usuali confini geografici e culturali: parlano di Gesù ai pagani. La chiesa di Gerusalemme viene in
soccorso a questa giovane comunità, mandando Barnaba
segno di comunione con Gerusalemme e missionario capace di comprendere e istruire. Barnaba a sua volta cerca l’aiuto di un altro potenziale grande missionario, Saulo. Conseguenza di tale azione comune è la crescita della comunità
che viene ora notata e chiamata per nome anche dall’ambiente esterno, «essi sono i cristiani». Conoscendo la difficoltà di Gerusalemme, la comunità di Antiochia manda aiuti: solidarietà, scambio di doni. Da Gerusalemme è arrivata la
fede, a Gerusalemme arriva l’aiuto finanziario in tempo di difficoltà. Comunione di fede vuol dire anche comunione di beni.
DOVE PAOLO
IMPARA A FARE
IL MISSIONARIO
rattanto la comunità di Gerusalemme
viene a conoscenza che ad Antiochia vi
sono alcuni credenti in Gesù. Per rac-
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È
anche notevole che Saulo, qui ad Antiochia, per la prima volta fa il missionario in team con Barnaba. Come
non vedere in questo la sua preparazione, il suo tirocinio per la missione universale cui sarà inviato proprio dalla
chiesa di Antiochia?
«Mettetemi da parte Barnaba e Saulo
per l'opera alla quale li ho chiamati» (Atti
13,1-4). Sarà la comunità di Antiochia che
manda Barnaba e Paolo in missione e tutti
i viaggi missionari di Paolo inizieranno e si
concluderanno in questa città, in questa
chiesa che, essendo nata tra i pagani, sente più forte l’urgenza di evangelizzare i pagani nel mondo.
Mario Barbero
Predicazione di Paolo ad Antiochia.
A i lettori
... L’UTOPIA CONTINUA ...
I
l titolo della storica Agenda Latinoamericana per l’anno 2009 è sicuramente curioso e stimolante:
«Verso un socialismo nuovo – l’utopia continua». Il pubblico che da anni segue fedelmente questa
pubblicazione sa bene che l’Agenda è in realtà ben più che uno strumento per segnare e ricordare appuntamenti, ma una vera e propria antologia di articoli (strutturati da sempre sul classico schema vedere-giudicare-agire), uno strumento ecumenico di analisi, riflessione e denuncia evangelica al servizio delle vittime della storia. Titolo stimolante, si diceva, per i due termini, volutamente associati, che lo
compongono.
Innanzi tutto socialismo. Fa una certa impressione ritrovarlo nuovamente sdoganato in forma
esplicita, dopo esser stato screditato a più non posso in questi ultimi anni. Gli interventi parlano
di «nuovo» socialismo, di rinnovato immaginario socialista, di socialismo alternativo. Che cosa
sia questo socialismo e la sua valenza politica saranno da verificare a vari livelli, iniziando proprio dall’applicabilità di tale concetto allo stesso contesto del continente sudamericano. Resta
infatti da dimostrare quanto l’apertura a sinistra di quasi tutti i suoi paesi più importanti (ad eccezione della Colombia) sia rappresentativa di o possa dialogare con questa nuova visione di socialismo che nasce dal basso, dai movimenti, dalle minoranze etniche e sociali e che non si lega
in prima istanza a partiti politici tradizionali.
C’
è da stare curiosamente in attesa. Il Sudamerica, oggi, è ansioso di proporre una nuova narrazione del mondo, quasi volesse offrire ai cinque continenti un piccolo assaggio di speranza latinoamericana, un «Yes, we can» che non sia soltanto uno slogan elettorale, ma un tentativo di risposta concreta ai grandi problemi che affliggono oggi l’umanità, in tutto il pianeta, non
solo a Sud della California.
È l’«utopia che continua». Quella utopia che, come scriveva a suo tempo Ernst Bloch, «non è fuga nell’irreale; è scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per
la loro realizzazione». È speranza, tensione dell’umano verso un mondo altro, migliore, una forza che manterrà la sua attrattiva e la sua vera carica rivoluzionaria nel momento in cui non si asservirà ai poteri forti, ma continuerà ad essere la lotta dei piccoli, dei poveri, delle vittime e di coloro che ad essi dedicano la vita: nient’altro che la logica del Regno di Dio.
Anche di ciò si parlerà senz’altro nel Forum Sociale Mondiale e, soprattutto, nel Forum Mondiale di teologia e Liberazione che si terranno a Belem, nel Nord del Brasile, alla fine di questo mese. Speriamo che dagli stimoli amazzonici arrivi, magari con qualche corrente atlantica, una ventata di freschezza per la nostra stanca
Europa e la sua ancor più stanca chiesa, entrambe, mi sembra, con molti
problemi e ben pochi sogni nel cassetto. Chissà che, tenendo occhi, orecchi e
cuore ben aperti ai segni dei tempi, non
si possa trovare anche noi la nostra
«agenda», etimologicamente: «Ciò che
c’è da fare» per dare alla speranza anche un minimo di direzione.
UGO POZZOLI
MC GENNAIO 2009
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1 | gennaio 2009 | anno 111
Ai lettori
3
6
...L’utopia continua...
di Ugo Pozzoli
IL DOSSIER DEL MESE
Il numero è stato chiuso
in redazione il 5 dicembre 2008.
La consegna alle poste di Torino
è avvenuta
prima del 10 gennaio 2009.
Dai lettori
27
Cari missionari
(lettere a MC)
TESTIMONI
10
14
19
43
Giustizia e pace
Missione diritti
a cura della Redazione
14
Brasile
Sogni in catene
di Fabrizio Mola
REPORTAGE COOPERAZIONE
Medio Oriente
Chiese vulnerabili
a rischio estinzione
di Biancamaria Balestra
INSIDE TANZANIA
Italia
testo e foto di Romina Remigio
È accaduto a Cornuda...
di Giuliano Vallotto
L’ALTRO MONDO
46
Zappa, kalashnikov
e coca-cola
di Marco Bello
Africa Occidentale
53
IN QUESTO NUMERO
Mozambico
46
Non solo Corano
di Giulia Lanzarini
Madre Terra
58
65
Contaminazione (profonda)
di R.Topino e R.Novara
Milano
Degli zingari si può anche
parlare bene
di Giovanni Guzzi
SOMMARIO
65
10
14
19
27
43
46
53
65
Italia
Brasile
Medio Oriente
Tanzania
Italia
Mozambico
Africa dell’Ovest
Italia
www.rivistamissioniconsolata.it
Gli articoli pubblicati sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente l’opinione dell’editore.
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V
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MENSILE DEI
MISSIONARI DELLA CONSOLATA
FONDATO NEL 1899
RUBRICHE
2
Anno paolino
di Mario Barbero
8
Chiesa nel mondo
di Sergio Frassetto
24
«Così sta scritto» (35/24)
di Paolo Farinella
2
Direzione, redazione e amministrazione:
Corso Ferrucci, n.14 - 10138 Torino
tel. 011.4.400.400 - fax 011.4.400.459
E-mail: [email protected]
Sito internet: www.rivistamissioniconsolata.it
Direzione:
Ugo Pozzoli (direttore editoriale - .492 )
Francesco Bernardi (direttore resp.)
IN COPERTINA: bambina di Mambone (Mozambico); foto di Marco Bello.
FOTOGRAFIE (i numeri indicano le pagine):
A. Youkhanna (22) - Bello (4) - Internet (2,5,6,7,8,9,19,20,23,25,43,44,45,58,61,62,63,64)
- Ismico (9) - Lelli-Masotti (4) - Mola (4) - Mushell (23) - Pozzi (20,21) - Pozzoli
(10,11,12) - Scudiero (13).
VI PORTIAMO NEI SEGUENTI PAESI:
Redazione:
Benedetto Bellesi - [email protected]
Marco Bello - [email protected]
Paolo Moiola - [email protected]
Ugo Pozzoli - [email protected]
Collaboratori: A.Antonelli, B.Balestra,
M.Bandera, V.Confalonieri (med.), S.Calvani,
C.Caramanti, D.Casali, M.Chierici, P.Farinella,
A.Lano, E.Larghero (med.), V.Maddaloni, R.Novara,
M.Pagliassotti, P.Pescali, S.Petrovic, G.Sattin (med.),
R.Topino (med.), G.Vallotto
Internet: Paolo Moiola (.458) e Marco Bello (.436)
Archivio fotografico: Franca Fanton
Progetto grafico: Kreativezone, Torino
Grafico: Carlo Nepote
Spedizioni ed arretrati: Angela e Miriam
Stampa: Gruppo Grafico Editoriale
G.Canale e C. S.p.a. Borgaro T.se -Torino
43
19
Conto corrente postale n. 33.40.51.35:
si ringraziano vivamente i lettori che sostengono
l’impegno di formazione ed informazione
di «MISSIONI CONSOLATA ONLUS».
Tutti i contributi o offerte sono
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53
4
Editore: MISSIONI CONSOLATA ONLUS
Amministratore: Guido Filipello, tel. 011.4.400.400
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27
Sped. a.p., a.2, c.20.c., legge 662/96
App. ecc. - Aut. tr. Torino - 15. 6. 48, prot. 79
Iscritto reg. naz. stampa- C./5060 1/3444 17. 10. 91
46
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FEDERAZIONE
STAMPA
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Cari mission@ri
Diritti di tutti
e per tutti...
Egregio Direttore,
ho letto la dichiarazione
dei diritti umani. Ritengo
che a detta dichiarazione
manchi qualcosa, una specie di principio, come filo
conduttore di tutto quello
che è possibile enunciare
sui diritti umani. Ad esempio: «Ogni individuo nasce
come titolare di tutti i diritti di questo mondo, ma ha
pure il sacrosanto dovere di
acquisire la capacità a esercitare un qualsiasi diritto
ed esercitarli anche nel pieno rispetto dei diritti di ogni altro individuo».
Il discorso sarebbe alquanto lungo, ma mi fermo a questo piccolo principio. Cosa ne dite ?
Lucio Di Martino
Aosta
La Dichiarazione universale dei diritti umani
ha sempre bisogno di essere completata con nuovi principi e proposte, ma
soprattutto di essere implementata da tutti e per
tutti gli esseri umani.
«Monti sacri»
e alpinismo estremo
Cari missionari,
dopo un’estate funestata
da una sequenza tragica di
incidenti in alta montagna
(Himalaya, M. Bianco...) c’era proprio bisogno di un articolo come «Monti sacri»
(M.C. 9/2008 pag. 10-14).
C’è bisogno che qualcuno
ci ricordi che le montagne,
tutte le montagne, sono opera di Dio, create per unire
e riappacificare, non per dividere o esasperare rivalità,
tensioni, conflitti, guerre.
È ora di finirla con certa
letteratura, che si ostina a
parlare di «Montagne del
6
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diavolo», con l’alpinismo estremo, dove vince chi arriva prima o più in alto, con
maggior frequenza o consumando la minor quantità di ossigeno delle bombole, sfidando le condizioni
atmosferiche più avverse e
l’anagrafe.
A questo alpinismo, che
mi rifiuto di considerare
come attività sportiva gradita a Dio e conforme al
vangelo, preferisco di gran
lunga l’alpinismo non competitivo, dove contano poco o nulla arrivare primi, il
cronometro, il termometro
e l’altimetro, mentre contano molto arrivare insieme, arrivare tutti e in buone condizioni di salute; arrivare senza aver deturpato
l’ambiente montano con escrementi, plastica, scatolame e rifiuti vari.
Alle scalate dell’Everest,
del K2 e altri «ottomila»
che tanto fan parlare (e litigare...) scalatori, commentatori, scienziati, sponsor e
governi nazionali, preferisco le iniziative di alpinismo sostenibile, come
quelle intraprese da Carlo
Alberto Pinelli, con la sua
Mountain Wilderness in Afghanistan, martoriato da
decenni di guerra.
Con lo slogan «dal kalashnikov alla picozza», Pinelli e i suoi amici, italiani e
afghani, stanno offrendo
un’opportunità di riscatto
a giovani e meno giovani,
indicando una via d’uscita
a chi fino a ieri non vedeva
altra possibilità di affermazione al di fuori delle armi
e dell’oppio; e stanno dando anche una lezione di stile a chi, sclerotizzato nell’adorazione degli «ottomila», sembra incapace di
accorgersi di ciò che accade
un po’ più giù…
Apriamo occhi e orecchie
e ascoltiamo i richiami di
naturalisti e alpinisti poco
famosi, ma che con tanta
umiltà e pazienza stanno
costruendo una speranza
per le nuove generazioni e
rimediando ai danni pedagogici ed ecologici fatti dai
loro già celebrati colleghi.
Luciano Montenigri
Fano
«Monti sacri»
settimane bianche
Cari missionari,
spero vivamente che l’articolo di G. Casiraghi sul significato religioso della
montagna (M.C. 9/2008
pag. 10-14) arrivi in tante
scuole e venga letto da docenti, alunni e genitori.
Sappiamo tutti che nelle
scuole, specie alle superiori, montagna è uguale a
settimana bianca: tanti la
bramano, la raccomandano, la esaltano; ma sono
tanti anche quelli che inve-
ce la boicottano... Questi
partono dal principio che
nella scuola non deve esserci alcuna discriminazione, mentre la settimana
bianca le discriminazioni le
crea, perché è un lusso che
molti non possono permettersi: più di 500 euro
per 7 giorni, senza contare
il costo degli sci, vestiario
ecc… Per cui la settimana
bianca non è certo fattore
di unione tra gli alunni, tra
i genitori, gli stessi docenti.
Secondo me, però, ci sono altri due motivi per dire
«no» alle settimane bianche, o almeno rivederne la
modalità di approccio.
Il primo riguarda l’impatto ambientale. Negli ultimi
anni turismo sulla neve e
sport invernali sono aumentati in maniera esponenziale, diventando un
fenomeno di massa. Da
tempo i naturalisti ammoniscono che le montagne
non sono in grado di reggere l’impatto di tale invasione: contrariamente a ciò
che molti pensano, quelli
montani sono ecosistemi
assai fragili; per esempio,
riflettiamo mai sul fatto
che rifiuti e immondizie
abbandonate a 2-3-6 mila
metri di altitudine hanno
dei tempi di decomposizione e riciclo incomparabilmente più lunghi di quelli
rilevabili in pianura?
Il secondo motivo riguarda l’incolumità personale,
sempre più a rischio su certe piste. Tutti vogliono cimentarsi nelle discese libere, fare snowboard, andare
in motoslitta, alla ricerca di
emozioni sempre più forti,
col risultato che ogni anno
si contano decine di morti
e migliaia di incidenti e
infortuni che pregiudicano
la possibilità di riprendere
una vita normale.
In Svizzera - dove nel
2007 ci sono stati ben 70
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[email protected]
mila incidenti e nel solo
mese di dicembre le squadre di soccorso con elicotteri hanno compiuto 300
missioni, con un costo di
150 milioni di euro - è stato
introdotto lo skivelox. In Italia, dall’1-1-05, c’è l’obbligo del casco per gli under 14 (pena la multa da 30
a 150 euro) e di strumenti
elettronici per i fuoripista.
Chiaramente però questi
sono palliativi o poco più:
la cosa più importante è educare le persone, in particolare i giovani, al rispetto
di se stessi, degli altri, della
natura. Voglio dare un consiglio alle autorità scolastiche, a cominciare dal ministro dell’Istruzione: prima
di organizzare altre settimane bianche, le scuole invitino i volontari di Mountain Wilderness, si facciano
dire da loro i rischi che il
pianeta corre per colpa del-
l’accanimento sciistico, sia
invernale che estivo.
Si facciano anche spiegare i motivi per i quali, negli
ultimi 150 anni le nostre
«madri delle acque» (così
Mountain Wilderness chiama i ghiacciai) hanno visto
la loro superficie ridursi del
33% e il loro volume diminuire di quasi il 50%, «trafitte da tralicci metallici,
costellate di grandi rifugialberghi, solcate da cavi
metallici e mezzi battipista
che ne sconvolgono gli equilibri, spostando ingenti
masse nevose in una triste
gara per assicurarsi gli ultimi profitti prima della definitiva scomparsa delle nevi
perenni...».
Francesco Rondina
Fano
«CHE SULUKULE VIVA!»
a Sulukule Platform, una vasta associazione composta da
professori, volontari, giornalisti, commercianti e resiLdentiOng,
del quartiere, ha aperto recentemente un Centro per
bambini a Sulukule. In mezzo a tutte le macerie, detriti e sporcizie lasciate dalle ruspe e sfidando tutte le voci e gli annunci sulla fine di Sulukule, la Piattaforma continua a lavorare per
la gente e i bambini del quartiere.
Al motto «che Sulukule viva», la Piattaforma vuole con ogni mezzo mostrare al mondo e al comune di Fatih che, nonostante le tante case demolite e le tante persone costrette
a sgombrare, Sulukule rimarrà finché ci sarà l’ultima persona
e arderà l’ultima lampada. L’apertura del Centro ha voluto dimostrare che ci sono bambini a Sulukule!
Lo scopo principale del Centro è aiutare i ragazzi a liberarsi dal trauma subito fin dall’inizio della cosiddetta riqualificazione del quartiere. Non sapendo quando le loro case saranno demolite, il rumore di ogni macchinario è un allarme
spaventoso per le loro tenere orecchie. Molti hanno smesso
di andare a scuola: hanno paura che, al ritorno, non troveranno più la loro casa, come se fosse in loro potere arrestare il
processo di distruzione.
Nel Centro hanno luogo ogni attività, senza alcuna obbligazione: i bambini possono scegliere ciò che piace loro. Arti
plastiche, dramma, giochi all’aperto, con giocattoli Lego e
puzzle, lezioni di lettura e scrittura... sono alcune delle attività
guidate dai volontari. Lo scorso agosto, guidati da un attore
professionale, i ragazzi hanno rappresentato per ben 5 volte
il dramma di Giulietta e Romeo, ambientato a Sulukule; ed è
stato vero successo.
Nel Centro opera anche un ufficio di consulenza per i residenti di Sulukule per trattare relazioni e problemi con la municipalità di Fatih. I volontari redigono petizioni o danno consigli e assistenza legale, provocando anche cause giudiziarie
contro la municipalità per le violazioni dei diritti umani. Grazie alla Piattaforma, Sulukule vive e speriamo che possa vivere e che lo lascino vivere.
periamo che si riesca a fermare anche le altre ruspe che
stanno facendo milioni di senza tetto in tutta Istanbul. A
SKucukcekmece-Ayazma
circa 2.500 famiglie sono state sfrat-
valentemente famiglie provenienti dall’est e sud-est della Turchia, di origine kurda; le abitazioni saranno ristrutturate per
farne prestigiose ville per gli eventi olimpici.
La stessa sorte incombe sulla popolazione rom di Sulukule, perché il terreno è cresciuto molto di prezzo negli ultimi
anni. Così i residenti di Sulukule, ivi presenti fin dai tempi di
Bisanzio, devono dire addio non solo alle loro case, ma anche
alla loro cultura e modi di vita. Anche Tarlabasi, altro distretto condannato al processo di trasformazione, attende la stessa sorte. Sembra tuttavia che la gente di Tarlabasi, guidata da
una Ong locale, non lascerà la scena tanto facilmente: i residenti di questo quartiere hanno imparato bene la lezione da
Ayazma e Sulukule e hanno cominciato a fare causa in tribunale con l’aiuto di bravi avvocati.
In tutta la Turchia e specialmente a Istanbul, i distretti di riqualificazione urbanistica, uno per uno si stanno organizzando e lottano con ogni mezzo contro tale processo, con la
disobbedienza civile e citazioni giudiziarie, visite al parlamento e ai deputati, con qualsiasi altro mezzo utile.
I distretti di Istanbul si sono organizzati in un’unica grande
coalizione (Istanbul Districts Platform) e hanno cominciato ad
agire insieme. Turchi, rom, kurdi, siriani... differenti per etnicità, religione, affiliazioni politiche... ora sotto tutti mano nella mano contro le ruspe! Speriamo che abbiano successo e
che trionfi «il diritto alla casa e residenza».
Cihan Baysal
tate e rilocate a Bezirganbahce; espropriate senza compenso, si sono indebitate e ridotte in miseria; 18 famiglie, senza
denaro e senza un luogo dove andare, sono vissute in tende
tutto l’anno.
La costruzione dello stadio olimpico proprio vicino ad
Ayazma, ha avviato l’esodo dei residenti del quartiere, pre-
Con questa lettera la signora Cihan Baysal, ricercatrice nel
campo dei diritti umani per la Istanbul Bilgi University, ci offre un aggiornamento sulla situazione della gente di alcuni
quartieri di Istanbul, di cui Missioni Consolata ha raccontato nei numeri di maggio e giugno 2008.
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CHIESA NEL MONDO.qxd:02 2007-Chiesa nel mondo
a cura di
Sergio Frassetto
CIPRO
RELIGIONI E CULTURE
IN DIALOGO
e religioni sanno che parlare
«L
di guerra in nome di Dio è un
assurdo ed è una bestemmia. Sono
convinte che dalla violenza e dal terrorismo non nasce un’umanità migliore. Non credono al pessimismo
dello scontro inevitabile tra religioni
e civiltà. Nessuna guerra è mai santa. Solo la pace è santa!»: è questa
la sintesi dell’Appello di Pace 2008
dei rappresentanti religiosi di oltre
60 paesi del mondo, letto durante la
cerimonia conclusiva del meeting internazionale «Uomini e Religioni».
Il meeting, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio insieme alla
Chiesa Ortodossa di Cipro, si è
svolto dal 16 al 18 novembre, a Cipro, sul tema «La Civiltà della Pace:
Religioni e Culture in Dialogo». I leader religiosi hanno affidato l’Appello nelle mani di bambini di nazionalità diversa i quali, a nome di ogni
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La Chiesa
nel mondo
generazione, lo hanno consegnato
a loro volta agli ambasciatori e alle
autorità partecipanti che rappresentavano le nazioni del mondo intero.
Ingrid Betancourt Pulecio, che ha
preso parte all’incontro, rivolgendosi
alle nazioni ha detto: «Abbiate fede,
non arrendetevi, perché noi, che abbiamo sofferto e abbiamo perso tutto, non abbiamo perso la speranza.
Vi chiediamo di credere che un mondo migliore è possibile, che il bene
vince sempre il male. Il vero cambiamento deve cominciare in ciascuno
di noi. È dalla somma dei cambiamenti che ciascuno di noi è in grado
di realizzare che potremo costruire
un mondo migliore. Noi siamo i costruttori di un tempo nuovo, coloro
che inaugurano un tempo nuovo dello spirito. Ne siamo certi, nel profondo dei nostri cuori, il nostro è il tempo opportuno perché i sogni diventino realtà. Con la fede tutto è
possibile».
(Fides)
CINA
GRANDE INTERESSE
PER LA CHIESA
uoi conoscere la Chiesa catto«V
lica? Allora sei il benvenuto
all’appuntamento alla cattedrale di
Xi Kai»: è il testo dell’avviso pubblicitario apparso sui principali giornali della città di Tian Jin, promosso
dalla comunità cattolica della cattedrale della città. Sotto al testo sono
indicati data, luogo e orario degli incontri di catechismo che si svolgono
presso la cattedrale. Da quando sono stati pubblicati questi annunci, il
telefono della cattedrale ha dovuto
affrontare un super lavoro. Il parroco afferma: «Anche se non abbiamo
fatto un calcolo dettagliato, riceviamo comunque almeno 20 telefonate
al giorno che chiedono ulteriori
informazioni. Telefonano giornalisti,
liberi professionisti, ma anche tanta
gente comune. Dimostrano tutti un unico interesse: conoscere la Chiesa
e la fede cattolica. Non ci importa il
numero di quanti poi riceveranno il
Ingrid Betancourt Pulecio, per sei anni
prigioniera delle Farc in Colombia.
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battesimo, per noi è importante
diffondere la fede, il vangelo, la Parola di Dio, tutto il resto è nelle mani
di Dio». La comunità della cattedrale si sta impegnando a fondo nell’evangelizzazione studiando e promuovendo nuovi modi di fare missione. Il portone della chiesa è aperto
tutti i giorni e, a turno sacerdoti, religiose e volontari laici sono sempre
pronti ad accogliere tutti con calore
e con amore, rispondendo alle loro
domande. Grazie a tale iniziativa,
solo nell’anno scorso sono stati celebrati 706 battesimi. La parrocchia
della cattedrale oggi conta oltre
30.000 fedeli. È una comunità molto vivace e utilizza la tecnologia moderna e i mass media per promuovere l’evangelizzazione.
(Fides)
COREA DEL NORD
CON LO SPIRITO
DI SAN FRANCESCO
senza precedenti, i
ISudnfratiun’iniziativa
francescani della Corea del
hanno istituito un «Centro di
Servizi per la Pace» nel territorio
della capitale nordcoreana
Pyongyang. Il Centro, inaugurato di
recente, ha un ruolo soprattutto umanitario e assistenziale: si occupa dei
lavoratori di una fabbrica realizzata
grazie a un progetto comune fra le
due Coree. Inoltre distribuisce alimenti e cibo, cura la crescita dei
bambini, si prende cura dei malati e
opera per la formazione di contadini, cercando di rispondere alle esigenze delle fasce più povere della
popolazione locale. «Porteremo al
Nord lo spirito di fraternità, pace e
servizio del Francesco di Assisi, che
ha abbracciato il lebbroso del suo
tempo, riconoscendo nei poveri e
nei sofferenti i fratelli in cui Cristo si
faceva presente», ha affermato padre Paul Kim Kwon-soon (nella foto),
dell’ordine dei Frati minori che porta avanti l’iniziativa. «Spero che il
Centro rappresenti una pietra miliare nell’opera di carità, riconciliazione, condivisione e cooperazione, affinché la popolazione di Nord e
Sud Corea possa tornare a vivere insieme, nell’aiuto vicendevole» ha
CHIESA NEL MONDO.qxd:02 2007-Chiesa nel mondo
detto mons. Lazzaro You Heung-sik
presidente della «Caritas Corea»,
nella cerimonia inaugurale. Si tratta
di un evento molto importante in
quanto è la prima istituzione ufficiale della Chiesa coreana nel territorio
del Nord, a partire dalla storica divisione della Corea in due parti, dopo la guerra del 1950-1953.
(Fides)
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le minoranze religiose (cattolici, cristiani di varie confessioni, ma anche
islamici ahmadi). Questa legge, infatti, darà un terribile potere di controllo, di tipo sovietico, sui gruppi religiosi. La nuova normativa proibisce
qualsiasi attività religiosa non approvata, anche solo riunirsi per pregare
o fare attività caritativa. Severe pene
sono previste per i trasgressori. Necessaria l’autorizzazione per ogni
attività missionaria, come pure per
l’importazione di testi religiosi. I
«piccoli gruppi religiosi» potranno
svolgere attività religiosa solo per i
loro fedeli, ma non mantenere luoghi
di devozione «aperti a tutti». Absattar Derbisail, leader tra i nufti islamici, la considera una legge «molto positiva», che può colpire «le molte sette che hanno causato problemi in
parecchie famiglie».
(Asia news)
KAZAKISTAN
NO ALLA
LIBERTÀ RELIGIOSA
GIAPPONE
188
MARTIRI
kazako ha approvato
IsallaParlamento
24 novembre, almeno 30 mila
nuova legge sulla libertà religioIlpersone
hanno partecipato alla
e c’è grande preoccupazione tra
beatificazione di Pietro Kibe Kasui,
gesuita, e di 187 martiri giapponesi
uccisi tra il 1603 e il 1639. La cerimonia si è tenuta al Big N, lo stadio
di baseball di Nagasaki, una città
in cui i cristiani ammontano all’1%
della popolazione, di circa 100 mila persone; a partecipare non solo
gente del posto, ma fedeli di ogni
parte del paese e anche stranieri
provenienti da Corea del Sud,
Taiwan e Filippine. La cerimonia è
stata presieduta dal card. José Saraiva Martins, inviato del Papa e ex
prefetto della Congregazione vaticana per le cause dei santi. «È stato
un intenso cammino di preparazione materiale e spirituale che ci ha
condotto verso l’evento» ha detto
l’arcivescovo di Nagasaki Joseph
Takami. Un percorso iniziato 25 anni fa, nel 1981, quando Giovanni
Paolo II visitò il Giappone ed esortò
a valorizzare la grande eredità dei
suoi martiri. «Credo - ha aggiunto il
prelato - che tutto l’interesse e l’attenzione suscitati nella popolazione,
in un certo senso, possono aiutare la
nostra opera di evangelizzazione:
certamente la missione avrà nuova
linfa e nuove speranze».
(Misna)
SUDAFRICA: NUOVO VICARIO APOSTOLICO
l Santo Padre Benedetto XVI, in data 24 novembre 2008, ha nominato vicario apostolico di Ingwavuma (Sudafrica)
padre José Luís Gerardo Ponce de León, Missionario della Consolata, assegnandogli la sede titolare vescovile di
Maturba. Il padre José Luís Gerardo Ponce de León, è nato l’8 maggio 1961 a Buenos Aires (Argentina). Ha studiato
con i missionari della Consolata a Buenos Aires e a Roma, mentre ha completato i corsi di teologia all’Università gesuita Javeriana, a Bogotà, in Colombia. Si è consacrato a Dio con la professione religiosa il 9 gennaio 1983 ed è
stato ordinato sacerdote il 2 agosto 1986. Dopo l’ordinazione sacerdotale, dal 1986 al 1993, è stato direttore dell’animazione missionaria e vocazionale e della rivista «Misiones
Consolata»; quindi ha svolto il ruolo di formatore nel seminario filosofico.
Nel frattempo ha ricoperto l’incarico di vice superiore regionale. Destinato
al Sudafrica, tra il 1994 e il 1998, ha svolto servizio pastorale nella diocesi di Dundee, lavorando nelle parrocchie di Damesfontein/Mpuluzi, Piet
Retief e Madadeni. Dal 1999 al 2004 è stato superiore regionale dei missionari della Consolata in Sud Africa e ha adottato la cittadinanza di questo paese mantenendo quella argentina. Nel 2005 ha assunto la cura pastorale della parrocchia di Daveytown (Johannesburg). Nello stesso anno
ha partecipato al Capitolo generale della Consolata in Brasile. Nel 2006,
dopo il Capitolo generale, è stato nominato segretario generale dell’Istituto
a Roma e procuratore presso la Santa Sede. Il Vicariato apostolico di
Ingwavuma ha una superficie di 12.309 km2 e una popolazione di 618
mila abitanti dei quali poco più di 20 mila sono cattolici.
(IMC)
I
Mons. José Luís Gerardo Ponce de León,
nuovo vicario apostolico di Ingwavuma.
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GIUSTIZIA E PACE
a cura della Redazione
Parlando ancora di diritti umani
MISSIONE DIRITTI
Sulla scia di «Diritti e Rovesci», monografia sui diritti umani pubblicata
dalla nostra rivista lo scorso ottobre, due interviste per tener vivo l’argomento
e illustrare due modi in cui i missionari della Consolata mettono questo tema
nell’agenda delle loro attività di animazione e formazione.
OGGI: LEZIONE
DI DIRITTI UMANI
Conversazione con Luca Lorusso,
coordinatore del «settore scuola» del
Centro di Animazione missionaria di
Torino.
Luca, facci un esempio del tuo lavoro di animazione e formazione
ai diritti umani nelle scuole.
È da alcuni anni che propongo
nelle scuole secondarie di primo e di
secondo grado (le vecchie scuole
medie inferiori e superiori) un percorso formativo dal titolo «I diritti
dei minori», incentrato sulla «Convenzione internazionale sui diritti
dell’infanzia e dell’adolescenza»
(1989). Insieme agli insegnanti, propongo ai ragazzi la lettura e l’elaborazione personale e di gruppo del
testo del documento, offro un approfondimento su alcune violazioni
di diritti e le loro cause e stimolo
l’auto riflessione della classe su tale
argomento. Ecco questo è un piccolo esempio di ciò che faccio.
Come è nato questo tuo interesse? Perché lo fai?
Sono un laico missionario della
Consolata e mi occupo a tempo pieno di animazione missionaria. Benché già sporadicamente presenti
nelle scuole attraverso testimonianze missionarie e incontri su popoli o
paesi del cosiddetto Sud del Mondo, da qualche anno alcuni laici, tra
cui il sottoscritto, hanno ricevuto il
compito di pensare, progettare e attuare interventi di educazione alla
Intercultura e mondialità in classe.
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mondialità didatticamente qualificati e metodologicamente innovativi che sfruttino le testimonianze di
chi vive direttamente l’incontro con
altre culture e i contributi dell’«esperto» in materia. Tutto ciò al fine
di poter permettere un accesso ancora più ampio della missionarietà
alle scuole.
Più concretamente, a chi ti rivolgi?
Da ormai quattro anni incontro
bambini, ragazzi, adolescenti di ogni
zona di Torino e della provincia, dalle zone «bene» a quelle più periferiche, dalla prima cintura cittadina, ai
piccoli comuni della provincia, di ogni estrazione sociale e provenienza
geografica.
I percorsi di educazione alla mondialità sviluppati in questi anni ci
hanno permesso di approfondire
molti degli aspetti sociali, culturali,
ambientali che caratterizzano il
mondo globalizzato in cui viviamo.
Avendo presente questo contesto
proponiamo nuovi stili di vita ai
bambini delle elementari attraverso
fiabe e giochi che aiutano a entrare
nelle storie dei prodotti di consumo.
Per esempio, riflettiamo coi ragazzi
sulla difficoltà di stabilire a priori se
sia migliore la qualità di vita di un ragazzo italiano o di un ragazzo africano attraverso il confronto tra le loro
due giornate tipo. Oppure, offriamo
loro strumenti ed elementi critici
per comprendere i meccanismi della comunicazione massmediatica e
dei condizionamenti che ne derivano; approfondiamo con i ragazzi le
cause storiche e attuali dell’impove-
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MISSIONI CONSOLATA
rimento di gran parte della popolazione mondiale o della diffusione di
epidemie.
Infine, condividiamo conoscenze
e analisi sull’impatto ambientale del
nostro stile di vita e sulle alternative
possibili. Tutto per creare coscienza,
allargare gli orizzonti, vivere in maniera libera e consapevole la nostra
vita di tutti i giorni. Sono spazi importanti di comunicazione, condivisione e crescita nell’alterità, per molti ragazzi possibili soltanto in ambiente scolastico. Spero che chi sta
pensando alla riforma della nostra
scuola ne tenga conto.
E come parli dei diritti umani?
Direttamente o indirettamente,
questo tema risulta presente in modo costante in tutti gli interventi: in
qualsiasi incontro io faccia nelle
scuole inevitabilmente arrivo a riflettere con i ragazzi sull’essere umano e sui diritti che, in ogni parte
del mondo, vengono negati attraverso i vari tipi di violenza strutturale, economica, interpersonale, comunicativa.
I miei interventi cercano di far emergere quanto i ragazzi già sanno
e l’esperienza che possono aver personalmente maturato di un determinato diritto.
Per educare ai diritti umani, quindi, non credo sia sempre necessario
parlarne esplicitamente. L’umanità è
lo sfondo, la passione e l’amore per
essa, la voglia e la gioia di conoscerla
in tutte le sue espressioni, l’impegno
per sentirsene parte e per prendersene cura sono gli obiettivi a lungo
e lunghissimo termine del mio lavoro nelle scuole.
E i giovani come rispondono alle
tue provocazioni? Vedi il maturare di frutti nel tuo lavoro?
Come sempre accade in campo
educativo, è molto difficile, se non
impossibile, valutare a breve termine il raggiungimento di un obiettivo. Tanto più se la possibilità di relazione con i ragazzi si riduce a 6 o
8 ore distribuite su tre o quattro
settimane.
Certamente però ci sono vari «segni» che aiutano a comprendere se
un intervento abbia o meno qualche possibilità di lasciare un’impronta significativa nell’immaginario dei
ragazzi oppure no. Innanzitutto, è di
Luca Lorusso, del Centro di animazione missionaria di Torino.
fondamentale importanza il coinvolgimento dell’insegnante e, possibilmente, la sua condivisione delle idee proposte nel percorso.
Occorre quindi la sua partecipazione attiva durante gli incontri, ma
anche l’approfondimento che può
offrire durante le ore di lezione della
sua materia, in modo da aiutare la
classe ad avere un approccio interdisciplinare a quanto riflettuto e a far
sedimentare gli imput ricevuti durante il mio intervento in classe.
Altri segni sono, ovviamente, l’empatia e la partecipazione degli studenti stessi, oltre alla qualità dei dibattiti, delle riflessioni, la passione
con cui a volte nascono confronti tra
di loro e con me.
Spesso mi trovo stupefatto nel
constatare quanto gli studenti siano
sensibili e permeabili ai temi sociali,
spesso mi trovo confermato nel
pensiero che, nonostante la mancanza di informazione adeguata, o
addirittura la presenza di informazione parziale, distorta, stereotipa e
ideologica, i ragazzi desiderano
profondamente un mondo migliore,
non solo per se stessi, ma per tutti.
Desiderano vivere una vita più umana, più sobria di quella proposta dai
modelli dominanti, desiderano autenticità in un mondo che non fa altro che proporre amori, felicità, promesse, soddisfazioni inautentiche.
Se nei ragazzi non ci fossero questi semi di amore per la vita e per il
mondo, anche quando sconosciuti a
loro stessi, il mio lavoro di animazione missionaria nelle scuole sarebbe
vano. Proprio perché questi semi ci
sono il mio lavoro si incardina con
qualche speranza nel più ampio lavoro che la chiesa e la società devono fare con i più giovani: educare,
cioè tirare fuori l’umanità grande
che si dibatte dentro di loro e aiutarli a darle forma.
A parte qualche caso isolato ho
sempre avuto la fortuna di trovarmi
di fronte bambini, ragazzi, giovani,
insegnanti pieni di umanità e pieni
di voglia di imparare qualche trucchetto nuovo per approfondirla, al
contrario di ciò che i mass media
vogliono farci credere sulla scuola e
sulle giovani generazioni, e per fortuna ho sempre trovato persone
che non avevano bisogno di un
maestro che, in quanto «esperto»,
arrivasse a dispensare sapienza e
buone maniere da acquisire a scatola chiusa e seduta stante, ma di
una persona semplicemente capace di mettersi in ascolto e di proporre condivisione.
C’è un argomento fra quelli che
presenti che va per la maggiore?
Uno dei temi che certamente suscita maggiore partecipazione e
passione è il tema degli immigrati,
soprattutto nei periodi in cui l’informazione nazionale spinge molto sui
tasti dell’emergenza e della sicurezza. In questi casi, i condizionamenti
della comunicazione di massa diventano particolarmente evidenti e
le polarizzazioni rischiano spesso di
assumere i connotati dei dibattiti televisivi in cui parlare non significa
necessariamente essere ascoltato e
ascoltare. Questo permette di stimolare dinamiche utili ad educare i ragazzi alla gestione di una discussione sempre, aperta alla modifica delle proprie opinioni, piuttosto che
alla chiusa contrapposizione.
Ad ogni buon conto, il grande tema dei diritti umani trova sempre
terreno fertile, un terreno in continua mutazione, un terreno «liquido»
che richiede sempre nuovi metodi
di semina, ma pur sempre terreno adatto a far crescere piante (forse diverse da quelle che ci aspettavamo)
che poi daranno frutti (forse diversi,
forse migliori di quelli che avremmo
voluto gustare).
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GIUSTIZIA E PACE
CI VOGLIONO VISIONE
E METODO
Conversazione con padre Giovanni
Scudiero, membro del direttivo internazionale di Pax Christi, e coordinatore della Commissione Giustizia e Pace
della Regione italiana dei missionari
della Consolata.
Diritti umani violati, diritti umani
promossi. Da sempre te ne sei occupato nel corso della tua esperienza missionaria, spiccatamente
orientata alla promozione della
giustizia e della pace. Dove nasce
l’interesse alla pace nel vostro istituto, oltre che dal vangelo, ovviamente?
Secondo le sensibilità proprie di
ciascuno, si possono dare mille risposte a questa domanda, dalla più
spiritualista a quella più marcatamente orientata allo sviluppo. Credo, però, che anche su questo tema
meriti in qualche modo rifarsi al nostro fondatore e all’eredità spirituale
che ci ha lasciato.
Mi riferisco in modo particolare a
una visione iniziale e quindi a un
senso della missione che nel beato
Allamano porta a universalizzare il
senso di fraternità, ad allargarne i
confini, non limitandolo esclusivamente alla città di Torino dove ha esercitato praticamente tutto il suo
ministero sacerdotale, ma esportandolo all’Africa, al mondo.
C’è in questo sguardo ampio una
premessa fondamentale per un discorso sui diritti umani: di uguaglianza, di comunione, di solidarietà,
di fraternità universale. E questo discorso si radica nel suo essere cristiano, un cristiano impegnato in
modo specifico, ministeriale, nel servizio agli altri, a tutti gli altri, e quindi
aperto alla missione. La sua espressione di solidarietà universale è, secondo me, una versione ante-tempus di quello che diventerà poi nel
nostro istituto il discorso sui diritti umani. Abbiamo tutti diritto alla vita
e fondamentalmente questo diritto
nasce dal nostro essere uguali, di pari dignità; tutto ciò a prescindere da
ogni differenza di tipo etnico, geografico o culturale.
Il diritto alla pari dignità è un con-
Giovanni Scudiero durante
un laboratorio di formazione.
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cetto che diventa totalmente insignificante se rimane un concetto astratto e non è vissuto nella reciprocità... senza trasformarsi in una maniera concreta di relazionarsi. Direi
che nell’Allamano è importante questa visione iniziale, ma ancor più significativo è il metodo che ne deriva.
A cosa fai riferimento quando
parli di metodo?
Il fondatore risponde da cristiano
a questa esigenza di solidarietà: si
organizza e soprattutto si cerca un
collaboratore, nella persona del canonico Camisassa, che sembra avere
doti straordinarie in certi aspetti più
pratici, su un piano più umano e di
sviluppo. L’Allamano non si va a scegliere un filosofo, un teologo, o un
padre spirituale: va a cercare quello
che lui sa in qualche modo di non
essere, o di non essere a sufficienza.
Si completa, scegliendosi una persona capace di interagire con la
realtà concreta, dedicando tempo e
cura al dettaglio dell’opera che l’Allamano aveva in testa. Questo sodalizio è stato in grado di compiere
un’operazione fondamentale: leggere la realtà, i fatti, intuire e poi capire che tipo di struttura organizzativa fosse necessaria per svolgere
l’azione pastorale ed evangelizzatrice, tanto in Italia quanto in missione.
Questo metodo consisterebbe
dunque soltanto nella scelta, diciamo così, del «personale»?
Certamente no. Il fatto che lui si
scelga questo tipo di collaboratore,
riconduce secondo me a un’idea
centrale nell’Allamano, che ancor
prima di inviare gente in missione a-
veva ben chiara in mente: l’importanza di formare la persona prima di
fare e formare il cristiano.
Ci sono tanti aspetti della vita del
fondatore, tante scelte da lui fatte,
che sottolineano questa sensibilità
che lui ebbe. Pensiamo, per esempio, alI’affetto speciale che ebbe per
i fratelli coadiutori, quei religiosi che
dedicano la loro vita in modo particolare al lavoro e quindi all’edificazione dell’ambiente. O ricordiamo
anche soltanto l’enfasi che pose sul
lavoro, e soprattutto il lavoro manuale, come criterio formativo per i
suoi missionari e le sue missionarie.
Il «prima uomini e poi cristiani» non
è assolutamente un concetto periferale nel fondatore.
Fondamentale, ripeto, è la sua capacità di leggere la realtà, tanto qui
in Italia come in Africa, in modo da orientare le proprie risposte verso obbiettivi mirati.
È interessante notare come, mediante i corsi del convitto ecclesiastico, forma i giovani preti diocesani attraverso, anche, l’organizzazione di
corsi di morale, sociologia, politica,
per prepararli a rispondere alle esigenze più svariate in modo coerente
ai bisogni espressi dal territorio. Per
non parlare dell’attenzione data al
mondo della comunicazione, dei
media diremmo oggi.
Questo stile lo applica a maggior
ragione per i suoi missionari, che dovranno guardare la realtà con delle
prospettive più ampie.
Con loro instaura un rapporto formativo basato sul dialogo. Non soltanto si sente maestro nei confronti
dei missionari che invia, ma egli
stesso vuole imparare, vedere, co-
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noscere. Vuole capire come una visione possa diventare realtà attraverso delle scelte concrete. Sa di
non aver sempre la risposta pronta
di fronte a una determinata esigenza o a una certa sfida e la consapevolezza della giustezza o meno di
un criterio da applicare gli viene
proprio dalla comunicazione costante con i missionari che lavorano
sul campo, attraverso i loro diari e la
loro corrispondenza: lettere dove lui
viene a riflettere, pregare, discernere le scelte che verranno fatte, dando a una visione di missione una
storia concreta.
Voleva sapere tutto di tutti, si
informava sull’andamento degli incontri, sulla situazione delle persone, voleva conoscere i nomi. Questo
radicarsi profondamente nella storia
locale, nella fattualità e nelle problematiche della gente dà vita a un annuncio incarnato in un contesto storico, rispondente in primis alla situazione di vita della gente.
Una missione, quindi, improntata
tantissimo sull’ascolto dell’altro...
Sì. Del resto tantissimi testimoni ricordano la capacità di ascolto del
nostro fondatore. Questa dell’ascoltare era una prassi che lui esercitava
e che pretendeva nel limite del possibile che fosse praticata anche dai
suoi missionari. Purtroppo, noi missionari non siamo così capaci di coltivare sempre questa mentalità di ascolto. Non sempre riusciamo a inserirci in un contesto storico
concreto con gli «occhi vergini», ov-
Durante una marcia per la pace
da Perugia ad Assisi.
vero senza pregiudizi, con la pazienza di inserirsi, ascoltare chi ne sa più
di noi: gli anziani del posto, il confratello più esperto, ecc.
Anzi, penso che questa nostra poca attenzione dedicata all’ascolto è
quello che ci sta bloccando soprattutto nel nostro ad gentes oggi in Italia, nel nostro fare missione qui, da
dove siamo partiti. Chi sono le persone in Italia che noi siamo pronti
ad ascoltare?
Oggi poi, sentiamo l’esigenza di
«aguzzare l’orecchio» e dare al nostro ascolto una dimensione più ampia, che ci permetta di andare oltre
la metodologia usata finora: quella
della lettura concreta di una realtà al
fine di rispondere a bisogni concreti
e localizzati. Con il tempo siamo arrivati a capire i profondi legami che legano il locale con il globale, a cercare
le radici di un problema che sembra
riguardare una singola comunità in
un contesto ben più ampio.
Di fronte a un problema di mancanza di risorse in un determinato
posto è giusto intervenire offrendo
una mano tesa e un aiuto immediato pratico. Ma è anche fondamentale farsi, e fare anche in giro, qualche
domanda sul perché di un servizio e
o di un bene negati a una comunità
che ne avrebbe diritto.
E questo lo si fa?
Non sempre. Del resto, ciò che più
o meno da tutti si tende a fare è dare
risposte semplici e immediate ai problemi concui dobbiamo quotidianamente confrontarci nella vita di missione. Manca l’ospedale, facciamo
l’ospedale... Sono risposte semplici
anche se, non nego, richiedono risorse e fatica. Sono semplici nella loro analisi e nella loro conclusione.
Nella nostra storia missionaria non
sempre abbiamo sottolineato l’importanza di una riflessione e un’analisi che penetrassero più in profondità, toccando non soltanto gli effetti di un problema, ma sfidandone le
cause. Molte volte, la fretta e l’urgenza di risolvere un bisogno pratico (o
quello che noi percepivamo come
tale) ci ha distolto dal dovere di andare alla radice del nostro agire, alla
ricerca delle vere cause, magari per il
timore di imbarcarsi in percorsi verso
i quali non ci sentivamo sufficientemente attrezzati e preparati.
Oggi, invece, ci rendiamo conto
che quelle risposte superficiali, isolate da un contesto culturale o non rispondenti alla sfida sociale che mette in pericolo o ferisce una comunità, rischiano di essere semplici
cerotti su ferite che diventano sempre più grandi e profonde.
Una promozione umana, seria, radicata in un contesto, che si pone
prospettive di futuro alternativo non
può, oggi come oggi, prescindere da
un lavoro di coscientizzazione e formazione sui diritti fondamentali della persona; lavoro che in alcuni casi
può anche assumere il ruolo di grido
profetico e di denuncia. Significa dare alle nostre risposte uno sguardo
più ampio, che non si fermi allo specifico problema locale, ma guardi più
in là, alle radici del problema.
Senza questo sguardo e alla domanda di giustizia che ne deriva le
nostre opere ci renderanno necessariamente eterni. La gente continuerà a dipendere dal missionario
capace di trovare soluzioni ai loro
problemi più immediati, problemi
che si rigenereranno in continuazione e avranno bisogno di sempre
nuovi interventi, aggiustamenti, perfezionamenti e manutenzioni. ■
Per ulteriori informazioni:
http://www.missionariconsolataitalia.it/animazione_scuola.html
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BRASILE
testo e foto di Fabrizio Mola
Vivere a Joaquim Gomes
Quindici giovani del gruppo «Amici di Joaquim
Gomes» di Piossasco (To) hanno speso le loro
vacanze aiutando le suore di San Giuseppe
di Pinerolo a realizzare i loro progetti nella cittadina
brasiliana: un’esperienza indimenticabile,
a contatto con situazioni disperate e nell’impegno
di solidarietà nella lotta silenziosa per rivendicare
diritti umani e dignità.
a BR101, nel tratto in cui attraversa lo stato di Alagoas, si riduce ad appena due corsie di
marcia che, nella stagione delle
piogge, si tempestano di buche enormi sotto il continuo passaggio
dei lunghi camion che, lungo questa
L
strada di 4.551 chilometri, attraversano il Brasile da nord a sud.
Percorriamo questa interminabile
pista di curve, che si insinuano tra le
colline, e arriviamo al bivio che ci
porterà finalmente alla cittadina di
Joaquim Gomes. A indicarci l’arrivo
è un enorme cartello su cui, anche
da lontano, si può leggere a chiare
lettere il nome del paese e, appena
sotto, la scritta: «Construindo con
Ela», ossia «Costruendo con Lei».
Quel «Lei» è l’autocelebrazione di
Cristina Brandão, donna senza scrupoli, arrivata all’improvviso nel paese pochi mesi prima delle elezioni
amministrative e che ha trasformato
il suo bagaglio di denaro in una
scontata vittoria. Questa le ha permesso di acquistare, nel vero senso
del termine, il titolo di sindaco, che
da queste parti è, più che un incarico, un finanziamento con introiti assicurati, tramite un sistema di corruzioni e di deviazione di denaro pubblico conosciuto da tutti ma
diffusamente impunito.
Joaquim Gomes sarà la nostra ca-
SOGNI
IN
CATENE
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MISSIONI CONSOLATA
sa per più di un mese e sarà il nostro
«campo base» nel viaggio tra le infinite realtà di contrasti, di ingiustizie
e di diritti negati in questo Brasile in
cui, ogni volta di più, aumenta il divario tra ricco e povero, tra progresso e arretramento, tra tecnologie e
possibilità di accedere ad esse.
Le guide che ci accompagneranno nel capire questo mondo saranno un gruppo di donne che in questo paese ci vivono da anni e che da
anni lottano per affermare la giustizia, i diritti e la dignità di ogni persona, tramite un’instancabile azione di
rivendicazione e di promozione umana e l’annuncio del messaggio di
speranza del vangelo. Sono le suore
di San Giuseppe di Pinerolo, in parte
missionarie italiane e, ormai in maggioranza, giovani e determinate
suore brasiliane. Il loro lavoro è quello di cercare di rimediare alle carenze che nel paese colpiscono la parte
più debole della popolazione; una
popolazione che attualmente risulta
composta dalle donne, da qualche
anziano e da moltissimi bambini.
i uomini a Joaquim Gomes se
ne vedono davvero pochi; la
maggioranza di essi, infatti, è
costretta a emigrare in altre regioni
dove la manodopera è più richiesta,
finendo in uno stato di semi schiavitù, in lontane ed estese piantagioni di canna da zucchero, da cui, in
molti casi, non riescono più a tornare, lasciando così alla propria sorte
moglie e figli.
Nel solo anno 2007 da Joaquim
Gomes sono partiti più di 3 mila uomini, su una popolazione di 22 mila
abitanti, in cerca di un lavoro che
permettesse loro di far sopravvivere
le proprie famiglie; ma quasi sempre
sono diventati vittime del meccanismo messo in atto dai fazendeiros,
che, tramite esperti intermediari, riescono a incastrare migliaia di uomini rendendoli debitori dei loro datori di lavoro ancora prima di entrare
in servizio. La strategia è molto semplice: a ogni lavoratore viene anticipato il denaro per i costi del viaggio,
D
e per pagarsi il vitto, gli attrezzi di lavoro e il proprio sostentamento; a
nessuno è permesso lasciare il posto
di lavoro fino a quando non avrà ripianato il debito col padrone. Un impegno quasi impossibile, con un lavoro sottopagato. Anche se qualcuno riesce nell’impresa, rimane
ancora il problema di acquistare il
biglietto del viaggio di ritorno, che
permetta loro di percorrere i tre
giorni di pullman che separano il
Mato Grosso (terra solitamente di
destinazione dei lavoratori stagionali) dalle loro famiglie in Alagoas.
n assenza degli uomini, che raramente riescono a inviare denaro
alle proprie famiglie, sono le donne che lottano per la sopravvivenza
dei loro figli, portando avanti la casa
e provvedendo alle loro necessità.
Sono donne forti e provate dalla fatica giornaliera.
Fin dalle cinque del mattino le
sentiamo passare per le vie, fuori
dalla porta della casa che ci ospita; le
vediamo scendere al fiume; in testa
portano enormi bacinelle con i vestiti da lavare, in mano qualche pentola e attorno i figli più grandi con in
braccio quelli più piccoli, pronti per
il bagno nell’acqua torbida che scorre lenta tra le colline del paese.
Ancora prima dell’alba, gli uomini
rimasti nel paese ci svegliano men-
I
tre, seduti in piazza, colpiscono con
lunghe e forti strisciate del machete
le pietre della pavimentazione, per
preparare la lama alla lunga giornata nel taglio della canna. Poco dopo,
passano vecchi pullman per caricarli
e portarli nelle piantagioni, dalle
quali torneranno soltanto quando
farà notte. Dopo una giornata di lavoro, chi è più forte riesce a guadagnare di più, portando a casa appena un euro per ogni tonnellata di
canna tagliata, sotto il sole cocente e
con i vestiti che li coprono da capo a
piedi per proteggersi dalle foglie taglienti.
Li si vede scendere dai pullman
uno ad uno e diramarsi nei vari
quartieri, con passo rapido, machete
in mano e borraccia a spalle; raggiungono le loro case di fango dove,
consumato un misero pasto, torneranno finalmente a riposarsi per
riacquistare le energie da consumare nella dura giornata successiva.
Questa è la vita di un numero infinito di uomini, donne e bambini in
centinaia e migliaia di paesi che sono sparsi, come Joaquim Gomes,
nelle aree rurali di questa estesa regione del Brasile. E proprio da questa situazione siamo partiti e abbiamo potuto conoscere le altre differenti realtà che impregnano di
contrasti questa terra.
Tuttavia abbiamo potuto scorge-
A sinistra: arcobaleno sulla
cittadina di Joaquim Gomes;
povertà e droga incatenano i sogni
del giovane Thiago.
A destra: una famiglia a Joaquim
Gomes.
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BRASILE
COME VINCERE LE ELEZIONI
l 5 ottobre 2008, Cristina Brandão ha vinto nuovamente le elezioni amministrative, riuscendo così a conquistarsi il secondo mandato da sindaco di Joaquim
Gomes. Il successo è frutto di una campagna elettorale in cui la corruzione e l’illegalità hanno vinto ancora una volta. Ogni singola preferenza è stata infatti comprata giocando sulla miseria, sulla necessità e sull’inconsapevolezza della gente, che
pur di ricevere una minima quantità di denaro, ha venduto il proprio voto al candidato disposto a offrire la somma maggiore. Tale pratica è molto diffusa nella regione ed è nota a tutti; ma a causa della paura raramente vengono denunciati i reati
di corruzione; più raramente ancora alle denunce seguono processi e condanne.
Per avere un’idea dei soldi investiti nella campagna elettorale in un paese come
Joaquim Gomes, con poco più di 20 mila abitanti, basta sapere che la signora
Cristina Brandão ha venduto una delle fazendas (fattorie agricole) comprate durante il suo precedente mandato.
Tra i costi sostenuti vi sono quelli derivanti dalle numerose manifestazioni celebrative del sindaco stesso, dove, ad esempio, sono stati pagati centinaia di partecipanti
per affollare le ripetute sfilate propagandistiche, in cui vigeva un tariffario ben preciso in base al tipo di partecipazione. Se si marciava a piedi, muniti di bandiera si riceveva infatti una certa somma di denaro; le tariffe aumentavano se si sfilava in bicicletta, in moto o in automobile.
Un altro «investimento» effettuato dal sindaco per le nuove elezioni è stato quello
di iscrivere nelle liste elettorali di Joaquim Gomes decine di persone che vivono
nei quartieri poveri della capitale dello stato. Il giorno delle elezioni, il sindaco ha
poi gentilmente messo a loro disposizione un pullman per raggiungere il paese,
consegnando a ciascuno una banconota da 50 reali (circa 20 euro) prima di recarsi
alle urne. La stessa somma di denaro è stata offerta per comprare il voto delle persone che vivono nel paese. Per evitare, però, che questi elettori accettassero più
volte il denaro, la candidata a sindaco ha pensato bene di contrassegnare le tessere
elettorali di chi aveva già ottenuto il suo «pagamento», in modo che fossero riconoscibili dalla sua équipe.
Il giorno delle elezioni, però, è venuto alla luce questo fatto del contrassegno e le
persone che avevano venduto il proprio voto, non si sono più presentate alle urne
per paura di essere denunciate. Nei giorni successivi è stata quindi offerta loro una
somma di denaro dieci volte superiore a quella ricevuta per il voto, al fine di comprare il loro silenzio. Il fatto fondamentale è però che, secondo la legislazione brasiliana, il voto è considerato obbligatorio. Per questo motivo attualmente le persone coinvolte in questa faccenda si ritrovano nel dilemma di pagare la sanzione
per non essersi presentati alle urne o autodenunciarsi essendo rimasti implicati
nell’operazione di acquisto e vendita dei voti.
Le denunce di corruzione sono state presentate al Tribunale elettorale locale, che
ha avviato subito il processo, convocando la neoeletta e una trentina di testimoni.
Adducendo un certificato medico, l’imputata non si è presentata alla prima udienza
né a quelle successive, ma la giustizia ha fatto ugualmente il suo corso: venerdì 29
novembre il giudice della zona elettorale, Gilvan Santana, ha annullato l’elezione
della Brandão, con l’interdizione per tre anni da ogni incarico pubblico. Una vittoria
significativa e incoraggiante, almeno per il momento. C’è, infatti, il rischio che il ricorso al Tribunale elettorale dello stato di Alagoas possa annullare la sentenza.
I
re, al tempo stesso, barlumi di intensa speranza, a partire dalle favelas
della caotica capitale fino agli accampamenti di senza terra, isolati
nella sperduta area del sertão.
a capitale dello stato di Alagoas è Maceio, città con circa
800 mila abitanti, che si estende a metà tra l’oceano e la laguna.
Verso l’oceano sorgono i quartieri
più ricchi, dove si trovano palazzi e
alberghi di lusso, boutique di alta
moda e design, ristoranti e club, palestre e scuole, dove autisti privati
L
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attendono i figli delle famiglie benestanti alla fine delle lezioni.
A pochissimi chilometri di distanza, verso la laguna, inizia invece l’ininterrotta serie di favelas dove migliaia di famiglie vivono in baracche
costruite con pannelli di legno, cartoni, cartelli pubblicitari, lamiere e
teli di nylon recuperati nelle aree circostanti.
Visitiamo una di queste favelas,
quella di Sururù de capote, così chiamata dal nome del mollusco che vive nella laguna lungo la quale sono
situate le baracche. Vediamo adulti
e bambini che si immergono continuamente in acqua, anche per alcuni metri, e portano in superficie
masse di fango putrido, mischiato
alle conformazioni di molluschi che,
portate a riva, vengono passate alle
donne per la pulitura. Piegate sull’acqua, immerse fino alle ginocchia,
esse passano giornate intere a scrostare questa specie di cozze, che,
una volta ripulite, vengono vendute
ai ristoratori di lusso per un prezzo
irrisorio: un secchio pieno di tali
molluschi, frutto del lavoro giornaliero di un’intera famiglia, viene pagato l’equivalente di un euro circa.
Ci accompagnano due giovani
suore brasiliane, che operano in
questo ambiente, e Vania, la coraggiosa leader della favela. Senza di
lei è impossibile e, soprattutto, rischioso addentrarsi nei vicoli tra le
baracche, che, oltre ad essere stretti
da permettere il passaggio di una
sola persona, sono spesso pieni di
rifiuti e degli scoli delle fogne. Grazie a lei possiamo avere un’idea, anche se solo accennata e da osservatori, di cosa significhi nascere e sopravvivere da favelados in tali
condizioni.
Presentandosi subito con il suo fare deciso e fiero, Vania ci racconta la
sua storia: è nata nella favela; sin da
ragazzina è stata coinvolta nei giri
della droga, prostituzione e narco-
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MISSIONI CONSOLATA
Alcuni bambini in una stretta via
della favela di Maceio.
Donne di Joaquim Gomes lavano
i panni al fiume.
traffico; ha avuto 12 figli, di cui sei
morti prima ancora di nascere a causa della denutrizione e delle sostanze stupefacenti da lei assunte in gravidanza. Ma ora Vania è cambiata, il
suo carattere e la sua voglia di lottare hanno fatto di lei una leader della
favela: ha creato intorno a sé una comunità che si sostiene reciprocamente, forte nelle rivendicazioni per
i propri diritti, superando la lotta di
tutti contro tutti per la sopravvivenza in un crescente desiderio di rimanere uniti e solidali.
Mentre giriamo nella favela, Vania
interrompe i suoi racconti per richiamare i bambini che litigano, per leggere un documento a un uomo analfabeta che chiede il suo aiuto e
consiglio, per spiegare alla gente chi
siamo; nel frattempo il suo sguardo
è sempre attento nell’osservare e vigilare su ogni cosa che succede intorno.
Vania conosce la gente della favela e non ha paura di raccontarcene
la vita: ci indica bambine di nove anni che, per un piatto di riso o di fagioli, si prostituiscono con i taxisti
che passano nell’avenida, bambini
drogati con la colla, che tornano dal
centro della città, dove hanno passato la giornata a vagare e a borseggiare i passanti; ci racconta la storia
di una ragazza che, dopo anni di lavoro come domestica in una famiglia benestante, è stata licenziata
appena i padroni hanno scoperto
che viveva nella favela... E tante altre
storie di discriminazione, attuate anche da parte del governo e istituzioni, che non permettono ai bambini
di studiare, di essere protetti, di avere un futuro e sperare nelle minime
opportunità.
Con fierezza ci racconta come la
Caritas tedesca l’abbia mandata a
Brasilia in aereo, lei, donna senza istruzione sempre vissuta nella favela, per denunciare davanti al governo le condizioni in cui vive la sua
gente e rivendicare i diritti basilari.
ella nostra visita siamo accolti in un’abitazione dove si
consuma un altro dramma di
sofferenza e disperazione. Un genitore, rimasto solo con due bambini
piccoli, dopo aver perso la moglie e
le figlie in morti violente, è costretto
N
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BRASILE
Vania, la nostra guida nella favela.
Suore di San Giuseppe di Pinerolo,
presenti a Joaquim Gomes:
da sinistra, suor Maria Teresa,
suor Rosa e suor Daniela.
Giovani del gruppo di Piossasco
al lavoro in un progetto delle suore
Giuseppine in Brasile.
a sprangare la porta della baracca
per impedirne l’entrata alla figlia di
12 anni, poiché la ragazza, che vive
in strada, ogni volta che torna a casa
cerca di portare via qualcosa, oggetti o alimenti, per scambiarli con una
dose di droga*.
Prima di lasciare la favela e salutare le frotte di bambini che ci hanno
seguito nella nostra visita, ci aspetta
l’incontro più inatteso. Nell’ultima
baracca in cui siamo invitati a entrare ci attende infatti l’impatto con il
paradosso più grande dell’amore
materno, un incontro che, pur passando attraverso i nostri occhi, rimane incredibile per i nostri schemi
mentali, sviluppati in un mondo che
da qui sembra ancora più distante.
Sdraiato per terra, su un sottile
pezzo di gommapiuma, Thiago, un
ragazzo di 13 anni, ci accoglie subito
con un sorriso di felicità, ma il suo
sguardo è perso nei drammi di una
vita bruciata da droga e violenza. Un
suo polpaccio è avvolto da una
grossa catena, chiusa con un lucchetto, che lo tiene legato al tavolo
di casa.
La madre è al suo fianco e ci spiega che sono ormai venti giorni da
quando ha deciso di tenere il figlio
così legato per cercare in qualche
modo di salvargli la vita. Thiago aveva solo nove anni quando cominciò
a fare uso di crack e a essere coinvolto nei traffici di droga; ora, minacciato di morte a causa di conflitti e lotte
tra bande, la sua vita è a rischio.
La madre è sicura che se il figlio uscisse di casa, sarebbe ucciso in brevissimo tempo. Per proteggerlo e
per allontanarlo dalla droga, ha
chiesto aiuto ai servizi sociali, ma
non ha ricevuto alcun aiuto; per cui
ha messo in atto una soluzione così
drastica, già usata con la sorella e
sperimentata da altre madri nella favela verso i propri figli.
Thiago ci racconta col sorriso in
faccia la sua vita e, salutandoci, augura a se stesso di poterci vedere
ancora; ci confida che vorrebbe andare in giro per il mondo, ma ammette con le sue stesse parole che
tutto ciò rimarrà nei suoi sogni, confessando di essere ben consapevole
che o a causa della droga o per mano dei suoi nemici la sua vita sarà
davvero breve.
n ragazzo così giovane, ma
con occhi e sogni privi di speranza, richiama alla mente
tutti gli altri contrasti e sofferenze
incontrate nella breve esperienza in
Brasile. Il suo volto rimarrà scolpito
in modo indelebile nei nostri ricordi,
insieme al senso di impotenza e ingiustizia che si prova di fronte a certi
drammi.
Eppure il sorriso di Thiago ricorda
anche l’impegno di tante persone,
come le suore Giuseppine e la signora Vania, che continuano nel loro servizio per dare vita e speranza a
chi rischia di perderla, a chi non ne
ha mai potuto godere pienamente,
a chi, ancora così giovane, di tutto
questo è stato derubato. ■
U
* La ragazza di cui si parla è rimasta uccisa
in una rissa fra ragazzi di strada alla fine
di novembre 2008.
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MEDIO ORIENTE
di Biancamaria Balestra
«Popoli e chiese dell’oriente cristiano»
Da più parti il cristianesimo è considerato
essenzialmente occidentale, dimenticando le
antiche comunità cristiane fiorite nel Vicino Oriente,
prima dell’espansione islamica. Il volume «Popoli
e chiese dell’oriente cristiano» di Aldo Ferrari* vuole
riparare a tale dimenticanza, presentando la loro
tradizione storica e spirituale, la difficile situazione
attuale di alcune chiese orientali, che rischiano
di scomparire dalle loro sedi millenarie.
elle tre sedi patriarcali in cui
era suddivisa la chiesa delle
origini, due si trovavano sulla
riva orientale del Mediterraneo, nelle
città di Alessandria e Antiochia. Nulla
di strano che nei primi secoli della
nostra era il cristianesimo fosse vivo
soprattutto in prossimità dei luoghi
che avevano visto la predicazione di
Gesù e da cui era partita l’azione evangelizzatrice degli apostoli. Proprio dalla Palestina il nuovo credo si
era irradiato lungo le strade dell’Impero Romano, fino ai suoi estremi
D
confini, e vi aveva trovato rapida diffusione, favorito da un clima culturale ricettivo, dalla tolleranza verso gli
«dei stranieri», dall’ordine e dalla
convivenza pacifica che la pax romana garantiva.
È, invece, più difficile da capire perché il cristianesimo occidentale abbia finito per oscurare la memoria
della chiesa orientale, da cui esso ha
tratto le proprie origini. Ben venga,
dunque, la nuova monografia curata
dal professor Aldo Ferrari, Popoli e
chiese dell’oriente cristiano, che dà la
Sua beatitudine Gregorio III Laham,
patriarca greco-cattolico melkita
di Antiochia e di tutto l’Oriente,
di Alessandria e di Gerusalemme
(sopra), mentre celebra l’eucaristia
nella basilica di Santa Maria in
Cosmedin (a sinistra).
possibilità di approfondire le ragioni
di quest’oscuramento e riscoprire il
patrimonio spirituale e culturale che
in duemila anni la cristianità orientale non ha cessato di esprimere.
Pur necessariamente incompleto,
CHIESE VULNERABILI
A RISCHIO ESTINZIONE
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MEDIO ORIENTE
Incontro tra il patriarca Zakka I
(rosso), capo della chiesa ortodossa
siriana, il catholicos Aram I (nero),
capo della chiesa ortodossa
armena, e abuna Paulos (bianco),
leader spirituale della chiesa
ortodossa etiopica.
per la difficoltà di contenere nello
spazio di un volume la storia delle
numerose comunità cristiane d’oriente, il panorama che ci è qui offerto si presenta di una sorprendente
varietà: comprende le chiese copta
ed eritrea in Africa, le chiese melkita,
ortodossa e cattolica, e maronita nel
vicino Oriente, la chiesa sira occidentale, ortodossa e cattolica, e sira orientale, assira e caldea, in Mesopotamia e Iran, le chiese armena, apostolica e cattolica, e georgiana ortodossa
nel Caucaso.
LA FRATTURA DOTTRINALE
Come emerge chiaramente dalle
pagine del volume, il quasi oblio in
cui sono cadute le chiese orientali
nella coscienza dei cristiani d’occidente si può spiegare con due ordini
di ragioni: interne ed esterne alla
chiesa.
I primi secoli videro la chiesa, ancora unica e indivisa, impegnata in un
intenso dibattito volto a stabilire i
fondamenti del credo cristiano. Nel IV
secolo fu affrontata la questione trinitaria e si arrivò a definire la formula
della consustanzialità delle tre Persone. Già allora si corse il grave rischio
di una spaccatura interna, a causa del
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Nerses Bedros XIV, patriarca armeno
cattolico del Libano.
consenso suscitato dalle tesi del prete alessandrino Ario, il quale non riconosceva al Figlio una natura uguale a quella del Padre. Questo pericolo
fu evitato con la convocazione del
primo concilio ecumenico a Nicea
nel 325.
Non altrettanto felice fu l’esito delle controversie cristologiche, che nel
V secolo contrapposero le scuole teologiche di Antiochia e Alessandria. La
definizione dogmatica della duplice
natura di Cristo, divina e umana, fu
materia dei due concili di Efeso e Calcedonia, dove si scontrarono posizioni teologiche diverse. A Efeso, nel
431, fu condannato il patriarca Nestorio, che aveva portato alle estre-
me conseguenze la teologia duofisita della scuola di Antiochia e chiamava Maria madre di Cristo, ma non madre di Dio. Il concilio di Calcedonia,
20 anni più tardi, si concluse con la
riabilitazione della scuola di Antiochia e la condanna della dottrina
professata da quella di Alessandria.
Le diatribe cristologiche ebbero la
nefasta conseguenza di aprire una
frattura, non solo tra Oriente e Occidente, ma anche nella stessa cristianità orientale, che si divise in efesina
e non efesina, calcedonese e non calcedonese. Non efesini sono i cristiani
che fanno riferimento alla chiesa sira
orientale, non calcedonesi sono i siri
occidentali, gli armeni, i copti e gli eritrei. La «grande chiesa», cioè quella
di tradizione calcedonese, sia greca
che latina, chiamò nestoriani i primi e
monofisiti i secondi, termini che, oltre
a essere imprecisi, sono percepiti come offensivi dai diretti interessati.
Oggi si è fatta strada la coscienza
che quelle controversie nacquero più
a causa di fraintendimenti nell’uso e
interpretazione dei termini teologici,
che di vere e proprie divergenze nel
modo di concepire la natura di Cristo.
«In realtà, il linguaggio teologico delle due scuole era profondamente diverso e questo impediva una reale
comprensione delle reciproche posizioni» leggiamo nel saggio di Paola
Pizzi sui cristiani melkiti; mentre Alessandro Mengozzi, autore del saggio
sulla chiesa sira, parla di una «frattura
linguistica, culturale e politica tra il
centro dell’impero bizantino e regioni periferiche, ma culturalmente e socialmente vivaci, come l’Egitto, la Siria, la Mesopotamia o l’Armenia».
E cita un passo di un teologo siro
occidentale, che nel XIII secolo scriveva, con una perspicacia davvero sorprendente: «Dopo aver molto ponderato il problema, mi sono convinto
che queste dispute dei cristiani fra loro (sulla cristologia) non riguardano
nulla di sostanziale, ma piuttosto sono questioni di parole e termini, perché tutti confessano che Cristo nostro Signore è Dio perfetto e uomo
perfetto, senza commistione, mescolanza e confusione delle nature».
Dopo sette secoli questa stessa
convinzione ha ispirato le dichiarazioni congiunte di fede firmate da
Giovanni Paolo II e dai patriarchi della
chiesa sira occidentale e della chiesa
d’Oriente. Purtroppo, quelli che noi
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MISSIONI CONSOLATA
Beirut, chiesa greco ortodossa
di san Giorgio.
ora giudichiamo equivoci dovuti a
consuetudini linguistiche diverse sono stati fonte di molti mali per i cristiani tutti. La presunzione di eresia
ha inquinato i rapporti tra le chiese,
aprendo un profondo solco d’incomprensione tra le diverse sponde del
Mediterraneo.
Rende bene l’idea di quali siano
state le conseguenze di questa divisione il fatto menzionato da A. Camplani e A. Elli nel saggio sulla chiesa
copta. Essi ricordano che, dopo aver
tolto la Palestina ai musulmani, i crociati confiscarono i beni dei cristiani
orientali, che consideravano eretici, e
impedirono loro l’accesso ai luoghi
santi. Quando nel 1187 i crociati furono sconfitti dal Saladino e costretti
ad andarsene, «i copti accolsero con
gioia la riconquista di Gerusalemme,
perché veniva così loro concesso di
riprendere, dopo quasi 90 anni, i pellegrinaggi al Santo Sepolcro».
LA CONQUISTA ISLAMICA
Alla frattura dottrinale, nel VII secolo
si aggiunse quella causata dalla conquista araba. Questa volta fu l’intervento di una forza esterna a dividere
tra loro le comunità cristiane. Il continuo stato di belligeranza tra la nuova
potenza araba e l’Europa rese ancora
più difficili i contatti tra una parte e
l’altra del Mediterraneo, quando non
li interruppe del tutto, e finì per isolare l’Oriente dall’Occidente cristiano,
se si esclude il breve e controverso intervallo dei regni crociati.
Dalla metà del VII secolo, i cristiani
che vivevano nei territori dell’Impero
Romano d’Oriente, con l’eccezione
della penisola anatolica, si trovarono
soggetti a un potere teocratico, quello dei califfi, che assegnava loro una
condizione d’inferiorità rispetto ai
sudditi musulmani. Anche se ciò, in linea di principio non significava il divieto del culto, essere, o meglio, rimanere cristiani diventava oneroso, e
non solo perché si era gravati di
maggiori tasse rispetto a coloro che
si erano convertiti all’islam.
Il rapporto tra le comunità cristiane
e le autorità registrava continui alti e
bassi: a periodi di convivenza pacifica
si alternavano periodi di discriminazione, se non di vera e propria perse-
cuzione. Ciò spiega la progressiva erosione del numero dei cristiani in
terra islamica. Alla vigilia della conquista ottomana essi costituivano ormai meno del 10% della popolazione.
Paradossalmente, fu proprio l’arrivo degli ottomani, che fino alla fine
del XVII secolo furono percepiti dalla
cristianità occidentale come una minaccia alla sua sopravvivenza, a migliorare la vita dei cristiani in Oriente.
Sulla vita delle comunità cristiane
influì positivamente il sistema dei
millet istituito dal governo ottomano.
Si trattava di una forma di autogoverno, che concedeva alle comunità religiose, ufficialmente riconosciute dalla Sublime Porta, una considerevole
autonomia amministrativa. Questa
nuova forma di organizzazione sociale diede ai cristiani maggiore stabilità
e garanzie nei rapporti con le autorità islamiche e contribuì a una notevole ripresa demografica all’interno
delle loro comunità.
RESISTENZA E ISOLAMENTO
Per i siri orientali l’isolamento dal
resto dell’ecumene cristiano iniziò
molto prima del VII secolo. La chiesa
sira ebbe origine a Edessa, nell’alta
Mesopotamia. In questa città già nella seconda metà del II secolo è documentata la presenza di una vivace
comunità cristiana, che si contraddistingueva per l’uso liturgico di una
variante locale di aramaico.
Edessa si trovava all’estrema periferia dell’Impero Romano e una parte
della comunità sira, quella orientale,
che prese poi il nome di «Chiesa d’OMC GENNAIO 2009
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MEDIO ORIENTE
A sinistra, Aleppo, cattedrale
maronita.
A destra, mons. Paulos Faraj Rahho,
arcivescovo caldeo di Mosul (Iraq),
rapito da milizie islamiche
e trovato ucciso il 12 marzo 2008.
riente», si trovò ben presto a svilupparsi all’esterno dei suoi confini, nelle
terre dei persiani, arcinemici di Roma.
Ciò rese difficili i contatti con gli altri
centri cristiani e ostacolò la partecipazione dei rappresentanti di questa
comunità ai concili ecumenici. Costretta a contare sulle sue sole forze,
la Chiesa d’Oriente si organizzò in totale autonomia, nella fedeltà al legame originario con la scuola di Antiochia e alla sua teologia duofisita.
Nonostante la precarietà in cui visse, seppe produrre uno straordinario
slancio missionario, che portò i suoi
monaci lungo le strade carovaniere
fino in India, in Asia Centrale, in Mongolia e in Cina. Si pensi, ad esempio,
che la fondazione della prima chiesa
sira a Ch’ang-an, capitale della dinastia cinese dei T’ang, nonché punto di
partenza della via della seta, risale al
638. Erano proprio gli anni in cui l’Impero Bizantino, da una parte, e quello
persiano, dall’altra, stavano per essere
travolti dalle schiere arabe.
Anche nei pochi casi in cui i cristiani in Oriente non si trovarono in condizione di minoranza tra fedeli di altre religioni, il loro destino non è mai
stato facile. Le chiese etiope, armena
e georgiana hanno rappresentato
delle isole di cristianesimo in territori
sempre più islamizzati.
Grazie alla sua posizione remota,
lontana dal Mediterraneo e dalle
grandi vie di passaggio, l’Etiopia riuscì a contenere l’espansione dell’islam, a prezzo, però, di un isolamento
durato secoli. In Armenia e in Georgia il cristianesimo si affermò come
religione nazionale dal IV secolo e si è
mantenuto tale fino ai nostri giorni,
ma ha dovuto opporre una strenua
resistenza alla pressione dei vicini
musulmani, cui gli armeni e, in parte, i
georgiani, furono anche soggetti politicamente. La storia del cristianesimo in queste terre presenta un pesante bilancio di violenze e martirio.
RISCHIO ESTINZIONE
Leggendo questo volume, pagina
dopo pagina, ci si rende conto di cosa abbia voluto dire essere cristiani in
oriente. Rimanere nella chiesa è stata
per gli orientali una scelta impegnativa, scomoda e mai scontata, ha
spesso voluto dire vivere in condizioni d’inferiorità, con diritti limitati e limitate possibilità di sviluppo. Nonostante questo essi hanno saputo custodire intatta la propria fede e la
bellezza delle loro liturgie.
La chiesa occidentale non può ignorare questo prezioso patrimonio
di spiritualità, se non a prezzo di un
suo enorme impoverimento. Il secolo
precedente ha fatto molto per il riavvicinamento tra le chiese, non solo
nella ripresa di contatti tra le gerarchie, ma anche in termini di reale conoscenza reciproca, dopo secoli di silenzi. Tuttavia, molto rimane da fare.
L’orizzonte dell’Occidente rimane
ancora troppo autoreferenziale, e i
Bodbe (Georgia), chiesa del
monastero ortodosso dove sono
conservate le reliquie di santa Nino,
evangelizzatrice della popolazione
georgiana.
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MISSIONI CONSOLATA
Mons. Dinkha IV, patriarca della
Chiesa assira orientale, inaugura
una scuola per cristiani assiri
emigrati in Usa.
cristiani non fanno eccezione, siano
essi capi di stato o semplici cittadini.
Spesso nelle questioni che riguardano l’Oriente, gli occidentali si muovono senza considerare quali conseguenze i loro interventi possono avere sul difficile equilibrio tra le
minoranze cristiane e le società in cui
sono inserite.
Quando papa Giovanni Paolo II
chiedeva accoratamente che al popolo iracheno fosse risparmiata l’esperienza di un’altra guerra, pochi capivano che il suo sguardo era rivolto
con particolare preoccupazione alle
comunità cristiane del Medio Oriente. Egli sapeva bene, infatti, che un
conflitto avrebbe avuto su di loro
gravi conseguenze, perché i cristiani
sono visti come alleati dell’Occidente, con cui condividono la fede. La
guerra ha provocato un vero e proprio esodo dei cristiani dall’Iraq e ne
ha in pochi anni dimezzato la presenza nel paese.
Anche in condizioni di pace, i cristiani in Oriente rimangono a
Battesimo di un bambino,
per immersione, nella comunità
cristiana ortodossa a Toronto
(Canada).
tutt’oggi un gruppo sociale tra i più
vulnerabili. Le tensioni internazionali
e quelle interne ai rispettivi paesi si
ripercuotono in modo particolare
sulle loro comunità, spingendo molti
a emigrare.
L’emigrazione verso l’Occidente, iniziata già a fine Ottocento, ha assunto in questi ultimi decenni proporzioni sempre maggiori ed è difficile
prevedere un’inversione di tendenza,
finché permangono le condizioni
che spingono i cristiani ad andarsene: mancanza di libertà, mancanza di
sicurezza personale e precarietà economica.
Il fenomeno è tale da far pensare
all’estinzione dei cristiani, almeno in
Medio Oriente. Se ciò accadesse sarebbe una perdita incalcolabile, non
solo per il cristianesimo, ma anche
per la stessa civiltà islamica, cui i cristiani hanno dato un contributo unico, nelle arti, nella letteratura, nel
pensiero e nella modernizzazione.
Ci sarà, dunque, un futuro per le
chiese in Oriente? È la domanda con
cui si concludono alcuni dei saggi.
Per i loro autori, come per chiunque
abbia conosciuto e incontrato la
realtà di queste chiese, pare impossibile che tutto ciò possa sparire. E allora si trova conforto nel loro passato,
che le ha condotte fino a noi, pur tra
infinite e dolorose prove; si trova
conforto nei piccoli segni di cambiamento, che sembrano far intravedere
l’avvento di tempi più benigni.
Ma anche questo non sarebbe
niente, se non ci fosse la speranza,
«forse la più mondana delle virtù
teologali, quella intrecciata per natura alle vicende storiche di questo
mondo e destinata con la fede a spegnersi a favore della carità nel mondo a venire» (A. Mengozzi). ■
*Aldo Ferrari, curatore del volume «Popoli e chiese
dell’oriente cristiano» è professore di lingua e letteratura armena presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, responsabile del Programma di ricerca CaucasoAsia centrale dell’Istituto di studi di politica internazionale (Ispi) di Milano.
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Sta scritto (24).qxd:63- Sta scritto-Aprile
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Così sta scritto
a cura di
Paolo Farinella
(LC 24,46)
biblista
DALLA BIBBIA LE PAROLE DELLA VITA (35)
LA PARABOLA DEL «FIGLIOL PRODIGO» (24)
«DIO È AMORE»
(Mt 23,26)
«Ridammi la gioia della tua salvezza e rendimi stabile in uno spirito risoluto»
C
(Sal 51/50,14)
oncludiamo il nostro lungo cammino in compagnia dell’evangelista Luca, il quale da par suo ci
ha fatto conoscere profondamente cinque personaggi: un padre sconfinato che non esita a dare la vita per
i figli; il figlio minore, sognatore e irrequieto, ma senza una propria progettualità tanto da finire subito in fallimento; il figlio «anziano», apparentemente tutto dolce e
obbediente, ma nel suo cuore è tragico senza possibilità
di redenzione; la persona di Gesù, che non smentisce la
sua natura di rivoluzionario delle convenzioni religiose e
sociali del suo tempo; e infine noi stessi, noi lettori, che
dopo questo viaggio «dentro» la parabola del cosiddetto
«figliol prodigo», non possiamo rimanere gli stessi di
quando abbiamo cominciato.
Ripercorriamo brevemente il cammino fatto con Luca e
la sua parabola. Siamo partiti da alcune domande poste
da un lettore: «Da dove Lc ha attinto questa parabola, non
essendo apostolo? Come spunta questa meravigliosa “perla”, visto che è esclusiva di Lc e non compare negli altri evangelisti? L’ha pronunciata veramente Cristo?».
Le domande sono radicali e dimostrano la poca frequenza, oltre la lettura di prassi, con la complessità della
formazione dei vangeli e del NT. Un dato è certo: i cattolici conoscono poco, pochissimo, quasi niente le sacre
scritture, che dovrebbero essere il fondamento della loro
fede. Essi, infatti, sono molto religiosi, ma scarseggiano
di fede e di conoscenza. Officiano, senza amare.
PUNTO DI ARRIVO E DI PARTENZA: DOMANDE PERSONALI
Di fronte a tali presupposti abbiamo proposto una carrellata veloce sulla formazione dei vangeli, spiegando che
i vangeli non sono nati per tramandare aneddoti su Gesù,
ma sono stati «predicati» per fare conoscere Gesù ai propri contemporanei. Da questa predicazione orale, fatta da
persone innamorate di Gesù, sono nati i primi scritti come elenchi di miracoli, di parabole, di detti o sentenze ad
uso in genere dei catechisti e dei predicatori.
Questi documenti sparsi giravano per le chiese e cominciarono a essere abbinati come «Parola di Dio» alla
lettura dell’AT nelle assemblee eucaristiche. A circa 30
anni dalla morte di Gesù, quando ormai Paolo aveva valicato i confini della Palestina e fondava chiese nell’attuale Turchia e in Grecia, l’evangelista Marco, per primo,
inventa un genere letterario nuovo che chiama «vangelo»,
preso più tardi a modello da altri due progetti pensati da
Matteo e da Luca. Nascono così i vangeli «sinottici» perché se si mettono in colonne affiancate Marco, Matteo e
Luca, si possono leggere simultaneamente o, come si dice in gergo biblico, in «sinossi» che significa «con un colpo d’occhio».
Lo schema dei vangeli «sinottici» è semplice: a) predicazione di Giovanni Battista; b) predicazione e attività di
Gesù, prima in Galilea e poi in Giudea/Gerusalemme; c)
passione, morte e risurrezione di Gesù. A questo schema,
in epoca successiva, Mt e Lc aggiungono i primi due capitoli dei rispettivi vangeli che si chiamano in blocco
«vangeli dell’infanzia», perché trattano di Gesù Bambino,
ma visto e descritto alla luce della pasqua già avvenuta.
L’evangelista Gv non segue questo schema, ma si pone
su un piano più teologico, perché fa emergere una «cri-
La parabola del figlio prodigo, infatti, penetra nel midollo della nostra anima e ci scarnifica fino all’osso come
una spada tagliente (cf Eb 12,4). La lettura e il commento che abbiamo fatto ci obbligano a una presa di posizione personale nei confronti di Dio e dei nostri stili di vita. Le domande sono individuali. Chi è Dio «per me?». Il
comportamento del padre che perdona senza chiedere in
cambio nulla, un perdono gratuito, senza condizione mi
scandalizza oppure mi rivela un «volto nuovo» di Dio che
prima non immaginavo? Ritengo che il comportamento
del padre sia «ingiusto» secondo i miei criteri della giustizia che spesso si avvicina fino a confondersi con la vendetta? A quale dei personaggi della parabola mi trovo più
vicino? Per quali motivi? Ha senso la mia pratica religiosa, dopo avere vissuto questa parabola dal punto di vista
del padre/Dio?
Tutte queste domande e molte altre ancora tracimano
dentro di noi perché la parabola lucana è uno spartiacque tra il «dio-idolo», che a volte ci costruiamo per giocare a fare i religiosi, e il «Dio-Misericordia» che trancia
la logica umana, esigendo da noi uno stile di vita divino,
in forza del principio evangelico: «Siate perfetti come è
perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48).
Il cristianesimo è tutto qui: non è una morale, né un sistema di pensiero, né un’organizzazione, né una religione, ma è solo una «imitazione» che si trasforma in simbiosi
di vita e prospettiva con una Persona. Se non impariamo
nei nostri rapporti, contatti, pensieri, parole, ideali, atteggiamenti, ad agire come Dio, la nostra religiosità è un
francobollo da cui è evaporata la colla.
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CONOSCERE LA SCRITTURA E IL SUO CAMMINO
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stologia» alta: Gesù infatti fa lunghi discorsi che sono inverosimili storicamente, mentre sono essenziali per il
progetto di Gv che ci presenta Gesù, l’uomo di Nazaret,
come il «Lògos» eterno incarnato nella storia.
Dopo questa premessa essenziale e didascalica, abbiamo parlato del capitolo 15 di Lc, che riporta tre parabole secondo le bibbie ordinarie, mentre abbiamo dimostrato che le parabole sono due, di cui la prima quella del
pastore è ripetuta anche in versione femminile (la donna
che perde e trova la moneta). Il capitolo 15 di Lc è uno
spartiacque, il vertice di tutta la rivelazione del NT, dopo
l’affermazione giovannea che «Il Lògos-carne/fragilità fu
fatto» (Gv 1,14). Successivamente abbiamo presentato i
protagonisti della parabola con una breve scheda storica
dei pubblicani, scribi, farisei e sinedrio che fanno da
sfondo e da pretesto alla parabola.
LUCA 15: UNA NUOVA PROSPETTIVA
Infine, abbiamo avanzato l’ipotesi, che ci sta a cuore e
di cui siamo convinti: il capitolo 15 di Luca, compresa
quindi la parabola del figliol prodigo, non è una invenzione di Lc, ma è un «midràsh» del capitolo 31 di Geremia. Abbiamo spiegato che il midràsh è un modo giudaico di esegesi che si basa sul principio che la scrittura si spiega
con la scrittura. Lc prende il testo
del profeta Geremia che appartiene all’AT e lo commenta non
con un altro testo dell’AT, ma con
due parabole messe in bocca a
Gesù, dicendoci così che la parola di Gesù è sullo stesso piano
dell’AT: è Parola di Dio.
Gesù ha parlato ai suoi uditori
di pecore, di monete e di figli: ne
abbiamo molti esempi nei vangeli; ma nella forma espressa da Lc,
l’intero capitolo è una costruzione per tradurre in forma cristiana
il capitolo 31 di Geremia che parla di un pastore, di una donna e di
due figli.
Il contesto di Geremia è «la
nuova alleanza» (Ger 31,31) che è
la chiave di comprensione di tutta la vita di Gesù. Egli porta la novità di un Dio che trasforma la vendetta in perdono, l’esclusione in inclusione, l’emarginazione in elezione, il
peccato in grazia, il rifiuto in accoglienza. La novità riguarda anche la religione: dagli atti esterni di culto pubblico o privato si passa all’adesione del cuore, all’etica
dell’intenzione, alla purezza del cuore, al perdono senza
condizione.
In MC (Luglio/agosto 2006) scrivemmo: «Lc 15 è dunque un midràsh di Ger 31 o, se si vuole, una omelia che
commenta il testo profetico. La comunità cristiana delle
origini prima e Lc successivamente hanno riletto il capitolo 31 del profeta Geremia con gli occhi fissi su Gesù,
tanto che l’evangelista nel redigere il capitolo, ha mante-
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nuto lo stesso ordine dei personaggi come si trovano nel
profeta: un pastore, una donna, un padre con un figlio.
Per potersi rendere pienamente conto di quanto profondo e attualizzante sia il rapporto tra Lc 15 e Ger 31, è necessario leggere il testo del profeta Geremia e quello di
Lc in sinossi, cioè in modo speculare»: nello stesso numero mettemmo a disposizione dei lettori i due testi a
confronto per vederne somiglianze e differenze.
Noi cattolici siamo abituati a leggere il vangelo e il NT
in genere con la nostra mentalità occidentale latina, senza alcun riferimento, se non in forme marginali, all’ambiente vitale dove questi scritti sono nati, sono stati pensati e sono stati messi su pergamena.
IL GIUDAISMO, AMBIENTE VITALE DEL VANGELO
A questo scopo, abbiamo insistito molto nel dire che
corriamo il rischio di non capire il 90% del vangelo se ci
limitiamo a leggerlo con le nostre categorie culturali e
non ci sforziamo di situarlo nel suo ambiente vitale, culturale e religioso del suo tempo. Gesù è un ebreo, Maria
è un’ebrea, Giuseppe è un ebreo della stirpe di Davide,
gli apostoli sono ebrei osservanti, i primi cristiani sono
ebrei figli di Abramo: non possono non pensare e non esprimersi da ebrei. Essi conoscono non solo la scrittura ebraica,
che è Toràh, i Profeti e gli Scritti
(corrispondenti ai nostri Sapienziali), essi conoscono anche e
specialmente la «bibbia orale»,
che è tramandata solo oralmente
attraverso la predicazione e la sinagoga con i Targum e i Midràsh.
Affinché non andasse perduta,
la maggior parte della predicazione orale fu messa per iscritto durante la diaspora tra il sec. II e il
sec. VI d.C., ottenendo così i testi
che conosciamo con il nome di
Mishnàh, Talmud, Tosèphta,
Ghemarà, che riportano i commenti alla scrittura di tutti i saggi
d’Israele dal sec. III a.C. al sec. VI
d.C. È un materiale immenso, certamente tardivo, ma che contiene
materiale anche antico da valutare di volta in volta. Noi cattolici
non conosciamo quasi nulla di tutto questo e spesso ci
scandalizziamo, perché consideriamo il NT un frutto del
tutto avulso dal mondo che lo ha generato e partorito.
Finché non si ritornerà alla bibbia come libro fondamentale della nostra fede, basato nel contesto giudaico,
il nostro cristianesimo sarà molto superficiale e anche
falsato.
Abbiamo presentato la parabola, cercando di evidenziarne il vocabolario peculiare, mettendo in risalto il
comportamento del padre che riflette il modo di essere
di Dio nei nostri confronti. S’è scoperto che il figlio maggiore è rappresentativo del mondo farisaico, che rigetta
Gesù per difendere il proprio potere, e che il figlio mi-
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nore ha tutte le caratteristiche dei pubblicani. Come
questi, anche il minore non è giustificabile, ma nella logica della parabola non è determinante che egli chieda
perdono, come spesso si legge nei commenti e negli usi
liturgici di questa parabola, perché il cuore della pagina
non è il figlio minore o maggiore, ma è l’accoglienza del
padre/Dio, che previene i figli al di là dei loro meriti.
In sostanza abbiamo visto che il significato ultimo della parabola è la tenerezza di Dio, che si commuove fino
alle viscere se vede un figliolo che si sta perdendo in «un
paese lontano»: egli allora spinto dal suo viscerale amore
senza fondo e senza confini, perde se stesso pur di guadagnare il figlio/figli. Alla fine abbiamo scoperto con amarezza che riesce nel caso del figlio minore, ma fallisce
nel caso del figlio maggiore.
dell’opportunismo, del comportamento cioè di chi trama nell’acqua senza mai esporsi. Egli ha goduto, almeno
crediamo di averlo bene chiarito, della partenza del figlio
e già faceva i calcoli della «sua roba» alla morte del padre
che aspettava con ansia. La sua vita è rovinata dal padre
che accoglie il fratello e, come è stato assente per tutta
la sua vita dalla vita del padre, così alla fine egli resta fuori del banchetto e non può indossare l’abito delle nozze.
Egli che è rimasto sempre in casa, di fatto era partito da
un pezzo ed era rimasto lontano, molto più lontano del
paese dove è andato a gozzovigliare il fratello; il minore
invece, andato fisicamente via da casa, è tornato perché
nel suo cuore, anche a sua insaputa, era rimasto legato
al padre di cui aveva inconsciamente nostalgia.
LETTURA SCIENTIFICA E INSEGNAMENTO SPIRITUALE
Abbiamo pure visto concretizzarsi la «legge» biblica del
ribaltamento delle posizioni codificato nel Magnificat di
Maria e la «legge della sostituzione» che percorre la bibbia dalle origini alla fine: l’ultimo prende il posto del primo e il secondogenito subentra nell’asse ereditario al primogenito. Strano e illogico, secondo i parametri umani,
il Dio che è delineato nella parabola del figlio prodigo!
Egli è un Dio senza dignità e senza rispetto per se stesso, perché, travolgendo ogni costume sedimentato e ogni razionalità, si «mette a correre» per venire incontro a
chi non ha più speranza, a chi è morto e bandito dalla società e dalla religione. Egli è un Dio senza pudore che abbandona il tempio, le chiese, conventi e monasteri, dove
i figli sono al sicuro e corre per le strade del mondo a cercare la pecora smarrita, la moneta perduta e il figlio traviato. A buon diritto il lettore può dire: egli viene per me.
Un’attuazione pratica della parabola si ha nell’eucaristia, che è il commento sacramentale, o «midràsh sacramentale», della parabola della tenerezza del Padre che trasforma la vita del Figlio unigenito in parola, pane e vino
perché i figli dispersi e smarriti possano rifocillarsi nell’ascolto, nel cuore e nel corpo per ritrovare il Volto di Dio,
che in Gesù si manifesta e rivela a noi come Padre/Madre.
È questo il senso ultimo della parabola della paternità
sconfinata che sa rigenerare, perché ama senza scopo e
senza interesse. Se dovessimo sintetizzare il capitolo 15
di Lc in una parola, non avremmo dubbi perché c’è una
sola parola, come ci suggerisce Paolo in 1Cor 13, e questa parola è «Agàpē», il nome nuovo del Dio di Gesù Cristo: «Dio è Agàpē» (Gv 1Gv 4,8) che tradotto alla lettera
si può rendere con «Dio è Amore a perdere».
Abbiamo impegnato 15 puntate per commentare i singoli versetti della parabola lucana, mettendo in evidenza
anche aspetti psicologici, oltre che esegetici, pastorali e
spirituali: il nostro commento infatti non voleva essere
solo un rendiconto asettico delle questioni letterarie o
testuali, ma un momento di valutazione anche della nostra vita alla luce della parola di Dio, più profondamente
compresa. Lo studio della bibbia più è scientifico più diventa spirituale, perché dandoci il senso genuino del testo scritto, ci permette di entrare nel messaggio autentico della rivelazione.
All’interno del commento abbiamo imparato il significato del vitello grasso, il cui sacrificio ristabilisce i termini dell’alleanza qui tra figlio e padre e in termini più generali l’alleanza che in Gesù si stipula tra l’umanità e Dio,
fermo restando il mestiere per eccellenza di Dio che è la
misericordia. «I sandali, la tunica e l’anello» ci hanno svelato il senso nascosto nella tradizione giudaica di reintegro nell’eredità materiale, nella dignità personale e nell’identità filiale; siamo così arrivati a scoprire il capovolgimento delle situazioni di partenza: il figlio che ha chiesto la vita del padre per poterla sperperare nella dissolutezza e nell’impurità (paese lontano) ora si ritrova immerso in quella stessa vita che lo ha salvato dall’inferno
della dannazione (porci) e dalla presunzione di se stesso.
LA CONVERSIONE INTERESSATA
Troppa retorica si è fatto attorno al figlio prodigo e alla sua conversione, tanto che è diventato un classico, durante la quaresima, imbastire una liturgia penitenziale
dove lo si prende a modello di conversione e di pentimento. Il figlio minore invece è motivato dalla «necessità
di sopravvivere» e la sua conversione, se c’è, avviene dopo, nel silenzio della parabola, quando il padre lo fa entrare nella sala del banchetto con la veste nuziale che gli
cambia l’aspetto e quello che più conta il cuore. Ancora
una volta è il padre il perno di ogni movimento.
Abbiamo anche ridimensionato drasticamente il figlio
maggiore, verso il quale si è di solito più indulgenti, perché apparentemente non ha mai dato dispiaceri al padre,
restando sempre in casa. Il commento ha evidenziato la
natura perversa di questo figlio, simbolo del fariseismo e
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GLI ULTIMI PRECEDONO I PRIMI
Nota. Dal prossimo numero cominceremo il commento al
racconto delle nozze di Cana, sempre in chiave del contesto
giudaico per scoprire il senso nascosto e poco conosciuto di
questo racconto che è un commento all’alleanza del Sinai e a
quanto l’ha preceduto.
Ricordiamo di nuovo ai lettori la raccolta dei primi due anni di
questa rubrica: PAOLO FARINELLA, Bibbia parole segreti misteri, Il
Segno dei Gabrielli Ed. 2008, € 13,00. Chiedere in qualsiasi libreria cattolica o direttamente all’Editore: tel. 045 7725543 fax 045 6858595; e-mail: [email protected].
In primavera sarà pubblicato un volume con tutta la parabola
del figlio prodigo.
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MISSIONI CONSOLATA
Reportage sulla cooperazione internazionale laica e religiosa
INSIDE TANZANIA
testo e foto di Romina Remigio
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n giornalista non è solo
un rigoroso traduttore
di informazioni, ma anche
un cantastorie. La voce di
chi non ha voce. Gli occhi di
chi non può o non vuole vedere. Ha la possibilità e la
capacità di potersi fermare.
Fermarsi a riflettere, osservare, parlare, ascoltare
e ascoltare. E questo ho
scelto di fare per sei mesi di
vita in Tanzania.
Il mio rapporto con il Tanzania è stato da subito viscerale. Il 15 dicembre 2007
la prima sensazione è stata
di soffocamento. Un vento
caldo, umido mi ha bloccato
le narici e i polmoni, ma il
cuore era tornato a casa.
«Inside Tanzania» non è solo un reportage. Ma un
esperimento di sei mesi di
vita a Mbagala, periferia di
Dar Es Salaam, e in altri
slum musulmano-integralisti, vivendo la quotidianità e
gli effetti della cura antiretrovirale su malati di
Aids/Hiv. Insieme. Come loro e con loro. Questo era il
mio obiettivo.
INTRODUZIONE
U
Dove gli aiuti... aiutano davvero
Pur disponendo di enormi risorse le
organizzazioni internazionali non riescono a
raggiungere risultati soddisfacenti sia nel campo
dello sviluppo che nella lotta all’Aids in Africa.
Missionari e missionarie, invece, con scarsissimi
aiuti e senza la ribalta mediatica, riescono a fare
autentici miracoli a favore della popolazione.
Lo evidenzia una giovane giornalista nel suo
documentario «Inside Tanzania», elaborato
in sei mesi di vita africana.
n progetto di reportage
U
nato nel luglio 2007
con la mia collega Alessandra Sinibaldi per indagare
come mai nonostante la mole mondiale di fondi stanziati da qualsiasi tipo di associazione, ente o struttura
grande e piccola per progetti in Africa, questa terra
continuasse a morire inesorabilmente. Un’inchiesta
sulla cooperazione internazionale decentrata e non,
laica e religiosa.
Avevamo passato un mese
a girare fotografando e lavorando senza freni. Interviste, riprese, traduzioni, visite, libri, incontri nei villaggi con musulmani, cristiani,
protestanti, malati, dottori
e scatti e scatti.
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Una scena caratteristica in una via di Mbagala, periferia di Dar Es Salaam.
S
ono tornata in Tanzania il 15
dicembre 2007, stavolta sola.
Alessandra ha dovuto subire
un intervento al ginocchio.
Il soggetto del reportage era lo
stesso: indagare come vengono investiti e impiegati i fondi internazionali per la cura dell’Aids. Ma per
fare ciò dovevo prima di tutto rendere «protagonisti», nel reportage
e nella mia vita, la gente dei villaggi. Dovevo diventare una di loro.
Rassicurarli e farmi conoscere.
Sono stanchi di essere fotografati da jeep cariche di bianchi, che
scattano per riportare a casa la foto del poverissimo africano. Ormai
è un rito per molti volontari di onlus o associazioni fare il cosiddetto «giro turistico» per i villaggi, mascherato anche dal termine «ecoturismo» ora estremamente di
moda, ma pochi sono gli esempi di
eco-turismo nel senso etimologico.
I masai sanno dai loro fratelli impiegati nei villaggi turistici e davanti a resort, rigorosamente vestiti con gli indumenti tradizionali
e costretti a scimmiottare la loro
cultura per affascinare il turista,
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MISSIONI CONSOLATA
BASTA MOSCHE
...SUGLI OCCHI
che molti bianchi realizzano foto
che poi vendono a riviste, quindi
vogliono essere pagati.
Per sei mesi con la gente
La maggior umiliazione per un
fotoreporter è pagare il suo soggetto. È la via più semplice e veloce per non instaurare nessun tipo
di contatto o fiducia, ma dalle foto
questa sensazione salta agli occhi.
Ho vissuto nella periferia più degradata, colpita da quella piaga
che sta «fucilando» l’Africa da de-
cenni. Senza acqua, senza luce, in
«case» con lastre di lamiera infuocate, dove solo delle coraggiosissime missionarie operano la loro
evangelizzazione. Nei campi, nelle moschee e madrase, davanti a
un piatto di polenta e fagioli e davanti a un piatto vuoto, su stuoie,
negli ospedali e nei dispensari.
Ho vissuto sei mesi della mia vita seguendo famiglie che mi hanno accettato come figlia, sorella e
amica, nella loro speranza di guerra all’Aids, scoraggiandomi e entusiasmandomi con e per loro. Vi-
vere sei mesi, nella stagione più
calda dell’anno, nella zona più calda, e satura di persone non è stato facile! Ma la voglia di raccontare attraverso la mia macchina e la
mia stessa pelle questo spaccato
di vita vera era più forte di qualsiasi malaria, malattia o paura.
Incontri con realtà... speciali
La curiosità, l’interesse giornalistico e, prima ancora, la voglia di
capire e raccontare mi hanno fatto girare gran parte del Tanzania,
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indagando e scoprendo le realtà
molteplici di cooperazione. Ho conosciuto realtà di fede profonda,
di ritmi di vita scanditi dalla parola di Dio.
Da un Dio che scuote il corpo e
la mente sostenendoti in lavori
massacranti di aiuto gratuito.
E ho visto realtà di egoismo e superficialità che sembrano giocare
con la vita delle persone e con i soldi dei fondi mondiali. Ho conosciuto anche grandi associazioni come
il «Cuamm», «Medici con l’Africa»,
il cui personale medico è attivo anche in strutture governative.
Uno di questi medici è Mario Bat-
tocletti, medico chirurgo, presso
l’ospedale governativo di Iringa, a
cui fa capo più di un milione di persone. Mario vive a Iringa con sua
moglie e i suoi tre bambini. Quando sono andata a casa sua, ho scoperto un grandissimo professionista con il sogno di lavorare in Africa e salvare vite. Ed è quello che fa
da mattina a sera, scontrandosi
con la realtà confusa e purtroppo
corrotta della società e dell’ospedale. Ma non si arrende.
Poi ci sono i laici
missionari e singoli volontari
che fanno tanto
In alto, suor Ida con la signora Anastasia, colpita
da fortissime febbri malariche, ricoverata
nell’ospedale di Mbagala, gestito dalle
missionarie della Consolata.
Mbagala: Dodo con
coraggio e forza di
volontà sfida e supera
il suo handicap
fisico.
e lo fanno senza rumore, ma con
creatività, ingegno e impegno. Più
osservavo, giravo, conoscevo, e
più sentivo che questo reportage
stava diventando una missione.
Una missione di informazione non
solo sul Tanzania, stato sconosciuto se non per la bellezza dei
suoi parchi e delle sue spiagge, ma
sul mondo dei missionari che operano in un continente a noi ancora
sconosciuto seppure ne siamo assuefatti.
Assuefatti all’idea che i media ci
hanno sempre proposto e continuano a propinarci, alla convinzione che come l’Iraq, l’Afghanistan, sono realtà irrisolvibili ma per
quali fattori? Perché? Conosciamo
solo il bimbo con la mosca nell’occhio e la pancia gonfia, la guerra in
Somalia, i bambini soldati, le violenze in Congo, Ruanda, Darfur e le
meravigliose spiagge di Zanzibar,
Pemba, Sharm e Marsa Alam!
Tra stereotipi e disinformazione
Chi conosce l’Africa (non me ne
vogliano i grandi esperti di geopolitica, cultura e tradizioni) è chi legge i giornali missionari che attraverso le voci, le testimonianze di
missionarie, missionari, volontari
e operatori di pace, che vivono
trenta, quaranta, settanta anni la
realtà, hanno la voglia e la pazienza di fermarsi ad ascoltare, aiutare e poi raccontare.
Chi vive la quotidianità dei
giornali, degli special televisivi ha imparato attraverso esponenti
del mondo dello
spettacolo, i
noti «ambasciatori»
a
donare un
euro attraverso l’sms
all’Africa che
non va mai
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avanti... a quell’Africa che muore
di fame sempre e comunque. All’Africa fatta di uomini e padri che
schiavizzano le mogli e i figli pur
di non lavorare, a un popolo che
muore di Aids perché superficiale
e poligamo.
E poi veniamo a scoprire che tutto il denaro mandato tramite sms,
per il Darfur o per le famiglie colpite dallo tsunami non è mai arrivato a destinazione. È bloccato in
una banca belga o svizzera, ma è
solo questione di tempo, recita la
smentita sui giornali, ma come
non c’era un’emergenza?
A me verrebbe da dire «tanto ci
sono i missionari che, attraverso
amici, parenti, benefattori e l’animazione, sono in grado di aiutare
la gente, anche senza milioni di
dollari!».
Allora due sono le cose o i missionari, avendo la corsia preferenziale di dialogo con Lui, riescono a
moltiplicare i soldi, come Qualcuno moltiplicava i pesci, o sono angeli straordinari prestati a noi comuni mortali per insegnarci a vivere.
E l’interrogativo dominante: «Ma
come mai, sono decenni che mandiamo, mandiamo e rimandiamo
soldi attraverso queste grandi associazioni e la situazione è degenerata in un’emorragia acuta? Il dato certo è che se ne sono sentite
tante. E la gente non si fida più o,
se si fida, è perché la comunicazione di quella associazione è stata fatta seguendo le teorie e le tecniche migliori della comunicazione di massa.
Una comunicazione che ha screditato e criticato in maniera velata
ma fin troppo efficace, per anni, la
cooperazione religiosa di congregazioni presenti da decenni che
dopo sessanta, settanta, cento anni ora sembrano non essere più in
grado di insegnare, curare e aiutare. Io da conoscitrice del mondo
giornalistico la spiegherei attraverso due fattori.
Primo fattore: sono religiosi. E in
Italia sappiamo che qualsiasi persona sia religiosa o legata alla chiesa, da sempre sinonimo di sfarzo
e di eccesso, non va più di moda.
Pensateci!
È vero che ci sono tanti laici che
hanno una fede profonda, ma se
siamo arrivati alla società attuale,
sarà colpa dell’economia che non
va, dei nostri governanti che non
sanno fare il loro lavoro, dei media
AMICA MZUNGU
tracci e persone, persone e stracci. Sporcizia, zanzariere bucate, muri neri, porte e finestre arrugginite. Mi ritrovo a scavalcare cadaveri.
S
Gente sui letti e gente sotto i letti, su stuoie o materassi finiti. Lamenti,
gemiti rauchi di chi non ha più voce. Occhi fuori dalle orbite che fanno
rumore. Ti fissano, ti cercano, vogliono toccarti, ti chiedono: perché? Corpi finiti, pelle tesa, giovani vite troppo malate. Non c’è futuro per loro. Sono tutti malati terminali di Hiv, ma per i loro cari saranno tutti morti di
diabete. Tuttora paura e discriminazione sono forti. E dire la verità è come vendere la pietà.
Esco dall’ospedale di Temeke, uno dei due ospedali governativi di Dar
Es Salaam, impotente. Gli occhi e le orecchie mi fanno male. Immagini di
sguardi, sorrisi e corpi si affollano nella mia mente. Alla mia missionaria
non servono parole per capire cosa provo. Il mio senso d’impotenza è il
suo. Il mio dolore è il suo da anni. Per il governo sono solo malati. Per suor
Ida sono persone che hanno bisogno di un conforto e un sostegno psicologico e religioso.
Suor Ida scuote la mia mente, fissa in quelle immagini, con le mille cose da fare. Daladala (minibus), jeep e tassisti mi sfrecciano a destra e sinistra sulle uniche strade asfaltate dai giapponesi. Il mio corpo bolle su
un sedile ormai bagnato. Salto cercando istintivamente di evitare la prossima buca tra l’asfalto nuovo e la vecchia non strada. Attraversiamo la
Kilwa Road da mesi in rifacimento e non saranno solo i polmoni a risentirne, ma anche i miei capelli che diventeranno ogni volta sempre più rasta e di un giallo paglierino intenso.
i dirigo all’Ocean Road, ospedale per la cura del cancro, l’unico in
Tanzania, paese con oltre 60 milioni di abitanti.
MTornerò
spesso a visitare le mamme e giocare con i bambini prima di
riuscire a scattare. Occhi sgusciati via e sorrisi maestosi per un occhio di
capra. Pance gonfie, seni amputati, lesioni, fratture, bozzi di ogni tipo e
dimensione. Oggi ho la macchina al collo e la mia fedele traduttrice. Mi
riconoscono, mi chiedono da dove vengo. Di quale tribù sono. E inizio a
scattare con la loro complicità. Sono l’amica mzungu (bianca) che già sa
tutto. I bimbi mi corrono incontro.
Ho giocato con loro, li ho abbracciati e baciati senza paura, reazione
non comune in questa parte di mondo terrorizzata dalla trasmissione del
virus, tanto più che io sono la mzungu. Il pregiudizio del bianco carico di
dollari è duro a morire in una società dove cooperazione è significato, per
anni, il bianco che regala dollari in base all’orrore delle miserie e dei drammi fisici.
Occhi stanchi, spenti, vuoti, sgranati mi fissano. La mia amica mi invita a fare come lei. Ascoltarli, parlare con loro, far loro sentire che non sono soli. Che nonostante tutto questo dolore, c’è il Signore che li sostiene
e li ama incondizionatamente. Lei ci riesce benissimo. È una sua dote innata. Io dalla mia parte ho una genetica vivacità dialettica, ma purtroppo
non su questo argomento.
Mi siedo sui letti, sulle lenzuola infette da un corpo malato. La meraviglia apre i loro cuori. Raccontano la vita, vengono da tutto il Tanzania.
Hanno percorso centinaia di chilometri in bus. E io conosco quei bus!
Hanno figli grandi e piccoli, mariti e campi che hanno dovuto lasciare e
la preoccupazione è tanta. Parlano e ridono del mio kiswahili sgrammaticato. Le storie sono drammatiche e tristi fin dentro al midollo. Eppure li
senti pregare.
che attraverso la pubblicità presentano modelli sbagliati..., ma
sarà anche colpa nostra, che abbiamo perso di vista i valori fondamentali di dignità, onestà e serietà e li abbiamo sostituiti con la
corsa frenetica al raggiungimento
del denaro.
Una carissima amica missionaria, di una saggezza stravolgente,
mi disse un giorno: «Voi andate
avanti seguendo la regola delle tre
S: sesso, successo e soldi». Noi
giovani, usciti da poco dalle università, non possiamo che confermare che il fine delle lauree è gua-
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Visitando gli ospedali governativi
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dagnare, guadagnare per permettersi tutto.
Il secondo fattore per cui attualmente i missionari non hanno più
il successo di una volta è che non
sono dottori. Sono poche le vocazioni. Poche le missionarie dottoresse e i missionari dottori laureati. In un dispensario in capo al
mondo, in una zona dove non c’è
luce, acqua, ma solo povertà e malattia ci sono suore missionarie settantenni, solo infermiere, che lavorano 15-18 ore al giorno, insegnando e formando praticamente
Clinical Officer, capaci di sostituirle un domani, ma per i nostri dottorini e dottori delle Ong, non vanno più bene. «Non sono preparate.
Sono superficiali» mi sono sentita
ripetere.
Dove finiscono gli aiuti?
Potrei fare un elenco delle strutture internazionali e associazioni
che operano in Tanzania con metodologie e scopi diversi dai missionari. Ma non è il mio obiettivo.
Con il mio reportage non ho affatto intenzione di osannare solo
le missionarie della Consolata, poiché ho incontrato tante congregazioni cattoliche; mi ha molto colpito, per esempio, la realtà delle
missionarie della Carità, le suore di
Allamano Centre a Iringa, fondato
e gestito dalle missionarie della
Consolata.
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Camion carichi di legname,
esportato illegalmente dalle foreste
attorno a Kibiti.
Madre Teresa, che accolgono orfani anche con gravi handicap e anziani. Anche i protestanti anglicani e luterani, le associazioni di laici missionari o volontari fanno
tanto e bene.
Mi ha lasciato molto perplessa
invece, il fatto che in uno stato dove il 10% della popolazione nasce
con handicap fisici e mentali, nonostante la massiccia presenza
delle Ong e associazioni di aiuto,
non ci sia in tutto il Tanzania una
struttura di ricovero per bambini,
ragazzi e adulti che abbiano forti
handicap mentali e fisici, una sorta di Cottolengo.
Anzi le suore del Cottolengo ci
sono in Tanzania, ma anziché
mantenere il carisma che hanno in
Italia, con il lavoro straordinario
che portano avanti, in Tanzania si
occupano della pastorale... forse
anche il carisma oltre oceano subisce un cambiamento climatico,
fisico!
Ma non posso, inoltre, non sottolineare la diffidenza motivata
delle persone quando si parla di offerte, donazioni e aiuti economici
a istituti religiosi che magari sembrano sconosciuti o inaccessibili
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materialmente, perché talmente
impegnati sul campo che sono fuori dalla comunicazione on-line, telefonica satellitare e per principi
propri, fuori dalla pubblicità capillare.
Mai nessun missionario della
Consolata manderà cartoline, foto
di bambini tristi e malati, a tutti gli
italiani, augurando loro buon natale, buona pasqua, buona festa
della mamma e del papà... per colpire il cuore e le menti degli italiani, popolo statisticamente tra i più
sentimentali e sensibili al mondo
in materia di aiuto, nonostante il
materialismo dominante, direbbe
qualcuno!
Non sarò certo la prima a fare
scoop o a dichiarare che istituzioni mondiali come l’Unicef, spendono l’85% delle loro entrate tra
pubblicità e stipendi, lo stesso vale per la Croce Rossa e una miriade di associazioni, grandi e piccole, che ci mandano bollettini, cartoline, e-mail... chiedendo offerte.
Con ciò non voglio dire che queste grandi realtà non abbiano fatto nulla di concreto negli anni, anzi! Il punto è però un altro: se si
hanno a disposizione dieci, venti,
cento milioni di dollari e l’85% viene investito non nell’istruzione,
nella lotta all’Aids e alla malaria
(che, non dimentichiamo, in Africa
provoca la morte di un bambino
ogni 5 minuti, ma piuttosto in stipendi, pubblicità, trasporti e tutto
ciò che riguarda la gestione dell’istituzione, è evidente che non riusciremo a fermare un bel niente, a
cambiare nulla.
Ci saranno solo progetti che partiranno e avranno un iter di due anni, cinque anni, fino al momento in
cui ci saranno i soldi decisi e stanziati. Il progetto non sarà rifinanziato e il dottore di turno a capo,
andrà via e tutto tornerà come prima. Secondo lo stesso Mario Battocletti: «Il problema è la non cooperazione tra le realtà private in
primo luogo tra loro, e poi con
quelle statali. Non c’è una programmazione di governo, ma è
pur vero che sempre più spesso
ogni Ong tende a fare autonomamente e quindi c’è una dispersione di aiuti».
Un approccio diverso
Altra cosa che mi ha fatto riflettere e decidere di farmi portavoce
dei missionari e in particolare del-
In alto, il dottor Mario Battocletti
con un paziente nell’ospedale
governativo di Iringa.
Sopra, suor Franca Lidia accoglie
i malati nella clinica di Mbagala.
le missionarie della Consolata, attraverso un reportage che fosse
una missione di sensibilizzazione
e informazione sulla realtà troppo
scomoda delle grandi strutture di
cooperazione, è la vita stessa e le
strutture dei missionari rispetto alle altre. A livello igienico, sanitario,
lavorativo ho visto e fotografato dispensari e centri gestiti da missionari, in villaggi senza acqua e luce,
che non hanno nessuna carenza rispetto alle strutture delle Ong. Certo minor personale, ben pagato,
logicamente non come quello delle «grandi», ma di gran lunga su-
periore alla paga stabilita dal governo.
I ritmi sono diversi. In un dispensario non c’è orario. A Mbagala, periferia di Dar Es Salaam, il
dispensario delle missionarie della Consolata visita quotidianamente dalle 500 alle 600 persone.
Non ho mai visto suor Franca Lidia
Cochis, la suora che lo gestisce,
mandar via qualcuno. Ho sentito
invece dalle due di notte, passi silenziosi di mamme che si mettevano in fila, dopo aver percorso
20-30 km per far vedere i loro
bambini alla sister, perché l’umanità è diversa. L’approccio e la cura sono diversi. Lo staff professionalmente competente visita, prescrive, fa iniezioni e dà le stesse
medicine a prezzi inferiori.
Suor Franca Lidia, con un immaginabile sforzo, gira tutta Dar Es
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1. Un’infermiera
nel dispensario
delle missionarie della
Consolata a Mbagala.
2. Un reparto dell’ospedale
governativo di Temeke
(Dar Es Salaam).
3. Bambino nato
prematuro all’ospedale
governativo di Iringa,
dove manca l’incubatrice.
4. Camera di un asilo
tenuto dalle Missionarie
della carità.
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5. Pazienti con gravi
malattie agli occhi, curati
nel dispensario di Kibiti.
6. Una corsia dell’ospedale
governativo di Ocean Road
(Dar Es Salaam).
7. Kibiti, lezione di suor
Vivalda nel dispensario
di maternità.
8. Mbagala, una famiglia
in preghiera.
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Salaam per comprare le medicine
a prezzi inferiori dai Medical Store.
Perché lo fa? Non ha uno stipendio.
Non è più giovanissima. È guidata
solo dalla fede e dalla scelta che ha
fatto cinquant’anni fa, quando ha
deciso di diventare una suora missionaria della Consolata.
Cambiare: si può e si deve
Non ho visto uffici e centri delle
Ong nei villaggi di periferia delle
grandi città, degradati e difficili per
motivi di ordine non solo sociale e
sanitario ma anche religioso, fatta
eccezione per la zona di Iringa,
realtà in cui c’è una maggiore concentrazione di strutture di cooperazione e sviluppo. Una consistente presenza di tali uffici l’ho vista,
invece, nella parte ricca di Dar Es
Salaam, davanti all’Oceano Indiano, dove la vita è altissima rispetto alla media della popolazione e il
mare è un incanto. Ma questa scelta sarà stata solo una coincidenza!
In una delle proiezioni del documentario con il quale sto girando
l’Italia, con lo stesso scopo di sensibilizzare sulla realtà anche difficile e traumatica nella quale operano i missionari, perché è giusto
non far vedere sempre e solo il
bambino con la mosca negli occhi,
ma in troppi pensano che la vita
del missionario sia affascinante, in
posti bellissimi, con ritmi di vita
molto più tranquilli dei nostri, con
meno preoccupazioni; allora il mio
obiettivo è anche scuotere la gente, dicevo che mi ha colpito un
commento di un padre. «Siamo
tutti missionari. Dal momento del
battesimo, siamo tutti missionari».
Io non pretendo e non posso dare risposte e soluzioni ai problemi
riguardanti il bisogno di fondi economici per la cura antiretrovirale o
per le strutture dei missionari, ma
mi chiedo e vi chiedo: nel momento in cui scegliamo di lavorare nell’ambito della cooperazione è perché abbiamo interesse e obiettivi
a realizzare qualcosa che sia di aiuto a quello stato e alla sua gente
perché in difficoltà.
Quindi possiamo anche declinare l’invito a lavorare seguendo le
norme e gli standard mondiali di
marketing e pubblicità. Proviamo
a fare i missionari! Abbiamo famiglie, figli da mantenere, non possiamo lavorare gratuitamente perché la vita è altissima, è chiaro e
noto a tutti. Non dico di fare solo i
volontari, ma anziché andare in
una parte del mondo per fare carriera o ridurre gli anni che ci avvicinano alla pensione o per guadagnare quattromila, settemila euro
al mese, con progetti destinati a
salvare la vita di esseri umani,
grandi e piccoli, fermiamoci a un
guadagno di mille, mille e cinquecento euro e il resto investiamolo
nella totalità del progetto.
Per molti sarà un’utopia. La certezza è che continuando così non
aiuteremo nessuno ma continueremo solo a riempirci la bocca di
Africa, aids, malaria e morte, alimentando il binomio Africa=morte e a disperdere i fondi.
Un esempio...
Ho conosciuto una coppia di italiani a Dar Es Salaam che mi ha colpito particolarmente: un medico
italiano, fisioterapista, Augusto
Zambaldo, che dirige il reparto di
riabilitazione dell’ospedale Ccbrt
(Comprehensive Comunity Based
Rehabilitation, Centro riabilitativo
su base comunitaria del Tanzania)
che lavora nell’ospedale specializzato per problemi alle ossa (Ccbrt,
Comprehensive Community Based
Rehabilitation Tanzania), costruito
da una Ong tedesca, ottimo dal
profilo medico, e sua moglie Laura, una graziosissima insegnante.
Augusto Zambaldo vive da più di
20 anni in Tanzania con la sua famiglia. Ha lavorato per anni prima
in Kenya e poi in Tanzania in strutture ospedaliere anche di missionari, preferendo vivere con uno stipendio molto più basso rispetto alla media dei suoi colleghi, con
ritmi di vita altrettanto massacranti, animato solo dalla voglia di aiutare e sapeva di esserne in grado.
Le figlie sono nate in Kenya, hanno studiato in Tanzania e ora una
frequenta l’università in Italia. Augusto e Laura hanno scelto la strada più difficile. Non sono diventati mai ricchi, materialmente, ma
credo che le emozioni che hanno
vissuto in questi decenni sono state un’immensa ricchezza. Le difficoltà non sono state e non sono
poche soprattutto per l’equilibrio
familiare.
Mi raccontavano che una delle figlie voleva tornare in Italia, perché
la scelta di vivere in Tanzania aiutando gli altri, non era la sua, ma
la loro, gli ripeteva. È normale che
una ragazza giovanissima, nata e
cresciuta in Africa, una volta arrivata in Italia, dove tutto sembra
possibile e realizzabile con minor
sforzo, voglia vivere nel bel paese!
Augusto e Laura erano in crisi
perché significava separarsi, dopo
una vita vissuta sempre l’uno al
fianco dell’altro. Augusto non concepiva l’idea di lasciare tutto e tornare, ma non poteva nemmeno dire di no a sua figlia. Il lavoro di un
medico in quei posti è una missione. E per Augusto lo è.
Laura aveva deciso di tornare in
Italia per stare vicina alla figlia, ma
Augusto sapeva che un figlio ha bisogno di entrambi i genitori. Non so
cosa ha poi deciso Augusto, ma
qualsiasi sia stata la sua scelta credo
proprio che non sia stato semplice.
Il dottor Augusto Zambaldo
direttore del reparto di ortopedia
nell’ospedale Ccbrt.
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Suor Floriana Come, missionaria della Consolata
mozambicana, e la signora Adija.
I POLLI DI ADIJA
onosco suor Floriana Come, missionaria della Consolata di origine mozambicana, già dal luglio 2007.
C
Fa parte della comunità della missione di Mbagala. Mi
ha colpito subito per il suo impegno con i giovani. Ricordo serate a parlare fino a tardi, anche durante gli ultimi sei mesi, delle problematiche del mondo giovanile. Mi chiedeva, voleva capire, conoscere.
Ma suor Floriana non si preoccupa solo di insegnare
in molte classi di 140-170 studenti delle Secondary
School di Dar Es Salaam; gestisce come direttrice didattica una scuola materna a Mbagala, con classi riempite dai bimbi del villaggio, logicamente senza vincoli
di religione. Musulmani, cattolici, protestanti. È membro attivo della Pro-life in Tanzania, movimento mondiale per i diritti della vita; è impegnata con un’associazione di donne del villaggio che fanno vari lavori e
per ultimo, ma non certo come importanza, cerca con
un’accurata selezione di concedere microcrediti con le
offerte che arrivano dai benefattori.
sogli entro un determinato periodo di tempo o di anni.
«È difficile concedere un microcredito - mi dice Floriana -. Non posso negarti che tanti non hanno restituito, ma una buona parte come queste donne che hai
conosciuto, lo hanno fatto». L’entusiasmo, il sorriso
della ragazza farmacista mi contagia. E così la donna
che vende il carbone, sola con figli a cui non vuole solo assicurare un piatto di polenta e fagioli al giorno, ma
anche un’istruzione, la possibilità di andare a scuola.
Adija, la donna che alleva i polli, è diventata un’imprenditrice. Ha il marito malato, uno dei figli è nato con
ritardi mentali e la figlia più piccola le è tornata a casa
incinta. Ha un pollaio molto grande con più di 150 polli, la cui cura in Africa non è semplice; pole pole (piano
piano) ha costruito un altro pollaio, ha risistemato la
sua casa con il cemento e ha comprato un bel pezzo di
shamba (terreno) che coltiva da sola con l’aiuto saltuario della figlia.
Come tutte le altre, ha restituito il suo prestito a suor
Floriana e ora: «Sono contenta, perché vivo bene, la mia
famiglia sta bene, mangia bene e mi sento realizzata
come donna, mamma e moglie» mi dice con un bagliore negli occhi.
Farmacia realizzata grazie al microcredito di suor
Floriana.
i porta a visitare alcune donne: una farmacista, una
signora che vende carbone, una mamma che alleM
va polli. Ogni storia è impressionante per coraggio, forza e inventiva. La prima, dopo aver studiato come farmacista, lavorava in alcune duka (farmacie) di indiani,
che detengono il monopolio del commercio farmaceutico e medico, ma come consuetudine sempre sottopagata e sfruttata. Ha una famiglia. Un marito che lavora
ma vive la sua stessa condizione e lo sconforto aumentava. Chiede un prestito a delle banche di Dar Es
Salaam, ma i tassi sono troppo alti, poi sente di una sister Floriana.
La suora decide di aiutarla con un microcredito che
non segue le logiche della cooperazione internazionale. Nel senso che i microcrediti concessi dalle strutture
internazionali spesso chiedono dei tassi d’interesse sulla restituzione, che portano il richiedente ad affondare
con le sue stesse mani. I microcrediti di suor Floriana
sono prestiti che hanno un contratto, ma dove l’unico
obbligo per il richiedente è restituire il prestito conces-
Adija e il suo pollaio, realizzato mediante il
microcredito di suor Floriana.
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Microcrediti
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Iringa: una giornata con i volontari dell’Allamano Centre
SCUOLA CON... BATTISCOPA
Fondato e diretto dalle suore missionarie della Consolata, l’Allamano Centre
comprende asili, scuole, ambulatori e assistenza medica, soprattutto con
attività di prevenzione dell’Aids e di attenzione a famiglie e singole persone
sieropositive. Oltre a una ventina di persone impiegate a tempo pieno (medici,
infermieri, consulenti, addetti ai laboratori, ecc.), il Centro si avvale della
collaborazione di 70 volontari che giornalmente assistono i malati a domicilio.
U
n odore di cipolla, misto a
sudore e urina mi blocca le
narici. Joseph è lì che aspetta solo di morire. La malattia è devastante. È devastato! Metastasi di
pensieri mi bloccano il cervello. È
troppo giovane. È un bravo ragazzo. Non si può morire così. Ma è
sereno. Crede in Dio e mi dice che
le missionarie della Consolata gli
hanno fatto sentire l’amore di Dio
e le volontarie dell’Allamano Centre lo aiutano.
La moglie non c’è. È andata a
prostituirsi, per una manciata di
scellini, contagiando altri o andando con altri contagiati che a sua
volta trasmetteranno il virus. Non
c’è famiglia che non sia stata colpita dall’Aids. Il pombe, un fermentato alcolico, ubriaca la testa e
l’anima. E il virus si propaga. L’amore e il sesso qui sono la stessa
cosa. L’amore è libero per natura.
Non ci sono preconcetti, non c’è
protezione, non c’è contraccettivo
mentale. «Siamo tutti malati. Il condom non ha fermato la trasmissione, anzi - mi dice Joseph -, quindi
è inutile rinunciare.
D
ue ore nel bush con Concetta e i volontari dell’Allamano Centre, struttura per la
cura e il sostegno a malati sieropositivi, ideata, realizzata e gestita dalle missionarie della Consolata, con l’aiuto di medici, psicologi
e personale tanzaniano.
Un caldo che ti scioglie il midollo. Non sento più le labbra
arse dal caldo e il corpo. Sal-
Dora, una paziente
dell’Allamano Centre
di Iringa.
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Joseph, un malato terminale visitato
a domicilio.
tiamo buchi, attraversiamo campi
desolati, mangiamo polvere. Concetta, una straordinaria italiana
che ha scelto di vivere qui aiutando le missionarie della Consolata e
i tanzaniani, tira dritto. Guida decisa nel bush. Ormai lo conosce bene. È da più di un anno che accompagna i volontari dell’Allamano Centre nel giro ai malati
terminali, quelli che non hanno più
la forza di andare al centro per
prendere le medicine.
Ogni giorno è un colpo al cuore.
Bambini e giovani che vede morire, o trova già morti. Ma Concetta
riesce a strappargli e strapparti un
sorriso, sempre. E tutti le vogliono
bene. Girare con lei è un diverti-
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mento. Con un accento tipicamente campano parla in kiswahili. Dopo ore di sabbia, spine e campi di
girasole, imbalsamati dal sole, arriviamo a casa di un altro malato.
Anastasia. Cinque figli. Tre morti.
Il marito già morto l’ha contagiata,
forse senza saperlo.
Una lamiera arrostita a 35°, girasoli a seccare. Un bimbo in lacrime
ci viene incontro, spaventato e incuriosito. Vivono talmente distanti dalla città e così internati nel bush che avrà visto raramente i wazungu. Si avvicina, vuole toccare la
mia macchina fotografica, ma si
ferma a dieci centimetri dal mio ginocchio e immobile mi fissa. Mi
sfiora un ginocchio continuando a
fissarmi. Due grandi pupille nere
mi sfondano il cuore. Ha solo tre
anni e probabilmente è malato.
T
orniamo a casa e ci accoglie
suor Luisella Benzoni. Una
pazzesca suora missionaria
che, oltre a prendersi cura di un
asilo affollatissimo, insegna e si
occupa di altre cento cose, come
tradizione per le missionarie della
Consolata.
Luisella mi prende subito il cuore. Visito la sua scuola, che gestisce in tipico stile lombardo. Mi fa
sorridere la sua precisione, la sua
organizzazione in una realtà dove
non esiste ordine. Non esiste la
parola organizzazione. E lei lo sa
bene e ride con me di questo. Due
occhi blu e un accento bresciano
che mi hanno fatto ridere e divertire per settimane. La sua serietà e
organizzazione è direttamente
proporzionale alla sua ironia e
simpatia.
Ma questa sua ironia, sono convinta, è una protezione contro la
Concetta porta la frutta ai malati
terminali di Aids con i volontari
dell'Allamano Centre.
Lo staff dell'Allamano Centre a Iringa.
disperazione che vive e sente ogni
giorno. La sua scuola è un asilo e
scuola pre-elementare che ha bisogno di tanto, ma la sua cura e il
suo amore lo fanno sembrare bellissimo. Personaggi della Walt Disney disegnati sui muri ci danno il
karibu (benvenuto) e 130 bambini, bene ordinati, mi intonano l’inno del Tanzania, mi cantano la Vecchia fattoria, mimando gli animali e mi rendono partecipe in una
loro lezione.
Suor Luisella ha fatto una delle
cose più difficili ma necessarie: insegnare alle maestre e ai bambini
che la scuola è fondamentale ma
per essere accessibile a tutti deve
essere curata, un senso civico che
manca da troppo tempo anche a
noi italiani. Ho conosciuto le sue
maestre che ridipingevano un battiscopa, una cosa del tutto estranea alla cultura africana. Questo
dimostra quello che ho sempre
pensato e sostenuto: l’Africa non
ha bisogno di una scuola da terzo
mondo, dove bisogna accontentarsi, dove la creatività fatta anche
da poco, l’ordine, la pulizia sono
solo eufemismi.
Sotto, suor Luisella con i suoi
bambini. A destra, una classe della
scuola di suor Luisella.
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E non finisce qui
S
ono ripartita da Dar Es Salaam
il 21 maggio alle 21.20 con un
volo della Swiss Air, dopo aver
saltato per più di un’ora e mezza
per le strade di Mbagala, nel taxi di
Goldwin, accompagnata da due
amiche speciali che hanno voluto
addolcire quello che sarebbe stato
il trauma della partenza.
Era già notte, quando ho lasciato Mbagala, il villaggio che mi ha
ospitato per mesi; anche la luce
elettrica come sempre se n’era andata. Abbiamo caricato la macchina, illuminati solo da un cielo stellato straordinario, che mi ha augurato safari jema (buon viaggio).
Ho salutato velocemente gli amici, le bibi (nonne) e zie con un inevitabile nodo alla gola. Su un sedile di velluto liso, cercavo di fissare
nella mente, naso e orecchie immagini, odori e suoni di Mbagala.
Arriviamo in aeroporto che già la
gente è in fila per il check-in. Un
vento caldo e umido mi attraversa
e mi sbatte in faccia. Penso che sto
per partire, sto per lasciare il Tanzania. Ogni passo verso il check-in
mi tuona dentro come una pugnalata. Devo salutare le mie amiche e
penso alle altre missionarie che mi
hanno rapito il cuore, ma non riesco a reggere l’affetto dei loro
sguardi. Carica di zaini, borse e
con una zucca, che sarà motivo di
discussione da Dar Es Salaam in
Svizzera, perché sembra troppo
stravagante girare con una grande
zucca, le abbraccio ed entro.
S
alita sull’aereo avverto immediatamente la fredda consapevolezza di essere in Europa. Caos, musica e sorrisi africani
sono stati prontamente sostituiti
da distratti sguardi svizzeri.
Un’italiana, contenta e convinta di aver trovato un’altra
italiana, mi vomita tutto il
suo risentimento nei confronti dei tanzaniani e
del caos del Tanzania;
me la cavo con un
«sorry, I don’t speach
italian» (spiacente,
non parlo italiano) e, incollata al finestrino, l’iPod
impiantato nelle orecchie,
Romina Remigio, autrice di questo
reportage, saluta la bibi Victoria,
una nonna masai a Mbagala.
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cerco di confondere pensieri e ricordi che affollano la testa. Lascio
la pista di Dar Es Salaam con Elton
John che canta Your song. Chiudo
gli occhi sperando solo di addormentarmi e svegliarmi a Zurigo.
Arrivo alle 6.45 in una Zurigo grigia, umida e fredda. Un aeroporto
modernissimo, pulitissimo, fighissimo... tutto issimo. Ordinati e in
un silenzio troppo fastidioso seguo i miei compagni di viaggio al
controllo bagagli. Ci esaminano
come fossimo terroristi. Gli apparecchi elettronici devono seguire
un accurato controllo «svizzero».
E io in tipico stile profuga: infradito africane, jeans stra-scoloriti e
strappati, felpa ancor più scolorita, abbondavo di apparecchiature
elettroniche. Mi sento due occhi
addosso. Alzo lo sguardo e mi ritrovo di fronte una «donnona» che
esamina attentamente le macchine fotografiche, obbiettivi, computer, come se una fotoreporter
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Ho nostalgia della semplicità della vita quotidiana, delle strade dissestate, dei colori del Tanzania.
ca, le grida dei bambini, i clacson
delle macchine, la polvere e le buche!
O
sservo due africani, cercando nei loro occhi la mia stessa disperazione. Sono una
delle ultime a salire sull’aereo.
Nemmeno il cioccolatino svizzero,
in puro cioccolato al latte finissimo,
riuscirà ad addolcire l’ultima ora e
mezza di viaggio. Sorvoliamo Roma. La guardo dall’alto. Bella come
sempre, ma sono davvero arrivata!
fosse un mercante d’armi.
Accendo il telefonino che inizia
a squillare all’impazzata per gli
sms di amici che mi danno il benvenuto in Europa, tra sguardi urtati compostissimi vicini. Voglio il
Tanzania! Voglio il caos, la musi-
E ora sono qui, divisa tra due
mondi, con la certezza che non
posso tornare alla mia vita senza
aiutare seriamente gli amici che
hanno vissuto con me e le straordinarie missionarie capaci di prendere in mano il cuore dei più po-
veri e disperati tra i poveri, accarezzarlo e dargli la forza e il coraggio di andare avanti, vivendo
con loro e cercando di aiutarli con
progetti reali, ma fuori moda per le
istituzioni internazionali di cooperazione.
Credenti o meno, atei o non atei,
la mia considerazione oggettiva finale, è che aiutando i missionari sicuramente possiamo aiutare questo popolo a liberarsi dal giogo che
lo soffoca da decenni.
Romina Remigio, nata a Ortona
(CH), laureata in Scienze della
comunicazione di massa,
fotografa professionista e
freelance, si occupa di reportage
sociale e culturale, realizzando
lavori che l’hanno portata a
girare gran parte dell’Europa e
spesso a trovarsi nei posti dove
le cose accadono. Ha pubblicato
su varie riviste italiane ed
estere, vinto numerosi concorsi
fotografici locali, nazionali e
europei.
Attualmente vive tra Roma,
Ortona e l’Est Africa,
occupandosi di cooperazione
internazionale e promuovendo
mostre fotografiche a favore di
progetti umanitari in Tanzania.
Sta lavorando a un libro
fotografico per il centenario di
fondazione delle missionarie della
Consolata, che uscirà entro il
2010 e sarà tradotto in sei
lingue.
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DOSSIER
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INSIDE TANZANIA
FINE
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ITALIA
di Giuliano Vallotto
Esperienza esemplare di incontro interreligioso
«Non v’è costrizione
in religione»:
l’espressione, tratta
da una sura del Corano,
è stato il tema del sesto
incontro-dibattito tra
cristiani e musulmani
nella diocesi di Treviso.
L’originalità
dell’esperienza sta nel
fatto che tale incontro
si è tenuto nella sala
del municipio
di Cornuda (TV),
a promuoverlo
e dirigerlo sono stati
il sindaco
e il vicesindaco.
Il panorama e il municipio di Cornuda.
stato sicuramente eccessivo il
mio entusiasmo quando, in occasione dell’incontro interreligioso di sabato 27 settembre 2008,
ho paragonato Cornuda alla Baghdad dei califfi. Ma, ne valeva la pena!
Cornuda è un comune del trevigiano, di circa 6 mila abitanti, nella
cui aula consigliare, il giorno successivo alla «Notte del destino», 27ª di
Ramadan, si è svolto un incontro tra
cristiani e musulmani sul tema della
libertà religiosa. I due relatori principali furono Brunetto Salvarani, per la
parte cattolica, e Adel Jabbar, per la
parte musulmana. Il parroco di Cornuda, don Mauro Motterlini, ha presentato il messaggio vaticano di fine
Ramadan ai musulmani presenti,
consegnandone il testo all’imam
della città di Treviso.
È
È ACCADUTO A CORNUDA...
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ECUMENISMO
Lo cheick Mahamoud Khalil, in
qualità di ospite speciale delle comunità islamiche della provincia di
Treviso durante tutto il mese di Ramadan 2008, ha esposto la dottrina
musulmana circa i rapporti con le altre religioni. Il professor Ometto, un
fervente cristiano sposato con una
musulmana sciita, ha citato integralmente a memoria in arabo e interpretato filologicamente i versetti coranici che fanno riferimento alla libertà religiosa e da cui era stato
tratto il tema della giornata: «Non
v’è costrizione in religione».
La città di Treviso sovente finisce
nei giornali, soprattutto come prototipo dell’intolleranza e del becero
rifiuto della convivenza con la comunità islamica. Il centinaio di persone, cristiani e musulmani in parti
quasi uguali, che hanno partecipato
durante tutto il pomeriggio a questo evento, costituisce una secca
smentita all’omologazione giornalistica avvenuta in questi anni tra la
città di Treviso, ma soprattutto i suoi
rappresentanti politici, e il resto del
territorio provinciale.
Salvate le proporzioni tra ciò che è
avvenuto a Cornuda e ciò che accadeva con frequenza alla corte dei califfi, dove si ripetevano con una certa regolarità incontri e dibattiti tra esponenti di varie religioni, non era
infondato il nostro sentimento di
sentirci per una sera un po’ anche
cittadini di Baghdad.
supplemento d’anima, il luogo di rigenerazione di energie e atteggiamenti che hanno in sé le potenzialità che occorrono per rendere più
umana la nostra convivenza, basandosi su rapporti densi di profonda
spiritualità.
Inoltre il fascino indubbio che suscita un luogo di preghiera, nato all’interno di una società opulenta e
apparentemente priva di Dio come
quella occidentale, ci sembrava il clima più adatto per vivere insieme
con i musulmani qualche ora del loro lungo percorso ascetico e spirituale.
Queste furono le ragioni che ci avevano spinti per 4 anni di seguito a
domandare ospitalità alla giovane
comunità monastica di Marango
(Venezia) per realizzare i nostri incontri. Essi si svolgevano con grande
discrezione e impegnavano esclusivamente la ricerca e la coscienza
delle persone che vi partecipavano.
A partire dall’anno 2007 questi incontri hanno incominciato a svolgersi invece dentro un quadro pubblico, offerto direttamente da due
amministrazioni comunali: Giavera e
Cornuda. Ma se l’anno scorso questo
significativo spostamento si riduceva a essere poco più di un’intuizione,
quest’anno invece esso è frutto di
una scelta ormai matura e ragionata.
SESTO INCONTRO
Il ragionamento che sta alla base
di questo spostamento parte dalla
semplice constatazione della realtà
plurale delle nostre comunità paesane, comprese quelle più piccole.
Sono molti i musulmani, buddisti,
sik che ormai si sono radicati all’interno delle nostre comunità tradizionalmente cristiane. La presenza
di queste persone di religione e cultura diversa ha acquisito in questi
due decenni delle caratteristiche
nuove. Non ci sono soltanto musulmani e sik; ci sono ormai delle comunità musulmane e sik, che progressivamente sono venute strutturandosi.
Potremo a tal proposito fare un
paragone con la presenza ebraica in
Italia. Essa non si limita al fatto che ci
siano nel nostro territorio, da sempre, un numero più o meno grande
di ebrei, ma essa ha le caratteristiche
L’esperienza di Cornuda non è la
prima di questo genere nel territorio
della diocesi di Treviso. È ormai da
sei anni che alcuni cristiani e alcuni
musulmani si danno appuntamento
verso la fine del Ramadan per passare insieme mezza giornata, confrontandosi sulla base di esperienze religiose vissute dalle due parti e rompendo il digiuno della giornata
all’ora stabilita.
I primi quattro incontri, a partire
dal Ramadan 2003, si sono svolti
nella comunità monastica di Marango. Si pensava allora, e continuiamo
a pensarlo anche oggi, che «il monastero» in sé è un luogo di incubazione di civiltà e di tempi nuovi. Esso si
pone sui punti terminali di una civiltà in crisi, per aprirla a un nuovo
futuro.
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MC GENNAIO 2009
DAL MONASTERO
ALL’AULA CONSIGLIARE
Brunetto Salvarani, teologo laico,
saggista, giornalista, è autore di
molte pubblicazioni sul dialogo
ecumenico e interreligioso
e dirige la rivista «Cem Mondialità»
e la collana della Emi
«Le parole delle fedi».
Adel Jabbar, sociologo, ricercatore
nell'ambito dei processi migratori
e interculturali, svolge attività di
docenza per diverse università.
La nostra voleva essere una sfida a
una società che, pur fondata su un
immenso potere scientifico, tecnologico ed economico, non è ancora in
grado di affrontare e risolvere i problemi della convivenza.
Noi di parte cristiana in maniera
particolare abbiamo la convinzione
che «il monastero» era e rimane il
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MISSIONI CONSOLATA
di una comunità che ha una sua immagine, una sua rappresentanza,
una sua struttura e visibilità anche a
partire dai luoghi di culto che le sono propri. La stessa cosa potremmo
dire di queste altre giovani comunità che si sono affermate tra noi.
L’obiezione più frequente che viene rivolta, soprattutto alla comunità
musulmana, è che essa tende ad accorpare nella dimensione religiosa
anche quella civile e politica. Ciò è
probabilmente vero in molti paesi a
larga maggioranza musulmana, anche se non in tutti. Ma questo non è
il caso dell’Italia.
Ora è evidente che, nell’attuale
panorama inedito offertoci dalla nostra società, occorre che qualcuno
prenda l’iniziativa per costruire una
piattaforma d’intesa, che si proponga di favorire la pace sociale tra
gruppi caratterizzati da religioni e
culture diverse e di confermare i valori fondamentali della nostra cultura civile, sociale e politica, in vista di
una condivisione di essi da parte di
tutti: sia i vecchi che i nuovi cittadini.
Occorre perciò rimettersi all’iniziativa di un «terzo» attore, che non
può essere nessuna delle comunità
religiose in quanto inevitabilmente
esse sarebbero di parte. Un attore
che necessariamente abbia l’autorità di convocare tutti e che possa esigere da tutti il rispetto delle regole
del gioco.
Ai promotori dell’incontro è sembrato che questo potrebbe e dovrebbe essere il compito di un’am-
ministrazione comunale, ma anche
di ogni altro livello dell’amministrazione pubblica. La sua natura, infatti,
può favorire un ruolo di «terzietà»
che la può costituire moderatrice di
un eventuale «tavolo delle religioni»
in vista del bene comune e della pace sociale.
A Cornuda è accaduto proprio
questo: al centro del tavolo sedevano il sindaco e il vicesindaco e ai due
lati i vari rappresentanti delle due
comunità religiose, quella cattolica e
quella musulmana.
L’impressione che se ne ricavava
era molto forte. La laicità di cui si offriva la prova non era quella dell’indifferenza dell’ente pubblico nei
confronti dell’individuale scelta religiosa, ma quella di un’amministrazione comunale laicamente attiva,
consapevole del proprio ruolo, senza alcuna invasione di campo.
IL TEMA
Il tema dell’incontro è stato ricavato da una sura del Corano : «Non v’è
costrizione in religione», filologicamente tradotto dal prof. Ometto:
«Non si può costringere nessuno ad
abbracciare una credenza verso la
quale si prova un netto rifiuto».
Il tema della libertà religiosa è sicuramente un tema sensibile particolarmente in questi tempi in cui
tutte le società, anche le più tradizionalmente omogenee, tendono a
diventare pluraliste o a causa del
mescolamento di popolazione o per
l’incursione dei messaggi e degli stili
di vita veicolati dai mass media.
Il prof. Jabbar, rifacendosi al patto
di Medina, ha ricordato la capacità
che l’islam ha avuto, soprattutto agli
inizi e in certi momenti storici, di
mettere insieme culture e religioni
diverse, facendole convergere verso
un patto di cittadinanza che non costringeva all’assimilazione.
Ad ascoltarlo si ricavava l’impressione che ci siano zone e tempi inesplorati dell’islam, che sarebbe utile
riportare alla memoria sia per noi
sia, a dire del prof. Jabbar, per i musulmani stessi.
Il prof. Salvarani, oltre ad affermare
la necessità e la convenienza del
dialogo, ha parlato della libertà religiosa come condizione mai totalmente compiuta e che occorre continuamente porre in essere, perché
essa non si situa mai in un punto di
non ritorno. Più che una condizione
già raggiunta è una continua conquista. Per questo sarebbe preferibile parlare, non solo di libertà come
valore, ma di liberazione come processo e acquisizione di gradi sempre
più elevati di libertà per tutti.
Successivamente il parroco di Cornuda ha consegnato all’imam il
messaggio vaticano, facendone una
breve sintesi riguardante la famiglia
come valore condiviso da cristiani e
musulmani e come luogo «in cui si
apprende il rispetto dell’altro, nella
sua identità e nella differenza. Il dialogo interreligioso e l’esercizio della
cittadinanza non possono dunque
che beneficiarne».
Alla conclusione dell’incontro ci fu
una brevissima preghiera, durante la
quale ognuno ha accolto con interiore partecipazione la preghiera
dell’altro. Un momento brevissimo,
ma efficace quanto un lampo nella
notte.
La rottura del digiuno, con i cibi
che caratterizzano le varie abitudini
alimentari e che erano stati generosamente offerti dalle diverse comunità etniche presenti, ha confermato
l’impressione che ci eravamo detti al
momento di lasciare l’aula consigliare: «Usciamo da quest’incontro con
l’impressione di sentirci un po’ migliori di prima». ■
Don Mauro Motterlini, parroco
di Cornuda, saluta il dottor Pietro
Benetton, ex sindaco di Cornuda.
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MOZAMBICO
Testo e foto di Marco Bello, da Lichinga
Alla scoperta di … paesi, storie, persone: Mozambico (prima puntata)
ZAPPA, KALASHNIKOV
E COCA-COLA
Una nazione ricca con l’economia in forte crescita.
Un popolo povero che ha sofferto la colonizzazione e 30 anni di guerra.
Uno degli ultimi regimi socialisti del continente, ma al tempo stesso
aperto al neoliberismo. Il Mozambico è costretto ad accettare
le imposizioni dei donatori internazionali, perché il bilancio dello stato
dipende da loro. Intanto la democrazia fa piccoli passi
in avanti, in attesa di un necessario decentramento
amministrativo e di un migliore sfruttamento delle terre.
MISSIONI CONSOLATA
ichinga, Mozambico. Il boeing
737-200 della Lam (Lineas aereas
moçambicanas) atterra nella capitale della provincia di Niassa. Sulla
pista, ad attenderlo da un paio d’ore,
decine di bandiere rosse, donne e
uomini in abiti colorati, frenetici suonatori di tamburi e di bidoni di plastica. Sono alcune centinaia, arrivati
con i camion dalle diverse zone della provincia, una delle più povere
ma più fertili del paese. Sull’aereo
c’è una folta delegazione che accompagna Felipe Paunde, segretario generale del Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico), il partito
al potere. Decollato la mattina dalla
capitale Maputo, ha anticipato l’ora
della partenza, lasciando a terra
molti passeggeri «normali».
È il penultimo giorno di campagna elettorale per le elezioni municipali, previste per il 19 novembre, in
un paese che, a sedici anni dagli accordi di pace, fatica ancora a trovare
una via verso lo sviluppo. Il segretario generale viene ad appoggiare il
candidato alla presidenza del comune di Lichinga.
Elezioni importanti in un paese enorme (800 mila kmq, due volte e
mezza l’Italia, ma con un terzo di abitanti), dove il decentramento amministrativo, essenziale per governare un paese così grande, sta muovendo solo i primi passi. Mentre
tutto o quasi, resta centralizzato a
Maputo, capitale troppo lontana, situata all’estremo sud del paese (circa 2.300 km da Lichinga), incastrata
tra il mare e il vicino ricco di sempre:
il Sudafrica.
Nella consultazione elettorale si affrontano soprattutto i due maggiori
schieramenti: il Frelimo e la Renamo
(Resistenza nazionale del Mozambico). Sono i vecchi nemici di sempre,
della feroce guerra civile che ha insanguinato il paese dalla sua indipendenza dal Portogallo, nel 1975,
alla firma degli accordi di pace a Roma nel1992. Oggi si affrontano con
le urne, in un contesto di grande differenza di mezzi a disposizione. Il
Frelimo al potere da 33 anni, ha dalla
sua parte una macchina propagan-
L
distica ben rodata e mezzi economici a volontà. Non così i concorrenti.
Quest’anno sono 43 i consigli municipali e i presidenti dei comuni
(sindaci) che devono essere eletti. Di
questi 10 sono nuovi, ovvero è la prima volta che si costituiscono. Segno
che qualche piccolo passo avanti nel
decentramento si sta facendo.
Il segretario generale è appena
sceso dall’aereo e rilascia la prima
intervista. Intanto i passeggeri rimasti scendono e attoniti cercano di
farsi largo tra la folla per raggiungere l’area recupero bagagli.
LA GUERRA NON PERDONA
Il paese oggi resta segnato da 500
anni di dominazione portoghese,
ma anche da quasi tre decadi di
guerra che contraddistinguono la
sua storia recente. All’inizio degli anni ’60 quando la maggior parte dei
paesi africani diventavano indipendenti, le colonie portoghesi si vedevano negato questo fondamentale
passaggio.
Nel 1964 l’intellettuale Eduardo
Mondlane, in esilio in Tanzania, fonda il Frelimo e dichiara l’inizio della
guerra d’indipendenza.
Il conflitto è cruento e i portoghesi non mollano. Il Frelimo riesce a
controllare vaste zone nel Nord del
paese. È il 1975 i tempi sono maturi.
L’anno prima la ribellione militare in
Portogallo ha chiuso con i regimi
dittatoriali di Salazar e del successore Caetano. Il Mozambico diventa indipendente, il Frelimo si vede conse-
gnato il potere e Samora Machel è il
primo presidente della repubblica
popolare. Il regime opta per l’ideologia marxista-leninista e una sua applicazione piuttosto rigida. Nazionalizzazioni, emigrazioni forzate per
popolare il nord e campi di rieducazione. I beni della chiesa sono confiscati e i missionari costretti a lasciare
le missioni sono radunati nelle città.
Negli stessi anni, portoghesi fuoriusciti appoggiati dalla Rhodesia di
Jan Smith (l’attuale Zimbabwe) e dal
Sudafrica dell’apartheid, organizzano una guerriglia controrivoluzionaria: la Renamo. La guerra fratricida è
cruenta, i campi pullulano di mine e
diventa difficile per i contadini far
rendere la terra. Solo gli accordi generali di pace di Roma (4 ottobre
1992), con un importante ruolo giocato dalla chiesa, riportano la pace.
Il Mozambico indipendente è devastato, e inizia allora i primi passi
verso lo sviluppo. L’intervento dei
donatori internazionali, di Fondo
monetario internazionale (Fmi) e di
Banca mondiale (Bm) sono massicci.
ECONOMIA: MACRO E MICRO
Negli ultimi 5 anni il paese ha presentato indicatori macroeconomici
che rispecchiano un’economia dinamica: crescita del pil intorno al 78%, inflazione tenuta al 13,2% da un
ambizioso piano governativo, buoni
scambi commerciali. Ma il mozambicano medio continua ad avere una
speranza di vita intorno ai 42 anni,
mentre solo il 38,7% dei maggiori di
Lichinga, 15 novembre 2008:
il segretario generale del Frelimo,
Felipe Paunde, arriva da Maputo.
Di fianco: donna lavora la terra nei
pressi di Maua (Niassa).
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MOZAMBICO
Superficie: 799.380 kmq
Capitale: Maputo
Popolazione: circa 21 milioni di abitanti (stima 2006)
Gruppi etnici: makua 47,3%, tsonga 23,3%, malawi
12%, shona 11,3%, swahili 9,8%, yao 3,8%, makonde
6,5%, meticci 0,5%, bianchi 0,1%, indiani 0,1%, altri
Lingue: portoghese, makua, tsonga, makonde, shona,
nyassa, chicheva, swahili, altre lingue bantu
Religioni: culti tradizionali 25,8%, cattolici 23,8%, atei
23%, musulmani 17,8%, protestanti 7,8%, altri 1,7%
Crescita demografica: 1,8% (2000-2005)
Aspettativa di vita: anni 42
Mortalità infantile: 10,4% entro 1 anno, 15% entro i 5
anni di età
Mortalità materna: 4,1 su 1.000 nati vivi (2004)
Alfabetizzazione: 38,7% (dei maggiori di 15 anni)
Ordinamento politico: Repubblica
Indipendenza: 25 giugno 1975 (dal Portogallo)
Capo di stato e governo: Armando Emilio Guebuza
(con mandato di 5 anni)
Reddito pro capite: circa 364 dollari Usa (2006)
Debito estero: 5,121 miliardi di dollari (2005)
Crescita Pil: +8 nel 2006, +7% nel 2007
Inflazione: 13,2%
Indice di sviluppo umano (Onu): 172 su 177 paesi
Risorse economiche: gas naturale, carbone, betonite, titanio, bauxite; industria: produzione idroelettrica
(Cahora-Bassa), raffinerie, alluminio, agroalimentari, tessili, cemento; in crescita l’industria turistica;
agricoltura di esportazione: canna da zucchero, cotone, palma da cocco, mogano, ebano, cedro; di sussistenza:
cereali, patata dolce, manioca; allevamento, pesca.
15 anni risultano alfabetizzati. Una
situazione socio-economica complessa che vede il paese al 172simo
posto su 177 della classifica Onu basata sull’indice di sviluppo umano.
Quanto basta per dire che è «tra i
più poveri del mondo».
«L’economia mozambicana, incluso il bilancio dello stato, continua a
essere finanziata in larga parte dai
donatori esteri. Un gruppo di 19
partner, tra cui Unione europea, Canada, Usa, Giappone, ma anche Fmi
48
MC GENNAIO 2009
e Bm». Chi snocciola l’elenco è
Brazão Mazula, professore, già rettore della maggiore università del
paese, la Eduardo Mondlane. Membro storico del Frelimo, che nel 1994
gli affidò l’organizzazione delle prime elezioni libere nel paese. Mazula
si è formato come missionario della
Consolata, diventando anche padre
per poi uscire dall’Istituto.
«Se il governo vuole gli aiuti internazionali, sono i donatori che decidono qual è la direzione che deve
prendere il Mozambico per il suo
sviluppo. Anche questi indicatori economici rispondono a un loro desiderio. A novembre una missione
del Fmi ha valutato positivamente
la performance dell’economia mozambicana».
Ma il professore è realista: «Un'altra cosa è dimostrare che questa
crescita economica ha un impatto
sul benessere della gente. Non ci si
può fermare a Maputo per dire che
questo è il paese». Maputo è una
città moderna, con centri commerciali, grosse vie con marciapiedi, palazzi, luci e vecchie case in architettura coloniale. Circolano molte automobili, anche costose. Ma come
accade spesso in Africa, la capitale
non è specchio della situazione e le
condizioni di vita nell’«interno» sono molto diverse.
POVERI IN UN PAESE RICCO
«La povertà è reale - continua il
professore - secondo dati ufficiali il
70% della popolazione è in stato di
MISSIONI CONSOLATA
indigenza e la maggior parte di essa
risiede in campagna».
Ma come vive e sopravvive il mozambicano medio, nel mezzo di
questa situazione così grave, nel
contrasto tra uno sviluppo economico effettivo e una povertà diffusa?
«La popolazione è ancora orientata a un’economia di sussistenza. In
particolare è importante la questione della terra per il contadino: se ha
terra sufficiente, coltiva il suo mais, la
manioca. Il problema sorge quando
la legge mette a rischio la sicurezza
della terra per il futuro. Togliere la
terra al contadino è come togliergli
la cittadinanza» insiste il professor
Mazula. E continua: «Le politiche
macro economiche degli ultimi anni
portano alla privatizzazione delle
imprese, ma anche della terra. Il contadino un giorno si trova di fronte
un connazionale (o uno straniero),
che gli presenta dei documenti e gli
dice che la terra, suo unico sostentamento, fa parte di un’altra proprietà
e non è più sua. «È questo che ag-
grava la povertà».
«Un esempio concreto sono i biocombustibili, come quelli ricavati
dalla canna da zucchero. Le imprese
produttrici hanno bisogno di migliaia di ettari. Se questi progetti
non sono ben applicati i sacrificati
saranno i contadini».
Le potenzialità agricole del paese
sono enormi e variano a seconda
della regione e fascia climatica. La
terra è fertile (in particolare al nord),
bagnata da grandi fiumi e da una
stagione delle piogge estesa, in media, da fine novembre a marzo.
Le produzioni principali per uso a-
A sinistra: pescatore sul fiume Save,
nei pressi di Mambone.
Sopra: donne prendono l’acqua da
un pozzo in un villaggio vicino a
Mambone.
Sotto: venditrici di gamberetti nel
mercato di Guiúa (Inhambane).
limentare sono mais, manioca, sorgo, riso, legumi, patata dolce e banane. Per l’esportazione si produce
canna da zucchero, tabacco, tè, cotone e palma da cocco.
Ma la terra in generale non è ben
sfruttata: resterebbero almeno 4
milioni di ettari da valorizzare. Inoltre ci sono ancora mine antiuomo
nei campi (sono sempre all’opera
squadre di «sminamento»). Molto
diffusa è l’agricoltura famigliare di
sussistenza.
«La minaccia è che nella visione
di economia di scala, si vuole trasformare il contadino in un lavoratore per grandi imprese agro-industriali. Un problema è che il nostro
contadino è analfabeta. Non è un’operazione che si può fare da un
giorno all’altro. C’è la questione
dell’educazione».
Gli interessi economici internazionali sono grandi e quindi ci sono
molte pressioni sul governo: «DiMC GENNAIO 2009
49
MOZAMBICO
pende da noi, dobbiamo accrescere
la nostra capacità di negoziazione.
Nessun investitore investe per perdere. Le istituzioni internazionali
non vengono a fare la carità, ma affari. Dobbiamo avere capacità tecnica e di negoziazione, in modo che
entrambi, noi e loro, possiamo guadagnare da questa situazione».
Si ricorda che metà del bilancio
dello stato è appannaggio dei donatori internazionali, mentre si parla di
aiuti per 435 milioni di dollari nel
2008. Una parte dei quali per finanziare l’ambizioso «Piano d’azione
per la riduzione della povertà assoluta (Parpa)».
Da qui il ruolo della formazione
superiore, per formare risorse umane in quantità e qualità, che conoscano le leggi, l’economia, il commercio internazionale. «È una nostra
sfida. La stabilità economica e politica passa dall’educazione e dalla formazione del cittadino. Lo sviluppo,
per me, è libertà di scegliere» continua il professore.
Non solo educazione di base
quindi, che Bm e Fmi «impongono e
limitano», ma una formazione che
porti il cittadino a essere meno manipolabile possibile e in grado di
scegliere.
«Il governo decide le politiche, ma
dovrebbe negoziare con il cittadino.
Al contrario, per la crescita economi-
ca, il nostro governo rende conto di
più ai donatori che ai mozambicani... perché da questi non vengono
soldi».
Sul piano dell’educazione il paese
si è dato un piano strategico 20062011. «Questo mostra buona volontà. La coscienza che c’è qualcosa
da cambiare: centrare lo sviluppo sul
cittadino e non sui desideri delle istituzioni finanziarie internazionali.
Non possiamo pretendere che
tutte le persone vadano all’università... ma che ogni cittadino, a qualsiasi livello termini la sua formazione, sia in grado di lavorare o dare lavoro e di produrre ricchezza. Il
ministero dell’educazione sta facendo uno sforzo, in questo senso».
Il programma prevede la costruzione di 4.100 aule scolastiche in ambito rurale ogni anno e che in ogni
distretto ci sia la scuola secondaria.
VERSO IL MARXISMO
NEOLIBERALE
A partire dalla seconda metà degli
anni ’80, il Frelimo ammorbidisce il
modello socialista e inizia le riforme
Sopra: scuola primaria a Guiúa,
provincia Inhambane.
A fianco: centro nutrizionale gestito
dalle suore della Consolata a
Massinga (Inhambane).
50
MC GENNAIO 2009
MISSIONI CONSOLATA
per far spazio al mercato. Il cambiamento è favorito da un avvicendamento al vertice: Samora Machel,
leader intransigente, muore in un
misterioso incidente aereo nell’ottobre del 1986. Disastro in cui sarebbero implicati i servizi segreti sudafricani.
Gli succede Joaquim Chissano, uomo diplomatico, comunicatore, che
imposta la transizione e traghetta il
paese alla pace. Il nuovo presidente,
pragmatico, accetta le condizioni
dei partner internazionali, come una
nuova costituzione di fine 1990 che
legalizza il multi partitismo (ancora
rivista nel 2004). Si procede poi a
una serie di privatizzazioni, non prive di scandali. Si forma così una nuova classe borghese legata al Frelimo,
che si arricchisce grazie alle vendite
dei beni statali. E la corruzione, fenomeno quasi sconosciuto per i dirigenti del partito all’indomani dell’indipendenza, aumenta.
«La corruzione deve essere combattuta, ma occorre anche capire
come è iniziato questo fenomeno
nel nostro paese - denuncia Felipe
Couto, missionario della Consolata,
magnifico rettore dell’Università Eduardo Mondlane e persona influente nel Frelimo -. Noi eravamo
l’unico partito: ci hanno imposto il
multi partitismo. Poi ci hanno detto:
dovete entrare nel Fmi, nella Bm, dovete aprirvi al neoliberismo economico. Così sono arrivate le agenzie
internazionali e le Ong. Hanno iniziato a girare molti soldi. La corruzione dipende da noi, ma non solo».
Nel novembre 2000 è assassinato
il giornalista Carlos Cardoso, che
portava avanti un’inchiesta sulla privatizzazione delle due più grandi
banche del paese: il Banco Comercial
de Moçambique e il Banco Austral. Ci
sono stati alcuni arresti, ma i veri
mandanti sono ancora liberi.
Nelle elezioni del 2004 Chissano si
ritira e gli succede Armando Guebuza (febbraio 2005), l’allora segretario
generale. È un avvicendamento al
vertice non privo di cambiamenti.
Guebuza, oltre a essere numero uno
di un partito comunista è anche uno
dei più ricchi uomini d’affari mozambicani. La sua rete di business va
dalla birra alle costruzioni, all’export,
al traffico nel porto di Beira.
In politica si rivela più tradizionalista. Subito cerca di imporre un mag-
gior rigore: lancia la seconda fase
della riforma del settore pubblico
(2005-2011), che include un ambizioso programma di lotta alla corruzione.
DONNE E INTEGRITÀ
AL GOVERNO
«Il programma del governo prevede quattro punti: riduzione della burocrazia, lotta alla corruzione, alla
criminalità e alle malattie endemiche come l’Aids» ci racconta Vitória
Diogo, ministro della Funzione pubblica. Testa alta e parlata chiara, quasi da campagna promozionale. Fiera
Maputo: traffico sulla Avenida da
Guerra Popular. La capitale è
specchio di un’economia dinamica.
di essere, donna e capo del maggior
datore di lavoro del paese, con
167.000 impiegati.
Nel governo mozambicano, ci sono otto donne ministro (incluso il
premier) e si arriva a tredici con i viceministri. Anche nel parlamento,
forte è la partecipazione femminile,
circa il 30%.
La «strategia di lotta alla corruzione» varata dal governo nell’aprile
2006 prevede, dice il ministro di «istituzionalizzare l’integrità» ovvero
promuovere l’integrità come valore
umano. «Tra il 2006 e il 2007 sono
stati identificati 2.414 casi di corruzione, seguiti da processi disciplinari, di cui 813 espulsioni». Sicura, il ministro Diogo, elenca i risultati per
quello che riguarda la «piccola corruzione».
MC GENNAIO 2009
51
MOZAMBICO
Di fatto la corruzione è ancora
molto radicata a tutti i livelli e si può
avvertire non appena si passa la dogana in aeroporto. C’è però anche
una campagna pubblica, con tanto
di manifesti, che invita la società civile e la gente in generale, a denunciare casi di pressioni e malversazioni dei funzionari.
Ma il salario minimo legale è ancora molto basso: 1.950 meticais (65
euro) al mese, anche se si stanno
studiando sistemi di incentivo. In un
paese in cui il costo della vita (almeno in città) è simile a quello europeo. La benzina, madre di tutti i
prezzi, in quanto influisce sui trasporti, arriva a costare anche 1,5 euro al litro, il gasolio 1,23. Il regime di
stipendi bassi non facilita la riduzione di questa piaga.
La strategia anti corruzione dipende dal Gabinetto centrale di lotta alla corruzione, di competenza del primo ministro, Luisa Diogo, sorella di
Vitória.
Secondo la classifica della corruzione, stilata ogni anno dall’Ong
Transparency International, il Mozambico è sempre nella fascia dei
paesi più corrotti al mondo: nel 2008
occupa il 128simo posto su 180.
La riforma del settore pubblico,
prevede inoltre il miglioramento
delle prestazioni dei servizi, vuole
«mettere il cittadino al centro», incentivare la buona governance e aumentare la professionalizzazione
delle risorse umane.
«Il funzionario per servire ogni
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MC GENNAIO 2009
Vitória Diogo, ministro della
Funzione pubblica del Mozambico.
Sotto: manifestanti del partito al
potere, durante la campagna
elettorale di novembre.
volta meglio il cittadino» è lo slogan
ufficiale della riforma.
Programmi questi molto amati (e
sollecitati) dai donatori e che il governo cerca, tra mille difficoltà, di
mettere in atto.
LE PRIORITÀ
Come decano dell’università, il
professor Brazão Mazula identifica
quattro aree importanti per far uscire il paese dalla povertà e portarlo
verso lo sviluppo. Aree che identificano settori prioritari per la formazione di quadri del paese: educazio-
ne integrata, formativa e critica, sanità, agricoltura e pesca (il mare è
una ricchezza), turismo. Quest’ultimo, grazie alla posizione geografica
e alle bellezze del paese (parchi naturali, spiagge da sogno, isole) è diventata la prima industria del paese.
Gli investimenti dei vicini sudafricani in questo settore sono notevoli.
Basti pensare che per i mondiali di
calcio del 2010 in Sudafrica, i pacchetti turistici prevedono, dopo le
partite, alcuni giorni sulle spiagge
del Mozambico.
Sul piano della salute l’emergenza
maggiore è l’Aids. «I casi sono in costante aumento, non si riesce a frenare - racconta suor Raquel Gil Mas,
missionaria dominicana, medico,
che si spende ormai da anni sul tema -. In alcune province si parla del
27% di sieropositivi». Mentre i dati
ufficiali sono intorno al 17% a livello
nazionale. Un programma del governo fornisce farmaci antiretrovirali
gratuitamente a tutti coloro che risultano positivi e si affidano alle cure di un centro. «Questo è un aiuto
fondamentale perché riusciamo a
far vivere tanta gente che altrimenti
sarebbe già morta. Il problema è che
arrivano da noi quando ormai sono
in stato terminale».
ELEZIONI MONOCROMATICHE
Alle elezioni municipali di novembre il Frelimo ha stravinto, togliendo
alla Renamo anche i cinque municipi storicamente sotto il suo controllo, e ottenendo la maggioranza nelle assemblee municipali e i sindaci.
Tranne a Beira, seconda città del
paese, dove succede a se stesso l’indipendente Daviz Simango, già Renamo.
Il leader della Renamo, Alfonso
Dhlakama ha da tempo perso in popolarità ma non vuole farsi da parte.
Questa sconfitta, però, lo mette in
seria difficoltà e si parla di avvicendamento alla testa del partito, il più
grande, nonostante tutto, all’opposizione.
«Ci sarà vera opposizione solo
quando il Frelimo avrà una scissione
al suo interno» sostiene qualche osservatore. Intanto, si attendono le elezioni presidenziali di fine 2009, nel
perenne equilibrio tra compiacere ai
donatori e autodeterminazione del
proprio futuro. ■
AFRICA OCCIDENTALE
di Giulia Lanzarini, foto di Marco Bello
Cosa succede nelle scuole coraniche
NON SOLO CORANO
Affidati da piccoli al «Maestro» imparano a memoria
il libro sacro. Ma non solo.
La daara è una scuola di vita e di formazione
integrale. Si insegnano valori come l’umiltà,
la solidarietà e la convivenza pacifica. Ma quando
il Maestro si trasferisce in città i rischi
di sfruttamento e di mendicità sono elevati.
Non bisogna generalizzare.
o studio del «libro santo», il Corano, permette ai fedeli musulmani di orientarsi nel mondo e
di conoscere la loro missione terrena, perché: «La parola di Dio è l’architettura del mondo, è il mondo
stesso».
Le tre strutture fondamentali nella
L
trasmissione del sapere religioso
contenuto nel Corano sono: le moschee, all’interno delle quali secondo la tradizione profetica è sempre
prevista una zona dedicata all’educazione dei fedeli; le associazioni religiose (dahira); le scuole coraniche.
Nelle prime due il maestro riuni-
sce attorno a sé i discepoli adulti e
celebra e commenta alcuni passaggi dei testi fondamentali della religione islamica: il Corano, la Sunna e i
testi delle scienze islamiche.
Le scuole coraniche, invece, hanno
lo scopo di formare i giovani allievi
(generalmente di età compresa fra i
5 e i 15 anni) sia da un punto di vista
morale che conoscitivo, per forgiare
uomini e donne al servizio di Dio e
delle sue leggi. L’Islam propone
un’educazione omogenea del corpo
e dello spirito, in coerenza con i dettami della religione. Per questo motivo l’insegnamento islamico è un
processo di formazione e di trasformazione intellettuale, morale e spirituale, sulla base dei principi del Corano.
In Senegal, la scuola coranica è la
daara, termine che deriva dal nome
La Grande moschea
di Djenné, in Mali.
Il maggiore edificio
interamente costruito
in bankò (fango e paglia).
AFRICA OCCIDENTALE
arabo dâr, che significa dimora, casa. Le famiglie affidano i bambini in
tenera età a un maestro, con cui solitamente hanno legami di parentela o di conoscenza, e gli chiedono
di adempiere alla formazione dei
loro figli.
I maestri religiosi sono considerati
tra gli esseri più vicini a Dio, perché
sono le guide degli uomini sul cammino della fede. Essi godono di un
riconoscimento speciale in seno alle
comunità religiose e sono considerati garanti dell’armonia sociale, nel
rispetto delle norme coraniche.
L’appellativo marabout (marabutto), attribuito ai maestri coranici, è originario della Mauritania e significa
«uomo votato alla vita ascetica» per
descrivere l’attitudine alla preghiera, allo studio e all’insegnamento
che li contraddistingue.
LA LINGUA SACRA
Il bambino soggiorna presso il
maestro per diversi anni, durante i
quali percorre le varie tappe dell’insegnamento islamico, iniziando dalla recitazione mnemonica del Libro,
atto di lode a Dio, per proseguire
con lo studio di tutte le altre materie
religiose, come la teologia, il diritto
musulmano e la tradizione profetica. La pratica corretta della religione
islamica, a cominciare dall’obbligo
della preghiera cinque volte al giorno, presuppone, infatti, la memorizzazione dei versi coranici e la capacità di pronunciarli correttamente in
lingua araba (celebrare la parola di
Dio in modo scorretto è considerato
un grave sacrilegio).
Il Corano è un’opera colossale: è
composto da 114 sure, raggruppate
in trenta parti, ciascuna suddivisa in
due porzioni, le hizb, ripartite in
quarti, i rubu, articolati a loro volta in
otto parti, i sumun, composte ciascuna da 17 o 18 linee. È evidente quanto sia ardua l’impresa di memorizzare integralmente tutta l’opera (necessario in passato per la rarità delle
opere scritte), non solo per la quantità di versi che la compongono, ma
soprattutto per la lingua in cui essa
è scritta, di difficile accesso per le
popolazioni non arabe.
In quanto lingua della rivelazione
divina, l’arabo classico è considerato
dai popoli musulmani come l’alfabeto santo per eccellenza e come
tale deve essere tramandata di generazione in generazione. Essa stessa è considerata uno strumento di
accesso al soprannaturale.
La sacralità della scrittura, secondo la percezione dei credenti musulmani, è confermata dalla progressiva sostituzione degli amuleti
della tradizione africana con i sacchetti di cuoio contenenti un pezzo
di carta con alcuni versi coranici, ma
anche dalla tradizione popolare, la
quale vuole che un foglio su cui siano scritti versi coranici resista alle
fiamme. Il libro non può essere toccato se non dopo aver eseguito le abluzioni minori ed esso stesso viene
sovente adoperato come amuleto
contro la cattiva sorte.
Per quanto riguarda lo studio dei
contenuti, seconda tappa nel percorso formativo, la conoscenza del
«libro» permette di scoprire la ricchezza delle indicazioni divine che
regolano ogni aspetto della vita dell’individuo. Non solo da un punto di
vista spirituale, nel suo rapporto con
l’Onnipotente, ma anche per il ruolo
che egli deve svolgere all’interno
della società. Il libro racchiude tutta
la legislazione musulmana rispetto
alle questioni religiose, giuridiche,
sociali ed economiche. L’educazione
coranica, in senso ampio, comprende quindi non solo la nozione di istruzione, ma anche quella di formazione dell’allievo ed è considerata
fondamentale nella vita di ogni musulmano.
A SCUOLA DI SEMPLICITÀ
La scuola coranica in cui i giovani
discepoli vengono formati si trova
quasi sempre all’interno della casa
del maestro. L’austerità del luogo in
cui viene dispensato l’insegnamento ha radici profonde e risponde a
una scelta pedagogica ben precisa,
che raramente cambia al variare delle possibilità economiche del marabout. Egli educa i propri allievi sotto
un semplice riparo, una tettoia o un
albero, e i bambini sono seduti a
gambe incrociate su stuoie di paglia, le stesse che servono come giaciglio durante la notte.
L’unico strumento di cui dispongono gli allievi, almeno per i primi
anni di formazione destinati alla memorizzazione del Corano, è una tavoletta in legno su cui quotidianamente il maestro scrive i versi coranici da memorizzare nel corso della
giornata.
La giornata dei taalibe (dall’arabo
tâlib, ossia studente) comincia all’alba con la recita della preghiera del
mattino e si conclude con la preghiera della sera.
Lo studio dei versi impegna l’allievo per diverse ore al giorno, in alternanza con le faccende domestiche e
il lavoro agricolo. La distribuzione
dei compiti fra gli studenti è proporzionale all’età di ognuno. Secondo la
tradizione, il maestro possiede alcuni terreni coltivabili, fonti di sostegno per la sua famiglia e per tutti i
suoi discepoli. Le famiglie degli allievi contribuiscono raramente e in minima parte al mantenimento dei
Un esemplare delle tavolette
utilizzate dagli alunni
nelle scuole coraniche in Mali.
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MC GENNAIO 2009
MISSIONI CONSOLATA
nell’apprendimento e recupera il ritardo sul programma in tempi relativamente brevi.
Nella stessa prospettiva, molti
quadri senegalesi, sia del settore
pubblico che privato, riconoscono
negli anni trascorsi presso il loro
maestro la chiave del loro successo
sociale ed economico.
Tra gli elementi di forza del sistema va segnalato, infatti, che la scelta
della daara da parte delle famiglie è
giustificata non solo dal desiderio di
rispettare le indicazioni coraniche riguardo all’educazione dei giovani
musulmani, ma anche dalla promozione sociale che questi studi assicurano. L’hafitz (colui che ha completato lo studio del Corano), nel sistema
tradizionale, gode infatti di un grande prestigio sociale.
Sopra: articoli religiosi in un
mercato nel nord del Burkina Faso.
Di fianco: nelle daara senegalesi
si impara la convivenza
e la solidarietà.
bambini, che spetta invece al maestro stesso. Per definizione, infatti, il
marabout beneficia del sostegno divino per adempiere alla sua missione e ciò rappresenta per le famiglie
la garanzia più importante della
buona sorte dei propri figli.
Oltre a partecipare ai lavori agricoli, i bambini lasciano la daara negli
orari dei pasti per percorrere il villaggio più vicino e chiedere del cibo
di casa in casa, per necessità materiale, ma al tempo stesso affinché
imparino il valore dell’umiltà. L’elemosina concessa ai piccoli costituisce una partecipazione reale della
comunità alla formazione religiosa
dei suoi giovani membri.
PARERI A CONFRONTO
Il modello della daara tradizionale
presenta elementi di forza e di debolezza. Da un punto di vista pedagogico è riconosciuta l’efficacia della metodologia adottata riguardo allo sviluppo della memoria. Infatti, gli
esercizi di memorizzazione ripetuti
per diversi anni sembrano avere effetti prodigiosi sulla capacità di immagazzinare informazioni. È frequente incontrare allievi delle scuole coraniche che, avendo proseguito
lo studio delle scienze islamiche, riescono a ricordare migliaia di versetti
in lingua araba tra quelli che compongono le opere di teologia, di diritto e di grammatica.
Tuttavia, diversi studiosi avanzano
molti dubbi rispetto all’efficacia di
questa metodologia educativa, soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo della capacità di rielaborazione dei concetti, inibita dalla predominanza della facoltà mnemonica
su quella analitica.
Va evidenziato che molti insegnanti della scuola pubblica elementare non sono dello stesso avviso, poiché la loro esperienza dimostra che, se l’allievo ha
frequentato una daara per alcuni
anni prima di essere introdotto nell’insegnamento laico, ha più facilità
Dal punto di vista dell’educazione
morale, la permanenza prolungata
presso la daara (per diversi anni)
vuole creare le naturali condizioni
per l’assimilazione dei principi morali e delle norme sociali che il maestro
e la realtà comunitaria trasmettono.
FORMAZIONE INTEGRALE
Contemporaneamente all’istruzione, il sistema educativo coranico
si propone di sviluppare la personalità del bambino, stimolando lo spirito comunitario tra i taalibe della
stessa daara che per anni condividono momenti di studio, di lavoro e di
quotidianità. La solidarietà fra i bambini è una conseguenza naturale
MC GENNAIO 2009
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AFRICA OCCIDENTALE
della convivenza prolungata in condizioni difficili, che stimolano l’unione, al fine di superare le avversità di
tutti i giorni.
A questo riguardo, tuttavia, sono
pertinenti le considerazioni di P.
Marty sull’autonomia pedagogica
del maestro coranico, dalle cui qualità personali dipende interamente
l’insegnamento dei principi morali,
poiché non sottomesso a controlli esterni di strutture superiori.
La lontananza fra bambini e genitori, che si protrae per anni, è in parte voluta dal sistema educativo della
daara, che vede in questa separazione un fattore essenziale per il processo di crescita del giovane taalibe.
Allo stesso tempo, i genitori si sentono autorizzati in molti casi ad abbandonare i bambini nelle mani del
marabout, non facendogli visita per
tutta la durata del soggiorno nella
scuola e non informandosi del suo
stato di salute.
Questo fenomeno può essere in
parte giustificato sulla base delle
difficoltà economiche, che impediscono alla famiglia di affrontare il
viaggio per raggiungere la zona in
cui si trova la daara, e della tradizione che prevede l’affidamento totale
del bambino a un parente per consolidare i legami tra i membri della
famiglia, fenomeno valido a maggior ragione se il congiunto in questione è un maestro spirituale.
Tuttavia, questi elementi di riflessione sulle cause del disimpegno
genitoriale non trovano giustificazione nei testi sacri, poiché sia il Corano che la tradizione profetica insistono sulla responsabilità della famiglia, in primo luogo, rispetto
all’educazione del bambino. Inoltre,
non alleviano il dramma del sentimento di estraneità che si crea fra il
bambino, allontanato troppo presto
dal nucleo famigliare, e i genitori,
che può essere accompagnato da
frustrazione e senso di abbandono.
Il rapporto affettivo con il maestro
coranico può compensare solo in
parte il vuoto lasciato dai genitori,
poiché questi è responsabile di diverse decine di bambini tra i quali
deve dividere le proprie attenzioni.
STUDIO E LAVORO
Riguardo alle prove che il bambino deve superare nel suo percorso
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MC GENNAIO 2009
di formazione in seno alla daara tradizionale, è fondato il dubbio che
possano essere eccessive per la giovane età dell’allievo, poiché il taalibe
può raggiungere livelli di sofferenza
che rischiano di inibirne lo sviluppofisico e intellettuale.
La carenza di riposo, date le poche
ore di sonno concesse fra la sessione
serale di studio e la sveglia mattutina per pregare (si tratta solitamente
di un tempo inferiore alle sei ore), e
le rare occasioni di vacanza, possono sul lungo periodo indebolire il fisico del bambino.
Solo una minoranza dei maestri è
favorevole all’interruzione delle lezioni e al ritorno presso la famiglia,
in occasione delle feste religiose
della Korité, la festa della rottura del
digiuno del mese di Ramadan (il nono mese dell’anno lunare) e della
Tabaski, la festa del sacrificio (celebrata nel dodicesimo mese dell’anno lunare, in ricordo della fede di Abramo, pronto a sacrificare il suo
stesso figlio per obbedire a Dio).
Molto più comune è l’usanza di
consacrare il riposo settimanale, dal
mercoledì pomeriggio al venerdì
Taalibe nel nord del Senegal: sono
costretti a mendicare per dare un
contributo alla propria daara.
pomeriggio, e le ricorrenze religiose
ai lavori domestici o al ripasso delle
lezioni apprese. I maestri coranici ritengono in genere che una pausa
possa interferire negativamente sulla concentrazione dei taalibe, che
una volta rientrati alla daara dovranno spendere più energie per riprendere il ritmo di studio abituale. Per
questa ragione molti allievi non
rientrano presso la casa paterna, che
una volta completato lo studio integrale del Corano.
Riguardo ai metodi correttivi adottati, va rilevato che in alcuni casi
è stata constatata una dismisura nel
ricorso alle punizioni corporali. Poiché oltre al maestro, anche i taalibe
più grandi sono autorizzati a punire
il discepolo, gli atti di questi ultimi, a
causa dell’immaturità, possono degenerare in gravi incidenti.
LE SCUOLE MIGRANTI
Le considerazioni fatte riguardano
il sistema della daara tradizionale,
che, per quanto austero, garantisce
le condizioni essenziali di sicurezza
e di crescita del bambino. Esse assumono, invece, una connotazione
grave se analizzate alla luce dell’evoluzione che ha caratterizzato il sistema delle scuole coraniche nella se-
MISSIONI CONSOLATA
Aula di lezione di una scuola
coranica nel Mali: la semplicità
è un aspetto fondamentale.
conda metà del XX secolo.
Come abbiamo detto, l’insegnamento coranico tradizionale si sviluppa originariamente in ambito rurale, in una dimensione comunitaria
di villaggio, dove i piccoli taalibe, anche al di fuori della daara, beneficiano del controllo e della protezione
sociale, su cui si basano i rapporti fra
le famiglie che abitano lo stesso territorio.
Tuttavia, dopo l’indipendenza, esso non rimane indenne al fenomeno
migratorio verso i centri urbani, che
colpisce tutta la società senegalese.
Alla fine degli anni ’70, infatti, la
situazione economica nazionale si
trasforma rapidamente, a causa di
lunghi periodi di siccità che colpiscono il paese, obbligando i contadini ad abbandonare i loro villaggi
e a spingersi verso i poli economici
in cui dominano settori diversi da
quello agricolo.
L’esodo rurale, che spinge migliaia di persone verso le città, fa sì
che le infrastrutture cittadine, ancora deboli, non riescano a contenere
la pressione demografica, con un riversamento in direzione delle periferie dove si sviluppano distese di
case abusive, le cosiddette fakkdekk, costruite con materiali di recupero, sprovviste di tutti i servizi e
in cui la gente vive in condizioni igieniche e sanitarie precarie.
In queste circostanze si sviluppa il
fenomeno delle scuole coraniche
migranti, le noorane kat. Poiché, come tutti gli altri contadini, i marabutti installati nelle campagne hanno grandi difficoltà ad assicurare l’alimentazione delle decine di
bambini che hanno in affidamento,
sono costretti a trasferirsi verso le
zone urbane.
Le scuole coraniche migranti si distinguono in due categorie: le scuole stagionali e quelle stanziali. Le prime si installano nelle periferie delle
città solo durante i mesi della stagione secca, per cercare nei centri
urbani i mezzi di sostentamento,
poiché i terreni aridi non garantiscono più un raccolto sufficiente a coprire i bisogni di tutto l’anno.
Durante la stagione delle piogge,
nel periodo che va da giugno a set-
tembre, il marabout e i suoi discepoli
tornano nel villaggio originario per
praticare l’agricoltura.
Le scuole stanziali, invece, sono
quelle in cui il maestro, proveniente
da un’altra regione o dalle campagne, si trasferisce definitivamente
con i suoi taalibe ai margini della
città. Naturalmente il fenomeno migratorio non riguarda solo il nucleo
famigliare del maestro, ma anche
tutti i suoi discepoli, che egli porta
con sé. Le famiglie stesse dei taalibe
incitano il marabutto a trasferirsi, identificando nella migrazione l’unica soluzione di sopravvivenza per i
loro figli ed, eventualmente, un’occasione di inserimento nel mercato
del lavoro, che il villaggio non offre e
che potrebbe portare beneficio a
tutta la famiglia.
SFRUTTAMENTO E MENDICITÀ
Le conseguenze della migrazione
verso i centri urbani sulle condizioni
di vita dei taalibe sono spesso drammatiche, poiché la principale fonte
di reddito del marabutto diventa la
mendicità degli allievi, che ogni
giorno, oltre a occuparsi del proprio
nutrimento, devono assicurare una
certa cifra che permetta al maestro
e alla sua famiglia di sopravvivere.
È evidente che in questo contesto
il rischio di sfruttamento del bambino è elevato. Egli si trova in un contesto estraneo, meno protetto rispetto alla realtà comunitaria di villaggio, esposto a nuovi pericoli,
legati al traffico automobilistico, al
rischio di abuso, alle condizioni igieniche e alimentari penose.
Le violenze subite dei taalibe che
praticano la mendicità attirano sempre di più l’attenzione dell’opinione
pubblica, che chiede allo stato e agli
organismi internazionali di intervenire per tutelare la salute fisica e
mentale del bambino, pur conservando la tradizionale trasmissione
del sapere religioso attraverso le
scuole coraniche.
Il contesto urbano è inoltre più
soggetto al fenomeno di installazione di scuole coraniche create da falsi
maestri, che vedono nell’insegnamento una possibile fonte di reddito. In questi casi il bambino trascorre tutta la giornata per strada a raccogliere l’elemosina e, se
interrogato sul verso coranico che
sta imparando, risponde a stento e
con una pronuncia scorretta i primi
versi della fâtiha, la prima sura insegnata nelle scuole coraniche. In generale, il traguardo della memorizzazione del libro in questi casi non
viene mai raggiunto.
In questi casi estremi, che non devono essere generalizzati a tutto il
sistema delle scuole coraniche, il
taalibe non beneficia né di un’istruzione in materia religiosa né di un
accompagnamento nel suo processo di crescita e di formazione ai valori morali e sociali. Al contrario, le situazioni che vive quotidianamente
possono compromettere profondamente il suo sviluppo, creargli traumi fisici e psicologici che lo accompagneranno per tutta la vita. ■
MC GENNAIO 2009
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NOSTRA MADRE TERRA
Seconda puntata: l’inquinamento delle falde
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L’acqua, un bene vitale in grave pericolo
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CONTAMINAZIONE
(profonda)
Contaminazione da nitrati e fitofarmaci, ma anche da arsenico, cromo, materiali
radioattivi: le acque di falda sono in grave pericolo. Esse rappresentano il 50%
del totale, ma in Italia il 28% di esse risulta ormai contaminato. Nonostante
l’inadeguatezza dei controlli, i casi di inquinamento sono all’ordine del giorno.
Per capire la gravità del problema, va ricordato che l’acqua dolce non è una
risorsa illimitata. Spetta ai cittadini aprire gli occhi ed agire di conseguenza.
ell’articolo precedente (MC, settembre 2008) ci siamo occupati
dell’inquinamento, che contamina buona parte dei fiumi della terra. In questa puntata, vedremo invece
come anche le falde idriche sotterranee non stiano affatto bene di salute,
anzi in certi casi la situazione è oltremodo drammatica. Ricordiamo che, in
Italia, le acque di falda rappresentano
il 50% del totale (che è di 70 miliardi di
m³) delle acque fornite annualmente
dagli acquedotti nazionali, mentre il
15% proviene dai corsi d’acqua superficiali e il 35% dalle sorgenti.
A livello mondiale, le falde idriche
profonde racchiudono circa 45.000
km³ di acqua, proveniente dalle precipitazioni atmosferiche e a loro è affidata una importante funzione di riserva.
L’infiltrazione d’acqua nel sottosuolo dipende dalla consistenza del
terreno, ma anche dal grado della sua
cementificazione, che è senz’altro un
fattore limitante. Il tempo per il riciclo
delle falde è lunghissimo, circa 1.400
anni, contro i 20 giorni dei fiumi. È
evidente che la percolazione di sostanze inquinanti nelle falde può ridurre drasticamente la disponibilità
di acqua, oltre che compromettere
pericolosamente la salute di milioni
di persone. Purtroppo, le capacità autodepuratrici degli ecosistemi acqua-
N
58
MC GENNAIO 2009
tici sono diventate spesso insufficienti, a causa della contaminazione sempre maggiore di sostanze poco o per
nulla biodegradabili.
In Italia, secondo i dati forniti dall’Apat (Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici), relativi all’ultimo triennio, il 28% delle acque di
falda risulta contaminato. Oltre la
metà dei pozzi esaminati ha mostrato
segni di compromissione, nelle nove
regioni, che hanno aderito alla campagna di monitoraggio chimico. In
particolare sono risultate più inquinate le falde del nord Italia, cioè delle regioni più industrializzate e dedite all’agricoltura di tipo intensivo, soprattutto per la presenza di erbicidi come
l’atrazina (vietata a partire dagli anni
’80, ma tuttora presente nei terreni,
data la sua scarsa biodegradabilità), la
terbutilazina, il bentazone, utilizzato
specialmente nelle risaie (quindi presente in elevata quantità nelle acque
del pavese e del vercellese) e il metolaclor, utilizzato in quantità industriale nelle grandi distese di mais dell’area padano-veneta.
L’invasione dei nitrati
Il problema dell’inquinamento delle acque di falda con prodotti fitosanitari è duplice, poiché, se da un lato l’uso di tali prodotti è inquinante per le
falde, dall’altro si rischia di avere la
compromissione della qualità dei
prodotti agricoli, come conseguenza
dell’irrigazione con acque di falda
contaminate.
In Piemonte, l’inquinamento delle
falde da fitofarmaci è in costante aumento dal 2000 e attualmente oltre
un quarto dei campioni relativi alle
falde superficiali risulta contaminato,
come il 7% dei campioni relativi alle
falde profonde (è stata riscontrata la
presenza di 18 principi attivi, su un totale di 60 molecole ricercate); in particolare risulta contaminato il 60% dei
campioni esaminati, in provincia di
Vercelli e il 10% in provincia di Cuneo.
Questo fatto induce a pensare che
non tutti gli agricoltori rispettino la
normativa regionale e nazionale circa
il divieto di utilizzo di determinate sostanze, come atrazina e bentazone, altamente dannose per la salute uma-
na. Oltre alle sostanze suddette, un
gravissimo problema per le acque di
falda è rappresentato dalla presenza
di nitrati, che in molti casi (talvolta
anche nell’acqua potabile) arrivano a
superare i limiti di legge, fissati in 50
mg/l. I nitrati derivano dai fertilizzanti
azotati, dai reflui dei grandi allevamenti e dagli scarichi civili non opportunamente depurati e in alcune
aree, come la pianura padana, caratterizzata da agricoltura e allevamenti
intensivi, essi raggiungono livelli record d’inquinamento. Questo problema è molto esteso in Europa, di conseguenza la Commissione europea
ha emanato una direttiva in materia
(Direttiva nitrati 91/676).
Alla contaminazione da composti
azotati contribuiscono anche le piogge acide, che riportano al suolo e alle
acque i contaminanti dispersi nell’atmosfera. In Italia si sono avuti gravi
casi di contaminazione da nitrati in
Piemonte, Lombardia, Toscana, Marche e Campania. Emblematico è il caso di Fano (Ancona), rifornita per anni
con acqua potabile, in cui sono stati
riscontrati livelli di nitrati fino a 150
mg/l. I danni da nitrati sono conosciuti fino dal 1945, quando è stato riportato, per la prima volta, su Jama
un caso letale di intossicazione.
In particolare un’alta concentrazione di nitrati nell’acqua rappresenta un grave problema per i lattanti,
soprattutto nei primi tre mesi di vita,
poiché i nitrati, a opera della flora
batterica intestinale, si trasformano
in nitriti, che vengono assimilati e
sono in grado di alterare l’emoglobina, con conseguente difficoltà di trasporto dell’ossigeno ai tessuti. I nitrati possono peraltro causare seri
danni anche nella popolazione adulta, poiché i nitriti, da essi derivanti,
possono formare nitrosamine, specialmente a livello dello stomaco,
per reazione con amine secondarie
di origine alimentare e alcune di
queste sostanze sono dei potenti
cancerogeni. In particolare, degli studi condotti in Danimarca, Inghilterra,
Ungheria, Italia, Cile, Colombia e Cina
hanno associato l’esposizione ai nitrati con una maggiore frequenza
dei tumori gastrici.
«Di tutto, di più»...
nelle nostre acque
Oltre ai fitofarmaci e ai nitrati, nelle
acque di falda italiane si trovano,
spesso in quantità di molto superiori
ai limiti di legge, sostanze residue di
attività industriali di vario genere. In
questi casi, le cause di contaminazione sono legate sia alle acque di processo, che a quelle di raffreddamento
degli impianti.
È particolarmente pesante l’impatto ambientale dell’industria chimica,
dove gli inquinanti presenti nelle acque di processo variano, a seconda
del tipo di produzione; ad esempio,
gli effluenti della produzione di detersivi sono contaminati da tensioattivi e da fosfati, quelli delle resine sintetiche da solventi e da sostanze organiche, mentre quelli dell’industria
degli inorganici di base contengono
metalli pesanti. Altri settori, che vanMC GENNAIO 2009
59
NOSTRA MADRE TERRA
Glossario
no dalla siderurgia all’industria alimentare, possono contribuire in diverso modo all’inquinamento delle
acque. Ad esempio le sostanze adoperate per la sterilizzazione dei cibi
possono agire come inibitori, nei processi di biodegradazione dei sistemi
acquatici.
Molto spesso le cause di contaminazione chimica delle falde sono correlate con lo smaltimento sul suolo o
nel sottosuolo degli scarichi industriali, effettuato in modo abusivo, o
in mancanza di collettori idonei. Negli ultimi anni i casi più gravi d’inquinamento industriale delle falde si sono avuti per perdita di liquidi dagli
impianti stessi, o da serbatoi interrati,
oppure da rifiuti sepolti nel sottosuolo. Vale la pena di ricordare alcuni casi
di gravissimo inquinamento ambientale, che si sono verificati in Italia ne-
gli ultimi anni. In Maremma, nella
provincia di Grosseto 22 siti, corrispondenti a circa 300 ettari, sono stati contaminati da arsenico e da mercurio, finiti nei pozzi dell’acqua potabile, mentre polveri di pirite, piombo,
cadmio e manganese sono stati accumulati nei terreni coltivabili (Corriere della Sera, 12/05/2001).
Le attività dell’Eni:
chi inquina, non paga
Queste sostanze derivano dall’attività di industrie, come l’Eni e la Tioxide, produttrice di biossido di titanio.
Oltre ad esse è stata rilevata la diossina proveniente dall’inceneritore di
Scarlino (Grosseto), appartenente alla
società «Ambiente S.p.A.» dell’Eni,
entrato in funzione nel 1999 e sorto
sui tre forni, in cui si arrostiva la pirite
ARTA: Agenzia Regionale per la Tutela dell’Ambiente.
ATRAZINA: è un principio attivo usato come erbicida, appartenente alla classe delle cloro tiazine. È adatto al diserbo principalmente di mais, sorgo e canna da zucchero. Presenta elevata persistenza ambientale, con conseguente rinvenimento nelle acque superficiali e di falda. È assai poco biodegradabile. In
Italia ed in altri Paesi europei, il suo uso è proibito dal 1992, data la sua possibile azione cancerogena.
BENTAZONE: è un erbicida, che inibisce la fotosintesi clorofilliana, causando la deplezione delle riserve di carboidrati e la perdita dell’integrità della membrana dei cloroplasti (organuli cellulari deputati alla fotosintesi clorofilliana).
BEQUEREL: unità di misura dell’attività di una sostanza radioattiva.
BIOSSIDO DI TITANIO: per il suo elevato potere coprente e la sua
grande inerzia chimica, è attualmente il prodotto più impiegato come pigmento bianco (bianco di titanio) nelle pitture e
vernici, nella carta, nei laminati plastici, nelle fibre tessili, nella gomma, nei prodotti ceramici, negli inchiostri e nei cosmetici.
CESIO: alcuni suoi isotopi radioattivi si formano nelle reazioni
di fissione nucleare e sono probabilmente pericolosi, perché
vengono fissati dagli organismi vegetali ed animali. Nell’incidente di Chernobyl del 1986 è stato uno dei principali responsabili della contaminazione radioattiva.
COLIFORMI: sono un gruppo di microorganismi a forma di bastoncello, gramnegativi, aerobi ed anaerobi facoltativi, non
sporigeni, che fermentano il lattosio, con produzione di gas e
di acido. I coliformi fecali di origine umana sono delle Enterobatteriacee. Essi rappresentano un indubbio indice di contaminazione delle acque. Tra questi batteri sono comprese le Salmonelle, che sono delle Enterobatteriacee responsabili di malattie infettive di tipo gastroenterico, oltre che, in alcuni casi,
di malattie setticemiche a sede extraintestinale.
CROMO ESAVALENTE: i composti, da esso derivati, hanno largo impiego nella produzione di vernici, vetri, ceramiche ed inoltre
nella concia delle pelli, nell’industria tessile, per la colorazio-
60
MC GENNAIO 2009
(minerale impiegato nella produzione dell’acido solforico).
La Iarc (International agency for research on cancer) classifica l’arsenico
come «cancerogeno di gruppo 1» e,
secondo un suo studio, per valori di
tale sostanza compresi tra 0,35 e 1,14
mg /l nell’acqua, è molto elevato il rischio di tumori a vescica, rene, cute,
polmone, fegato e colon.
Nell’acqua di un pozzo di Scarlino è
stata rilevata una concentrazione di
arsenico pari a 3,3 mg/l. Sono stati avvelenati una quindicina di pozzi, che
fino al 1997 hanno pescato dalle falde
idriche sotterranee. I 3 pozzi, che per
25 anni hanno servito Follonica sono
stati chiusi e in uno di loro il mercurio
superava di 50 volte i limiti di legge.
Arsenico e mercurio penetrati nelle
falde della provincia di Grosseto, Argentario compreso, derivano dalla la-
ne dei tessuti, nella preparazione di diversi prodotti chimici e
nei trattamenti di superficie di metalli meno nobili (cromatura) per le sue proprietà antiruggine. La maggior parte dei composti del cromo presenta una tossicità relativamente elevata
per tutti gli organismi viventi.
FLUORURI: composti del fluoro con metalli e non-metalli. Nel primo caso si possono considerare sali dell’acido fluoridrico, come il fluoruro d’alluminio, usato nella raffinazione dell’alluminio. I fluoruri con i non-metalli comprendono una serie di
composti molto reattivi, che il fluoro forma con gli altri alogeni, con il boro e con il silicio.
FOSFATI: sali degli acidi fosforici. Sono degli ottimi concimi, poiché il fosforo costituisce un elemento essenziale per lo sviluppo delle piante.
IPERCHERATOSI: abnorme aumento dello spessore dello strato corneo dell’epidermide, in alcune zone della cute. Può essere causato da diversi fattori, tra cui l’azione dei raggi ultravioletti. In
questo caso si parla di cheratosi attinica, che è una precancerosi.
METOLACLOR: principio attivo di protezione del mais, efficace soprattutto contro le infestazioni da graminacee.
NITRATI E NITRITI: sali dell’acido nitrico solubili in acqua, ossidanti allo stato fuso, ma non in soluzione acquosa. I nitrati dei metalli alcalini, a temperature elevate perdono ossigeno, trasformandosi in nitriti. Il nitrato di sodio è il componente principale del nitro del Cile, che era l’unica fonte di fertilizzanti azotati
prima della diffusione dei concimi chimici sintetici. Il nitrato
d’ammonio ed il nitrato di calcio sono impiegati come fertilizzanti azotati. Il nitrato d’argento è impiegato in chimica analitica, per riconoscere e dosare gli alogeni. Il nitrato di potassio
o salnitro è usato nella polvere da sparo, nella fabbricazione
dei fiammiferi e dei fuochi d’artificio.
NITROSAMINE: nitrosoderivati con attività carcinogenetica per
l’uomo, in cui agiscono sia per inalazione, che per ingestione.
Sembra accertato che i nitrosoderivati si formano nell’organismo, attraverso il metabolismo di nitroderivati e di ammine.
PLUTONIO: è un metallo notevolmente reattivo, come l’uranio. Il
MISSIONI CONSOLATA
vorazione della pirite, che prima Montedison e poi Eni hanno accumulato a
cielo aperto in vere e proprie colline
di rifiuti tossici, poggianti su acquitrini, come quelli del Casone e del Padule di Scarlino, dove l’acqua è ormai di
tutti i colori. Qui la pirite è stata accumulata in vecchie vasche di acido
solforico, che ha facilitato la cessione
all’ambiente di arsenico e di mercurio,
come spiega Roberto Barocci di Italia
Nostra, docente di Economia e Assetto del territorio e autore di Arsenico
(Stampa Alternativa).
Inoltre, la Coldiretti ha accusato l’Eni di avere ceduto gratuitamente agli
agricoltori, come materiale sterile e
inerte, gli scarti della lavorazione della pirite, da utilizzare nel rifacimento
del fondo delle strade interpoderali.
L’Eni si è sempre difesa, sostenendo
che gli scarti della pirite non hanno
ceduto metalli pesanti all’acqua in
quantità tossica ed è stata sostenuta
in tal senso dall’Arpat, secondo la
quale l’arsenico e le altre sostanze in
quell’area ci sono da sempre e ne costituirebbero una caratteristica geologica. Tale conclusione avrebbe evitato all’Eni i costi di bonifica.
Di diverso avviso è stato però il
Pubblico ministero (Pm) di Grosseto
Vincenzo Pedone, che ha decretato il
sequestro dell’inceneritore di Scarlino, ha definito il degrado ambientale
del comprensorio Follonica-Scarlino
come «fatto notorio e addirittura
eclatante, per ciò che attiene alla gravissima compromissione delle risorse
idriche», ha anche constatato
l’assenza di controlli pubblici e ha inviato l’avviso di garanzia al direttore e
all’amministratore delegato di Ambiente S.p.A. Nel frattempo, alcune
pericolose discariche dell’Eni hanno
cambiato proprietà.
Dal Piemonte all’Abruzzo
Altri casi d’inquinamento delle falde sono, ad esempio, quello del rinvenimento nella falda di Aosta, nel giugno 2004, di eccedenze, rispetto ai limiti fissati dal D. Lgs. 152/99, di cromo
esavalente, di fluoruri, di nichel, di solventi clorurati come tetracloroetilene
e cloroformio e di solventi aromatici.
Tali sostanze sono correlabili soprattutto con l’attività della Cogne Acciai
Speciali di Aosta e inoltre, specialmente per la presenza in falda di ferro
e manganese, con la discarica di Brissogne. Altri casi sono l’inquinamento
da cromo esavalente nella falda di
Asti, quello recentissimo (maggio
2008) sempre da cromo esavalente a
biossido di plutonio è impiegato come combustibile nucleare,
in miscela con il biossido di uranio. Allo stato elementare è particolarmente adatto come materiale fissile, per armi nucleari.
REDOX: abbreviazione di ossido-riduzione; si tratta di una reazione,in cui avvengono in contemporanea l’ossidazione di un
composto e la riduzione di un altro. Il primo composto, cioè,
acquisisce elettroni, mentre il secondo li cede.
SOLVENTI AROMATICI: solventi contenenti nella loro molecola degli anelli aromatici a 6 atomi di carbonio. Hanno un caratteristico odore (da cui il nome) e sono cancerogeni. Tra loro abbiamo il benzene, il toluene e lo xilene, comunemente definiti benzolo, toluolo e xilolo.
SR-90 O STRONZIO-90: isotopo radioattivo dello stronzio. Si forma nelle esplosioni nucleari e, attraverso la catena alimentare, può entrare nell’organismo umano, dove tende a fissarsi
nelle ossa e nei denti, causando l’insorgenza di gravissime malattie da radiazione.Trova applicazioni come tracciante in medicina ed in biologia.
TENSIOATTIVI: sostanze che, sciolte in piccola quantità in soluzioni
acquose, ne diminuiscono la tensione superficiale, aumentandone il potere bagnante. Come conseguenza si ha un aumento delle proprietà schiumogene, detergenti, emulsionanti, disperdenti e della capacità di penetrazione in materiali porosi delle soluzioni acquose contenenti tensioattivi.
TERBUTILAZINA: diserbante utilizzato sul mais. È un «non classificato» per i rischi umani, ma è stata documentata la sua incidenza sui tumori mammari dei topi. È altamente tossico per gli
organismi acquatici quindi, a lungo termine, può avere effetti
negativi sull’ambiente acquatico.
TRIZIO: isotopo radioattivo dell’idrogeno, che presenta un nucleo con un protone e due elettroni. Si forma in quantità più
o meno rilevanti in tutti gli impianti nucleari, sia durante la
fissione dell’uranio, sia nei reattori raffreddati ad acqua pesante, in seguito all’irraggiamento neutronico del deuterio.
Può dare origine a diverse reazioni nucleari, sfruttabili per ottenere energia termonucleare, in modo controllato. Può essere usato in chimica, medicina e biologia, come tracciante radioattivo.
Inquinamento del fiume Merse in provincia di Grosseto.
MC GENNAIO 2009
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NOSTRA MADRE TERRA
La Cogne Acciai Speciali di Aosta.
Spinetta Marengo (Alessandria), quello da arsenico a S. Antonino di Susa
(Torino).
Il caso più grave in Italia e forse in
Europa è però quello dell’inquinamento delle falde di Bussi e della Val
Pescara in Abruzzo, un disastro ambientale di proporzioni inimmaginabili per le potenziali conseguenze
sulla salute di 500.000 cittadini, che
hanno usufruito per anni dell’acqua
inquinata prelevata dal campo pozzi
S. Angelo di Bussi. I valori degli inquinanti tossici e cancerogeni in falda
hanno raggiunto punte di 300.000
volte i limiti di legge per il cloroformio, di 420.000 volte per il tetraclorometano, di migliaia o decine di migliaia di volte per altre sostanze pericolose, tra cui mercurio, cloruro di
vinile, tricloroetilene, tetracloruro di
carbonio, ecc. Queste sostanze, secondo il Pm Aceto, che ha condotto
l’inchiesta, al termine della quale ha
inviato 33 avvisi di garanzia, sono state riversate nel fiume Pescara fino al
1963 e successivamente stipate in
megadiscariche, lungo i fiumi Tirino e
Pescara.
Anche in questo caso si tratta degli
scarti di lavorazioni della Montedison. L’inchiesta è nata da una denuncia del WWF, basata sui referti di analisi condotte e pagate privatamente da
tale associazione, già nel 1997 (ripetute nel 2007) e seguite da analisi dell’Arta nel 2004, a seguito delle quali i
pozzi S. Angelo, che servivano l’area
metropolitana di Chieti-Pescara, sono
stati chiusi nel 2005 e riaperti parzialmente nel 2007, dopo l’utilizzo di filtri
62
MC GENNAIO 2009
a carbone attivo (tali pozzi, a monte
dei quali si trova una grande industria
chimica, erano attivi dal 1990).
La vicenda è resa ancora più grave,
se possibile, dal fatto che l’Istituto superiore di Sanità aveva espresso un
parere, in cui dichiarava le acque
emunte da questi pozzi come «non
idonee al consumo umano»; ma, secondo il pm Aceto, nessun sindaco o
amministratore e nemmeno la Direzione sanitaria dell’Asl hanno reagito
con la dovuta fermezza; anzi, quest’ultima ha appoggiato in pieno
l’operato del responsabile del Sian
(Servizio igiene alimenti e nutrizione)
dell’Asl, ora indagato.
Peraltro, secondo il magistrato, i responsabili della Montedison erano a
conoscenza dell’inquinamento delle
falde e delle conseguenze sui pozzi
destinati all’acquedotto già dal 1992.
I 33 avvisi di garanzia sono stati
emessi nel maggio 2008.
Contaminazione
radioattiva? Presente!
In mezzo a tutti questi veleni, potevamo farci mancare una contaminazione radioattiva delle falde? No, naturalmente; infatti il 17 agosto 2006
l’assessorato all’Ambiente della regione Piemonte ha reso pubblica la contaminazione radioattiva delle falde a
Saluggia, dove dall’intercapedine della piscina dell’impianto Eurex, contenente un deposito di materiali radioattivi, c’è stato un rilascio di acqua
contaminata dal radionuclide Sr-90.
Peraltro, già nel giugno 2004, la So-
gin (esercente dell’impianto Eurex)
aveva comunicato che la piscina presentava una fuoriuscita di liquido radioattivo, con una contaminazione
della parete esterna della sua intercapedine di 1.000 Bq/dm². A Saluggia
gli impianti nucleari e la piscina della
Eurex si trovano proprio sopra le falde acquifere, che meno di 2 Km a valle alimentano i pozzi dell’acquedotto
del Monferrato, che porta l’acqua a
più di cento comuni nelle province di
Torino, Asti e Alessandria.
Va detto che, per incidenti di questo tipo, siamo in buona compagnia.
In Francia, infatti, nel maggio 2006 è
stata rilevata radioattività nelle falde
acquifere della Normandia 7 volte superiore al limite imposto da una legge europea di 100 Bq/l. In questa zona è stato costituito un deposito di rifiuti radioattivi provenienti dalle 58
centrali nucleari francesi, ma anche
dalla Germania, Olanda, Belgio, dal
Giappone, Svizzera e Svezia (nonostante sia illegale per la legge francese stoccare materiali radioattivi provenienti dall’estero).
L’acqua della falda è risultata contaminata da trizio, che è un indicatore di futura contaminazione da altri
radionuclidi, come stronzio, cesio e
plutonio, sostanze cioè sicuramente
cancerogene.
È invece di quest’anno, luglio 2008,
l’incidente francese di Tricastin, dove
sono stati registrati anomali valori di
uranio nell’acqua di falda. Secondo la
Criirad (Commissione di ricerca e di
informazione indipendente sulla radioattività), tale contaminazione è da
attribuire, più che all’incidente occorso all’impianto di Tricastin, alla presenza di materiale radioattivo di una
precedente installazione militare, che
aveva funzionato in quella zona tra il
1964 e il 1996 per la produzione di armi atomiche, grazie all’arricchimento
dell’uranio. I residui della lavorazione
vennero interrati, senza particolari
precauzioni e l’acqua piovana ha potuto scorrere a contatto delle scorie,
disperdendo l’uranio nel terreno. La
fuoriuscita di uranio nella falda di Tricastin ammonta a 74 Kg.
Occhio alle acque minerali
A leggere cose come queste, si potrebbe pensare che forse è meglio
MISSIONI CONSOLATA
bere acqua minerale, anziché del rubinetto, ma prima di farlo, è bene
considerare il fatto che esiste un decreto legge del 29/12/2003, dell’allora ministro della Salute Sirchia, sulle
acque minerali, il quale ha introdotto
una soglia di tolleranza per svariate
sostanze tossiche ad alto rischio.
Le aziende produttrici di acque minerali possono così immettere sul
mercato dei prodotti, che prima sarebbero stati fuorilegge e che contrastano con le normative europee. In
pratica, grazie a questo decreto esiste
una lunga lista di sostanze, tra cui
tensioattivi, oli minerali, antiparassitari, policlorobifenili, idrocarburi, ecc.,
per le quali, al di sotto della soglia di
rilevabilità strumentale, le aziende
produttrici possono continuare a dichiarare come esenti da ogni tipo
d’inquinamento le acque minerali
che producono.
Nel giugno 2003, la procura di Torino avviò un’inchiesta, da cui emerse
che 23 delle 28 marche di acqua minerale analizzate non rispettavano
l’obbligo di legge di essere completamente prive delle sostanze tossiche suddette; successivamente il numero delle marche non in regola è
salito a 86.
La differenza tra le quantità di sostanze ammesse per le acque minerali, rispetto all’acqua potabile, è dovuta al fatto che le minerali vengono
considerate «bevande», come il vino
ad esempio, e quindi sono soggette a
una normativa meno restrittiva, di
quella per l’acqua potabile. Se consideriamo la possibile contaminazione
da piombo, il valore soglia del vino è
molto superiore a quello dell’acqua
potabile, perché si ritiene che il consumo quotidiano della bevanda vino
debba essere decisamente inferiore a
quello dell’acqua. Così vengono messe in vendita acque contaminate «a
norma di legge».
Inquinamento naturale
da fluoruri e da arsenico
Esistono, inoltre, in parecchie aree
geografiche della terra, dei casi d’inquinamento delle falde, talora anche
per cause naturali e non solo antropiche, che hanno portato milioni di
persone in condizioni di salute drammatiche. Si tratta delle contaminazioni delle falde da fluoruri e da arsenico.
L’inquinamento da fluoruri ha determinato la comparsa di fluorosi
scheletrica, una malattia che danneggia soprattutto gli arti in crescita e
che può arrivare a compromettere
anche la spina dorsale e il sistema
nervoso, in milioni di bambini in India, ma anche in Cina, in Niger, in
Etiopia, laddove cioè sono state installate pompe manuali nei villaggi,
per fornire alle popolazioni acqua sicura, cioè non contaminata, come le
acque superficiali, da coliformi e da
altri agenti patogeni responsabili di
gravissimi casi di colera, tifo e diarrea.
I fluoruri sono sostanze normalmente presenti nelle rocce granitiche
Fiume inquinato dagli scarichi
industriali: uno tra i casi infiniti.
del sottosuolo di gran parte dell’India
e di altre aree geografiche e possono
sciogliersi lentamente nelle acque di
falda, senza peraltro allontanarsi molto dallo strato granitico. Ciò significa
che risultano contaminate solo le acque dei pozzi profondi, mentre quelle dei pozzi superficiali risultano pulite.
Purtroppo, però, i continui prelievi
d’acqua, alla lunga determinano un
abbassamento delle falde e la necessità di scavare pozzi più profondi.
L’inquinamento più grave è però
quello da arsenico, che ha provocato
quello che dall’Oms viene definito «il
più grave avvelenamento della storia
dell’umanità», che riguarda soprattutto il Bangladesh e il delta del Gange. A causa di tale avvelenamento, il
futuro della popolazione del Bangladesh è gravemente compromesso.
Ma l’arsenico ha colpito anche altre
zone del delta del Gange, come il
Bengala occidentale in India e parte
del sud del Nepal. Questo problema è
presente anche nelle falde di Argentina, Cile, Messico, Cina, Vietnam,
Taiwan, Nepal, Myanmar, Cambogia,
Ungheria, Romania e di parecchie zone del sud-ovest degli Stati Uniti.
In Bangladesh, negli anni ’70, per limitare i casi di dissenteria e di colera,
l’Unicef ha promosso la diffusione di
pompe manuali a tubo, che nel giro
Una fabbrica del polo industriale
di Bussi sul Tirno in Abruzzo.
MC GENNAIO 2009
63
NOSTRA MADRE TERRA
La prevenzione dell’inquinamento
delle falde acquifere comincia con il
monitoraggio delle acque dei fiumi.
di pochi anni sono diventate sempre
più numerose. Negli stessi anni iniziava la cosiddetta rivoluzione verde,
cioè un programma di agricoltura intensiva, soprattutto di riso, leguminose e ortaggi vari, che ha comportato
l’uso di grandi quantità di fertilizzanti
e pesticidi, nonché di acqua. L’acqua
estratta dalle pompe, molto spesso
contaminata da arsenico, viene utilizzata in grande quantità a scopo irriguo, per cui questo minerale entra
nella catena alimentare.
Di solito i primi sintomi dell’avvelenamento cronico da arsenico si avvertono dopo una decina di anni di
esposizione e si manifestano soprattutto come ipercheratosi, disturbi
cardiovascolari e circolatori, tumori
polmonari, renali, epatici, ma soprattutto cutanei. L’avvelenamento acuto
si manifesta invece con i sintomi di
una forte gastroenterite.
Si calcola che, attualmente, muoiano circa 3.000 persone all’anno, tra
coloro che hanno ingerito per anni
acqua e cibi contaminati, ma sarebbero almeno 65 milioni le persone esposte a rischio e 200.000 coloro che presentano i sintomi dell’arsenicosi.
Le prime tracce di arsenico nelle
falde del Bangladesh sono state rilevate nel 1993, ma solo dal 1995 è iniziata l’analisi sistematica dei pozzi, un
ventennio dopo la posa delle prime
pompe a tubo. Queste ultime sarebbero fortemente responsabili di questa situazione, perché altererebbero
le condizioni redox del terreno, favo64
MC GENNAIO 2009
rendo il rilascio di arsenico. Purtroppo, per anni non vennero effettuate
accurate analisi dell’acqua estratta
dalle pompe, cioè in pratica l’arsenico
non veniva cercato, e ciò ha portato
all’avvelenamento silenzioso di milioni di persone.
Attualmente esiste una diatriba tra
scienziati, circa l’origine di tale avvelenamento. In pratica ci sono scienziati, che sostengono l’origine esclusivamente naturale dell’arsenico nel
terreno: secondo costoro il minerale
si sarebbe formato nelle rocce della
catena himalayana, da cui nasce il
Gange e sarebbe stato trascinato a
valle, fino al delta, dove verrebbe
estratto dalle pompe. Questa tesi, in
qualche modo, assolve l’operato delle multinazionali e dell’Unicef.
Secondo gli scienziati indiani, invece, la quantità eccessiva di arsenico
nel terreno sarebbe strettamente
correlata all’uso massiccio di fitofarmaci, indispensabili per la coltivazione intensiva del riso, in quanto è stata
osservata una correlazione tra arsenico e fertilizzanti organo fosforici.
La prima tesi è il frutto di ricerche
condotte dalla British Geological Survey e dalla McDoland Ltd (Regno Unito); tali ricerche sono state finanziate
dalle agenzie internazionali e dalle
multinazionali, che hanno una possibile responsabilità nell’avvelenamento da arsenico, per cui il loro risultato
potrebbe essere viziato.
È vero che l’arsenico è un elemento
naturale, che può trovarsi in discreta
quantità, ad esempio sotto forma di
arseniopirite, in certe aree geografiche, ma secondo i geologi indiani, nel
delta del Gange non esiste una quantità di arseniopirite tale da giustificare un avvelenamento di così vaste
proporzioni.
Una certa esperienza nel campo
della ricerca ci porta a pensare che
sia più corretta la tesi degli scienziati
indiani. Tra l’altro uno studio condotto al Massachusetts Institute of Technology (Mit) da Charles F. Harvey, docente di ingegneria civile e ambientale, è giunto alla conclusione che le
pompe a tubo alterano in modo
drammatico il flusso delle acque sotterranee, modificando la chimica delle falde e determinando il rilascio di
arsenico, a seguito della degradazione microbica del carbonio organico,
trascinato nelle falde dalle stesse
pompe.
Il dovere di «aprire gli occhi»
Dai casi d’inquinamento delle falde
appena visti appare chiaro che quasi
sempre ci si dimentica che il sistema
dell’acqua dolce è un sistema chiuso.
L’acqua dolce non è illimitata, quindi
non ci si può permettere di renderla
in parte inutilizzabile, perché inquinata. Non possiamo lasciare un’eredità
così pesante alle generazioni future.
Soprattutto non possiamo dimenticare che l’acqua fa parte di noi, di
tutti noi, quindi è inaccettabile che
per il profitto di qualcuno, tantissimi
si ritrovino a fronteggiare situazioni
estreme. E non è accettabile che chi
deve controllare chiuda gli occhi, davanti a disastri, come quelli appena
visti. O che chi deve fare ricerca non
ricerchi la verità, ma un modo per sollevare da ogni responsabilità coloro,
a cui ha deciso di asservirsi. ■
FONTI:
Un pianeta senz’acqua, Fred Pearce,
il Saggiatore, 2006.
www.legambienteonline.it/news20
00/falde.htm
http://lescienze.espresso.repubblica
.it/articolo/Arsenico_nell_acqua_in_
Bangladesh/1288312
www.fao.org
www.sos-arsenic.net
MILANO
di Giovanni Guzzi - foto di Lelli-Masotti
«Il viaggio musicale dei Gitani» al MITO Settembre Musica 2008
A Milano, dal 7 al 12 settembre, la seconda edizione
del MITO (Festival Internazionale della musica
organizzato dai comuni di Milano e Torino) ha dato
risalto alla cultura dei Gitani, con un «viaggio
musicale» dal Rajasthan all’Andalusia, passando per
Pakistan, Iran, Turchia, Balcani. Un’occasione per
superare pregiudizi e stereotipi verso un popolo
affascinante per la sua storia e cultura millenaria.
DEGLI
on è usuale per una rivista
missionaria occuparsi di musica, in particolare di una manifestazione in prevalenza dedicata
alla musica «classica». Pur a distanza
di tempo, diventa quasi un obbligo
farlo quando, nell’ambito di essa, si
colgono aspetti che la rendono interessante anche oltre lo specifico valore musicale.
Il riferimento è alla seconda edizione di «MITO Settembre Musica, il
N
ZINGARI SI PUÒ ANCHE
PARLARE BENE
MILANO
Nella pagina precedente,
esibizione di musicisti e danzatrici
del Rajasthan (India).
A sinistra, gitani della Tunisia
partecipano al «Viaggio musicale».
per lo più, si svolge in prestigiosi teatri quali la Scala e gli Arcimboldi di
Milano o il Regio e l’Auditorium Rai
di Torino; frequenta Conservatori,
storici circoli dove si fa cultura, luoghi ricchi di arte e architetture monumentali; e non trascura il sacro di
chiese e basiliche che offrono a credenti e non credenti momenti di significativa elevazione spirituale.
Si tratta evidentemente di un contesto che appare quanto di più lontano possa esistere dalla realtà di vicende drammaticamente tragiche e
Festival Internazionale che, dal 2007,
vede l’esperienza trentennale della
storica rassegna torinese estendersi
al capoluogo lombardo e ad altre
importanti città attorno alle due
metropoli. Quasi un intero mese di
spettacoli che ha proposto oltre 230
eventi di musica - classica, contemporanea, jazz, pop, rock, etnica -, rassegne cinematografiche, incontri di
«arte e musica», cicli monografici. È
stato appunto uno di questi ultimi, il
«Viaggio musicale dei Gitani» a offrirci lo spunto per scriverne su Missioni
Consolata.
Pur ponendosi l’obiettivo di coinvolgere un pubblico più ampio rispetto a quello che usualmente frequenta le sale da concerto, il MITO
resta un festival di musica colta che,
Sopra, gitani delle montagne
afghane e pakistane fanno
risuonare la loro musica millenaria
nel Teatro dell’Arte di Milano.
A sinistra, esibizione dei gitani della
Romania nel Teatro Ventaglio
Smeraldo di Milano.
di quotidiana disperazione di vita ai
margini delle nostre città, che i media ogni giorno, continuamente, descrivono quando si occupano di coloro che, semplificando, chiamiamo
«zingari».
Sia chiaro, nessuno nega i problemi e le difficoltà che il porsi in relazione con queste persone presenta,
né in questa sede si vogliono commentare in alcun modo i provvedimenti presi dalle autorità o quelli
che si vorrebbe prendessero.
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MISSIONI CONSOLATA
Tuttavia, il fatto che nell’ambito di
un festival con le caratteristiche descritte fosse ospitata, non marginalmente ma, anzi, promossa come una
rassegna di rilievo, un’intera settimana dedicata a questo particolare
viaggio musicale, ci è parsa già di
per sé una notizia degna di rilievo.
Un’occasione per parlare dei popoli nomadi anche in positivo. Non
per nulla la musica è, forse, il linguaggio umano che più accomuna
e commuove; anche nel senso letterale di «muovere con»,predisponendo ragione ed emozione al rapporto
con l’altro.
osì è stato oltremodo significativo che, nella stessa manifestazione, sui cui palchi si sono avvicendate grandi orchestre internazionali come la London
Symphony e l’Orchestre National de
France, ad aprire la sezione del
«Viaggio musicale dei Gitani» sia stata, nel salone d’onore della Triennale
di Milano, proprio la «Banda del villaggio solidale».
È, quest’ultima, un gruppo musicale costituitosi nell’ambito della
milanese Casa della Carità: istituzione voluta dal cardinal Martini, per
aiutare le persone in difficoltà a superare la propria condizione di disagio. Don Virginio Colmegna, presidente dell’omonima fondazione che
la sostiene, ricordando il migliaio di
persone di 80 nazionalità accolte
dalla struttura in un triennio, ha presentato l’ensemble definendolo:
concreta manifestazione di un operare che vuole promuovere e far crescere l’espressione culturale dei diversi mondi ospitati; nella convinzione che dando visibilità alle
rappresentazioni artistiche e musicali delle culture immigrate si possa
aumentare il livello di comunicazione positiva e favorire la coesione sociale.
C
e foto pubblicate in queste pagine descrivono perciò un
viaggio sonoro, cominciato
con saltimbanchi, musicisti e danzatrici appartenenti alle ultime caste
erranti del Rajasthan (India del nord)
e origine stessa del popolo Rom;
gente che ha conosciuto lo scintillio
delle pietre preziose di antichi palazzi come la ruvidezza delle rocce
del deserto.
L
Un viaggio proseguito con i Gitani
che hanno attraversato il Medio Oriente per arrivare fino in Tunisia. Fra
questi, quelli dell’Alto Egitto tuttora
tramandano nella musica l’epopea
del mondo beduino del X secolo; in
Turchia, invece, sono maestri di clarinetto e a loro si deve la conservazione del repertorio festivo e virtuosistico delle danze regionali, oltre all’aver posto il loro strumento in
posizione preminente in tutti i Balcani.
a terza tappa ha ricondotto il
pubblico in Asia, con artisti arrivati dalle montagne di Pakistan e Afghanistan, che hanno portato al MITO la loro tradizione millenaria (risalente al 4.000 a.C.),
L
Danza andalusa di Carmen Cortez,
accompagnata da musica gitana
e chitarra flamenca.
mostrandone anche le somiglianze
con quelle dell’antica Grecia evidenziate, ad esempio, nel comune uso
del flauto a due canne.
I contributi dall’Europa sono, invece, venuti in primo luogo da due tradizioni della Romania. Quella dei discendenti delle famiglie di «ursari»
(ammaestratori di orsi) superstiti all’olocausto e alle persecuzioni della
polizia comunista, che si esibiscono
nel canto accompagnato da percussioni rudimentali e dal ballo delle
donne che fanno roteare gonne e
scialli coloratissimi.
E quella dei «lăutari», i migliori
musicisti popolari di Romania. Fino
alla metà del XIX secolo essi erano
schiavi del principe regnante, raccolti in corporazioni professionali fondate nel XVII secolo; oggi vedono rinascere l’interesse del pubblico per
la loro musica, i cui stili si adattavano
alla realtà storica e ambientale dei
gruppi sociali cui era destinata: contadini, operai, intellettuali...
Immancabile è poi stato il passaggio attraverso l’icona della donna gitana nella musica colta occidentale:
principalmente identificata nel mito
della Carmen di Bizet, ma presente,
affascinante e ambigua, anche in
Verdi, Brahms, Leoncavallo, Liszt... fino alla grazia del chitarrista Django
Reinhardt, che sedusse la Francia
degli anni Trenta.
Il «Viaggio musicale dei Gitani»
non poteva, infine, che concludersi
con la chitarra flamenca e il cante
jondo (canto profondo) che, partiti
dai locali e dai porti di Siviglia, Cadice e Jerez de la Frontera negli anni
’40 del 1800, e pur restando fedeli alla tradizione, continuano però a evolversi, conservando la capacità,
descritta da Federico Garcia Lorca, di
trasportare il pubblico sul margine
dell’abisso.
Una ricchezza dunque, quella qui
tratteggiata, seppur sinteticamente, che merita di essere più conosciuta, perché il nostro giudizio su
un popolo e sulla sua cultura, pur
non disconoscendo le difficoltà che
sono reali, non sia limitato a stereotipi negativi. ■
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