Don Milani, la povertà dei poveri

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Don Milani, la povertà dei poveri
Cosimo Scaglioso *
Don Milani, la povertà dei poveri
Nel rinnovare a tutti in prima battuta il mio saluto, sento nel profondo la necessità di ringraziare la Presidente Dr.ssa Rinaldini che, sollecitata dal Col. Ferrara – cui mi lega una vecchia
amicizia – ha avuto la cortesia di invitarmi a parlare di don Milani. L’opportunità offerta, tuttavia,
va oltre don Milani. Si configura per me come un segno di gratitudine, attraverso il R.C. Arezzo Est,
nei confronti della città di Arezzo e della provincia tutta, per quello che ho ricevuto, sul piano professionale e non, dalla fine degli anni ’60 alla prima metà degli anni ’90 del XX secolo, anni che mi
hanno visto impegnato, in vesti diverse, nella Facoltà di Magistero, da Villa Godiola a Palazzo Barbolani, a Piazza San Francesco, ai primi conversari legati al progetto del Pionta.
Ma veniamo a don Milani, questa eccezionale figura di
uomo, sacerdote e maestro dalle scelte radicali, sempre impegnato a tradurre in azione il suo profondo amore per gli ultimi, anzi per l’ultimo. In considerazione del tempo a disposizione mi sembra funzionale tracciare un profilo alla luce di alcune questioni specifiche proprie della letteratura che lo riguarda, visitandole in un approccio più meditato, più sereno e
criticamente fondato, rinviando per eventuali approfondimenti e annotazioni più circostanziali al volume “Don Milani, la
povertà dei poveri” (Armando, Roma 2010).
Intanto nel “parlare” di don Milani i “più”, diciamo la stragrande maggioranza, tendono a
presentarlo come un’eccezione nell’ambito della società, esaltandone la figura e l’opera in contrasto anche con la Chiesa con la sottolineatura della “sua” solitudine. Dalla mia ricerca emerge un
quadro diverso. Ancora negli anni ’50, forse meno a Firenze che altrove, si avvertiva, al di là delle
diverse forze politiche, dei movimenti culturali presenti e della varietà dei progetti legati alla ricostruzione dopo il ventennio fascista e la seconda guerra mondiale, il sottosviluppo nei suoi risvolti
sociali, culturali ed economici che mostrava le sue connotazioni più evidenti non solo nelle vaste
aeree della disoccupazione e negli squilibri sociali, ma anche nella presenza di un diffuso analfabetismo e di bassi livelli di cultura, vie facilitanti condizioni di vassallaggio, di sfruttamento e di emarginazione sociale.
Accanto alle iniziative dello Stato, per quanto riguarda la lotta all’analfabetismo e la promozione culturale e sociale delle comunità e delle persone (cfr, tra l’altro, l’entrata in vigore della
Costituzione, 1948; iniziative per lo sviluppo dell’agricoltura - Cassa per il Mezzogiorno – e
dell’industria – FIAT, ENI, FINSIDER -; scelta atlantica e occidentale; istituzione della “scuola popolare” e dei “centri di lettura” …), l’Italia tutta è attraversata da iniziative “autonome”, anche se
danno il segno delle difficoltà e dei contrasti ancora presenti (cfr, fra l’altro, sul piano della cultura
e della formazione le azioni di enti e associazioni non statali …).
L’esperienza di don Milani, pur nella sua eccezionalità e nella sua specificità, penso vada vista in quel clima di furore e di passione per i poveri e gli svantaggiati che traspare dalle molte ini-
ziative che coprono tutto il territorio nazionale. E la stessa ricchezza di rapporti e di relazioni che il
priore di Barbiana ha intessuto in Toscana, in Italia e oltre, è testimone di una vicenda culturale,
umana, religiosa, magistrale di un maestro e di un sacerdote che non era solo con i suoi ragazzi
nemmeno quando era solo. Anche in relazione alla realtà del clero. Penso agli amici di seminario –
primo fra tutti don Alfredo Nesi – a don Primo Mazzolari e al suo confessore don Raffaele Bensi.
Una “passeggiata” tra le lettere sarebbe utile in ordine a questa sua “pretesa” solitudine.
La vita di don Milani (ricordiamo: 1923-1967) copre un arco temporale tagliato quasi a metà da una cesura connotata dalla sua conversione al cattolicesimo e dalla sua decisione di “prendere Messa”, con una prima parte (quella, come scrive il priore, “della giovane età, della cattiva educazione, delle tare ereditarie e dei 20 anni passati nelle tenebre dell’errore”, in una situazione di
“privilegio”, dovuta alle condizioni economiche e socio-culturali della famiglia di appartenenza,
anni comunque attraversati da un’inquietudine non sempre avvertita, ma vissuta con la tensione
verso ciò che poteva dare senso e significato alla vita, in termini totali e assoluti) e una seconda
parte nelle tappe di San Donato a Calenzano e di Barbiana secondo uno svolgimento che solo apparentemente si presenta lineare fino alla finale della sua vita nei risvolti di un impegno insieme
pastorale, di maestro, di “gentile” che si è fatto povero, che trova il suo sigillo proprio in chiusura
(penso, tra l’altro, al testamento del 1° marzo 1966: “ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho
speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto nel suo conto”, ma soprattutto al miracolo dell’ultima ora, lì nella casa della mamma: “un grande miracolo – sono parole
di don Milani – sta avvenendo in questa stanza, un cammello passa per la cruna di un ago”).
La scelta dell’essere dalla parte dei
poveri, per don Milani, nel suo impegno
perché diventassero “cittadini sovrani” e
quella di “fare scuola” ponendosi come
maestro della “parola” per la “Parola”
(con sullo sfondo il suo San Paolo) trovano
legittimazione robusta nella dimensione
autentica ed essenziale del suo essere “sacerdote” non secondo gli schemi dettati
da secolari incrostazioni “clericali” che lo
avrebbero chiuso nella visione sacrale del
“prete preconciliare”, addetto e responsabile degli spazi sacri, ma nella lettura dei “segni dei tempi” quasi di “aurora conciliare” secondo la felice intuizione di vivere la propria vita mettendosi al
servizio dei poveri e dei deboli, nel nome di Cristo e nella fedeltà al Vangelo.
Dagli anni del “privilegio” a quelli del seminario, a quelli di San Donato, a quelli di Barbiana
la vita di don Milani non è stata quella di una persona semplice e lineare quale è potuto sembrare:
è questa la seconda questione che vorrei sottolineare.
Gli anni del privilegio e gli anni del seminario sono attraversati i primi dall’insoddisfazione
verso un tipo di vita, i secondi dal disagio nei confronti dell’essere poveri che era presente dentro
e fuori. A San Donato “come padre non può permettere che i suoi ‘figlioli’ vivano a livelli umani così
differenti dal suo, che la gran maggioranza viva anzi a un livello umano così inferiore al suo e addi-
rittura non umano. Come evangelizzatore non può restare indifferente di fronte al muro che l’ignoranza civile pone tra la sua predicazione e i poveri” (sono passi dello scritto di un “prete di montagna”). Da qui la scuola, perché dove manca la parola, neppure la Parola può penetrare ed essere
messa in pratica. E nella scuola s’incrociano le grandi tensioni di quei primi anni di sacerdozio: far
giustizia ai poveri, avvicinare i lontani, far accedere i fedeli ad una esperienza religiosa personale. Il
suo impegno è quello di innalzare gli altri al suo livello.
Ma a Barbiana le condizioni sono anche peggiori. Si fa povero trai poveri e il processo di
spoliazione materiale e culturale giunge all’estremo, in una radicalità che sarà soddisfatta pienamente solo negli ultimi momenti di vita, nella casa di Via Masaccio.
E a Barbiana delle tre tensioni di San Donato restano, in un rimando a relais, la prima (far
giustizia ai poveri) e la terza (far accedere i fedeli ad una esperienza religiosa personale), facendo
leva sulla scuola, sulla parola, che apre all’umanizzazione e alla evangelizzazione.
Mi avvio a chiudere in un certo modo il discorso e non posso non indugiare su don Milani e
la sua scuola, liberandolo sia della strumentalizzazione di coloro che lo hanno visto coma “icona”
della contestazione del ’68 sia di quanti lo considerano momento d’avvio della decadenza della
nostra scuola.
Nel sottolineare, invece, che non va dimenticata Barbiana, mi preme proporre come eredità immateriale del priore l’indicazione forte, e non più eliminabile, che la scuola sia il “rimedio” per
mettere in atto condizioni di istruzione, di educazione e di formazione grazie alle quali i poveri, gli
emarginati, i deboli di ieri e di oggi possono diventare cittadini sovrani, in una società attraversata
da pesanti ingiustizie sociali, nelle quali il sapere, le conoscenze, le informazioni restano privilegio
di pochi, una scuola che pone sugli scudi la lingua e le lingue; senza nascondersi che la funzione
della scuola, nel suo essere “fra il passato e il futuro”, tenendoli “presenti entrambi”, le permette
di preparare i giovani che non esercitano “diritti sovrani” perché sappiano esercitarli quando saranno in età e nella quale “il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i segni dei tempi, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno domani e che noi vediamo solo
in confusione”.
Relazione tenuta il 24 gennaio 2013
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Il Prof. Cosimo Scaglioso è stato Preside della Facoltà di Magistero di Arezzo e della Facoltà di Lingua e Letteratura italiana dell’Università per Stranieri di Siena. Senatore della Repubblica Italiana per la XII legislatura, tra i numerosi riconoscimenti si segnala la
Medaglia d’oro della Presidenza della Repubblica riservata ai benemeriti della Scienza e
della Cultura (1996). Docente emerito di Pedagogia generale presso l’Università per
Stranieri di Siena dal 2009.