Slow medicine

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Direttore responsabile
Mariella Crocellà
Redazione
Antonio Alfano
Gianni Amunni
Alessandro Bussotti
Bruno Cravedi
Laura D’Addio
Gian Paolo Donzelli
Claudio Galanti
Carlo Hanau
Gavino Maciocco
Benedetta Novelli
Mariella Orsi
Daniela Papini
Elena Rebora
Paolo Sarti
Luigi Tonelli
Comitato Editoriale
Gian Franco Gensini, Preside Facoltà di Medicina
e Chirurgia, Università degli Studi di Firenze
Mario Del Vecchio, Professore Associato Università
degli Studi di Firenze, Docente SDA Bocconi
Antonio Panti, Presidente Ordine dei Medici Chirurghi
e degli Odontoiatri della Provincia di Firenze
Luigi Setti, Direttore Laboratorio Regionale
per la Formazione Sanitaria - FORMAS
Segreteria di redazione
Simonetta Piazzesi
349/4972131
Segreteria informatica
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Direzione, Redazione
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Distribuzione
PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze]
Questo numero è stato chiuso in redazione
il 15 aprile 2012
191 Rivista bimestrale di politica sociosanitaria fondata da L. Gambassini
FORMAS - Laboratorio Regionale per la Formazione Sanitaria
Anno XXXIII - Marzo-Aprile 2012
Sommario
66
M. Crocellà
Slow medicine
67
A. Gardini
Il Manifesto della slow medicine
78
S. Quadrino
Una nuova cultura medica
80
G. Bert
La sobrietà
82
S. Beccastrini
Tre medici sulla collina di Spoon River
84
R. Satolli
Il mercato della salute
89
G. Domenighetti
Diseguaglianze di accesso e sostenibilità
dei sistemi sanitari
92
P. De Mennato
La formazione iniziale degli studenti
di Medicina e delle professioni della cura
98
A. Bonaldi
Un nuovo approccio alla Medicina
102
M. Bobbio
Sobrietà e rinuncia
106
S. Beccastrini
Prevenzione e promozione della salute
110
S. Vernero, G. Domenighetti
Progetti slow
116
G. Masera
Parole per una cura slow
119
G. Giustetto
Cure giuste per tutti
122
C. Petrini
Il riferimento di Slow Food
124
M. Marceca, M.L. Russo
Il paziente straniero
Abbonamenti 2012
Italia
€ 50,00
Estero € 60,00
Fotocomposizione e stampa
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U
na Medicina “lenta” non si propone come un valore. Chi entra nel tunnel della malattia, vive con ansia e
disagio il tortuoso percorso disseminato di esami, analisi, di rimandi a pareri specialistici, di attese
obiettivamente troppo lunghe prima di arrivare, sperabilmente, ad una diagnosi.
L’insofferenza per l’attesa, del resto, caratterizza tutte le attività dei contemporanei che vivono nei Paesi industrializzati.
“Veloce” non è più una connotazione, è un “must”. Deve qualificare una persona sul lavoro; non rispettare i ritmi sempre più accelerati che la cultura informatica ha imposto viene recepito come un handicap e può incidere
profondamente sull’autostima di una persona che si sente disadattata rispetto alla norma.
La Medicina ha un passo lento ma soltanto rispetto ai “tempi morti” che il paziente deve subire, sia in un ambulatorio medico che durante un ricovero ospedaliero. La deospedalizzazione non fa testo: l’esigenza di dimettere
in pochi giorni persone che hanno subìto interventi anche seri ha creato più problemi che benefici. Non esiste in
genere, perché non è stata organizzata, una rete di servizi per seguire un convalescente presso il suo domicilio.
L’efficienza non ha niente a che fare con la frettolosità che a volte caratterizza le attività dei professionisti della salute. Manca il tempo, si sostiene in questi casi, ed è indubitabile che un’organizzazione sanitaria di tipo
aziendalistico stressi al massimo il perseguimento dei risultati.
Rimettere in discussione questa prassi rappresenta una sfida, significa tentare di contrastare una cultura generalizzata, ridiscutere modelli di intervento, organizzazione gerarchica del lavoro.
Ed è quello che slow medicine si propone, una “provocazione” che sta raccogliendo consensi, stimolando, quando necessario, un ripensamento sul proprio modo di operare per valorizzare l’identità stessa dell’essere medico.
Mariella Crocellà
Direttore Salute e Territorio
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Andrea Gardini
Medico - Direttore sanitario
dell’Azienda ospedalierauniversitaria di Ferrara
L
a storia della Medicina è
fatta da donne e uomini
che cercano di curare le
persone ammalate, hanno
delle idee, cercano delle risposte e lottano per ottenerle
e migliorare le cure per i loro
pazienti. Queste persone vanno ricordate, perché sulle loro
spalle poggia la nostra semplice voglia di fare bene.
I precursori
Alberto Dolara (1), (2), per
primo, ha avuto il merito nei
suoi scritti anticipatori di
mettere in dubbio l’efficacia
della fretta e della conseguente superficialità nel migliorare i risultati delle cure
dei pazienti cardiopatici e di
altre patologie…è suo il primo accostamento fra le parole
slow e medicine, fatto in analogia alle parole slow e food,
in antitesi a fast food e fast
medicine.
Carlo Petrini assieme a pochi
altri audaci aveva, 20 anni fa,
deciso di rifiutare le logiche
del cibo industriale rivendicando il diritto degli uomini a
mangiare un cibo buono, pulito e giusto, un cibo che privilegiasse la cultura del cibo
locale e la valorizzasse, che
pensasse al nutrirsi come piacere consapevole e non come
consumo indifferenziato, e
scelse come simbolo la chiocciola, la ormai ben conosciu-
Il Manifesto
della slow medicine
ta chiocciola di slow food,
che, come essere vivente, fa
crescere il proprio guscio fino
al limite massimo della propria capacità di portarsela
addosso, poi si ferma… la
chiocciola come esperienza
biologica di governo del limite, paragonata alla sfrenata
corsa verso una crescita senza limiti e senza il governo di
questi limiti, dati soprattutto
dalla limitatezza delle risorse
del pianeta.
Succhiare continuamente,
con vorace pervicacia, il latte
di Madre Terra senza nutrirla
rischia di uccidere la Madre
assieme ai suoi figli, com’è
già successo con Rapa Nui,
l’Isola di Pasqua (3).
Prendendo spunto dal lavoro
di slow food alcuni medici
americani hanno cominciato
ad interrogarsi sul senso della
Medicina fast, una Medicina
che tende a trattare le persone comunque, a medicalizzarne le vite, indipendentemente dalle loro volontà… soprattutto dopo aver dovuto
affrontare i problemi medici
del propri cari. Alcuni, come
Dennis Mc Cullough hanno
fatto delle ricerche sulle possibili alternative ai trattamenti invasivi della Medicina
“moderna”, hanno cominciato a pubblicare ed a girare gli
Stati Uniti per fare conferenze. In particolare Mc Cullogh
I riferimenti, le idee, i “maestri”
da cui è nato il movimento
ha pubblicato un libro My
Mother, Your Mother (4), in
cui per la prima volta negli
Stati Uniti, con Dolara come
fonte bibliografica, si parla di
slow medicine, orientandola
particolarmente alle cure per
gli anziani.
Dice Mc Cullough:
“Praticare la slow medicine mi ha
insegnato che è saggio rallentare
e moderare le pressioni urgenti
dei processi decisionali che sono
spesso spinti troppo presto dalla
società, dai medici, dagli amici
preoccupati e dalla famiglia nei
confronti degli anziani. Pieni di
buone intenzioni vogliamo fare
delle scelte buone ed umane per
noi stessi e per quelli che amiamo. A volte però siamo colti da
sensi di colpa per non aver affrontato adeguatamente queste
relazioni nuove ed in cambiamento continuo”.
Mc Cullogh viene ripreso da
Roberto Satolli sul Corriere
della Sera, il 1° giugno 2008
(5), con un articolo: “Cresce
il bisogno di slow medicine
che ne riporta la filosofia, allargandone il significato a
tutta la Medicina.
Ladd Bauer, medico di famiglia californiano, riprende il
concetto nell’ottobre 2008, in
un editoriale che mette in relazione slow food e slow medicine e cita Dolara (6). Bauer,
medico di Scuola di Medicina
interna evidence based, fa
parte del Comitato di redazione della rivista, che tratta
di Medicine complementari,
proprio come critico laico
delle pratiche mediche non
convenzionali che vengono
descritte.
Slow medicine nasce in Italia,
come associazione, nel gennaio 2011, da molti padri e
molte madri, molti filoni culturali e scientifici, e nasce
come rete di idee in movimento. Le idee nascono dalle
persone, e le persone hanno il
potere di nutrirsene ed attualizzarle, a seconda del contesto in cui operano. Le idee
non appartengono a nessuno.
Quando vengono espresse diventano parte della rete ed
hanno il potere di generare
altre idee ed altri pensieri, in
una moltiplicazione a volte
virtuosa, a volte molto pericolosa… la specie umana ha
fortune e sfortune a seconda
del mix di idee buone e meno
buone che la pervadono. Noi
cerchiamo di compensare le
idee meno buone con delle
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buone idee: pace, salute, democrazia, etica ed onestà, conoscenza sono i prerequisiti,
le parole chiave che influenzano tutte le altre parole che
utilizziamo nel connotare la
slow medicine.
Queste parole ci giungono da
un passato fatto di altre persone, che qui vorrei ricordare,
per introdurre il manifesto
della slow medicine.
Ben nota è la storia di Ignaz
F. Semmelweiss (8), il quale,
nella famosa Scuola di Medicina di Vienna a fronte di una
mortalità per “febbre puerperale” del 10% delle donne che
partorivano nella Clinica ginecologica verso l’1% di quelle che partorivano nella Scuola per ostetriche, dimostrò
che l’unica differenza fra le
due popolazioni era che nella
Clinica chi le aiutava a partorire erano i medici, che prima
di assistere ai parti avevano
eseguito delle autopsie dopo
le quali andavano direttamente in sala parto senza lavarsi le mani (… “horribile
dictu”…!). Obbligandoli a lavarsi le mani il tasso di sepsi
puerperale cadde in maniera
clamorosa, ma lui fu licenziato: l’Accademia non poteva
sopportare che i medici venissero ritenuti degli “untori”. Morì nel 1865 per le percosse ricevute nel Manicomio
dov’era stato internato in
Ungheria.
La storia della Medicina è piena di questi episodi.
Il più noto è quello di Ernest
A.Codman (9), chirurgo ed
anestesista del Massachussets, che aveva l’abitudine di
misurare, prendendo alla lettera gli insegnamenti di Percival, gli esiti dei propri interventi e di pubblicare i dati. A quei tempi la Chirurgia
era eroica, e la mortalità a distanza di un anno dopo gli
interventi da lui eseguiti era
molto elevata. Lui pubblicò
comunque i suoi dati nella
riunione annuale del suo
Ospedale nel 1914, e regolarmente venne licenziato.
Trovò aiuto e solidarietà fra i
colleghi dell’American College
of Surgeons in un periodo di
Un po’ di storia (e di geografia)
Per comprendere che cosa ci
sta succedendo e come mai
proprio oggi, è bene tornare
indietro di un paio di secoli
esplorando, col minimo dettaglio e il massimo della leggerezza possibile, le storie e
le vite di alcune persone che
hanno fatto parte della cultura medica di questo periodo.
Se andiamo indietro nel tempo troviamo sempre, nel
mondo della cura alle persone, qualcuno fuori dal coro,
che, come succede fra le persone per bene, fa prima da
precursore, a volte spietatamente combattuto, poi da
maestro ispiratore ad altri.
Sir Thomas Percival, ad esempio, medico di Manchester
della seconda metà del ’700,
nella sua opera fondamentale, Medical Ethics, il primo codice etico della Medicina occidentale, pubblicato a due
riprese fra il 1794 e il 1803
(7), sosteneva che è necessario informare gli amici dei pazienti e, raramente i pazienti
stessi della prognosi della loro condizione e che, comunque, è necessario fare il follow
up dei pazienti ricoverati negli Ospedali, una volta che
siano stati dimessi, per valutare i risultati delle cure.
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grandi cambiamenti. Fondò,
anche con Cushing ed i fratelli Mayo la Joint Commission
on Hospitals Accreditation
che ancor oggi definisce gli
standard assistenziali ed organizzativi degli Ospedali in
tutto il mondo.
Fra l’altro scrisse, nel 1916:
D’altra parte il Nobel per la
medicina 1906, Camillo Golgi
(11), grande istologo, descriveva la prima volta, dopo
la sua scoperta della “Reazione nera”, la colorazione
delle cellule del sistema nervoso, quello che aveva potuto osservare:
“Mi si definisce eccentrico per
aver detto che gli Ospedali, se
vogliono essere sicuri di migliorare, devono analizzare i loro risultati per accertare quali siano i
punti forti e i punti deboli, confrontare i loro esiti con quelli degli altri Ospedali, trattare solo i
casi per i quali siano in grado di
fare un buon lavoro, assegnare
per il trattamento i casi ai medici
sulla base di criteri migliori dell’anzianità o delle convenienze
del momento, discutere non solo
i loro successi ma anche i loro errori, collegare la loro carriera alla qualità del loro lavoro con i
pazienti. Queste opinioni non
saranno giudicate eccentriche
fra qualche anno”.
“… La giungla che mi si presentava davanti in quel momento era
più affascinante di una foresta
vergine: si trattava del sistema
nervoso con i suoi miliardi di cellule aggregate in popolazioni le
une differenti dalle altre e rinserrate nel viluppo apparentemente
inestricabile dei circuiti nervosi
che s’intersecano in tutte le direzioni nell’asse cerebro-spinale…”.
In fondo 96 anni non sono
un periodo tanto lungo: abbiamo appreso dai nostri
Maestri che il progresso della
qualità delle cure è un cambiamento culturale lungo ed
a volte doloroso.
Chi condivide con noi la passione per la Medicina sa benissimo che i Maestri ci hanno insegnato cose a volte eretiche, come ad esempio Augusto Murri (10), clinico medico dell’Università di Bologna che ripeteva:
“Nella Clinica bisogna avere un
preconcetto solo, ma inalienabile, il preconcetto che tutto ciò
che si afferma e che par vero può
essere falso: bisogna farsi una
regola costante di criticare tutto
e tutti prima di credere”.
Sua fu l’intuizione della rete
nervosa diffusa, la prima metafora di ogni organizzazione
a rete, internet compresa.
Il gusto per l’esplorazione di
luoghi, dimensioni e funzioni
inesplorate è ciò che ha coinvolto gran parte degli uomini
di cultura che hanno scelto la
Medicina come campo di studio e di azione conseguente
che continua tutt’ora.
Mentre però Murri e Golgi
esprimevano il bisogno di
comprensione critica e di
apertura all’esplorazione, altri, in altre parti del mondo,
si chiudevano in esercizi ripetitivi di ricerca di regole di ingegneria sociale e/o produttiva che potessero aumentare
la capacità dell’uomo di garantire efficienza alla produzione industriale. L’ing. Taylor (12) era uno di questi. Offrì le sue conoscenze al maggiore produttore di automobili e di macchine da guerra
e pianificò con lui ogni tipo
di interazione fra lavoratori,
macchine e impresa.
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Charlie Chaplin lo riprese
qualche anno dopo in “Tempi
moderni” (13). Hitler e Stalin
ne applicarono alla lettera i
principi, e la stessa filosofia
di produzione industriale
l’acquisirono i nazisti ed i
bolscevichi per far lavorare i
loro sudditi allo stesso modo.
Meccanicismo, l’altra faccia
dell’Illuminismo, che, rinforzato dal Romanticismo, secondo Morgan (14), è stato il
fondamento filosofico dei crimini del Novecento. Le sue
parole ? Struttura, processo,
prodotto, profitto rinforzato
dal Calvinismo sviluppatosi
nelle alte classi degli Stati
Uniti, per il quale la ricchezza a tutti i costi era predestinata direttamente da Dio,
condizione sine qua non per
ottenere il paradiso. Secondo
questa visione pseudo religiosa il povero non è amato
da Dio, perché è Dio che vuole la sua povertà, e finisce comunque all’inferno. Il ricco
comunque finisce, predestinato e premiato, in paradiso… l’evangelico “Beati gli
ultimi” dimenticato in un
sottoscala. Nulla può cambiare. Taylor morì di polmonite a
59 anni. La sua opera, che
ebbe come obiettivo l’efficienza produttiva, influen-zò
profondamente tutto il Novecento, dimostrando che la
scienza, resa dipendente della produzione industriale,
non è neutrale.
Intanto però che personaggi
come Taylor celebravano le
progressive sorti del dominio
industriale, nel corso del ’900
altre persone, non accontentandosi della superficie, elaboravano concetti più avanzati: Albert Einstein (15),
Niels Bohr (16), Werner Hei-
semberg (17), fra gli altri,
modificarono completamente
le idee che si avevano, prima
di loro, sulla composizione
della materia. Ludwig Von
Bertalanffy (18), un biologo
innovatore pubblicò la Teoria
generale dei sistemi (19) cui
si riferì Gregory Bateson (20)
nella sua ricerca sull’ecologia
della mente (21, 22), che
prendeva spunto dal lavoro
della sua compagna dei primi
tempi, quella Margareth
Mead (23) che pose le basi
per gli studi successivi di Antropologia. Bateson ebbe la
grande fortuna di essere invitato dalla Macy Foundation a
partecipare, assieme a molti
dei più grandi studiosi del
tempo, fra cui William R.
Ashby (24), Heinz von Foerster (25), Norbert Weiner
(26), John von Neumann
(27), Kurt Lewin (28) e Eric
Eriksson (29) alle Macy Conferences (30), nelle quali, fra il
1942 e il 1953 furono poste le
basi per una “scienza della
mente”, negli anni ’40 nacque di fatto la cibernetica in
un seminario a Palo Alto dove
la Teoria generale dei sistemi
venne discussa per la prima
volta in team multidisciplinare. Nacque anche da lì la rivoluzione cibernetica che ci ha
cambiato la vita. Molti dei
presenti a loro volta erano
stati allievi di Bertrand Russel (31), grande matematico
e filosofo libertario, i cui libri
sono stati il nutrimento dell’adolescenza di molti di noi.
Parallelamente la fondazione
della Psicologia, a partire dalle intuizioni e gli scritti di
Sigmund Freud (32) e Carl
Gustav Jung (33), passando
per Jean Piaget (34) Donald
Winnicott (35) e Carl Rogers
(36), quest’ultimo fra i primi
a trattare di counselling e di
terapia non direttiva e centrata sul paziente (37).
Nello stesso periodo gli studi
di Etologia di Konrad Lorenz(38) e Karl von Frisch
(39) hanno portato nuova
linfa alla Medicina stessa,
che, in Italia con Franco e
Franca Basaglia (40, 41, 42)
e Gianfranco Minguzzi (43)
ha determinato la rivoluzione nei Manicomi, riconoscendo dignità alle persone
portatrici di problemi di salute mentale e l’induzione di
nuove patologie e di cronicità dovuta allo stesso ricovero in Ospedali psichiatrici
ed alla esclusione sociale del
matto, fonte di ulteriore
emarginazione.
Orientare la cura ai bisogni
delle persone è stata la grande rivoluzione pacifica del secolo passato, e noi ci riconosciamo in essa.
Nel campo della cura della
sofferenza psichica gli eredi
di Bateson, fondarono a Palo
Alto, in California, il Mental
Research Institute (44) continuarono a sviluppare i loro
studi sui trattamenti dei sistemi che generano sofferenza e delle singole persone.
Jay Haley (45), citato più
volte da Bateson, propose per
primo la “terapia strategica”:
“Un terapeuta deve assumersi la
responsabilità di aiutare i propri
pazienti a modificare la propria
vita, studiarne l’ambiente e proporre un trattamento in 5 fasi:
identificare i problemi risolvibili,
scegliere gli obiettivi, progettare
gli interventi per raggiungerli,
esaminare le risposte, valutare i
risultati” (46) …per caso vi ricorda qualcosa? ”
Haley fu uno degli inventori
del problem solving nel couselling ed in Psicoterapia ed
assieme a Lynn Hoffman (47,
48) scrisse uno dei primi manuali di tecniche di terapia
della famiglia (49), che per
molti anni hanno ispirato i
terapeuti sistemici di tutto il
mondo.
Paul Watzlawick (50), Don D.
Jackson (51), Janet Beavin
ebbero a Palo Alto il grande
merito di scrivere un libro,
Pragmatica della comunicazione umana (52), uno studio
fondamentale della comunicazione fra le persone.
In Italia il gruppo milanese di
Mara Selvini Palazzoli (53)
Boscolo e Gianfranco Cecchin(54) ha approfondito i
temi della comunicazione nel
rapporto famigliare ed in
quello terapeutico, fornendo
contributi non banali a quanti continuano a cercare di
trattare i pazienti al meglio
delle proprie capacità (55).
Studi di Linguistica, come
quelli di Noam Chomsky (56)
e di Semiotica, come quelli di
Umberto Eco (57) hanno molto influenzato un certo ambiente culturale orientato alla cura della salute.
Non è possibile, dice Sergio
Nordio, il mio primo Maestro
di Pediatria, essere medici
senza avere piena coscienza
dei propri pensieri e senza riflettere sulla loro origine,
senza avere pensiero sui propri pensieri, l’interesse per
l’epistemologia nasce da questa semplice domanda: da
quale pensiero nasce il mio
pensiero? (58)
Tutti questi nomi, storie, bibliografie, idee, pensieri sono necessari perché è semplicemente impossibile essere
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medici, agli inizi del terzo
Millennio, astraendosi da
queste conquiste della conoscenza e del pensiero.
Non è possibile far finta che
questi Autori non esistano, e
che spesso quanto hanno ricercato e trovato ispira importanti imperi commerciali o
industriali, come, ad esempio, tutto il mondo della comunicazione. Astrattamente
ci si può benissimo trincerare
dietro all’affermazione: “molti non erano medici”… o…
“parlano inglese…”. Ma la
Medicina non è mai stata una
scienza di per sé: è da sempre
stata l’applicazione di altre
scienze per migliorare la salute degli uomini. L’ ignoranza dell’avanzamento di queste conoscenze umane forse
può proprio essere una delle
cause del declino del nostro
Paese e dell’Europa nel suo
complesso.
Ci sono stati altri uomini e
donne a darci una visione diversa della Medicina nella seconda metà del secolo scorso.
Per tutti Archie Cochrane,
Avedis Donabedian (61) e
Giulio Maccaccaro ci hanno
fornito le loro spalle di giganti per portarci ove siamo ora.
Archie Cochrane (59), era
stato all’inizio un semplice
medico di base, curioso e appassionato di malattie dei
polmoni, visto che era nato
in un villaggio di minatori,
tanto da finire da medico volontario delle Brigate internazionali durante la guerra di
Spagna, passare come medico
militare buona parte della
guerra mondiale, essere fatto
prigioniero e occuparsi sempre di malattie polmonari e
tubercolosi.
Dopo queste esperienze scrisse:
“Mi rendevo conto che non c’erano prove reali che tutto quello
che facevamo per i nostri pazienti non avevano nessun effetto
sulla tubercolosi, e temevo anche
di ridurre la lunghezza della vita
di alcuni miei amici sottoponendoli a degli interventi inutili”.
Il suo contributo fu un libretto breve, ma rivoluzionario,
nel quale, con grande semplicità, spiegava che in Medicina non esiste efficienza senza efficacia (60).
Sembrava tanto semplice, ma
in questi quarant’anni è stata una cosa difficilissima da
applicare.
Il come mai fosse così difficile è stata anche la esplorazione del movimento internazionale per la qualità delle cure,
iniziato da Avedis Donabedian (61), internista e pediatra armeno-libanese che per
40 anni spese la sua vita a ricercare i molti significati della parola qualità in Medicina.
La sua opera monumentale
(62, 63, 64) è ancora il fondamento di ogni studio sulla
qualità che abbia un senso
compiuto.
Sua la sintesi “struttura-processo-risultato”, che elimina
il “prodotto-profitto” di Taylor sostituendolo con ciò che
veramente serve in Medicina:
l’ottenimento di un migliore
stato di salute per il paziente.
Da Donabedian in poi, chiunque parla di “prodotto” e di
“standard di prodotto” in
Medicina dimostra che non
ne conosce le regole minime
di funzionamento e filosofia,
e dovrebbe aggiornare i propri paradigmi, inadatti alla
gestione di organizzazioni
complesse come quelle sanitarie. In Medicina esistono
gli standard di processo e
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quelli di risultato finale, o
esito clinico, l’unico “prodotto” accettabile da medici, infermieri e pazienti.
Non può esserci un buon risultato di cure mediche se
non esistono dei buoni processi e se questi non sono generati in una buona struttura
fisica ed organizzativa.
In uno degli ultimi scritti Donabedian diceva così:
“La conoscenza dei sistemi e la
loro progettazione sono importanti per i professionisti dei sistemi sanitari, ma non sono sufficienti. Essi sono solo meccanismi facilitanti.
È la dimensione etica degli individui ad essere essenziale per il
successo dei sistemi sanitari.
In fin dei conti il segreto della
qualità è l’amore…”.
Giulio Maccaccaro (65), professore di Biostatistica dell’Università di Milano insegnò a
molti di noi l’approccio scientifico alla cura dei nostri simili che chiamiamo Medicina,
il valore della prevenzione e
la non neutralità della scienza, che, anche lei, gira dove
sono i soldi ed il potere. “Medicina e Potere” fu una collana di libri da lui diretta su cui
molti di noi si formarono.
I contenuti di quei libri sono
ancora validi e in gran parte
non applicati.
Fra gli anni ’70 ed ’80 ci fu un
grande movimento per la salute nel mondo, trainato dall’Organizzazione mondiale
della Sanità.
Una Conferenza mondiale
sulla salute si tenne ad Alma
Ata nel 1978. In essa si affermava (66) che per garantire
la salute della popolazione
mondiale era necessario rinunciare parzialmente al mo-
dello ospedaliero ed abbracciare quello della Medicina di
territorio, investire più denaro e risorse nella prevenzione
e nella Medicina di base, utilizzare gli Ospedali solo nei
casi acuti e gravi… gli Ospedali dovevano essere insiemi
di tecnologie sanitarie a disposizione delle popolazioni,
tecnologie da utilizzare solo
quando ce n’era bisogno.
Il sistema doveva essere pubblico, assieme alla scuola.
Scuola e sanità pubbliche dovevano essere il fondamento
delle democrazie e dello sviluppo dei popoli. Vent’anni
dopo Nelson Mandela (67),
presidente della Repubblica
pacificata del Sud Africa dopo
l’aparthaid, stanziava il 35 %
dei fondi dello Stato in investimenti su scuola e sanità…
Comunità sane costituite da
persone istruite avrebbero
avuto la possibilità di sviluppare le proprie potenzialità e
creare economie evolute e
compatibili con le risorse del
pianeta.
Non si pensava allora, proprio nessuno se lo immaginava che ci sarebbero stati tanti anticorpi, sviluppati da
quanti hanno interesse a
mantenere le popolazioni
ignoranti e in cattiva salute,
per poter continuare il loro
progetto di dominio, il potere dispotico o autoritario si
basa infatti sull’ignoranza e
sulla debolezza dei sudditi.
Non si è ancora compiuta
ovunque la rivoluzione francese e, quasi dappertutto i
princìpi di uguaglianza, fraternità e libertà paiono essere slogan privi di significato
reale sulla vita delle persone
comuni. A volte sono parole
svilite nel loro significato
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profondo ed utilizzate in maniera distorta dai detentori
del potere. La Carta dei diritti dell’uomo spesso è calpestata anche da chi non te lo
aspetteresti mai.
Quella volta però il movimento che l’OMS mise insieme fu
una distrazione dei poteri costituiti… nessuno si sarebbe
mai immaginato il potenziale
di cambiamento che parole
come “salute per tutti nel
2000” rischiava di immettere
nei sistemi. E iniziò, assieme
al processo di costruzione di
Sistemi sanitari pubblici,
equi, appropriati ed efficaci,
il lento processo di erosione
di quelle stesse idee. Nessuno
riuscì ad esempio, a fare
qualsiasi cosa in Italia nel
movimento di “rete città sane” (68), nutrito dai principi
di public health che sono universalmente riconosciuti.
La strategia della politica di
qualsiasi Governo evidentemente era l’opposto.
Qualcuno smentisca quest’affermazione portando risultati
concreti in termini di salute
di almeno un progetto di
“città sane” che sia finito bene, con evidente miglioramento anche di fasce limitate
di cittadini coinvolti nel progetto. Lo pubblicheremo, se
ben costruito per lo meno sul
sito di slow medicine…
Fu proprio l’OMS a favorire le
politiche per la qualità dei
Paesi di tutto il mondo, mentre ancora in tutto il mondo
pian piano ebbe sviluppo la
Cochrane Collaboration (69),
una rete di ricercatori che è
riuscita, in trent’anni, a garantire che una pur piccola
ma significativa percentuale
della conoscenza medica
mondiale fosse basata sulla
revisione sistematica della
letteratura internazionale,
un fenomeno senza precedenti nella storia della Medicina. Noi medici (con gli infermieri), a differenza di quasi tutti gli altri professionisti,
siamo in grado di fondare la
nostra pratica quotidiana sul
meglio delle conoscenze
umane della nostra professione e di applicarle ai nostri pazienti nella pratica di tutti i
giorni. È la più grande rivoluzione di informazione scientifica appropriata della Medicina mai avvenuta e siamo
onorati di aver sempre fatto il
tifo e per quanto possibile
aiutato a divulgare ed applicare quello che Sandro Liberati ed i suoi amici della Cochrane Collaboration hanno prodotto in Italia. Ora che Sandro non c’è più (70) continueremo a farlo anche più di
prima…
L’OMS si impegnò su molti
fronti in quel periodo: la prevenzione, la formazione, la
qualità.
Malattie come tubercolosi,
malaria, AIDS fanno ancora
molti morti in tutto il pianeta, e il grande lavoro di questo braccio sanitario dell’ONU
è stato quello di diffondere le
conoscenze a livello di base,
per fare prevenzione. Qua e
là ci siamo riusciti. Sono
sempre le condizioni economiche e sociali, di pace e di
guerra a generare la probabilità di aumentare o ridurre la
sopravvivenza e la qualità
della vita. I programmi dell’OMS sono stati importanti
per indicare la strada su come
occuparsi in maniera scientificamente corretta e adatta
alle risorse locali della salute
delle popolazioni (71). Alme-
no così pare.
Uno dei filoni è stato l’educazione dei professionisti, un
altro l’educazione sanitaria.
All’educazione dei professionisti hanno lavorato gruppi
di pedagogisti dell’adulto, il
cui lavoro è stato sintetizzato
da Jean Jacques Guilbert
(72), del cui rigore e della cui
Guida pedagogica (73) abbiamo beneficiato, direttamente
o indirettamente, tutti, a
partire dai suoi seminari degli anni ’80 organizzati con
Sergio Tonelli e Gianni Renga.
La formazione orientata dai
bisogni di apprendimento dei
discenti, non dal bisogno di
dare sfogo al narcisismo dei
docenti è una rivoluzione che
in Italia per lo meno non è
stata favorita dal sistema dei
crediti formativi.
Meglio burocratizzare l’addestramento che favorire l’apprendimento attivo.
Troppo avanzata come idea in
un posto che ha ancora,secondo i dati dell’UNLA (74),
un 60% della popolazione che
non è in grado di interpretare
tre frasi una dietro all’altra
ed un grafico. Tecnicamente
“analfabeta”… una popolazione che, nel 2001, secondo
i dati ISTAT del censimento
2001 aveva il 7,5% di laureati, verso il 20 % della Germania, ed il 12% di analfabeti
totali…
La didattica attiva è sviluppata in molte aree avanzate
del pianeta, in moltissime
Università.
Si stupiscono gli studenti
delle Università anglo-sassoni, quando in Italia vengono
a frequentare degli stages e
trovano quasi solamente lezioni frontali. Non comprendono come mai debbano pas-
sare il loro tempo ad annoiarsi a sentire lezioni su cose
che possono ormai leggere su
internet o sui libri.
Aiutare ad apprendere è
un’altra cosa di quello che abbiamo oggi noi nelle Università, non solo nelle Facoltà di
Medicina. La didattica orientata allo studente è ancora
grandemente minoritaria.
Di quell’esperienza resta la
felice sintesi di Sergio Tonelli, che fa evolvere il modello
ancora parzialmente meccanicista, di Donabedian in un
modello che esplicita il metodo del problem solving, tipico della Medicina di questi
anni:
“problema – obiettivo –
(progetto) –
processo – risultato”.
Non esiste infatti processo
senza progetto condiviso e
non esiste progetto senza
obiettivi di salute per/con il
paziente o la comunità ed è
meglio esplicitarlo, altrimenti non si aiuta il paziente a passare da una condizione di malattia ad una di salute migliore.
È dal problema del paziente
che nascono gli obiettivi di
salute: il progetto condivide
il processo di cambiamento
che dobbiamo provare ad attuare… il risultato sarà conseguente a come saremo stati
in grado di modificare l’esistente.
In fondo quello che vogliamo
riuscire a fare è cambiare le
cose che non vanno bene nel
paziente e nella comunità.
Lo sviluppo della qualità
In breve tempo, nel corso di
una ventina d’anni, a partire
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dalle esperienze dei precursori, Franco Perraro, Pierluigi
Morosini (75), Claudio Galanti, siamo stati in grado di definire che cosa ci sembra sia
la qualità dei sistemi sanitari,
quali le componenti e le relazioni fra di loro.
Pare infatti che i punti di vista dai quali la qualità viene
presa in considerazione sono
fondamentalmente tre: quello dei pazienti e delle comunità, quello delle organizzazioni sanitarie e quello dei
professionisti. La prevenzione, le cure mediche e la riabilitazione riescono meglio se
le comunità e le persone partecipano alla cura della propria salute. Le cure mediche
riescono meglio se sono ben
organizzate con la partecipazione diretta dei professionisti alla loro organizzazione
assieme con pazienti e comunità, costruendo percorsi
diagnostico terapeutici condivisi e autovalutati con
strumenti come l’audit clinico. Percorsi assistenziali e
audit clinico si sono dimostrati strumenti efficaci nelle
cure alle persone ed a tenerne sotto controllo i risultati
allo scopo di migliorarli.
Le cure mediche sono migliori se basate su una consona letteratura evidence based, se sono effettuate da
persone competenti, cioè dotate della conoscenza, delle
capacità manuali e umane e
del giudizio clinico per garantire il più possibile cure
appropriate per le persone
trattate. In futuro i professionisti dovranno essere in
grado di riconoscere le condizioni morbose dei loro pazienti e delle comunità, trovare negli studi di base e
nella rete le soluzioni meglio
conosciute per garantire cure appropriate e applicarle
localmente in rapporto alle
risorse a disposizione.
L’attuazione di questi principi garantisce di per sé sicurezza per i pazienti e le comunità e sostenibilità economica: operare per l’appropriatezza e l’efficacia riduce
gli sprechi ed i costi della organizzazione sanitaria e abbassa i livelli di contaminazione, inquinamento dell’ambiente da parte dell’organizzazione sanitaria stessa, aumenta la sicurezza per i pazienti e riduce le spese per
contenziosi legali. Un’ adeguata e capillare documentazione scientifica e un adeguato sistema di autovalutazione basato su criteri espliciti e standard condivisi è in
grado di dare continuità al
monitoraggio professionale
delle azioni sanitarie effettuate e di ridurre i margini di
errore (76).
Negli ultimi anni è stata la
evidenza che fare qualità riduce i costi e rende sostenibile il sistema (77), a far fare
al movimento per la qualità
il salto di consapevolezza in
più. Prima fare qualità era
un impegno personale o al
massimo un vanto dell’amministrazione ospedaliera
desiderosa di fare marketing.
Oggi è vitale. Fare qualità significa garantire sopravvivenza al sistema.
Ma il sistema sanitario non
può essere una fredda organizzazione e basta. Anche le
SS lo erano. Efficientissime. I
malati hanno bisogno di
ascolto, aiuto, comprensione, calore; hanno bisogno di
stare a casa loro più possibile
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e, quando hanno bisogno
dell’Ospedale necessitano di
luoghi ospitali, gentili, appropriati ai loro bisogni ed
efficienti, che non fanno
perdere loro né tempo né dignità… luoghi molto complessi e difficilmente gestibili proprio perché la complessità non si gestisce, si auto
organizza su obiettivi “ad
hoc”… e chi gestisce dev’essere così bravo da favorirne i
processi che si autoalimentano, se sono processi virtuosi,
deve saperli spegnere quando non lo sono.
Henry Mintzberg, uno dei pochi esperti al mondo evidence
based di management che ha
approfondito con mentalità
scientifica (orientata sui dati
e su ricerche rigorose) afferma delle cose che lo fanno
diventare un Maestro eretico
di una infima minoranza, per
lo meno in Italia. Egli afferma: in tutto il mondo in sanità ci sono 5 riforme da fare
(78):
1. Riformare la leadership,
inutile o dannosa nelle comunità complesse di professionisti, con caratteristiche di autonomia e responsabilità, orientate alla
cura, e farla diventare communityship, management
diffuso.
2. Smettere di “run hospitals”, “farli correre”, ma
“understand them”, “comprenderli”.
3. Smettere di considerare gli
Ospedali come aggregati di
persone da motivare. I professionisti sono già motivati di per sé: vanno aiutati a sviluppare le proprie
motivazioni e capacità.
4. Smetterla di perorare in
maniera coatta la causa
persa della competizione.
Nei luoghi di cura (ma, visti i risultati, probabilmente anche fuori) quello
di cui c’è bisogno è la collaborazione.
5. Smetterla di orientare le
comunità curanti ai propri
bisogni, ma orientarle verso i bisogni di salute dei
singoli e delle comunità.
Fatti salvi questi principi e
trovandoci dentro una spaventosa crisi nei rapporti fra
capitale finanziario e comunità umane dagli esiti imprevedibili, che comunque porterà un cambiamento profondo nelle nostre comunità, per
quel misto di globalizzazione,
localismo, difesa delle identità e sviluppo di reti per cui
le cose non saranno più come
prima, l’attuale nostra condizione di pace e prosperità potrebbe diventare una bella
storia da ricordare.
Si stanno forse verificando le
previsioni delle studiose del
MIT, quando, nel 1972 rispondevano alla committenza
del Club di Roma, presieduto
da Aurelio Peccei, prevedendo per questo nostro tempo
nel rapporto “I limiti dello
sviluppo” (79, 80) quattro fenomeni concomitanti:
– l’aumento della popolazione mondiale,
– la riduzione dell’apporto di
cibo,
– la riduzione delle fonti
energetiche fossili,
– l’aumento dell’inquinamento.
Siamo dentro questo processo
storico, e bisogna fare la nostra parte di medici, operatori
sanitari ed organizzatori di attività sanitarie, anche a costo
di non far contento qualcuno, ad esempio gli speculatori
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sulla sanità e la salute, ad
esempio gli inventori di malattie inesistenti per poter
vendere i loro prodotti inutili,
ad esempio i cacciatori di fondi destinati comunque alla sanità, facile preda della corruzione e della rapina.
Costruire Ospedali può essere
un’operazione umanitaria nel
terzo mondo.
Nel nostro mondo può voler
dire anche speculare sul cemento impoverito, sugli appalti, barattare assunzioni
con voti. Non dimentichiamo
che molto recentemente la
Corte dei Conti si è lamentata del grave stato di corruzione del nostro Paese, dal
quale la sanità non è esente
(81).
È con queste considerazioni
che, quasi per magìa, ci siamo incontrati un anno fa.
Una sanità di qualità e quindi sostenibile era l’obiettivo
di conoscenza proposto ed
approvato dall’Assemblea
della Società italiana per la
qualità dell’assistenza sanitaria (82).
Una relazione efficace ed utile fra medici, operatori sanitari e persone è da sempre
l’obiettivo dell’Istituto Change, il primo in Italia a fare
proprio, con Silvana Quadrino, psicoterapeuta ad orientamento sistemico, il concetto di counselling sistemico, ed
a diffonderlo come strumento
utile a favorire il rapporto terapeutico e pedagogico (83).
Dar valore alla narrazione ed
alle storie che curano è da
parecchio tempo il campo di
ricerca di Giorgio Bert, cofondatore dell’Istituto e prestigioso esponente del gruppo fondato assieme a Giulio
Maccaccaro ai tempi della
collana di “Medicina e Potere” e della rivista Sapere e
oggi il principale esperto italiano di Medicina narrativa
(84).
Monitorare il disease mongering (85), la creazione di finte patologie per smerciare vere o presunte medicine e garantire l’equità di accesso ai
servizi sanitari alle persone
che ne hanno bisogno (86)
sono due dei molti interessi
di Gianfranco Domenighetti,
economista e sociologo, per
molti anni responsabile dei
Servizi sanitari e sociali del
Canton Ticino.
La Pedagogia sanitaria, quella vera, l’interesse di Stefano
Beccastrini, che ama di un
amore sconsiderato la prevenzione, l’educazione alla
salute, la matematica, il cinema, la sua famiglia, la sua nipotina e il mondo intero (87).
L’autovalutazione che genera
miglioramento, quello di
Sandra Vernero, medico anestesista, fra i pochi a partecipare al gruppo di studio per
l’applicazione in sanità del
modello di autovalutazione
della European Foundation
for Quality Management. Da
parecchi anni coordina la redazione del report del Bilancio di missione della più
grande Azienda sanitaria dell’Emilia Romagna, quella di
Bologna (88).
Lo studio della complessità
dei sistemi di cura quello di
Antonio Bonaldi, da sempre
direttore sanitario degli
Ospedali più complessi della
Regione Lombardia e del Veneto, già direttore della rivista della Siquas, QA e fondatore dell’Associazione “Rete
Dedalo” ’97, che organizza
tutti gli anni il Festival della
complessità, che quest’anno
sarà ad Orvieto (89).
Lo sviluppo della qualità
quello di Mimmo Tangolo
(90), Mimmo Colimberti (91)
e Franco di Stanislao(92), da
più di vent’anni compagni di
avventure intellettuali e culturali sparse in tutta l’Italia.
Il design della comunicazione
quello di Jorge Frascara (93)
e Guillermina Noel (94), designers innovativi e prestigiosi,
Jorge professore emerito dell’Università di Edmonton in
Canada, Guille master in Comunicazione visiva all’Università di Alberta, ambedue
molto interessati al design
della comunicazione umana
nei servizi sanitari e con i pazienti, soprattutto: Guille,
con quelli che non possono
parlare, gli afasici, di cui è fra
le poche esperte a livello internazionale.
Ci hanno fatto compagnia altri professionisti, con rapporti di parentela, amicizia, affetto, collaborazione con
qualcuno di noi. Qualcuno è
rimasto, qualcuno è restato.
Qualcuno resterà, qualcuno
se ne andrà, come le cose della vita…
Ci siamo incontrati un paio di
volte. In piena libertà. Ci è
piaciuto. Abbiamo continuato, abbiamo preso contatti
con slow food, cui siamo piaciuti, ci siamo dati tre parole
chiave, per una cura sobria,
rispettosa e giusta, che ci sono sembrate appropriate ad
esprimere quello che vorremmo succeda.
Ci siamo chiamati rete di idee
in movimento, decidendo che
diventiamo movimento, non
associazione scientifica, ma
movimento di idee in rete,
che utilizza le conoscenze
scientifiche comunemente
da noi raggiungibili attraverso le nostre fonti professionali e scientifiche indipendenti e ci siamo dati un manifesto ricordando le persone
che ci hanno preceduto e le
loro idee, accogliendo le persone che ci vogliono avvicinare, anche operando una
selezione, scommettendo su
un futuro di migliore comprensione, soddisfazione e
vita intellettuale ricca e felice per i più giovani di noi, e,
perché no anche per noi per
gli anni a venire, che ci piace
pensare saranno ancora tanti
e in allegria.
Per il momento ci sentiamo
troppo limitati per esplorare
campi sui quali non siamo
competenti, come le cosiddette Medicine complemetari
e la new age.
Noi siamo purtroppo limitati
dalle regole e dalle pastoie
della scienza ufficiale, e non
siamo in grado di allontanarcene.
Siamo maledettamente tradizionalisti: leggiamo The Lancet (95) ed il BMJ (96) e seguiamo l’evoluzione della Cochrane Collaboration e ci
piacciono le idee di Henry
Mintzberg, di Paul Watzlawick, ma anche di Fritijof
Capra (97), di Richard Smith
(98). Antonio Bonaldi ha
provato a fare un paio di
esempi di quello che non ci
piace e di quello che ci piace.
Ne è uscito il suo scritto, che
di seguito riproduciamo, sui
sette veleni ed i setti antidoti della Medicina moderna
(vedi riquadro).
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Slow medicine
Fast e slow medicine: i sette veleni e i relativi antidoti
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Sandro Spinsanti, fondatore
dell’Istituto Giano per le Medical Humanities (99), ha risposto con entusiasmo al nostro invito e ci ha regalato il
suo “Elogio dell’indecisione”.
L’etica di cui lui è un precursore in Italia ci serve molto
come guida per le nostre
azioni ed i nostri pensieri, in
questa fase e nel futuro incerto che vivremo.
Antonio Panti (100) ci ha
portato la solidarietà dell’Ordine dei medici, ed abbiamo
l’incoraggiamento di Annalisa
Silvestro (101), Presidente
della federazione IPASVI.
Dopo tutto cerchiamo solo di
applicare con intelligenza e
modestia i Codici deontologici dei nostri Ordini e Collegi
professionali (102, 103).
La prospettiva nostra è sistemica: ci occupiamo di relazioni
fra le persone più che di connotare con degli stigmi i difetti delle persone e giudicarli.
Non giudichiamo se prima
non abbiamo progettato assieme, definito gli obiettivi e
gli indicatori, misurato gli
stessi con delle unità di misura e valutato in rapporto
con degli standard.
A noi semmai i giudizi ci servono per aiutare a condividere i risultati e migliorare, non
per punire o bocciare.
Ci piace sviluppare un rapporto armonioso con la natura, con il pianeta.
Ci dispiace quando il pianeta
viene inquinato, sfruttato,
vessato a causa di interessi di
pochi.
Lo stesso se tutto ciò accade
ad una persona, ad un animale, ad un altro essere vivente.
Non vogliamo lasciare ai nostri nipoti un pianeta più
ignorante e più povero.
Non facciamo fatica a dirlo:
vorremmo un pianeta più a
misura di pianeta, una sanità
più a misura di uomo e di comunità, una cura sobria, rispettosa, giusta.
Nota alla bibliografia
La lista che segue è una bibliografia ma è anche una
continuazione dell’articolo
che vorrebbe permettervi di
raggiungere senza fatica le
informazioni relative alle
persone citate, al loro lavoro,
alla loro vita. Ci sono molte
altre persone che ci vogliono
bene e cui noi vogliamo bene,
come pure ci sono altre persone che ci sono state vicine,
nel corso della storia ma che
non ho potuto citare, per dimenticanza o rilevanza…sapendo chi sta dietro alle idee
ed ai concetti si capiscono di
più le cose. Di questi tempi
c’è bisogno di capire molto e
ricordare le motivazioni. Si
tratta di non perdere la memoria e l’identità, anzi di affermarla con forza ed orgoglio. Per questo ho provato a
farvi conoscere di vicino
quelli che le idee fondanti le
hanno discusse, le hanno fatte diventare pensieri, le hanno trasformate in pensiero e
in azioni pratiche per prendersi cura meglio, anche, di
noi stessi… (104).
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Slow medicine
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(91) http://www.francoangeli.it/riviste/Scheda_rivista.aspx?IDArticolo=32109
(74) http://it.wikipedia.org/wiki/Analfabetismo, download la ricerca
completa al punto 4
(92) http://www.univpm.it/Entra/Engine/RAServePG.php/P/
320710012049/idsel/377/docname/FRANCESCO%20DI%20STANISLAO
(75) Morosini P., Perraro F. (2004), Enciclopedia della gestione di qualità in sanità, Centro scientifico editore, Torino.
(93) http://ualberta.academia.edu/JorgeFrascara/Papers/439106/
Jorge_Frascara_and_Dietmar_Winkler_On_Design_Research
(76) Gardini A. (2006), Verso la Qualità, Centro Scientifico Editore, Torino, II ed.
(94) http://www.frascara-noel.net/italiano/chi-siamo.html
(90) http://www.youtube.com/watch?v=0ysE0FHgiFw
(95) http://www.thelancet.com/
(77) Ovretveit J. (2009), Does Improving Quality save money?, The
Health foundation, settembre.
(96) http://www.bmj.com/
(78) Mintzberg H., Lezione magistrale tenuta all’Università di Salerno, il 13 ottobre 2010.
(98) http://www.youtube.com/watch?v=4Wv93O0tBE8
(97) http://it.wikipedia.org/wiki/Fritjof_Capra
(79) Meadows D. (1972), Chelsea Green. I limiti dello sviluppo, Club di
Roma.
(99) http://www.istitutogiano.it/
(80) http://it.wikipedia.org/wiki/Rapporto_sui_limiti_dello_sviluppo
(101) http://www.ipasvibz.it/it/pharus/tematiche-di-settore-dettaglio.asp?lProductID=149687
(81) http://www.corteconti.it/in_vetrina/dettaglio.html?resourceType=/_documenti/in_vetrina/elem_0086.html
(82) www.siquas.it
(83) http://www.counselling.it/
(84) Bert G. (a cura di) (2007), Medicina Narrativa: storie e parole nella relazione di cura, Il Pensiero Scientifico Editore, ottobre.
(100) http://www.ordine-medici-firenze.it/Consiglieri/xpanti.htm
(102) http://portale.fnomceo.it/PortaleFnomceo/showVoceMenu.
2puntOT?id=5
(103) http://www.ipasvi.it/norme-e-codici/deontologia/il-codicedeontologico.htm
(104) http://www.youtube.com/watch?v=8GhDFUyDts0
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Silvana Quadrino
Psicologa, pedagogista Responsabile della formazione
per l’Istituto di counselling
CHANGE
S
iamo arrivati al Convegno di Torino con una
lunga/breve storia alle
spalle.
Lunga la storia di ciascuno
dei fondatori, “seniores” come ci ha definiti Andrea Gardini nel primo quasi casuale
incontro da cui è nata slow
medicine: le nostre date di
nascita, nell’elenco di “chi
siamo” parlano chiaro. Collocazione eterogenea ma in
qualche modo ben connotata
nel vasto mondo sanitario:
quello che accomuna il piccolo gruppo dei fondatori è una
ricerca mai interrotta di “modi” di fare Medicina più rispondenti alle esigenze delle
persone, più ecologici, più indipendenti dalle logiche del
profitto, più “puliti”. Spesso,
una ricerca contro corrente.
Breve la storia di slow medicine: nata da un incontro e da
una domanda che in quell’incontro, a novembre del 2010,
ci siamo fatti con un certo
stupore: perché siamo qui per
caso? Perché ci è mancata, ci
manca, una struttura che
connetta quello che pensiamo e quello che facciamo o
che proviamo a fare in posti
lontani e diversi (Torino, Ferrara, Monza, Trieste, Milano…), che dia senso e continuità alle esperienze, che impedisca che si disperda la memoria di cose accadute in an-
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Slow medicine
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Una nuova cultura
medica
ni che sembrano così lontani,
gli anni delle riforme sanitarie, della Medicina sociale,
della cultura delle prevenzione nelle fabbriche, nel mondo
del lavoro? Cosa possiamo ancora far succedere, che permetta ad altri di individuare
un luogo delle idee, delle
esperienze, delle condivisioni
in materia di cura attenta alla qualità, alla sicurezza, al
rispetto?
In questi anni abbiamo fondato riviste, diretto collane
editoriali, organizzato convegni, realizzato corsi e momenti di formazione, fondato
gruppi e società scientifiche.
Ma restava la sensazione che
le centinaia di persone, professionisti giovani e meno
giovani che incontravamo ai
convegni, ai corsi, nelle riunioni si ritrovassero comunque soli, il giorno dopo, nel
confronto con una realtà di
lavoro paludosa, frustrante,
capace di soffocare qualsiasi
tentativo di cambiamento
semplicemente con il peso
del suo immobilismo.
Cambiare si può era stata l’idea radiosa e utopistica di
Slow Food: vedere il cibo come
un elemento della vita da
trattare con cura e attenzione
dal momento della produzione fino al momento del consumo; come il prodotto del lavoro e della fatica appassio-
La nascita di una “rete di idee
in movimento”
nata di persone che coltivano
producono trasformano, a cui
si deve rispetto e a cui va richiesto rispetto per l’ambiente e per le persone. Come un
momento di scelta da parte di
chi consuma, che deve pretendere cibi buoni e puliti ma
deve anche fare la sua parte
perché quei cibi siano “giusti”, prodotti senza sfruttamento e senza violenza.
Cambiare si può è l’idea sorella su cui nasce slow medicine:
si può ripensare la cura rivedendo alla base i rapporti fra
professionisti, amministratori, ricercatori, manager e cittadini, proponendo con forza
una riflessione continua e libera sulla qualità della cura
intesa nel senso più ampio,
come rispondenza alle esigenze della persona curata e
dei professionisti della cura,
come sostenibilità, equità,
partecipazione, controllo
condiviso degli obiettivi e
delle risorse.
La parola slow abbinata alla
Medicina compare a partire
dal 2002 (1, 2), e sempre con
questo significato: attenzione alla qualità degli interventi di cura, ma anche alla qualità delle persone che inter-
vengono nella cura. Rigore
scientifico e rigore etico, nella ricerca, nelle scelte, nelle
proposte di intervento. Competenza tecnica e competenza relazionale. Aggiornamento scientifico e sviluppo della
capacità di comunicazione.
Nel maggio del 2010 a conclusione del Convegno SIQuAS VRQ di Trento Andrea
Gardini proponeva un “Manifesto per una slow medicine”
che possiamo considerare il
vero inizio di una slow medicine non più solo idea ma movimento. O meglio ancora “rete di idee in movimento”.
Perché le parole sono fondamentali per dare concretezza
e peso alle idee, per indicare,
definire, rendere limpide le
proposte e le intenzioni. Il
primo impegno, nei mesi di
gestazione di slow medicine,
è stato quello di trovare le
parole che definissero una
cura slow. Anche qui seguivamo la linea di Slow Food:
quelle tre parole-aggettivi
che non richiedono altre
spiegazioni per intendersi su
cosa è l’idea slow del cibo:
buono, giusto, pulito. E la
cura? Siamo arrivati per gradi
a selezionare le nostre tre
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Slow medicine
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parole, i nostri aggettivi per
una cura slow: sobria, rispettosa, giusta. (e pazienza se
l’aggettivo sobrio è diventato
una moda un po’ esausta, negli ultimi tempi: noi siamo
arrivati prima…).
La breve storia di slow medicine è partita da quelle tre parole, e subito dopo da un lancio di prova: perché non lo
sapevamo, se la nostra convinzione che molti professionisti sanitari fossero in cerca
di una casa comune, di una
rete che spezzasse la sensazione di muoversi sempre da
soli e mettesse in contatto
idee e progetti, fosse reale o
immaginaria.
Ce lo siamo chiesto, abbiamo
fatto una prova: abbiamo proposto ad alcune delle persone
che avevamo in mente come
punti potenziali della nostra
rete ancora immaginaria di
incontrarci a Ferrara: niente
sponsor, niente rimborsi spese, niente cene di gala. Solo,
questo sì, un luogo bellissimo
e suggestivo per accoglierci,
il Castello Estense.
Abbiamo scoperto una cosa,
prima e dopo quell’incontro
del 29 giugno 2011: i punti
rete erano molti di più di
quelli che avevamo immaginato, alcuni già attivi, altri
pronti a essere attivati. Persone, gruppi, luoghi di ricerca e di formazione.
L’impegno, da questo momento in poi, è quello di metterli in comunicazione, di facilitare incontri, scambi, progettazione condivisa.
La proposta che il Convegno
di Torino ha voluto lanciare è
la trasformazione in azioni e
progetti delle tre parole chiave di slow medicine. Progetti
di cura che rispettino l’idea di
sobrietà. Progetti di cura basati sul rispetto. Progetti di
cura più giusti.
Abbiamo provato, nel convegno, a declinare questi concetti. A definire meglio cosa
caratterizza una cura sobria,
rispettosa e giusta. Da ora in
poi, l’impegno è operativo:
dobbiamo provare a realizzare
queste idee.
Le riflessioni che i relatori del
Convegno ci hanno offerto
sono il punto di partenza per
lo sviluppo di una reale, concreta slow medicine.
Bibliografia
(1) Dolara A. (2002), Invito ad una Slow Medicine, in Italian Heart
Journal Suppl, 3 (1), pp. 100-1.
(2) Satolli R. (2008), Cresce il bisogno di “Slow Medicine”, Corriere della
Sera, 1 giugno.
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Giorgio Bert
Medico - Responsabile
del Dipartimento “Counselling
comunicazione e salute”,
Istituto CHANGE
Una medicina sobria implica la
capacità di agire con moderazione, gradualità, essenzialità e di
utilizzare in modo appropriato e
senza sprechi le risorse disponibili. Rispetta l’ambiente e salvaguarda l’ecosistema.
(dal Manifesto di slow medicine)
S
obrietà: bella parola, oggi anche di moda. Merita
tuttavia porsi un interrogativo: un medico sobrio è
per ciò stesso un buon medico? E poi, sobrio come? Nello
stile di vita? Nel vestire? Nell’eloquio?
Riflettendoci risulta chiaro
che la sobrietà, presa come
atteggiamento individuale,
poco ci dice sulla competenza
e sull’etica professionale del
medico. In effetti il Manifesto di slow medicine parla di
“Medicina” sobria, non di medico sobrio: e non a caso.
La Medicina, l’arte medica come un tempo era chiamata,
non è infatti definita per intero dal comportamento del professionista che la esercita;
perché esista un medico deve
esistere un paziente, e viceversa. In altre parole, l’elemento su cui nei secoli e nei
millenni si è costruito il sistema della cura non è né il medico né il malato ma la relazione che si crea tra queste due
figure. Da questo punto di vista non è necessario che il
professionista della cura abbia
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Slow medicine
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La sobrietà
una laurea in Medicina basata
sul metodo scientifico accettato dalla cultura occidentale;
sotto l’aspetto relazionale non
fa differenza che il curante sia
un medico, uno sciamano,
uno stregone: la relazione
stessa può essere almeno in
parte terapeutica, come dimostrano i più recenti apporti
delle Neuroscienze. È stato in
effetti dimostrato che la relazione medico-paziente produce effetti neurofisiologici verificabili con le tecniche attualmente in uso e coinvolge specifiche aree cerebrali. Questa
azione è talmente intensa che
è in grado di ridurre o addirittura di annullare il disagio di
cui soffre il paziente. Per citare Fabrizio Benedetti, neurofisiologo di fama mondiale:
“Molti esempi illustrano gli effetti positivi di una buona interazione medico-paziente. Kaplan
e coll. (1989) hanno osservato
che la pressione sanguigna, il livello glicemico, le condizioni
funzionali e soprattutto lo stato
di salute sono chiaramente correlati a specifici aspetti della comunicazione medico-paziente.
Molti altri studi confermano
questi risultati (1)”.
Inversamente parole e atteggiamenti del medico percepiti
come negativi possono produrre peggioramenti sul piano clinico.
L’importanza terapeutica
del rapporto medico-paziente
Sobrietà nella relazione quindi, ma non basta. La Medicina, così come la propone slow
medicine, deve infatti essere
non solo sobria ma anche rispettosa e giusta: questi aggettivi definiscono tre atteggiamenti che devono andare
rigorosamente insieme.
Insomma, una persona sobria
e basta, medico o no, non è
necessariamente affidabile:
Hitler era notoriamente sobrio di costumi ma sul piano
del rispetto e della giustizia
lasciava, come si sa, parecchio a desiderare.
Se qui parliamo principalmente di sobrietà, dobbiamo
sempre immaginarla strettamente correlata al rispetto e
alla giustizia.
Che significa “sobrietà” in
questo contesto? Il Manifesto
di slow medicine la sintetizza
così: “Fare di più non significa fare meglio”. Un altro modo di coniugare il celebre
motto dell’architetto Mies
van der Rohe “Less is more”:
Il meno è più.
In ambito medico questa frase assume significato solo se
si tiene presente quanto in
precedenza detto: che cioè
alla base della cura non sta il
medico ma la sua relazione
con il paziente,
Una relazione buona abbastanza si fonda da parte del
paziente sulla fiducia, da parte del medico sull’empatia,
sull’ascolto. Costruire una
buona relazione è quindi il
primo e fondamentale atto
medico, il più antico e importante: tutto il resto viene di
conseguenza.
La sobrietà si valuta pertanto
all’interno della relazione. Un
esempio: prendiamo un medico molto preparato sul piano
tecnico e clinico a cui si presenta un paziente che assume
una quantità di farmaci a suo
avviso eccessiva e insensata.
Competenza e sobrietà lo
porteranno a prescrivere al
paziente di eliminarne subito
una parte e di limitarsi a
quelli che il medico stesso ritiene necessari. Questo professionista si percepirà come
un prescrittore sobrio ma in
realtà non lo è, o per lo meno
non dal punto di vista della
slow medicine, in quanto egli
prevarica il paziente, non lo
ascolta, gli impone la sua visione e di conseguenza lo è
nel senso che si pone fuori,
non dentro la relazione; in tal
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modo essa viene interamente
impostata su quella che definiamo la “voce della Medicina”. Se il paziente volesse far
presente che una di quelle
medicine “inutili” lo fa a suo
avviso star bene al contrario
di un’altra giudicata “necessaria”, difficilmente verrà
ascoltato: un medico di quel
genere non è abituato a negoziare e ben di rado lascia
spazio alla “voce della vita”.
Ogni relazione tra persone
tuttavia richiede reciprocità e
di conseguenza aspetti negoziali, e quindi non può basarsi su decisioni unilaterali imposte da una delle parti: se
questo avviene si arriva allo
scontro e la relazione a questo punto si degrada o smette
di esistere.
Nel momento in cui si spezza
l’ultimo legame del binomio
medico-paziente, restano sul
campo due entità individuali
ognuna con le sue idee, le
sue convinzioni, le sue certezze, le sue emozioni. Una
situazione potenzialmente
conflittuale.
L’obiettivo primario del professionista della cura è quello
di mantenere sempre la relazione perché all’interno di
questa si gioca tutto quanto:
la sobrietà, il rispetto, la giustizia. Il fondamento inscindibile del sistema medico, antico e moderno, scientifico o
no, è e resta la relazione medico-paziente.
Quella che ogni medico vorrebbe ottenere, la fiducia da
parte del paziente, è appunto
una relazione. Certo, il medi-
co può essere più o meno capace di ispirare fiducia, ma in
ultima analisi quella fiducia
se la dovrà guadagnare volta
per volta. Se è il malato da
solo a decidere di dare fiducia, esso avrà anche il potere
di togliere unilateralmente la
fiducia che ha concesso;
quanto al medico, egli non ha
il potere di costringere il paziente a fidarsi di lui una volta per tutte. La fiducia, come
l’amore o l’amicizia o qualsiasi relazione umana si costruisce e ricostruisce nel tempo
attraverso mediazioni, negoziazioni, tentativi, errori,
momenti di reciprocità.
Se il paziente non si fida, la
noncompliance è quasi assicurata. In una interazione autoritaria o comunque di scarsa
fiducia reciproca, la sobrietà
imposta – sia che essa riguardi
il trattamento sia a maggior
ragione lo stile di vita – può
venire percepita come aggressiva o comunque non applicabile nella realtà quotidiana.
Eppure di sobrietà nelle cure
c’è bisogno, eccome, e non è
un caso se una rivista medica
seria come Archives of Internal Medicine propone da
qualche tempo una rubrica
dal titolo appunto Less is more, che introduce così:
“Less is more è una nuova rubrica che intende mettere in
evidenza situazioni in cui
l’eccessivo uso di interventi
medici può risultare dannoso
e in cui un minore interventismo terapeutico produce
molto probabilmente migliori
condizioni di salute”.
Bibliografia
(1) Benedetti F. (2011), The Patient’s Brain, Oxford University Press.
In questo senso un caso abbastanza impressionante è
stato segnalato nel 2007 da
una rivista di Medicina delle
urgenze e riproposto al pubblico dal New York Times.
Una signora di 78 anni viene
rinvenuta priva di sensi sul
pavimento di casa. Viene
prontamente ospedalizzata;
il medico curante segnala che
è in cura oltre che da lui da
altri specialisti per diversi
problemi specifici. Una ricognizione della terapia in atto
mostra che la paziente è al
momento trattata contemporaneamente con:
– Betabloccanti
– Digitale
– Coumadin
– Furosemide
– Statine
– Aspirina
– Antidolorifici antiCox2
– Antidepressivi
– Benzodiazepine
– Antibiotici
– Ibuprofene
– Sciroppo per la tosse
Va notato che alcuni di questi
farmaci presentano evidenti
interazioni negative.
Questo “cocktail venefico”
come viene definito nell’articolo, nasce dal fatto che ogni
specialista ha impostato la
propria terapia ignorando l’esistenza degli altri.
Si può pensare che in Italia la
presenza di un medico di famiglia che dovrebbe coordinare la terapia riduca questi
rischi, e ciò probabilmente è
vero; tuttavia in recenti convegni sull’uso dei farmaci, soprattutto in Geriatria, sono
stati segnalati casi simili anche da noi. Non sempre vengono effettuate puntuali verifiche periodiche.
La necessità di eliminare parte di questi farmaci è evidente, ma è proprio qui che la sobrietà mostra – come si è detto – i suoi aspetti relazionali
(ascolto, fiducia, negoziazione…) e la sua correlazione
con gli altri elementi slow,
prima tra tutti il rispetto: il
diritto cioè del paziente di
essere quello che è, di pensare e di esprimere quello che
pensa, di dare al “mondo della vita” una dignità pari a
quella del “mondo della Medicina”. Rispetto vuol dire innanzi tutto legittimazione,
accoglienza.
Accogliere non significa, è
ovvio, né accettare né approvare, né tanto meno rinunciare alla propria competenza
che è innanzi tutto un dovere
etico; in un rapporto di fiducia tuttavia esistono in genere larghi margini di negoziazione; lo scontro diretto, come la Neurofisiologia insegna, ha generalmente effetti
negativi sullo stato di salute,
compreso quello del medico.
Ovvio che oltre un certo punto il medico non può in scienza e coscienza arretrare, ma il
suo atteggiamento sarà allora
autorevole, assertivo non autoritario e prevaricante. Non
è possibile rendere i pazienti
felici con le nostre diagnosi e
con le nostre prescrizioni ma
si può – si deve – costruire
con essi una equilibrata relazione di reciproca fiducia.
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Stefano Beccastrini
Medico del lavoro,
pedagogista, storico del cinema
Da bambino volevo guarire i ciliegi quando rossi di frutti li credevo
feriti la salute per me li aveva lasciati coi fiori di neve che avevan
perduti. Un sogno, fu un sogno
ma non durò poco per questo giurai che avrei fatto il dottore.
Fabrizio De André
L
a bella canzone, intitolata Un medico, di Fabrizio De André (il quinto
evangelista, secondo il mio
amico don Andrea Gallo) trae
ispirazione da un grande libro
di poesia: la Spoon River
Anthology di Edgar Lee Masters. Farò riferimento anch’io ad esso, parlerò di tre
medici americani, vissuti all’inizio del ’900 e sepolti,
quasi l’uno accanto all’altro,
nel piccolo cimitero collinare
di Spoon River: il dottor
Meyers, il dottor Hill e il dottor Iseman (quello di cui parla De André). L’idea del libro
venne a Masters dalla lettura
di due opere del passato, la
settecentesca “Elegia in un
cimitero campestre” di Thomas Gray e la tardo-antica
“Antologia palatina”, contenente una raccolta di epigrammi funebri. Masters immagina che i morti di una
piccola città americana del
Middle West, sepolti nel cimitero sulla collina, raccontino,
ciascuno sintetizzandolo in
un breve componimento poetico, il senso della loro, ormai
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Tre medici sulla collina
di Spoon River
per sempre immodificabile,
esistenza terrena. Non chiediamoci ove si trovi Spoon River: è un luogo inesistente
sulle carte geografiche in
quanto creato dalla fantasia
di un poeta (una, e non la
meno suggestiva, delle funzioni dei poeti è proprio di
costruire geografie parallele a
quella del mondo reale). Per
tratteggiare le esistenze dei
tanti morti del suo poetico cimitero, Masters trasse spunto
da varie persone conosciute
nei propri anni giovanili,
quando visse, prima di trasferirsi a Chicago per fare l’avvocato, nelle cittadine di Petersburg e di Lewinston, in Illinois. Spoon River, dunque, è
un po’ Petersburg, un po’
Lewinston e soprattutto, grazie alla magia della poesia, è
il simbolo di mille altre piccole città d’America e del mondo intero: I versi introduttivi
del libro, come tutti sanno,
recitano: “Dove sono Elmer,
Herman, Bert, Tim e Charley
/ l’abulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso? /
Tutti, tutti, dormono sulla
collina / … / Dove sono Ella,
Kate, Meg, Edith e Lizzie / la
tenera, la semplice, la vociona, l’orgogliosa, la felice? /
Tutte, tutte, dormono sulla
collina”. Tra loro, a dormire
sulla collina, ci sono appunto
anche il dottor Meyers, il dot-
Gli epitaffi poetici che raccontano modi diversi
di praticare la professione medica
tor Hill e il dottor Iseman ed
essi pure narrano, in prima
persona, il senso della loro
esistenza ai visitatori del cimitero ossia, fuor di metafora, a noi lettori. Ascoltiamo
con attenzione, dunque, le
estreme parole di questi tre
nostri colleghi vissuti ormai
più di un secolo fa e cerchiamo, da tale lettura, di ricavare qualche spunto di meditazione sul senso della Medicina e del nostro praticarla.
Tutti e tre erano medici di famiglia o, come oggi si direbbe, di Medicina generale. Le
loro vicende, pur essendo il
medesimo il loro impegno
professionale, furono molto
diverse tra loro: due dei tre,
ma per motivi tutt’altro che
simili, ebbero guai con la giustizia e dunque la carriera rovinata; due dei tre furono
onesti, generosi, altruisti
nell’esplicare la propria missione professionale; uno solo
dei tre morì circondato dalla
stima e dall’affetto dei propri
pazienti.
Il dottor Meyers non ci dice
come né perché sia diventato
medico ma è facile immaginarselo quale studente modello, capace di farsi apprez-
zare dai propri insegnanti.
Possiamo raffigurarci, anche,
la sua carriera di medico, fino
all’evento che la stroncò: certamente coronata da successo
professionale, da una parte,
altrettanto certamente attenta all’aspetto sociale e umanitario della professione, dall’altra. Egli si descrive, infatti, quale “sano, felice, benestante”: la sanità è personale
ma la felicità è familiare (infatti dice ancora: “avevo una
compagna congeniale e figlioli adulti / tutti sposati e a
posto nel mondo”). Il suo essere benestante è, evidentemente, legato al suo lavoro.
Meyers fu, infatti, ricco di generosità, di impegno sociale,
di altruismo e perciò molto
amato da tutti i suoi concittadini e pazienti in quanto
“nessuno, tranne il dottor
Hill / fece più di me per la
gente di questa città”. Egli
era “il comodo dottor Meyers
dal buon cuore” e tutti “i deboli, gli storpi, gli sventati /
e chi non poteva pagare accorrevano da me”. In pochi
versi, Masters disegna il commovente ritratto d’un bravo
medico di paese. Egli è generoso, disponibile, al servizio
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di tutti i bisognosi però, evidentemente, sa essere anche
un medico di successo, altrimenti da cosa deriverebbe il
suo benessere? Dunque, egli
dona tanto, ricevendo tanto.
E’ un uomo e un professionista felice che sa spartire la
sua felicità col mondo intero,
sa restituirla al prossimo. Poi,
un giorno, anzi, una notte,
bussò alla sua porta, sempre
pronta ad aprirsi per accogliere i bisognosi, Minerva
Jones, “la poetessa del villaggio / fischiata, schernita
dai villanzoni della strada /
per il mio corpo goffo”
com’ella stessa dice di sé nella propria poesia / epitaffio.
Era stata violentata brutalmente da Butch Weldy, un
poco di buono. Narra il dottor
Meyers: “Una notte Minerva,
la poetessa, venne da me nei
guai, piangendo / Cercai di
aiutarla – morì”. Fu per questo che la carriera e l’intera
esistenza del “comodo dottor
Meyers” si interruppero
drammaticamente, irreparabilmente. Egli dice ancora,
concludendo la propria drammatica storia, “Mi accusarono, i giornali mi coprirono
d’infamia / mia moglie morì
di crepacuore. / Mi finì la
polmonite”. Così morì, in malora, un bravo medico e
un’ottima persona, colpevole
soltanto di aver cercato di
aiutare tutti quanti coloro
che gli chiedessero aiuto,
compresa una poetessa ridicolmente goffa e vilmente
stuprata.
Leggendo la poesia / epitaffio del dottor Meyers, abbiamo letto, tra l’altro, che
“Nessuno, tranne il dottor
Hill, fece più di me per la
gente di questa città”. Chi
era dunque il dottor Hill, colui che seppe fare, per gli
abitanti di Spoon River, persino di più del buon dottor
Meyers, benestante e felice e
dunque buono e altruista,
finché le malelingue, il moralismo ipocrita e la stampa
bugiarda non ne distrussero
carriera ed esistenza? Cerchiamo nel libro la poesia /
epitaffio di Hill e leggiamo:
“Andavo su e giù per la strada / qua e là, giorno e notte
/ curando in tutte le ore i
malati poveri”. Una dedizione
ancor più totale, a ben vedere, di quella di Meyers, verso
i pazienti derelitti e miserevoli, privi di soldi e bisognosi
d’aiuto sia terapeutico che
assistenziale. Qual era la motivazione di tale, generoso e
raro comportamento, di tale
altruistica – fino all’estremo
– concezione della professione medica? “E sapete perchè?” domanda a noi lettori
lo stesso dottor Hill. La risposta è triste, persino tragica: “Mia moglie mi odiava,
mio figlio andò in rovina / e
io mi volsi alla gente e riversai in essa il mio amore”. Ecco la differenza tra i due medici, pur entrambi amanti del
prossimo e praticanti una
Medicina dell’aiuto, del
conforto umano, della dedizione al paziente: il dottor
Meyers tendeva a spartire
con il prossimo la carica
emotiva derivatagli dal proprio benessere esistenziale e
dalla propria felicità familiare e dunque dava agli altri
tanto amore ma non tutto,
perché teneva per sé – giustamente – quello per la propria famiglia; il dottor Hill,
invece, si era dedicato anima
e corpo agli altri in quanto
voleva fuggire dalla propria
disperata solitudine, in
quanto voleva dimenticare –
nella dedizione agli altri, ai
più miseri e disperati – la
propria miseria affettiva, il
dolore per un figlio deludente e deluso, il vuoto per una
moglie che sapeva soltanto
disprezzarlo. Per questo, Doc
Hill fece per la gente di
Spoon River persino più di
Doc Meyers: perché era spinto non da un maggiore amore
da condividere ma da una
maggiore disperazione da
compensare. Ne ricavò una
morte gratificante, capace di
ripagarlo di una intera vita di
dolente dedizione. Come egli
stesso scrive nella sua poesia
/ epitaffio: “Fu dolce vedere
la folla, nei prati, il giorno
del mio funerale / e udirla
mormorare il suo amore e il
suo dolore”.
Veniamo, alfine, al terzo medico sepolto sulla collina di
Spoon River ossia il dottor
Siegfried Iseman, l’unico di
cui Lee Masters ci dica il nome proprio e l’unico di cui
egli finga, nelle sue poesie /
epitaffio, che parli esplicitamente del proprio diventare
medico e della propria iniziale concezione della Medicina.
Ascoltiamolo: “Dissi, quando
mi consegnarono il diploma /
dissi a me stesso che sarei
stato buono / e saggio e coraggioso e caritatevole col
prossimo; / dissi che avrei
portato il credo cristiano /
nella pratica della medicina”.
Ma ciò avvenne davvero?
Davvero il nostro comportamento reale, una volta calati
nel lavoro quotidiano, è legato ai nostri giovanili entusiasmi ideologici o c’è bisogno
di qualcosa di più, di fermez-
za di carattere e di esperienze sociali nonchè di profondità di convinzione etica?
Iseman prosegue la propria
poesia / epitaffio dicendo
“ma non so come, il mondo e
gli altri dottori / subodorano
ciò che si ha in cuore non appena si prende / questa magnanima risoluzione. / È il sistema a pigliarvi per fame”.
La vocazione altruistica si
sbriciolò presto, nella vita
professionale di Iseman. Colpa del sistema, com’egli lascia intendere? Probabile, visto che il Sistema sanitario
americano è tuttora basato
sui profitti assicurativi e certamente nel 1915 lo era persino di più, ma col sistema
sociale vigente occorre sapere fare i conti, quando si vuol
seguire una vocazione, una
missione, una coerenza etica
scelta una volta per sempre.
Poi, Iseman tira in ballo la famiglia: “E quando siete poveri e dovete reggere / il credo
cristiano e la moglie e i figli /
tutto sulla vostra schiena è
troppo!”. Fu così che egli scoprì come “… fare il dottore /
non è che un modo di guadagnarsi la vita”. Purtroppo, da
tale asciutta ed amara considerazione (anche frutto, in
lui, di delusioni, frustrazioni,
difficoltà familiari e sociali),
ne dedusse che tutto si poteva fare pur di fare soldi: “Ecco perché fabbricai l’Elisir di
Giovinezza / che mi portò alla prigione di Peoria / bollato
come truffatore e imbroglione…”. Così finì, miserevolmente, un destino di vocazione medica nato all’insegna
della fede cristiana.
(segue a pag. 88)
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Roberto Satolli
Medico cardiologo
e anestesista rianimatoreGiornalista Zadig, Milano
Q
uando nel 2003 Steve
Jobs scoprì, quasi per
caso, di avere un cancro
al pancreas, i suoi medici lo
invitarono a farsi operare subito. Lui invece decise di
temporeggiare, e ricorse al
chirurgo solo nove mesi più
tardi, quando risultò purtroppo che la neoplasia era cresciuta e si era diffusa anche
al fegato. Otto anni dopo
quel tumore lo uccise.
Qualcuno ha detto che era
stata una decisione molto
stupida, per una persona così
intelligente.
In realtà, pur col senno di poi,
non risulta che la scelta di
aspettare sia stata fatta in modo irrazionale ed emotivo: prima di assumerla Jobs si consultò con un gran numero di
clinici e di ricercatori a livello
mondiale, ci pensò e poi prese
una decisione ponderata.
Diversi fattori possono far
pendere il piatto della bilancia, nel suo caso come in altri
simili, verso una vigile attesa, a fronte dei rischi immediati del bisturi. Il tumore al
pancreas è di solito rapidamente letale, ma quello di
Jobs (di un tipo raro, detto
neuroendocrino) era stato
scoperto incidentalmente,
nel corso di una TC fatta per
un motivo banale come un
mal di schiena. I tumori trovati così, prima che diano
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Il mercato della salute
sintomi, possono spesso essere di un genere particolare, di
quelli se ne stanno nascosti e
non darebbero mai segno di
sé se non li si cercasse.
Ormai gli scienziati sanno
che questo tipo di masse,
dette “incidentalomi”, sono
frequenti, e purtroppo nessuno è in grado di distinguerle
da quelle pericolose. A lui è
andata male, ma è impossibile dire che sarebbe stato meglio se avesse accettato l’intervento immediato: chissà,
avrebbe anche potuto morire
sotto i ferri.
Ci si può dunque chiedere se
la scelta di Steve Jobs di fare
meno di quello che gli consigliavano sia un esempio di sobrietà. Per rispondere è utile
considerare prima in che cosa
consista il contrario della sobrietà quando si tratta di salute, e quali ne siano le cause.
La trasformazione industriale
della Medicina contemporanea
si accompagna a una forte
spinta verso una crescente
medicalizzazione, con molti
aspetti negativi conseguenti.
Per non buttare il bambino
con l’acqua sporca sarà bene
premettere che i progressi tecnologici, pur non avendo tutto il merito del miglioramento
delle condizioni di salute raggiunto nell’ultimo secolo,
hanno comunque realizzato
veri “miracoli”: far camminare
Quali sono le scelte e i limiti della Medicina
per contrastare questa tendenza
che non è a favore dei pazienti
gli storpi, con le protesi articolari; far vedere i ciechi, con
una lente artificiale al posto
di quella resa opaca dalla cataratta; dare nuova vita a chi
era destinato a morte certa,
con i trapianti o con la cura
della leucemia nei bambini, o
con gli antivirali nell’AIDS.
A chi spetta l’iniziativa sulla salute?
Per millenni il primo passo è
stato affidato ai malati, che
varcando la soglia del medico
chiedevano aiuto. Gli antichi
ammonivano “Medicus non
accedata nisi vocatur” (“Il
medico non si faccia avanti se
non viene chiamato”), dimostrando di avere chiaro il rischio di concentrare in un’unica categoria l’enorme potere di definire chi è malato e
chi ha bisogno di cure, per le
conseguenze che può avere
sull’esistenza delle persone e
sulle loro relazioni.
Dopo la nascita della clinica
ottocentesca le cose sono
cambiate e questo processo è
continuato nel Novecento,
con l’invenzione di quella che
si potrebbe chiamare pre-cli-
nica. Essa consiste nell’individuare difetti di salute in persone che si sentono bene,
considerando tali difetti talvolta come indicatori del rischio di sviluppare un malanno, più spesso direttamente
come vere e proprie patologie.
Questa evoluzione, che è ancora in pieno sviluppo, si è
intrecciata con il progresso
straordinario degli strumenti
diagnostici, generando un
paradigma medico, oggi dominante, che comprende tre
importanti assunzioni:
– quasi tutte le malattie sono precedute da fasi precliniche, di cui i soggetti
sono ignari, ma che possono essere individuate con
un’offerta attiva di attività
diagnostiche,
– l’insieme delle persone in
fase preclinica costituisce
per ciascuna malattia la
parte sommersa di un
“iceberg”che conviene far
emergere per poter intervenire,
– quanto più l’intervento avviene su condizioni precliniche, tanto più è possibile
rallentarne o impedirne
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l’evoluzione verso la malattia conclamata e gli accidenti che comporta.
Queste premesse costituiscono un cambiamento di prospettiva che induce i medici a
considerare non più attuale
né applicabile l’antico divieto
a iniziare la relazione di cura.
Sono i professionisti della
Medicina gli unici a possedere oggi gli strumenti per stabilire chi è malato (o lo sarà,
probabilmente) e sembra
quindi inevitabile che spetti
ai medici stessi il compito di
stabilire chi ha bisogno delle
loro cure e quando.
La definizione delle malattie e il ruolo del marketing
Contrariamente a quanto si
pensa comunemente, non vi è
un confine preciso e oggettivo che separi la salute dalla
malattia. Entrambi i concetti
sembrano resistere a tutti i
tentativi di definirli in termini chiari e distinti.
La celebre definizione di salute formulata dall’Organizzazione mondiale della sanità
(OMS) dopo la seconda guerra
mondiale, come “stato di
completo benessere fisico,
psichico e sociale”, nel suo
sforzo di comprendere tutte
le possibili dimensioni finisce
per individuare una condizione che appartiene forse a pochi momenti nella vita di persone fortunate.
Sul versante della malattia,
parimenti, sono falliti tutti
gli sforzi di trovarne una definizione in termini puramente
“naturalistici”, cioè esenti da
valutazioni (value free)1.
1
In realtà, può bastare una
semplice riflessione per riconoscere la natura almeno in
parte convenzionale e non
puramente oggettiva delle
malattie. Risulta infatti evidente la valutazione negativa implicita nel concetto
stesso di malattia, utilizzato
per classificare eventi, catene causali e processi di per sé
neutri, rispetto per esempio
all’evoluzione, ma carichi di
valore solo se vengono riferiti alla biografia dei singoli
individui.
Non a caso, come tutte le
convenzioni umane, anche le
definizioni di malattia (e le
relative soglie) sono storiche,
cioè soggette a variazioni nel
tempo non solo in base a
nuove conoscenze, ma anche
a considerazioni di utilità o a
scelte politico-economiche.
Di fatto il potere in questione
viene delegato alla comunità
medica e da questa a gruppi di
esperti delle singole discipline. Sempre più spesso, difatti,
gli standard vengono elaborati
da panel di società scientifiche, per lo più statunitensi, e
poi adottati a livello mondiale
con il benestare delle varie
Istituzioni nazionali e sovranazionali, come l’OMS.
Per completare il quadro resta
però ancora da ricordare che,
per l’industria della salute nel
suo complesso, una nuova definizione di malattia, più larga rispetto alla precedente,
significa un mercato potenziale aumentato per l’intera
filiera di cure, ed è quindi
strategico poterne controllare la determinazione. Non a
caso i panel di esperti deputati alla definizione delle malattie e delle soglie sono sempre più spesso direttamente o
indirettamente supportati da
grandi gruppi industriali.
Il risultato sotto gli occhi di
tutti è che la comunità professionale sta sempre più
spesso abdicando la propria
funzione a favore di strategie
sostanzialmente di mercato.
E ciò accade spontaneamente, perché vi è una quasi perfetta sintonia di interessi tra
i professionisti e l’industria
attiva in un determinato settore a spingere per l’allargamento della propria attività.
In epoca di evidence based
medicine ci si potrebbe aspettare che decisioni con un impatto così rilevante sulla vita
di milioni di persone vengano
comunque prese sulla base di
prove scientifiche solide e rigorosamente valutate. Non è
così.
I documenti conclusivi in cui i
panel espongono le loro decisioni sono spesso sconcertanti per la scarsità degli elementi di prova a favore dei nuovi
criteri proposti, per la quasi
assenza di valutazioni sui
possibili danni per la salute
della popolazione e la rimozione – talvolta dichiarata,
più spesso implicita – di qualsiasi stima sugli altri effetti
rilevanti di natura non medica, come gli aspetti esistenziali, lavorativi, assicurativi,
economici, politici eccetera.
Per la verità, il processo decisionale sulle definizioni e
sulle soglie di malattia non
potrebbe essere puramente
scientifico anche se le prove
esaminate fossero più solide
e più complete. Questo perché, come si è già affermato,
il confine tra salute e malattia non è qualcosa di oggettivo da “scoprire” per via empirica, ma contiene un irriducibile componente di valore
che ne fa qualcosa da “decidere”, sulla base di scelte,
preferenze e priorità. Il punto decisivo quindi non è solo
quello di rendere le attività di
definizione delle malattie più
scientifiche e trasparenti
(che sarebbe comunque un
bel passo avanti), ma soprattutto di stabilire una buona
volta chi deve esprimere scelte, preferenze e priorità, e attraverso quali procedure. Il
punto quindi, come si vede è
squisitamente politico.
Gli stessi meccanismi, e le
stesse carenze, si manifestano
per la proposizione di nuove
entità patologiche, che sono
sostanzialmente di due tipi.
Il primo tipo consiste in una
riclassificazione, e riguarda
condizioni umane che non
erano in precedenza considerate per lo più di pertinenza
della Medicina, ma che lo diventano nel momento in cui
compare sul mercato un prodotto che ne modifica l’evoluzione. Due esempi classici –
ma se ne potrebbero fare molti altri – sono la calvizie e
l’impotenza, entrambe riclassificate come malattie (col
nome rispettivamente di alopecia androgena e disfunzione erettile) nel momento in
cui è stato disponibile un farmaco per trattarle.
C. Boorse, A rebuttal on health, in J.M. Humber, R.F. Almeder (eds.), What is Disease? Humana Press, Totowa (New Jersey) 1997.
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Le nuove malattie del secondo tipo appaiono invece come
“invenzioni” di sana pianta,
e rispondono alla logica di
creare un mercato per un
nuovo prodotto ancora “orfano” di indicazioni mediche.
Anche in questi casi entrano
in azione panel di esperti, i
quali elaborano liste di criteri
diagnostici, che poi vengono
recepiti a livello internazionale. I legami con l’Industria
di questi panel periodicamente autoconvocati sono stati
ricostruiti dettagliatamente
per diversi casi di studio, come per esempio la sindrome
dell’intestino irritabile (definita con i cosiddetti criteri di
Roma), la sindrome delle
gambe senza riposo e la fobia
sociale. In tutti questi casi
l’elaborazione delle definizioni e dei criteri è avvenuta con
diversi anni di anticipo rispetto alla comparsa sul mercato del o dei farmaci dedicati alla nuova malattia: le strategie di marketing destinate
ad allargare o a creare una
nuova filiera di cure devono
essere iniziate con opportuno
anticipo, in modo che il mercato potenziale sia pronto
quando l’offerta può essere
lanciata.
Solo a questo punto il pubblico generale viene investito da
grandi campagne di comunicazione di massa, destinate a
diffondere un messaggio
semplice, articolato in quattro passaggi retorici:
1) La consapevolezza di un
nuovo (o allargato) pericolo per la salute,
2) sinora sottovalutato ma
molto diffuso e tale da
comportare gravi rischi,
3) dal quale ci si deve difendere, innanzitutto cercan-
do di individuarlo al più
presto con visite ed esami,
4) ma senza preoccuparsi
troppo, perché esistono
già in commercio uno o
più prodotti efficaci per
combatterlo.
I quattro passaggi retorici di
queste campagne, ormai comunemente definite col termine anglosassone di disease
mongering (mercato delle
malattie) prevedono l’uso
esclusivo di un linguaggio
della promozione, che non
ammette l’esistenza di controversie, punti di vista o interessi contrapposti. Di conseguenza il comune cittadino
non può neppure essere a conoscenza del fatto che la malattia di cui deve preoccuparsi è stata definita in modo
nuovo o allargato rispetto al
passato e che l’invito a ricercarla è più esteso di quanto
fosse in precedenza.
Non basta definire le malattie, occorre cercarle
Gli stessi gruppi di esperti
che definiscono le malattie
raccomandano anche periodicamente nuovi criteri per
l’allargamento di uso degli
strumenti diagnostici destinati a riconoscerle. Sia per
esplorare il cosiddetto “iceberg”, cioè la massa di portatori ignari di malattie già in
atto, sia per anticipare la diagnosi di malattie che si presume destinate a manifestarsi nel tempo.
Gli stessi strumenti diagnostici, la cui produzione e impiego sono ormai una componente rilevante del complesso
medico-industriale, progrediscono dal punto di vista tecnologico, per lo più nella direzione di un aumento della
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sensibilità (capacità di individuare anche anomalie minime) a scapito della specificità
(idoneità a discriminare tra
anomalie rilevanti e non).
Se a questo si aggiunge che
l’incremento di utilizzo degli
strumenti diagnostici ha assunto un andamento esponenziale negli ultimi quindici
anni, e perciò raggiunge via
via popolazioni sempre meno
a rischio (cioè con una bassa
probabilità di avere condizioni patologiche), ne risulta
che l’attività diagnostica
complessiva produce una
messe crescente di risultati
considerati anormali (cosiddetti “positivi”, ma per chi?),
ma sempre meno rilevanti per
la salute futura: in sostanza
aumentano molto di più i falsi positivi e l’individuazione
di malattie che non esistono
o piuttosto che non si manifesterebbero mai.
La parte sommersa dello “iceberg” preclinico comprende
infatti molte condizioni che
esistono realmente (e quindi
non sono falsi positivi quando vengono identificate), ma
che sarebbero rimaste in silenzio, senza conseguenze
per la salute se non le si fosse
cercate. Una volta trovate,
sin tanto che risulta impossibile distinguerle dalle condizioni patologiche simili che
sono invece destinate a manifestarsi, è necessario avviare i trattamenti medici e chirurgici disponibili, con tutte
le conseguenze del caso.
Immaginiamo un uomo di cinquanta anni a cui viene proposto un esame del sangue
per accertare la presenza di
un tumore alla prostata, pur
in assenza di qualsiasi disturbo. L’esame si chiama PSA
(antigene prostatico specifico) e richiede poche gocce di
sangue e una spesa minima.
Con una certa frequenza l’esame risulta “positivo” e per
approfondire si richiede
un’ecografia.
Se gli ultrasuoni rilevano un
nodulo, bisognerà fare una
biopsia, cioè pungere la
ghiandola per aspirare un
pezzo di tessuto da esaminare al microscopio.
Sopra i cinquant’anni è molto
frequente la presenza di tumori nella prostata, che nella
maggior parte dei casi, pur
essendo maligni dal punto di
vista istologico sono destinati a non dare alcun segno di
sé per tutti gli anni che restano. Perciò se si fa una biopsia, spesso il risultato sarà il
riscontro di un tumore.
Poiché ad oggi è impossibile
differenziare i tumori destinati a crescere e dare metastasi da quelli che non lo faranno, nella maggior parte
dei casi si dovrà fare un intervento chirurgico o una radioterapia o una cura ormonale:
tutti questi interventi hanno
diverse possibili conseguenze, più o meno prolungate e
frequenti, come incontinenza
o impotenza. Per ciascuna di
queste si renderanno necessari nuovi accertamenti specialistici, cui seguiranno interventi terapeutici, riabilitativi
o palliativi, in una sequenza
che può prolungare la cascata
clinica per diversi anni.
La cascata clinica produce
sprechi di risorse e danni iatrogeni, ma è comunque funzionale all’industria della salute, e ai suoi singoli componenti, in quanto è capace di
produrre una costante espansione dell’attività.
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Dove sta il cuore della medicalizzazione?
La conseguenza principale di
tutto ciò è una accelerazione
su scala industriale di quella
che negli anni Settanta si
chiamava medicalizzazione,
sulla base delle opere di filosofi come Ivan Illich2 o di sociologi come Peter Conrad 3.
Negli ultimi decenni questa
evoluzione ha coinvolto decine di condizioni o processi
umani, dalla nascita (oggi in
Italia più di un terzo dei parti
avviene per via cesarea, con
punte vicino al 50% in alcune
Regioni) alla morte (la stragrande maggioranza dei cittadini nei Paesi ricchi muore
oggi in un letto di Ospedale,
spesso di rianimazione, sottoposta a diversi interventi
medici invasivi sino alla fine), senza risparmiare nessuna fase o aspetto della vita,
ma con particolare intensità
per quanto riguarda la vecchiaia, il sesso e la psiche.
Sulla base di quanto detto in
precedenza, il disease mongering (promozione delle malattie) che ne rappresenta l’espressione oggi più vistosa,
può interpretare la medicalizzazione come un processo inverso rispetto alla promozione della salute. Quest’ultima
era stata definita dalla Carta
di Ottawa (1986) come il
processo che consente alle
persone di esercitare un maggior controllo sulla propria
salute e di migliorarla. In maniera simmetrica si potrebbe
quindi descrivere la medicalizzazione come un processo
che riduce la capacità delle
persone di esercitare un controllo sulla propria salute, e
rischia quindi di peggiorarla.
Il concetto di “controllo sulla
propria salute” merita un approfondimento, almeno per
quanto riguarda le elaborazioni sul cosiddetto “locus of
control” interno o esterno,
cioè il grado con cui la persona ritiene di potersi autodeterminare, e la “ability to cope”, cioè la capacità dell’individuo di far fronte alle condizioni dell’esistenza.
Entrambe risultano strettamente correlati con le diseguaglianze sociali di salute,
cioè con quel fenomeno, documentato ormai in tutte le
società, secondo cui per
qualsiasi malanno o accidente, i morti sono sistematicamente molti meno tra i privilegiati che tra gli svantaggiati, con un gradiente regolare
di classe in classe. E lo stesso
vale per ogni altra dimensione di salute: soggettiva, fisica, mentale, così come per la
disabilità e i ricoveri. Per di
più, la correlazione si mantiene con tutti gli indicatori
sociali: classe, istruzione, casa, reddito, contesto. Lo studioso britannico Michael
Marmot fa notare che percorrendo le venti miglia che attraversano la città di Washington negli Stati Uniti da
est a ovest si perde un anno
di speranza di vita per ogni
miglio. A Londra lo scarto tra
gli estremi è di sei anni di
speranza di vita. A Torino c’è
meno segregazione territoriale, ma la distanza tra chi
vive in un quartiere più ricco
e chi vive in uno più povero è
di circa tre anni di speranza
di vita. Per avere un termine
di paragone, solo le grandi
guerre o le catastrofi naturali
producono differenze nella
salute di questo ordine di
gravità.
Ora lo stesso Marmot4 ha individuato nei suoi studi come
la relativa perdita del controllo interno e dell’abitiy to
cope sia probabilmente ciò
che spiega gran parte della
perdita di salute nei più
svantaggiati. E per questo
motivo, mentre una delle
conseguenze attese e desiderate di una reale promozione
della salute sarebbe anche
quella di ridurre le diseguaglianze sociali, è ragionevole
aspettarsi l’effetto opposto
dagli interventi di medicalizzazione della società, dal momento oltretutto che obbediscono notoriamente alla cosiddetta “legge inversa della
Medicina” (formulata dal medico britannico Julian T. Hart
nel 1971), per cui le cure in
genere, e in particolare quelle
non richieste dagli interessati ma offerte per iniziativa
dei medici, raggiungono prevalentemente le persone che
ne hanno meno bisogno.
Questo rimanda al concetto
di Pharmageddon5, che costi-
tuisce una recente elaborazione intellettuale sugli eccessi della Medicina, vista
nella prospettiva di “un mondo alla rovescia, dove le medicine e la Medicina possono
produrre più danni che benefici”: gli autori del documento, riuniti a Londra nell’aprile
del 2007, sottolineano infatti
che “la sottomedicazione delle comunità più svantaggiate
e la sovramedicazione di
quelle privilegiate costituiscono due facce della stessa
medaglia, come la malnutrizione e l’obesità”.
Fermate quel bisturi
Ovviamente il rischio di sovramedicazione non esiste solo per i farmaci. Per quanto riguarda la Chirurgia, per esempio, una persona su dieci nell’ultima settimana di vita subisce un intervento chirurgico. Nell’ultimo mese si sale a
una su cinque, e nell’ultimo
anno addirittura a una su tre.
Accade così negli USA, secondo un rapporto pubblicato su
Lancet, frutto dell’analisi di
quasi 2 milioni di assistiti di
Medicare (la mutua degli americani anziani, sopra i 65 anni) defunti nel 2008.
La tecnologia medica appare,
agli occhi degli operatori e
dei pazienti stessi, come
un’attraente scorciatoia per
mettere comunque una pezza
a qualcosa che può essere
materialmente aggiustato,
anche se questa riparazione,
nella migliore delle ipotesi,
I. Illich, Limits to medicine: Medical nemesis, the expropriation of health, 1975.
P. Conrad, The Medicalization of Society: on the Transformation of Human Conditions into Medical Disorders, John Hopkins University Press,
2007.
4 M. Marmot, Status Syndrome: How your social standing directly effects your health and life expectancy.
5 Pharmageddon? http://www.socialaudit.org.uk/60700716.htm, visitato 11 marzo 2010.
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non consentirà comunque al
malato di vivere più a lungo o
meglio. Nei casi disgraziati,
invece, gli interventi più invasivi al termine della vita, o
comunque quando non ci si
può aspettare che cambino
l’esito, possono anche infliggere sofferenze aggiuntive,
come dolore, debilitazione o
varie forme di invalidità. Oltre allo spreco di risorse, di
cui è meglio non parlare, perché quando vi si accenna si
rischia di essere fraintesi, come se si volesse risparmiare
sulla pelle dei malati.
Invece la questione centrale è
la capacità di comunicare.
“Le difficili spiegazioni e le
franche discussioni tra il paziente e il suo curante che
dovrebbero precedere qualsiasi decisione terapeutica di
un certo peso troppo spesso
non si svolgono neppure” dice Ashish Jha, principale autore del rapporto su Lancet. E
con questo centra il cuore
della questione, che come in
molti altri casi di possibile
eccesso di cure, può essere
affrontata solo attraverso
una trasparente comunicazione e una relazione paritaria tra chi le deve ricevere e
chi le propone.
(segue da pag. 83):
Tre medici sulla collina di
Spoon River
Qui ci fermiamo anche noi,
nel nostro seguire le tracce
poetiche della ormai lontana
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Freni da progettare
Mentre per certa Medicina
iper-tecnologica conta fare in
fretta e soprattutto fare tutto
quello che è possibile, senza
mai arrendersi all’ inevitabile,
e spesso senza fermarsi a
pensare il senso di quello che
si intraprende; per la Medicina della sobrietà prendere
tempo non è una perdita,
puntare alla qualità della vita
anziché a una improbabile
guarigione è realismo, rinunciare a un esame sapendo già
che non si farebbe comunque
alcun intervento è il segreto
per evitare guai peggiori dei
possibili benefici. Con una
espressione anglosassone, si
potrebbe dire che per la salute less is more vale molto più
spesso di quanto si pensi.
Grazie a mirabolanti progressi scientifici e tecnologici, la
Medicina degli ultimi anni è
come una fiammeggiante
Ferrari a cui ci siamo dimen-
ticati di costruire i freni: a
colpi di trapianti, riparazioni
e rianimazioni raggiunge
spesso risultati spettacolari,
che ci hanno cambiato la vita, ma non si ferma mai se
non sbattendo contro il muro
della morte.
Una robusta iniezione di slow
medicine, e un dialogo più
serrato tra specialisti e cittadini comuni su questi temi,
può correggere quel difetto
di progettazione. Occorrerebbe istituire momenti e luoghi
di confronto e decisione a livello collettivo che riguardino almeno le scelte fondamentali, che ricadono sulla
testa di milioni di persone, e
che come abbiamo visto riguardano soprattutto la definizione delle malattie, i criteri della diagnosi e i processi di individuazione di chi ha
bisogno di cure (come screening e campagne di consapevolezza), perché da questi
discende direttamente il grado di medicalizzazione della
società.
Per questa condivisione collettiva delle scelte sugli scopi
e i limiti della Medicina non
sembrano adatte le forme
consuete delle democrazia
rappresentativa, che affida il
potere decisionale a chi rappresenta la maggioranza dei
cittadini. Per le scelte sui limiti della Medicina, più che
scegliere “per alzata di mano”
tra una pluralità di punti di
vista diversi e talvolta contrapposti, sembra opportuno
adottare modalità che puntino a deliberare in modo quanto più possibile unanime sulla
base dell’interesse collettivo.
Il metodo che meglio corrisponde a questo scopo è probabilmente quello della democrazia deliberativa, che sta
suscitando anche in Italia un
interesse crescente per affrontare scelte difficili che
coinvolgono la vita di molti
cittadini, dai temi dell’ambiente ai diritti degli immigrati. A parere di chi scrive
sarebbe il momento di sperimentare la fattibilità ed efficacia di esercizi di democrazia deliberativa applicati alla
Medicina, ai suoi scopi e ai
suoi limiti.
esistenza di tre colleghi dei
primi del Novecento. Le loro
vicende possono però servirci
a porre a noi stessi una domanda: “Quale poesia / epitaffio scriveremmo, o almeno
vorremmo che un Lee Masters
d’oggidì scrivesse, sulla nostra esistenza di medici, una
volta conclusa per sempre?”.
Eppoi chiediamoci se tale
poesia / epitaffio ci piacerebbe. Diventare medici Slow significa anche imparare a fare
questo: non soltanto leggere
con amorevole attenzione le
poesie dei grandi poeti – e
dei grandi cantautori – ma
anche saperle utilizzare quale
fonte di verità su noi stessi e
sul nostro lavoro.
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Gianfranco Domenighetti
Economista, sociologo Docente di Comunicazione
e Economia sanitaria,
Università della Svizzera
italiana e di Losanna
Diseguaglianze di
accesso e sostenibilità
dei sistemi sanitari
La giustizia sociale mostra un suo lato che non suscita la dovuta indignazione, perché viola la stessa Carta costituzionale: chi
appartiene alle classi svantaggiate ed ha una scarsa scolarità, ha una durata della vita inferiore rispetto a chi fa parte della popolazione agiata e acculturata, in diversi casi otterrà con un ritardo maggiore gli esami richiesti o il ricovero in Ospedale.
Le ragioni di questa inaccettabile diseguaglianza sono legate ad una cultura che valorizza i rapporti “tra pari”, nel senso che, in
questi casi, un professionista medico potrebbe adoperarsi, affermano le ricerche, con maggiore disponibilità a favore di chi ha
più argomenti per descrivere i suoi bisogni.
Una cultura mediovalistica che fortunatamente si è mantenuta, anche se limitatamente, nelle sacche di una sanità meridionale.
Ma il divario di mortalità fra le classi sociali si registra anche nelle altre Regioni, persino nella stessa città divisa per quartieri
“poveri e ricchi”. Allora il problema si allarga e pone tutta una serie di domande.
Cominciamo dalla relazione medico-paziente. Il livello culturale risulta determinante sia nell’esporre i sintomi che affliggono il
paziente, o le cure che sta seguendo senza trarne beneficio, sia nelle parole che verranno utilizzate per fare una diagnosi, prescrivere esami o terapie.
Si è molto enfatizzato l’emporwement del paziente, una specie di “alfabetizzazione” medica che lo metterebbe in grado di porsi
come un interlocutore nei confronti del medico. In realtà il rapporto fra le parti risentirà sempre della insuperabile asimmetria
che si crea fra chi ha studiato e messo in pratica una vasta cultura scientifica, e chi può solo fare qualche domanda tuttalpiù
pertinente ma certo non è in grado di opporre un giudizio o proporre un’alternativa alle decisioni del professionista che ha interpellato.
L’informatica, in questo senso, è venuta in soccorso del paziente offrendogli l’illimitata disponibilità di “Dott. Internet”, che
chiarisce termini, descrive sintomi e decorsi di malattie, indica le terapie più innovative; uno strumento anche rischioso se non
si ha l’accortezza di consultarlo valutando i requisiti di serietà dei professionisti che rispondono sul web.
È in questo campo che il paziente va a volte a cercare le risposte che il suo curante non gli ha dato, o fatto capire, magari perché non c’è stato neanche il tempo per porgliele.
G
li studi sulla mortalità
secondo la classe socioprofessionale confermano l’importanza determinante
della condizione socioeconomica sulla quantità (longevità) e probabilmente sulla
qualità di vita. La sopravvivenza dei passeggeri, quando
naufragò il Titanic, era positivamente correlata con la classe d’imbarco (prima classe:
60% di sopravvissuti, seconda
classe: 42%, terza classe:
32%). Allo stesso modo, i lavoratori appartenenti alla
classe sociale meno favorita
hanno nei Paesi industrializzati che dispongono di un accesso equo ed universale ai
servizi medico-sanitari una
speranza di vita mediamente
inferiore di circa cinque-sette
anni a quella dei professionisti
delle classi socioprofessionali
più favorite. Queste diseguaglianze invece di diminuire
nel corso degli anni tendono
invece ad ulteriormente accentuarsi (1) anche se in questi Paesi tutti i cittadini possono accedere, senza alcuna
barriera di tipo economico, a
qualsiasi servizio medico-sanitario. Ciononostante l’equità
di accesso ad un Sistema sanitario è un’importante determinante della salute e una pietra
miliare sul difficile percorso
che conduce alla giustizia sociale. In particolare per i gruppi socio-economici meno favoriti un tale accesso equo aiuta
ad almeno contenere la crescita delle diseguaglianze di
mortalità che senza un’ accesso equo aumenterebbero ancor
più significativamente (Fig. 1).
Crescita della domanda e
crisi di finanziamento
All’attuale dinamica di crescita della domanda dovuta in
particolare:
– alla diffusione incontrollata dell’innovazione tecnologica fattore principale
della medicalizzazione della società,
– al marketing dei rischi di salute e al disease mongering,
– all’invecchiamento demografico,
– alla transizione epidemiologica,
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Fig. 1
– all’avversione al rischio dei
professionisti che contribuisce ad indurre la prescrizione,
– ai conflitti di interesse ed
alla corruzione,
– alla precarizzazione della
vita che genera morbilità
supplementare,
si contrappone un serio e
probabilmente duraturo problema di crescita economica
(PIL) che impatta pesantemente sulle finanze pubbliche e sui redditi dei cittadini
quindi sul finanziamento del
welfare in generale e della sanità in particolare.
Per fronteggiare il divario
crescente tra l’aumento dei
costi dei Sistemi sanitari e
quello più contenuto, se non
stagnante o negativo, della
ricchezza nazionale (PIL) soprattutto dei Paesi di “vecchia” industrializzazione,
non rimangono che quattro
possibilità:
1. Compensare la crescita
della spesa sanitaria (SS)
con quella della ricchezza
nazionale, operazione qua-
si impossibile visto che la
SS cresce di regola sempre
nel corto-medio periodo
più velocemente del PIL.
2. Trasferire, a livello della
spesa pubblica, risorse da
altri settori per destinarle
alla sanità oppure aumentare il debito pubblico (cosa che non sembra essere il
caso per l’Italia).
3. Razionare le risorse al settore sanitario (la politica
dirà “razionalizzare la spesa per la salute” o “definire delle nuove priorità di
accesso”).
4. Trasferire una parte sempre più importante della
spesa al pagamento out of
pocket dei cittadini o al finanziamento tramite le assicurazioni mutualistiche
o private, il che deprimerà
ulteriormente il reddito disponibile dei cittadini.
Va da sé che questi interventi non si escludono mutualmente.
Che già da alcuni anni il SSN
abbia problemi importanti di
equità di accesso è dimostra-
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to dall’indagine multiscopo
dell’ISTAT del 2008 (2) e da
un’ altro studio (3) che ha
confrontato la prevalenza di
cittadini italiani e britannici
che hanno dichiarato di aver
interamente pagato di tasca
propria prestazioni sanitarie
(ad esclusione dei farmaci e
delle cure odontoiatriche)
che avrebbero potuto ottenere gratuitamente o a minor
costo dai rispettivi Servizi sanitari nazionali (Fig. 2). Hanno risposto di aver totalmente pagato almeno una volta
nel corso della vita l’accesso a
prestazioni medico-sanitarie
circa l’80% dei cittadini italiani (il 45% per oltre cinque
accessi) e, il 60%, lo ha fatto
negli ultimi due anni. Le corrispondenti percentuali di
prevalenza per i cittadini britannici erano del 20%, 4% e
di circa 10% per gli ultimi
due anni. L’attuale situazione
di crisi economica profonda e
la prevista recessione non faranno che ulteriormente accentuare tali diseguaglianze
di accesso ai servizi.
Quale futuro per l’equità di
accesso ai servizi?
In tutti i Paesi sono in fase di
studio o di sperimentazione
politiche di razionalizzazione (applicazione di tecniche
e metodi volti ad un utilizzo
ottimale delle risorse) e di
razionamento implicito o
esplicito (processo di scelta
tra prestazioni e servizi utili
o di limitazione dell’accesso)
a volte difficilmente distinguibili tra di loro e che influenzeranno a medio-lungo
termine la concentrazione e
l’organizzazione delle cure,
dei percorsi e dell’accesso
modificando nel contempo le
pratiche ed i suoi contenuti
nonché i livelli di rischio sanitario che giustificano una
presa in carico socializzata
dei costi, come pure gli attuali rapporti di finanziamento tra il settore pubblico
e quello privato.
Visto il processo di accelerazione e di espansione della
domanda da un lato e, dall’altro, il processo legato agli effetti della crisi economica
Fig. 2
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sulla disponibilità di risorse
interne, le tendenze future a
medio termine dei sistemi sanitari ad accesso “universale”
dei Paesi industrializzati possono così configurarsi:
– Finanziamento della spesa
sanitaria: relativa stagnazione del finanziamento
pubblico in rapporto alla
crescita della domanda;
crescita della quota parte
di finanziamento out of
pocket e privato (ticket/
assicurazioni private).
– Organizzazione: ulteriore
concentrazione delle capacità di cura per malattie
acute e per le “alte” specialità; concentrazione
dell’alta tecnologia e stretto controllo della sua diffusione; creazione di reti
integrate di cura (tipo
HMO americane, anche a
partecipazione mista pubblica-privata).
– Accesso alle prestazioni e
ai servizi: tendenza alla
crescita delle lista di attesa; ridimensionamento del
“pacchetto” di prestazioni
offerte; definizioni di
nuove priorità d’accesso
(soprattutto in funzione
del livello di “rischio”
omologabile); diminuzione generale delle libertà di
scelta per i cittadini; promozione dei percorsi predefiniti di accesso, delocalizzazione di pazienti (interna e all’estero).
– Processi diagnostici e terapeutici: diminuzione della
libertà terapeutica e aumento della standardizzazione “obbligatoria” delle
cure (linee-guida cliniche;
evidence-based medicine;
case e disease management; obbligo di prescrizione di farmaci generici,
ecc.).
– Empowerment: promozione
di politiche sanitarie di tipo “culturale” intese a ridurre il consumismo e a ricondurre le attese dei cittadini alla realtà delle prove scientifiche e della disponibilità di risorse.
Razionalizzazione, razionamento ed equità di accesso
Al di là di decisioni di “razionalizzazione” o di razionamento implicito prese sotto
Bibliografia
(1) Wilkinson R., Marmot M. (2003), Social Determinants of Health:
the Solid Facts, WHO Regional Office for Europe, Copenhagen.
l’influsso dell’urgenza finanziaria percepita come “catastrofica”, i nuovi paradigmi
che saranno alla base della definizione delle priorità d’accesso al sistema, della metodologia che presiederà all’allocazione delle risorse, oppure,
se si preferisce, dei principi
che guideranno la scelta delle
prestazioni che saranno ancora offerte dal sistema, tali paradigmi avranno come fondamento l’efficacia clinica e l’efficienza economica (4).
Tuttavia la razionalità medica
(che ha i suoi fondamenti
sull’utilità individuale per un
determinato paziente) non
corrisponde a quella degli
economisti essenzialmente
fondata sull’utilità sociale
(5). Questa netta dicotomia,
se non opposizione, tra due
visioni dell’agire medico-sanitario collide probabilmente
anche con l’essenza della natura umana. Infatti l’uomo
vive in permanenza una
profonda contraddizione interna tra due distinti punti di
vista, quello personale e
quello impersonale.
Quest’ultimo rappresenta “le
esigenze collettive d’imparzialità e di uguaglianza universali”, mentre il primo sottolinea “il benessere personale e delle persone prossime”.
Nel campo sensibile delle cure
sanitarie sarà indispensabile
in futuro conciliare il punto
di vista impersonale, cioè
della “collettività” (che di solito è espresso allorquando si
è in buona salute) con quello
dell’individuo (di regola
espresso quando la propria
salute o quella delle persone
prossime necessita di una
presa in carico medico-sanitaria) e riferirsi ad un modello etico che tenga conto di
questa profonda divisione interna degli individui (6).
Rimane il problema di trovare
delle soluzione pragmatiche
che consentano agli individui di disporre di una “porta
d’uscita” degna, decorosa,
dovuta e necessaria quando
situazioni individuali “catastrofiche” chiamano alla
“compassione” e alla “speranza” e non solo all’efficienza economica, all’efficacia
clinica oppure alla capacità
di pagare.
(4) Drummond M. (1998), Evidence-based medicine and cost-effectiveness: uneasy bedfellows?, Evidence-Based Medicine, September/October, p. 133.
(2) Cislaghi e Giuliani (2008), Analisi dell’Indagine Multiscopo ISTAT.
(5) Moatti J.P., Le Coroller A.G. (1996), Réflexions économistes sur
l’éthique médicale, Journal d’Economie Médicale, 14, pp. 67-78.
(3) Domenighetti G., Vineis P., De Pietro C., Tomada A. (2010), Ability
to pay and equity in access to Italian and British National Health Services, Eur J Public Health, Oct, 20 (5), pp. 500-3.
(6) Ubel P.A., DeKay M.L., Baron J., Asch D. (1996), Cost-effectiveness
analysis in a setting of budget constraints. Is it equitable?, N. Engl. J.
Med., 334, pp. 1174-7.
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Patrizia de Mennato
Professore ordinario
di Pedagogia generale, Facoltà
di Medicina dell’Università
di Firenze - Direttore del
Laboratorio di Medical Education
L
’uso dei film nella formazione, dice Bruner, può
avere un notevole valore
metacognitivo oppure può essere etichettato come una
“sciocchezza postmoderna!”1,
ma – a volte – offre molto di
più alla riflessione pedagogica
un romanzo, un film, un filmato televisivo di quanta non
ne offra una lezione universitaria. Certo, se per Pedagogia
si intende un esercizio consapevole di riflessione critica sui
processi della formazione2.
L’obiettivo pedagogico è, nel
nostro caso, quello di formare
un personale medico e sanitario capace di riflessività
“[…] poiché i problemi medici
non sono solo questioni di scienza e di tecnica, ma anche di saggezza, riguardo alla capacità di
formulare giudizi e di dare indirizzi, spesso in condizioni non
facili, nonché di prendere e proporre decisioni, spesso in condizioni difficili”3.
Nella formazione dei medici e
degli operatori sanitari è,
quindi, necessario costruire
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La formazione iniziale
degli studenti di
Medicina e delle
professioni della cura
uno sguardo capace di osservare, di interpretare e di riflettere in profondità. L’utilizzo del film è orientato proprio a produrre occasioni per
sviluppare forme di pensiero
riflessivo ed a promuovere
una più incisiva conoscenza
delle proprie idee e delle proprie emozioni.
“Tutte queste capacità sono fondamentali per rendere la pratica
clinica maggiormente sensibile
al paziente, riflessiva e quindi
efficace. Ma, concretamente, come è possibile sviluppare tali
complesse capacità?”4
Formare i professionisti della
salute al pensiero riflessivo
(self assessment, regulation
and reflection) è accompagnarli prima di tutto alla costruzione di una sensibilità
osservativa in grado di riconoscere variazioni anche impercettibili dei propri ragionamenti, delle posizioni dei
protagonisti all’interno di una
relazione, renderli capaci di
contestualizzare l’agire di cura e di comprenderne il valore
L’utilizzo del cinema per sollecitare
la consapevolezza dei valori e dei doveri
professionali
costruttivo del pensiero sulla
realtà. Ciò avviene attraverso
due processi mentali riflessivi: il primo costituito dalla
formazione di una capacità
critica inquieta nei confronti
di ciò che si osserva e che deve poter permettere al professionista, anche se abituato a
riconoscere ed a risolvere la
malattia nelle forme delle evidenze mediche, di conservare
la capacità di comprendere
quanto l’esperienza di malattia dialoghi con il più complessivo senso della vita del
soggetto che ha di fronte. Il
secondo, invece, costituito
dall’imparare a riconoscere
quanto anche gli aspetti impliciti del pensiero dello stesso
medico e dello stesso operatore intervenga concretamente
nell’agire terapeutico.
Il punto di maggiore diffi-
J. Bruner, La fabbrica delle storie, Laterza, Roma 2002, p. 9.
F. Cambi, P. Orefice (a cura di), Fondamenti teorici del processo formativo, Liguori, Napoli 1998.
G. Cosmacini, Prima lezione di medicina, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 78.
L. Zannini, Medical humanities e medicina narrativa, Cortina, Milano 2008, p. 186.
coltà nella formazione, infatti, non è tanto legato al produrre nello studente la padronanza di specifici campi
del sapere tecnico e scientifico, quanto dal fatto che a
questa expertise non venga
riconosciuto il carattere di
parzialità indirizzata prevalentemente alla sola fisicità,
per quanto complessa, del sistema uomo.
Questo modo di pensare si radica, allora, nella mente degli
studenti – e resterà in quella
dei professionisti – come un
punto di vista esclusivo e totalizzante che, invece di contribuire alla comprensione
della singolarità dell’esperienza di malattia, riduce il malato alle sue parti. Uno sguardo
“medicalizzato” che tende ad
interpretare ogni sintomo come corrispondente ad una
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specifica forma di malattia,
vedendo solo alcuni aspetti
dell’uomo ammalato e classificandolo in un “caso”. Dice efficacemente Tiziano Terzani:
“Ad ogni stazione si esaminava
un pezzo del mio corpo: il fegato, i reni, lo stomaco, i polmoni,
il cuore. Ma l’esperto di turno
non veniva a toccarmi o ad auscultarmi. La sua attenzione era
rivolta esclusivamente ai pezzi e
neppure ai pezzi in sé, ma alla
loro rappresentazione, all’immagine che di quei vari pezzi compariva sullo schermo del suo
computer. […] ma io, io-tutto,
io-anche-solo-l’insieme-di-queivari-pezzi non c’ero mai, non venivo neppure consultato”5.
Questa forma diffusissima di
atteggiamento medico afferma l’aspirazione ad un carattere oggettivo della conoscenza e diventa, perciò, incapace di accorgersi che il
proprio sguardo non può essere neutrale, neanche quando è costruito per essere tale.
Uno sguardo che, semplificando, ha rinunciato a vedere
alcune cose per osservarne altre (dati clinici, risultati di
esami di laboratorio, immagini ecc.). Risulta, incapace,
cioè, di riconoscere le forme
di “cecità” che sono prodotte
proprio dallo sguardo medico
“[che] non incontra il malato,
ma la sua malattia e nel suo cor-
po non legge una biografia, ma
una patologia. La soggettività
del paziente scompare dietro
l’oggettività di segni sintomatici
[…] dove le differenze individuali che si ripercuotono nell’evoluzione della malattia scompaiono in quella grammatica dei
sintomi con cui il medico classifica le entità morbose come un
botanico le piante”6.
Utilizzare la metafora dello
sguardo non è banale, nella
nostra ipotesi formativa, ma
ha un forte valore epistemico.
Ogni conoscenza parte da un
osservatore ed è significativa
in ragione non solo di quello
che gli fa vedere, dunque, ma
anche in ragione di quello
che nasconde o che gli impedisce di vedere. È un potente
strumento percettivo della
realtà. Lo sguardo medico, allora, costituisce la forma selettiva di una visione, dice
ancora Terzani:
“le immagini, le cifre, i tracciati
sfornati dalle macchine nei vari
esami sono molto più affidabili.
[….] la macchina aveva saputo
molto prima e molto meglio di
me come stavo”7.
La formazione medica, quindi, ha bisogno di riconoscere
che queste forme di osservazione della realtà sono prodotte da operazioni cognitive che
costruiscono una realtà “intensiva”, ma parziale, che
estranea il malato dal complesso della sua esistenza.
Non vogliamo, certamente,
mettere in discussione il fatto che nella formazione del
medico e delle professioni sanitarie sia indispensabile la
conoscenza e la comprensione profonda dei sistemi complessi del “corpo”, ma che
questa competenza osservativa, indispensabile all’esercizio della professione, debba
essere contemperata da uno
sguardo competente che conosca e che comprenda anche la
complessa storia personale
del soggetto malato.
Per poter rispondere alla “domanda pedagogica” sulla formazione di futuri medici, dobbiamo chiederci, allora, come
educare il pensiero degli studenti a riflettere sul proprio
pensiero professionale, sulla
dimensione generale/singolare dell’epistemologia della cura, come ritrovare il valore del
rispetto umano nella professione, come riconoscerne i limiti, non solo derivati dalle
possibilità prodotte dal crescere del sapere scientifico,
ma dalla stessa dignità della
vita. La formazione alla cura
(to care) riguarda, dunque, gli
interrogativi che vengono posti al professionista da un sapere della pratica che agisce su
un terreno instabile e spesso
controverso.
La competenza di cura non si
costituisce, cioè, soltanto grazie ad un patrimonio di “sistemi esperti”, ma con il dialogo
tra il “corpus di conoscenze
scientifiche” possedute e le
specifiche situazioni problematiche che offrono al pensiero del professionista interrogazioni uniche ed incerte.
Questa è una competenza che
si impara grazie alla formazione alla riflessività. Dobbiamo,
cioè, imparare a vedere, osservare, comprendere l’esperienza
vitale della cura nella sua singolarità ed incertezza.
Nelle esperienze di formazione alle quali ci riferiamo 8 ,
quindi, abbiamo voluto valorizzare la consapevolezza
dell’esistenza nella realtà
della cura proprio di sguardi
complementari. Abbiamo voluto creare occasioni per osservare le connessioni possibili tra i saperi biomedici e le
dimensioni singolari della
cura ed abbiamo ricercato nei
soggetti di film, o in loro sequenze, i luoghi dove si evidenziano territori di confine
e dove nascono gli interrogativi più inquietanti.
Vogliamo dire che il ragionamento medico deve arricchire
le forme del sapere specialistico e tecnico con uno sguardo “che ascolta e che parla”9
all’esperienza reale della professione.
T. Terzani, Un altro giro di giostra, Longanesi, 2004, p. 84.
U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, ultima ed. 2000.
7 T. Terzani, Un altro giro di giostra, cit.
8 È importante contestualizzare queste esperienze nella Facoltà di Medicina dell’Università di Firenze, in particolare Il laboratorio di Medical
Education (diretto dalla prof. P. de Mennato, all’interno del quale è attivo L’archivio filmico per la formazione medica [www.laboratoriodimedicaleducation-unifi.it] curato dal dott. Carlo Orefice) ed il Centro Interdipartimentale di Medical Humanities (diretto dalla prof. D. Lippi). Il percorso
di formazione critica e riflessiva offerto agli studenti consta di più tappe come il Tirocinio per gli studenti del primo anno del CDL in Medicina e
Chirurgia (R. Valanzano), il Progetto cin@med, al secondo, l’Ascolto degli Studenti: l’esperienza narrata (G. Guerra), L’integrazione professionale: medici e infermieri nel percorso formativo (Laura Rasero), Il laboratorio di Medicina narrativa (D. Lippi).
9 U. Galimberti, Il corpo, cit.
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Come dice un nostro studente,
essa, facendo in modo che la
propria esperienza diventi la
narrazione di una biografia
professionale che dialoga con
la realtà, con le difficoltà e
con le crisi, con gli interrogativi che la realtà sottopone
allo sguardo professionale11.
“[…] credo che ci si sia resi conto che il mondo medico necessiti
di essere umanizzato, avvicinato
alla dimensione psicologica della
malattia e credo che questo sia
un buon inizio per noi del secondo anno che di ambito medico
sappiamo ancora poco, ma che
già, almeno tra i compagni con
cui ho parlato, ci rendiamo conto
dell’importanza di questo ambito
della Medicina”10.
Abbiamo voluto, dunque, provocare negli studenti occasioni personali di riflessione sulle competenze che stavano
acquisendo, sul proprio sapere, sulle azioni che possono
essere compiute nell’esperienza di cura, aiutandoli ad
osservare che queste competenze, questo sapere e queste
azioni sono prodotte non soltanto da quello che imparano
attraverso la frequentazione
costante di un corpus di conoscenze mediche che progressivamente cresce e si arricchisce, ma anche da quello
che viene prodotto dal “pensare sulla” propria personale
esperienza cognitiva. La competenza medica è legata,
dunque, all’esercizio della
pratica riflessiva, alla capacità di essere contemporaneamente soggetto della propria conoscenza ed oggetto di
L’uso dei film: cin@med
Questo complesso e raffinatissimo gioco di rimandi è quello
che viene evidenziato proprio
dalla natura narrativa dell’esperienza filmica. Una sceneggiatura costringe ad un
costante cambio di prospettiva; aiuta ad osservare la storia attraverso lenti deformanti ed a riconoscere il valore
generativo del punto-di-vista
assunto dai protagonisti, induce a ripercorrere, in forma
di immagini e di suoni, i processi di sviluppo dell’esperienza. Un film scrive, dunque, un percorso narrativo
che delinea una storia “umanamente rilevante”12. Traduce
un pensiero che è, per sua
stessa definizione, un pensiero dell’incertezza, della singolarità, comprensibile solo in
una prospettiva esistenziale,
prodotto dalla rottura di un
equilibrio e da criticità. Come
in una storia di malattia, la
costruzione della storia narrata avviene attraverso “punti
di svolta”, tappe e momenti
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in grado di modificare e di rivoluzionare in forma inattesa
lo stato delle cose.
Per questa ragione l’osservazione di storie professionali e
di vissuti di malattia aiuta
nella costruzione di momenti
di azione riflessiva capaci di
retroagire sull’esperienza di
cura. La notizia di malattia,
una diagnosi infausta o la presa di coscienza di un proprio
stato naturale di declino e di
abbandono delle forze produce nel malato – così come nella sua relazione con il medico
e con i familiari – atteggiamenti e modalità che hanno
quasi sempre e soprattutto un
carattere esistenziale. Vengono interpretate attraverso un
singolare filtro personale fatto
di modelli di riferimento culturali, di categorie interpretative, di rappresentazioni sociali, immagini mentali e tanto altro ancora. Le diverse infinite sfumature che i singoli
soggetti vivono in rapporto
alla malattia trovano traduzione nella scrittura filmica,
permettendo di entrare in rapporto con le forme della narrazione dell’esperienza. Diventano, allora, pregnanti sollecitazioni cognitive.
Il cinema è da tempo considerato come uno strumento formativo potentissimo13 e l’interesse per il cinema come stru-
mento di formazione, anche
disciplinare, ricorre da molti
anni nella mia didattica14. Ho
sempre creduto che ogni film,
anche il più deludente sotto il
profilo artistico, sia in grado
di sollecitare potentemente
sia sul piano cognitivo che su
quello emotivo. La scrittura
cinematografica viene tradotta attraverso il filtro cognitivo
della propria biografia ed incontra le nostre aspirazioni, le
credenze, i modelli impliciti,
le competenze, le esperienze,
le valutazioni. Il cinema simula, cioè, i più potenti processi
del pensiero complesso: permette di partecipare ad una
storia senza esserne parte –
decentrazione –; permette di
osservare la coesistenza di più
livelli di lettura – la narrazione parte da uno sfondo definito dal regista, ma anche dall’intreccio di più punti-di-vista
dei protagonisti, dei comprimari, dello spettatore e si intreccia in una o più storie –;
rende possibili le interpretazioni di ciò che accade sullo
schermo grazie alle proprie
esperienze personali e la storia15. Simula, dunque, la possibilità cognitiva ed emozionale di “incontrare” esperienze senza “viverle”16.
Il film offre, inoltre, la possibilità di produrre una conoscenza contestualizzata
Uno studente cin@med (gli interventi degli studenti sono tratti dal Questionario somministrato a conclusione del I anno).
P. de Mennato, C. Orefice, S. Branchi, Educarsi alla cura. Un itinerario riflessivo tra frammenti e sequenze (testo e DVD), PensaMultimedia,
Lecce 2011.
12 P. Ricoeur, Tempo e racconto, JakaBook, Milano 1988.
13 A. Agosti (a cura di), Il cinema per la formazione, Franco Angeli, Milano 2003; F. Cappa, E. Mancino (a cura di), Il mondo, che sta nel cinema,
che sta nel mondo, Mimesis, Milano 2005; L. Zannini, Medical humanities e medicina narrativa, cit.
14 P. de Mennato, Quaderni del corso per Educatori di strada, a cura del Dipartimento di Scienze relazionali, Università di Napoli Federico II,
1984; P. de Mennato (a cura di), Per una cultura educativa del corpo. PensaMultimedia, Lecce 2006 completo di due DVD; P. de Mennato, C. Orefice, S. Branchi, Educarsi alla cura. Un itinerario riflessivo tra frammenti e sequenze (testo e DVD), PensaMultimedia, Lecce 2011.
15 P. de Mennato, cin@med. Formare al sapere riflessivo nella professione medica attraverso l’uso dei film, in “Cartografie pedagogiche”,1, 2012.
16 A. Agosti (a cura di), Il cinema per la formazione, cit.
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(la trama) ed idiografica (le
diverse storie) che aiuta a
confrontare la visione delle
cose rappresentate dai personaggi con la versione che lo
studente ha di esse, agendo
con valore “trasformativo e
interattivo in cui il soggetto
è, o diviene, attore del proprio processo formativo ed
esistenziale”17.
Il cinema costruisce un’esperienza densa e concentrata. È
la rappresentazione della
complessità dove storie, punti-di-vista, sentimenti e valutazioni diverse si incontrano,
scontrano, intersecano, favorendo reazioni emotive e “posizionamenti”. Il potere della
narrazione cinematografica è
nel coinvolgere lo spettatore,
nel consentirgli di “mettersi
nei panni” dell’uno o dell’altro personaggio, nel parteggiare, nel decodificare le proprie reazioni in rapporto alla
storia, nell’osservare le dinamiche cognitive e relazionali
a partire dalla propria scelta
di posizione. Si osserva distanziandosi, si riflette utilizzando strategie cognitive proprie e personali, si confrontano i propri pensieri con una
realtà “simulata”, ci si mette
in gioco. Si impara, cioè, ad
apprendere da una situazione
intensa, ma “protetta” perché
definita nel tempo e nello spazio, che attiva le nostre emozioni e la nostra fisicità (sono
contratto, ho paura, sono
soddisfatto, piango per la
commozione, sorrido, rido,
provo dolore).
Il film, nella formazione medica e nelle Medical Humanities, traduce tutto ciò in un
reale “dispositivo di elaborazione”18 che, pur rappresentando ancora un approccio “di
nicchia”, assume progressivamente una sua consistenza,
soprattutto se l’obiettivo formativo primario è di attivare
un processo riflessivo su di sé
e sulla propria identità professionale. Dice uno studente:
“interrogare se stesso, confrontando le idee e mettendosi in gioco anche con una piccola cosa come un film, è un segno di intelligenza e di crescita interiore”19.
La sfida è stata di introdurre
il progetto cin@med – Percorso di formazione ad un sapere
riflessivo nella professione medica attraverso l’uso dei film20
al secondo anno di corso, precocemente, quindi, all’interno
della formazione universitaria
ordinaria degli studi di Medicina e di averlo accompagnato con la costruzione di verifiche di apprendimento attraverso questionari, blog, wiki
che hanno prodotto una rete
docenti-studenti che è diventata una piattaforma riflessiva condivisa.
Nella formazione medica,
dunque, il film mostra il si-
gnificato delle questioni più
inquietanti della professione:
gli interrogativi sulla malattia
resi concreti in quanto narrati
dal vissuto esemplificativo
unico, identificabile e profondo della storia proprio di quel
personaggio; consente, quindi, di osservare uno spaccato
di vita della Medicina, della
malattia e della cura sotto il
profilo del confronto tra modi
di pensare e sistemi di interpretazione dominanti e “sotterranei” nelle pratiche mediche. Mostra, cioè, il profilo
delle contraddizioni possibili
del ragionamento in Medicina,
consentendo di mettere a nudo le idee sotterranee che
coesistono nel vissuto esistenziale di ogni medico.
La narrazione cinematografica permette di accedere ad
una Medicina che è storia non
soltanto di malattie, ma di
persone. È esperienza dell’individuo, dei suoi familiari e
dello stesso medico. Una Medicina, dunque, che è storia
di uomini, espressione dei loro apparati e dispositivi intellettuali di esclusione (le “cecità” delle quali abbiamo parlato) e di definizione (i sistemi di riconoscimento e classificazione); dei sistemi di potere nei quali sono, comunque, introdotti; delle diverse
visioni del mondo e della vita
da loro possedute.
Il film è uno “specchio” 21 .
Aiuta a far emergere quello
che appare “personalmente”
significativo. Produce, se opportunamente sollecitata,
una discussione collegiale intersoggettiva (rispecchiamenti/riflessioni) sia contestuale alla proiezione (la presenza di un discussant esperto) sia successiva sui blog e
wiki che abbiamo attivato allo scopo di costituire un forum di discussione.
A queste metodologie riflessive, gli studenti appaiono fortemente sensibili:
“Apprezzo molto gli sforzi e la volontà di stimolare gli studenti alla
riflessione e all’educazione. Credo
sia molto importante proporre attività che possano formare lo studente di Medicina dal punto di vista ‘umano’ in modo tale da impedire il più possibile l’insorgere di
un approccio ‘cinico’ e distaccato
nel passare degli anni”22.
Cin@med è un’iniziativa stabile del CL in Medicina ed il
costante rapporto con gli studenti ci permette di tararla
ed adeguarla ogni anno aggiornandola.
L’uso delle sequenze di
film: il Laboratorio di Medical education
Il Laboratorio di Medical Education23 si è costituito per implementare “modi d’uso riflessivi” nei percorsi formativi,
mettendo a disposizione di
Cfr. E. Mancini, Pedagogia e narrazione cinematografica, Guerini e Associati, Milano 2006, p. 17.
Cfr. R. Massa, Introduzione alla pedagogia e alle scienze dell’educazione, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 590.
19 Uno studente cin@med.
20 Il progetto, curato da Patrizia de Mennato, Andreas Formiconi, Amedeo Amedei, Stefano Beccastrini e Carlo Orefice, iniziato nel 2009, continua come attività obbligatoria professionalizzante rivolta agli studenti del II anno di Medicina di Firenze.
21 S. Beccastrini, Lo specchio della vita. Medici e malati sullo schermo del cinema, Istituto Change, Torino 2006.
22 Uno studente cin@med.
23 Laboratorio della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Firenze, diretto dalla prof.ssa Patrizia de Mennato.
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docenti e studenti aggiornamenti del dibattito teorico ed
epistemologico e producendo
materiali per una riflessione
didattica “in corso”. L’obiettivo è di promuovere l’innovazione nel campo della formazione medica e sanitaria.
Il focus del Laboratorio di Medical Education è concentrato
nella riflessione “sulle” e
“nelle” epistemologie profes24
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sionali nei contesti sanitari,
permettendo la visione di alcuni problemi connessi al medical professionalism La formazione al professionalism è
una sfida contro quella forma
di antagonismo oppositivo
tra le competenze biomediche e quelle umane e richiede
un percorso formativo che
tenga insieme la strutturazione e la manutenzione co-
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gnitiva della competenza clinica e gli aspetti etici, deontologici nella pratica professionale a partire anche da
qualità umane specifiche. Ne
citiamo solo alcune: onestà,
integrità, confidenzialità, capacità relazionale, interazione efficace col paziente e con
le persone che gli sono vicine, rispetto per la diversità,
abilità di comunicazione, pazienza, empatia, coinvolgimento del paziente nelle decisioni, bilanciamento fra impegno altruista e vita personale, capacità di lavorare in
team, affidabilità24.
Si è scelto di utilizzare lo
sguardo della Pedagogia e
dell’Antropologia medica così
da osservare, con un esplicito
obiettivo formativo, le rappresentazioni di temi/criticità/contraddizioni presenti
nella quotidianità delle professioni mediche e sanitarie e
di come la società e la cultura
li percepisce. Lo strumento
didattico privilegiato si identifica con i materiali delle Medical Humanities, quali il cinema, la narrazione, il documento televisivo ed altri, che
offrono focolai di esercizio di
riflessività, che possono aiutare gli studenti ed i docenti
ad osservare lo spettro del loro pensiero nelle esperienze
mediche.
Inoltre, il principale elemento di specificità è dato dai
materiali prodotti nel corso
degli anni da studenti e professionisti che hanno usato le
loro riflessioni e le loro narrazioni come strumenti di osservazione critica sul proprio
agire professionale. Strumenti ricchissimi di spunti e suggestioni, ma – dicono Connelly e Clandinin –, pur sempre, “dati deboli” che non
ispirano fiducia in chi è abituato a lavorare con “rigore
scientifico”25, Sono “dati deboli”, invece, che possono offrire a docenti, ricercatori,
studenti, professionisti della
salute e della cura specifici
prospettive nuove per la valorizzazione del professionalim.
Abbiamo voluto costruire, allora, prodotti didattici, anche a forte valenza multimediale; aprire ad un tutorato
competente nell’implementazione di interventi formativi
innovativi; promuovere occasioni di riflessione intorno ai
modelli di Medicina e di formazione alle cure, con particolare attenzione alle antropologie del corpo e dell’esperienza di malattia.
Il lavoro di creazione del Laboratorio di Medical Education
ha concretizzato i suoi primi
obiettivi producendo ed incrementando un Archivio filmico
per la formazione medica che
dedica ampio spazio all’impiego del cinema nei contesti di
formazione, intendendo questo come uno strumento “vincente” per aiutare i professionisti della cura ad affrontare
l’innovazione in percorsi di
formazione riflessiva cognitivi
e personale.
L’Archivio filmico per la formazione medica (consultabile in
formato elettronico www.laboratoriodimedicaleducationunifi.it) curato dal dott. Carlo
Orefice raccoglie e ordina se-
F. Consorti, L. Potasso, E. Toscano, Formazione della professionalità: una sfida antica e nuova per i CLM in Medicina, Med. Chir., 52, 2011.
Cfr. P. de Mennato, Il sapere personale, Guerini, Milano 2003.
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quenze video scelte ed accorpate in relazione a specifici
nuclei tematici ritenuti di
prioritaria importanza per la
formazione dei professionisti
della cura e della salute (per
es. il procedimento diagnostico, gli ambienti e le culture
mediche, le comunità di pratiche, i momenti della vita, il
rapporto malattia-salute, la
relazione terapeutica, il dolore e la sofferenza e le questioni etiche e giuridiche correlate alle scelte cliniche).
Rispetto alle precedenti esperienze, si è scelto, sempre all’interno di una “modalità
pragmatica” di usare il film,
di selezionare sequenze,
spezzoni o scene in base a tematiche che avessero valore
esemplificativo per gli studenti. La scelta di utilizzare
sequenze di film selezionate
ad hoc e legate tra loro da
link potenziali offre, cioè,
l’opportunità – rinviando a
nessi logici e tematici – di costruire un materiale didatticamente strutturato. Le sequenze si collocano in più
percorsi ordinati e finalizzati
ad una didattica per contenuti, offrendo, però, gradi di
libertà interpretativa a vantaggio di una solida strutturazione di percorsi riflessivi.
Un maggior grado di interattività viene garantito dalla
gestione “in corso” del sito
web dell’Archivio filmico per
la formazione medica, al fine
di costituire una rete interattiva che tenga insieme le indicazioni fornite dai diversi
utenti (docenti, studenti,
operatori, ecc.).
Il Laboratorio di Medical Education si propone, inoltre, di
capitalizzare le risultanze dei
diversi progetti formativi del
gruppo di ricerca; di incrementare linee teoriche di approfondimento; di produrre
un archivio di buone pratiche, di creare ulteriori materiali multimediali di supporto
alla didattica; di attuare
esperienze di tutorato riflessivo effettuato con piccoli
gruppi interprofessionali. È
allo studio la costruzione di
un modello di ipertesto per la
didattica disciplinare che integri l’apprendimento di conoscenze specifiche con l’apprendimento critico e riflessi-
vo sul sapere implicito delle
stesse conoscenze e la valutazione del curriculum nascosto nella didattica.
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Antonio Bonaldi
Presidente di Slow medicine Medico - Direttore sanitario
Azienda ospedaliera San Gerardo,
Monza
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Un nuovo approccio
alla Medicina
La medicalizzazione della vita è un fenomeno in crescita nei confronti del quale vari professionisti, associazioni, Ordini, hanno
già preso posizione.
Il fenomeno, più o meno giustificato nell’età sempre più avanzate che le società industrializzate stanno raggiungendo, in realtà
corrisponde ad un cultura basata su “un farmaco per ogni disturbo”, conseguente al principio che la sofferenza sia ingiusta e
inutile quando esiste il modo per farla cessare,
Ma bisogna distinguere fra dolore e fastidio, perché si ricorre a farmaci anche per un raffreddore, qualche linea di febbre, un dolore articolare che si risolverebbe da solo, con qualche giorno di riposo.
Star bene o star male ha tutta una serie di gradazioni, ma se, come sostiene pressantemente la pubblicità, basta una pillola per
riguadagnare il benessere, perché non ricorrervi?
L’industria farmaceutica persegue comprensibilmente il suo interesse, ma è sulla strumentalizzazione del paziente che è necessario intervenire. Un compito che dovrebbe assumersi il medico che dispone di tutti i dati per il paziente sui rischi che ogni sostanza chimica comporta specie se utilizzata per tempi lunghi.
In questo caso l’educazione della popolazione è fondamentale, ma le voci che raccomandano uno stile di vita sano come principio fondamentale per prevenire o tenere sotto controllo le più comuni patologie, sono soverchiate dalle iniziative promozionali
e dall’informazione non neutrale a cui ricorre l’Industria. David contro il gigante. Una battaglia persa, sembrerebbe, ma se i
gruppi come slow medicine si cercano, si trovano, si moltiplicano, qualcosa può cambiare.
Lentamente, in questo caso, purtroppo.
Sintomi, malattia e salute
Gaudenzio, un anziano signore, ancora in buona forma,
dopo una vita dedicata al lavoro, decide di mettersi in
pensione. Finalmente, dice
agli amici: “potrò dedicarmi
agli interessi e agli hobbies
che ho trascurato per tutta la
vita”.
Soggettivamente sta abbastanza bene, ma qualche volta soffre di mal di schiena e
spesso durante le passeggiate
in montagna ha il fiato corto
e al ritorno gli fa male un ginocchio. Ogni tanto, poi, si
rende conto che il cuore ha
un battito strano e certe volte, specie dopo un pasto abbondante, sente la digestione
pesante e gli viene un po’ di
sonnolenza. Tutto ciò non gli
impedisce, però, di “godersi”
la vita e con questa anche l’agognata pensione. Dopotutto, pensa: “non sono messo
poi così male”.
Ma il suo giornalaio, che è
sempre ben “informato” e
prodigo di “buoni” consigli,
gli spiega che alla sua età è
meglio farsi controllare: “per
stare più tranquillo, gli dice,
devi andare dal tuo medico e
farti prescrivere un bel checkup”. Purtroppo Gaudenzio, gli
dà retta e ne esce con diagnosi di moderata ipertensione, prediabete, livelli di colesterolo e lipidi sopra la norma. Niente di preoccupante:
in pratica, è una delle tante
persone cosiddette “a rischio”, uno dei tanti che, se
vuole vivere a lungo, deve
controllare farmacologicamente la pressione arteriosa,
la glicemia e il colesterolo.
A questo punto, però, il suo
medico gli consiglia di eseguire alcuni nuovi accertamenti, che rilevano altri problemi: una discreta osteoporosi, un lieve schiacciamento
delle vertebre lombari, la diminuzione delle rime articolari del ginocchio destro, alcune extrasistoli, un piccolo
calcolo (silente) alla cistifellea e, buon ultimo, il PSA
“mosso”. Ovviamente ciascuno di questi risultati anoma-
li, richiede ulteriori e più
specifici approfondimenti
diagnostici e, soprattutto, se
non vuole peggiorare la sua
situazione, deve intraprendere gli adeguati trattamenti.
Gaudenzio comincia a preoccuparsi. Suo malgrado è entrato in una spirale che sembra non aver fine: le giornate, ora, sono scandite dagli
appuntamenti con i diversi
specialisti e il suo buon umore peggiora di giorno in giorno, aspettando gli ultimi referti e costatando che le liste
di attesa sono sempre più
lunghe e che non è sempre
tutto gratis.
Cos’è successo?
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In trappola!
Il povero Gaudenzio è caduto
in una trappola. Ignora, infatti, che anche la Medicina è
sottoposta alle subdole pressioni del mercato, di cui gli
stessi professionisti sono
spesso vittime ignare. Egli,
come la maggior parte delle
persone, non ha sufficienti
informazioni per elaborare
un giudizio autonomo e critico su ciò che è utile e appropriato fare in ambito sanitario. Ha fiducia nei medici e in
genere in tutti i professionisti della salute e non è consapevole che le esigenze di
“produzione” e gli interessi
economici possono non coincidere con il benessere, la salute e la qualità della sua vita. Egli sa bene che il mercato, per sua natura, induce al
consumo di ogni cosa, dai
calzini allo spazzolino da
denti, ma non è del tutto cosciente che questo fenomeno
possa riguardare anche farmaci, dispositivi medici, test
diagnostici, visite, prestazioni sanitarie, il cui impiego va
spesso ben oltre quello che le
migliori evidenze scientifiche
raccomandano.
Basta invece dare uno sguardo disincantato alla letteratura medica per accorgersi
che in campo sanitario vi è
un consistente abuso di prestazioni, tanto che la rivista
Archives of Internal Medicine
ha recentemente promosso
una ricerca per individuare,
in diversi ambiti della Medicina, le prime 5 prestazioni sanitarie che potrebbero essere
evitate, riducendo in modo
consistente i costi della sanità, senza compromettere,
anzi migliorando, la salute
dei pazienti. Per l’area della
Medicina interna, per esempio, sulla base delle evidenze
scientifiche oggi disponibili,
le prime cinque prestazioni
da evitare sono (1):
– le indagini diagnostiche
per il mal di schiena prima
di 6 settimane dall’esordio, se non vi sono severi
deficit neurologici o il
concreto sospetto di sottostanti gravi patologie,
– gli esami del sangue e delle urine (check-up) in persone asintomatiche, in
buona salute,
– l’ECG o altri esami cardiologici in pazienti asintomatici, a basso rischio,
– la somministrazione di statine di tipo non generico,
per abbassare il colesterolo,
– la densitometria ossea come esame di screening nelle donne sotto i 65 anni o
negli uomini sotto i 70 anni, senza particolari fattori
di rischio.
Ma i campi di azione potrebbero essere tantissimi: la ricerca ci suggerisce che in ambito sanitario non c’è associazione tra buona qualità e costi
elevati dei servizi (2), mentre
si calcola che negli USA ben il
30% dei costi di Medicare, sia
utilizzato per eseguire prestazioni non necessarie. Prestazioni che potrebbero essere
tranquillamente evitate senza
generare effetti negativi per
la salute dei cittadini (3).
La sobrietà delle cure
Non è solo il mercato, però, a
promuovere i consumi. Anche
il modo stesso di curare e di
assistere porta spesso a prescrivere più prestazioni di
quante realmente servano.
La frequenza d’uso dei servizi
sanitari è un fenomeno molto
studiato in Medicina. Tale fenomeno mette in luce l’esistenza di un’ampia variabilità
nel comportamento prescrittivo dei medici che appare, in
larga misura indipendente da
motivi di ordine clinico.
In pratica, i medici e più in
generale i professionisti della
salute, tendono ad affrontare
gli stessi problemi in modo
del tutto diverso. Parte di
questa variabilità è considerata buona e va incoraggiata,
perché esprime l’esigenza di
personalizzare le cure ai bisogni e alle caratteristiche del
singolo paziente. In buona
parte, però, è fonte di effetti
dannosi e di sprechi, in quanto indicatore di inappropriatezza: del fatto cioè che una
parte più o meno consistente
delle prestazioni è rivolta a
pazienti che non ne hanno
bisogno, mentre altri non ricevono le cure di cui necessitano. A questo riguardo, una
recente indagine condotta
nel Servizio sanitario inglese
ha evidenziato rilevanti differenze geografiche nell’utilizzo delle prestazioni sanitarie. Per esempio, le procedure
di revisione del ginocchio variavano entro un range di
14,9 volte, l’angioplastica coronarica di 9,6 volte e la colecistectomia di 3,5 volte (4).
In pratica l’eventualità per
una persona di essere sottoposta a un intervento sanitario invasivo sembrerebbe legato più al luogo di residenza
che alle manifestazioni cliniche della malattia.
In generale tanto più le prestazioni sono accessibili, tanto maggiore è il loro consumo. Ma ciò che deve farci riflettere è che le persone residenti in regioni dove più alto
è il tasso di visite, immagini
diagnostiche e ricoveri, sperimentano tassi di mortalità
peggiori di quelle che vivono
in regioni a basso tasso di
prescrizione (5). Non si tratta, ovviamente, di negare la
fiducia ai medici e alla Medicina. Negli ultimi decenni, la
Medicina ha compiuto straordinari progressi e ha contribuito in modo fondamentale
ad allungare e migliorare la
qualità delle nostre vite, basti
pensare ai trapianti, all’angioplastica o al settore protesico.
Occorre, tuttavia, rendersi
conto che esiste un problema
di sobrietà nella prescrizione
delle cure e più in generale
nel modo di affrontare i problemi correlati alla salute.
Sobrietà intesa come momento di riflessione sulle cause
che inducono alla prescrizione di prestazioni sanitarie
inutili e come esigenza di dialogo e di ascolto alle richieste
del paziente, prendendosi il
tempo necessario per interpretare i suoi bisogni e le sue
esigenze. I pazienti devono
essere aiutati a scegliere tra
le diverse possibilità di trattamento, devono essere informati sui rischi e sui benefici
delle diverse scelte e messi
nelle condizioni di decidere,
per quanto possibile in modo
autonomo, relativamente a
quello che ritengono più appropriato per la loro condizione fisica, psichica e sociale.
Sobrietà come essenzialità,
moderazione e rispetto per
l’uso di risorse che sono limitate e non vanno sprecate.
Tenuto conto, oltretutto,
che in Medicina fare di più
non vuol dire ottenere esiti
migliori e che, comunque,
permangono diffuse sacche
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di diseguaglianza nella protezione della salute e nell’accesso ai servizi sanitari
essenziali (6).
Sobrietà come ricerca di equilibrio tra i diversi punti di vista, tutti egualmente degni
di rispetto, ognuno dei quali
può influire in modo rilevante sui processi di cura e sui risultati finali.
L’approccio disease oriented
Alla luce delle considerazioni
sopra esposte, slow medicine
ritiene che sia indispensabile
un profondo ripensamento
circa il modo di intendere e di
esercitare la Medicina. Occorre procedere, cioè, a un vero e
proprio salto di paradigma:
aprire nuove strade e nuovi
scenari.
Di fatto, la Medicina, così come oggi è esercitata, è troppo
concentrata sul controllo dei
sintomi e troppo orientata
verso la ricerca delle malattie,
anche quando esse sono silenti. C’è una diffusa convinzione, purtroppo non suffragata
dalle prove scientifiche e dai
fatti, che per ogni disturbo
sia sempre disponibile un rimedio efficace e sicuro e che
scoprire una malattia, prima
che si manifesti attraverso i
sintomi, sia sempre vantaggioso. Tutto ciò favorisce la
medicalizzazione della vita
nelle sue varie manifestazioni
(nascere, crescere, invecchiare, morire), di cui la stessa
Medicina è, almeno in parte
responsabile. Basti pensare al
fenomeno del disease mongering, cioè la creazione artificiosa di nuove malattie per
esigenze di mercato, per indurre cioè, l’impiego di farmaci e di prestazioni sanitarie.
Negli ultimi anni, la defini-
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zione delle condizioni di rischio si è così dilatata che
praticamente l’intera popolazione adulta è classificata come affetta da almeno una malattia cronica che richiede
l’assunzione di farmaci per il
resto della vita (7-9).
Sotto l’influenza del pensiero
riduzionista, il paziente è paragonato ad una macchina, il
cui funzionamento va periodicamente revisionato e indagato attraverso l’analisi sempre più dettagliata dei singoli
componenti. Tale lavoro di revisione e di cura è affidato a
un numero sempre più ampio
di specialisti che conoscono
sempre meglio e in modo più
approfondito ambiti di intervento sempre più piccoli e che
tendono a lavorare in modo
autonomo e isolato. In questo
modo i processi di cura vengono frammentati in una miriade di sequenze e di atti che si
moltiplicano a dismisura e
che finiscono per perdere di
vista il paziente, il suo benessere e lo scopo stesso per cui
sono stati intrapresi.
Ognuno applica le conoscenze concernenti il proprio specifico ambito specialistico in
modo, per lo più, standardizzato. Se lo specialista è “bravo” si attiene scrupolosamente alle ultime linee guida
(quelle evidence-based), ma
tende ad affrontare i problemi uno per volta, attraverso
una sequenza lineare di causa
ed effetto che non tiene conto del contesto entro cui si
svolgono i fatti, della specificità della persona, dei valori
che esprime e che contraddistinguono la sua vita, i suoi
bisogni e le sue aspettative.
L’uomo è certamente più del
suo corpo, più dei disturbi
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che manifesta e più della malattia di cui è affetto. Una
realtà semplificata non ci
aiuta a risolvere i problemi.
L’approccio health oriented
Nel nuovo approccio alla Medicina, orientato alla salute,
le diverse fasi e i diversi attori che caratterizzano i processi di assistenza e di cura sono
invece considerati gli elementi di un sistema complesso, di cui salute e benessere
rappresentano le proprietà
emergenti (10).
L’approccio è di tipo sistemico,
basato cioè sulle proprietà e
sulle regole di funzionamento
dei sistemi e più in particolare
dei sistemi complessi adattativi (11). In questo senso ogni
elemento del sistema riveste
un ruolo importante e insostituibile, perché inserito in una
vasta trama di relazioni e d’interazioni che genera fenomeni, comportamenti, equilibri,
nuovi e inaspettati, attraverso
un continuo scambio di energia e d’informazioni. Il medico, il paziente, i suoi familiari
e più in generale il contesto
entro il quale il processo di
cura si concretizza rappresentano un tutt’uno inseparabile,
che bisogna saper osservare,
riconoscere, interpretare e
salvaguardare. Ogni situazione racchiude circostanze e
contingenze uniche e irripetibili, dove il valore della comunicazione e del dialogo rivestono altrettanto peso, sulle
scelte e sulle decisioni finali,
di quello attribuito alle conoscenze scientifiche e alle relative diverse possibilità d’intervento. È sempre più evidente che la cura dei pazienti
richiede multidisciplinarietà,
pluralità di linguaggi, con-
nessioni tra saperi e dialogo
tra scienze umanistiche, sociali e tecniche.
Il paziente non è un ingranaggio che risponde passivamente a stimoli e aggiustamenti di tipo meccanico, ma
rappresenta una risorsa che
prova emozioni, esprime sentimenti e partecipa direttamente al processo di cura.
Medici e professionisti della
salute lavorano in gruppi che
si integrano, collaborano e
scambiano informazioni, in
un ambiente aperto e multidimensionale. Le prescrizioni
tengono conto, di percorsi di
diagnosi e cura basati sulle
migliori conoscenze scientifiche, ma sanno anche valorizzare le diversità, adattandosi
ai differenti contesti e alle
specifiche aspettative del paziente. Non si tratta, quindi,
di abbandonare il concetto di
cura dei sintomi e della malattia, ma d’integrarlo con le
esigenze dell’individuo, immerso in un complesso sistema di rapporti che ne condizionano l’agire (12).
In questo nuovo indirizzo
della Medicina, la stessa definizione di salute, formulata
dall’OMS nel 1948, non appare più attuale e coerente. La
salute, infatti, non può essere intesa solo come “stato di
completo benessere fisico,
psichico e sociale” (13), anche perché, a causa dell’invecchiamento della popolazione e alla conseguente
espansione delle malattie
croniche la maggior parte
delle persone dovrebbe essere
considerata malata, contribuendo, così, almeno indirettamente, alla medicalizzazione della vita e all’espansione
dei consumi sanitari.
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Con il nuovo approccio, la salute non è più un’entità unica e fissa, ma è considerata in
senso dinamico e mutevole,
come capacità dell’individuo
di adattarsi continuamente
all’ambiente fisico e sociale
che lo circonda e di cui è parte integrante (14).
In questa nuova prospettiva
occorre, quindi, creare le condizioni per favorire la capacità dell’individuo di adattarsi all’incessante mutamento
delle sue condizioni fisiche,
mentali e sociali e per aiutarlo a trovare nuovi equilibri
che non gli impediscono di
sperimentare un senso di benessere e di serenità anche di
fronte a limitazioni severe
delle funzioni vitali (15). È in
questo senso che vanno quindi indirizzati i nostri sforzi,
nella ricerca di una qualità di
vita accettabile e non già nella vana prospettiva di raggiungere uno stato di completa assenza di rischio, di
malattia e d’infermità; condizione, questa, più vicino alla
perfezione del nirvana come
aspirazione per asceti, che al-
la necessità di adattamento
alla realtà con la quale ognuno di noi è costretto a misurarsi quotidianamente.
Le principali componenti di
questo sistema complesso
adattativo e le diverse modalità di approccio (fast e slow),
sono raccolte nello schema
che segue. Ovviamente, come
in ogni sistema complesso
adattativo l’utilizzo di un metodo non esclude totalmente
l’altro. Tutto dipende dalle
circostanze in cui lavoriamo e
dagli obiettivi che ci propo-
niamo. Di fatto, tenuto conto
delle specifiche esigenze, possono applicarsi, a ragione, l’uno o l’altro dei due approcci.
L’importante è essere consapevoli del metodo utilizzato e
agire sempre con equilibrio,
controllo e moderazione.
Dieci criteri per orientarsi tra fast a slow medicine
Bibliografia
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Primary Care, Arch Intern Med., 171 (15), pp. 1385-90.
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health. Health Council of the Netherlands, Publication A10/04,
www.gezondheidsraad.nl/sites/default/files/bijlage%20A1004_1.pdf
(15) Machteld H. et al. (2011), How should we define health?, BMJ,
343, d4163.
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Marco Bobbio
Medico cardiologo - Direttore
della SC di Cardiologia, Ospedale
Santo Croce e Carlo, Cuneo
U
n concetto che può caratterizzare l’espressione “medicina sobria” è
rinuncia. Infatti, sobria è
quella Medicina che sa riconoscere i propri limiti, che sa
fermarsi quando le probabilità di un ipotetico vantaggio
sono gravate da pesanti eventi sfavorevoli, che sa rinunciare a ulteriori accertamenti
diagnostici che verosimilmente non cambieranno il
programma terapeutico.
Nell’accezione comune il termine rinuncia e i suoi sinonimi hanno un connotato negativo, come se la missione
di ogni uomo fosse quella di
andare sempre avanti, fino
allo sfinimento, fino alla
morte: abbandono, abdicazione, astensione, cedimento, cessione, digiuno, distacco, forfait, mortificazione,
privazione, resa, rifiuto, ritirata, sacrifico, vendita. Si rinuncia di solito a situazioni
divertenti, piacevoli, invidiabili: a una buona occasione,
alla carne, a una carica, alla
carriera, a un compenso, a
un diritto, a un’eredità, all’immunità, a un’iscrizione, a
una gara, a un corso universitario, a un incarico, a una
nomina, ai piaceri, a un premio, a una prerogativa, a una
promozione, ai propri beni, a
un titolo, al trasferimento,
alla vendetta. Eppure la ri-
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Sobrietà e rinuncia
nuncia può rappresentare un
atto positivo.
A ben pensarci, la rinuncia è
la conseguenza di una scelta,
nella quale ci si priva di qualcosa in cambio di qualcos’altro. In Medicina viene universalmente riconosciuto che
il valore della vita è il valore
supremo, a cui non bisogna
rinunciare mai. Noi medici
siamo culturalmente condizionati dall’imperativo morale di fare tutto il possibile per
il paziente che si è rivolto alle nostre cure. D’altro canto i
pazienti si aspettano che non
venga trascurato alcun tentativo per raggiungere la diagnosi e curare la malattia. La
Medicina però sta evolvendo
rapidamente e se l’imperativo
del medico e l’aspettativa del
paziente erano del tutto realistici alcuni decenni fa, ora,
con il progredire delle tecnologie e delle terapie, può capitare che “tutto il possibile”
sia pericoloso e “ulteriori
tentativi di raggiungere la
diagnosi” si trasformino in
un meccanismo ineluttabilmente deleterio. Non siamo
in grado di prevedere il futuro e stabilire se l’esame che
stiamo per prescrivere dirimerà il dubbio, individuerà
una patologia del tutto imprevedibile o solleciterà ulteriori accertamenti inutili o
addirittura dannosi. È però
Le varie implicazioni della rinuncia
ad un intervento o ad una terapia
necessario sapere che non
sempre l’esito seguirà le nostre aspettative e quindi si
dovranno mettere sul piatto
della bilancia decisionale,
coinvolgendo il paziente nella scelta, non solo gli esiti favorevoli (più frequenti), ma
anche quelli sfavorevoli (più
rari). Non solo. Dobbiamo aggiungere alla bilancia decisionale anche i valori e le aspettative del paziente: una
preoccupazione più o meno
intensa della malattia, una
percezione più o meno invalidante del sintomo, un lavoro
più o meno soddisfacente, un
desiderio più o meno impellente di divertirsi, di fare attività sportiva, di applicarsi a
un hobby, un attaccamento
alla durata più che alla qualità della vita (o viceversa),
una maggior paura del trattamento rispetto al non-trattamento (o viceversa), legami
affettivi più o meno coinvolgenti, progetti più o meno
impellenti ancora da realizzare. Se questi valori inducono
il paziente a rinunciare a un
trattamento, a un intervento
chirurgico, a una chemioterapia, dobbiamo per forza considerarlo un malato di mente
da interdire, uno sciocco che
va convinto, un ignorante
che va educato, un disinformato che va istruito, un pavido che va incoraggiato? O invece dobbiamo considerarlo
una persona che rinuncia a
qualcosa per avere qualcos’altro, che ritiene, in modo del
tutto personale e non universalmente condivisibile, più
vantaggioso?
Etica del quotidiano
Questa non è la sede per riflettere dove nasca l’idea che
si debba fare tutto il possibile, sommando accertamenti a
trattamenti, stigmatizzando
chi rinuncia a fare di più: dai
pazienti che aspirano a raggiungere la certezza della
diagnosi e dell’assenza di malattia, dai medici che tendono a prescrivere procedure
diagnostiche in eccesso per
evitare una causa penale da
omissione, dai media che in
modo acritico diffondono notizie entusiastiche sui meriti
di ogni nuova procedura diagnostica e interventistica,
dai politici che non sanno indirizzare le scelte strategiche
della sanità e preferiscono investire sulla tecnologia che
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sul personale, dalle industrie
che spingono l’uso della propria tecnologia con mezzi
non sempre eticamente accettabili, dalla società che
corre verso una crescita senza
limiti e non sa prevedere dove si andrà a finire. Questa è
invece la sede per riflettere
sul significato positivo della
rinuncia.
Non saranno neanche oggetto
di questa riflessione le decisioni che riguardano i momenti cruciali della vita, oggetto di approfondite analisi
di tipo bioetico: la nascita e
la morte, né questioni riguardanti la sospensione di trattamenti considerati futili (1, 2)
e la conseguente desistenza
terapeutica (3). Si affronteranno invece questioni di etica del quotidiano, riguardanti
la scelta di un paziente (o del
suo medico) di non proseguire nel percorso diagnostico o
terapeutico proposto.
Per entrare nel merito della
questione descriverò 5 casi
nei quali la rinuncia è stato
un elemento fondamentale
nel processo decisionale in
quanto possiamo considerarla
contestata, trascurata, saggia, mancata, pericolosa.
Una rinuncia contestata
Una mattina mi telefona con
un tono di voce preoccupato
la caposala dell’Unità coronarica: “ci sono i parenti del signor Franco G. che vorrebbero parlarle”. La invito ad accompagnarli nel mio studio.
Si tratta di un signore di 85
anni con una lunga storia di
diabete, di ripetuti ricoveri
per eventi coronarici trattati
con la Cardiochirurgia, con
angioplastiche e con l’impianto di un defibrillatore.
Ha una grave insufficienza
renale e molti parametri di
laboratorio sono alterati. “La
dottoressa che segue mio padre – esordisce una delle figlie – è un’incompetente. Ci
ha detto che non c’è più nulla
da fare. Non possiamo lasciar
morire nostro padre. Se non
siete in grado di salvarlo, lo
portiamo in un Centro più attrezzato”. È difficile far capire
a una figlia che c’è un momento nel quale le risorse
della Medicina si esauriscono
e si deve affrontare il distacco. Mi amareggia pensare che
questa donna non si dia pace,
ci consideri incapaci e rinunciatari, e non capisca che i
numerosi interventi medici
hanno regalato a suo padre
almeno dieci anni di vita.
Parliamo a lungo e cerco di
far loro comprendere che le
risorse dell’organismo del loro congiunto sono alla fine.
“Dica alla sua collaboratrice
di fargli almeno la dialisi.
Non lo si può lasciare morire”.
Le spiego che sarebbe un intervento inutile che gli prolungherebbe la vita di qualche giorno, senza alcuna prospettiva di poterlo poi dimettere. Non so se mi credono,
ma in qualche modo si rassegnano. Arrivando in Ospedale
due giorni dopo, la caposala
mi comunica che nella notte
Franco G. è morto.
Una rinuncia trascurata
Un’infermiera di 52 anni, in
soprappeso e in trattamento
antipertensivo, si presenta
dal medico lamentando un
dolore al torace, persistente
da due giorni, non indotto
dallo sforzo, che si accentua
con profonde inspirazioni e
sollevando il braccio destro
(4). Il medico ritiene che il
dolore non sia di origine cardiaca, ma per raggiungere un
maggior grado di certezza,
preferisce prescrivere una TAC
coronarica. È più tranquillo il
medico che demanda a un test diagnostico (e a chi lo interpreta) la responsabilità
della diagnosi e più serena la
signora che sarà ancora più
certa di non avere problemi
coronarici. Con lo scopo di dirimere ogni dubbio, la signora
esegue l’esame radiologico
che non sgombera il campo da
ogni incertezza. Anzi, il riscontro di modeste placche
coronariche calcifiche e non
calcifiche richiede l’esecuzione di una coronarografia, che
dimostra in modo inequivocabile l’irrilevanza emodinamica
di quelle placche. Nel corso
però della procedura, la paziente avverte un violento
dolore al torace, si ipotende e
a un ulteriore controllo angiografico si evidenzia una
dissezione dell’aorta ascendente con estensione al tronco comune della coronaria sinistra. Viene posizionato un
contropulsatore aortico ed
eseguito un intervento di bypass aortocoronarico in condizioni di emergenza. Alla dimissione la funzione ventricolare sinistra risulta gravemente compromessa. Nei mesi
successivi la signora verrà
sottoposta a numerose angioplastiche coronariche con impianto di stent, sarà ricoverata per un infarto complicato
da shock cardiogeno e infine
sottoposta a un trapianto urgente di cuore.
Una rinuncia saggia
Il 30 dicembre del 2009 Gersh
BJ e McLoad CJ entrambi della
Mayo Clinic, sul sito di Medscape (5), descrivono e commentano il caso di un uomo
d’affari di 44 anni leggermente sovrappeso, sedentario,
che lamenta un dolore al torace e dispnea da sforzo. Viene
sottoposto a prova elettrocardiografia da sforzo suggestiva
per la presenza di un’ischemia
miocardica; anche la scintigrafia con tallio conferma
un’ampia zona ischemica nella parete anteriore e apicale.
Il paziente esegue allora la
coronarografia che documenta una severa ostruzione della
parte iniziale della coronaria
discendente anteriore. Il dr
Gersh, e come lui credo la
stragrande maggioranza dei
cardiologi, gli propone un’angioplastica, illustrandogli anche l’alternativa “watchful
waiting”, consistente nel ridurre i fattori di rischio e assumere una terapia farmacologica piena, valutando l’andamento dei sintomi. Il paziente opta, contro il parere
del cardiologo e delle indicazioni fornite nelle linee guida
internazionali, per la terapia
medica, inizia un regolare
programma di attività fisica e
adotta una dieta povera di
grassi che gli permette di ridurre il peso. Rimane senza
sintomi per 14 anni, quando
la scintigrafia mostra un’area
ischemica anche in sede inferiore e la coronarografia, oltre
alla lesione precedente, mostra una nuova lesione critica
sulla coronaria destra. A quel
punto si sottopone ad angioplastica coronarica.
Una rinuncia mancata
Nel 2010 la rivista Journal of
the American College of Cardiology pubblica (6) la descri-
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zione della storia di un 56enne che si presenta in Ospedale per un dolore anginoso;
dalla documentazione si
evince che nell’arco di 10 anni è già stato sottoposto a 28
coronarografie (più di una a
semestre) con l’applicazione
di 67 stent. Gli autori riflettono sul fatto che “il troppo è
troppo” e che nel decennio
precedente “si sarebbe potuto risolvere i disturbi del paziente in altro modo”.
Una rinuncia pericolosa
Giovanni M. è un signore di
84 anni diabetico, con insufficienza renale che viene ricoverato nella nostra Unità
coronarica per un episodio di
scompenso cardiaco. Dagli
accertamenti viene confermata la presenza di una severa insufficienza mitralica, nota da parecchi anni, e di una
grave disfunzione della contrattilità del ventricolo sinistro, peggiorata rispetto ai
controlli precedenti. Il paziente era già stato ricoverato
8 anni prima (all’età di 74 anni) e già allora gli era stato
proposto di sottoporsi a un
intervento cardiochirurgico
per sostituzione della valvola
mitralica. Allora il paziente,
non accusando molti disturbi, aveva preferito rinunciare
all’intervento. In questa occasione invece chiede di essere operato. Il cardiochirurgo
cerca di scoraggiarlo spiegandogli che l’intervento è a rischio elevato. Il paziente insiste commentando “non poso andare avanti così. O la va
o la spacca”. Qualche giorno
dopo si procede all’intervento, ma il signor GM non si riprende e morirà dopo 42 giorni di rianimazione.
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Slow medicine
Ho presentato alcuni casi emblematici nei quali nella decisione diagnostica o terapeutica ha giocato un ruolo la rinuncia. In alcuni casi è stata
una scelta saggia, in altri deplorevole. In ogni caso il giudizio sulla correttezza della
decisione può essere fatta solo a posteriori. Quando ci troviamo nel momento di decidere quale strategia sia più
appropriata alle particolari
condizioni cliniche di quel
paziente e più consona ai
suoi valori, né il paziente né
il medico sono in grado stabilire quale opzione sarà la migliore. Il nostro lavoro di medici ci costringe quotidianamente ad assumere decisioni
senza conoscere i benefici e i
danni che queste procureranno al paziente e di conseguenza abbiamo imparato a
ricevere elogi sperticati se le
cose vanno bene e maledizioni e denunce se vanno male.
Giovanni M. e i parenti di
Franco G. pretendono un
trattamento che ha basse
probabilità di risolvere il problema. Non sappiamo quanto
a lungo (giorni, settimane) e
come sarebbe vissuto Franco
G. se fosse stato sottoposto a
dialisi; era comunque improbabile che la dialisi avrebbe
potuto garantire delle condizioni di salute accettabile per
un periodo di tempo congruo.
La storia di Giovanni M. solleva una questione che affrontiamo sempre più spesso: un
paziente che nega il consenso
a un intervento quando sta
ancora relativamente bene e
le probabilità di successo sono elevate, e lo pretende
quando sta davvero male e
con il passare degli anni è
peggiorato lo stato generale
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con un proibitivo rischio dell’intervento. In entrambi i casi i medici avevano una forte
convinzione sul fatto che sia
meglio rinunciare, dettata
dall’esperienza e dal supporto di una letteratura scientifica sui rischi di interventi in
condizioni estreme. Ma non
avevano la certezza. Hanno
proposto all’uno e agli altri di
rinunciare, ma si sono trovati
in difficoltà a imporre la loro
opzione. Abbiamo la prova
che per Giovanni M. la Chirurgia ha creato più sofferenze che benefici.
L’infermiera 52enne ha invece seguito i consigli del medico, nel tentativo di ridurre al
minimo l’incertezza diagnostica di un giudizio soggettivo, ricercando la presunta oggettività in un referto radiografico d’avanguardia. Con il
senno di poi, si è rivelata deleteria la proposta di non rinunciare a un maggior grado
di certezza.
L’uomo d’affari 44enne ha invece preferito rinunciare all’intervento invasivo che sarebbe stato raccomandato da
qualunque cardiologo e che,
nella concezione comune, l’avrebbe messo al riparo da ulteriori rischi. Non abbiamo
motivi di pensare che se avesse eseguito un’angioplastica
coronarica avrebbe potuto
aspettarsi un decorso più favorevole. Con il senno di poi,
la sua scelta di rinunciare è
stata comunque saggia.
Non abbiamo invece elementi
per giudicare quale sarebbe
stato il destino del 56enne
con 67 stent nelle coronarie
se in una o più delle 28 coronarografie fosse stata scelta
una strategia diversa.
Questi casi ci consentono di
riflettere su due aspetti. Innanzi tutto la valutazione
sulla correttezza della scelta
può (e non sempre) essere
fatta a posteriori. Nel momento della decisione, non
avendo alcun dato che ci dica
se in quel singolo paziente
sarà più favorevole una soluzione piuttosto che l’altra,
possiamo solo stabilire quale
sarebbe la soluzione più idonea in pazienti medi. Ovvero
in pazienti studiati in ricerche cliniche che hanno alcune delle caratteristiche di
quel paziente (età, sesso, tipo e gravità della patologia,
parametri ematici) ma che
non contemplano molte della
caratteristiche peculiari di
quella persona.
Medicina sostenibile
La natura umana è variegata
e i medici dovrebbero imparare a non avvicinarsi all’ammalato con ideologie, preconcetti, ma con l’intento di aiutare
ad affrontare un passaggio
angosciante dell’esistenza,
dovuto alla comparsa di una
malattia. Spesso è sbagliato
essere rinunciatari; per nostra
fortuna al giorno d’oggi la
Medicina dispone di strumenti formidabili per studiare il
corpo umano e per curarlo
con svariati trattamenti, e da
questo traiamo tutti giovamento. Ma la potenza può anche fare del male, quando si
trasforma in onnipotenza,
quando non è in grado di darsi dei limiti o quando impone
una strategia terapeutica indifferenziata, in contrapposizione con i valori della persona che deve essere assistita.
Si parla di Medicina “sostenibile”, mutuando il termine
dai movimenti ambientalisti,
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per indicare un sistema di ricerca e di cura che sia economicamente accettabile ed
equamente distribuito, ma
penso che il termine vada utilizzato anche a livello del singolo individuo: una Medicina
che offra un percorso diagnostico e terapeutico complessivamente sostenibile da parte
di ogni persona, tenendo conto delle sue preferenze e dei
suoi valori.
Quando un paziente manifesta il desiderio di rinunciare a
un trattamento o a un esame,
spesso i medici, e talvolta anche i parenti, interpretano la
decisione come una colpa co-
darda e faranno di tutto per
fargli cambiare idea; all’opposto, dedicheranno poche
energie per convincerlo a non
eseguire un intervento chirurgico, a non sottoporsi a un
test. Come se la rinuncia fosse un abbandono alla vita, un
atto di debolezza, un sintomo
di depressione. Capita spesso
di assistere a colloqui nei
quali medici e parenti insistono per operare persone molto
anziane, stufe di lunghi giorni di degenza, disorientati da
un ambiente estraneo, preoccupati di morire senza i propri cari vicini, stanchi di
combattere.
Un’opportunità
Come possiamo inserire il
concetto di rinuncia, nella
complessità e delicatezza
dell’incontro tra un medico e
un paziente? Molti medici
sostengono che è loro obbligo morale indicare al paziente quale, secondo loro in
scienza e coscienza, è la
scelta migliore. Sta poi al paziente decidere, come è avvento nel caso dell’uomo
d’affari 44enne. La questione
non riguarda solo cosa si dice, ma soprattutto come lo si
dice, quale enfasi si danno ai
dati positivi e negativi di
una procedura, come si enfa-
tizzano i vantaggi e si minimizzano gli inconvenienti,
come si induce ansia sulle
conseguenze del non fare. In
altre parole come si propone
e si accetta la possibilità di
una rinuncia.
La rinuncia deve entrare nell’armamentario concettuale
del medico che si avvicina a
un paziente per affrontare
con lui una scelta diagnostica
e terapeutica, tenendo conto
che anche una rinuncia può
essere una scelta positiva,
consapevole e rispettabile.
Magari, l’unica accettabile da
quel paziente.
Bibliografia
(1) Wetroug R.D., Brett A.S., Frader J. (1992), The problem of futility,
N Engl J Med, 326, pp. 1560-4.
(2) Wijer C. (1999), Medical futility. Physicians, not patients, call the
shot, West J Med, 170, p. 254.
(3) Romanò M. (2011), La desistenza terapeutica in unità di terapia
intensiva cardiologica: criteri decisionali tra etica e clinica, G Ital Cardiol, 12, pp. 50-7.
(4) Becker M.C., Galla J.M., Nissen S.E. (2011), Left main trunk coronary artery dissection as a consequence of inaccurate coronary computed coronary angiography, Arch Intern Med, 171, pp. 698-701.
(5) http://www.medscape.org/viewarticle/714245
(6) Khuozsam R.N., Dahiya R., Schwartz R. (2010), A heart with 67
stents, JACC.
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Stefano Beccastrini
Medico del lavoro, pedagogista,
storico del cinema
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Prevenzione
e promozione
della salute
La slow medicine correva un rischio: produrre idee coinvolgenti, “sovversive” rispetto ad una Medicina sempre più tecnologica
e, di conseguenza, in inevitabile allontanamento dal paziente.
Ribadire il principio che “le parole curano” significa porsi l’obiettivo di recuperare un rapporto su cui fondare il dialogo, lo
scambio, il confronto fra due persone che rimangono, sì, un medico e un paziente, ma in un clima di empatia che recupera l’umanità del professionista e conforta i bisogni di chi gli chiede aiuto.
Le “idee in movimento” che la slow medicine si propone di divulgare e affermare tra i professionisti della cura avevano bisogno
di dimostrare che era possibile metterle in pratica.
I Progetti presentati nei due Convegni che Salute e Territorio ha ripreso, ottenendo dai relatori che riscrivessero, approfondendoli, i loro interventi, dimostrano che si può applicare questa nuova “filosofia medica” in attività, progetti, servizi riproponibili
in altre realtà come esempi di buona sanità.
Una speranza?
U
na seria questione che
abbiamo dovuto affrontare è stata in generale, e poi declinandola per
ciascuno dei campi d’interesse del movimento, quella di
come distinguere ciò che è
slow da ciò che è ancora, e
purtroppo, fast, ossia, la necessità di elaborare una griglia di valutazione dei progetti che man mano riusciremo a costruire.
Personalmente credo che,
nell’area della prevenzione e
della promozione della salute
– occorra partire sempre da
una fondamentale verità che
vorrei richiamare citando un
maestro e amico indimenticato, Lorenzo Tomatis. Egli ha
scritto una volta – ma ripeteva spesso – che: “Quando si
parla di prevenzione, tutti
pensano alla cosiddetta diagnosi precoce, ma c’è una
prevenzione che si può fare a
monte, cercando non di limi-
tare i danni della malattia
diagnosticandola al più presto, quanto piuttosto di evitarne l’insorgenza impedendo
l’esposizione alle sostanze
che la provocano”. Ecco: la
centralità della prevenzione
primaria è il primo criterio di
giudizio da adottare per qualunque strategia di promozione della salute di tipo slow.
Oltre a questo criterio di fondo, ritengo che siano tuttora
valide le indicazioni della
Carta di Ottawa, sancita in
occasione della Conferenza
mondiale sulla promozione
della salute che l’OMS tenne
nella città canadese nel 1986
(non casualmente lo stesso
anno in cui l’ONU lanciò la
strategia dello sviluppo sostenibile: promozione della
salute e sviluppo sostenibile
vanno necessariamente a
braccetto, come suol dirsi, e
restano obiettivi decisivi d’ogni politica sanitaria, am-
bientale, globale). Tali indicazioni riguardavano la necessità di:
1. Perseguire la promozione
della salute tramite politiche non soltanto sanitarie,
così valorizzando le alleanze interdisciplinari e interistituzionali, le forme di
partenariato e così via.
2. Impegnarsi nella costruzione di ambienti favorevoli alla salute e dunque il
porre al centro della nostra
attenzione i determinanti
socio-ecologici di essa.
3. Rafforzare la competenza
partecipativa delle comunità locali, tramite il massimo incoraggiamento di
forme cooperative e di empowerment democratico.
4. Aiutare attivamente lo sviluppo delle capacità personali di ogni cittadino, tramite opportune iniziative
di carattere educativo e
formativo, di coinvolgi-
mento, di ricerca partecipativa.
5. Contribuire a riorientare –
nel senso suddetto – i servizi pubblici, quelli sanitari ma anche tutti gli altri.
Si tratta di cose che diciamo
da tempo. La questione è
prenderle finalmente, con
coerenza, sul serio. Ciò significherebbe trasformare la Medicina da scienza unicamente
riparativa in scienza anche
predittiva, capace di aiutare
la comunità ad orientare democraticamente, nel senso
della salubrità e della sostenibilità, le proprie scelte di governo del territorio. Per farlo
occorrerebbe anche, da parte
di chi fa promozione della (e
dunque, anche, educazione
alla) salute una consapevolezza pedagogica che non
sempre è presente: il nostro
interlocutore – chiunque egli
sia – è un soggetto da chiamare ad un’azione comune,
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Slow medicine
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non un contenitore passivo
da riempire col nostro – troppo spesso del tutto presunto –
sapere.
Ciò doverosamente premesso,
andiamo a vedere quali siano
stati i progetti presentati, nella sessione da me coordinata,
al Convegno di Torino. Essi
erano nove e riguardavano:
1. La prevenzione dei disturbi dell’alimentazione.
2. La prevenzione dei comportamenti a rischio della
popolazione giovanile.
3. La prevenzione dei tumori
femminili nel Sud dello
Zambia.
4. La costruzione di un servizio di promozione della salute per i migranti forzati.
5. La promozione di un’associazione di medici ispirati
all’obiettivo della decrescita.
6. La formazione contro il disagio giovanile tramite la
Peer Education.
7. Una ridefinizione del ruolo,
attualmente di scarsa efficacia preventiva, dei cosiddetti medici competenti.
8. L’esplorazione di strategie
sociali che sappiano valorizzare, soprattutto nei
confronti degli anziani, il
lavoro come fonte di benessere.
Primo Progetto
La prevenzione dei disturbi
dei comportamenti alimentari
(DCA)
Il Progetto era presentato dagli operatori del Servizio di
Igiene degli alimenti e nutrizione dell’ASL di Alessandria,
in collaborazione con il Servizio di Psicologia dell’ASL medesima.
Esso è centrato sulla formazione, in materia di preven-
zione dei DCA, degli insegnanti di un Istituto di scuola media superiore nel corso
dell’anno scolastico 20082009. Si è ritenuto infatti, e
giustamente, che la formazione dei formatori – affiancata
da incontri, nelle classi, con
gli allievi – fosse la strategia
più efficace affinchè si mettesse in moto un processo di
crescita partecipativa, su una
questione di sempre maggiore rilevanza sociale ed epidemiologica, all’interno della
scuola.
I concetti slow promossi dal
progetto – che ha partecipato
alla sezione poster del Convegno “Bologna Challenge DCA
2009. Vincere una sfida”, ove
è stato premiato come miglior poster – sono:
– una strategia di lotta ai
DCA non fondata sulla
prescrizione di diete rigide bensì sulla crescita di
consapevolezza dei giovani allievi,
– il rifiuto di metodologie
educative improntate al
prescrittivismo, all’autoritarismo pedagogico-didattico, al dominio dell’esperto di turno bensì all’incontro, all’ascolto, al dialogo
intergenerazionale,
– l’utilizzo efficace di metodologie di counselling.
Secondo Progetto
Educazione alla sessualità degli adolescenti
Il Progetto era presentato da
due operatrici (un’infermiera professionale counsellor e
un medico pediatra) della
ASLTO1.
Esso è centrato su una strategia educativa finalizzata alla
crescita di autonomia identitaria e di responsabilità di
scelta dei giovani a cui è rivolto. Si è dato spazio – coinvolgendo anche i docenti di
Scienze, Lettere ed Educazione artistica delle varie scuole
– a metodologie pedagogiche
di dialogo, di interazione partecipativa, di confronto tra
pari.
Le pratiche slow che fanno da
guida al progetto sono:
– aiutare i ragazzi a confrontarsi tra loro,
– promuovere un atteggiamento positivo verso la
sessualità,
– promuovere il rispetto di
sé e degli altri,
– perseguire accoglienza,
ascolto, accompagnamento, scoperta e riscoperta di
sé,
– rifiutare il metodo, tipicamente fast, dell’indottrinamento prescrittivo.
Terzo Progetto
Prevenzione dei comportamenti a rischio della popolazione
giovanile (Progetto RADAR)
Il Progetto RADAR è gestito
dalla Cooperativa di animazione Valdocco in convenzione con il Servizio per le
dipendenze patologiche dell’ASLTO4.
Esso mira a:
– sostenere la scuola nel suo
porsi quale agenzia educativa complessiva e non soltanto di mera istruzione,
– aiutare la creazione di reti
territoriali di soggetti e
istituzioni orientate all’ascolto del disagio giovanile
e allo sviluppo di empowerment delle giovani generazioni,
– sviluppare nei giovani una
crescita di consapevolezza
e di responsabilità capace
di allontanarli dai rischi
connessi con l’uso di sostanze psicotrope e di rapporti sessuali non protetti.
Le parole chiave, di natura
slow, del Progetto RADAR sono presenza, rete, prospettiva,
contatto, curiosità, piacere.
Il metodo, peculiarmente
slow, è quello della Peer Education, capace di creare partecipazione e interazione e di
sviluppare empowerment.
Gli atteggiamenti fast esplicitamente rifiutati sono: l’indottrinamento, il non coinvolgimento dei soggetti, la comunicazione unidirezionale.
Quarto Progetto
Prevenzione dei tumori femminili nel sud dello Zambia
Il Progetto era presentato da
un medico dell’Ospedale
Evangelico Valdese di Torino e
riguarda l’organizzazione di
una campagna di screening
dei tumori uterini da realizzarsi in una località dell’Africa (Zambia del Sud).
L’obiettivo è quello di garantire efficacia diagnostica e
assistenziale e potenziamento dei servizi locali.
Gli aspetti slow del progetto –
che l’autore connota con le
parole: umanizzazione, cooperazione, empowerment –
sono:
– la molteplicità degli specialismi coinvolti, non soltanto sanitari – epidemiologici, chirurgici, ginecologici, infermieristici, ostetrici e così via – ma anche
di natura antropologicoculturale ed educativi (sono previsti anche esperti di
counselling),
– la volontà di andare oltre
– anche valorizzando e
coinvolgendo le risorse
locali – la tradizionale, e
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decisamente fast, proposta
di progetti sanitari che
non tengono conto del
contesto socioculturale in
cui vanno ad intervenire.
Quinto Progetto
Costruzione di un Progetto di
promozione della salute rivolto ai “migranti forzati”
Il Progetto era presentato da
una collega toscana che ha
realizzato, collaborando con
la clinica mobile del gruppo
MEDU (Medici per i Diritti
Umani) una ricerca sulle condizioni di salute e sull’accesso ai servizi sanitari dei, sempre più numerosi in Italia,
“richiedenti asilo e titolari di
protezione umanitaria”.
In generale, sono emerse quali problematiche sociosanitarie diffuse presso tale tipo di
popolazione:
– carenze igienico-sanitarie,
– ostacoli sociali e culturali
nell’accesso ai servizi,
– presenza di patologie diffusibili,
– presenza di danni, sia fisici che psichici, per pregresse violenze e torture.
Il carattere slow del progetto
consiste soprattutto:
– nel profondo rispetto umano con cui chi effettuava la
ricerca, ma più in generale
gli operatori del MEDU, si
avvicinano e interloquiscono con persone sradicate
dalla loro terra d’origine,
che in molti casi hanno subito violenza, che sono
senza fissa dimora in Italia,
che spesso trovano difficoltà di vario tipo ad accedere ai servizi sanitari;
– nella prospettiva di individuare nel medico di Medicina generale la figura professionale che potrebbe di-
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Slow medicine
ventare l’interlocutore
principale – assai più del
Pronto Soccorso, attualmente il primo e unico servizio di riferimento di questo tipo di pazienti – di
persone la cui principale
patologia è risolvibile a livello ambulatoriale.
Sesto Progetto
Promozione di un’associazione di medici ispirati all’obiettivo della decrescita
Il Progetto era presentato da
un collega il quale fa parte di
un movimento denominato,
appunto, “Medici per la decrescita”. Si tratta di un’associazione che mira a diffondere un’idea sistemica di promozione della salute strettamente legata con il paradigma della decrescita, o della
“crescita zero”, per esempio
sulla base delle teorie ecologistiche di Serge Latouche.
Come dichiarano gli stessi
promotori del Progetto: “Decrescita è una parola d’ordine
che significa abbandonare radicalmente l’obiettivo della
crescita per la crescita, un
obiettivo il cui motore non è
altro che la ricerca del profitto da parte dei detentori del
capitale e le cui conseguenze
sono disastrose per l’ambiente. A rigor del vero, più che di
decrescita, bisognerebbe parlare di a-crescita, poichè si
tratta di abbandonare la fede
e la religione della crescita,
del progresso e dello sviluppo. Non soltanto la società è
ridotta a mero strumento e
mezzo della meccanica produttiva, ma l’uomo stesso
tende a diventare lo scarto di
un sistema che punta a renderlo inutile e a farne a meno… L’obiettivo della decre-
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scita è una società in cui si
vivrà meglio lavorando e consumando di meno”.
La questione interessa direttamente slow medicine, intanto ponendole questioni
come la compatibilità epistemologica del concetto di sviluppo sostenibile con quello
di decrescita. Eppoi chiamandola a misurarsi su un quadro
politico in cui i vari movimenti sociali chiedono al governo proprio misure legislative ed economiche che favoriscano la crescita.
Stiamo sbagliando tutto? Discutiamone, in maniera slow.
Settimo Progetto
Educazione contro il disagio
giovanile tramite metodologie
di Peer Education
Si tratta di un Progetto di
Educazione e promozione
della salute, o meglio di percorso socio-equo-eco-sostenibile, promosso dal Comune di
Rovereto (Trento) in collaborazione con varie agenzie
istituzionali e socioculturali
del territorio comunale.
L’approccio è decisamente sistemico: il concetto, già chiaramente espresso dal titolo
del Progetto, sottolinea che
l’umanità è soltanto una delle
tante presenze di vita sulla
Terra, una delle sue tante
ospiti e come tale – anche
con gli strumenti della cultura, della Medicina, dell’educazione – deve rendere il proprio “abitare il pianeta”, il
più possibile sostenibile, rispettoso di esso e degli altri
abitanti, insomma slow.
Il progetto assegna, in tale
impresa, un ruolo importante,
seppure ancora non diffusamente consapevole, ai medici
(credo che ciò fosse già chiaro
a Ippocrate ma ce ne siamo,
lungo i secoli, dimenticati).
Ottavo Progetto
Riportare la prevenzione e la
promozione della salute dei
lavoratori al centro dell’attività del medico competente
Il Progetto era presentato da
un medico del lavoro lombardo, per molti anni operante
nei servizi di prevenzione nei
luoghi di lavoro della sua Regione, oggi in pensione ma
tuttora. impegnato, oltre che
nella cooperazione internazionale, nella riflessione sulle
metodologie d’intervento
preventivo.
La constatazione da cui il
Progetto prende impulso è
che l’attività dei medici competenti è attualmente quasi
del tutto assorbita dalla sorveglianza sanitaria dei lavoratori, peraltro svolta non di
rado senza tenere conto degli
indirizzi forniti dalla legge e
al di fuori di rigorosi criteri di
appropriatezza dei percorsi
diagnostici messi in atto.
Molto trascurate risultano invece le attività più propriamente preventive e sono
pressoché assenti quelle di
promozione della salute.
Il Progetto si propone di intervenire in favore di un
profondo riaggiustamento e
riequilibrio tra le diverse attività svolte (o non svolte)
dal medico competente rispetto a quanto oggi osservabile, e mira a coinvolgere i
medici competenti e loro associazioni, i servizi pubblici
di prevenzione e sicurezza
nei luoghi di lavoro, le organizzazioni sindacali e imprenditoriali, le società
scientifiche di settore, l’università, l’INAIL-ISPESL.
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Gli obiettivi sono tre:
1. Porre al centro dell’attività
del medico competente le
attività di prevenzione e
di promozione della salute.
2. Ricondurre la sorveglianza
sanitaria dei lavoratori all’interno della logica e delle regole degli screening di
popolazione.
3. Migliorare la qualità della
relazione medico/lavoratore.
Il senso slow di essi è legato
all’aumento di: efficacia del
lavoro del medico competente, appropriatezza nell’attività diagnostica, miglioramento della relazione medico/lavoratore. Gli aspetti fast
che il Progetto si propone di
superare sono: la medicalizzazione del ruolo del medico
competente, la sua attività
diagnostica al di fuori di un
approccio EBM, la routinarietà e spersonalizzazione
dell’attività del medico competente. Le parole chiave
slow sono dunque: efficacia,
appropriatezza, rispetto.
Nono Progetto
Lavorare può far bene alla salute
Il Progetto veniva presentato
da un medico di sanità pubblica, operante prima presso
l’Istituto superiore di sanità e
poi dell’Agenzia regionale sociale e sanitaria della Regione
Emilia Romagna.
Esso trae origine dalla constatazione che il lavoro viene
considerato di solito come una
necessità, che però rappresenta un pericolo per la salute. A
volte viene anche utilizzato
come una terapia. Quasi sempre si dimentica, invece, che
può essere un’opportunità per
la valorizzazione degli esseri
umani e il mantenimento delle loro funzioni vitali più nobili. Questa proposta si concentra sul lavoro nella fase di
invecchiamento, ma potrebbe
essere rivolta anche ad altre
fasi della vita.
Gli attori potenziali coinvolti
sono i servizi di prevenzione,
in particolare quelli nei luoghi di lavoro e di Medicina legale, quelli geriatrici, le Case
di riposo, i servizi sociali, gli
Enti locali, le organizzazioni
sindacali e di volontariato,
quelli di ergonomia, i medici
di Medicina generale, gli infermieri, i sociologi, gli economisti, le imprese.
La proposta mira, quali obiettivi slow, a creare le condizioni per sperimentare forme di
lavoro, dignitoso, adeguato
alle circostanze, organizzato,
utile, che permettano un passaggio graduale dalla condizione di lavoratore a quella di
pensionato e mantengano
nelle persone condizioni attive e socialmente apprezzate.
In tal senso, si propone di superare la divisione netta tra
fasi della vita dedicate al lavoro e fasi di completo riposo, il disinteresse per il ruolo
sociale degli anziani, la parzialità delle proposte riguardanti la sola attività fisica.
Le sue parole chiave slow sono: lavoro dignitoso e appropriato, ergonomia, integrazione tra lavoro/studio/riposo.
Concludo questa, necessaria-
mente sintetica, presentazione dei Progetti presentati nella sessione del Convegno di
Torino da me coordinata, facendo notare come il tema
della prevenzione e della promozione della salute, della sostenibilità dello sviluppo, della qualità della vita, della partecipazione dei cittadini a governare la salubrità del loro
ambiente di vita e di lavoro,
appaia sempre più quale tema
decisivo sia della capacità della Medicina di farsi promotrice
di un rinnovamento profondo
– culturale e scientifico, etico
ed epistemologico – di se stessa e dei propri paradigmi concettuali sia di farsi strumento
anche politico e sociale di aiuto all’umanità, e alla democrazia, del nostro tempo, per superare la crisi in cui entrambe
sono precipitate. Credo, d’altra parte, che la Medicina sia
nata proprio per questo, molti
secoli fa. Riscoprirlo è come
tornare alle nostre origini, alla nostra primaria missione,
alla nostra vocazione professionale ed esistenziale.
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Sandra Vernero1
Gianfranco Domenighetti2
Progetti slow
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1
Medico - Consiglio direttivo
SIQuAS-VRQ - Staff Direzione
Azienda USL di Bologna
2 Docente di Comunicazione e
Economia sanitaria, Università
della Svizzera italiana
e di Losanna
L
a presentazione dei progetti slow del gruppo
“Fra acuzie e cronicità:
curare malati, curare malattie” è stata preceduta dall’esposizione di alcune idee
chiave delineate nel corso
della tavola rotonda del Seminario di Ferrara del 29 giugno 2011:
– Slow medicine si colloca
nell’ambito della Medicina
scientifica tradizionale
(EBM), ma invita a valutare in modo critico le prove
di efficacia e ad applicarle
in maniera non dogmatica
bensì centrata sul singolo
paziente. Per slow medicine
la miglior cura non è quella “mediamente” efficace
ma quella appropriata,
adeguata, su misura, condivisa, personalizzata, per
il singolo paziente, nel rispetto dei suoi valori di vita, della sua dignità personale e del suo consenso.
– Perché le decisioni siano
realmente condivise è indispensabile valorizzare la
relazione tra il paziente e
il medico e gli altri operatori sanitari, dare importanza all’ascolto, alla storia del paziente, affiancare
alla voce della Medicina la
voce della vita.
– Sobrietà vuol dire evitare
gli sprechi e utilizzare in
modo appropriato le risor-
se disponibili, evitando il
sovrautilizzo di indagini e
di trattamenti.
Fondamentale, anche al fine di richiedere solo gli
esami realmente necessari,
riappropriarsi della semeiotica fisica e ridare importanza alla visita del paziente, all’esame obiettivo,
insieme alla storia del paziente.
Appropriatezza è anche
privilegiare le pratiche meno invasive, più fisiologiche e quindi meno a rischio di complicanze per il
paziente. Evitare la sovra
medicalizzazione privilegiando prevenzione quaternaria e promozione della salute.
E nutrire sempre un “sano
sospetto” verso l’innovazione tecnologica in particolare in campo farmaceutico: non sempre il nuovo
offre reali vantaggi, in un
campo spesso dominato da
interessi commerciali e
conflitti di interessi.
– Slow medicine promuove
una visione sistemica, che
da un lato considera la
persona nella sua interezza e non come un insieme
di organi da curare, dall’altro promuove il superamento degli steccati tra diverse specialità e professionalità per lavorare dav-
Fra acuzie e cronicità:
curare malati, curare malattie
vero in gruppo con un approccio e una pratica multidisciplinare.
– Centrale la riflessione sul
tempo: in primo luogo ridare valore al tempo dedicato al rapporto con il paziente, che si è dimostrato
rappresentare una vera e
propria terapia, e superare
l’attuale focalizzazione
sulla “produttività”. Ma
anche: fare miglior uso del
tempo, agire nel tempo
giusto, appropriato. Il
tempo può rappresentare
un ausilio diagnostico, ci
sono tempi fisiologici da
rispettare (giusti tempi).
Infine, tempo per riflettere,
anche solo un attimo prima di intraprendere procedure d’urgenza: occorre il
tempo per pensare a quello
che si fa.
– Perché venga realmente
incentivata l’appropriatezza è fondamentale che
vengano valutati e remunerati i risultati clinico assistenziali e non, come avviene attualmente, solamente risultati finanziari e
di produttività.
Descrizione di Progetti slow
ANTINOMIE:
Fast
Slow
riduzionismo
olismo
dogmatismo
incertezza, dubbio, riflessione
standard
su misura
EBM applicata in maniera dogmatica patient centered EBM
sovramedicalizzazione
prevenzione quaternaria,
promozione della salute
disease mongering
empowerment dei cittadini
Medicina difensiva
migliorare la relazione con paziente
e familiari
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Descrizione di Progetti slow
1. Giuria di cittadini per
deliberare sulla utilità di
definire (concettualizzare)
l’iperglicemia come malattia (diabete di tipo II)
[Roberto Satolli]
Premesse
– L’empowerment in Medicina deve partire dalla condivisione delle definizioni
di salute e di malattie.
– La concettualizzazione dell’iperglicemia come malattia
(diabete di tipo II) è una
premessa per la medicalizzazione e per il disease
mongering della condizione.
– Su questi temi non è mai
stata promossa una discussione né tantomeno una
deliberazione pubblica.
Obiettivi
Condurre un panel di cittadini qualsiasi:
– a comprendere le implicazioni della definizione di
diabete di tipo II;
– e a deliberare sulla sua utilità nella prospettiva dell’interesse collettivo per la
salute.
Metodi
– Costituire una giuria di
cittadini, estratti in modo
casuale dalla popolazione
generale.
– Esporre la Giuria a una
informazione completa,
veritiera e chiara sulla definizione di diabete II, e
sulle sue implicazioni per
la salute degli individui e
della popolazione.
– Chiedere alla Giuria in seduta chiusa di rispondere
in modo il più possibile
unanime a una domanda
semplice, come: “L’attuale
definizione di diabete II è
la più utile per la salute?”
– Chiedere alla Giuria di motivare la deliberazione con
un documento successivo
alla seduta.
Risultati attesi
– Sperimentare le forme della democrazia deliberativa
nel campo della Medicina e
in particolare sulla definizione delle malattie.
– Produrre un documento
critico sulla definizione di
diabete II dal punto di vista dei cittadini.
Obiettivi slow: Sperimentare
forme di democrazia deliberativa come strumento per arginare la medicalizzazione della vita e della società.
Aspetti fast da superare: La
definizione di malattia sempre più ampia induce medicalizzazione e ostacola la promozione della salute.
Parole chiave slow: partecipazione alle scelte, empowerment, promozione della salute.
2. Progetto Analisi valutativa del percorso decisionale
(AVPD)
[Fulvio Forino]
Sprechiamo del tempo a riflettere
L’AVPD è una metodologia per
mezzo della quale i componenti di un team di cura conducono un’analisi valutativa
del processo decisionale da
loro utilizzato nell’assumere
una decisione riguardante la
gestione di un paziente prendendo in considerazione i livelli di accordo e di certezza
registrati nell’assunzione della decisione stessa.
L’obiettivo è quello di miglio-
rare l’appropriatezza e la qualità delle performance del
team di cura.
L’approccio sistemico può
aiutare i professionisti sanitari ad interpretare la complessità dei pazienti:
– una polipatologia non è la
somma delle singole patologie che la compongono
ma va interpretata come
una patologia complessa e
unica,
– in un paziente la compresenza di più patologie, ovvero di più dimensioni
compromesse, fa si che la
sua gestione non possa risolversi nella somma di più
consulenze specialistiche,
di più prestazioni professionali, di più linee guida,
di più diagnosi, di più prescrizioni terapeutiche, ma
richiede la cooperazione di
più professionisti.
Il paziente complesso è un “un
paziente per la cui gestione
sono necessari tre o più specialisti e/o tre o più professionalità che interagiscono sistematicamente tra loro e assumono decisioni condivise”.
L’AVPD è una metodologia
particolarmente utilizzabile
dai team interdisciplinari che
gestiscono pazienti cronici e
complessi e che operano nelle
“Medicine del territorio” (Riabilitazione, Neuropsichiatria
infantile, Assistenza domiciliare, Geriatria, Medicina delle
dipendenze, …) e coinvolge
tutte le figure professionali
che in essi operano.
Attualmente l’AVPD è in una
fase di validazione metodologica nell’ambito di una prima
fase del Progetto che coinvolge sei UUOO.
Obiettivi slow: “Sprecare” del
tempo per fermarsi e riflettere; apprendere a ragionare su
come ragioniamo per basare
la gestione di pazienti complessi su decisioni consapevolmente adottate da un
team sui più alti livelli possibili di accordo e certezza.
Aspetti fast da superare: efficientismo, inappropriatezza.
Parole chiave slow: Visione sistemica, team di cura, ragionare su come si ragiona, riflettere su come si decide, qualità
e appropriatezza nella gestione di pazienti complessi.
Fig. 1
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3. Pillole di buona pratica
clinica (BPC) per medici e
Pillole di educazione sanitaria (ES) per cittadiniconsumatori
[Alberto Donzelli e Claudia
Lattes, Luisa Ronchi, Silvia
Sacchi, Cristina Cassatella,
Donatella Sghedoni]
Descrizione
Le Pillole di BPC, destinate all’aggiornamento/formazione
dei medici, sono schede di
contenuto scientifico (finora
ne sono state predisposte
88), evidence based, chiare e
sintetiche, con bibliografia
ragionata.
Le Pillole di ES sono una linea
parallela di schede di divulgazione scientifica (finora
70), aggiornate ed essenziali,
incisive, che si ispirano in
modo esplicito al punto di vista del SSN, della comunità
dei cittadini e della salute dei
pazienti.
Coinvolti
Servizio di Educazione all’appropriatezza ed EBM; Dipartimento dei Servizi sanitari di
base; MMG, PdF e medici di
CA dell’ASL di Milano, specialisti di primo livello delle
AA.OO. e delle altre strutture
di ricovero cittadine; MMG di
altre 4 ASL lombarde e di altre tre Regioni italiane.
Da metà 2004 alle Pillole per
medici si è affiancata una linea di Pillole di educazione
sanitaria per cittadini-consumatori.
Scopo:
– far sì che i cittadini facciano buon uso dei servizi sanitari e siano consapevoli
dei propri diritti;
– non sollecitino i medici a
prescrizioni irrazionali
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Slow medicine
sotto la pressione consumistica dei media;
– acquisiscano un salutare
senso critico, conoscendo
anche limiti, eventuali rischi e costi dei trattamenti
e delle indagini proposte e
le alternative disponibili,
senza porsi in maniera
passiva nei confronti di
ogni prescrizione e proposta sanitaria;
– conoscano elementi fondamentali di autogestione
della propria salute e abbiano migliori strumenti
per metterli in pratica.
Tra i risultati
Quali aspetti fast si propone
di superare:
– La “qualità” ambiguamente
intesa, senza riferimenti ai
valori di fondo che la legittimano: efficacia e “appropriatezza clinica”, governo
dei costi/equilibrio economico del sistema, soddisfazione dei destinatari.
– I “sette veleni” (Bonaldi).
– L’ottavo veleno, che sottende gli altri, concorre a generarli e tende a perpetuarli: l’allineamento dei sistemi premianti (in senso lato: modelli di finanziamento delle organizzazioni e di
remunerazione dei professionisti, status / appartenenza, prestigio / criteri di
successo / autorealizzazione) di quasi tutti gli attori
in sanità con la malattia,
anziché con la salute (es.:
pagamento a prestazione
per diagnosi/cura di malattie, diagnosis of disease!)
RG, disease management/
chronic (disease!) Related
Groups (CReG), disease staging, prezzi per farmaci, libera professione (pagata a
N. 191 - 2012
prestazione) incentivi per
quantità di output/prestazioni…).
L’interesse della maggior
parte degli attori si divarica sempre più dalla salute,
fino a entrare in conflitto
con la salute.
Per superare l’“ottavo veleno” si propone per gli attori in sanità un sistema premiante / di remunerazione
per risultati (compre-hensive!) in termini di salute e
per “livelli di risultato” (=
sistema di remunerazione
che allinea gli interessi degli erogatori alla longevità
sana degli assistiti).
Parole chiave slow: uso appropriato delle risorse, rispetto
della persona, della sua autonomia e dei suoi valori, Patient centered EBM, empowerment dei cittadini, soluzioni
win-win.
4. Formazione in Rete informale e didattica d’aula
(FRIDA)
[Marco Clerici]
Descrizione
È un progetto di formazione
continua per medici di Medicina generale, iniziato nel
2010 a cura della Scuola di
formazione specifica in Medicina generale di Trento, che
cerca di implementare, attraverso l’analisi critica e collettiva della letteratura scientifica emergente, la consapevolezza dei medici di famiglia
trentini che i contenuti, i
modi di presentazione della
ricerca medica non sono di
per sé neutrali, ma spesso
pongono questioni e producono indicazioni che rispondono a priorità altre rispetto
al vero interesse del paziente.
Servizi e professionisti coinvolti
La struttura di FRIDA è pensata per 3 livelli di partecipanti:
– i membri della “redazione”,
4 medici di Medicina generale e 5 specializzandi, che
selezionano criticamente i
principali studi clinici apparsi settimanalmente sulle principali riviste mediche e li pubblicano sul sito
web della scuola;
– tutti i medici di Medicina
generale lettori del sito
web (www.scuolamgtn.it)
che scelgono gli argomenti
ritenuti più meritevoli di
approfondimento;
– i medici di Medicina generale (30 per seminario)
partecipanti a periodici seminari, che discutono gli
argomenti scelti (dagli
utenti del sito web) e definiscono una posizione
condivisa (position paper)
da pubblicare successivamente sul sito web della
scuola.
Obiettivi slow del progetto:
– creare una comunità di
pratica che elabori posizioni comuni dei medici di
famiglia per una pratica
medica prudente nell’uso
dei mezzi diagnostici e dei
farmaci, basata sulle prove
di efficacia e rispettosa
delle scelte dei malati, ma
anche dell’esigenza dei sani a non essere medicalizzati oltre un ragionevole e
condiviso rapporto costo/beneficio;
– costruire progressivamente risorse di conoscenza,
proposte per la condivisione di tutta la comunità dei
medici di famiglia del
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Trentino, che hanno una
precisa connotazione di
stile e di contenuto definibile come slow;
– fino ad ora sono stati pubblicati sul sito web della
scuola due “position paper”
di orientamento condiviso
rivolto ai medici di Medicina generale: sullo screening
mammografico nella donna
giovane, sull’ approccio del
medico di Medicina generale al malato di cancro. A
breve ne verrà pubblicato
uno sugli esami alla donna
in gravidanza.
Quali aspetti fast si propone di
superare: l’abbassamento continuo dei livelli soglia di malattia, “il rischio di…” considerato malattia, “fare tutto il
possibile”, la politerapia come
somma aritmetica…
Parole chiave slow: quantificare con il paziente i rischi e i
benefici di ogni scelta di diagnosi e cura, “fare quello che
ha senso”, la qualità della vita
come outcome primario, la terapia come piano condiviso e
individualizzato…
Cosa sembra emergere di
slow…
– Un freno alle spinte alla
medicalizzazione di fasce
sempre più ampie di cittadini, amplificando le evidenze che disegnano una
Medicina più attenta ai diritti di salute complessivi
dei malati, ma anche dei
sani.
– Alcune categorie concettuali trasversali quali l’attenzione agli effetti negativi a lungo termine delle
terapie e degli esami diagnostici e la critica all’iper-prescrizione di farmaci
e controlli nei malati a
basso rischio di gravi complicanze.
5. Reali e necessarie indicazioni alla diagnostica per
immagini che siano di vero
giovamento al medico e al
paziente
[Piero Cecchetti, Giulia Marta
Barelli (giuliabx@hotmail.
com), Stefano Fedeli, Stefano
Carafa (Radiologia Ospedale S.
Camillo, Roma)]
Descrizione
Evitare l’abuso di esami radiografici attraverso un accordo tra medici curanti e
specialisti radiologi circa la
corretta indicazione alle indagini.
Coinvolti
Specialisti radiologi, MMG,
altri specialisti.
Per quanto riguarda un accordo che calcoli la valutazione
della richiesta del medico curante per l’esecuzione dell’indagine e quanto sia possibile
al medico radiologo di dare
corso all’esame, si ritiene che
potrebbero essere adottate
delle regole comuni e da tutti
accettate:
1. Il medico radiologo dovrebbe categoricamente
richiedere prima dell’esecuzione dell’indagine un
preciso quesito diagnostico. Più del 50% di richieste di esami diagnostici
per immagini non riportano un quesito diagnostico.
Siamo in possesso di numerosissime richieste di
indagini di RX del torace
che al posto del quesito
diagnostico riportano la
dicitura “in due proiezioni”. Molti esami dell’apparato digerente riportano
quale quesito generico
“difficoltà alla digestione”
quando molto spesso il paziente ha calcoli alla cistifellea o altro.
Sarebbe opportuno che i
medici radiologi riacquistassero la loro posizione
di medici impostando il tipo di indagine dopo un attento esame del paziente e
eseguissero quelle veramente utili in accordo con
il medico curante.
2. I medici generici o specialisti che richiedono le indagini dovrebbero conoscere meglio le formidabili
possibilità della diagnostica per immagini e concordare con il medico radiologo quali siano le più utili
caso per caso. La telemedicina può essere un formidabile mezzo di comunicazione a distanza ma non
dovrebbe assolutamente
allontanare lo stretto rapporto di notizie fra paziente, medico curante e
radiologo.
3. Un’accurata anamnesi e un
attento studio della sintomatologia dovrebbero essere la guida al buon senso
necessario alla precisa ricerca diagnostica evitando
il più possibile l’esposizione inutile alle radiazioni.
4. Refertazione: molte volte
la refertazione o è prolissa
o troppo stringata senza
sottolineare i dati più importanti che giovano al paziente e al curante.
Riteniamo che per un accordo
perfetto tra medico curante e
radiologo si intenda una collaborazione più stretta e che
soprattutto il medico radiologo sia sempre presente alla
discussione.
Obiettivi slow: riduzione dei
costi relativi a pratiche inappropriate, riduzione dei danni iatrogeni, superare gli
steccati tra diverse specialità
e professionalità e lavorare
davvero in gruppo con un approccio e una pratica multidisciplinare.
Aspetti fast da superare: efficientismo, inappropriatezza,
resistenze al cambiamento.
Parole chiave slow: uso appropriato delle risorse, ridare valore all’anamnesi e all’esame obiettivo del paziente,
ridurre danni iatrogeni, lavoro di gruppo, multidisciplinarietà.
6. Slow medicine & fast
track: paradosso?
[Maurizio Calzini, Daniela
Passeri, Daniela Ranocchia]
Descrizione
La Chirurgia fast track combina varie tecniche chirurgiche
e perioperatorie (Anestesia,
Chirurgia mini invasiva, nutrizione e riabilitazione precoci) al fine di ridurre i tempi
di degenza ospedaliera e favorire una precoce ripresa
delle normali attività.
Coinvolti
Personale medico ed infermieristico dell’UOC di Chirurgia e personale infermieristico Cure domiciliari Distretto
del Trasimeno, MMG dell’area
del Trasimeno.
Obiettivi slow: Assicurare al
paziente trattato in fast track
surgery un appropriato percorso perioperatorio e una dimissione protetta a domicilio
senza ridurre sicurezza e qualità delle cure.
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Umanizzare il percorso e rispettare il malato e la famiglia fornendo informazioni,
educazione, counselling e riferimenti assistenziali appropriati per promuovere la sicurezza e appropriatezza della
cura/assistenza a domicilio.
Parole chiave slow: uso appropriato delle risorse, attenzione alla relazione con pazienti
e familiari, empowerment dei
pazienti, collaborazione tra i
professionisti in Ospedale e
tra quelli dell’Ospedale e
quelli del territorio.
7. Posizionamento di cateteri venosi centrali ad impianto periferico in pazienti da trattare a domicilio
[Marinella Ciarlo]
Descrizione
Posizionamento di cateteri
venosi centrali ad impianto
periferico eseguito prevalentemente da infermieri, anche
bed side e a domicilio rivolto
prevalentemente a pazienti
anziani e cronici.
Coinvolti
Medici ed infermieri del Servizio di Anestesia e rianimazione dell’Ospedale di Aosta;
medici ed infermieri del territorio della Valle d’Aosta;
pazienti a domicilio e le loro
famiglie.
Questi cateteri rappresentano una via venosa d’accesso
meno invasiva e meno soggetta a complicanze iatrogene rispetto alla classica vena
centrale e permettono di assicurare terapie endovenose,
idratazione e nutrizione artificiale a pazienti a domicilio, evitando ospedalizzazioni inappropriate. Dalla fine
del 2009 ne sono stati im-
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piantati 1500, di cui 750 nel
2011.
Grazie al loro utilizzo è migliorata la comunicazione tra
i professionisti dell’Ospedale
e quelli del territorio; inoltre
questi ultimi e i familiari dei
pazienti hanno acquisito
maggiore autonomia e un
ruolo più attivo nella cura del
paziente. Gli operatori del
territorio, spesso ubicati nelle Valli laterali e quindi a distanza dall’Ospedale, possono
comunque contare su un numero telefonico dedicato al
PICC TEAM (al quale risponde
sempre uno degli operatori
del team) per risolvere eventuali problemi.
Obiettivi slow: uso appropriato delle risorse, riduzione dei
costi complessivi, riduzione
dell’ospedalizzazione migliorando la qualità di vita dei
pazienti, riduzione delle
complicanze legate ai cateteri centrali.
Aspetti fast da superare: visione a breve termine nella
valutazione dei costi, barriere
comunicative tra Ospedale e
territorio, resistenze al cambiamento.
Parole chiave slow: appropriatezza, ridurre danni iatrogeni, lavoro di gruppo, multidisciplinarietà, qualità di vita
dei pazienti, visione a mediolungo termine nella valutazione dei costi.
8. Accoglienza delle crisi
iperventilatorie al triage
del pronto soccorso
[Franca Castellino con: Olivia
Cerrina, Fabrizio Ines, Cristina Mandrile, Ugo Rovere, Marina Porfido, Valentina Rosso,
Nadia Somale]
Descrizione
“Se c’è un posto di lavoro
umano che può assomigliare
a un alveare, questo è, sicuramente, il Pronto Soccorso di
un grande Ospedale”.
Il triage è davvero una posizione centrale del Pronto Soccorso, a cui tutti, dall’esterno
e dall’interno, fanno riferimento.
La relazione che si stabilisce
tra infermiere e utente è di
Fig. 2
primaria importanza.
L’accoglienza e il triage degli
utenti che iperventilano sono
un bel banco di prova: oltre
alle competenze tecniche l’infermiere deve mettere in atto
tutte le abilità relazionali che
possiede, per ottenere una
buona compliance con l’utente, che consenta di gestire
adeguatamente la situazione.
Parole chiave
– accogliere il disagio dell’utente (ascoltare attivamente e credergli!),
– essere presenti fisicamente
accanto all’utente,
– verificare e non sottovalutare (parametri vitali),
– spiegare cosa sta succedendo,
– restituire una normalizzazione (non etichettare),
– coinvolgere e prendere in
considerazione gli accompagnatori.
Rallentare
Il paziente in crisi iperventilatoria ha un bisogno fondamentale: qualcuno competente stia al suo fianco e con
calma gli spieghi cosa sta
succedendo.
Coinvolti
Infermieri di Pronto Soccorso
(Ospedale di Cuneo), pazienti
in crisi iperventilatorie.
Obiettivi slow:
– utilizzare “il rallentamento” attraverso la comunicazione professionale per aiutare il paziente a gestire
una crisi iperventilatoria,
– utilizzare “la normalizzazione” come rassicurazione e incentivazione all’autogestione di crisi iperventilatoria,
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– lavorare alla self efficacy
(deutoapprendimento) dell’utente.
Aspetti fast da superare:
– i ritmi mediamente presenti in un Pronto Soccorso rendono difficile trovare
uno spazio, prima di tutto
mentale, per ricavare un
“tempo buono abbastanza” da poter parlare ed
ascoltare la persona,
– evitare etichettamento
“psico” della persona,
– evitare inappropriato accesso ripetuto in Pronto
Soccorso.
Parole chiave slow:
– attenzione alla storia dell’altro,
– ascolto efficace anche in
tempo a disposizione ridotto,
– attenzione e coinvolgimento dell’eventuale accompagnatore,
– parole che curano e non
solo effetto placebo,
– sobrietà:
• tenuta sotto controllo
dell’utilizzo delle risorse a disposizione,
• tenuta sotto controllo
da parte dell’operatore
delle proprie cornici e
proprie emozioni.
9. Diario di viaggio per famiglie e bambini/adolescenti che si apprestano ad
affrontare l’insufficienza
renale cronica
[Maurizio Gaido]
Descrizione
Diario di viaggio per famiglie
e bambini/adolescenti che si
apprestano ad affrontare l’insufficienza renale cronica:
strumento informativo dinamico e personalizzato per la
famiglia e il bambino/ragazzo, partendo dalle necessità
espresse dai bambini/ragazzi
e dalle loro famiglie.
Coinvolti
Infermieri di SC Nefrologia,
dialisi e trapianto del Presidio ospedaliero infantile Regina Margherita di Torino;
bambini/adolescenti e le loro
famiglie.
Obiettivi slow:
– mettere al centro la famiglia con il bambino/ragazzo (person focused care),
– aumentare la consapevolezza sugli effetti della
malattia cronica nella quotidianità,
– incrementare il coinvolgimento attivo della famiglia
e del bambino nella gestione del percorso diagnostico e terapeutico,
– facilitare l’inserimento
della malattia cronica nel
proprio progetto di vita,
– fornire supporto all’autocura: aiutare i ragazzi e le
loro famiglie ad acquisire
abilità e fiducia nella gestione della malattia, procurando gli strumenti necessari e valutando regolarmente i risultati e i
problemi.
– l’informazione finalizzata
al consenso.
Quali aspetti fast si propone
di superare:
– la cura centrata sulla malattia (disease focused care),
– la dipendenza dal Centro,
– la sopravvivenza passiva,
Parole chiave slow: cura centrata sul paziente e sulla famiglia, ascolto, coinvolgimento, condivisione, consapevolezza, autodeterminazione, resilienza.
Fig. 3
Fig. 4
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Giuliana Masera
Infermiera - Docente di Discipline
demoetnoantropologiche,
Università degli Studi di Parma
[email protected]
N
ella professione infermieristica il prendersi
cura ha sempre rivestito un ruolo importante. Molte
infermiere ritengono che la
cura sia centro e fondamento
della loro professione (Watson, Leininger, Benner) la
considerano come l’essenza o
come la sostanza ontologica
della professione, come il suo
ideale morale, il modo d’essere umano e il valore che sta a
fondamento. Su di essa va costruita ogni teoria della professione d’infermiera.
Sin dall’origine della mitologia e nell’antichità, la cura
aveva almeno due diversi sistemi di connotazione:
– da una parte veniva intesa
come preoccupazione, difficoltà, ansia,
– dall’altra come un “dare all’altro” o “fare per l’altro”.
Oggi la cura ha connotazioni
non solo di preoccupazione,
compassione, ansietà e fardello, ma anche elementi che segnalano l’inclinazione, l’affetto, l’impegno dei confronti di
una persona (advocay) di un
ideale o di una causa, la risposta sensibile alla situazione
dell’altro (Benner, Watson).
Esistono quindi due sensi
fondamentali in cui la cura è
agita dall’infermiere:
– il primo implica una risposta emotiva, cioè preoccupazione per l’altro, enfasi
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Parole per una cura
slow
sulla relazione e sul legame, e capacità di risposta
ai bisogni di colui di cui ci
si prende cura,
– il secondo mette al centro
l’occuparsi dell’altro o il
provvedere ai suoi bisogni.
La cura intesa nel primo senso non si occupa di compiti o
processi, ma è un modo d’essere, una virtù, un atteggiamento verso l’oggetto delle
proprie attenzioni; è in sostanza il come e non il cosa
della cura ed una cura slow
non può che investire su questa modalità di azione.
La crisi della Medicina e delle
Scienze infermieristiche, in
questo nuovo millennio, secondo il pensiero di Jean
Watson, teorica dell’Infermieristica americana, sembra
avere radici nella mancanza
di filosofia adeguata alla natura della professione: è necessario, per l’autrice, scavare
per ricercare il mondo interiore, esplorare l’umanità,
scoprire la vera causa della
crisi di identità che la professione sta attraversando in
questo periodo della storia.
L’Infermieristica è cresciuta
molto in competenze tecnologiche e quindi ci si trova
ora di fronte alla necessità di
ripristinare le competenze
ontologiche che non si sono
approfondite con la stessa intensità. Queste ultime infatti
Le qualità essenziali per cercare
una vera relazione di cura insieme al personale
infermieristico
non solo sono essenziali per
la maturità degli infermieri,
ma addirittura fondamentali
per una professione di aiuto.
È dentro i profondi luoghi e
silenzi dell’anima, per l’autrice americana, che è possibile
ritrovare le proprie radici, le
proprie tradizioni filosofiche.
gli ideali che ispirano e che
hanno ispirato la professione.
È possibile diventare nuovamente veri strumenti di cura,
tornando ai fondamenti etici
che valorizzano il servizio all’umanità.
Ripensare quindi le possibilità
espressive relazionali come
momenti di cura fondamentali con l’assistito e la sua famiglia o i suoi care giver costituisce un punto di partenza
imprescindibile che apre al
confronto ed allarga lo sguardo sui cambiamenti avvenuti
e quelli in divenire all’interno
della professione e nel rapporto con altri professionisti.
Il tempo
La lievitazione del potere dell’uomo sulla malattia in virtù
del grandioso sviluppo della
Medicina e contemporanea-
mente la lievitazione del potere della malattia sull’uomo
costituiscono due condizioni,
secondo Angelini, caratterizzanti la condizione di malattia oggi. Lo sviluppo macroscopico delle risorse cliniche,
del sapere scientifico, provoca
una dipendenza crescente del
malato dall’apparato sanitario, e l’esperienza personale
ne rimane mortificata, il paziente si affida all’apparato
tecnico e perde di vista il
tempo della malattia dell’infermità, come un tempo che
lo costringe a rivedere pensieri, progetti, modi di sentire e
di vivere i rapporti sociali.
Alcune malattie sono dovute
ad agenti esterni: una frattura, un’infezione, un trauma,
che si risolvono con relativa
facilità e rapidità, in questi
ultimi anni attraverso l’utilizzo dei farmaci, alcune malattie si cronicizzano, e la cronicizzazione rende meno sicura
la distinzione tra tempo della
salute e tempo della malattia. La vita non è per sempre
e ha bisogno di essere vissuta
con la consapevolezza che non
si può fermarla all’infinito.
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Chi si trova a vivere una condizione di malattia ha bisogno di dialogo, immagini,
modelli, opportunità di confronto, “di risorse simboliche”, che nella società contemporanea sono diventate
sempre più improbabili e rare
e tentare di portare alla luce
la complessità e la densità
antropologica del vissuto di
malattia costituisce un’occasione di riflessione importante che un approccio slow può
contribuire a portare.
Il silenzio
Il silenzio è espressione di
emozioni, conoscenze, pratiche riflessive a sostegno della
cura, ed il curato ha tutto il
diritto di rivendicare momenti di solitudine: una dimensione in cui egli possa sperimentare l’opportunità di ripensare la propria condizione
e il proprio modo di essere
malati.
La malattia, e più in generale
la cura per la sempre incerta
salute, assume oggi mediamente nella vita di ogni persona un rilievo crescente. Pare
riservato proprio alla malattia
il compito di riproporre la
“grande questione” che da
sempre l’uomo è per sé stesso
così come Agostino nelle Confessioni sentenzia “factus
eram ipse mihi magna quaestio” (Confessiones, 1. IV 4.9).
Di essere una grande questione l’uomo e la donna contemporanei paiono scoprirlo solo
in occasione della malattia.
Il silenzio e la solitudine (il
saper stare da soli) favoriscono l’assunzione del senso di
continuità del proprio sé anche in condizioni di dolore e
di sofferenza consentendo
una presa di contatto con la
propria interiorità.
Il diritto alla solitudine è
complementare, e per nulla
dissonante, rispetto alla capacità di instaurare relazioni
significative.
L’ascolto
L’ascolto è un processo complesso che richiede intenzionalità e disponibilità, conoscenza di sé e della propria
visione del mondo, e capacità
di riconoscersi reciprocamente in una relazione senza
confondersi o sovrapporsi.
Resistere alle distrazioni è
probabilmente l’abilità più
importante nell’ascoltare perché ci saranno sempre tante
cose che avvengono intorno a
noi e non facilitano il compito di ascoltare.
Un primo passo verso la comprensione dell’altro, suggerisce Marianella Sclavi, antropologa, consiste nel saper decifrare i propri pensieri e i
propri sentimenti, nell’esser
fedeli a sé stessi e nel saper
esattamente quel che vogliamo esprimere.
L’ascolto autentico implica il
passaggio da un atteggiamento del tipo “giusto/sbagliato”, ad un altro in cui si assume che l’interlocutore è intelligente e che dunque bisogna
mettersi nelle condizioni di
capire com’è che comportamenti ed azioni che ci sembrano irragionevoli, per lui
sono totalmente ragionevoli e
razionali. “Un buon ascoltatore”, ricorda sempre la Sclavi
nel suo libro Arte di ascoltare
e mondi possibili, “è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui
sono quelli che si presentano
alla coscienza come al tempo
stesso trascurabili e fastidiosi
marginali e irritanti perché
incongruenti con le proprie
certezze”. Chi svolge un lavoro di cura ha bisogno di interrogarsi sulla forza dei sentimenti e delle emozioni, per
risignificare il corpo non solo
come portatore di una patologia, ma di un luogo in carne
ed ossa dove emozioni sentimenti e pensieri si intrecciano
continuamente.
L’esserci
Il coraggio di mettersi in gioco in prima persona nella formazione e nell’apprendimento legittima e consolida l’idea
per cui il principale strumento di lavoro dei professionisti
della cura è il proprio esserci,
prima delle cose che si sanno
o si fanno. Non si possono
cercare al di fuori di noi stessi “procedure” per rendere
più efficace la relazione di
cura, è fondamentale scoprire
dentro la propria esperienza
le risorse di cui si ha bisogno
e le modalità più consone. Si
parte sempre da sé, non da
qualcosa di estraneo e lontano, ma dall’ascolto di ciò che
appartiene profondamente al
soggetto e dall’intreccio della
dimensione professionale e
personale, che inevitabilmente si sovrappongono e si sostengono. Questa “operazione” è possibile soltanto se ci
si pone al centro del processo
di conoscenza. Gli operatori
elaborano un sapere quando i
gesti compiuti, le scelte fatte
sulle storie ascoltate sono illuminate dal pensiero e dalla
riflessione.
Il rispetto
Rispetto e riconoscimento costituiscono due atteggiamenti fondamentali per arrivare
ad un percorso di reale e concreta accettazione dell’altro.
Richard Sennet, sociologo
americano, sostiene che l’amore di sé e la stima di sé nascono dalla fiducia nelle proprie capacità personali, dalla
percezione quotidiana che si
è rispettati per quello che si è
e solo dal rispetto di sé può
nascere il rispetto verso l’altro di cui accettiamo la diversità così come questi accetta
la nostra. La società secondo
Sennet ha tre modi per modellare un carattere portando
l’individuo a meritare rispetto o a non ispirarne affatto.
IL primo modo avviene attraverso la crescita personale in
particolare sviluppando abilità e competenze, il secondo
modo consiste nella cura di
sé, il terzo modo di meritare
rispetto è quello di darlo agli
altri.
Rispetto non è né timore né
terrore, esso denota nel vero
senso della parola (“respicere“, guardare) la capacità di
vedere una persona com’è, di
conoscerne la vera individualità. Rispetto significa desiderare che l’altra persona cresca
e si sviluppi per quello che è.
Il rispetto perciò esclude lo
sfruttamento; voglio che la
persona amata cresca e si sviluppi secondo i suoi desideri
secondo i suoi mezzi e non allo scopo di servirmi (Fromm).
Rispetto quindi come capacità
di vedere una persona così
com’è, di conoscerne la vera
individualità. IL rispetto autentico orienta verso una conoscenza realizzata attraverso l’esperienza e l’intelligenza
di ciascuno. Ed ognuno a seconda delle proprie capacità,
può sperimentare nei contesti
in cui vive un rispetto che sia
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prima di tutto attenzione ai
bisogni fondamentali dell’altro. Per coloro che si occupano di professioni legate alla
cura il rispetto può tradursi in
capacità di accoglienza e sospensione del giudizio al fine
di conoscere meglio la persona nella situazione che si va
delineando. In ambito sanitario per esempio conoscere
meglio la persona in un determinato contesto è fondamentale a fine terapeutico perché
consente di capire la vera natura del problema.
Strettamente collegato al tema del rispetto vi è quello del
riconoscimento. Per riprendere le parole di Charles Taylor:
“un riconoscimento adeguato
non è soltanto una cortesia
che dobbiamo ai nostri simili,
è un bisogno umano vitale”. Il
non riconoscimento o misconoscimento può danneggiare,
può essere una forma di oppressione che imprigiona una
persona in un modo di vivere
falso, distorto e impoverito.
La scoperta
Emozioni e sentimenti rivestono un ruolo fondamentale
nel vivere una relazione di
aiuto autentica, ci fanno conoscere cosa ci sia nel cuore e
nell’immaginazione degli altri-da-noi. Le emozioni sono
tante, ma l’elemento comune
a ciascuna di esse è il fatto
che ci portano fuori dai confini del nostro io e ci mettono
in contatto con il mondo delle cose e delle persone portandoci a scoprire anche nelle
piccole cose dettagli a volte
impercettibili ma importanti
nel percorso di cura.
Non esiste relazione che non
sia mediata dal linguaggio
anche corporeo delle emozioni: dalla possibilità di guardarsi in volto e di scambiarsi
una stretta di mano, a quella
di sorridere e di accompagnare la parola con un gesto che
ne dilati i significati.
La conoscenza emozionale
(conoscenza intuitiva) non è
la conoscenza discorsiva (co-
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N. 191 - 2012
noscenza razionale); le ragioni del cuore pascaliane non
sono le ragioni della raison
calcolante e il sapere dei sentimenti non è da porre in
contrasto con il sapere della
ragione. Le emozioni costituiscono modalità comunicativa importante, ci consentono di vedere e scoprire attraverso il loro linguaggio sfumature e tonalità altrimenti
non dicibili (cfr. il linguaggio
del pudore e della vergogna).
La speranza
Infondere speranza in situazioni di sofferenza, disagio,
inadeguatezza e dipendenza
costituisce per le professioni
di cura una disposizione fondamentale del proprio riflettere ed agire. La forza terapeutica della speranza forse
non è stata ancora misurata
scientificamente, promuoverla però attraverso gesti intessuti di umanità, pazienza,e
competenza aiuta i destinatari della cura a non sentirsi
soli, abbandonati. La speranza costituisce la cifra della
compagnia: ci sono e sono qui
accanto a te, non devi avere
paura. La speranza apre alla
fiducia e alla prospettiva di
un futuro; qualsiasi futuro la
vita ci riservi.
La speranza costituisce il respiro profondo della vita;
sentimento capace di generare movimento, dinamicità,
circolarità, sospingendoci
verso ulteriori forme di esistenza. Per imparare a coltivare il desiderio di esserci è
necessario poter respirare un
clima impregnato di speranza. La speranza, per usare le
parole di Luigina Mortari pedagogista italiana, come anche la fiducia, “non è cosa
che si insegna, non si trasmette come si trasmette un
sapere codificato, si aiuta
l’altro ad aprirsi a questo
sentimento quando lo si incarna, quando si testimonia
concretamente il coraggio di
sperare”.
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Guido Giustetto
Medico di famiglia
Vice presidente Ordine medici
chirurghi e odontoiatri
della Provincia di Torino
Q
uesto intervento verte
su come una delle declinazioni del concetto
di cure giuste, e cioè l’accessibilità alle cure per i cittadini svantaggiati, fragili e per i
non-cittadini sia presente nei
documenti della deontologia
e dell’etica medica (Codice
deontologico, giuramento
professionale e recente Carta
europea di etica medica) e su
come un Ordine professionale
possa adoperarsi per rendere
operativi tali principi.
Nel Codice di deontologia medica del 2006 diversi articoli
trattano il tema dell’uguaglianza degli uomini nell’accesso alle cure. L’art. 3, che
definisce i doveri del medico,
stabilisce che “dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà
e della dignità della persona
umana, senza distinzioni di
età, di sesso, di etnia, di religione, di nazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in
tempo di pace e in tempo di
guerra, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali
nelle quali opera…”.
È rilevante che in questa definizione si usino i termini uomo e persona e non cittadino,
per sottolineare il fatto che il
diritto alla salute e alla sua cu-
Cure giuste per tutti
ra c’è comunque per tutti, non
è conseguenza dell’avere una
residenza o essere membro di
una comunità nazionale.
L’art. 3 del Codice di deontologia è in qualche modo una
specificazione dell’art. 32
della Costituzione: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della
collettività e garantisce cure
gratuite agli indigenti.”
L’art. 32 offre molti strumenti
per la difesa della salute dei
più deboli a partire dall’uso
dell’aggettivo “fondamentale”, che, nella Costituzione,
compare solo a proposito del
diritto alla salute, per sottolineare come questo sia posto a
fondamento e sia prioritario
rispetto ad altri. In un tempo
di riduzione degli investimenti sociosanitari da parte
dello Stato, questo aggettivo
indica anche una gerarchia di
priorità: per esempio in una
teorica competizione tra diritto alla salute, all’istruzione
o alla sicurezza, il primo dovrebbe essere quello a subire i
minori disinvestimenti.
Un secondo punto rilevante
dell’art. 32 è la garanzia della
gratuità delle cure per gli indigenti: in Italia la Caritas ha
stimato che nel 2010 essi fossero 8.272.000 di cui
3.380.000 con necessità di
assistenza alimentare. Ma
Il Codice di deontologia medica
l’indigenza cui fa riferimento
questo articolo è anche quella relativa, quella cioè che riguarderebbe tutti noi se dovessimo pagare personalmente e direttamente, senza la
copertura del Servizio sanitario nazionale, un intervento
chirurgico complesso o una
terapia cronica con farmaci
biologici.
L’art. 6 del Codice di deontologia medica tratta specificamente il tema dell’uguaglianza nelle opportunità di accesso: “Il medico agisce secondo
il principio di efficacia delle
cure nel rispetto dell’autonomia della persona tenendo
conto dell’uso appropriato
delle risorse.
Il medico è tenuto a collaborare alla eliminazione di ogni
forma di discriminazione in
campo sanitario, al fine di garantire a tutti i cittadini stesse opportunità di accesso, disponibilità, utilizzazione e
qualità delle cure”.
L’art. 32 richiama i doveri del
medico nei confronti dei soggetti fragili:
“Il medico deve impegnarsi a
tutelare il minore, l’anziano e
il disabile, in particolare
quando ritenga che l’ambiente, familiare o extrafamiliare,
nel quale vivono, non sia sufficientemente sollecito alla
cura della loro salute, ovvero
sia sede di maltrattamenti fisici o psichici, violenze o
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abusi sessuali, fatti salvi gli
obblighi di segnalazione previsti dalla legge”. Un aggiornamento del Codice dovrebbe
prevedere, a questo proposito, un esplicito riferimento
agli stranieri immigrati.
Infine, l’art. 51 definisce gli
obblighi del medico nei confronti dei soggetti cui è stata
limitata la libertà:
“Il medico che assista un cittadino in condizioni limitative
della libertà personale è tenuto al rispetto rigoroso dei diritti della persona, fermi restando gli obblighi connessi
con le sue specifiche funzioni.
In caso di trattamento sanitario obbligatorio il medico
non deve richiedere o porre
in essere misure coattive, salvo casi di effettiva necessità,
nel rispetto della dignità della persona e nei limiti previsti dalla legge”.
Al medico, nel caso dei carcerati, dovrebbe anche essere
affidato un compito di tutela:
in questi primi undici mesi
del 2011 ci sono stati 59 suicidi nelle carceri e almeno 2
morti sospette di violenza da
parte delle Forze dell’ordine.
Il giuramento professionale
Nel testo del giuramento che i
medici compiono all’atto di
iscrizione all’Ordine professionale, in almeno quattro punti
sono richiamati i princìpi di
uguaglianza, solidarietà, non
discriminazione che compaiono nel Codice di deontologia
medica. Il medico appena
iscritto, infatti, giura:
– “….di esercitare la Medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento rifuggendo da
ogni indebito condizionamento;
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– di curare ogni paziente con
eguale scrupolo e impegno,
prescindendo da etnia, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia
politica e promuovendo l’eliminazione di ogni forma
di discriminazione in campo sanitario;
– di attenermi nella mia attività ai principi etici della
solidarietà umana contro i
quali, nel rispetto della vita e della persona, non
utilizzerò mai le mie conoscenze;
– di prestare assistenza d’urgenza a chi ne abbisogni e
di mettermi, in caso di
pubblica calamità, a disposizione dell’autorità competente…”.
È importante sottolineare il
richiamo all’indebito condizionamento, che può essere
inteso nelle sue varie componenti: dall’influenza dell’industria dei farmaci e degli apparecchi biomedicali, al conflitto di interesse, alle limitazioni poste dalle direttive
delle istituzioni sanitarie.
A questo proposito la Corte di
Cassazione ha stabilito con la
sentenza n° 1873/2010 che
non è consentito farsi condizionare dalla logica economica e anteporla alla logica della tutela della salute.
“… a nessuno è consentito di
anteporre la logica economica alla logica della tutela della salute, né di diramare direttive che, nel rispetto della
prima, pongano in secondo
piano le esigenze dell’ammalato. Mentre il medico, che risponde anche ad un preciso
compito deontologico, che ha
in maniera più diretta e personale il dovere di anteporre
la salute del malato a qualsia-
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si altra diversa esigenza e che
si pone, rispetto a questo, in
una chiara posizione di garanzia, non é tenuto al rispetto di quelle direttive,
laddove esse siano in contrasto con le esigenze di cura del
paziente e non può andare
esente da colpa ove se ne lasci condizionare, rinunciando
al proprio compito e degradando la propria professionalità e la propria missione a livello ragionieristico”.
La Carta europea di Etica
medica
La Carta europea di Etica medica, adottata nel giugno
scorso da 14 paesi del Consiglio europeo degli Ordini dei
medici (CEOM), si compone di
16 principi.
– Il Principio n° 1 stabilisce
che il medico difende la
salute fisica e psichica dell’uomo, dà sollievo dalle
sofferenze nel rispetto della vita e della dignità della
persona, senza alcun tipo
di discriminazione, di qualunque natura essa sia, in
tempo di pace come in
tempo di guerra.
– Il Principio n° 3 introduce
un concetto nuovo, molto
vicino a quelli della slow
medicine, quello di cure
essenziali: “il medico, senza discriminazione alcuna,
fornisce al paziente le cure
più essenziali ed appropriate”.
Sarebbe interessante discutere se questo termine possa
essere considerato un sinonimo di sobrio.
Sulla base di questi principi
etico-deontologici, che cosa
fanno gli Ordini dei medici
per garantire un giusto accesso alle cure?
La Federazione nazionale degli Ordini dei medici (FNOMCeO) ha messo in pratica questi principi, per esempio,
prendendo due ferme posizioni in favore dell’accesso alle
cure degli stranieri immigrati, sia quando fu proposto nel
2009 che il medico dovesse
denunciare i clandestini che
si rivolgono alle strutture sanitarie, sia quando la politica
dei respingimenti avrebbe
impedito di accogliere molti
migranti in fuga dai Paesi
arabi in guerra civile (2011).
“Qualora un medico dovesse
andare incontro ad una sanzione per mancata segnalazione di un immigrato non in regola con il permesso di soggiorno, il Comitato centrale
della FNOMCeO è pronto ad
ogni azione di affiancamento
e di sostegno al sanitario, sino
ad arrivare all’autodenuncia”.
La FNOMCeO nel maggio 2009
invitò i medici italiani ad appellarsi all’art. 22 del Codice
di deontologia e ai principi
del giuramento professionale,
esprimendo una Clausola di
scienza e coscienza, qualora
la norma che introduceva il
reato di immigrazione avesse
previsto, contestualmente,
l’obbligo di segnalazione del
reato (art. 361-362 del Codice
Penale).
Ogni medico può esprimere
una Clausola di scienza perché queste norme hanno un
ritorno negativo sulla tutela
della salute collettiva, rischiando di sottrarre patologie infettive e diffusive al
controllo delle strutture sanitarie pubbliche.
E può anche esprimere una
Clausola di coscienza, in ragione del fatto che tale previsione normativa si cala nella
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Slow medicine
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Relazione di cura, spogliando
il medico di quella funzione di
terzietà, accoglienza e solidarietà che, da sempre, e sino ad
oggi, ha caratterizzato la matrice civile sociale ed etica
della nostra professione.
Nel marzo del 2011, durante
le lotte della primavera araba, la FNOM e i Consigli nazionali dei medici francesi e
spagnoli sollecitarono le rispettiva autorità ad intensificare gli interventi di assistenza ai migranti in fuga
dalla guerra e a promuovere
azioni umanitarie per le vittime di azioni violente nelle
zone di conflitto.
L’Ordine dei medici di Torino
ha istituito una Commissione
di solidarietà, cui partecipano esponenti di molte organizzazioni di volontariato. La
Commissione ha suddiviso la
sua attività in tre aree di lavoro: la cooperazione sanitaria e solidarietà internazionale, l’immigrazione, e l’uguaglianza nell’accesso alle
cure (equity audit).
Tra i molti temi di cui la Commissione si è occupata, ne segnalo a titolo esemplificativo
tre.
Lingua veicolare: molti stranieri regolarizzati non padroneggiano la lingua italiana e
hanno difficoltà a comunicare con il medico di Medicina
generale. Presso gli uffici delle diverse ASL dove può essere effettuata la scelta del medico, non è indicato se questi
parli una lingua straniera e
quale: la Commissione ha sollecitato la possibilità che la
scelta del medico avvenga sapendo quale lingua straniera
questi parla.
Nel 2011 non è stato rinnovato, da parte dell’Assessorato
alla Sanità della Regione Piemonte, il protocollo d’intesa
con la Prefettura inerente l’esenzione ticket da parte dei rifugiati giunti in Italia in epoca antecedente al 1 gennaio
2011. Si è venuta pertanto a
creare una disparità con
quanti sono giunti in Italia a
seguito della dichiarazione di
emergenza umanitaria in Nord
Africa dell’aprile 2011 che ne
hanno invece diritto. Negare o
ritardare la conoscenza di un
referto, a causa del mancato
pagamento del ticket, potrebbe essere penalmente perseguibile se dalla mancata conoscenza del risultato dipendesse un ritardo o una minore efficacia dell’intervento medico.
La Commissione ha evidenziato alla Regione questo grave
lesione del diritto alle cure.
Nell’ambito dei rapporti di
collaborazione didatticoscientifica integrata tra Università italiane ed Università
di Paesi stranieri, la formazione specialistica può svolgersi anche in strutture sanitarie accreditabili o già accreditate in Paesi in via di sviluppo (PVS): il periodo trascorso all’estero può essere
riconosciuto come parte del
percorso formativo. La Commissione, ritenendo molto interessante e formativa tale
opportunità connotata da
una forte essenzialità del
rapporto di cura e da un importante coinvolgimento
umano, ha organizzato un
convegno per sensibilizzare
le Scuole di specialità ad intraprendere in maniera più
ampia questa strada.
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Carlo Petrini
Fondatore di Slow Food
Q
uando la nostra esperienza di slow food iniziò gli elementi sostanzialmente erano tre: il piacere giusto non è antagonista
alla salute, tanto che il sottotitolo del gruppo era “movimento internazionale per la
tutela e il diritto al piacere”.
Poi una rivalutazione antagonista a fast food, il recupero
del valore della lentezza,che
noi intendiamo un po’ come
una medicina omeopatica.
Abbiamo scelto il simbolo
della lumaca dandogli il valore del governo del limite. La
lumaca, infatti, costruisce la
sua casa in maniera concentrica, poi rafforza quel guscio
esile.
Definire insostenibile il nostro sistema alimentare è poco, la vera definizione sarebbe criminale.È iperproduttivistico per cui la Fao ci dice che
produciamo cibo per 12 miliardi di viventi, siamo 7 miliardi, 1 miliardo soffre di
malnutrizione, un miliardo e
700 milioni di patologie causate da ipernutrizione.
Anche nel settore sanitario
c’è uno spreco, una mercificazione, e tornare a mettere al
primo posto una visione non
settoriale, non riduzionistica,
un rapporto umano più forte,
è la base di un nuovo paradigma. L’interazione della
componente gastronomica
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Il riferimento
di Slow Food
con la Medicina è sempre stata forte.
Nell’ultimo secolo i medici interagiscono molto con la gastronomia perché quando
parliamo di stile di vita, di
modo di alimentarci parliamo
della salute delle persone.
Negli USA Obama si batte per
l’adozione di una Medicina
democratica, anche se questo
distruggerebbe il sistema alimentare americano basato sui
surgelati, il microonde ed il
televisore davanti al quale si
mangia. Fortunatamente negli USA stiamo assistendo ad
un cambiamento radicale dei
comportamenti individuali e
ad un nuovo orientamento
della Medicina che è più sensibile a una visione olistica.
La mercificazione del cibo è
sostenuta da investimenti
pubblicitari enormi che precedono quelli sui farmaci. Ecco come si crea una cultura,
un consumatore passivo.
C’è bisogno, in Medicina,di
pazienti meno succubi: devono collaborare direttamente
alla loro salute personale e
pubblica altrimenti non possiamo rivendicare questo totem della Medicina che ci deve risolvere tutto.
Nel rapporto tra cibo e Medicina la grande famiglia delle
multinazionali produce farmaci e i prodotti transgenici
per l’agricoltura. Non abbia-
I punti in comune tra una nuova cultura
del cibo e un modo diverso di praticare
la Medicina
mo ancora la coscienza di
quale disastro può generare
negli ecosistemi, quello che
si viene a generare nel contesto agricolo attraverso piante
geneticamente modificate. La
proprietà delle sementi è nelle mani di cinque multinazionali che producono anche
medicinali, danneggiando
l’ambiente con la complicità
di alcune Fondazioni mediche,che sostengono la non
nocività del cibo transgenico.
La vera malattia è questo sistema, questa logica perversa.
Medicina slow avrà una grande successo internazionale,
ma non strutturatevi troppo,
state leggeri, fate funzionare
la rete, gli scambi, la comunicazione, perché le strutture
che poi si burocratizzano uccidono l’anima.
“Terra madre” è una rete presente in 173 Paesi del mondo,
250 Università. Quando ci
chiedono come abbiamo fatto
a mettere in piedi questo gigante, rispondiamo che due
cose sono importantissime: la
prima è l’intelligenza affettiva
mentre siamo pieni di intelligenza razionale; la seconda,
che deve essere applicata nella costruzione di slow medicine, riguarda il principio di
un’austera anarchia. Viviamo
in un mondo complesso, la
complessità va affrontata anche veleggiando in queste situazioni e non c’è dubbio che
laddove l’austera anarchia dimostrerà di non avere capacità di fare rete, entrerà l’intelligenza affettiva che ci consoliderà, questo è l’elemento
forte di un movimento, che
non deve diventare né un partito né un sindacato. Deve
esprimere un punto di incontro a livello mondiale utilizzando anche le nuove tecnologie, valorizzando le esperienze positive, esercitare la critica e l’autocritica, questa è la
dimensione nuova della politica che molti non capiscono e
pensano ancora che strutturandosi in maniera classica
possano risolvere il problema
del cambiamento delle risorse.
Le cose molte volte cambiano
da sole, ha ragione Garmorin
quando afferma: questo accade, ad esempio, nel caso di
una comunità che va in giro
per il mondo e pratica già le
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buone scelte, particolarmente
importanti come i mercati
contadini che fanno slow medicine. Non c’è ancora la capacità di incidere sulla politica,
ma gli slow dovranno per forza
arrivare ed il terreno su cui si
vince è quello locale, agricoltura locale, economia locale,
sanità locale, Questo non significa essere tagliati fuori dal
mondo ma realizzare la demo-
crazia partecipativa anche dei
pazienti, dobbiamo lavorare
nel loro contesto, non all’esterno perché il metodo locale
è determinante per rafforzare
la democrazia partecipativa,
se non hai la capacità di coinvolgere le persone a livello locale hai sbagliato tutto. È il livello locale che farà ricostruire il tessuto e le idee, la loro
forza.
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Maurizio Marceca1,2,3
Maria Laura Russo1,2,4
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Il paziente straniero
1 Società italiana
di Medicina delle migrazioni
2 Sapienza Università di Roma Dipartimento di Sanità pubblica
e Malattie infettive
3 Medico, specialista in
Epidemiologia e Sanità pubblica
4 Sociologa
N
egli ultimi vent’anni, il
fenomeno crescente
della migrazione nel
nostro Paese di persone provenienti da tutte le aree del
mondo ha rappresentato, per
chi opera nei servizi sanitari
e nella relazione di cura, una
formidabile occasione di riflessione1.
Questo rimescolarsi della geografia umana, tra l’altro, propone ed invita ad assumere
uno sguardo, una modalità di
lettura, che sia in grado di
comprendere e recepire la
complessità, allontanandosi
dalle interpretazioni meccanicistiche e lineari. Come l’intreccio è molto più dei fili
che lo compongono, così l’analisi dei fenomeni non può
essere ricondotta ad un’unica
causa; alla pari, la presenza
di persone provenienti da altri luoghi compone un mosaico il cui senso non è riconducibile ai singoli tasselli che lo
formano: lingue, tradizioni,
culture, religioni… Ancor di
più, un unico elemento, come
il luogo dove si è nati o la cittadinanza dei propri genitori
– che oggi in Italia sostengono quel processo di differen-
ziazione che crea soggetti
differenti come “immigrati” e
“cittadini” – non può dirigere
e influenzare completamente
la lettura e l’esperienza delle
dinamiche relazionali in cui
siamo immersi.
Nell’ambito dei sistemi di cura, e in particolare nella relazione di cura, queste prospettive hanno innervato diverse
riflessioni, nel tentativo di
aggiungere elementi alla talvolta semplicistica lettura
dell’incontro con il migrante,
ridotto ad un binomio diversità/uguaglianza.
Le difficoltà percepite, reali o
ingrandite che siano, nella
relazione con l’“alterità”, si
incarnano nell’esperienza
quotidiana in elementi che
vanno dalle questioni legate
alle differenze linguistiche a
quelle vissute come riferibili
al retroterra valoriale e culturale. Troppo spesso si è invocata o utilizzata la mediazione linguistico-culturale come
unica (e sufficiente) risposta
del sistema salute per poter
incontrare e “soddisfare” pazienti con una storia migratoria alle spalle. Viceversa, riteniamo si tratti oggi di rifor-
Il rapporto di cura con persone di etnie diverse
come occasione di arricchimento personale
e professionale
mulare e rimodulare un approccio alla “salute” che consenta, garantisca e realizzi
una sistema di cura realmente inclusivo, capace di interagire con le diversità a molteplici livelli.
Lasciando da parte le pur rilevanti implicazioni ed analisi
di carattere organizzativo-gestionale, si sceglie qui di rileggere la “sfida” delle alterità nella salute e nell’assistenza adottando la chiave di
lettura del “rispetto”, cioè di
una dimensione maggiormente radicata in quei valori etico-giuridici, a partire da quello della dignità della persona
senza distinzioni e discriminazioni di sorta, fortemente
affermati dalla nostra Costituzione. Ciò nel tentativo di
“rovesciare” – pur incorporandola – quella impostazione
che vede, nell’incontro con
l’altro, solo un problema di
“governo della diversità”.
Non è raro, benché il più delle volte viene negato o rigettato, rintracciare in ambito
sanitario atteggiamenti e approcci che appaiono sostanzialmente polarizzati, che
oscillano, cioè, tra posizioni
che negano qualsiasi diversità e che, quindi, tendono a
“con-fondere” i soggetti, e
posizioni che tendono invece
a vedere nelle differenze –
quelle più apparenti e magari
mediaticamente enfatizzate –
delle diversità talmente lontane e incommensurabili da
considerarle come inesplorabili estraneità.
Nel Box 1 abbiamo elencato –
senza pretese di esaustività –
alcune delle caratteristiche
(attitudini e pratiche), che ci
appaiono come sostegni per
un approccio a una cura, a
una Medicina che possa, a nostro parare, essere riconosciuta e vissuta come “rispettosa”.
Si tratta di elementi non nuovi
1 Di particolare interesse è il patrimonio di esperienze sia di natura istituzionale che non istituzionale, che hanno trovato un luogo di espressione e
confronto all’interno della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM), società scientifica fondata nel 1990 e caratterizzata da una multiprofessionalità degli aderenti e da una multidisciplinarietà dell’approccio (cfr. www.simmweb.it).
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nella tradizione medica che,
forse, vanno in un certo qual
modo riscoperti, acquisiti
nuovamente o semplicemente
potenziati attraverso un percorso di consapevolezza e interiorizzazione. D’altronde,
nel novembre 2007, la Federazione nazionale dei medici
chirurghi e degli odontoiatri
(FNOMCeO) ha approvato il
Manifesto sul multiculturalismo in Medicina e Sanità, che
si apre con queste parole: “[la
FNOMCeO …] considera il
multiculturalismo e la molteplicità etnica proprie della società contemporanea quali
uno stimolo e una sfida che i
medici debbono affrontare
nello spirito etico della tradizione ippocratica e nel rispetto dei valori di uguaglianza e
universalità della nostra Costituzione”.
Con uno sguardo attento all’elenco che proponiamo si
può scorgere, in controluce,
un filo rosso che unisce i diversi punti, nel comune riferimento al rispetto della dignità della persona – richiamando molti elementi di un
approccio patient-centered –
ed una lettura della salute intesa come un complessivo
stato di “ben-essere”, composto da molteplici fattori ed
espresso in una pluralità di
manifestazioni. Gli inviti e i
suggerimenti si muovono,
quindi, all’interno di un alveo
non nuovo, ma accompagnati
dal tentativo di ri-costruire
una prospettiva ed uno
sguardo allargato ed arricchito dall’interconnessione di
diverse discipline ed esperienze.
Inoltre, come si può notare,
le caratteristiche presentate
possono essere riconosciute
valide in maniera indipendente dal “tipo” di persona,
paziente, o, dal punto di vista dei servizi, utente. Alcune di loro acquisiscono però
una particolare rilevanza
quando riferite alla esperienza di cura con persone con un
retroterra migratorio. Non sono, infatti, le variabili di
etnìa o cultura – che non delimitano categorie consolidate, né tantomeno epidemiologiche – ma l’aver sperimentato una storia di migrazione a
porre le persone straniere in
una posizione di potenziale
vulnerabilità.
Infatti, l’attenzione a “ricondurre ad un contesto” – n. 5)
del Box 1 – invita a ricercare
uno spazio che possa accogliere elementi che vadano
oltre le semplici evidenze,
ampliando ed approfondendo
l’approccio anamnestico con
strumenti e attenzioni in grado di cogliere, per esempio, le
tracce importanti della storia
migratoria del paziente, la
forza ed anche la percezione
del successo o insuccesso del
proprio progetto migratorio.
Si tratta, infatti, di riconoscere e “legittimare” alcuni
fattori che possono essere
elementi di cornice importanti o addirittura decisivi
che influenzano in modo diverso l’arco dei determinanti
sociali della salute in cui tutti noi siamo inseriti e, soprat-
tutto, legati alla unicità di
quell’individuo. Questo approccio può, ad esempio, attribuire il giusto peso sulla
produzione di cefalalgia, insonnia e sofferenza muscolare allo “strappo” dei legami
sociali e familiari – con relativi sensi di colpa legati in
particolare all’abbandono dei
figli – che caratterizzano la
storia di una donna venuta a
fare la “badante” in Italia…
Proprio per questo, nello spazio della relazione di cura,
una particolare premura va
posta in quello che abbiamo
riassunto come invito a “distinguere” – n. 12) – cercando, cioè, di riconoscere il
ruolo e la forza dei nostri
stereotipi e pregiudizi all’interno delle dinamiche che viviamo, riconoscendo la soggettività di coloro che incontriamo. La relazione con un
paziente migrante spesso è
viziata, come abbiamo accennato, da un’incapacità di vivere “equilibratamente” le
differenze, talvolta meccanicamente si è portati ad impostare delle relazioni isomorfiche 2 tra etnia, lingua e cultura. Ciò che chiamiamo
“cultura” viene usualmente
caricata di un peso eccessivo
e di una sovrabbondanza di
significato, come se le differenze che contraddistinguono tutti noi si cristallizzassero e si ponessero come un
elemento biologico, predeterminato: c’è un eccesso
d’attenzione verso le differenze culturali, le diversità,
l’identità, che non è un sino-
nimo d’attenzione alle differenze. Infatti, sia chi vede
nella cultura una ricchezza
che chi la teme, nega a essa
quella fluidità e quella complessità che la rendono speciale: “Ad incontrarsi o a
scontrarsi non sono culture,
ma persone. Se pensate come
un dato assoluto, le culture
divengono un recinto invalicabile… Ogni identità è fatta
di memoria e oblio. Più che
nel passato, va cercata nel
suo costante divenire” (M.
Aime, 2004, p. 81). Una Medicina, in questo senso, rispettosa, dovrebbe allora dare la possibilità a ciascuno
degli attori della relazione di
cura di esprimersi apertamente, nella consapevolezza
che le identità e, soprattutto, ciò che possiamo chiamare appartenenze siano frutto
di un processo, del percorso
di vita di ciascun individuo.
Il tentativo dovrebbe essere,
allora, quello di costruire un
punto di incontro che assomigli ad una soglia più che
ad un confine, dove ognuno
abbia la possibilità di “giocarsi” la propria identità senza attribuzioni predefinite.
Ecco quindi che affermazioni
molto condivise quali: “i cinesi sono una comunità
chiusa, che non vuole utilizzare i servizi” o “le romene
utilizzano l’IVG come contraccettivo”, o ancora, “le
donne islamiche sono suddite dei loro mariti”, mostrano
tutti i loro limiti e la loro pericolosità.
Il saper “mediare/negoziare”
2 Tale termine viene utilizzato per descrivere quando “due strutture complesse possono essere mappate una nell’altra, in modo che per ogni parte
di una struttura c’è una parte corrispondente nell’altra struttura, dove corrispondente significa che le due parti giocano ruoli simili nelle loro rispettive strutture” (Douglas Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: Un’Eterna Ghirlanda Brillante, Adelphi, Milano 1984, p. 49).
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– n. 19) – richiama un altro
fattore importante rispetto a
queste dinamiche: il saper
dare il giusto peso al fatto
che l’alleanza terapeutica, e
quindi la conquista della fiducia del paziente, richiede a
volte di trovare un giusto
compromesso. La base di questa relazione di fiducia è legata alla capacità, quindi, di
(ri)conoscere i propri limiti –
n. 8) – di mettersi in gioco e,
soprattutto, di abbandonare i
ruoli e le posizioni asimmetriche tra il professionista
della salute ed il paziente. Ad
esempio, se la presenza di un
familiare (marito o fratello o
altro) rappresenta un elemento invalicabile di legittimazione, per una donna, dell’essere visitati da un medico
(in particolare se uomo), si
può forse rinunciare al principio, di per sé legittimo e condivisibile, che il setting assistenziale è riservato al curante e al paziente, e ciò sia per
riconoscere l’autenticità della
sua richiesta sia per garantirle quella serenità che è alla
base di un affidamento fiduciale. Un approccio, quindi,
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che sia ancorato all’empatia,
quella capacità di mettersi accanto e nei panni di, che nella pratica medica acquisisce
un valore forte richiedendo al
professionista lo sforzo di
cercare di capire ed eventualmente condividere le reazioni
emozionali del paziente alla
malattia.
Proseguendo su questa linea
ci si ritrova, quasi naturalmente, all’invito a “non giudicare” – n. 20) – a dare cioè
il giusto peso alla forza
schiacciante del giudizio e alla forza liberante di una
Fig. 1
astensione dal giudizio di valore. Il richiamo è all’epoché,
composto delle parole greche
epi (“su”) e échein (“tenere”); ovvero “tenere sopra”,
“trattenere”, termine che
tratteggia l’astensione del
giudizio sulle cose, il mettere
tra parentesi, permettendo la
conoscenza ed una esperienza senza, appunto, alcuna visione preconcetta. Ad esempio, di fronte alla percezione
di un utilizzo strumentale di
un servizio sanitario (tipicamente il Pronto Soccorso) da
parte di pazienti stranieri,
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sarebbe utile chiedersi quali
siano, concretamente, le alternative praticabili per quella persona (se, per caso, non
ha un medico di base o non è
in grado di allontanarsi dal
lavoro durante le ore diurne).
…ancora una volta, siamo
consapevoli che le stesse dinamiche possono riguardare
alcune tipologie/gruppi di
italiani.
Il nostro approccio vuole intrecciare, quindi, la sospensione del giudizio alla capa-
cità di essere empatici, conferendo valore ad un legame
che riporta nuovamente al
centro il rispetto e la dignità
verso ogni essere umano,
chiedendo al professionista
della salute di valorizzare anche il “quotidiano” e i plurimi, diversificati mondi vitali
dei pazienti.
Se, quindi, deve esserci un
percorso che sostenga la riflessione, l’acquisizione e il
potenziamento delle suggestioni incorniciate nel Box 1
da parte dei professionisti
della salute, questo chiama in
causa immediatamente il ruolo della formazione, ed anche
della formazione continua in
Medicina (ECM).
La formazione degli operatori
può essere sicuramente uno
strumento utile alla creazione di un clima e di un contesto di cura percepibile come
“rispettoso”. Inoltre, l’acquisizione di una cultural competence appare come fondamento per la strutturazione di
una relazione terapeutica efficace. La competenza culturale, in questo caso, viene intesa non solo come un insieme di saperi e abilità, ma anche come un’attitudine positiva del soggetto nel vivere le
differenze e viene preso particolarmente in considerazione l’elemento processuale
dell’apprendimento basato,
soprattutto, sull’acquisizione
di una consapevolezza critica. Il punto di partenza dovrebbe essere, infatti, il rico-
Box 1. Slow attitudes and practices per una slow medicine… nell’ottica del “rispetto”
Orientare consapevolmente l’impegno verso una Medicina che sappia:
1. Attendere (dare il giusto peso alla dimensione “temporale” della cura)
2. Ascoltare (dare il giusto peso alla dimensione della comunicazione nella cura)
3. Accogliere (dare il giusto peso alla dimensione protettiva della cura)
4. Mettere a proprio agio / intuire il possibile disagio (dare il giusto peso alla dimensione psicologica nella cura, attraverso la creazione di un clima favorevole)
5. Ricondurre ad un contesto (dare il giusto peso, ampliando l’approccio anamnestico, alla dimensione esistenziale / progetto migratorio – determinanti
sociali della salute)
6. Spiegare (dare il giusto peso alla dimensione della chiarezza nella cura, anche attraverso la definizione dei propri obblighi, delle proprie competenze e
dei propri limiti)
7. Orientare (dare il giusto peso alla dimensione “di sistema” della cura – l’ottica del percorso assistenziale)
8. (Ri)conoscere i propri limiti (dare il giusto peso alla relatività e limitatezza delle proprie categorie interpretative e della specificità della propria dimensione simbolica)
9. Lasciarsi indirizzare (dare il giusto peso al racconto del/della paziente come utile indirizzo interpretativo – approccio di Medicina “narrativa”)
10. Convincere di “avere a cuore” (dare il giusto peso a tutti quegli atti concreti e simbolici che configurano una reale “presa in carico”)
11. “Tener conto di”… (dare il giusto peso all’universo complesso dei riferimenti e delle esperienze che caratterizzano l’illness del paziente nel “qui ed ora”)
12. Distinguere (dare il giusto peso alla forza limitante dei propri stereotipi, non omologando i pazienti sulla base di categorie fittizie autodeterminate,
ma percependone e rispettandone le differenze al di là di “facili” quanto superficiali approssimazioni)
13. “Riscoprire” (dare il giusto peso ad aspetti solo apparentemente secondari e spesso culturalmente “modulati”, come ad esempio il pudore o i diversi
“codici di rispetto”, evitando i rischi di una Medicina “ammiccante”)
14. Proporsi/offrirsi per mandato, non per favore / carità / filantropia (dare il giusto peso alla dimensione del diritto alla salute, evitando di trasmettere un messaggio fuorviante di opzionalità/liberalità del proprio intervento)
15. Riconoscere le proprie insofferenze / giudizi / proiezioni (dare il giusto peso alla dimensione “proiettiva” del proprio giudizio e del proprio agire)
16. Equilibrare il “tecnico-professionale” con lo “psicologico-relazionale” (dare il giusto peso all’equilibrio e alla complementarietà tra “competenza”
ed empatia)
17. Fare i conti con le molteplici e complesse dimensioni dell’identità (dare il giusto peso alla compresenza delle diverse identità e al non necessario
prevalere di quella culturale…)
18. Creare spazi… (dare il giusto peso e rispetto alle distanze… fisiche, temporali, emotive, valoriali, rituali…)
19. Mediare / negoziare (dare il giusto peso al fatto che l’alleanza terapeutica, e quindi la conquista della fiducia del paziente, richiede a volte di trovare
un giusto compromesso…)
20. Non giudicare (dare il giusto peso alla forza schiacciante del giudizio, e alla forza liberante, anche in termini di empowerment del paziente, di una
astensione dal giudizio di valore…)
21. Gestire il ”potere” nell’interesse del paziente (dare il giusto peso all’utilizzo del proprio prestigio e credibilità in funzione di una attività di advocacy per chi è più vulnerabile)
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noscimento e la messa in discussione della propria cultura e dei paradigmi a partire
dai quali interpretiamo la
realtà ed organizziamo la nostra professione (ancora una
volta, il (ri)conoscere i propri
limiti…). Focalizzare il processo formativo sul fornire
informazioni ed elementi nozionistico-enciclopedici su
quello che possono essere le
“culture altre”, oltre che rendere queste – erroneamente –
monolitiche, rischia di consolidare gli stereotipi e i pregiudizi già presenti. La questione, invece, da affrontare,
è quella di modificare la qualità dell’esperienza relaziona-
le, per esempio… riconducendo ad un contesto, distinguendo, mediando e sospendendo il giudizio…!
Infine, ricordiamo come sia
rilevante non limitare – malgrado la “rinuncia” consapevole da noi dichiarata all’inizio – la questione del “rispetto” ad una sola dimensione
individuale, poiché, sia in
una logica di presa in carico
collettiva e di percorso assistenziale, che in quella della
percezione dell’utente, la
questione riguarda il modo di
porsi, organizzarsi e “vivere”
dei servizi; non a caso, è
spesso sufficiente che un solo
rappresentante dei servizi
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adotti comportamenti, verbali o non verbali, ritenuti irrispettosi e offensivi, perché
l’utente percepisca l’intero
servizio come ostile. Non
sfugga inoltre che laddove il
contesto organizzativo-assistenziale è caratterizzato da
dinamiche di relazione prevaricatorie e non simmetriche
tra gli stessi operatori, questo viene percepito in modo
pesante dai pazienti/utenti.
Per accennare infine alle politiche, si sottolinea come
l’Organizzazione mondiale
della salute – regione Europa, ha recentemente richiamato l’importanza di definire
e implementare le politiche
per i migranti a partire dalla
cornice concettuale dei determinanti sociali di salute e
della loro interdipendenza
(vedi Fig. 1).
In ultima analisi, siamo convinti che una onesta riflessione critica sui modelli di cura
attuali, a partire dalla “provocazione” portata dal paziente “migrante”, nelle sue
diverse combinazioni e sfumature di alterità mutuamente percepita, possa realmente rappresentare una sfida per la qualità dei servizi di
cui possono beneficiare anche gli utenti autoctoni ed
una occasione per una Medicina più rispettosa di tutti.
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