Slow medicine
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00sommario 65:00sommario 1 26-04-2012 10:25 Pagina 65 Sae l ute Territorio Direttore responsabile Mariella Crocellà Redazione Antonio Alfano Gianni Amunni Alessandro Bussotti Bruno Cravedi Laura D’Addio Gian Paolo Donzelli Claudio Galanti Carlo Hanau Gavino Maciocco Benedetta Novelli Mariella Orsi Daniela Papini Elena Rebora Paolo Sarti Luigi Tonelli Comitato Editoriale Gian Franco Gensini, Preside Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Firenze Mario Del Vecchio, Professore Associato Università degli Studi di Firenze, Docente SDA Bocconi Antonio Panti, Presidente Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Firenze Luigi Setti, Direttore Laboratorio Regionale per la Formazione Sanitaria - FORMAS Segreteria di redazione Simonetta Piazzesi 349/4972131 Segreteria informatica Marco Ramacciotti Direzione, Redazione [email protected] http://www.salute.toscana.it Edizioni ETS s.r.l. Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa Tel. 050/29544 - 503868 - Fax 050/20158 [email protected] www.edizioniets.com Distribuzione PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze] Questo numero è stato chiuso in redazione il 15 aprile 2012 191 Rivista bimestrale di politica sociosanitaria fondata da L. Gambassini FORMAS - Laboratorio Regionale per la Formazione Sanitaria Anno XXXIII - Marzo-Aprile 2012 Sommario 66 M. Crocellà Slow medicine 67 A. Gardini Il Manifesto della slow medicine 78 S. Quadrino Una nuova cultura medica 80 G. Bert La sobrietà 82 S. Beccastrini Tre medici sulla collina di Spoon River 84 R. Satolli Il mercato della salute 89 G. Domenighetti Diseguaglianze di accesso e sostenibilità dei sistemi sanitari 92 P. De Mennato La formazione iniziale degli studenti di Medicina e delle professioni della cura 98 A. Bonaldi Un nuovo approccio alla Medicina 102 M. Bobbio Sobrietà e rinuncia 106 S. Beccastrini Prevenzione e promozione della salute 110 S. Vernero, G. Domenighetti Progetti slow 116 G. Masera Parole per una cura slow 119 G. Giustetto Cure giuste per tutti 122 C. Petrini Il riferimento di Slow Food 124 M. Marceca, M.L. Russo Il paziente straniero Abbonamenti 2012 Italia € 50,00 Estero € 60,00 Fotocomposizione e stampa Edizioni ETS - Pisa Per abbonarsi: www.edizioniets.com/saluteeterritorio Pagamenti online con carta di credito o PayPal 01Crocella_intro 66:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 66 10:23 Pagina 66 Slow medicine N. 191 - 2012 Slow medicine U na Medicina “lenta” non si propone come un valore. Chi entra nel tunnel della malattia, vive con ansia e disagio il tortuoso percorso disseminato di esami, analisi, di rimandi a pareri specialistici, di attese obiettivamente troppo lunghe prima di arrivare, sperabilmente, ad una diagnosi. L’insofferenza per l’attesa, del resto, caratterizza tutte le attività dei contemporanei che vivono nei Paesi industrializzati. “Veloce” non è più una connotazione, è un “must”. Deve qualificare una persona sul lavoro; non rispettare i ritmi sempre più accelerati che la cultura informatica ha imposto viene recepito come un handicap e può incidere profondamente sull’autostima di una persona che si sente disadattata rispetto alla norma. La Medicina ha un passo lento ma soltanto rispetto ai “tempi morti” che il paziente deve subire, sia in un ambulatorio medico che durante un ricovero ospedaliero. La deospedalizzazione non fa testo: l’esigenza di dimettere in pochi giorni persone che hanno subìto interventi anche seri ha creato più problemi che benefici. Non esiste in genere, perché non è stata organizzata, una rete di servizi per seguire un convalescente presso il suo domicilio. L’efficienza non ha niente a che fare con la frettolosità che a volte caratterizza le attività dei professionisti della salute. Manca il tempo, si sostiene in questi casi, ed è indubitabile che un’organizzazione sanitaria di tipo aziendalistico stressi al massimo il perseguimento dei risultati. Rimettere in discussione questa prassi rappresenta una sfida, significa tentare di contrastare una cultura generalizzata, ridiscutere modelli di intervento, organizzazione gerarchica del lavoro. Ed è quello che slow medicine si propone, una “provocazione” che sta raccogliendo consensi, stimolando, quando necessario, un ripensamento sul proprio modo di operare per valorizzare l’identità stessa dell’essere medico. Mariella Crocellà Direttore Salute e Territorio 02Gardini 67:Layout 1 26-04-2012 10:22 Pagina 67 Sae l ute Slow medicine Territorio 67 N. 191 - 2012 Andrea Gardini Medico - Direttore sanitario dell’Azienda ospedalierauniversitaria di Ferrara L a storia della Medicina è fatta da donne e uomini che cercano di curare le persone ammalate, hanno delle idee, cercano delle risposte e lottano per ottenerle e migliorare le cure per i loro pazienti. Queste persone vanno ricordate, perché sulle loro spalle poggia la nostra semplice voglia di fare bene. I precursori Alberto Dolara (1), (2), per primo, ha avuto il merito nei suoi scritti anticipatori di mettere in dubbio l’efficacia della fretta e della conseguente superficialità nel migliorare i risultati delle cure dei pazienti cardiopatici e di altre patologie…è suo il primo accostamento fra le parole slow e medicine, fatto in analogia alle parole slow e food, in antitesi a fast food e fast medicine. Carlo Petrini assieme a pochi altri audaci aveva, 20 anni fa, deciso di rifiutare le logiche del cibo industriale rivendicando il diritto degli uomini a mangiare un cibo buono, pulito e giusto, un cibo che privilegiasse la cultura del cibo locale e la valorizzasse, che pensasse al nutrirsi come piacere consapevole e non come consumo indifferenziato, e scelse come simbolo la chiocciola, la ormai ben conosciu- Il Manifesto della slow medicine ta chiocciola di slow food, che, come essere vivente, fa crescere il proprio guscio fino al limite massimo della propria capacità di portarsela addosso, poi si ferma… la chiocciola come esperienza biologica di governo del limite, paragonata alla sfrenata corsa verso una crescita senza limiti e senza il governo di questi limiti, dati soprattutto dalla limitatezza delle risorse del pianeta. Succhiare continuamente, con vorace pervicacia, il latte di Madre Terra senza nutrirla rischia di uccidere la Madre assieme ai suoi figli, com’è già successo con Rapa Nui, l’Isola di Pasqua (3). Prendendo spunto dal lavoro di slow food alcuni medici americani hanno cominciato ad interrogarsi sul senso della Medicina fast, una Medicina che tende a trattare le persone comunque, a medicalizzarne le vite, indipendentemente dalle loro volontà… soprattutto dopo aver dovuto affrontare i problemi medici del propri cari. Alcuni, come Dennis Mc Cullough hanno fatto delle ricerche sulle possibili alternative ai trattamenti invasivi della Medicina “moderna”, hanno cominciato a pubblicare ed a girare gli Stati Uniti per fare conferenze. In particolare Mc Cullogh I riferimenti, le idee, i “maestri” da cui è nato il movimento ha pubblicato un libro My Mother, Your Mother (4), in cui per la prima volta negli Stati Uniti, con Dolara come fonte bibliografica, si parla di slow medicine, orientandola particolarmente alle cure per gli anziani. Dice Mc Cullough: “Praticare la slow medicine mi ha insegnato che è saggio rallentare e moderare le pressioni urgenti dei processi decisionali che sono spesso spinti troppo presto dalla società, dai medici, dagli amici preoccupati e dalla famiglia nei confronti degli anziani. Pieni di buone intenzioni vogliamo fare delle scelte buone ed umane per noi stessi e per quelli che amiamo. A volte però siamo colti da sensi di colpa per non aver affrontato adeguatamente queste relazioni nuove ed in cambiamento continuo”. Mc Cullogh viene ripreso da Roberto Satolli sul Corriere della Sera, il 1° giugno 2008 (5), con un articolo: “Cresce il bisogno di slow medicine che ne riporta la filosofia, allargandone il significato a tutta la Medicina. Ladd Bauer, medico di famiglia californiano, riprende il concetto nell’ottobre 2008, in un editoriale che mette in relazione slow food e slow medicine e cita Dolara (6). Bauer, medico di Scuola di Medicina interna evidence based, fa parte del Comitato di redazione della rivista, che tratta di Medicine complementari, proprio come critico laico delle pratiche mediche non convenzionali che vengono descritte. Slow medicine nasce in Italia, come associazione, nel gennaio 2011, da molti padri e molte madri, molti filoni culturali e scientifici, e nasce come rete di idee in movimento. Le idee nascono dalle persone, e le persone hanno il potere di nutrirsene ed attualizzarle, a seconda del contesto in cui operano. Le idee non appartengono a nessuno. Quando vengono espresse diventano parte della rete ed hanno il potere di generare altre idee ed altri pensieri, in una moltiplicazione a volte virtuosa, a volte molto pericolosa… la specie umana ha fortune e sfortune a seconda del mix di idee buone e meno buone che la pervadono. Noi cerchiamo di compensare le idee meno buone con delle 02Gardini 67:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 10:22 Pagina 68 68 Slow medicine buone idee: pace, salute, democrazia, etica ed onestà, conoscenza sono i prerequisiti, le parole chiave che influenzano tutte le altre parole che utilizziamo nel connotare la slow medicine. Queste parole ci giungono da un passato fatto di altre persone, che qui vorrei ricordare, per introdurre il manifesto della slow medicine. Ben nota è la storia di Ignaz F. Semmelweiss (8), il quale, nella famosa Scuola di Medicina di Vienna a fronte di una mortalità per “febbre puerperale” del 10% delle donne che partorivano nella Clinica ginecologica verso l’1% di quelle che partorivano nella Scuola per ostetriche, dimostrò che l’unica differenza fra le due popolazioni era che nella Clinica chi le aiutava a partorire erano i medici, che prima di assistere ai parti avevano eseguito delle autopsie dopo le quali andavano direttamente in sala parto senza lavarsi le mani (… “horribile dictu”…!). Obbligandoli a lavarsi le mani il tasso di sepsi puerperale cadde in maniera clamorosa, ma lui fu licenziato: l’Accademia non poteva sopportare che i medici venissero ritenuti degli “untori”. Morì nel 1865 per le percosse ricevute nel Manicomio dov’era stato internato in Ungheria. La storia della Medicina è piena di questi episodi. Il più noto è quello di Ernest A.Codman (9), chirurgo ed anestesista del Massachussets, che aveva l’abitudine di misurare, prendendo alla lettera gli insegnamenti di Percival, gli esiti dei propri interventi e di pubblicare i dati. A quei tempi la Chirurgia era eroica, e la mortalità a distanza di un anno dopo gli interventi da lui eseguiti era molto elevata. Lui pubblicò comunque i suoi dati nella riunione annuale del suo Ospedale nel 1914, e regolarmente venne licenziato. Trovò aiuto e solidarietà fra i colleghi dell’American College of Surgeons in un periodo di Un po’ di storia (e di geografia) Per comprendere che cosa ci sta succedendo e come mai proprio oggi, è bene tornare indietro di un paio di secoli esplorando, col minimo dettaglio e il massimo della leggerezza possibile, le storie e le vite di alcune persone che hanno fatto parte della cultura medica di questo periodo. Se andiamo indietro nel tempo troviamo sempre, nel mondo della cura alle persone, qualcuno fuori dal coro, che, come succede fra le persone per bene, fa prima da precursore, a volte spietatamente combattuto, poi da maestro ispiratore ad altri. Sir Thomas Percival, ad esempio, medico di Manchester della seconda metà del ’700, nella sua opera fondamentale, Medical Ethics, il primo codice etico della Medicina occidentale, pubblicato a due riprese fra il 1794 e il 1803 (7), sosteneva che è necessario informare gli amici dei pazienti e, raramente i pazienti stessi della prognosi della loro condizione e che, comunque, è necessario fare il follow up dei pazienti ricoverati negli Ospedali, una volta che siano stati dimessi, per valutare i risultati delle cure. N. 191 - 2012 grandi cambiamenti. Fondò, anche con Cushing ed i fratelli Mayo la Joint Commission on Hospitals Accreditation che ancor oggi definisce gli standard assistenziali ed organizzativi degli Ospedali in tutto il mondo. Fra l’altro scrisse, nel 1916: D’altra parte il Nobel per la medicina 1906, Camillo Golgi (11), grande istologo, descriveva la prima volta, dopo la sua scoperta della “Reazione nera”, la colorazione delle cellule del sistema nervoso, quello che aveva potuto osservare: “Mi si definisce eccentrico per aver detto che gli Ospedali, se vogliono essere sicuri di migliorare, devono analizzare i loro risultati per accertare quali siano i punti forti e i punti deboli, confrontare i loro esiti con quelli degli altri Ospedali, trattare solo i casi per i quali siano in grado di fare un buon lavoro, assegnare per il trattamento i casi ai medici sulla base di criteri migliori dell’anzianità o delle convenienze del momento, discutere non solo i loro successi ma anche i loro errori, collegare la loro carriera alla qualità del loro lavoro con i pazienti. Queste opinioni non saranno giudicate eccentriche fra qualche anno”. “… La giungla che mi si presentava davanti in quel momento era più affascinante di una foresta vergine: si trattava del sistema nervoso con i suoi miliardi di cellule aggregate in popolazioni le une differenti dalle altre e rinserrate nel viluppo apparentemente inestricabile dei circuiti nervosi che s’intersecano in tutte le direzioni nell’asse cerebro-spinale…”. In fondo 96 anni non sono un periodo tanto lungo: abbiamo appreso dai nostri Maestri che il progresso della qualità delle cure è un cambiamento culturale lungo ed a volte doloroso. Chi condivide con noi la passione per la Medicina sa benissimo che i Maestri ci hanno insegnato cose a volte eretiche, come ad esempio Augusto Murri (10), clinico medico dell’Università di Bologna che ripeteva: “Nella Clinica bisogna avere un preconcetto solo, ma inalienabile, il preconcetto che tutto ciò che si afferma e che par vero può essere falso: bisogna farsi una regola costante di criticare tutto e tutti prima di credere”. Sua fu l’intuizione della rete nervosa diffusa, la prima metafora di ogni organizzazione a rete, internet compresa. Il gusto per l’esplorazione di luoghi, dimensioni e funzioni inesplorate è ciò che ha coinvolto gran parte degli uomini di cultura che hanno scelto la Medicina come campo di studio e di azione conseguente che continua tutt’ora. Mentre però Murri e Golgi esprimevano il bisogno di comprensione critica e di apertura all’esplorazione, altri, in altre parti del mondo, si chiudevano in esercizi ripetitivi di ricerca di regole di ingegneria sociale e/o produttiva che potessero aumentare la capacità dell’uomo di garantire efficienza alla produzione industriale. L’ing. Taylor (12) era uno di questi. Offrì le sue conoscenze al maggiore produttore di automobili e di macchine da guerra e pianificò con lui ogni tipo di interazione fra lavoratori, macchine e impresa. 02Gardini 67:Layout 1 2-05-2012 9:14 Pagina 69 Sae l ute Slow medicine Territorio 69 N. 191 - 2012 Charlie Chaplin lo riprese qualche anno dopo in “Tempi moderni” (13). Hitler e Stalin ne applicarono alla lettera i principi, e la stessa filosofia di produzione industriale l’acquisirono i nazisti ed i bolscevichi per far lavorare i loro sudditi allo stesso modo. Meccanicismo, l’altra faccia dell’Illuminismo, che, rinforzato dal Romanticismo, secondo Morgan (14), è stato il fondamento filosofico dei crimini del Novecento. Le sue parole ? Struttura, processo, prodotto, profitto rinforzato dal Calvinismo sviluppatosi nelle alte classi degli Stati Uniti, per il quale la ricchezza a tutti i costi era predestinata direttamente da Dio, condizione sine qua non per ottenere il paradiso. Secondo questa visione pseudo religiosa il povero non è amato da Dio, perché è Dio che vuole la sua povertà, e finisce comunque all’inferno. Il ricco comunque finisce, predestinato e premiato, in paradiso… l’evangelico “Beati gli ultimi” dimenticato in un sottoscala. Nulla può cambiare. Taylor morì di polmonite a 59 anni. La sua opera, che ebbe come obiettivo l’efficienza produttiva, influen-zò profondamente tutto il Novecento, dimostrando che la scienza, resa dipendente della produzione industriale, non è neutrale. Intanto però che personaggi come Taylor celebravano le progressive sorti del dominio industriale, nel corso del ’900 altre persone, non accontentandosi della superficie, elaboravano concetti più avanzati: Albert Einstein (15), Niels Bohr (16), Werner Hei- semberg (17), fra gli altri, modificarono completamente le idee che si avevano, prima di loro, sulla composizione della materia. Ludwig Von Bertalanffy (18), un biologo innovatore pubblicò la Teoria generale dei sistemi (19) cui si riferì Gregory Bateson (20) nella sua ricerca sull’ecologia della mente (21, 22), che prendeva spunto dal lavoro della sua compagna dei primi tempi, quella Margareth Mead (23) che pose le basi per gli studi successivi di Antropologia. Bateson ebbe la grande fortuna di essere invitato dalla Macy Foundation a partecipare, assieme a molti dei più grandi studiosi del tempo, fra cui William R. Ashby (24), Heinz von Foerster (25), Norbert Weiner (26), John von Neumann (27), Kurt Lewin (28) e Eric Eriksson (29) alle Macy Conferences (30), nelle quali, fra il 1942 e il 1953 furono poste le basi per una “scienza della mente”, negli anni ’40 nacque di fatto la cibernetica in un seminario a Palo Alto dove la Teoria generale dei sistemi venne discussa per la prima volta in team multidisciplinare. Nacque anche da lì la rivoluzione cibernetica che ci ha cambiato la vita. Molti dei presenti a loro volta erano stati allievi di Bertrand Russel (31), grande matematico e filosofo libertario, i cui libri sono stati il nutrimento dell’adolescenza di molti di noi. Parallelamente la fondazione della Psicologia, a partire dalle intuizioni e gli scritti di Sigmund Freud (32) e Carl Gustav Jung (33), passando per Jean Piaget (34) Donald Winnicott (35) e Carl Rogers (36), quest’ultimo fra i primi a trattare di counselling e di terapia non direttiva e centrata sul paziente (37). Nello stesso periodo gli studi di Etologia di Konrad Lorenz(38) e Karl von Frisch (39) hanno portato nuova linfa alla Medicina stessa, che, in Italia con Franco e Franca Basaglia (40, 41, 42) e Gianfranco Minguzzi (43) ha determinato la rivoluzione nei Manicomi, riconoscendo dignità alle persone portatrici di problemi di salute mentale e l’induzione di nuove patologie e di cronicità dovuta allo stesso ricovero in Ospedali psichiatrici ed alla esclusione sociale del matto, fonte di ulteriore emarginazione. Orientare la cura ai bisogni delle persone è stata la grande rivoluzione pacifica del secolo passato, e noi ci riconosciamo in essa. Nel campo della cura della sofferenza psichica gli eredi di Bateson, fondarono a Palo Alto, in California, il Mental Research Institute (44) continuarono a sviluppare i loro studi sui trattamenti dei sistemi che generano sofferenza e delle singole persone. Jay Haley (45), citato più volte da Bateson, propose per primo la “terapia strategica”: “Un terapeuta deve assumersi la responsabilità di aiutare i propri pazienti a modificare la propria vita, studiarne l’ambiente e proporre un trattamento in 5 fasi: identificare i problemi risolvibili, scegliere gli obiettivi, progettare gli interventi per raggiungerli, esaminare le risposte, valutare i risultati” (46) …per caso vi ricorda qualcosa? ” Haley fu uno degli inventori del problem solving nel couselling ed in Psicoterapia ed assieme a Lynn Hoffman (47, 48) scrisse uno dei primi manuali di tecniche di terapia della famiglia (49), che per molti anni hanno ispirato i terapeuti sistemici di tutto il mondo. Paul Watzlawick (50), Don D. Jackson (51), Janet Beavin ebbero a Palo Alto il grande merito di scrivere un libro, Pragmatica della comunicazione umana (52), uno studio fondamentale della comunicazione fra le persone. In Italia il gruppo milanese di Mara Selvini Palazzoli (53) Boscolo e Gianfranco Cecchin(54) ha approfondito i temi della comunicazione nel rapporto famigliare ed in quello terapeutico, fornendo contributi non banali a quanti continuano a cercare di trattare i pazienti al meglio delle proprie capacità (55). Studi di Linguistica, come quelli di Noam Chomsky (56) e di Semiotica, come quelli di Umberto Eco (57) hanno molto influenzato un certo ambiente culturale orientato alla cura della salute. Non è possibile, dice Sergio Nordio, il mio primo Maestro di Pediatria, essere medici senza avere piena coscienza dei propri pensieri e senza riflettere sulla loro origine, senza avere pensiero sui propri pensieri, l’interesse per l’epistemologia nasce da questa semplice domanda: da quale pensiero nasce il mio pensiero? (58) Tutti questi nomi, storie, bibliografie, idee, pensieri sono necessari perché è semplicemente impossibile essere 02Gardini 67:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 10:22 Pagina 70 70 Slow medicine medici, agli inizi del terzo Millennio, astraendosi da queste conquiste della conoscenza e del pensiero. Non è possibile far finta che questi Autori non esistano, e che spesso quanto hanno ricercato e trovato ispira importanti imperi commerciali o industriali, come, ad esempio, tutto il mondo della comunicazione. Astrattamente ci si può benissimo trincerare dietro all’affermazione: “molti non erano medici”… o… “parlano inglese…”. Ma la Medicina non è mai stata una scienza di per sé: è da sempre stata l’applicazione di altre scienze per migliorare la salute degli uomini. L’ ignoranza dell’avanzamento di queste conoscenze umane forse può proprio essere una delle cause del declino del nostro Paese e dell’Europa nel suo complesso. Ci sono stati altri uomini e donne a darci una visione diversa della Medicina nella seconda metà del secolo scorso. Per tutti Archie Cochrane, Avedis Donabedian (61) e Giulio Maccaccaro ci hanno fornito le loro spalle di giganti per portarci ove siamo ora. Archie Cochrane (59), era stato all’inizio un semplice medico di base, curioso e appassionato di malattie dei polmoni, visto che era nato in un villaggio di minatori, tanto da finire da medico volontario delle Brigate internazionali durante la guerra di Spagna, passare come medico militare buona parte della guerra mondiale, essere fatto prigioniero e occuparsi sempre di malattie polmonari e tubercolosi. Dopo queste esperienze scrisse: “Mi rendevo conto che non c’erano prove reali che tutto quello che facevamo per i nostri pazienti non avevano nessun effetto sulla tubercolosi, e temevo anche di ridurre la lunghezza della vita di alcuni miei amici sottoponendoli a degli interventi inutili”. Il suo contributo fu un libretto breve, ma rivoluzionario, nel quale, con grande semplicità, spiegava che in Medicina non esiste efficienza senza efficacia (60). Sembrava tanto semplice, ma in questi quarant’anni è stata una cosa difficilissima da applicare. Il come mai fosse così difficile è stata anche la esplorazione del movimento internazionale per la qualità delle cure, iniziato da Avedis Donabedian (61), internista e pediatra armeno-libanese che per 40 anni spese la sua vita a ricercare i molti significati della parola qualità in Medicina. La sua opera monumentale (62, 63, 64) è ancora il fondamento di ogni studio sulla qualità che abbia un senso compiuto. Sua la sintesi “struttura-processo-risultato”, che elimina il “prodotto-profitto” di Taylor sostituendolo con ciò che veramente serve in Medicina: l’ottenimento di un migliore stato di salute per il paziente. Da Donabedian in poi, chiunque parla di “prodotto” e di “standard di prodotto” in Medicina dimostra che non ne conosce le regole minime di funzionamento e filosofia, e dovrebbe aggiornare i propri paradigmi, inadatti alla gestione di organizzazioni complesse come quelle sanitarie. In Medicina esistono gli standard di processo e N. 191 - 2012 quelli di risultato finale, o esito clinico, l’unico “prodotto” accettabile da medici, infermieri e pazienti. Non può esserci un buon risultato di cure mediche se non esistono dei buoni processi e se questi non sono generati in una buona struttura fisica ed organizzativa. In uno degli ultimi scritti Donabedian diceva così: “La conoscenza dei sistemi e la loro progettazione sono importanti per i professionisti dei sistemi sanitari, ma non sono sufficienti. Essi sono solo meccanismi facilitanti. È la dimensione etica degli individui ad essere essenziale per il successo dei sistemi sanitari. In fin dei conti il segreto della qualità è l’amore…”. Giulio Maccaccaro (65), professore di Biostatistica dell’Università di Milano insegnò a molti di noi l’approccio scientifico alla cura dei nostri simili che chiamiamo Medicina, il valore della prevenzione e la non neutralità della scienza, che, anche lei, gira dove sono i soldi ed il potere. “Medicina e Potere” fu una collana di libri da lui diretta su cui molti di noi si formarono. I contenuti di quei libri sono ancora validi e in gran parte non applicati. Fra gli anni ’70 ed ’80 ci fu un grande movimento per la salute nel mondo, trainato dall’Organizzazione mondiale della Sanità. Una Conferenza mondiale sulla salute si tenne ad Alma Ata nel 1978. In essa si affermava (66) che per garantire la salute della popolazione mondiale era necessario rinunciare parzialmente al mo- dello ospedaliero ed abbracciare quello della Medicina di territorio, investire più denaro e risorse nella prevenzione e nella Medicina di base, utilizzare gli Ospedali solo nei casi acuti e gravi… gli Ospedali dovevano essere insiemi di tecnologie sanitarie a disposizione delle popolazioni, tecnologie da utilizzare solo quando ce n’era bisogno. Il sistema doveva essere pubblico, assieme alla scuola. Scuola e sanità pubbliche dovevano essere il fondamento delle democrazie e dello sviluppo dei popoli. Vent’anni dopo Nelson Mandela (67), presidente della Repubblica pacificata del Sud Africa dopo l’aparthaid, stanziava il 35 % dei fondi dello Stato in investimenti su scuola e sanità… Comunità sane costituite da persone istruite avrebbero avuto la possibilità di sviluppare le proprie potenzialità e creare economie evolute e compatibili con le risorse del pianeta. Non si pensava allora, proprio nessuno se lo immaginava che ci sarebbero stati tanti anticorpi, sviluppati da quanti hanno interesse a mantenere le popolazioni ignoranti e in cattiva salute, per poter continuare il loro progetto di dominio, il potere dispotico o autoritario si basa infatti sull’ignoranza e sulla debolezza dei sudditi. Non si è ancora compiuta ovunque la rivoluzione francese e, quasi dappertutto i princìpi di uguaglianza, fraternità e libertà paiono essere slogan privi di significato reale sulla vita delle persone comuni. A volte sono parole svilite nel loro significato 02Gardini 67:Layout 1 26-04-2012 10:22 Pagina 71 Sae l ute Slow medicine Territorio 71 N. 191 - 2012 profondo ed utilizzate in maniera distorta dai detentori del potere. La Carta dei diritti dell’uomo spesso è calpestata anche da chi non te lo aspetteresti mai. Quella volta però il movimento che l’OMS mise insieme fu una distrazione dei poteri costituiti… nessuno si sarebbe mai immaginato il potenziale di cambiamento che parole come “salute per tutti nel 2000” rischiava di immettere nei sistemi. E iniziò, assieme al processo di costruzione di Sistemi sanitari pubblici, equi, appropriati ed efficaci, il lento processo di erosione di quelle stesse idee. Nessuno riuscì ad esempio, a fare qualsiasi cosa in Italia nel movimento di “rete città sane” (68), nutrito dai principi di public health che sono universalmente riconosciuti. La strategia della politica di qualsiasi Governo evidentemente era l’opposto. Qualcuno smentisca quest’affermazione portando risultati concreti in termini di salute di almeno un progetto di “città sane” che sia finito bene, con evidente miglioramento anche di fasce limitate di cittadini coinvolti nel progetto. Lo pubblicheremo, se ben costruito per lo meno sul sito di slow medicine… Fu proprio l’OMS a favorire le politiche per la qualità dei Paesi di tutto il mondo, mentre ancora in tutto il mondo pian piano ebbe sviluppo la Cochrane Collaboration (69), una rete di ricercatori che è riuscita, in trent’anni, a garantire che una pur piccola ma significativa percentuale della conoscenza medica mondiale fosse basata sulla revisione sistematica della letteratura internazionale, un fenomeno senza precedenti nella storia della Medicina. Noi medici (con gli infermieri), a differenza di quasi tutti gli altri professionisti, siamo in grado di fondare la nostra pratica quotidiana sul meglio delle conoscenze umane della nostra professione e di applicarle ai nostri pazienti nella pratica di tutti i giorni. È la più grande rivoluzione di informazione scientifica appropriata della Medicina mai avvenuta e siamo onorati di aver sempre fatto il tifo e per quanto possibile aiutato a divulgare ed applicare quello che Sandro Liberati ed i suoi amici della Cochrane Collaboration hanno prodotto in Italia. Ora che Sandro non c’è più (70) continueremo a farlo anche più di prima… L’OMS si impegnò su molti fronti in quel periodo: la prevenzione, la formazione, la qualità. Malattie come tubercolosi, malaria, AIDS fanno ancora molti morti in tutto il pianeta, e il grande lavoro di questo braccio sanitario dell’ONU è stato quello di diffondere le conoscenze a livello di base, per fare prevenzione. Qua e là ci siamo riusciti. Sono sempre le condizioni economiche e sociali, di pace e di guerra a generare la probabilità di aumentare o ridurre la sopravvivenza e la qualità della vita. I programmi dell’OMS sono stati importanti per indicare la strada su come occuparsi in maniera scientificamente corretta e adatta alle risorse locali della salute delle popolazioni (71). Alme- no così pare. Uno dei filoni è stato l’educazione dei professionisti, un altro l’educazione sanitaria. All’educazione dei professionisti hanno lavorato gruppi di pedagogisti dell’adulto, il cui lavoro è stato sintetizzato da Jean Jacques Guilbert (72), del cui rigore e della cui Guida pedagogica (73) abbiamo beneficiato, direttamente o indirettamente, tutti, a partire dai suoi seminari degli anni ’80 organizzati con Sergio Tonelli e Gianni Renga. La formazione orientata dai bisogni di apprendimento dei discenti, non dal bisogno di dare sfogo al narcisismo dei docenti è una rivoluzione che in Italia per lo meno non è stata favorita dal sistema dei crediti formativi. Meglio burocratizzare l’addestramento che favorire l’apprendimento attivo. Troppo avanzata come idea in un posto che ha ancora,secondo i dati dell’UNLA (74), un 60% della popolazione che non è in grado di interpretare tre frasi una dietro all’altra ed un grafico. Tecnicamente “analfabeta”… una popolazione che, nel 2001, secondo i dati ISTAT del censimento 2001 aveva il 7,5% di laureati, verso il 20 % della Germania, ed il 12% di analfabeti totali… La didattica attiva è sviluppata in molte aree avanzate del pianeta, in moltissime Università. Si stupiscono gli studenti delle Università anglo-sassoni, quando in Italia vengono a frequentare degli stages e trovano quasi solamente lezioni frontali. Non comprendono come mai debbano pas- sare il loro tempo ad annoiarsi a sentire lezioni su cose che possono ormai leggere su internet o sui libri. Aiutare ad apprendere è un’altra cosa di quello che abbiamo oggi noi nelle Università, non solo nelle Facoltà di Medicina. La didattica orientata allo studente è ancora grandemente minoritaria. Di quell’esperienza resta la felice sintesi di Sergio Tonelli, che fa evolvere il modello ancora parzialmente meccanicista, di Donabedian in un modello che esplicita il metodo del problem solving, tipico della Medicina di questi anni: “problema – obiettivo – (progetto) – processo – risultato”. Non esiste infatti processo senza progetto condiviso e non esiste progetto senza obiettivi di salute per/con il paziente o la comunità ed è meglio esplicitarlo, altrimenti non si aiuta il paziente a passare da una condizione di malattia ad una di salute migliore. È dal problema del paziente che nascono gli obiettivi di salute: il progetto condivide il processo di cambiamento che dobbiamo provare ad attuare… il risultato sarà conseguente a come saremo stati in grado di modificare l’esistente. In fondo quello che vogliamo riuscire a fare è cambiare le cose che non vanno bene nel paziente e nella comunità. Lo sviluppo della qualità In breve tempo, nel corso di una ventina d’anni, a partire 02Gardini 67:Layout 1 26-04-2012 10:22 Pagina 72 72 Sae l ute Territorio Slow medicine dalle esperienze dei precursori, Franco Perraro, Pierluigi Morosini (75), Claudio Galanti, siamo stati in grado di definire che cosa ci sembra sia la qualità dei sistemi sanitari, quali le componenti e le relazioni fra di loro. Pare infatti che i punti di vista dai quali la qualità viene presa in considerazione sono fondamentalmente tre: quello dei pazienti e delle comunità, quello delle organizzazioni sanitarie e quello dei professionisti. La prevenzione, le cure mediche e la riabilitazione riescono meglio se le comunità e le persone partecipano alla cura della propria salute. Le cure mediche riescono meglio se sono ben organizzate con la partecipazione diretta dei professionisti alla loro organizzazione assieme con pazienti e comunità, costruendo percorsi diagnostico terapeutici condivisi e autovalutati con strumenti come l’audit clinico. Percorsi assistenziali e audit clinico si sono dimostrati strumenti efficaci nelle cure alle persone ed a tenerne sotto controllo i risultati allo scopo di migliorarli. Le cure mediche sono migliori se basate su una consona letteratura evidence based, se sono effettuate da persone competenti, cioè dotate della conoscenza, delle capacità manuali e umane e del giudizio clinico per garantire il più possibile cure appropriate per le persone trattate. In futuro i professionisti dovranno essere in grado di riconoscere le condizioni morbose dei loro pazienti e delle comunità, trovare negli studi di base e nella rete le soluzioni meglio conosciute per garantire cure appropriate e applicarle localmente in rapporto alle risorse a disposizione. L’attuazione di questi principi garantisce di per sé sicurezza per i pazienti e le comunità e sostenibilità economica: operare per l’appropriatezza e l’efficacia riduce gli sprechi ed i costi della organizzazione sanitaria e abbassa i livelli di contaminazione, inquinamento dell’ambiente da parte dell’organizzazione sanitaria stessa, aumenta la sicurezza per i pazienti e riduce le spese per contenziosi legali. Un’ adeguata e capillare documentazione scientifica e un adeguato sistema di autovalutazione basato su criteri espliciti e standard condivisi è in grado di dare continuità al monitoraggio professionale delle azioni sanitarie effettuate e di ridurre i margini di errore (76). Negli ultimi anni è stata la evidenza che fare qualità riduce i costi e rende sostenibile il sistema (77), a far fare al movimento per la qualità il salto di consapevolezza in più. Prima fare qualità era un impegno personale o al massimo un vanto dell’amministrazione ospedaliera desiderosa di fare marketing. Oggi è vitale. Fare qualità significa garantire sopravvivenza al sistema. Ma il sistema sanitario non può essere una fredda organizzazione e basta. Anche le SS lo erano. Efficientissime. I malati hanno bisogno di ascolto, aiuto, comprensione, calore; hanno bisogno di stare a casa loro più possibile N. 191 - 2012 e, quando hanno bisogno dell’Ospedale necessitano di luoghi ospitali, gentili, appropriati ai loro bisogni ed efficienti, che non fanno perdere loro né tempo né dignità… luoghi molto complessi e difficilmente gestibili proprio perché la complessità non si gestisce, si auto organizza su obiettivi “ad hoc”… e chi gestisce dev’essere così bravo da favorirne i processi che si autoalimentano, se sono processi virtuosi, deve saperli spegnere quando non lo sono. Henry Mintzberg, uno dei pochi esperti al mondo evidence based di management che ha approfondito con mentalità scientifica (orientata sui dati e su ricerche rigorose) afferma delle cose che lo fanno diventare un Maestro eretico di una infima minoranza, per lo meno in Italia. Egli afferma: in tutto il mondo in sanità ci sono 5 riforme da fare (78): 1. Riformare la leadership, inutile o dannosa nelle comunità complesse di professionisti, con caratteristiche di autonomia e responsabilità, orientate alla cura, e farla diventare communityship, management diffuso. 2. Smettere di “run hospitals”, “farli correre”, ma “understand them”, “comprenderli”. 3. Smettere di considerare gli Ospedali come aggregati di persone da motivare. I professionisti sono già motivati di per sé: vanno aiutati a sviluppare le proprie motivazioni e capacità. 4. Smetterla di perorare in maniera coatta la causa persa della competizione. Nei luoghi di cura (ma, visti i risultati, probabilmente anche fuori) quello di cui c’è bisogno è la collaborazione. 5. Smetterla di orientare le comunità curanti ai propri bisogni, ma orientarle verso i bisogni di salute dei singoli e delle comunità. Fatti salvi questi principi e trovandoci dentro una spaventosa crisi nei rapporti fra capitale finanziario e comunità umane dagli esiti imprevedibili, che comunque porterà un cambiamento profondo nelle nostre comunità, per quel misto di globalizzazione, localismo, difesa delle identità e sviluppo di reti per cui le cose non saranno più come prima, l’attuale nostra condizione di pace e prosperità potrebbe diventare una bella storia da ricordare. Si stanno forse verificando le previsioni delle studiose del MIT, quando, nel 1972 rispondevano alla committenza del Club di Roma, presieduto da Aurelio Peccei, prevedendo per questo nostro tempo nel rapporto “I limiti dello sviluppo” (79, 80) quattro fenomeni concomitanti: – l’aumento della popolazione mondiale, – la riduzione dell’apporto di cibo, – la riduzione delle fonti energetiche fossili, – l’aumento dell’inquinamento. Siamo dentro questo processo storico, e bisogna fare la nostra parte di medici, operatori sanitari ed organizzatori di attività sanitarie, anche a costo di non far contento qualcuno, ad esempio gli speculatori 02Gardini 67:Layout 1 26-04-2012 10:22 Pagina 73 Sae l ute Slow medicine Territorio 73 N. 191 - 2012 sulla sanità e la salute, ad esempio gli inventori di malattie inesistenti per poter vendere i loro prodotti inutili, ad esempio i cacciatori di fondi destinati comunque alla sanità, facile preda della corruzione e della rapina. Costruire Ospedali può essere un’operazione umanitaria nel terzo mondo. Nel nostro mondo può voler dire anche speculare sul cemento impoverito, sugli appalti, barattare assunzioni con voti. Non dimentichiamo che molto recentemente la Corte dei Conti si è lamentata del grave stato di corruzione del nostro Paese, dal quale la sanità non è esente (81). È con queste considerazioni che, quasi per magìa, ci siamo incontrati un anno fa. Una sanità di qualità e quindi sostenibile era l’obiettivo di conoscenza proposto ed approvato dall’Assemblea della Società italiana per la qualità dell’assistenza sanitaria (82). Una relazione efficace ed utile fra medici, operatori sanitari e persone è da sempre l’obiettivo dell’Istituto Change, il primo in Italia a fare proprio, con Silvana Quadrino, psicoterapeuta ad orientamento sistemico, il concetto di counselling sistemico, ed a diffonderlo come strumento utile a favorire il rapporto terapeutico e pedagogico (83). Dar valore alla narrazione ed alle storie che curano è da parecchio tempo il campo di ricerca di Giorgio Bert, cofondatore dell’Istituto e prestigioso esponente del gruppo fondato assieme a Giulio Maccaccaro ai tempi della collana di “Medicina e Potere” e della rivista Sapere e oggi il principale esperto italiano di Medicina narrativa (84). Monitorare il disease mongering (85), la creazione di finte patologie per smerciare vere o presunte medicine e garantire l’equità di accesso ai servizi sanitari alle persone che ne hanno bisogno (86) sono due dei molti interessi di Gianfranco Domenighetti, economista e sociologo, per molti anni responsabile dei Servizi sanitari e sociali del Canton Ticino. La Pedagogia sanitaria, quella vera, l’interesse di Stefano Beccastrini, che ama di un amore sconsiderato la prevenzione, l’educazione alla salute, la matematica, il cinema, la sua famiglia, la sua nipotina e il mondo intero (87). L’autovalutazione che genera miglioramento, quello di Sandra Vernero, medico anestesista, fra i pochi a partecipare al gruppo di studio per l’applicazione in sanità del modello di autovalutazione della European Foundation for Quality Management. Da parecchi anni coordina la redazione del report del Bilancio di missione della più grande Azienda sanitaria dell’Emilia Romagna, quella di Bologna (88). Lo studio della complessità dei sistemi di cura quello di Antonio Bonaldi, da sempre direttore sanitario degli Ospedali più complessi della Regione Lombardia e del Veneto, già direttore della rivista della Siquas, QA e fondatore dell’Associazione “Rete Dedalo” ’97, che organizza tutti gli anni il Festival della complessità, che quest’anno sarà ad Orvieto (89). Lo sviluppo della qualità quello di Mimmo Tangolo (90), Mimmo Colimberti (91) e Franco di Stanislao(92), da più di vent’anni compagni di avventure intellettuali e culturali sparse in tutta l’Italia. Il design della comunicazione quello di Jorge Frascara (93) e Guillermina Noel (94), designers innovativi e prestigiosi, Jorge professore emerito dell’Università di Edmonton in Canada, Guille master in Comunicazione visiva all’Università di Alberta, ambedue molto interessati al design della comunicazione umana nei servizi sanitari e con i pazienti, soprattutto: Guille, con quelli che non possono parlare, gli afasici, di cui è fra le poche esperte a livello internazionale. Ci hanno fatto compagnia altri professionisti, con rapporti di parentela, amicizia, affetto, collaborazione con qualcuno di noi. Qualcuno è rimasto, qualcuno è restato. Qualcuno resterà, qualcuno se ne andrà, come le cose della vita… Ci siamo incontrati un paio di volte. In piena libertà. Ci è piaciuto. Abbiamo continuato, abbiamo preso contatti con slow food, cui siamo piaciuti, ci siamo dati tre parole chiave, per una cura sobria, rispettosa e giusta, che ci sono sembrate appropriate ad esprimere quello che vorremmo succeda. Ci siamo chiamati rete di idee in movimento, decidendo che diventiamo movimento, non associazione scientifica, ma movimento di idee in rete, che utilizza le conoscenze scientifiche comunemente da noi raggiungibili attraverso le nostre fonti professionali e scientifiche indipendenti e ci siamo dati un manifesto ricordando le persone che ci hanno preceduto e le loro idee, accogliendo le persone che ci vogliono avvicinare, anche operando una selezione, scommettendo su un futuro di migliore comprensione, soddisfazione e vita intellettuale ricca e felice per i più giovani di noi, e, perché no anche per noi per gli anni a venire, che ci piace pensare saranno ancora tanti e in allegria. Per il momento ci sentiamo troppo limitati per esplorare campi sui quali non siamo competenti, come le cosiddette Medicine complemetari e la new age. Noi siamo purtroppo limitati dalle regole e dalle pastoie della scienza ufficiale, e non siamo in grado di allontanarcene. Siamo maledettamente tradizionalisti: leggiamo The Lancet (95) ed il BMJ (96) e seguiamo l’evoluzione della Cochrane Collaboration e ci piacciono le idee di Henry Mintzberg, di Paul Watzlawick, ma anche di Fritijof Capra (97), di Richard Smith (98). Antonio Bonaldi ha provato a fare un paio di esempi di quello che non ci piace e di quello che ci piace. Ne è uscito il suo scritto, che di seguito riproduciamo, sui sette veleni ed i setti antidoti della Medicina moderna (vedi riquadro). 02Gardini 67:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 74 10:39 Pagina 74 Slow medicine Fast e slow medicine: i sette veleni e i relativi antidoti N. 191 - 2012 02Gardini 67:Layout 1 26-04-2012 10:39 Pagina 75 Sae l ute Slow medicine Territorio 75 N. 191 - 2012 Sandro Spinsanti, fondatore dell’Istituto Giano per le Medical Humanities (99), ha risposto con entusiasmo al nostro invito e ci ha regalato il suo “Elogio dell’indecisione”. L’etica di cui lui è un precursore in Italia ci serve molto come guida per le nostre azioni ed i nostri pensieri, in questa fase e nel futuro incerto che vivremo. Antonio Panti (100) ci ha portato la solidarietà dell’Ordine dei medici, ed abbiamo l’incoraggiamento di Annalisa Silvestro (101), Presidente della federazione IPASVI. Dopo tutto cerchiamo solo di applicare con intelligenza e modestia i Codici deontologici dei nostri Ordini e Collegi professionali (102, 103). La prospettiva nostra è sistemica: ci occupiamo di relazioni fra le persone più che di connotare con degli stigmi i difetti delle persone e giudicarli. Non giudichiamo se prima non abbiamo progettato assieme, definito gli obiettivi e gli indicatori, misurato gli stessi con delle unità di misura e valutato in rapporto con degli standard. A noi semmai i giudizi ci servono per aiutare a condividere i risultati e migliorare, non per punire o bocciare. Ci piace sviluppare un rapporto armonioso con la natura, con il pianeta. Ci dispiace quando il pianeta viene inquinato, sfruttato, vessato a causa di interessi di pochi. Lo stesso se tutto ciò accade ad una persona, ad un animale, ad un altro essere vivente. Non vogliamo lasciare ai nostri nipoti un pianeta più ignorante e più povero. Non facciamo fatica a dirlo: vorremmo un pianeta più a misura di pianeta, una sanità più a misura di uomo e di comunità, una cura sobria, rispettosa, giusta. Nota alla bibliografia La lista che segue è una bibliografia ma è anche una continuazione dell’articolo che vorrebbe permettervi di raggiungere senza fatica le informazioni relative alle persone citate, al loro lavoro, alla loro vita. Ci sono molte altre persone che ci vogliono bene e cui noi vogliamo bene, come pure ci sono altre persone che ci sono state vicine, nel corso della storia ma che non ho potuto citare, per dimenticanza o rilevanza…sapendo chi sta dietro alle idee ed ai concetti si capiscono di più le cose. Di questi tempi c’è bisogno di capire molto e ricordare le motivazioni. Si tratta di non perdere la memoria e l’identità, anzi di affermarla con forza ed orgoglio. Per questo ho provato a farvi conoscere di vicino quelli che le idee fondanti le hanno discusse, le hanno fatte diventare pensieri, le hanno trasformate in pensiero e in azioni pratiche per prendersi cura meglio, anche, di noi stessi… (104). 02Gardini 67:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 76 10:22 Pagina 76 Slow medicine Bibliografia (1) Dolara A. (2002), Invito ad una “slow medicine”, Italian Heart J Suppl, 3, p. 101. (2) Dolara A. (2005), Avoiding haste in clinical cardiology, Acta Cardiologica, 60, pp. 659-73. (3) http://it.wikipedia.org/wiki/Isola_di_Pasqua (4) McCullough D. (2008), My Mother, your Mother: Embracing “Slow Medicine”. The Compassionate Approach to Caring for your Aging Loved Ones. (5) Satolli R. (2008), Cresce il bisogno di “Slow Medicine”, Corriere della Sera, 1 giugno, p. 41. (6) Bauer L. (2008), Editorial: Slow Medicine, The Journal of Alternative and Complementare Medicine, 14, pp. 891-2. (7) Percival T. 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Collocazione eterogenea ma in qualche modo ben connotata nel vasto mondo sanitario: quello che accomuna il piccolo gruppo dei fondatori è una ricerca mai interrotta di “modi” di fare Medicina più rispondenti alle esigenze delle persone, più ecologici, più indipendenti dalle logiche del profitto, più “puliti”. Spesso, una ricerca contro corrente. Breve la storia di slow medicine: nata da un incontro e da una domanda che in quell’incontro, a novembre del 2010, ci siamo fatti con un certo stupore: perché siamo qui per caso? Perché ci è mancata, ci manca, una struttura che connetta quello che pensiamo e quello che facciamo o che proviamo a fare in posti lontani e diversi (Torino, Ferrara, Monza, Trieste, Milano…), che dia senso e continuità alle esperienze, che impedisca che si disperda la memoria di cose accadute in an- 10:22 Pagina 78 Slow medicine N. 191 - 2012 Una nuova cultura medica ni che sembrano così lontani, gli anni delle riforme sanitarie, della Medicina sociale, della cultura delle prevenzione nelle fabbriche, nel mondo del lavoro? Cosa possiamo ancora far succedere, che permetta ad altri di individuare un luogo delle idee, delle esperienze, delle condivisioni in materia di cura attenta alla qualità, alla sicurezza, al rispetto? In questi anni abbiamo fondato riviste, diretto collane editoriali, organizzato convegni, realizzato corsi e momenti di formazione, fondato gruppi e società scientifiche. Ma restava la sensazione che le centinaia di persone, professionisti giovani e meno giovani che incontravamo ai convegni, ai corsi, nelle riunioni si ritrovassero comunque soli, il giorno dopo, nel confronto con una realtà di lavoro paludosa, frustrante, capace di soffocare qualsiasi tentativo di cambiamento semplicemente con il peso del suo immobilismo. Cambiare si può era stata l’idea radiosa e utopistica di Slow Food: vedere il cibo come un elemento della vita da trattare con cura e attenzione dal momento della produzione fino al momento del consumo; come il prodotto del lavoro e della fatica appassio- La nascita di una “rete di idee in movimento” nata di persone che coltivano producono trasformano, a cui si deve rispetto e a cui va richiesto rispetto per l’ambiente e per le persone. Come un momento di scelta da parte di chi consuma, che deve pretendere cibi buoni e puliti ma deve anche fare la sua parte perché quei cibi siano “giusti”, prodotti senza sfruttamento e senza violenza. Cambiare si può è l’idea sorella su cui nasce slow medicine: si può ripensare la cura rivedendo alla base i rapporti fra professionisti, amministratori, ricercatori, manager e cittadini, proponendo con forza una riflessione continua e libera sulla qualità della cura intesa nel senso più ampio, come rispondenza alle esigenze della persona curata e dei professionisti della cura, come sostenibilità, equità, partecipazione, controllo condiviso degli obiettivi e delle risorse. La parola slow abbinata alla Medicina compare a partire dal 2002 (1, 2), e sempre con questo significato: attenzione alla qualità degli interventi di cura, ma anche alla qualità delle persone che inter- vengono nella cura. Rigore scientifico e rigore etico, nella ricerca, nelle scelte, nelle proposte di intervento. Competenza tecnica e competenza relazionale. Aggiornamento scientifico e sviluppo della capacità di comunicazione. Nel maggio del 2010 a conclusione del Convegno SIQuAS VRQ di Trento Andrea Gardini proponeva un “Manifesto per una slow medicine” che possiamo considerare il vero inizio di una slow medicine non più solo idea ma movimento. O meglio ancora “rete di idee in movimento”. Perché le parole sono fondamentali per dare concretezza e peso alle idee, per indicare, definire, rendere limpide le proposte e le intenzioni. Il primo impegno, nei mesi di gestazione di slow medicine, è stato quello di trovare le parole che definissero una cura slow. Anche qui seguivamo la linea di Slow Food: quelle tre parole-aggettivi che non richiedono altre spiegazioni per intendersi su cosa è l’idea slow del cibo: buono, giusto, pulito. E la cura? Siamo arrivati per gradi a selezionare le nostre tre 03Quadrino 78:Layout 1 26-04-2012 10:22 Pagina 79 Sae l ute Slow medicine Territorio 79 N. 191 - 2012 parole, i nostri aggettivi per una cura slow: sobria, rispettosa, giusta. (e pazienza se l’aggettivo sobrio è diventato una moda un po’ esausta, negli ultimi tempi: noi siamo arrivati prima…). La breve storia di slow medicine è partita da quelle tre parole, e subito dopo da un lancio di prova: perché non lo sapevamo, se la nostra convinzione che molti professionisti sanitari fossero in cerca di una casa comune, di una rete che spezzasse la sensazione di muoversi sempre da soli e mettesse in contatto idee e progetti, fosse reale o immaginaria. Ce lo siamo chiesto, abbiamo fatto una prova: abbiamo proposto ad alcune delle persone che avevamo in mente come punti potenziali della nostra rete ancora immaginaria di incontrarci a Ferrara: niente sponsor, niente rimborsi spese, niente cene di gala. Solo, questo sì, un luogo bellissimo e suggestivo per accoglierci, il Castello Estense. Abbiamo scoperto una cosa, prima e dopo quell’incontro del 29 giugno 2011: i punti rete erano molti di più di quelli che avevamo immaginato, alcuni già attivi, altri pronti a essere attivati. Persone, gruppi, luoghi di ricerca e di formazione. L’impegno, da questo momento in poi, è quello di metterli in comunicazione, di facilitare incontri, scambi, progettazione condivisa. La proposta che il Convegno di Torino ha voluto lanciare è la trasformazione in azioni e progetti delle tre parole chiave di slow medicine. Progetti di cura che rispettino l’idea di sobrietà. Progetti di cura basati sul rispetto. Progetti di cura più giusti. Abbiamo provato, nel convegno, a declinare questi concetti. A definire meglio cosa caratterizza una cura sobria, rispettosa e giusta. Da ora in poi, l’impegno è operativo: dobbiamo provare a realizzare queste idee. Le riflessioni che i relatori del Convegno ci hanno offerto sono il punto di partenza per lo sviluppo di una reale, concreta slow medicine. Bibliografia (1) Dolara A. (2002), Invito ad una Slow Medicine, in Italian Heart Journal Suppl, 3 (1), pp. 100-1. (2) Satolli R. (2008), Cresce il bisogno di “Slow Medicine”, Corriere della Sera, 1 giugno. 04Bert 80:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 80 Giorgio Bert Medico - Responsabile del Dipartimento “Counselling comunicazione e salute”, Istituto CHANGE Una medicina sobria implica la capacità di agire con moderazione, gradualità, essenzialità e di utilizzare in modo appropriato e senza sprechi le risorse disponibili. Rispetta l’ambiente e salvaguarda l’ecosistema. (dal Manifesto di slow medicine) S obrietà: bella parola, oggi anche di moda. Merita tuttavia porsi un interrogativo: un medico sobrio è per ciò stesso un buon medico? E poi, sobrio come? Nello stile di vita? Nel vestire? Nell’eloquio? Riflettendoci risulta chiaro che la sobrietà, presa come atteggiamento individuale, poco ci dice sulla competenza e sull’etica professionale del medico. In effetti il Manifesto di slow medicine parla di “Medicina” sobria, non di medico sobrio: e non a caso. La Medicina, l’arte medica come un tempo era chiamata, non è infatti definita per intero dal comportamento del professionista che la esercita; perché esista un medico deve esistere un paziente, e viceversa. In altre parole, l’elemento su cui nei secoli e nei millenni si è costruito il sistema della cura non è né il medico né il malato ma la relazione che si crea tra queste due figure. Da questo punto di vista non è necessario che il professionista della cura abbia 10:19 Pagina 80 Slow medicine N. 191 - 2012 La sobrietà una laurea in Medicina basata sul metodo scientifico accettato dalla cultura occidentale; sotto l’aspetto relazionale non fa differenza che il curante sia un medico, uno sciamano, uno stregone: la relazione stessa può essere almeno in parte terapeutica, come dimostrano i più recenti apporti delle Neuroscienze. È stato in effetti dimostrato che la relazione medico-paziente produce effetti neurofisiologici verificabili con le tecniche attualmente in uso e coinvolge specifiche aree cerebrali. Questa azione è talmente intensa che è in grado di ridurre o addirittura di annullare il disagio di cui soffre il paziente. Per citare Fabrizio Benedetti, neurofisiologo di fama mondiale: “Molti esempi illustrano gli effetti positivi di una buona interazione medico-paziente. Kaplan e coll. (1989) hanno osservato che la pressione sanguigna, il livello glicemico, le condizioni funzionali e soprattutto lo stato di salute sono chiaramente correlati a specifici aspetti della comunicazione medico-paziente. Molti altri studi confermano questi risultati (1)”. Inversamente parole e atteggiamenti del medico percepiti come negativi possono produrre peggioramenti sul piano clinico. L’importanza terapeutica del rapporto medico-paziente Sobrietà nella relazione quindi, ma non basta. La Medicina, così come la propone slow medicine, deve infatti essere non solo sobria ma anche rispettosa e giusta: questi aggettivi definiscono tre atteggiamenti che devono andare rigorosamente insieme. Insomma, una persona sobria e basta, medico o no, non è necessariamente affidabile: Hitler era notoriamente sobrio di costumi ma sul piano del rispetto e della giustizia lasciava, come si sa, parecchio a desiderare. Se qui parliamo principalmente di sobrietà, dobbiamo sempre immaginarla strettamente correlata al rispetto e alla giustizia. Che significa “sobrietà” in questo contesto? Il Manifesto di slow medicine la sintetizza così: “Fare di più non significa fare meglio”. Un altro modo di coniugare il celebre motto dell’architetto Mies van der Rohe “Less is more”: Il meno è più. In ambito medico questa frase assume significato solo se si tiene presente quanto in precedenza detto: che cioè alla base della cura non sta il medico ma la sua relazione con il paziente, Una relazione buona abbastanza si fonda da parte del paziente sulla fiducia, da parte del medico sull’empatia, sull’ascolto. Costruire una buona relazione è quindi il primo e fondamentale atto medico, il più antico e importante: tutto il resto viene di conseguenza. La sobrietà si valuta pertanto all’interno della relazione. Un esempio: prendiamo un medico molto preparato sul piano tecnico e clinico a cui si presenta un paziente che assume una quantità di farmaci a suo avviso eccessiva e insensata. Competenza e sobrietà lo porteranno a prescrivere al paziente di eliminarne subito una parte e di limitarsi a quelli che il medico stesso ritiene necessari. Questo professionista si percepirà come un prescrittore sobrio ma in realtà non lo è, o per lo meno non dal punto di vista della slow medicine, in quanto egli prevarica il paziente, non lo ascolta, gli impone la sua visione e di conseguenza lo è nel senso che si pone fuori, non dentro la relazione; in tal 04Bert 80:Layout 1 26-04-2012 10:19 Pagina 81 Sae l ute Slow medicine Territorio 81 N. 191 - 2012 modo essa viene interamente impostata su quella che definiamo la “voce della Medicina”. Se il paziente volesse far presente che una di quelle medicine “inutili” lo fa a suo avviso star bene al contrario di un’altra giudicata “necessaria”, difficilmente verrà ascoltato: un medico di quel genere non è abituato a negoziare e ben di rado lascia spazio alla “voce della vita”. Ogni relazione tra persone tuttavia richiede reciprocità e di conseguenza aspetti negoziali, e quindi non può basarsi su decisioni unilaterali imposte da una delle parti: se questo avviene si arriva allo scontro e la relazione a questo punto si degrada o smette di esistere. Nel momento in cui si spezza l’ultimo legame del binomio medico-paziente, restano sul campo due entità individuali ognuna con le sue idee, le sue convinzioni, le sue certezze, le sue emozioni. Una situazione potenzialmente conflittuale. L’obiettivo primario del professionista della cura è quello di mantenere sempre la relazione perché all’interno di questa si gioca tutto quanto: la sobrietà, il rispetto, la giustizia. Il fondamento inscindibile del sistema medico, antico e moderno, scientifico o no, è e resta la relazione medico-paziente. Quella che ogni medico vorrebbe ottenere, la fiducia da parte del paziente, è appunto una relazione. Certo, il medi- co può essere più o meno capace di ispirare fiducia, ma in ultima analisi quella fiducia se la dovrà guadagnare volta per volta. Se è il malato da solo a decidere di dare fiducia, esso avrà anche il potere di togliere unilateralmente la fiducia che ha concesso; quanto al medico, egli non ha il potere di costringere il paziente a fidarsi di lui una volta per tutte. La fiducia, come l’amore o l’amicizia o qualsiasi relazione umana si costruisce e ricostruisce nel tempo attraverso mediazioni, negoziazioni, tentativi, errori, momenti di reciprocità. Se il paziente non si fida, la noncompliance è quasi assicurata. In una interazione autoritaria o comunque di scarsa fiducia reciproca, la sobrietà imposta – sia che essa riguardi il trattamento sia a maggior ragione lo stile di vita – può venire percepita come aggressiva o comunque non applicabile nella realtà quotidiana. Eppure di sobrietà nelle cure c’è bisogno, eccome, e non è un caso se una rivista medica seria come Archives of Internal Medicine propone da qualche tempo una rubrica dal titolo appunto Less is more, che introduce così: “Less is more è una nuova rubrica che intende mettere in evidenza situazioni in cui l’eccessivo uso di interventi medici può risultare dannoso e in cui un minore interventismo terapeutico produce molto probabilmente migliori condizioni di salute”. Bibliografia (1) Benedetti F. (2011), The Patient’s Brain, Oxford University Press. In questo senso un caso abbastanza impressionante è stato segnalato nel 2007 da una rivista di Medicina delle urgenze e riproposto al pubblico dal New York Times. Una signora di 78 anni viene rinvenuta priva di sensi sul pavimento di casa. Viene prontamente ospedalizzata; il medico curante segnala che è in cura oltre che da lui da altri specialisti per diversi problemi specifici. Una ricognizione della terapia in atto mostra che la paziente è al momento trattata contemporaneamente con: – Betabloccanti – Digitale – Coumadin – Furosemide – Statine – Aspirina – Antidolorifici antiCox2 – Antidepressivi – Benzodiazepine – Antibiotici – Ibuprofene – Sciroppo per la tosse Va notato che alcuni di questi farmaci presentano evidenti interazioni negative. Questo “cocktail venefico” come viene definito nell’articolo, nasce dal fatto che ogni specialista ha impostato la propria terapia ignorando l’esistenza degli altri. Si può pensare che in Italia la presenza di un medico di famiglia che dovrebbe coordinare la terapia riduca questi rischi, e ciò probabilmente è vero; tuttavia in recenti convegni sull’uso dei farmaci, soprattutto in Geriatria, sono stati segnalati casi simili anche da noi. Non sempre vengono effettuate puntuali verifiche periodiche. La necessità di eliminare parte di questi farmaci è evidente, ma è proprio qui che la sobrietà mostra – come si è detto – i suoi aspetti relazionali (ascolto, fiducia, negoziazione…) e la sua correlazione con gli altri elementi slow, prima tra tutti il rispetto: il diritto cioè del paziente di essere quello che è, di pensare e di esprimere quello che pensa, di dare al “mondo della vita” una dignità pari a quella del “mondo della Medicina”. Rispetto vuol dire innanzi tutto legittimazione, accoglienza. Accogliere non significa, è ovvio, né accettare né approvare, né tanto meno rinunciare alla propria competenza che è innanzi tutto un dovere etico; in un rapporto di fiducia tuttavia esistono in genere larghi margini di negoziazione; lo scontro diretto, come la Neurofisiologia insegna, ha generalmente effetti negativi sullo stato di salute, compreso quello del medico. Ovvio che oltre un certo punto il medico non può in scienza e coscienza arretrare, ma il suo atteggiamento sarà allora autorevole, assertivo non autoritario e prevaricante. Non è possibile rendere i pazienti felici con le nostre diagnosi e con le nostre prescrizioni ma si può – si deve – costruire con essi una equilibrata relazione di reciproca fiducia. 05Beccastrini 82:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 82 Stefano Beccastrini Medico del lavoro, pedagogista, storico del cinema Da bambino volevo guarire i ciliegi quando rossi di frutti li credevo feriti la salute per me li aveva lasciati coi fiori di neve che avevan perduti. Un sogno, fu un sogno ma non durò poco per questo giurai che avrei fatto il dottore. Fabrizio De André L a bella canzone, intitolata Un medico, di Fabrizio De André (il quinto evangelista, secondo il mio amico don Andrea Gallo) trae ispirazione da un grande libro di poesia: la Spoon River Anthology di Edgar Lee Masters. Farò riferimento anch’io ad esso, parlerò di tre medici americani, vissuti all’inizio del ’900 e sepolti, quasi l’uno accanto all’altro, nel piccolo cimitero collinare di Spoon River: il dottor Meyers, il dottor Hill e il dottor Iseman (quello di cui parla De André). L’idea del libro venne a Masters dalla lettura di due opere del passato, la settecentesca “Elegia in un cimitero campestre” di Thomas Gray e la tardo-antica “Antologia palatina”, contenente una raccolta di epigrammi funebri. Masters immagina che i morti di una piccola città americana del Middle West, sepolti nel cimitero sulla collina, raccontino, ciascuno sintetizzandolo in un breve componimento poetico, il senso della loro, ormai 10:23 Pagina 82 Slow medicine N. 191 - 2012 Tre medici sulla collina di Spoon River per sempre immodificabile, esistenza terrena. Non chiediamoci ove si trovi Spoon River: è un luogo inesistente sulle carte geografiche in quanto creato dalla fantasia di un poeta (una, e non la meno suggestiva, delle funzioni dei poeti è proprio di costruire geografie parallele a quella del mondo reale). Per tratteggiare le esistenze dei tanti morti del suo poetico cimitero, Masters trasse spunto da varie persone conosciute nei propri anni giovanili, quando visse, prima di trasferirsi a Chicago per fare l’avvocato, nelle cittadine di Petersburg e di Lewinston, in Illinois. Spoon River, dunque, è un po’ Petersburg, un po’ Lewinston e soprattutto, grazie alla magia della poesia, è il simbolo di mille altre piccole città d’America e del mondo intero: I versi introduttivi del libro, come tutti sanno, recitano: “Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tim e Charley / l’abulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso? / Tutti, tutti, dormono sulla collina / … / Dove sono Ella, Kate, Meg, Edith e Lizzie / la tenera, la semplice, la vociona, l’orgogliosa, la felice? / Tutte, tutte, dormono sulla collina”. Tra loro, a dormire sulla collina, ci sono appunto anche il dottor Meyers, il dot- Gli epitaffi poetici che raccontano modi diversi di praticare la professione medica tor Hill e il dottor Iseman ed essi pure narrano, in prima persona, il senso della loro esistenza ai visitatori del cimitero ossia, fuor di metafora, a noi lettori. Ascoltiamo con attenzione, dunque, le estreme parole di questi tre nostri colleghi vissuti ormai più di un secolo fa e cerchiamo, da tale lettura, di ricavare qualche spunto di meditazione sul senso della Medicina e del nostro praticarla. Tutti e tre erano medici di famiglia o, come oggi si direbbe, di Medicina generale. Le loro vicende, pur essendo il medesimo il loro impegno professionale, furono molto diverse tra loro: due dei tre, ma per motivi tutt’altro che simili, ebbero guai con la giustizia e dunque la carriera rovinata; due dei tre furono onesti, generosi, altruisti nell’esplicare la propria missione professionale; uno solo dei tre morì circondato dalla stima e dall’affetto dei propri pazienti. Il dottor Meyers non ci dice come né perché sia diventato medico ma è facile immaginarselo quale studente modello, capace di farsi apprez- zare dai propri insegnanti. Possiamo raffigurarci, anche, la sua carriera di medico, fino all’evento che la stroncò: certamente coronata da successo professionale, da una parte, altrettanto certamente attenta all’aspetto sociale e umanitario della professione, dall’altra. Egli si descrive, infatti, quale “sano, felice, benestante”: la sanità è personale ma la felicità è familiare (infatti dice ancora: “avevo una compagna congeniale e figlioli adulti / tutti sposati e a posto nel mondo”). Il suo essere benestante è, evidentemente, legato al suo lavoro. Meyers fu, infatti, ricco di generosità, di impegno sociale, di altruismo e perciò molto amato da tutti i suoi concittadini e pazienti in quanto “nessuno, tranne il dottor Hill / fece più di me per la gente di questa città”. Egli era “il comodo dottor Meyers dal buon cuore” e tutti “i deboli, gli storpi, gli sventati / e chi non poteva pagare accorrevano da me”. In pochi versi, Masters disegna il commovente ritratto d’un bravo medico di paese. Egli è generoso, disponibile, al servizio 05Beccastrini 82:Layout 1 26-04-2012 10:23 Pagina 83 Sae l ute Slow medicine Territorio 83 N. 191 - 2012 di tutti i bisognosi però, evidentemente, sa essere anche un medico di successo, altrimenti da cosa deriverebbe il suo benessere? Dunque, egli dona tanto, ricevendo tanto. E’ un uomo e un professionista felice che sa spartire la sua felicità col mondo intero, sa restituirla al prossimo. Poi, un giorno, anzi, una notte, bussò alla sua porta, sempre pronta ad aprirsi per accogliere i bisognosi, Minerva Jones, “la poetessa del villaggio / fischiata, schernita dai villanzoni della strada / per il mio corpo goffo” com’ella stessa dice di sé nella propria poesia / epitaffio. Era stata violentata brutalmente da Butch Weldy, un poco di buono. Narra il dottor Meyers: “Una notte Minerva, la poetessa, venne da me nei guai, piangendo / Cercai di aiutarla – morì”. Fu per questo che la carriera e l’intera esistenza del “comodo dottor Meyers” si interruppero drammaticamente, irreparabilmente. Egli dice ancora, concludendo la propria drammatica storia, “Mi accusarono, i giornali mi coprirono d’infamia / mia moglie morì di crepacuore. / Mi finì la polmonite”. Così morì, in malora, un bravo medico e un’ottima persona, colpevole soltanto di aver cercato di aiutare tutti quanti coloro che gli chiedessero aiuto, compresa una poetessa ridicolmente goffa e vilmente stuprata. Leggendo la poesia / epitaffio del dottor Meyers, abbiamo letto, tra l’altro, che “Nessuno, tranne il dottor Hill, fece più di me per la gente di questa città”. Chi era dunque il dottor Hill, colui che seppe fare, per gli abitanti di Spoon River, persino di più del buon dottor Meyers, benestante e felice e dunque buono e altruista, finché le malelingue, il moralismo ipocrita e la stampa bugiarda non ne distrussero carriera ed esistenza? Cerchiamo nel libro la poesia / epitaffio di Hill e leggiamo: “Andavo su e giù per la strada / qua e là, giorno e notte / curando in tutte le ore i malati poveri”. Una dedizione ancor più totale, a ben vedere, di quella di Meyers, verso i pazienti derelitti e miserevoli, privi di soldi e bisognosi d’aiuto sia terapeutico che assistenziale. Qual era la motivazione di tale, generoso e raro comportamento, di tale altruistica – fino all’estremo – concezione della professione medica? “E sapete perchè?” domanda a noi lettori lo stesso dottor Hill. La risposta è triste, persino tragica: “Mia moglie mi odiava, mio figlio andò in rovina / e io mi volsi alla gente e riversai in essa il mio amore”. Ecco la differenza tra i due medici, pur entrambi amanti del prossimo e praticanti una Medicina dell’aiuto, del conforto umano, della dedizione al paziente: il dottor Meyers tendeva a spartire con il prossimo la carica emotiva derivatagli dal proprio benessere esistenziale e dalla propria felicità familiare e dunque dava agli altri tanto amore ma non tutto, perché teneva per sé – giustamente – quello per la propria famiglia; il dottor Hill, invece, si era dedicato anima e corpo agli altri in quanto voleva fuggire dalla propria disperata solitudine, in quanto voleva dimenticare – nella dedizione agli altri, ai più miseri e disperati – la propria miseria affettiva, il dolore per un figlio deludente e deluso, il vuoto per una moglie che sapeva soltanto disprezzarlo. Per questo, Doc Hill fece per la gente di Spoon River persino più di Doc Meyers: perché era spinto non da un maggiore amore da condividere ma da una maggiore disperazione da compensare. Ne ricavò una morte gratificante, capace di ripagarlo di una intera vita di dolente dedizione. Come egli stesso scrive nella sua poesia / epitaffio: “Fu dolce vedere la folla, nei prati, il giorno del mio funerale / e udirla mormorare il suo amore e il suo dolore”. Veniamo, alfine, al terzo medico sepolto sulla collina di Spoon River ossia il dottor Siegfried Iseman, l’unico di cui Lee Masters ci dica il nome proprio e l’unico di cui egli finga, nelle sue poesie / epitaffio, che parli esplicitamente del proprio diventare medico e della propria iniziale concezione della Medicina. Ascoltiamolo: “Dissi, quando mi consegnarono il diploma / dissi a me stesso che sarei stato buono / e saggio e coraggioso e caritatevole col prossimo; / dissi che avrei portato il credo cristiano / nella pratica della medicina”. Ma ciò avvenne davvero? Davvero il nostro comportamento reale, una volta calati nel lavoro quotidiano, è legato ai nostri giovanili entusiasmi ideologici o c’è bisogno di qualcosa di più, di fermez- za di carattere e di esperienze sociali nonchè di profondità di convinzione etica? Iseman prosegue la propria poesia / epitaffio dicendo “ma non so come, il mondo e gli altri dottori / subodorano ciò che si ha in cuore non appena si prende / questa magnanima risoluzione. / È il sistema a pigliarvi per fame”. La vocazione altruistica si sbriciolò presto, nella vita professionale di Iseman. Colpa del sistema, com’egli lascia intendere? Probabile, visto che il Sistema sanitario americano è tuttora basato sui profitti assicurativi e certamente nel 1915 lo era persino di più, ma col sistema sociale vigente occorre sapere fare i conti, quando si vuol seguire una vocazione, una missione, una coerenza etica scelta una volta per sempre. Poi, Iseman tira in ballo la famiglia: “E quando siete poveri e dovete reggere / il credo cristiano e la moglie e i figli / tutto sulla vostra schiena è troppo!”. Fu così che egli scoprì come “… fare il dottore / non è che un modo di guadagnarsi la vita”. Purtroppo, da tale asciutta ed amara considerazione (anche frutto, in lui, di delusioni, frustrazioni, difficoltà familiari e sociali), ne dedusse che tutto si poteva fare pur di fare soldi: “Ecco perché fabbricai l’Elisir di Giovinezza / che mi portò alla prigione di Peoria / bollato come truffatore e imbroglione…”. Così finì, miserevolmente, un destino di vocazione medica nato all’insegna della fede cristiana. (segue a pag. 88) 06Satolli 84:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 84 Roberto Satolli Medico cardiologo e anestesista rianimatoreGiornalista Zadig, Milano Q uando nel 2003 Steve Jobs scoprì, quasi per caso, di avere un cancro al pancreas, i suoi medici lo invitarono a farsi operare subito. Lui invece decise di temporeggiare, e ricorse al chirurgo solo nove mesi più tardi, quando risultò purtroppo che la neoplasia era cresciuta e si era diffusa anche al fegato. Otto anni dopo quel tumore lo uccise. Qualcuno ha detto che era stata una decisione molto stupida, per una persona così intelligente. In realtà, pur col senno di poi, non risulta che la scelta di aspettare sia stata fatta in modo irrazionale ed emotivo: prima di assumerla Jobs si consultò con un gran numero di clinici e di ricercatori a livello mondiale, ci pensò e poi prese una decisione ponderata. Diversi fattori possono far pendere il piatto della bilancia, nel suo caso come in altri simili, verso una vigile attesa, a fronte dei rischi immediati del bisturi. Il tumore al pancreas è di solito rapidamente letale, ma quello di Jobs (di un tipo raro, detto neuroendocrino) era stato scoperto incidentalmente, nel corso di una TC fatta per un motivo banale come un mal di schiena. I tumori trovati così, prima che diano 10:28 Pagina 84 Slow medicine N. 191 - 2012 Il mercato della salute sintomi, possono spesso essere di un genere particolare, di quelli se ne stanno nascosti e non darebbero mai segno di sé se non li si cercasse. Ormai gli scienziati sanno che questo tipo di masse, dette “incidentalomi”, sono frequenti, e purtroppo nessuno è in grado di distinguerle da quelle pericolose. A lui è andata male, ma è impossibile dire che sarebbe stato meglio se avesse accettato l’intervento immediato: chissà, avrebbe anche potuto morire sotto i ferri. Ci si può dunque chiedere se la scelta di Steve Jobs di fare meno di quello che gli consigliavano sia un esempio di sobrietà. Per rispondere è utile considerare prima in che cosa consista il contrario della sobrietà quando si tratta di salute, e quali ne siano le cause. La trasformazione industriale della Medicina contemporanea si accompagna a una forte spinta verso una crescente medicalizzazione, con molti aspetti negativi conseguenti. Per non buttare il bambino con l’acqua sporca sarà bene premettere che i progressi tecnologici, pur non avendo tutto il merito del miglioramento delle condizioni di salute raggiunto nell’ultimo secolo, hanno comunque realizzato veri “miracoli”: far camminare Quali sono le scelte e i limiti della Medicina per contrastare questa tendenza che non è a favore dei pazienti gli storpi, con le protesi articolari; far vedere i ciechi, con una lente artificiale al posto di quella resa opaca dalla cataratta; dare nuova vita a chi era destinato a morte certa, con i trapianti o con la cura della leucemia nei bambini, o con gli antivirali nell’AIDS. A chi spetta l’iniziativa sulla salute? Per millenni il primo passo è stato affidato ai malati, che varcando la soglia del medico chiedevano aiuto. Gli antichi ammonivano “Medicus non accedata nisi vocatur” (“Il medico non si faccia avanti se non viene chiamato”), dimostrando di avere chiaro il rischio di concentrare in un’unica categoria l’enorme potere di definire chi è malato e chi ha bisogno di cure, per le conseguenze che può avere sull’esistenza delle persone e sulle loro relazioni. Dopo la nascita della clinica ottocentesca le cose sono cambiate e questo processo è continuato nel Novecento, con l’invenzione di quella che si potrebbe chiamare pre-cli- nica. Essa consiste nell’individuare difetti di salute in persone che si sentono bene, considerando tali difetti talvolta come indicatori del rischio di sviluppare un malanno, più spesso direttamente come vere e proprie patologie. Questa evoluzione, che è ancora in pieno sviluppo, si è intrecciata con il progresso straordinario degli strumenti diagnostici, generando un paradigma medico, oggi dominante, che comprende tre importanti assunzioni: – quasi tutte le malattie sono precedute da fasi precliniche, di cui i soggetti sono ignari, ma che possono essere individuate con un’offerta attiva di attività diagnostiche, – l’insieme delle persone in fase preclinica costituisce per ciascuna malattia la parte sommersa di un “iceberg”che conviene far emergere per poter intervenire, – quanto più l’intervento avviene su condizioni precliniche, tanto più è possibile rallentarne o impedirne 06Satolli 84:Layout 1 26-04-2012 10:28 Pagina 85 Sae l ute Slow medicine Territorio 85 N. 191 - 2012 l’evoluzione verso la malattia conclamata e gli accidenti che comporta. Queste premesse costituiscono un cambiamento di prospettiva che induce i medici a considerare non più attuale né applicabile l’antico divieto a iniziare la relazione di cura. Sono i professionisti della Medicina gli unici a possedere oggi gli strumenti per stabilire chi è malato (o lo sarà, probabilmente) e sembra quindi inevitabile che spetti ai medici stessi il compito di stabilire chi ha bisogno delle loro cure e quando. La definizione delle malattie e il ruolo del marketing Contrariamente a quanto si pensa comunemente, non vi è un confine preciso e oggettivo che separi la salute dalla malattia. Entrambi i concetti sembrano resistere a tutti i tentativi di definirli in termini chiari e distinti. La celebre definizione di salute formulata dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) dopo la seconda guerra mondiale, come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale”, nel suo sforzo di comprendere tutte le possibili dimensioni finisce per individuare una condizione che appartiene forse a pochi momenti nella vita di persone fortunate. Sul versante della malattia, parimenti, sono falliti tutti gli sforzi di trovarne una definizione in termini puramente “naturalistici”, cioè esenti da valutazioni (value free)1. 1 In realtà, può bastare una semplice riflessione per riconoscere la natura almeno in parte convenzionale e non puramente oggettiva delle malattie. Risulta infatti evidente la valutazione negativa implicita nel concetto stesso di malattia, utilizzato per classificare eventi, catene causali e processi di per sé neutri, rispetto per esempio all’evoluzione, ma carichi di valore solo se vengono riferiti alla biografia dei singoli individui. Non a caso, come tutte le convenzioni umane, anche le definizioni di malattia (e le relative soglie) sono storiche, cioè soggette a variazioni nel tempo non solo in base a nuove conoscenze, ma anche a considerazioni di utilità o a scelte politico-economiche. Di fatto il potere in questione viene delegato alla comunità medica e da questa a gruppi di esperti delle singole discipline. Sempre più spesso, difatti, gli standard vengono elaborati da panel di società scientifiche, per lo più statunitensi, e poi adottati a livello mondiale con il benestare delle varie Istituzioni nazionali e sovranazionali, come l’OMS. Per completare il quadro resta però ancora da ricordare che, per l’industria della salute nel suo complesso, una nuova definizione di malattia, più larga rispetto alla precedente, significa un mercato potenziale aumentato per l’intera filiera di cure, ed è quindi strategico poterne controllare la determinazione. Non a caso i panel di esperti deputati alla definizione delle malattie e delle soglie sono sempre più spesso direttamente o indirettamente supportati da grandi gruppi industriali. Il risultato sotto gli occhi di tutti è che la comunità professionale sta sempre più spesso abdicando la propria funzione a favore di strategie sostanzialmente di mercato. E ciò accade spontaneamente, perché vi è una quasi perfetta sintonia di interessi tra i professionisti e l’industria attiva in un determinato settore a spingere per l’allargamento della propria attività. In epoca di evidence based medicine ci si potrebbe aspettare che decisioni con un impatto così rilevante sulla vita di milioni di persone vengano comunque prese sulla base di prove scientifiche solide e rigorosamente valutate. Non è così. I documenti conclusivi in cui i panel espongono le loro decisioni sono spesso sconcertanti per la scarsità degli elementi di prova a favore dei nuovi criteri proposti, per la quasi assenza di valutazioni sui possibili danni per la salute della popolazione e la rimozione – talvolta dichiarata, più spesso implicita – di qualsiasi stima sugli altri effetti rilevanti di natura non medica, come gli aspetti esistenziali, lavorativi, assicurativi, economici, politici eccetera. Per la verità, il processo decisionale sulle definizioni e sulle soglie di malattia non potrebbe essere puramente scientifico anche se le prove esaminate fossero più solide e più complete. Questo perché, come si è già affermato, il confine tra salute e malattia non è qualcosa di oggettivo da “scoprire” per via empirica, ma contiene un irriducibile componente di valore che ne fa qualcosa da “decidere”, sulla base di scelte, preferenze e priorità. Il punto decisivo quindi non è solo quello di rendere le attività di definizione delle malattie più scientifiche e trasparenti (che sarebbe comunque un bel passo avanti), ma soprattutto di stabilire una buona volta chi deve esprimere scelte, preferenze e priorità, e attraverso quali procedure. Il punto quindi, come si vede è squisitamente politico. Gli stessi meccanismi, e le stesse carenze, si manifestano per la proposizione di nuove entità patologiche, che sono sostanzialmente di due tipi. Il primo tipo consiste in una riclassificazione, e riguarda condizioni umane che non erano in precedenza considerate per lo più di pertinenza della Medicina, ma che lo diventano nel momento in cui compare sul mercato un prodotto che ne modifica l’evoluzione. Due esempi classici – ma se ne potrebbero fare molti altri – sono la calvizie e l’impotenza, entrambe riclassificate come malattie (col nome rispettivamente di alopecia androgena e disfunzione erettile) nel momento in cui è stato disponibile un farmaco per trattarle. C. Boorse, A rebuttal on health, in J.M. Humber, R.F. Almeder (eds.), What is Disease? Humana Press, Totowa (New Jersey) 1997. 06Satolli 84:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 10:28 Pagina 86 86 Slow medicine Le nuove malattie del secondo tipo appaiono invece come “invenzioni” di sana pianta, e rispondono alla logica di creare un mercato per un nuovo prodotto ancora “orfano” di indicazioni mediche. Anche in questi casi entrano in azione panel di esperti, i quali elaborano liste di criteri diagnostici, che poi vengono recepiti a livello internazionale. I legami con l’Industria di questi panel periodicamente autoconvocati sono stati ricostruiti dettagliatamente per diversi casi di studio, come per esempio la sindrome dell’intestino irritabile (definita con i cosiddetti criteri di Roma), la sindrome delle gambe senza riposo e la fobia sociale. In tutti questi casi l’elaborazione delle definizioni e dei criteri è avvenuta con diversi anni di anticipo rispetto alla comparsa sul mercato del o dei farmaci dedicati alla nuova malattia: le strategie di marketing destinate ad allargare o a creare una nuova filiera di cure devono essere iniziate con opportuno anticipo, in modo che il mercato potenziale sia pronto quando l’offerta può essere lanciata. Solo a questo punto il pubblico generale viene investito da grandi campagne di comunicazione di massa, destinate a diffondere un messaggio semplice, articolato in quattro passaggi retorici: 1) La consapevolezza di un nuovo (o allargato) pericolo per la salute, 2) sinora sottovalutato ma molto diffuso e tale da comportare gravi rischi, 3) dal quale ci si deve difendere, innanzitutto cercan- do di individuarlo al più presto con visite ed esami, 4) ma senza preoccuparsi troppo, perché esistono già in commercio uno o più prodotti efficaci per combatterlo. I quattro passaggi retorici di queste campagne, ormai comunemente definite col termine anglosassone di disease mongering (mercato delle malattie) prevedono l’uso esclusivo di un linguaggio della promozione, che non ammette l’esistenza di controversie, punti di vista o interessi contrapposti. Di conseguenza il comune cittadino non può neppure essere a conoscenza del fatto che la malattia di cui deve preoccuparsi è stata definita in modo nuovo o allargato rispetto al passato e che l’invito a ricercarla è più esteso di quanto fosse in precedenza. Non basta definire le malattie, occorre cercarle Gli stessi gruppi di esperti che definiscono le malattie raccomandano anche periodicamente nuovi criteri per l’allargamento di uso degli strumenti diagnostici destinati a riconoscerle. Sia per esplorare il cosiddetto “iceberg”, cioè la massa di portatori ignari di malattie già in atto, sia per anticipare la diagnosi di malattie che si presume destinate a manifestarsi nel tempo. Gli stessi strumenti diagnostici, la cui produzione e impiego sono ormai una componente rilevante del complesso medico-industriale, progrediscono dal punto di vista tecnologico, per lo più nella direzione di un aumento della N. 191 - 2012 sensibilità (capacità di individuare anche anomalie minime) a scapito della specificità (idoneità a discriminare tra anomalie rilevanti e non). Se a questo si aggiunge che l’incremento di utilizzo degli strumenti diagnostici ha assunto un andamento esponenziale negli ultimi quindici anni, e perciò raggiunge via via popolazioni sempre meno a rischio (cioè con una bassa probabilità di avere condizioni patologiche), ne risulta che l’attività diagnostica complessiva produce una messe crescente di risultati considerati anormali (cosiddetti “positivi”, ma per chi?), ma sempre meno rilevanti per la salute futura: in sostanza aumentano molto di più i falsi positivi e l’individuazione di malattie che non esistono o piuttosto che non si manifesterebbero mai. La parte sommersa dello “iceberg” preclinico comprende infatti molte condizioni che esistono realmente (e quindi non sono falsi positivi quando vengono identificate), ma che sarebbero rimaste in silenzio, senza conseguenze per la salute se non le si fosse cercate. Una volta trovate, sin tanto che risulta impossibile distinguerle dalle condizioni patologiche simili che sono invece destinate a manifestarsi, è necessario avviare i trattamenti medici e chirurgici disponibili, con tutte le conseguenze del caso. Immaginiamo un uomo di cinquanta anni a cui viene proposto un esame del sangue per accertare la presenza di un tumore alla prostata, pur in assenza di qualsiasi disturbo. L’esame si chiama PSA (antigene prostatico specifico) e richiede poche gocce di sangue e una spesa minima. Con una certa frequenza l’esame risulta “positivo” e per approfondire si richiede un’ecografia. Se gli ultrasuoni rilevano un nodulo, bisognerà fare una biopsia, cioè pungere la ghiandola per aspirare un pezzo di tessuto da esaminare al microscopio. Sopra i cinquant’anni è molto frequente la presenza di tumori nella prostata, che nella maggior parte dei casi, pur essendo maligni dal punto di vista istologico sono destinati a non dare alcun segno di sé per tutti gli anni che restano. Perciò se si fa una biopsia, spesso il risultato sarà il riscontro di un tumore. Poiché ad oggi è impossibile differenziare i tumori destinati a crescere e dare metastasi da quelli che non lo faranno, nella maggior parte dei casi si dovrà fare un intervento chirurgico o una radioterapia o una cura ormonale: tutti questi interventi hanno diverse possibili conseguenze, più o meno prolungate e frequenti, come incontinenza o impotenza. Per ciascuna di queste si renderanno necessari nuovi accertamenti specialistici, cui seguiranno interventi terapeutici, riabilitativi o palliativi, in una sequenza che può prolungare la cascata clinica per diversi anni. La cascata clinica produce sprechi di risorse e danni iatrogeni, ma è comunque funzionale all’industria della salute, e ai suoi singoli componenti, in quanto è capace di produrre una costante espansione dell’attività. 06Satolli 84:Layout 1 26-04-2012 10:28 Pagina 87 Sae l ute Slow medicine Territorio 87 N. 191 - 2012 Dove sta il cuore della medicalizzazione? La conseguenza principale di tutto ciò è una accelerazione su scala industriale di quella che negli anni Settanta si chiamava medicalizzazione, sulla base delle opere di filosofi come Ivan Illich2 o di sociologi come Peter Conrad 3. Negli ultimi decenni questa evoluzione ha coinvolto decine di condizioni o processi umani, dalla nascita (oggi in Italia più di un terzo dei parti avviene per via cesarea, con punte vicino al 50% in alcune Regioni) alla morte (la stragrande maggioranza dei cittadini nei Paesi ricchi muore oggi in un letto di Ospedale, spesso di rianimazione, sottoposta a diversi interventi medici invasivi sino alla fine), senza risparmiare nessuna fase o aspetto della vita, ma con particolare intensità per quanto riguarda la vecchiaia, il sesso e la psiche. Sulla base di quanto detto in precedenza, il disease mongering (promozione delle malattie) che ne rappresenta l’espressione oggi più vistosa, può interpretare la medicalizzazione come un processo inverso rispetto alla promozione della salute. Quest’ultima era stata definita dalla Carta di Ottawa (1986) come il processo che consente alle persone di esercitare un maggior controllo sulla propria salute e di migliorarla. In maniera simmetrica si potrebbe quindi descrivere la medicalizzazione come un processo che riduce la capacità delle persone di esercitare un controllo sulla propria salute, e rischia quindi di peggiorarla. Il concetto di “controllo sulla propria salute” merita un approfondimento, almeno per quanto riguarda le elaborazioni sul cosiddetto “locus of control” interno o esterno, cioè il grado con cui la persona ritiene di potersi autodeterminare, e la “ability to cope”, cioè la capacità dell’individuo di far fronte alle condizioni dell’esistenza. Entrambe risultano strettamente correlati con le diseguaglianze sociali di salute, cioè con quel fenomeno, documentato ormai in tutte le società, secondo cui per qualsiasi malanno o accidente, i morti sono sistematicamente molti meno tra i privilegiati che tra gli svantaggiati, con un gradiente regolare di classe in classe. E lo stesso vale per ogni altra dimensione di salute: soggettiva, fisica, mentale, così come per la disabilità e i ricoveri. Per di più, la correlazione si mantiene con tutti gli indicatori sociali: classe, istruzione, casa, reddito, contesto. Lo studioso britannico Michael Marmot fa notare che percorrendo le venti miglia che attraversano la città di Washington negli Stati Uniti da est a ovest si perde un anno di speranza di vita per ogni miglio. A Londra lo scarto tra gli estremi è di sei anni di speranza di vita. A Torino c’è meno segregazione territoriale, ma la distanza tra chi vive in un quartiere più ricco e chi vive in uno più povero è di circa tre anni di speranza di vita. Per avere un termine di paragone, solo le grandi guerre o le catastrofi naturali producono differenze nella salute di questo ordine di gravità. Ora lo stesso Marmot4 ha individuato nei suoi studi come la relativa perdita del controllo interno e dell’abitiy to cope sia probabilmente ciò che spiega gran parte della perdita di salute nei più svantaggiati. E per questo motivo, mentre una delle conseguenze attese e desiderate di una reale promozione della salute sarebbe anche quella di ridurre le diseguaglianze sociali, è ragionevole aspettarsi l’effetto opposto dagli interventi di medicalizzazione della società, dal momento oltretutto che obbediscono notoriamente alla cosiddetta “legge inversa della Medicina” (formulata dal medico britannico Julian T. Hart nel 1971), per cui le cure in genere, e in particolare quelle non richieste dagli interessati ma offerte per iniziativa dei medici, raggiungono prevalentemente le persone che ne hanno meno bisogno. Questo rimanda al concetto di Pharmageddon5, che costi- tuisce una recente elaborazione intellettuale sugli eccessi della Medicina, vista nella prospettiva di “un mondo alla rovescia, dove le medicine e la Medicina possono produrre più danni che benefici”: gli autori del documento, riuniti a Londra nell’aprile del 2007, sottolineano infatti che “la sottomedicazione delle comunità più svantaggiate e la sovramedicazione di quelle privilegiate costituiscono due facce della stessa medaglia, come la malnutrizione e l’obesità”. Fermate quel bisturi Ovviamente il rischio di sovramedicazione non esiste solo per i farmaci. Per quanto riguarda la Chirurgia, per esempio, una persona su dieci nell’ultima settimana di vita subisce un intervento chirurgico. Nell’ultimo mese si sale a una su cinque, e nell’ultimo anno addirittura a una su tre. Accade così negli USA, secondo un rapporto pubblicato su Lancet, frutto dell’analisi di quasi 2 milioni di assistiti di Medicare (la mutua degli americani anziani, sopra i 65 anni) defunti nel 2008. La tecnologia medica appare, agli occhi degli operatori e dei pazienti stessi, come un’attraente scorciatoia per mettere comunque una pezza a qualcosa che può essere materialmente aggiustato, anche se questa riparazione, nella migliore delle ipotesi, I. Illich, Limits to medicine: Medical nemesis, the expropriation of health, 1975. P. Conrad, The Medicalization of Society: on the Transformation of Human Conditions into Medical Disorders, John Hopkins University Press, 2007. 4 M. Marmot, Status Syndrome: How your social standing directly effects your health and life expectancy. 5 Pharmageddon? http://www.socialaudit.org.uk/60700716.htm, visitato 11 marzo 2010. 2 3 06Satolli 84:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 10:28 Pagina 88 88 Slow medicine non consentirà comunque al malato di vivere più a lungo o meglio. Nei casi disgraziati, invece, gli interventi più invasivi al termine della vita, o comunque quando non ci si può aspettare che cambino l’esito, possono anche infliggere sofferenze aggiuntive, come dolore, debilitazione o varie forme di invalidità. Oltre allo spreco di risorse, di cui è meglio non parlare, perché quando vi si accenna si rischia di essere fraintesi, come se si volesse risparmiare sulla pelle dei malati. Invece la questione centrale è la capacità di comunicare. “Le difficili spiegazioni e le franche discussioni tra il paziente e il suo curante che dovrebbero precedere qualsiasi decisione terapeutica di un certo peso troppo spesso non si svolgono neppure” dice Ashish Jha, principale autore del rapporto su Lancet. E con questo centra il cuore della questione, che come in molti altri casi di possibile eccesso di cure, può essere affrontata solo attraverso una trasparente comunicazione e una relazione paritaria tra chi le deve ricevere e chi le propone. (segue da pag. 83): Tre medici sulla collina di Spoon River Qui ci fermiamo anche noi, nel nostro seguire le tracce poetiche della ormai lontana N. 191 - 2012 Freni da progettare Mentre per certa Medicina iper-tecnologica conta fare in fretta e soprattutto fare tutto quello che è possibile, senza mai arrendersi all’ inevitabile, e spesso senza fermarsi a pensare il senso di quello che si intraprende; per la Medicina della sobrietà prendere tempo non è una perdita, puntare alla qualità della vita anziché a una improbabile guarigione è realismo, rinunciare a un esame sapendo già che non si farebbe comunque alcun intervento è il segreto per evitare guai peggiori dei possibili benefici. Con una espressione anglosassone, si potrebbe dire che per la salute less is more vale molto più spesso di quanto si pensi. Grazie a mirabolanti progressi scientifici e tecnologici, la Medicina degli ultimi anni è come una fiammeggiante Ferrari a cui ci siamo dimen- ticati di costruire i freni: a colpi di trapianti, riparazioni e rianimazioni raggiunge spesso risultati spettacolari, che ci hanno cambiato la vita, ma non si ferma mai se non sbattendo contro il muro della morte. Una robusta iniezione di slow medicine, e un dialogo più serrato tra specialisti e cittadini comuni su questi temi, può correggere quel difetto di progettazione. Occorrerebbe istituire momenti e luoghi di confronto e decisione a livello collettivo che riguardino almeno le scelte fondamentali, che ricadono sulla testa di milioni di persone, e che come abbiamo visto riguardano soprattutto la definizione delle malattie, i criteri della diagnosi e i processi di individuazione di chi ha bisogno di cure (come screening e campagne di consapevolezza), perché da questi discende direttamente il grado di medicalizzazione della società. Per questa condivisione collettiva delle scelte sugli scopi e i limiti della Medicina non sembrano adatte le forme consuete delle democrazia rappresentativa, che affida il potere decisionale a chi rappresenta la maggioranza dei cittadini. Per le scelte sui limiti della Medicina, più che scegliere “per alzata di mano” tra una pluralità di punti di vista diversi e talvolta contrapposti, sembra opportuno adottare modalità che puntino a deliberare in modo quanto più possibile unanime sulla base dell’interesse collettivo. Il metodo che meglio corrisponde a questo scopo è probabilmente quello della democrazia deliberativa, che sta suscitando anche in Italia un interesse crescente per affrontare scelte difficili che coinvolgono la vita di molti cittadini, dai temi dell’ambiente ai diritti degli immigrati. A parere di chi scrive sarebbe il momento di sperimentare la fattibilità ed efficacia di esercizi di democrazia deliberativa applicati alla Medicina, ai suoi scopi e ai suoi limiti. esistenza di tre colleghi dei primi del Novecento. Le loro vicende possono però servirci a porre a noi stessi una domanda: “Quale poesia / epitaffio scriveremmo, o almeno vorremmo che un Lee Masters d’oggidì scrivesse, sulla nostra esistenza di medici, una volta conclusa per sempre?”. Eppoi chiediamoci se tale poesia / epitaffio ci piacerebbe. Diventare medici Slow significa anche imparare a fare questo: non soltanto leggere con amorevole attenzione le poesie dei grandi poeti – e dei grandi cantautori – ma anche saperle utilizzare quale fonte di verità su noi stessi e sul nostro lavoro. 07Domenighetti 89:Layout 1 26-04-2012 10:27 Pagina 89 Sae l ute Slow medicine Territorio 89 N. 191 - 2012 Gianfranco Domenighetti Economista, sociologo Docente di Comunicazione e Economia sanitaria, Università della Svizzera italiana e di Losanna Diseguaglianze di accesso e sostenibilità dei sistemi sanitari La giustizia sociale mostra un suo lato che non suscita la dovuta indignazione, perché viola la stessa Carta costituzionale: chi appartiene alle classi svantaggiate ed ha una scarsa scolarità, ha una durata della vita inferiore rispetto a chi fa parte della popolazione agiata e acculturata, in diversi casi otterrà con un ritardo maggiore gli esami richiesti o il ricovero in Ospedale. Le ragioni di questa inaccettabile diseguaglianza sono legate ad una cultura che valorizza i rapporti “tra pari”, nel senso che, in questi casi, un professionista medico potrebbe adoperarsi, affermano le ricerche, con maggiore disponibilità a favore di chi ha più argomenti per descrivere i suoi bisogni. Una cultura mediovalistica che fortunatamente si è mantenuta, anche se limitatamente, nelle sacche di una sanità meridionale. Ma il divario di mortalità fra le classi sociali si registra anche nelle altre Regioni, persino nella stessa città divisa per quartieri “poveri e ricchi”. Allora il problema si allarga e pone tutta una serie di domande. Cominciamo dalla relazione medico-paziente. Il livello culturale risulta determinante sia nell’esporre i sintomi che affliggono il paziente, o le cure che sta seguendo senza trarne beneficio, sia nelle parole che verranno utilizzate per fare una diagnosi, prescrivere esami o terapie. Si è molto enfatizzato l’emporwement del paziente, una specie di “alfabetizzazione” medica che lo metterebbe in grado di porsi come un interlocutore nei confronti del medico. In realtà il rapporto fra le parti risentirà sempre della insuperabile asimmetria che si crea fra chi ha studiato e messo in pratica una vasta cultura scientifica, e chi può solo fare qualche domanda tuttalpiù pertinente ma certo non è in grado di opporre un giudizio o proporre un’alternativa alle decisioni del professionista che ha interpellato. L’informatica, in questo senso, è venuta in soccorso del paziente offrendogli l’illimitata disponibilità di “Dott. Internet”, che chiarisce termini, descrive sintomi e decorsi di malattie, indica le terapie più innovative; uno strumento anche rischioso se non si ha l’accortezza di consultarlo valutando i requisiti di serietà dei professionisti che rispondono sul web. È in questo campo che il paziente va a volte a cercare le risposte che il suo curante non gli ha dato, o fatto capire, magari perché non c’è stato neanche il tempo per porgliele. G li studi sulla mortalità secondo la classe socioprofessionale confermano l’importanza determinante della condizione socioeconomica sulla quantità (longevità) e probabilmente sulla qualità di vita. La sopravvivenza dei passeggeri, quando naufragò il Titanic, era positivamente correlata con la classe d’imbarco (prima classe: 60% di sopravvissuti, seconda classe: 42%, terza classe: 32%). Allo stesso modo, i lavoratori appartenenti alla classe sociale meno favorita hanno nei Paesi industrializzati che dispongono di un accesso equo ed universale ai servizi medico-sanitari una speranza di vita mediamente inferiore di circa cinque-sette anni a quella dei professionisti delle classi socioprofessionali più favorite. Queste diseguaglianze invece di diminuire nel corso degli anni tendono invece ad ulteriormente accentuarsi (1) anche se in questi Paesi tutti i cittadini possono accedere, senza alcuna barriera di tipo economico, a qualsiasi servizio medico-sanitario. Ciononostante l’equità di accesso ad un Sistema sanitario è un’importante determinante della salute e una pietra miliare sul difficile percorso che conduce alla giustizia sociale. In particolare per i gruppi socio-economici meno favoriti un tale accesso equo aiuta ad almeno contenere la crescita delle diseguaglianze di mortalità che senza un’ accesso equo aumenterebbero ancor più significativamente (Fig. 1). Crescita della domanda e crisi di finanziamento All’attuale dinamica di crescita della domanda dovuta in particolare: – alla diffusione incontrollata dell’innovazione tecnologica fattore principale della medicalizzazione della società, – al marketing dei rischi di salute e al disease mongering, – all’invecchiamento demografico, – alla transizione epidemiologica, 07Domenighetti 89:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 90 10:27 Pagina 90 Slow medicine Fig. 1 – all’avversione al rischio dei professionisti che contribuisce ad indurre la prescrizione, – ai conflitti di interesse ed alla corruzione, – alla precarizzazione della vita che genera morbilità supplementare, si contrappone un serio e probabilmente duraturo problema di crescita economica (PIL) che impatta pesantemente sulle finanze pubbliche e sui redditi dei cittadini quindi sul finanziamento del welfare in generale e della sanità in particolare. Per fronteggiare il divario crescente tra l’aumento dei costi dei Sistemi sanitari e quello più contenuto, se non stagnante o negativo, della ricchezza nazionale (PIL) soprattutto dei Paesi di “vecchia” industrializzazione, non rimangono che quattro possibilità: 1. Compensare la crescita della spesa sanitaria (SS) con quella della ricchezza nazionale, operazione qua- si impossibile visto che la SS cresce di regola sempre nel corto-medio periodo più velocemente del PIL. 2. Trasferire, a livello della spesa pubblica, risorse da altri settori per destinarle alla sanità oppure aumentare il debito pubblico (cosa che non sembra essere il caso per l’Italia). 3. Razionare le risorse al settore sanitario (la politica dirà “razionalizzare la spesa per la salute” o “definire delle nuove priorità di accesso”). 4. Trasferire una parte sempre più importante della spesa al pagamento out of pocket dei cittadini o al finanziamento tramite le assicurazioni mutualistiche o private, il che deprimerà ulteriormente il reddito disponibile dei cittadini. Va da sé che questi interventi non si escludono mutualmente. Che già da alcuni anni il SSN abbia problemi importanti di equità di accesso è dimostra- N. 191 - 2012 to dall’indagine multiscopo dell’ISTAT del 2008 (2) e da un’ altro studio (3) che ha confrontato la prevalenza di cittadini italiani e britannici che hanno dichiarato di aver interamente pagato di tasca propria prestazioni sanitarie (ad esclusione dei farmaci e delle cure odontoiatriche) che avrebbero potuto ottenere gratuitamente o a minor costo dai rispettivi Servizi sanitari nazionali (Fig. 2). Hanno risposto di aver totalmente pagato almeno una volta nel corso della vita l’accesso a prestazioni medico-sanitarie circa l’80% dei cittadini italiani (il 45% per oltre cinque accessi) e, il 60%, lo ha fatto negli ultimi due anni. Le corrispondenti percentuali di prevalenza per i cittadini britannici erano del 20%, 4% e di circa 10% per gli ultimi due anni. L’attuale situazione di crisi economica profonda e la prevista recessione non faranno che ulteriormente accentuare tali diseguaglianze di accesso ai servizi. Quale futuro per l’equità di accesso ai servizi? In tutti i Paesi sono in fase di studio o di sperimentazione politiche di razionalizzazione (applicazione di tecniche e metodi volti ad un utilizzo ottimale delle risorse) e di razionamento implicito o esplicito (processo di scelta tra prestazioni e servizi utili o di limitazione dell’accesso) a volte difficilmente distinguibili tra di loro e che influenzeranno a medio-lungo termine la concentrazione e l’organizzazione delle cure, dei percorsi e dell’accesso modificando nel contempo le pratiche ed i suoi contenuti nonché i livelli di rischio sanitario che giustificano una presa in carico socializzata dei costi, come pure gli attuali rapporti di finanziamento tra il settore pubblico e quello privato. Visto il processo di accelerazione e di espansione della domanda da un lato e, dall’altro, il processo legato agli effetti della crisi economica Fig. 2 07Domenighetti 89:Layout 1 26-04-2012 10:27 Pagina 91 Sae l ute Slow medicine Territorio 91 N. 191 - 2012 sulla disponibilità di risorse interne, le tendenze future a medio termine dei sistemi sanitari ad accesso “universale” dei Paesi industrializzati possono così configurarsi: – Finanziamento della spesa sanitaria: relativa stagnazione del finanziamento pubblico in rapporto alla crescita della domanda; crescita della quota parte di finanziamento out of pocket e privato (ticket/ assicurazioni private). – Organizzazione: ulteriore concentrazione delle capacità di cura per malattie acute e per le “alte” specialità; concentrazione dell’alta tecnologia e stretto controllo della sua diffusione; creazione di reti integrate di cura (tipo HMO americane, anche a partecipazione mista pubblica-privata). – Accesso alle prestazioni e ai servizi: tendenza alla crescita delle lista di attesa; ridimensionamento del “pacchetto” di prestazioni offerte; definizioni di nuove priorità d’accesso (soprattutto in funzione del livello di “rischio” omologabile); diminuzione generale delle libertà di scelta per i cittadini; promozione dei percorsi predefiniti di accesso, delocalizzazione di pazienti (interna e all’estero). – Processi diagnostici e terapeutici: diminuzione della libertà terapeutica e aumento della standardizzazione “obbligatoria” delle cure (linee-guida cliniche; evidence-based medicine; case e disease management; obbligo di prescrizione di farmaci generici, ecc.). – Empowerment: promozione di politiche sanitarie di tipo “culturale” intese a ridurre il consumismo e a ricondurre le attese dei cittadini alla realtà delle prove scientifiche e della disponibilità di risorse. Razionalizzazione, razionamento ed equità di accesso Al di là di decisioni di “razionalizzazione” o di razionamento implicito prese sotto Bibliografia (1) Wilkinson R., Marmot M. (2003), Social Determinants of Health: the Solid Facts, WHO Regional Office for Europe, Copenhagen. l’influsso dell’urgenza finanziaria percepita come “catastrofica”, i nuovi paradigmi che saranno alla base della definizione delle priorità d’accesso al sistema, della metodologia che presiederà all’allocazione delle risorse, oppure, se si preferisce, dei principi che guideranno la scelta delle prestazioni che saranno ancora offerte dal sistema, tali paradigmi avranno come fondamento l’efficacia clinica e l’efficienza economica (4). Tuttavia la razionalità medica (che ha i suoi fondamenti sull’utilità individuale per un determinato paziente) non corrisponde a quella degli economisti essenzialmente fondata sull’utilità sociale (5). Questa netta dicotomia, se non opposizione, tra due visioni dell’agire medico-sanitario collide probabilmente anche con l’essenza della natura umana. Infatti l’uomo vive in permanenza una profonda contraddizione interna tra due distinti punti di vista, quello personale e quello impersonale. Quest’ultimo rappresenta “le esigenze collettive d’imparzialità e di uguaglianza universali”, mentre il primo sottolinea “il benessere personale e delle persone prossime”. Nel campo sensibile delle cure sanitarie sarà indispensabile in futuro conciliare il punto di vista impersonale, cioè della “collettività” (che di solito è espresso allorquando si è in buona salute) con quello dell’individuo (di regola espresso quando la propria salute o quella delle persone prossime necessita di una presa in carico medico-sanitaria) e riferirsi ad un modello etico che tenga conto di questa profonda divisione interna degli individui (6). Rimane il problema di trovare delle soluzione pragmatiche che consentano agli individui di disporre di una “porta d’uscita” degna, decorosa, dovuta e necessaria quando situazioni individuali “catastrofiche” chiamano alla “compassione” e alla “speranza” e non solo all’efficienza economica, all’efficacia clinica oppure alla capacità di pagare. (4) Drummond M. (1998), Evidence-based medicine and cost-effectiveness: uneasy bedfellows?, Evidence-Based Medicine, September/October, p. 133. (2) Cislaghi e Giuliani (2008), Analisi dell’Indagine Multiscopo ISTAT. (5) Moatti J.P., Le Coroller A.G. (1996), Réflexions économistes sur l’éthique médicale, Journal d’Economie Médicale, 14, pp. 67-78. (3) Domenighetti G., Vineis P., De Pietro C., Tomada A. (2010), Ability to pay and equity in access to Italian and British National Health Services, Eur J Public Health, Oct, 20 (5), pp. 500-3. (6) Ubel P.A., DeKay M.L., Baron J., Asch D. (1996), Cost-effectiveness analysis in a setting of budget constraints. Is it equitable?, N. Engl. J. Med., 334, pp. 1174-7. 08deMennato 92:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 92 Patrizia de Mennato Professore ordinario di Pedagogia generale, Facoltà di Medicina dell’Università di Firenze - Direttore del Laboratorio di Medical Education L ’uso dei film nella formazione, dice Bruner, può avere un notevole valore metacognitivo oppure può essere etichettato come una “sciocchezza postmoderna!”1, ma – a volte – offre molto di più alla riflessione pedagogica un romanzo, un film, un filmato televisivo di quanta non ne offra una lezione universitaria. Certo, se per Pedagogia si intende un esercizio consapevole di riflessione critica sui processi della formazione2. L’obiettivo pedagogico è, nel nostro caso, quello di formare un personale medico e sanitario capace di riflessività “[…] poiché i problemi medici non sono solo questioni di scienza e di tecnica, ma anche di saggezza, riguardo alla capacità di formulare giudizi e di dare indirizzi, spesso in condizioni non facili, nonché di prendere e proporre decisioni, spesso in condizioni difficili”3. Nella formazione dei medici e degli operatori sanitari è, quindi, necessario costruire 1 2 3 4 10:20 Pagina 92 Slow medicine N. 191 - 2012 La formazione iniziale degli studenti di Medicina e delle professioni della cura uno sguardo capace di osservare, di interpretare e di riflettere in profondità. L’utilizzo del film è orientato proprio a produrre occasioni per sviluppare forme di pensiero riflessivo ed a promuovere una più incisiva conoscenza delle proprie idee e delle proprie emozioni. “Tutte queste capacità sono fondamentali per rendere la pratica clinica maggiormente sensibile al paziente, riflessiva e quindi efficace. Ma, concretamente, come è possibile sviluppare tali complesse capacità?”4 Formare i professionisti della salute al pensiero riflessivo (self assessment, regulation and reflection) è accompagnarli prima di tutto alla costruzione di una sensibilità osservativa in grado di riconoscere variazioni anche impercettibili dei propri ragionamenti, delle posizioni dei protagonisti all’interno di una relazione, renderli capaci di contestualizzare l’agire di cura e di comprenderne il valore L’utilizzo del cinema per sollecitare la consapevolezza dei valori e dei doveri professionali costruttivo del pensiero sulla realtà. Ciò avviene attraverso due processi mentali riflessivi: il primo costituito dalla formazione di una capacità critica inquieta nei confronti di ciò che si osserva e che deve poter permettere al professionista, anche se abituato a riconoscere ed a risolvere la malattia nelle forme delle evidenze mediche, di conservare la capacità di comprendere quanto l’esperienza di malattia dialoghi con il più complessivo senso della vita del soggetto che ha di fronte. Il secondo, invece, costituito dall’imparare a riconoscere quanto anche gli aspetti impliciti del pensiero dello stesso medico e dello stesso operatore intervenga concretamente nell’agire terapeutico. Il punto di maggiore diffi- J. Bruner, La fabbrica delle storie, Laterza, Roma 2002, p. 9. F. Cambi, P. Orefice (a cura di), Fondamenti teorici del processo formativo, Liguori, Napoli 1998. G. Cosmacini, Prima lezione di medicina, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 78. L. Zannini, Medical humanities e medicina narrativa, Cortina, Milano 2008, p. 186. coltà nella formazione, infatti, non è tanto legato al produrre nello studente la padronanza di specifici campi del sapere tecnico e scientifico, quanto dal fatto che a questa expertise non venga riconosciuto il carattere di parzialità indirizzata prevalentemente alla sola fisicità, per quanto complessa, del sistema uomo. Questo modo di pensare si radica, allora, nella mente degli studenti – e resterà in quella dei professionisti – come un punto di vista esclusivo e totalizzante che, invece di contribuire alla comprensione della singolarità dell’esperienza di malattia, riduce il malato alle sue parti. Uno sguardo “medicalizzato” che tende ad interpretare ogni sintomo come corrispondente ad una 08deMennato 92:Layout 1 26-04-2012 10:20 Pagina 93 Sae l ute Slow medicine Territorio 93 N. 191 - 2012 specifica forma di malattia, vedendo solo alcuni aspetti dell’uomo ammalato e classificandolo in un “caso”. Dice efficacemente Tiziano Terzani: “Ad ogni stazione si esaminava un pezzo del mio corpo: il fegato, i reni, lo stomaco, i polmoni, il cuore. Ma l’esperto di turno non veniva a toccarmi o ad auscultarmi. La sua attenzione era rivolta esclusivamente ai pezzi e neppure ai pezzi in sé, ma alla loro rappresentazione, all’immagine che di quei vari pezzi compariva sullo schermo del suo computer. […] ma io, io-tutto, io-anche-solo-l’insieme-di-queivari-pezzi non c’ero mai, non venivo neppure consultato”5. Questa forma diffusissima di atteggiamento medico afferma l’aspirazione ad un carattere oggettivo della conoscenza e diventa, perciò, incapace di accorgersi che il proprio sguardo non può essere neutrale, neanche quando è costruito per essere tale. Uno sguardo che, semplificando, ha rinunciato a vedere alcune cose per osservarne altre (dati clinici, risultati di esami di laboratorio, immagini ecc.). Risulta, incapace, cioè, di riconoscere le forme di “cecità” che sono prodotte proprio dallo sguardo medico “[che] non incontra il malato, ma la sua malattia e nel suo cor- po non legge una biografia, ma una patologia. La soggettività del paziente scompare dietro l’oggettività di segni sintomatici […] dove le differenze individuali che si ripercuotono nell’evoluzione della malattia scompaiono in quella grammatica dei sintomi con cui il medico classifica le entità morbose come un botanico le piante”6. Utilizzare la metafora dello sguardo non è banale, nella nostra ipotesi formativa, ma ha un forte valore epistemico. Ogni conoscenza parte da un osservatore ed è significativa in ragione non solo di quello che gli fa vedere, dunque, ma anche in ragione di quello che nasconde o che gli impedisce di vedere. È un potente strumento percettivo della realtà. Lo sguardo medico, allora, costituisce la forma selettiva di una visione, dice ancora Terzani: “le immagini, le cifre, i tracciati sfornati dalle macchine nei vari esami sono molto più affidabili. [….] la macchina aveva saputo molto prima e molto meglio di me come stavo”7. La formazione medica, quindi, ha bisogno di riconoscere che queste forme di osservazione della realtà sono prodotte da operazioni cognitive che costruiscono una realtà “intensiva”, ma parziale, che estranea il malato dal complesso della sua esistenza. Non vogliamo, certamente, mettere in discussione il fatto che nella formazione del medico e delle professioni sanitarie sia indispensabile la conoscenza e la comprensione profonda dei sistemi complessi del “corpo”, ma che questa competenza osservativa, indispensabile all’esercizio della professione, debba essere contemperata da uno sguardo competente che conosca e che comprenda anche la complessa storia personale del soggetto malato. Per poter rispondere alla “domanda pedagogica” sulla formazione di futuri medici, dobbiamo chiederci, allora, come educare il pensiero degli studenti a riflettere sul proprio pensiero professionale, sulla dimensione generale/singolare dell’epistemologia della cura, come ritrovare il valore del rispetto umano nella professione, come riconoscerne i limiti, non solo derivati dalle possibilità prodotte dal crescere del sapere scientifico, ma dalla stessa dignità della vita. La formazione alla cura (to care) riguarda, dunque, gli interrogativi che vengono posti al professionista da un sapere della pratica che agisce su un terreno instabile e spesso controverso. La competenza di cura non si costituisce, cioè, soltanto grazie ad un patrimonio di “sistemi esperti”, ma con il dialogo tra il “corpus di conoscenze scientifiche” possedute e le specifiche situazioni problematiche che offrono al pensiero del professionista interrogazioni uniche ed incerte. Questa è una competenza che si impara grazie alla formazione alla riflessività. Dobbiamo, cioè, imparare a vedere, osservare, comprendere l’esperienza vitale della cura nella sua singolarità ed incertezza. Nelle esperienze di formazione alle quali ci riferiamo 8 , quindi, abbiamo voluto valorizzare la consapevolezza dell’esistenza nella realtà della cura proprio di sguardi complementari. Abbiamo voluto creare occasioni per osservare le connessioni possibili tra i saperi biomedici e le dimensioni singolari della cura ed abbiamo ricercato nei soggetti di film, o in loro sequenze, i luoghi dove si evidenziano territori di confine e dove nascono gli interrogativi più inquietanti. Vogliamo dire che il ragionamento medico deve arricchire le forme del sapere specialistico e tecnico con uno sguardo “che ascolta e che parla”9 all’esperienza reale della professione. T. Terzani, Un altro giro di giostra, Longanesi, 2004, p. 84. U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, ultima ed. 2000. 7 T. Terzani, Un altro giro di giostra, cit. 8 È importante contestualizzare queste esperienze nella Facoltà di Medicina dell’Università di Firenze, in particolare Il laboratorio di Medical Education (diretto dalla prof. P. de Mennato, all’interno del quale è attivo L’archivio filmico per la formazione medica [www.laboratoriodimedicaleducation-unifi.it] curato dal dott. Carlo Orefice) ed il Centro Interdipartimentale di Medical Humanities (diretto dalla prof. D. Lippi). Il percorso di formazione critica e riflessiva offerto agli studenti consta di più tappe come il Tirocinio per gli studenti del primo anno del CDL in Medicina e Chirurgia (R. Valanzano), il Progetto cin@med, al secondo, l’Ascolto degli Studenti: l’esperienza narrata (G. Guerra), L’integrazione professionale: medici e infermieri nel percorso formativo (Laura Rasero), Il laboratorio di Medicina narrativa (D. Lippi). 9 U. Galimberti, Il corpo, cit. 5 6 08deMennato 92:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 10:20 Pagina 94 94 Slow medicine Come dice un nostro studente, essa, facendo in modo che la propria esperienza diventi la narrazione di una biografia professionale che dialoga con la realtà, con le difficoltà e con le crisi, con gli interrogativi che la realtà sottopone allo sguardo professionale11. “[…] credo che ci si sia resi conto che il mondo medico necessiti di essere umanizzato, avvicinato alla dimensione psicologica della malattia e credo che questo sia un buon inizio per noi del secondo anno che di ambito medico sappiamo ancora poco, ma che già, almeno tra i compagni con cui ho parlato, ci rendiamo conto dell’importanza di questo ambito della Medicina”10. Abbiamo voluto, dunque, provocare negli studenti occasioni personali di riflessione sulle competenze che stavano acquisendo, sul proprio sapere, sulle azioni che possono essere compiute nell’esperienza di cura, aiutandoli ad osservare che queste competenze, questo sapere e queste azioni sono prodotte non soltanto da quello che imparano attraverso la frequentazione costante di un corpus di conoscenze mediche che progressivamente cresce e si arricchisce, ma anche da quello che viene prodotto dal “pensare sulla” propria personale esperienza cognitiva. La competenza medica è legata, dunque, all’esercizio della pratica riflessiva, alla capacità di essere contemporaneamente soggetto della propria conoscenza ed oggetto di L’uso dei film: cin@med Questo complesso e raffinatissimo gioco di rimandi è quello che viene evidenziato proprio dalla natura narrativa dell’esperienza filmica. Una sceneggiatura costringe ad un costante cambio di prospettiva; aiuta ad osservare la storia attraverso lenti deformanti ed a riconoscere il valore generativo del punto-di-vista assunto dai protagonisti, induce a ripercorrere, in forma di immagini e di suoni, i processi di sviluppo dell’esperienza. Un film scrive, dunque, un percorso narrativo che delinea una storia “umanamente rilevante”12. Traduce un pensiero che è, per sua stessa definizione, un pensiero dell’incertezza, della singolarità, comprensibile solo in una prospettiva esistenziale, prodotto dalla rottura di un equilibrio e da criticità. Come in una storia di malattia, la costruzione della storia narrata avviene attraverso “punti di svolta”, tappe e momenti N. 191 - 2012 in grado di modificare e di rivoluzionare in forma inattesa lo stato delle cose. Per questa ragione l’osservazione di storie professionali e di vissuti di malattia aiuta nella costruzione di momenti di azione riflessiva capaci di retroagire sull’esperienza di cura. La notizia di malattia, una diagnosi infausta o la presa di coscienza di un proprio stato naturale di declino e di abbandono delle forze produce nel malato – così come nella sua relazione con il medico e con i familiari – atteggiamenti e modalità che hanno quasi sempre e soprattutto un carattere esistenziale. Vengono interpretate attraverso un singolare filtro personale fatto di modelli di riferimento culturali, di categorie interpretative, di rappresentazioni sociali, immagini mentali e tanto altro ancora. Le diverse infinite sfumature che i singoli soggetti vivono in rapporto alla malattia trovano traduzione nella scrittura filmica, permettendo di entrare in rapporto con le forme della narrazione dell’esperienza. Diventano, allora, pregnanti sollecitazioni cognitive. Il cinema è da tempo considerato come uno strumento formativo potentissimo13 e l’interesse per il cinema come stru- mento di formazione, anche disciplinare, ricorre da molti anni nella mia didattica14. Ho sempre creduto che ogni film, anche il più deludente sotto il profilo artistico, sia in grado di sollecitare potentemente sia sul piano cognitivo che su quello emotivo. La scrittura cinematografica viene tradotta attraverso il filtro cognitivo della propria biografia ed incontra le nostre aspirazioni, le credenze, i modelli impliciti, le competenze, le esperienze, le valutazioni. Il cinema simula, cioè, i più potenti processi del pensiero complesso: permette di partecipare ad una storia senza esserne parte – decentrazione –; permette di osservare la coesistenza di più livelli di lettura – la narrazione parte da uno sfondo definito dal regista, ma anche dall’intreccio di più punti-di-vista dei protagonisti, dei comprimari, dello spettatore e si intreccia in una o più storie –; rende possibili le interpretazioni di ciò che accade sullo schermo grazie alle proprie esperienze personali e la storia15. Simula, dunque, la possibilità cognitiva ed emozionale di “incontrare” esperienze senza “viverle”16. Il film offre, inoltre, la possibilità di produrre una conoscenza contestualizzata Uno studente cin@med (gli interventi degli studenti sono tratti dal Questionario somministrato a conclusione del I anno). P. de Mennato, C. Orefice, S. Branchi, Educarsi alla cura. Un itinerario riflessivo tra frammenti e sequenze (testo e DVD), PensaMultimedia, Lecce 2011. 12 P. Ricoeur, Tempo e racconto, JakaBook, Milano 1988. 13 A. Agosti (a cura di), Il cinema per la formazione, Franco Angeli, Milano 2003; F. Cappa, E. Mancino (a cura di), Il mondo, che sta nel cinema, che sta nel mondo, Mimesis, Milano 2005; L. Zannini, Medical humanities e medicina narrativa, cit. 14 P. de Mennato, Quaderni del corso per Educatori di strada, a cura del Dipartimento di Scienze relazionali, Università di Napoli Federico II, 1984; P. de Mennato (a cura di), Per una cultura educativa del corpo. PensaMultimedia, Lecce 2006 completo di due DVD; P. de Mennato, C. Orefice, S. Branchi, Educarsi alla cura. Un itinerario riflessivo tra frammenti e sequenze (testo e DVD), PensaMultimedia, Lecce 2011. 15 P. de Mennato, cin@med. Formare al sapere riflessivo nella professione medica attraverso l’uso dei film, in “Cartografie pedagogiche”,1, 2012. 16 A. Agosti (a cura di), Il cinema per la formazione, cit. 10 11 08deMennato 92:Layout 1 26-04-2012 10:20 Pagina 95 Sae l ute Slow medicine Territorio 95 N. 191 - 2012 (la trama) ed idiografica (le diverse storie) che aiuta a confrontare la visione delle cose rappresentate dai personaggi con la versione che lo studente ha di esse, agendo con valore “trasformativo e interattivo in cui il soggetto è, o diviene, attore del proprio processo formativo ed esistenziale”17. Il cinema costruisce un’esperienza densa e concentrata. È la rappresentazione della complessità dove storie, punti-di-vista, sentimenti e valutazioni diverse si incontrano, scontrano, intersecano, favorendo reazioni emotive e “posizionamenti”. Il potere della narrazione cinematografica è nel coinvolgere lo spettatore, nel consentirgli di “mettersi nei panni” dell’uno o dell’altro personaggio, nel parteggiare, nel decodificare le proprie reazioni in rapporto alla storia, nell’osservare le dinamiche cognitive e relazionali a partire dalla propria scelta di posizione. Si osserva distanziandosi, si riflette utilizzando strategie cognitive proprie e personali, si confrontano i propri pensieri con una realtà “simulata”, ci si mette in gioco. Si impara, cioè, ad apprendere da una situazione intensa, ma “protetta” perché definita nel tempo e nello spazio, che attiva le nostre emozioni e la nostra fisicità (sono contratto, ho paura, sono soddisfatto, piango per la commozione, sorrido, rido, provo dolore). Il film, nella formazione medica e nelle Medical Humanities, traduce tutto ciò in un reale “dispositivo di elaborazione”18 che, pur rappresentando ancora un approccio “di nicchia”, assume progressivamente una sua consistenza, soprattutto se l’obiettivo formativo primario è di attivare un processo riflessivo su di sé e sulla propria identità professionale. Dice uno studente: “interrogare se stesso, confrontando le idee e mettendosi in gioco anche con una piccola cosa come un film, è un segno di intelligenza e di crescita interiore”19. La sfida è stata di introdurre il progetto cin@med – Percorso di formazione ad un sapere riflessivo nella professione medica attraverso l’uso dei film20 al secondo anno di corso, precocemente, quindi, all’interno della formazione universitaria ordinaria degli studi di Medicina e di averlo accompagnato con la costruzione di verifiche di apprendimento attraverso questionari, blog, wiki che hanno prodotto una rete docenti-studenti che è diventata una piattaforma riflessiva condivisa. Nella formazione medica, dunque, il film mostra il si- gnificato delle questioni più inquietanti della professione: gli interrogativi sulla malattia resi concreti in quanto narrati dal vissuto esemplificativo unico, identificabile e profondo della storia proprio di quel personaggio; consente, quindi, di osservare uno spaccato di vita della Medicina, della malattia e della cura sotto il profilo del confronto tra modi di pensare e sistemi di interpretazione dominanti e “sotterranei” nelle pratiche mediche. Mostra, cioè, il profilo delle contraddizioni possibili del ragionamento in Medicina, consentendo di mettere a nudo le idee sotterranee che coesistono nel vissuto esistenziale di ogni medico. La narrazione cinematografica permette di accedere ad una Medicina che è storia non soltanto di malattie, ma di persone. È esperienza dell’individuo, dei suoi familiari e dello stesso medico. Una Medicina, dunque, che è storia di uomini, espressione dei loro apparati e dispositivi intellettuali di esclusione (le “cecità” delle quali abbiamo parlato) e di definizione (i sistemi di riconoscimento e classificazione); dei sistemi di potere nei quali sono, comunque, introdotti; delle diverse visioni del mondo e della vita da loro possedute. Il film è uno “specchio” 21 . Aiuta a far emergere quello che appare “personalmente” significativo. Produce, se opportunamente sollecitata, una discussione collegiale intersoggettiva (rispecchiamenti/riflessioni) sia contestuale alla proiezione (la presenza di un discussant esperto) sia successiva sui blog e wiki che abbiamo attivato allo scopo di costituire un forum di discussione. A queste metodologie riflessive, gli studenti appaiono fortemente sensibili: “Apprezzo molto gli sforzi e la volontà di stimolare gli studenti alla riflessione e all’educazione. Credo sia molto importante proporre attività che possano formare lo studente di Medicina dal punto di vista ‘umano’ in modo tale da impedire il più possibile l’insorgere di un approccio ‘cinico’ e distaccato nel passare degli anni”22. Cin@med è un’iniziativa stabile del CL in Medicina ed il costante rapporto con gli studenti ci permette di tararla ed adeguarla ogni anno aggiornandola. L’uso delle sequenze di film: il Laboratorio di Medical education Il Laboratorio di Medical Education23 si è costituito per implementare “modi d’uso riflessivi” nei percorsi formativi, mettendo a disposizione di Cfr. E. Mancini, Pedagogia e narrazione cinematografica, Guerini e Associati, Milano 2006, p. 17. Cfr. R. Massa, Introduzione alla pedagogia e alle scienze dell’educazione, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 590. 19 Uno studente cin@med. 20 Il progetto, curato da Patrizia de Mennato, Andreas Formiconi, Amedeo Amedei, Stefano Beccastrini e Carlo Orefice, iniziato nel 2009, continua come attività obbligatoria professionalizzante rivolta agli studenti del II anno di Medicina di Firenze. 21 S. Beccastrini, Lo specchio della vita. Medici e malati sullo schermo del cinema, Istituto Change, Torino 2006. 22 Uno studente cin@med. 23 Laboratorio della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Firenze, diretto dalla prof.ssa Patrizia de Mennato. 17 18 08deMennato 92:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 96 docenti e studenti aggiornamenti del dibattito teorico ed epistemologico e producendo materiali per una riflessione didattica “in corso”. L’obiettivo è di promuovere l’innovazione nel campo della formazione medica e sanitaria. Il focus del Laboratorio di Medical Education è concentrato nella riflessione “sulle” e “nelle” epistemologie profes24 25 10:20 Pagina 96 Slow medicine sionali nei contesti sanitari, permettendo la visione di alcuni problemi connessi al medical professionalism La formazione al professionalism è una sfida contro quella forma di antagonismo oppositivo tra le competenze biomediche e quelle umane e richiede un percorso formativo che tenga insieme la strutturazione e la manutenzione co- N. 191 - 2012 gnitiva della competenza clinica e gli aspetti etici, deontologici nella pratica professionale a partire anche da qualità umane specifiche. Ne citiamo solo alcune: onestà, integrità, confidenzialità, capacità relazionale, interazione efficace col paziente e con le persone che gli sono vicine, rispetto per la diversità, abilità di comunicazione, pazienza, empatia, coinvolgimento del paziente nelle decisioni, bilanciamento fra impegno altruista e vita personale, capacità di lavorare in team, affidabilità24. Si è scelto di utilizzare lo sguardo della Pedagogia e dell’Antropologia medica così da osservare, con un esplicito obiettivo formativo, le rappresentazioni di temi/criticità/contraddizioni presenti nella quotidianità delle professioni mediche e sanitarie e di come la società e la cultura li percepisce. Lo strumento didattico privilegiato si identifica con i materiali delle Medical Humanities, quali il cinema, la narrazione, il documento televisivo ed altri, che offrono focolai di esercizio di riflessività, che possono aiutare gli studenti ed i docenti ad osservare lo spettro del loro pensiero nelle esperienze mediche. Inoltre, il principale elemento di specificità è dato dai materiali prodotti nel corso degli anni da studenti e professionisti che hanno usato le loro riflessioni e le loro narrazioni come strumenti di osservazione critica sul proprio agire professionale. Strumenti ricchissimi di spunti e suggestioni, ma – dicono Connelly e Clandinin –, pur sempre, “dati deboli” che non ispirano fiducia in chi è abituato a lavorare con “rigore scientifico”25, Sono “dati deboli”, invece, che possono offrire a docenti, ricercatori, studenti, professionisti della salute e della cura specifici prospettive nuove per la valorizzazione del professionalim. Abbiamo voluto costruire, allora, prodotti didattici, anche a forte valenza multimediale; aprire ad un tutorato competente nell’implementazione di interventi formativi innovativi; promuovere occasioni di riflessione intorno ai modelli di Medicina e di formazione alle cure, con particolare attenzione alle antropologie del corpo e dell’esperienza di malattia. Il lavoro di creazione del Laboratorio di Medical Education ha concretizzato i suoi primi obiettivi producendo ed incrementando un Archivio filmico per la formazione medica che dedica ampio spazio all’impiego del cinema nei contesti di formazione, intendendo questo come uno strumento “vincente” per aiutare i professionisti della cura ad affrontare l’innovazione in percorsi di formazione riflessiva cognitivi e personale. L’Archivio filmico per la formazione medica (consultabile in formato elettronico www.laboratoriodimedicaleducationunifi.it) curato dal dott. Carlo Orefice raccoglie e ordina se- F. Consorti, L. Potasso, E. Toscano, Formazione della professionalità: una sfida antica e nuova per i CLM in Medicina, Med. Chir., 52, 2011. Cfr. P. de Mennato, Il sapere personale, Guerini, Milano 2003. 08deMennato 92:Layout 1 26-04-2012 10:20 Pagina 97 Sae l ute Slow medicine Territorio 97 N. 191 - 2012 quenze video scelte ed accorpate in relazione a specifici nuclei tematici ritenuti di prioritaria importanza per la formazione dei professionisti della cura e della salute (per es. il procedimento diagnostico, gli ambienti e le culture mediche, le comunità di pratiche, i momenti della vita, il rapporto malattia-salute, la relazione terapeutica, il dolore e la sofferenza e le questioni etiche e giuridiche correlate alle scelte cliniche). Rispetto alle precedenti esperienze, si è scelto, sempre all’interno di una “modalità pragmatica” di usare il film, di selezionare sequenze, spezzoni o scene in base a tematiche che avessero valore esemplificativo per gli studenti. La scelta di utilizzare sequenze di film selezionate ad hoc e legate tra loro da link potenziali offre, cioè, l’opportunità – rinviando a nessi logici e tematici – di costruire un materiale didatticamente strutturato. Le sequenze si collocano in più percorsi ordinati e finalizzati ad una didattica per contenuti, offrendo, però, gradi di libertà interpretativa a vantaggio di una solida strutturazione di percorsi riflessivi. Un maggior grado di interattività viene garantito dalla gestione “in corso” del sito web dell’Archivio filmico per la formazione medica, al fine di costituire una rete interattiva che tenga insieme le indicazioni fornite dai diversi utenti (docenti, studenti, operatori, ecc.). Il Laboratorio di Medical Education si propone, inoltre, di capitalizzare le risultanze dei diversi progetti formativi del gruppo di ricerca; di incrementare linee teoriche di approfondimento; di produrre un archivio di buone pratiche, di creare ulteriori materiali multimediali di supporto alla didattica; di attuare esperienze di tutorato riflessivo effettuato con piccoli gruppi interprofessionali. È allo studio la costruzione di un modello di ipertesto per la didattica disciplinare che integri l’apprendimento di conoscenze specifiche con l’apprendimento critico e riflessi- vo sul sapere implicito delle stesse conoscenze e la valutazione del curriculum nascosto nella didattica. 09Bonaldi 98:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 98 Antonio Bonaldi Presidente di Slow medicine Medico - Direttore sanitario Azienda ospedaliera San Gerardo, Monza 10:24 Pagina 98 Slow medicine N. 191 - 2012 Un nuovo approccio alla Medicina La medicalizzazione della vita è un fenomeno in crescita nei confronti del quale vari professionisti, associazioni, Ordini, hanno già preso posizione. Il fenomeno, più o meno giustificato nell’età sempre più avanzate che le società industrializzate stanno raggiungendo, in realtà corrisponde ad un cultura basata su “un farmaco per ogni disturbo”, conseguente al principio che la sofferenza sia ingiusta e inutile quando esiste il modo per farla cessare, Ma bisogna distinguere fra dolore e fastidio, perché si ricorre a farmaci anche per un raffreddore, qualche linea di febbre, un dolore articolare che si risolverebbe da solo, con qualche giorno di riposo. Star bene o star male ha tutta una serie di gradazioni, ma se, come sostiene pressantemente la pubblicità, basta una pillola per riguadagnare il benessere, perché non ricorrervi? L’industria farmaceutica persegue comprensibilmente il suo interesse, ma è sulla strumentalizzazione del paziente che è necessario intervenire. Un compito che dovrebbe assumersi il medico che dispone di tutti i dati per il paziente sui rischi che ogni sostanza chimica comporta specie se utilizzata per tempi lunghi. In questo caso l’educazione della popolazione è fondamentale, ma le voci che raccomandano uno stile di vita sano come principio fondamentale per prevenire o tenere sotto controllo le più comuni patologie, sono soverchiate dalle iniziative promozionali e dall’informazione non neutrale a cui ricorre l’Industria. David contro il gigante. Una battaglia persa, sembrerebbe, ma se i gruppi come slow medicine si cercano, si trovano, si moltiplicano, qualcosa può cambiare. Lentamente, in questo caso, purtroppo. Sintomi, malattia e salute Gaudenzio, un anziano signore, ancora in buona forma, dopo una vita dedicata al lavoro, decide di mettersi in pensione. Finalmente, dice agli amici: “potrò dedicarmi agli interessi e agli hobbies che ho trascurato per tutta la vita”. Soggettivamente sta abbastanza bene, ma qualche volta soffre di mal di schiena e spesso durante le passeggiate in montagna ha il fiato corto e al ritorno gli fa male un ginocchio. Ogni tanto, poi, si rende conto che il cuore ha un battito strano e certe volte, specie dopo un pasto abbondante, sente la digestione pesante e gli viene un po’ di sonnolenza. Tutto ciò non gli impedisce, però, di “godersi” la vita e con questa anche l’agognata pensione. Dopotutto, pensa: “non sono messo poi così male”. Ma il suo giornalaio, che è sempre ben “informato” e prodigo di “buoni” consigli, gli spiega che alla sua età è meglio farsi controllare: “per stare più tranquillo, gli dice, devi andare dal tuo medico e farti prescrivere un bel checkup”. Purtroppo Gaudenzio, gli dà retta e ne esce con diagnosi di moderata ipertensione, prediabete, livelli di colesterolo e lipidi sopra la norma. Niente di preoccupante: in pratica, è una delle tante persone cosiddette “a rischio”, uno dei tanti che, se vuole vivere a lungo, deve controllare farmacologicamente la pressione arteriosa, la glicemia e il colesterolo. A questo punto, però, il suo medico gli consiglia di eseguire alcuni nuovi accertamenti, che rilevano altri problemi: una discreta osteoporosi, un lieve schiacciamento delle vertebre lombari, la diminuzione delle rime articolari del ginocchio destro, alcune extrasistoli, un piccolo calcolo (silente) alla cistifellea e, buon ultimo, il PSA “mosso”. Ovviamente ciascuno di questi risultati anoma- li, richiede ulteriori e più specifici approfondimenti diagnostici e, soprattutto, se non vuole peggiorare la sua situazione, deve intraprendere gli adeguati trattamenti. Gaudenzio comincia a preoccuparsi. Suo malgrado è entrato in una spirale che sembra non aver fine: le giornate, ora, sono scandite dagli appuntamenti con i diversi specialisti e il suo buon umore peggiora di giorno in giorno, aspettando gli ultimi referti e costatando che le liste di attesa sono sempre più lunghe e che non è sempre tutto gratis. Cos’è successo? 09Bonaldi 98:Layout 1 26-04-2012 10:24 Pagina 99 Sae l ute Slow medicine Territorio 99 N. 191 - 2012 In trappola! Il povero Gaudenzio è caduto in una trappola. Ignora, infatti, che anche la Medicina è sottoposta alle subdole pressioni del mercato, di cui gli stessi professionisti sono spesso vittime ignare. Egli, come la maggior parte delle persone, non ha sufficienti informazioni per elaborare un giudizio autonomo e critico su ciò che è utile e appropriato fare in ambito sanitario. Ha fiducia nei medici e in genere in tutti i professionisti della salute e non è consapevole che le esigenze di “produzione” e gli interessi economici possono non coincidere con il benessere, la salute e la qualità della sua vita. Egli sa bene che il mercato, per sua natura, induce al consumo di ogni cosa, dai calzini allo spazzolino da denti, ma non è del tutto cosciente che questo fenomeno possa riguardare anche farmaci, dispositivi medici, test diagnostici, visite, prestazioni sanitarie, il cui impiego va spesso ben oltre quello che le migliori evidenze scientifiche raccomandano. Basta invece dare uno sguardo disincantato alla letteratura medica per accorgersi che in campo sanitario vi è un consistente abuso di prestazioni, tanto che la rivista Archives of Internal Medicine ha recentemente promosso una ricerca per individuare, in diversi ambiti della Medicina, le prime 5 prestazioni sanitarie che potrebbero essere evitate, riducendo in modo consistente i costi della sanità, senza compromettere, anzi migliorando, la salute dei pazienti. Per l’area della Medicina interna, per esempio, sulla base delle evidenze scientifiche oggi disponibili, le prime cinque prestazioni da evitare sono (1): – le indagini diagnostiche per il mal di schiena prima di 6 settimane dall’esordio, se non vi sono severi deficit neurologici o il concreto sospetto di sottostanti gravi patologie, – gli esami del sangue e delle urine (check-up) in persone asintomatiche, in buona salute, – l’ECG o altri esami cardiologici in pazienti asintomatici, a basso rischio, – la somministrazione di statine di tipo non generico, per abbassare il colesterolo, – la densitometria ossea come esame di screening nelle donne sotto i 65 anni o negli uomini sotto i 70 anni, senza particolari fattori di rischio. Ma i campi di azione potrebbero essere tantissimi: la ricerca ci suggerisce che in ambito sanitario non c’è associazione tra buona qualità e costi elevati dei servizi (2), mentre si calcola che negli USA ben il 30% dei costi di Medicare, sia utilizzato per eseguire prestazioni non necessarie. Prestazioni che potrebbero essere tranquillamente evitate senza generare effetti negativi per la salute dei cittadini (3). La sobrietà delle cure Non è solo il mercato, però, a promuovere i consumi. Anche il modo stesso di curare e di assistere porta spesso a prescrivere più prestazioni di quante realmente servano. La frequenza d’uso dei servizi sanitari è un fenomeno molto studiato in Medicina. Tale fenomeno mette in luce l’esistenza di un’ampia variabilità nel comportamento prescrittivo dei medici che appare, in larga misura indipendente da motivi di ordine clinico. In pratica, i medici e più in generale i professionisti della salute, tendono ad affrontare gli stessi problemi in modo del tutto diverso. Parte di questa variabilità è considerata buona e va incoraggiata, perché esprime l’esigenza di personalizzare le cure ai bisogni e alle caratteristiche del singolo paziente. In buona parte, però, è fonte di effetti dannosi e di sprechi, in quanto indicatore di inappropriatezza: del fatto cioè che una parte più o meno consistente delle prestazioni è rivolta a pazienti che non ne hanno bisogno, mentre altri non ricevono le cure di cui necessitano. A questo riguardo, una recente indagine condotta nel Servizio sanitario inglese ha evidenziato rilevanti differenze geografiche nell’utilizzo delle prestazioni sanitarie. Per esempio, le procedure di revisione del ginocchio variavano entro un range di 14,9 volte, l’angioplastica coronarica di 9,6 volte e la colecistectomia di 3,5 volte (4). In pratica l’eventualità per una persona di essere sottoposta a un intervento sanitario invasivo sembrerebbe legato più al luogo di residenza che alle manifestazioni cliniche della malattia. In generale tanto più le prestazioni sono accessibili, tanto maggiore è il loro consumo. Ma ciò che deve farci riflettere è che le persone residenti in regioni dove più alto è il tasso di visite, immagini diagnostiche e ricoveri, sperimentano tassi di mortalità peggiori di quelle che vivono in regioni a basso tasso di prescrizione (5). Non si tratta, ovviamente, di negare la fiducia ai medici e alla Medicina. Negli ultimi decenni, la Medicina ha compiuto straordinari progressi e ha contribuito in modo fondamentale ad allungare e migliorare la qualità delle nostre vite, basti pensare ai trapianti, all’angioplastica o al settore protesico. Occorre, tuttavia, rendersi conto che esiste un problema di sobrietà nella prescrizione delle cure e più in generale nel modo di affrontare i problemi correlati alla salute. Sobrietà intesa come momento di riflessione sulle cause che inducono alla prescrizione di prestazioni sanitarie inutili e come esigenza di dialogo e di ascolto alle richieste del paziente, prendendosi il tempo necessario per interpretare i suoi bisogni e le sue esigenze. I pazienti devono essere aiutati a scegliere tra le diverse possibilità di trattamento, devono essere informati sui rischi e sui benefici delle diverse scelte e messi nelle condizioni di decidere, per quanto possibile in modo autonomo, relativamente a quello che ritengono più appropriato per la loro condizione fisica, psichica e sociale. Sobrietà come essenzialità, moderazione e rispetto per l’uso di risorse che sono limitate e non vanno sprecate. Tenuto conto, oltretutto, che in Medicina fare di più non vuol dire ottenere esiti migliori e che, comunque, permangono diffuse sacche 09Bonaldi 98:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 100 di diseguaglianza nella protezione della salute e nell’accesso ai servizi sanitari essenziali (6). Sobrietà come ricerca di equilibrio tra i diversi punti di vista, tutti egualmente degni di rispetto, ognuno dei quali può influire in modo rilevante sui processi di cura e sui risultati finali. L’approccio disease oriented Alla luce delle considerazioni sopra esposte, slow medicine ritiene che sia indispensabile un profondo ripensamento circa il modo di intendere e di esercitare la Medicina. Occorre procedere, cioè, a un vero e proprio salto di paradigma: aprire nuove strade e nuovi scenari. Di fatto, la Medicina, così come oggi è esercitata, è troppo concentrata sul controllo dei sintomi e troppo orientata verso la ricerca delle malattie, anche quando esse sono silenti. C’è una diffusa convinzione, purtroppo non suffragata dalle prove scientifiche e dai fatti, che per ogni disturbo sia sempre disponibile un rimedio efficace e sicuro e che scoprire una malattia, prima che si manifesti attraverso i sintomi, sia sempre vantaggioso. Tutto ciò favorisce la medicalizzazione della vita nelle sue varie manifestazioni (nascere, crescere, invecchiare, morire), di cui la stessa Medicina è, almeno in parte responsabile. Basti pensare al fenomeno del disease mongering, cioè la creazione artificiosa di nuove malattie per esigenze di mercato, per indurre cioè, l’impiego di farmaci e di prestazioni sanitarie. Negli ultimi anni, la defini- 10:24 Pagina 100 Slow medicine zione delle condizioni di rischio si è così dilatata che praticamente l’intera popolazione adulta è classificata come affetta da almeno una malattia cronica che richiede l’assunzione di farmaci per il resto della vita (7-9). Sotto l’influenza del pensiero riduzionista, il paziente è paragonato ad una macchina, il cui funzionamento va periodicamente revisionato e indagato attraverso l’analisi sempre più dettagliata dei singoli componenti. Tale lavoro di revisione e di cura è affidato a un numero sempre più ampio di specialisti che conoscono sempre meglio e in modo più approfondito ambiti di intervento sempre più piccoli e che tendono a lavorare in modo autonomo e isolato. In questo modo i processi di cura vengono frammentati in una miriade di sequenze e di atti che si moltiplicano a dismisura e che finiscono per perdere di vista il paziente, il suo benessere e lo scopo stesso per cui sono stati intrapresi. Ognuno applica le conoscenze concernenti il proprio specifico ambito specialistico in modo, per lo più, standardizzato. Se lo specialista è “bravo” si attiene scrupolosamente alle ultime linee guida (quelle evidence-based), ma tende ad affrontare i problemi uno per volta, attraverso una sequenza lineare di causa ed effetto che non tiene conto del contesto entro cui si svolgono i fatti, della specificità della persona, dei valori che esprime e che contraddistinguono la sua vita, i suoi bisogni e le sue aspettative. L’uomo è certamente più del suo corpo, più dei disturbi N. 191 - 2012 che manifesta e più della malattia di cui è affetto. Una realtà semplificata non ci aiuta a risolvere i problemi. L’approccio health oriented Nel nuovo approccio alla Medicina, orientato alla salute, le diverse fasi e i diversi attori che caratterizzano i processi di assistenza e di cura sono invece considerati gli elementi di un sistema complesso, di cui salute e benessere rappresentano le proprietà emergenti (10). L’approccio è di tipo sistemico, basato cioè sulle proprietà e sulle regole di funzionamento dei sistemi e più in particolare dei sistemi complessi adattativi (11). In questo senso ogni elemento del sistema riveste un ruolo importante e insostituibile, perché inserito in una vasta trama di relazioni e d’interazioni che genera fenomeni, comportamenti, equilibri, nuovi e inaspettati, attraverso un continuo scambio di energia e d’informazioni. Il medico, il paziente, i suoi familiari e più in generale il contesto entro il quale il processo di cura si concretizza rappresentano un tutt’uno inseparabile, che bisogna saper osservare, riconoscere, interpretare e salvaguardare. Ogni situazione racchiude circostanze e contingenze uniche e irripetibili, dove il valore della comunicazione e del dialogo rivestono altrettanto peso, sulle scelte e sulle decisioni finali, di quello attribuito alle conoscenze scientifiche e alle relative diverse possibilità d’intervento. È sempre più evidente che la cura dei pazienti richiede multidisciplinarietà, pluralità di linguaggi, con- nessioni tra saperi e dialogo tra scienze umanistiche, sociali e tecniche. Il paziente non è un ingranaggio che risponde passivamente a stimoli e aggiustamenti di tipo meccanico, ma rappresenta una risorsa che prova emozioni, esprime sentimenti e partecipa direttamente al processo di cura. Medici e professionisti della salute lavorano in gruppi che si integrano, collaborano e scambiano informazioni, in un ambiente aperto e multidimensionale. Le prescrizioni tengono conto, di percorsi di diagnosi e cura basati sulle migliori conoscenze scientifiche, ma sanno anche valorizzare le diversità, adattandosi ai differenti contesti e alle specifiche aspettative del paziente. Non si tratta, quindi, di abbandonare il concetto di cura dei sintomi e della malattia, ma d’integrarlo con le esigenze dell’individuo, immerso in un complesso sistema di rapporti che ne condizionano l’agire (12). In questo nuovo indirizzo della Medicina, la stessa definizione di salute, formulata dall’OMS nel 1948, non appare più attuale e coerente. La salute, infatti, non può essere intesa solo come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale” (13), anche perché, a causa dell’invecchiamento della popolazione e alla conseguente espansione delle malattie croniche la maggior parte delle persone dovrebbe essere considerata malata, contribuendo, così, almeno indirettamente, alla medicalizzazione della vita e all’espansione dei consumi sanitari. 09Bonaldi 98:Layout 1 26-04-2012 10:24 Pagina 101 Sae l ute Slow medicine Territorio 101 N. 191 - 2012 Con il nuovo approccio, la salute non è più un’entità unica e fissa, ma è considerata in senso dinamico e mutevole, come capacità dell’individuo di adattarsi continuamente all’ambiente fisico e sociale che lo circonda e di cui è parte integrante (14). In questa nuova prospettiva occorre, quindi, creare le condizioni per favorire la capacità dell’individuo di adattarsi all’incessante mutamento delle sue condizioni fisiche, mentali e sociali e per aiutarlo a trovare nuovi equilibri che non gli impediscono di sperimentare un senso di benessere e di serenità anche di fronte a limitazioni severe delle funzioni vitali (15). È in questo senso che vanno quindi indirizzati i nostri sforzi, nella ricerca di una qualità di vita accettabile e non già nella vana prospettiva di raggiungere uno stato di completa assenza di rischio, di malattia e d’infermità; condizione, questa, più vicino alla perfezione del nirvana come aspirazione per asceti, che al- la necessità di adattamento alla realtà con la quale ognuno di noi è costretto a misurarsi quotidianamente. Le principali componenti di questo sistema complesso adattativo e le diverse modalità di approccio (fast e slow), sono raccolte nello schema che segue. Ovviamente, come in ogni sistema complesso adattativo l’utilizzo di un metodo non esclude totalmente l’altro. Tutto dipende dalle circostanze in cui lavoriamo e dagli obiettivi che ci propo- niamo. Di fatto, tenuto conto delle specifiche esigenze, possono applicarsi, a ragione, l’uno o l’altro dei due approcci. L’importante è essere consapevoli del metodo utilizzato e agire sempre con equilibrio, controllo e moderazione. Dieci criteri per orientarsi tra fast a slow medicine Bibliografia (1) The Good Stewardship Working Group (2011), The “Top 5” Lists in Primary Care, Arch Intern Med., 171 (15), pp. 1385-90. (2) Yasaitis L., Fisher E.S., Skinner J.S., Chandra A. (2009), Hospital quality and intensity of spending: is there an association?, Health Aff (Mill- wood), 28, w566-w572. (3) Orszag P.R. (2008), Opportunities to Increase Efficiency in Health Care, Congressional Budget Office Washington DC; www.cbo.gov/ftpdocs/93xx/doc9384/06-16-HealthSummit.pdf (4) Appleby J. et al. (2011), Variations in healthcare: the good, the bad and the inexplicable, The King’s Fund, www.kingfunds.org.uk (5) Wennberg J. (2011), Time to tackle unwarranted variations in practice, BMJ, 342, pp. 687-90. (6) Royal College of Physicians Policy Statement (2010), How doctors can close the gap. Tackling the social determinants of health through culture change, advocacy and education. (7) Domenighetti G. (2009), Medicalizzazione della vita, comunicazione sanitaria e conflitti di interesse, Rivista per le Medical Humanities (rMH), 9, pp. 32-9. (8) Moynihan R., Henry M.D. (2006), The Fight against Disease Mongering: Generating Knowledge for Action, PLoS Medicine, 3. pp. 425-28 www.plosmedicine.org (9) Moynihan R. (2011), A new deal on disease definition, BMJ, 342, d2548. (10) Bonaldi A. (2010), Emergenza e autorganizzazione: che cosa sono e come si possono promuovere nelle aziende sanitarie, Dedalo, VIII/3, pp. 5-14. (11) www.retededalo.it, Dedalo - Gestire I sistemi complessi in sanità. (12) Tinetti M.E. (2004), The end of disease era, Am J Med, 116, pp. 179-85. (13) WHO (2006), Constitution of the World Health Organization, www.who.int (14) Is health a state or an ability? Towords a dynamic concept of health. Health Council of the Netherlands, Publication A10/04, www.gezondheidsraad.nl/sites/default/files/bijlage%20A1004_1.pdf (15) Machteld H. et al. (2011), How should we define health?, BMJ, 343, d4163. 10Bobbio 102:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 102 Marco Bobbio Medico cardiologo - Direttore della SC di Cardiologia, Ospedale Santo Croce e Carlo, Cuneo U n concetto che può caratterizzare l’espressione “medicina sobria” è rinuncia. Infatti, sobria è quella Medicina che sa riconoscere i propri limiti, che sa fermarsi quando le probabilità di un ipotetico vantaggio sono gravate da pesanti eventi sfavorevoli, che sa rinunciare a ulteriori accertamenti diagnostici che verosimilmente non cambieranno il programma terapeutico. Nell’accezione comune il termine rinuncia e i suoi sinonimi hanno un connotato negativo, come se la missione di ogni uomo fosse quella di andare sempre avanti, fino allo sfinimento, fino alla morte: abbandono, abdicazione, astensione, cedimento, cessione, digiuno, distacco, forfait, mortificazione, privazione, resa, rifiuto, ritirata, sacrifico, vendita. Si rinuncia di solito a situazioni divertenti, piacevoli, invidiabili: a una buona occasione, alla carne, a una carica, alla carriera, a un compenso, a un diritto, a un’eredità, all’immunità, a un’iscrizione, a una gara, a un corso universitario, a un incarico, a una nomina, ai piaceri, a un premio, a una prerogativa, a una promozione, ai propri beni, a un titolo, al trasferimento, alla vendetta. Eppure la ri- 10:29 Pagina 102 Slow medicine N. 191 - 2012 Sobrietà e rinuncia nuncia può rappresentare un atto positivo. A ben pensarci, la rinuncia è la conseguenza di una scelta, nella quale ci si priva di qualcosa in cambio di qualcos’altro. In Medicina viene universalmente riconosciuto che il valore della vita è il valore supremo, a cui non bisogna rinunciare mai. Noi medici siamo culturalmente condizionati dall’imperativo morale di fare tutto il possibile per il paziente che si è rivolto alle nostre cure. D’altro canto i pazienti si aspettano che non venga trascurato alcun tentativo per raggiungere la diagnosi e curare la malattia. La Medicina però sta evolvendo rapidamente e se l’imperativo del medico e l’aspettativa del paziente erano del tutto realistici alcuni decenni fa, ora, con il progredire delle tecnologie e delle terapie, può capitare che “tutto il possibile” sia pericoloso e “ulteriori tentativi di raggiungere la diagnosi” si trasformino in un meccanismo ineluttabilmente deleterio. Non siamo in grado di prevedere il futuro e stabilire se l’esame che stiamo per prescrivere dirimerà il dubbio, individuerà una patologia del tutto imprevedibile o solleciterà ulteriori accertamenti inutili o addirittura dannosi. È però Le varie implicazioni della rinuncia ad un intervento o ad una terapia necessario sapere che non sempre l’esito seguirà le nostre aspettative e quindi si dovranno mettere sul piatto della bilancia decisionale, coinvolgendo il paziente nella scelta, non solo gli esiti favorevoli (più frequenti), ma anche quelli sfavorevoli (più rari). Non solo. Dobbiamo aggiungere alla bilancia decisionale anche i valori e le aspettative del paziente: una preoccupazione più o meno intensa della malattia, una percezione più o meno invalidante del sintomo, un lavoro più o meno soddisfacente, un desiderio più o meno impellente di divertirsi, di fare attività sportiva, di applicarsi a un hobby, un attaccamento alla durata più che alla qualità della vita (o viceversa), una maggior paura del trattamento rispetto al non-trattamento (o viceversa), legami affettivi più o meno coinvolgenti, progetti più o meno impellenti ancora da realizzare. Se questi valori inducono il paziente a rinunciare a un trattamento, a un intervento chirurgico, a una chemioterapia, dobbiamo per forza considerarlo un malato di mente da interdire, uno sciocco che va convinto, un ignorante che va educato, un disinformato che va istruito, un pavido che va incoraggiato? O invece dobbiamo considerarlo una persona che rinuncia a qualcosa per avere qualcos’altro, che ritiene, in modo del tutto personale e non universalmente condivisibile, più vantaggioso? Etica del quotidiano Questa non è la sede per riflettere dove nasca l’idea che si debba fare tutto il possibile, sommando accertamenti a trattamenti, stigmatizzando chi rinuncia a fare di più: dai pazienti che aspirano a raggiungere la certezza della diagnosi e dell’assenza di malattia, dai medici che tendono a prescrivere procedure diagnostiche in eccesso per evitare una causa penale da omissione, dai media che in modo acritico diffondono notizie entusiastiche sui meriti di ogni nuova procedura diagnostica e interventistica, dai politici che non sanno indirizzare le scelte strategiche della sanità e preferiscono investire sulla tecnologia che 10Bobbio 102:Layout 1 26-04-2012 10:29 Pagina 103 Sae l ute Slow medicine Territorio 103 N. 191 - 2012 sul personale, dalle industrie che spingono l’uso della propria tecnologia con mezzi non sempre eticamente accettabili, dalla società che corre verso una crescita senza limiti e non sa prevedere dove si andrà a finire. Questa è invece la sede per riflettere sul significato positivo della rinuncia. Non saranno neanche oggetto di questa riflessione le decisioni che riguardano i momenti cruciali della vita, oggetto di approfondite analisi di tipo bioetico: la nascita e la morte, né questioni riguardanti la sospensione di trattamenti considerati futili (1, 2) e la conseguente desistenza terapeutica (3). Si affronteranno invece questioni di etica del quotidiano, riguardanti la scelta di un paziente (o del suo medico) di non proseguire nel percorso diagnostico o terapeutico proposto. Per entrare nel merito della questione descriverò 5 casi nei quali la rinuncia è stato un elemento fondamentale nel processo decisionale in quanto possiamo considerarla contestata, trascurata, saggia, mancata, pericolosa. Una rinuncia contestata Una mattina mi telefona con un tono di voce preoccupato la caposala dell’Unità coronarica: “ci sono i parenti del signor Franco G. che vorrebbero parlarle”. La invito ad accompagnarli nel mio studio. Si tratta di un signore di 85 anni con una lunga storia di diabete, di ripetuti ricoveri per eventi coronarici trattati con la Cardiochirurgia, con angioplastiche e con l’impianto di un defibrillatore. Ha una grave insufficienza renale e molti parametri di laboratorio sono alterati. “La dottoressa che segue mio padre – esordisce una delle figlie – è un’incompetente. Ci ha detto che non c’è più nulla da fare. Non possiamo lasciar morire nostro padre. Se non siete in grado di salvarlo, lo portiamo in un Centro più attrezzato”. È difficile far capire a una figlia che c’è un momento nel quale le risorse della Medicina si esauriscono e si deve affrontare il distacco. Mi amareggia pensare che questa donna non si dia pace, ci consideri incapaci e rinunciatari, e non capisca che i numerosi interventi medici hanno regalato a suo padre almeno dieci anni di vita. Parliamo a lungo e cerco di far loro comprendere che le risorse dell’organismo del loro congiunto sono alla fine. “Dica alla sua collaboratrice di fargli almeno la dialisi. Non lo si può lasciare morire”. Le spiego che sarebbe un intervento inutile che gli prolungherebbe la vita di qualche giorno, senza alcuna prospettiva di poterlo poi dimettere. Non so se mi credono, ma in qualche modo si rassegnano. Arrivando in Ospedale due giorni dopo, la caposala mi comunica che nella notte Franco G. è morto. Una rinuncia trascurata Un’infermiera di 52 anni, in soprappeso e in trattamento antipertensivo, si presenta dal medico lamentando un dolore al torace, persistente da due giorni, non indotto dallo sforzo, che si accentua con profonde inspirazioni e sollevando il braccio destro (4). Il medico ritiene che il dolore non sia di origine cardiaca, ma per raggiungere un maggior grado di certezza, preferisce prescrivere una TAC coronarica. È più tranquillo il medico che demanda a un test diagnostico (e a chi lo interpreta) la responsabilità della diagnosi e più serena la signora che sarà ancora più certa di non avere problemi coronarici. Con lo scopo di dirimere ogni dubbio, la signora esegue l’esame radiologico che non sgombera il campo da ogni incertezza. Anzi, il riscontro di modeste placche coronariche calcifiche e non calcifiche richiede l’esecuzione di una coronarografia, che dimostra in modo inequivocabile l’irrilevanza emodinamica di quelle placche. Nel corso però della procedura, la paziente avverte un violento dolore al torace, si ipotende e a un ulteriore controllo angiografico si evidenzia una dissezione dell’aorta ascendente con estensione al tronco comune della coronaria sinistra. Viene posizionato un contropulsatore aortico ed eseguito un intervento di bypass aortocoronarico in condizioni di emergenza. Alla dimissione la funzione ventricolare sinistra risulta gravemente compromessa. Nei mesi successivi la signora verrà sottoposta a numerose angioplastiche coronariche con impianto di stent, sarà ricoverata per un infarto complicato da shock cardiogeno e infine sottoposta a un trapianto urgente di cuore. Una rinuncia saggia Il 30 dicembre del 2009 Gersh BJ e McLoad CJ entrambi della Mayo Clinic, sul sito di Medscape (5), descrivono e commentano il caso di un uomo d’affari di 44 anni leggermente sovrappeso, sedentario, che lamenta un dolore al torace e dispnea da sforzo. Viene sottoposto a prova elettrocardiografia da sforzo suggestiva per la presenza di un’ischemia miocardica; anche la scintigrafia con tallio conferma un’ampia zona ischemica nella parete anteriore e apicale. Il paziente esegue allora la coronarografia che documenta una severa ostruzione della parte iniziale della coronaria discendente anteriore. Il dr Gersh, e come lui credo la stragrande maggioranza dei cardiologi, gli propone un’angioplastica, illustrandogli anche l’alternativa “watchful waiting”, consistente nel ridurre i fattori di rischio e assumere una terapia farmacologica piena, valutando l’andamento dei sintomi. Il paziente opta, contro il parere del cardiologo e delle indicazioni fornite nelle linee guida internazionali, per la terapia medica, inizia un regolare programma di attività fisica e adotta una dieta povera di grassi che gli permette di ridurre il peso. Rimane senza sintomi per 14 anni, quando la scintigrafia mostra un’area ischemica anche in sede inferiore e la coronarografia, oltre alla lesione precedente, mostra una nuova lesione critica sulla coronaria destra. A quel punto si sottopone ad angioplastica coronarica. Una rinuncia mancata Nel 2010 la rivista Journal of the American College of Cardiology pubblica (6) la descri- 10Bobbio 102:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 104 zione della storia di un 56enne che si presenta in Ospedale per un dolore anginoso; dalla documentazione si evince che nell’arco di 10 anni è già stato sottoposto a 28 coronarografie (più di una a semestre) con l’applicazione di 67 stent. Gli autori riflettono sul fatto che “il troppo è troppo” e che nel decennio precedente “si sarebbe potuto risolvere i disturbi del paziente in altro modo”. Una rinuncia pericolosa Giovanni M. è un signore di 84 anni diabetico, con insufficienza renale che viene ricoverato nella nostra Unità coronarica per un episodio di scompenso cardiaco. Dagli accertamenti viene confermata la presenza di una severa insufficienza mitralica, nota da parecchi anni, e di una grave disfunzione della contrattilità del ventricolo sinistro, peggiorata rispetto ai controlli precedenti. Il paziente era già stato ricoverato 8 anni prima (all’età di 74 anni) e già allora gli era stato proposto di sottoporsi a un intervento cardiochirurgico per sostituzione della valvola mitralica. Allora il paziente, non accusando molti disturbi, aveva preferito rinunciare all’intervento. In questa occasione invece chiede di essere operato. Il cardiochirurgo cerca di scoraggiarlo spiegandogli che l’intervento è a rischio elevato. Il paziente insiste commentando “non poso andare avanti così. O la va o la spacca”. Qualche giorno dopo si procede all’intervento, ma il signor GM non si riprende e morirà dopo 42 giorni di rianimazione. 10:29 Pagina 104 Slow medicine Ho presentato alcuni casi emblematici nei quali nella decisione diagnostica o terapeutica ha giocato un ruolo la rinuncia. In alcuni casi è stata una scelta saggia, in altri deplorevole. In ogni caso il giudizio sulla correttezza della decisione può essere fatta solo a posteriori. Quando ci troviamo nel momento di decidere quale strategia sia più appropriata alle particolari condizioni cliniche di quel paziente e più consona ai suoi valori, né il paziente né il medico sono in grado stabilire quale opzione sarà la migliore. Il nostro lavoro di medici ci costringe quotidianamente ad assumere decisioni senza conoscere i benefici e i danni che queste procureranno al paziente e di conseguenza abbiamo imparato a ricevere elogi sperticati se le cose vanno bene e maledizioni e denunce se vanno male. Giovanni M. e i parenti di Franco G. pretendono un trattamento che ha basse probabilità di risolvere il problema. Non sappiamo quanto a lungo (giorni, settimane) e come sarebbe vissuto Franco G. se fosse stato sottoposto a dialisi; era comunque improbabile che la dialisi avrebbe potuto garantire delle condizioni di salute accettabile per un periodo di tempo congruo. La storia di Giovanni M. solleva una questione che affrontiamo sempre più spesso: un paziente che nega il consenso a un intervento quando sta ancora relativamente bene e le probabilità di successo sono elevate, e lo pretende quando sta davvero male e con il passare degli anni è peggiorato lo stato generale N. 191 - 2012 con un proibitivo rischio dell’intervento. In entrambi i casi i medici avevano una forte convinzione sul fatto che sia meglio rinunciare, dettata dall’esperienza e dal supporto di una letteratura scientifica sui rischi di interventi in condizioni estreme. Ma non avevano la certezza. Hanno proposto all’uno e agli altri di rinunciare, ma si sono trovati in difficoltà a imporre la loro opzione. Abbiamo la prova che per Giovanni M. la Chirurgia ha creato più sofferenze che benefici. L’infermiera 52enne ha invece seguito i consigli del medico, nel tentativo di ridurre al minimo l’incertezza diagnostica di un giudizio soggettivo, ricercando la presunta oggettività in un referto radiografico d’avanguardia. Con il senno di poi, si è rivelata deleteria la proposta di non rinunciare a un maggior grado di certezza. L’uomo d’affari 44enne ha invece preferito rinunciare all’intervento invasivo che sarebbe stato raccomandato da qualunque cardiologo e che, nella concezione comune, l’avrebbe messo al riparo da ulteriori rischi. Non abbiamo motivi di pensare che se avesse eseguito un’angioplastica coronarica avrebbe potuto aspettarsi un decorso più favorevole. Con il senno di poi, la sua scelta di rinunciare è stata comunque saggia. Non abbiamo invece elementi per giudicare quale sarebbe stato il destino del 56enne con 67 stent nelle coronarie se in una o più delle 28 coronarografie fosse stata scelta una strategia diversa. Questi casi ci consentono di riflettere su due aspetti. Innanzi tutto la valutazione sulla correttezza della scelta può (e non sempre) essere fatta a posteriori. Nel momento della decisione, non avendo alcun dato che ci dica se in quel singolo paziente sarà più favorevole una soluzione piuttosto che l’altra, possiamo solo stabilire quale sarebbe la soluzione più idonea in pazienti medi. Ovvero in pazienti studiati in ricerche cliniche che hanno alcune delle caratteristiche di quel paziente (età, sesso, tipo e gravità della patologia, parametri ematici) ma che non contemplano molte della caratteristiche peculiari di quella persona. Medicina sostenibile La natura umana è variegata e i medici dovrebbero imparare a non avvicinarsi all’ammalato con ideologie, preconcetti, ma con l’intento di aiutare ad affrontare un passaggio angosciante dell’esistenza, dovuto alla comparsa di una malattia. Spesso è sbagliato essere rinunciatari; per nostra fortuna al giorno d’oggi la Medicina dispone di strumenti formidabili per studiare il corpo umano e per curarlo con svariati trattamenti, e da questo traiamo tutti giovamento. Ma la potenza può anche fare del male, quando si trasforma in onnipotenza, quando non è in grado di darsi dei limiti o quando impone una strategia terapeutica indifferenziata, in contrapposizione con i valori della persona che deve essere assistita. Si parla di Medicina “sostenibile”, mutuando il termine dai movimenti ambientalisti, 10Bobbio 102:Layout 1 26-04-2012 10:29 Pagina 105 Sae l ute Slow medicine Territorio 105 N. 191 - 2012 per indicare un sistema di ricerca e di cura che sia economicamente accettabile ed equamente distribuito, ma penso che il termine vada utilizzato anche a livello del singolo individuo: una Medicina che offra un percorso diagnostico e terapeutico complessivamente sostenibile da parte di ogni persona, tenendo conto delle sue preferenze e dei suoi valori. Quando un paziente manifesta il desiderio di rinunciare a un trattamento o a un esame, spesso i medici, e talvolta anche i parenti, interpretano la decisione come una colpa co- darda e faranno di tutto per fargli cambiare idea; all’opposto, dedicheranno poche energie per convincerlo a non eseguire un intervento chirurgico, a non sottoporsi a un test. Come se la rinuncia fosse un abbandono alla vita, un atto di debolezza, un sintomo di depressione. Capita spesso di assistere a colloqui nei quali medici e parenti insistono per operare persone molto anziane, stufe di lunghi giorni di degenza, disorientati da un ambiente estraneo, preoccupati di morire senza i propri cari vicini, stanchi di combattere. Un’opportunità Come possiamo inserire il concetto di rinuncia, nella complessità e delicatezza dell’incontro tra un medico e un paziente? Molti medici sostengono che è loro obbligo morale indicare al paziente quale, secondo loro in scienza e coscienza, è la scelta migliore. Sta poi al paziente decidere, come è avvento nel caso dell’uomo d’affari 44enne. La questione non riguarda solo cosa si dice, ma soprattutto come lo si dice, quale enfasi si danno ai dati positivi e negativi di una procedura, come si enfa- tizzano i vantaggi e si minimizzano gli inconvenienti, come si induce ansia sulle conseguenze del non fare. In altre parole come si propone e si accetta la possibilità di una rinuncia. La rinuncia deve entrare nell’armamentario concettuale del medico che si avvicina a un paziente per affrontare con lui una scelta diagnostica e terapeutica, tenendo conto che anche una rinuncia può essere una scelta positiva, consapevole e rispettabile. Magari, l’unica accettabile da quel paziente. Bibliografia (1) Wetroug R.D., Brett A.S., Frader J. (1992), The problem of futility, N Engl J Med, 326, pp. 1560-4. (2) Wijer C. (1999), Medical futility. Physicians, not patients, call the shot, West J Med, 170, p. 254. (3) Romanò M. (2011), La desistenza terapeutica in unità di terapia intensiva cardiologica: criteri decisionali tra etica e clinica, G Ital Cardiol, 12, pp. 50-7. (4) Becker M.C., Galla J.M., Nissen S.E. (2011), Left main trunk coronary artery dissection as a consequence of inaccurate coronary computed coronary angiography, Arch Intern Med, 171, pp. 698-701. (5) http://www.medscape.org/viewarticle/714245 (6) Khuozsam R.N., Dahiya R., Schwartz R. (2010), A heart with 67 stents, JACC. 11Beccastrini 106:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 106 Stefano Beccastrini Medico del lavoro, pedagogista, storico del cinema 10:29 Pagina 106 Slow medicine N. 191 - 2012 Prevenzione e promozione della salute La slow medicine correva un rischio: produrre idee coinvolgenti, “sovversive” rispetto ad una Medicina sempre più tecnologica e, di conseguenza, in inevitabile allontanamento dal paziente. Ribadire il principio che “le parole curano” significa porsi l’obiettivo di recuperare un rapporto su cui fondare il dialogo, lo scambio, il confronto fra due persone che rimangono, sì, un medico e un paziente, ma in un clima di empatia che recupera l’umanità del professionista e conforta i bisogni di chi gli chiede aiuto. Le “idee in movimento” che la slow medicine si propone di divulgare e affermare tra i professionisti della cura avevano bisogno di dimostrare che era possibile metterle in pratica. I Progetti presentati nei due Convegni che Salute e Territorio ha ripreso, ottenendo dai relatori che riscrivessero, approfondendoli, i loro interventi, dimostrano che si può applicare questa nuova “filosofia medica” in attività, progetti, servizi riproponibili in altre realtà come esempi di buona sanità. Una speranza? U na seria questione che abbiamo dovuto affrontare è stata in generale, e poi declinandola per ciascuno dei campi d’interesse del movimento, quella di come distinguere ciò che è slow da ciò che è ancora, e purtroppo, fast, ossia, la necessità di elaborare una griglia di valutazione dei progetti che man mano riusciremo a costruire. Personalmente credo che, nell’area della prevenzione e della promozione della salute – occorra partire sempre da una fondamentale verità che vorrei richiamare citando un maestro e amico indimenticato, Lorenzo Tomatis. Egli ha scritto una volta – ma ripeteva spesso – che: “Quando si parla di prevenzione, tutti pensano alla cosiddetta diagnosi precoce, ma c’è una prevenzione che si può fare a monte, cercando non di limi- tare i danni della malattia diagnosticandola al più presto, quanto piuttosto di evitarne l’insorgenza impedendo l’esposizione alle sostanze che la provocano”. Ecco: la centralità della prevenzione primaria è il primo criterio di giudizio da adottare per qualunque strategia di promozione della salute di tipo slow. Oltre a questo criterio di fondo, ritengo che siano tuttora valide le indicazioni della Carta di Ottawa, sancita in occasione della Conferenza mondiale sulla promozione della salute che l’OMS tenne nella città canadese nel 1986 (non casualmente lo stesso anno in cui l’ONU lanciò la strategia dello sviluppo sostenibile: promozione della salute e sviluppo sostenibile vanno necessariamente a braccetto, come suol dirsi, e restano obiettivi decisivi d’ogni politica sanitaria, am- bientale, globale). Tali indicazioni riguardavano la necessità di: 1. Perseguire la promozione della salute tramite politiche non soltanto sanitarie, così valorizzando le alleanze interdisciplinari e interistituzionali, le forme di partenariato e così via. 2. Impegnarsi nella costruzione di ambienti favorevoli alla salute e dunque il porre al centro della nostra attenzione i determinanti socio-ecologici di essa. 3. Rafforzare la competenza partecipativa delle comunità locali, tramite il massimo incoraggiamento di forme cooperative e di empowerment democratico. 4. Aiutare attivamente lo sviluppo delle capacità personali di ogni cittadino, tramite opportune iniziative di carattere educativo e formativo, di coinvolgi- mento, di ricerca partecipativa. 5. Contribuire a riorientare – nel senso suddetto – i servizi pubblici, quelli sanitari ma anche tutti gli altri. Si tratta di cose che diciamo da tempo. La questione è prenderle finalmente, con coerenza, sul serio. Ciò significherebbe trasformare la Medicina da scienza unicamente riparativa in scienza anche predittiva, capace di aiutare la comunità ad orientare democraticamente, nel senso della salubrità e della sostenibilità, le proprie scelte di governo del territorio. Per farlo occorrerebbe anche, da parte di chi fa promozione della (e dunque, anche, educazione alla) salute una consapevolezza pedagogica che non sempre è presente: il nostro interlocutore – chiunque egli sia – è un soggetto da chiamare ad un’azione comune, 11Beccastrini 106:Layout 1 26-04-2012 10:29 Pagina 107 Sae l ute Slow medicine Territorio 107 N. 191 - 2012 non un contenitore passivo da riempire col nostro – troppo spesso del tutto presunto – sapere. Ciò doverosamente premesso, andiamo a vedere quali siano stati i progetti presentati, nella sessione da me coordinata, al Convegno di Torino. Essi erano nove e riguardavano: 1. La prevenzione dei disturbi dell’alimentazione. 2. La prevenzione dei comportamenti a rischio della popolazione giovanile. 3. La prevenzione dei tumori femminili nel Sud dello Zambia. 4. La costruzione di un servizio di promozione della salute per i migranti forzati. 5. La promozione di un’associazione di medici ispirati all’obiettivo della decrescita. 6. La formazione contro il disagio giovanile tramite la Peer Education. 7. Una ridefinizione del ruolo, attualmente di scarsa efficacia preventiva, dei cosiddetti medici competenti. 8. L’esplorazione di strategie sociali che sappiano valorizzare, soprattutto nei confronti degli anziani, il lavoro come fonte di benessere. Primo Progetto La prevenzione dei disturbi dei comportamenti alimentari (DCA) Il Progetto era presentato dagli operatori del Servizio di Igiene degli alimenti e nutrizione dell’ASL di Alessandria, in collaborazione con il Servizio di Psicologia dell’ASL medesima. Esso è centrato sulla formazione, in materia di preven- zione dei DCA, degli insegnanti di un Istituto di scuola media superiore nel corso dell’anno scolastico 20082009. Si è ritenuto infatti, e giustamente, che la formazione dei formatori – affiancata da incontri, nelle classi, con gli allievi – fosse la strategia più efficace affinchè si mettesse in moto un processo di crescita partecipativa, su una questione di sempre maggiore rilevanza sociale ed epidemiologica, all’interno della scuola. I concetti slow promossi dal progetto – che ha partecipato alla sezione poster del Convegno “Bologna Challenge DCA 2009. Vincere una sfida”, ove è stato premiato come miglior poster – sono: – una strategia di lotta ai DCA non fondata sulla prescrizione di diete rigide bensì sulla crescita di consapevolezza dei giovani allievi, – il rifiuto di metodologie educative improntate al prescrittivismo, all’autoritarismo pedagogico-didattico, al dominio dell’esperto di turno bensì all’incontro, all’ascolto, al dialogo intergenerazionale, – l’utilizzo efficace di metodologie di counselling. Secondo Progetto Educazione alla sessualità degli adolescenti Il Progetto era presentato da due operatrici (un’infermiera professionale counsellor e un medico pediatra) della ASLTO1. Esso è centrato su una strategia educativa finalizzata alla crescita di autonomia identitaria e di responsabilità di scelta dei giovani a cui è rivolto. Si è dato spazio – coinvolgendo anche i docenti di Scienze, Lettere ed Educazione artistica delle varie scuole – a metodologie pedagogiche di dialogo, di interazione partecipativa, di confronto tra pari. Le pratiche slow che fanno da guida al progetto sono: – aiutare i ragazzi a confrontarsi tra loro, – promuovere un atteggiamento positivo verso la sessualità, – promuovere il rispetto di sé e degli altri, – perseguire accoglienza, ascolto, accompagnamento, scoperta e riscoperta di sé, – rifiutare il metodo, tipicamente fast, dell’indottrinamento prescrittivo. Terzo Progetto Prevenzione dei comportamenti a rischio della popolazione giovanile (Progetto RADAR) Il Progetto RADAR è gestito dalla Cooperativa di animazione Valdocco in convenzione con il Servizio per le dipendenze patologiche dell’ASLTO4. Esso mira a: – sostenere la scuola nel suo porsi quale agenzia educativa complessiva e non soltanto di mera istruzione, – aiutare la creazione di reti territoriali di soggetti e istituzioni orientate all’ascolto del disagio giovanile e allo sviluppo di empowerment delle giovani generazioni, – sviluppare nei giovani una crescita di consapevolezza e di responsabilità capace di allontanarli dai rischi connessi con l’uso di sostanze psicotrope e di rapporti sessuali non protetti. Le parole chiave, di natura slow, del Progetto RADAR sono presenza, rete, prospettiva, contatto, curiosità, piacere. Il metodo, peculiarmente slow, è quello della Peer Education, capace di creare partecipazione e interazione e di sviluppare empowerment. Gli atteggiamenti fast esplicitamente rifiutati sono: l’indottrinamento, il non coinvolgimento dei soggetti, la comunicazione unidirezionale. Quarto Progetto Prevenzione dei tumori femminili nel sud dello Zambia Il Progetto era presentato da un medico dell’Ospedale Evangelico Valdese di Torino e riguarda l’organizzazione di una campagna di screening dei tumori uterini da realizzarsi in una località dell’Africa (Zambia del Sud). L’obiettivo è quello di garantire efficacia diagnostica e assistenziale e potenziamento dei servizi locali. Gli aspetti slow del progetto – che l’autore connota con le parole: umanizzazione, cooperazione, empowerment – sono: – la molteplicità degli specialismi coinvolti, non soltanto sanitari – epidemiologici, chirurgici, ginecologici, infermieristici, ostetrici e così via – ma anche di natura antropologicoculturale ed educativi (sono previsti anche esperti di counselling), – la volontà di andare oltre – anche valorizzando e coinvolgendo le risorse locali – la tradizionale, e 11Beccastrini 106:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 108 decisamente fast, proposta di progetti sanitari che non tengono conto del contesto socioculturale in cui vanno ad intervenire. Quinto Progetto Costruzione di un Progetto di promozione della salute rivolto ai “migranti forzati” Il Progetto era presentato da una collega toscana che ha realizzato, collaborando con la clinica mobile del gruppo MEDU (Medici per i Diritti Umani) una ricerca sulle condizioni di salute e sull’accesso ai servizi sanitari dei, sempre più numerosi in Italia, “richiedenti asilo e titolari di protezione umanitaria”. In generale, sono emerse quali problematiche sociosanitarie diffuse presso tale tipo di popolazione: – carenze igienico-sanitarie, – ostacoli sociali e culturali nell’accesso ai servizi, – presenza di patologie diffusibili, – presenza di danni, sia fisici che psichici, per pregresse violenze e torture. Il carattere slow del progetto consiste soprattutto: – nel profondo rispetto umano con cui chi effettuava la ricerca, ma più in generale gli operatori del MEDU, si avvicinano e interloquiscono con persone sradicate dalla loro terra d’origine, che in molti casi hanno subito violenza, che sono senza fissa dimora in Italia, che spesso trovano difficoltà di vario tipo ad accedere ai servizi sanitari; – nella prospettiva di individuare nel medico di Medicina generale la figura professionale che potrebbe di- 10:29 Pagina 108 Slow medicine ventare l’interlocutore principale – assai più del Pronto Soccorso, attualmente il primo e unico servizio di riferimento di questo tipo di pazienti – di persone la cui principale patologia è risolvibile a livello ambulatoriale. Sesto Progetto Promozione di un’associazione di medici ispirati all’obiettivo della decrescita Il Progetto era presentato da un collega il quale fa parte di un movimento denominato, appunto, “Medici per la decrescita”. Si tratta di un’associazione che mira a diffondere un’idea sistemica di promozione della salute strettamente legata con il paradigma della decrescita, o della “crescita zero”, per esempio sulla base delle teorie ecologistiche di Serge Latouche. Come dichiarano gli stessi promotori del Progetto: “Decrescita è una parola d’ordine che significa abbandonare radicalmente l’obiettivo della crescita per la crescita, un obiettivo il cui motore non è altro che la ricerca del profitto da parte dei detentori del capitale e le cui conseguenze sono disastrose per l’ambiente. A rigor del vero, più che di decrescita, bisognerebbe parlare di a-crescita, poichè si tratta di abbandonare la fede e la religione della crescita, del progresso e dello sviluppo. Non soltanto la società è ridotta a mero strumento e mezzo della meccanica produttiva, ma l’uomo stesso tende a diventare lo scarto di un sistema che punta a renderlo inutile e a farne a meno… L’obiettivo della decre- N. 191 - 2012 scita è una società in cui si vivrà meglio lavorando e consumando di meno”. La questione interessa direttamente slow medicine, intanto ponendole questioni come la compatibilità epistemologica del concetto di sviluppo sostenibile con quello di decrescita. Eppoi chiamandola a misurarsi su un quadro politico in cui i vari movimenti sociali chiedono al governo proprio misure legislative ed economiche che favoriscano la crescita. Stiamo sbagliando tutto? Discutiamone, in maniera slow. Settimo Progetto Educazione contro il disagio giovanile tramite metodologie di Peer Education Si tratta di un Progetto di Educazione e promozione della salute, o meglio di percorso socio-equo-eco-sostenibile, promosso dal Comune di Rovereto (Trento) in collaborazione con varie agenzie istituzionali e socioculturali del territorio comunale. L’approccio è decisamente sistemico: il concetto, già chiaramente espresso dal titolo del Progetto, sottolinea che l’umanità è soltanto una delle tante presenze di vita sulla Terra, una delle sue tante ospiti e come tale – anche con gli strumenti della cultura, della Medicina, dell’educazione – deve rendere il proprio “abitare il pianeta”, il più possibile sostenibile, rispettoso di esso e degli altri abitanti, insomma slow. Il progetto assegna, in tale impresa, un ruolo importante, seppure ancora non diffusamente consapevole, ai medici (credo che ciò fosse già chiaro a Ippocrate ma ce ne siamo, lungo i secoli, dimenticati). Ottavo Progetto Riportare la prevenzione e la promozione della salute dei lavoratori al centro dell’attività del medico competente Il Progetto era presentato da un medico del lavoro lombardo, per molti anni operante nei servizi di prevenzione nei luoghi di lavoro della sua Regione, oggi in pensione ma tuttora. impegnato, oltre che nella cooperazione internazionale, nella riflessione sulle metodologie d’intervento preventivo. La constatazione da cui il Progetto prende impulso è che l’attività dei medici competenti è attualmente quasi del tutto assorbita dalla sorveglianza sanitaria dei lavoratori, peraltro svolta non di rado senza tenere conto degli indirizzi forniti dalla legge e al di fuori di rigorosi criteri di appropriatezza dei percorsi diagnostici messi in atto. Molto trascurate risultano invece le attività più propriamente preventive e sono pressoché assenti quelle di promozione della salute. Il Progetto si propone di intervenire in favore di un profondo riaggiustamento e riequilibrio tra le diverse attività svolte (o non svolte) dal medico competente rispetto a quanto oggi osservabile, e mira a coinvolgere i medici competenti e loro associazioni, i servizi pubblici di prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro, le organizzazioni sindacali e imprenditoriali, le società scientifiche di settore, l’università, l’INAIL-ISPESL. 11Beccastrini 106:Layout 1 26-04-2012 10:29 Pagina 109 Sae l ute Slow medicine Territorio 109 N. 191 - 2012 Gli obiettivi sono tre: 1. Porre al centro dell’attività del medico competente le attività di prevenzione e di promozione della salute. 2. Ricondurre la sorveglianza sanitaria dei lavoratori all’interno della logica e delle regole degli screening di popolazione. 3. Migliorare la qualità della relazione medico/lavoratore. Il senso slow di essi è legato all’aumento di: efficacia del lavoro del medico competente, appropriatezza nell’attività diagnostica, miglioramento della relazione medico/lavoratore. Gli aspetti fast che il Progetto si propone di superare sono: la medicalizzazione del ruolo del medico competente, la sua attività diagnostica al di fuori di un approccio EBM, la routinarietà e spersonalizzazione dell’attività del medico competente. Le parole chiave slow sono dunque: efficacia, appropriatezza, rispetto. Nono Progetto Lavorare può far bene alla salute Il Progetto veniva presentato da un medico di sanità pubblica, operante prima presso l’Istituto superiore di sanità e poi dell’Agenzia regionale sociale e sanitaria della Regione Emilia Romagna. Esso trae origine dalla constatazione che il lavoro viene considerato di solito come una necessità, che però rappresenta un pericolo per la salute. A volte viene anche utilizzato come una terapia. Quasi sempre si dimentica, invece, che può essere un’opportunità per la valorizzazione degli esseri umani e il mantenimento delle loro funzioni vitali più nobili. Questa proposta si concentra sul lavoro nella fase di invecchiamento, ma potrebbe essere rivolta anche ad altre fasi della vita. Gli attori potenziali coinvolti sono i servizi di prevenzione, in particolare quelli nei luoghi di lavoro e di Medicina legale, quelli geriatrici, le Case di riposo, i servizi sociali, gli Enti locali, le organizzazioni sindacali e di volontariato, quelli di ergonomia, i medici di Medicina generale, gli infermieri, i sociologi, gli economisti, le imprese. La proposta mira, quali obiettivi slow, a creare le condizioni per sperimentare forme di lavoro, dignitoso, adeguato alle circostanze, organizzato, utile, che permettano un passaggio graduale dalla condizione di lavoratore a quella di pensionato e mantengano nelle persone condizioni attive e socialmente apprezzate. In tal senso, si propone di superare la divisione netta tra fasi della vita dedicate al lavoro e fasi di completo riposo, il disinteresse per il ruolo sociale degli anziani, la parzialità delle proposte riguardanti la sola attività fisica. Le sue parole chiave slow sono: lavoro dignitoso e appropriato, ergonomia, integrazione tra lavoro/studio/riposo. Concludo questa, necessaria- mente sintetica, presentazione dei Progetti presentati nella sessione del Convegno di Torino da me coordinata, facendo notare come il tema della prevenzione e della promozione della salute, della sostenibilità dello sviluppo, della qualità della vita, della partecipazione dei cittadini a governare la salubrità del loro ambiente di vita e di lavoro, appaia sempre più quale tema decisivo sia della capacità della Medicina di farsi promotrice di un rinnovamento profondo – culturale e scientifico, etico ed epistemologico – di se stessa e dei propri paradigmi concettuali sia di farsi strumento anche politico e sociale di aiuto all’umanità, e alla democrazia, del nostro tempo, per superare la crisi in cui entrambe sono precipitate. Credo, d’altra parte, che la Medicina sia nata proprio per questo, molti secoli fa. Riscoprirlo è come tornare alle nostre origini, alla nostra primaria missione, alla nostra vocazione professionale ed esistenziale. 12Vernero 110:Layout 1 2-05-2012 9:14 Pagina 110 Sae l ute Territorio Slow medicine Sandra Vernero1 Gianfranco Domenighetti2 Progetti slow 110 N. 191 - 2012 1 Medico - Consiglio direttivo SIQuAS-VRQ - Staff Direzione Azienda USL di Bologna 2 Docente di Comunicazione e Economia sanitaria, Università della Svizzera italiana e di Losanna L a presentazione dei progetti slow del gruppo “Fra acuzie e cronicità: curare malati, curare malattie” è stata preceduta dall’esposizione di alcune idee chiave delineate nel corso della tavola rotonda del Seminario di Ferrara del 29 giugno 2011: – Slow medicine si colloca nell’ambito della Medicina scientifica tradizionale (EBM), ma invita a valutare in modo critico le prove di efficacia e ad applicarle in maniera non dogmatica bensì centrata sul singolo paziente. Per slow medicine la miglior cura non è quella “mediamente” efficace ma quella appropriata, adeguata, su misura, condivisa, personalizzata, per il singolo paziente, nel rispetto dei suoi valori di vita, della sua dignità personale e del suo consenso. – Perché le decisioni siano realmente condivise è indispensabile valorizzare la relazione tra il paziente e il medico e gli altri operatori sanitari, dare importanza all’ascolto, alla storia del paziente, affiancare alla voce della Medicina la voce della vita. – Sobrietà vuol dire evitare gli sprechi e utilizzare in modo appropriato le risor- se disponibili, evitando il sovrautilizzo di indagini e di trattamenti. Fondamentale, anche al fine di richiedere solo gli esami realmente necessari, riappropriarsi della semeiotica fisica e ridare importanza alla visita del paziente, all’esame obiettivo, insieme alla storia del paziente. Appropriatezza è anche privilegiare le pratiche meno invasive, più fisiologiche e quindi meno a rischio di complicanze per il paziente. Evitare la sovra medicalizzazione privilegiando prevenzione quaternaria e promozione della salute. E nutrire sempre un “sano sospetto” verso l’innovazione tecnologica in particolare in campo farmaceutico: non sempre il nuovo offre reali vantaggi, in un campo spesso dominato da interessi commerciali e conflitti di interessi. – Slow medicine promuove una visione sistemica, che da un lato considera la persona nella sua interezza e non come un insieme di organi da curare, dall’altro promuove il superamento degli steccati tra diverse specialità e professionalità per lavorare dav- Fra acuzie e cronicità: curare malati, curare malattie vero in gruppo con un approccio e una pratica multidisciplinare. – Centrale la riflessione sul tempo: in primo luogo ridare valore al tempo dedicato al rapporto con il paziente, che si è dimostrato rappresentare una vera e propria terapia, e superare l’attuale focalizzazione sulla “produttività”. Ma anche: fare miglior uso del tempo, agire nel tempo giusto, appropriato. Il tempo può rappresentare un ausilio diagnostico, ci sono tempi fisiologici da rispettare (giusti tempi). Infine, tempo per riflettere, anche solo un attimo prima di intraprendere procedure d’urgenza: occorre il tempo per pensare a quello che si fa. – Perché venga realmente incentivata l’appropriatezza è fondamentale che vengano valutati e remunerati i risultati clinico assistenziali e non, come avviene attualmente, solamente risultati finanziari e di produttività. Descrizione di Progetti slow ANTINOMIE: Fast Slow riduzionismo olismo dogmatismo incertezza, dubbio, riflessione standard su misura EBM applicata in maniera dogmatica patient centered EBM sovramedicalizzazione prevenzione quaternaria, promozione della salute disease mongering empowerment dei cittadini Medicina difensiva migliorare la relazione con paziente e familiari 12Vernero 110:Layout 1 26-04-2012 10:18 Pagina 111 Sae l ute Slow medicine Territorio 111 N. 191 - 2012 Descrizione di Progetti slow 1. Giuria di cittadini per deliberare sulla utilità di definire (concettualizzare) l’iperglicemia come malattia (diabete di tipo II) [Roberto Satolli] Premesse – L’empowerment in Medicina deve partire dalla condivisione delle definizioni di salute e di malattie. – La concettualizzazione dell’iperglicemia come malattia (diabete di tipo II) è una premessa per la medicalizzazione e per il disease mongering della condizione. – Su questi temi non è mai stata promossa una discussione né tantomeno una deliberazione pubblica. Obiettivi Condurre un panel di cittadini qualsiasi: – a comprendere le implicazioni della definizione di diabete di tipo II; – e a deliberare sulla sua utilità nella prospettiva dell’interesse collettivo per la salute. Metodi – Costituire una giuria di cittadini, estratti in modo casuale dalla popolazione generale. – Esporre la Giuria a una informazione completa, veritiera e chiara sulla definizione di diabete II, e sulle sue implicazioni per la salute degli individui e della popolazione. – Chiedere alla Giuria in seduta chiusa di rispondere in modo il più possibile unanime a una domanda semplice, come: “L’attuale definizione di diabete II è la più utile per la salute?” – Chiedere alla Giuria di motivare la deliberazione con un documento successivo alla seduta. Risultati attesi – Sperimentare le forme della democrazia deliberativa nel campo della Medicina e in particolare sulla definizione delle malattie. – Produrre un documento critico sulla definizione di diabete II dal punto di vista dei cittadini. Obiettivi slow: Sperimentare forme di democrazia deliberativa come strumento per arginare la medicalizzazione della vita e della società. Aspetti fast da superare: La definizione di malattia sempre più ampia induce medicalizzazione e ostacola la promozione della salute. Parole chiave slow: partecipazione alle scelte, empowerment, promozione della salute. 2. Progetto Analisi valutativa del percorso decisionale (AVPD) [Fulvio Forino] Sprechiamo del tempo a riflettere L’AVPD è una metodologia per mezzo della quale i componenti di un team di cura conducono un’analisi valutativa del processo decisionale da loro utilizzato nell’assumere una decisione riguardante la gestione di un paziente prendendo in considerazione i livelli di accordo e di certezza registrati nell’assunzione della decisione stessa. L’obiettivo è quello di miglio- rare l’appropriatezza e la qualità delle performance del team di cura. L’approccio sistemico può aiutare i professionisti sanitari ad interpretare la complessità dei pazienti: – una polipatologia non è la somma delle singole patologie che la compongono ma va interpretata come una patologia complessa e unica, – in un paziente la compresenza di più patologie, ovvero di più dimensioni compromesse, fa si che la sua gestione non possa risolversi nella somma di più consulenze specialistiche, di più prestazioni professionali, di più linee guida, di più diagnosi, di più prescrizioni terapeutiche, ma richiede la cooperazione di più professionisti. Il paziente complesso è un “un paziente per la cui gestione sono necessari tre o più specialisti e/o tre o più professionalità che interagiscono sistematicamente tra loro e assumono decisioni condivise”. L’AVPD è una metodologia particolarmente utilizzabile dai team interdisciplinari che gestiscono pazienti cronici e complessi e che operano nelle “Medicine del territorio” (Riabilitazione, Neuropsichiatria infantile, Assistenza domiciliare, Geriatria, Medicina delle dipendenze, …) e coinvolge tutte le figure professionali che in essi operano. Attualmente l’AVPD è in una fase di validazione metodologica nell’ambito di una prima fase del Progetto che coinvolge sei UUOO. Obiettivi slow: “Sprecare” del tempo per fermarsi e riflettere; apprendere a ragionare su come ragioniamo per basare la gestione di pazienti complessi su decisioni consapevolmente adottate da un team sui più alti livelli possibili di accordo e certezza. Aspetti fast da superare: efficientismo, inappropriatezza. Parole chiave slow: Visione sistemica, team di cura, ragionare su come si ragiona, riflettere su come si decide, qualità e appropriatezza nella gestione di pazienti complessi. Fig. 1 12Vernero 110:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 112 3. Pillole di buona pratica clinica (BPC) per medici e Pillole di educazione sanitaria (ES) per cittadiniconsumatori [Alberto Donzelli e Claudia Lattes, Luisa Ronchi, Silvia Sacchi, Cristina Cassatella, Donatella Sghedoni] Descrizione Le Pillole di BPC, destinate all’aggiornamento/formazione dei medici, sono schede di contenuto scientifico (finora ne sono state predisposte 88), evidence based, chiare e sintetiche, con bibliografia ragionata. Le Pillole di ES sono una linea parallela di schede di divulgazione scientifica (finora 70), aggiornate ed essenziali, incisive, che si ispirano in modo esplicito al punto di vista del SSN, della comunità dei cittadini e della salute dei pazienti. Coinvolti Servizio di Educazione all’appropriatezza ed EBM; Dipartimento dei Servizi sanitari di base; MMG, PdF e medici di CA dell’ASL di Milano, specialisti di primo livello delle AA.OO. e delle altre strutture di ricovero cittadine; MMG di altre 4 ASL lombarde e di altre tre Regioni italiane. Da metà 2004 alle Pillole per medici si è affiancata una linea di Pillole di educazione sanitaria per cittadini-consumatori. Scopo: – far sì che i cittadini facciano buon uso dei servizi sanitari e siano consapevoli dei propri diritti; – non sollecitino i medici a prescrizioni irrazionali 10:18 Pagina 112 Slow medicine sotto la pressione consumistica dei media; – acquisiscano un salutare senso critico, conoscendo anche limiti, eventuali rischi e costi dei trattamenti e delle indagini proposte e le alternative disponibili, senza porsi in maniera passiva nei confronti di ogni prescrizione e proposta sanitaria; – conoscano elementi fondamentali di autogestione della propria salute e abbiano migliori strumenti per metterli in pratica. Tra i risultati Quali aspetti fast si propone di superare: – La “qualità” ambiguamente intesa, senza riferimenti ai valori di fondo che la legittimano: efficacia e “appropriatezza clinica”, governo dei costi/equilibrio economico del sistema, soddisfazione dei destinatari. – I “sette veleni” (Bonaldi). – L’ottavo veleno, che sottende gli altri, concorre a generarli e tende a perpetuarli: l’allineamento dei sistemi premianti (in senso lato: modelli di finanziamento delle organizzazioni e di remunerazione dei professionisti, status / appartenenza, prestigio / criteri di successo / autorealizzazione) di quasi tutti gli attori in sanità con la malattia, anziché con la salute (es.: pagamento a prestazione per diagnosi/cura di malattie, diagnosis of disease!) RG, disease management/ chronic (disease!) Related Groups (CReG), disease staging, prezzi per farmaci, libera professione (pagata a N. 191 - 2012 prestazione) incentivi per quantità di output/prestazioni…). L’interesse della maggior parte degli attori si divarica sempre più dalla salute, fino a entrare in conflitto con la salute. Per superare l’“ottavo veleno” si propone per gli attori in sanità un sistema premiante / di remunerazione per risultati (compre-hensive!) in termini di salute e per “livelli di risultato” (= sistema di remunerazione che allinea gli interessi degli erogatori alla longevità sana degli assistiti). Parole chiave slow: uso appropriato delle risorse, rispetto della persona, della sua autonomia e dei suoi valori, Patient centered EBM, empowerment dei cittadini, soluzioni win-win. 4. Formazione in Rete informale e didattica d’aula (FRIDA) [Marco Clerici] Descrizione È un progetto di formazione continua per medici di Medicina generale, iniziato nel 2010 a cura della Scuola di formazione specifica in Medicina generale di Trento, che cerca di implementare, attraverso l’analisi critica e collettiva della letteratura scientifica emergente, la consapevolezza dei medici di famiglia trentini che i contenuti, i modi di presentazione della ricerca medica non sono di per sé neutrali, ma spesso pongono questioni e producono indicazioni che rispondono a priorità altre rispetto al vero interesse del paziente. Servizi e professionisti coinvolti La struttura di FRIDA è pensata per 3 livelli di partecipanti: – i membri della “redazione”, 4 medici di Medicina generale e 5 specializzandi, che selezionano criticamente i principali studi clinici apparsi settimanalmente sulle principali riviste mediche e li pubblicano sul sito web della scuola; – tutti i medici di Medicina generale lettori del sito web (www.scuolamgtn.it) che scelgono gli argomenti ritenuti più meritevoli di approfondimento; – i medici di Medicina generale (30 per seminario) partecipanti a periodici seminari, che discutono gli argomenti scelti (dagli utenti del sito web) e definiscono una posizione condivisa (position paper) da pubblicare successivamente sul sito web della scuola. Obiettivi slow del progetto: – creare una comunità di pratica che elabori posizioni comuni dei medici di famiglia per una pratica medica prudente nell’uso dei mezzi diagnostici e dei farmaci, basata sulle prove di efficacia e rispettosa delle scelte dei malati, ma anche dell’esigenza dei sani a non essere medicalizzati oltre un ragionevole e condiviso rapporto costo/beneficio; – costruire progressivamente risorse di conoscenza, proposte per la condivisione di tutta la comunità dei medici di famiglia del 12Vernero 110:Layout 1 26-04-2012 10:18 Pagina 113 Sae l ute Slow medicine Territorio 113 N. 191 - 2012 Trentino, che hanno una precisa connotazione di stile e di contenuto definibile come slow; – fino ad ora sono stati pubblicati sul sito web della scuola due “position paper” di orientamento condiviso rivolto ai medici di Medicina generale: sullo screening mammografico nella donna giovane, sull’ approccio del medico di Medicina generale al malato di cancro. A breve ne verrà pubblicato uno sugli esami alla donna in gravidanza. Quali aspetti fast si propone di superare: l’abbassamento continuo dei livelli soglia di malattia, “il rischio di…” considerato malattia, “fare tutto il possibile”, la politerapia come somma aritmetica… Parole chiave slow: quantificare con il paziente i rischi e i benefici di ogni scelta di diagnosi e cura, “fare quello che ha senso”, la qualità della vita come outcome primario, la terapia come piano condiviso e individualizzato… Cosa sembra emergere di slow… – Un freno alle spinte alla medicalizzazione di fasce sempre più ampie di cittadini, amplificando le evidenze che disegnano una Medicina più attenta ai diritti di salute complessivi dei malati, ma anche dei sani. – Alcune categorie concettuali trasversali quali l’attenzione agli effetti negativi a lungo termine delle terapie e degli esami diagnostici e la critica all’iper-prescrizione di farmaci e controlli nei malati a basso rischio di gravi complicanze. 5. Reali e necessarie indicazioni alla diagnostica per immagini che siano di vero giovamento al medico e al paziente [Piero Cecchetti, Giulia Marta Barelli (giuliabx@hotmail. com), Stefano Fedeli, Stefano Carafa (Radiologia Ospedale S. Camillo, Roma)] Descrizione Evitare l’abuso di esami radiografici attraverso un accordo tra medici curanti e specialisti radiologi circa la corretta indicazione alle indagini. Coinvolti Specialisti radiologi, MMG, altri specialisti. Per quanto riguarda un accordo che calcoli la valutazione della richiesta del medico curante per l’esecuzione dell’indagine e quanto sia possibile al medico radiologo di dare corso all’esame, si ritiene che potrebbero essere adottate delle regole comuni e da tutti accettate: 1. Il medico radiologo dovrebbe categoricamente richiedere prima dell’esecuzione dell’indagine un preciso quesito diagnostico. Più del 50% di richieste di esami diagnostici per immagini non riportano un quesito diagnostico. Siamo in possesso di numerosissime richieste di indagini di RX del torace che al posto del quesito diagnostico riportano la dicitura “in due proiezioni”. Molti esami dell’apparato digerente riportano quale quesito generico “difficoltà alla digestione” quando molto spesso il paziente ha calcoli alla cistifellea o altro. Sarebbe opportuno che i medici radiologi riacquistassero la loro posizione di medici impostando il tipo di indagine dopo un attento esame del paziente e eseguissero quelle veramente utili in accordo con il medico curante. 2. I medici generici o specialisti che richiedono le indagini dovrebbero conoscere meglio le formidabili possibilità della diagnostica per immagini e concordare con il medico radiologo quali siano le più utili caso per caso. La telemedicina può essere un formidabile mezzo di comunicazione a distanza ma non dovrebbe assolutamente allontanare lo stretto rapporto di notizie fra paziente, medico curante e radiologo. 3. Un’accurata anamnesi e un attento studio della sintomatologia dovrebbero essere la guida al buon senso necessario alla precisa ricerca diagnostica evitando il più possibile l’esposizione inutile alle radiazioni. 4. Refertazione: molte volte la refertazione o è prolissa o troppo stringata senza sottolineare i dati più importanti che giovano al paziente e al curante. Riteniamo che per un accordo perfetto tra medico curante e radiologo si intenda una collaborazione più stretta e che soprattutto il medico radiologo sia sempre presente alla discussione. Obiettivi slow: riduzione dei costi relativi a pratiche inappropriate, riduzione dei danni iatrogeni, superare gli steccati tra diverse specialità e professionalità e lavorare davvero in gruppo con un approccio e una pratica multidisciplinare. Aspetti fast da superare: efficientismo, inappropriatezza, resistenze al cambiamento. Parole chiave slow: uso appropriato delle risorse, ridare valore all’anamnesi e all’esame obiettivo del paziente, ridurre danni iatrogeni, lavoro di gruppo, multidisciplinarietà. 6. Slow medicine & fast track: paradosso? [Maurizio Calzini, Daniela Passeri, Daniela Ranocchia] Descrizione La Chirurgia fast track combina varie tecniche chirurgiche e perioperatorie (Anestesia, Chirurgia mini invasiva, nutrizione e riabilitazione precoci) al fine di ridurre i tempi di degenza ospedaliera e favorire una precoce ripresa delle normali attività. Coinvolti Personale medico ed infermieristico dell’UOC di Chirurgia e personale infermieristico Cure domiciliari Distretto del Trasimeno, MMG dell’area del Trasimeno. Obiettivi slow: Assicurare al paziente trattato in fast track surgery un appropriato percorso perioperatorio e una dimissione protetta a domicilio senza ridurre sicurezza e qualità delle cure. 12Vernero 110:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 114 Umanizzare il percorso e rispettare il malato e la famiglia fornendo informazioni, educazione, counselling e riferimenti assistenziali appropriati per promuovere la sicurezza e appropriatezza della cura/assistenza a domicilio. Parole chiave slow: uso appropriato delle risorse, attenzione alla relazione con pazienti e familiari, empowerment dei pazienti, collaborazione tra i professionisti in Ospedale e tra quelli dell’Ospedale e quelli del territorio. 7. Posizionamento di cateteri venosi centrali ad impianto periferico in pazienti da trattare a domicilio [Marinella Ciarlo] Descrizione Posizionamento di cateteri venosi centrali ad impianto periferico eseguito prevalentemente da infermieri, anche bed side e a domicilio rivolto prevalentemente a pazienti anziani e cronici. Coinvolti Medici ed infermieri del Servizio di Anestesia e rianimazione dell’Ospedale di Aosta; medici ed infermieri del territorio della Valle d’Aosta; pazienti a domicilio e le loro famiglie. Questi cateteri rappresentano una via venosa d’accesso meno invasiva e meno soggetta a complicanze iatrogene rispetto alla classica vena centrale e permettono di assicurare terapie endovenose, idratazione e nutrizione artificiale a pazienti a domicilio, evitando ospedalizzazioni inappropriate. Dalla fine del 2009 ne sono stati im- 10:18 Pagina 114 Slow medicine N. 191 - 2012 piantati 1500, di cui 750 nel 2011. Grazie al loro utilizzo è migliorata la comunicazione tra i professionisti dell’Ospedale e quelli del territorio; inoltre questi ultimi e i familiari dei pazienti hanno acquisito maggiore autonomia e un ruolo più attivo nella cura del paziente. Gli operatori del territorio, spesso ubicati nelle Valli laterali e quindi a distanza dall’Ospedale, possono comunque contare su un numero telefonico dedicato al PICC TEAM (al quale risponde sempre uno degli operatori del team) per risolvere eventuali problemi. Obiettivi slow: uso appropriato delle risorse, riduzione dei costi complessivi, riduzione dell’ospedalizzazione migliorando la qualità di vita dei pazienti, riduzione delle complicanze legate ai cateteri centrali. Aspetti fast da superare: visione a breve termine nella valutazione dei costi, barriere comunicative tra Ospedale e territorio, resistenze al cambiamento. Parole chiave slow: appropriatezza, ridurre danni iatrogeni, lavoro di gruppo, multidisciplinarietà, qualità di vita dei pazienti, visione a mediolungo termine nella valutazione dei costi. 8. Accoglienza delle crisi iperventilatorie al triage del pronto soccorso [Franca Castellino con: Olivia Cerrina, Fabrizio Ines, Cristina Mandrile, Ugo Rovere, Marina Porfido, Valentina Rosso, Nadia Somale] Descrizione “Se c’è un posto di lavoro umano che può assomigliare a un alveare, questo è, sicuramente, il Pronto Soccorso di un grande Ospedale”. Il triage è davvero una posizione centrale del Pronto Soccorso, a cui tutti, dall’esterno e dall’interno, fanno riferimento. La relazione che si stabilisce tra infermiere e utente è di Fig. 2 primaria importanza. L’accoglienza e il triage degli utenti che iperventilano sono un bel banco di prova: oltre alle competenze tecniche l’infermiere deve mettere in atto tutte le abilità relazionali che possiede, per ottenere una buona compliance con l’utente, che consenta di gestire adeguatamente la situazione. Parole chiave – accogliere il disagio dell’utente (ascoltare attivamente e credergli!), – essere presenti fisicamente accanto all’utente, – verificare e non sottovalutare (parametri vitali), – spiegare cosa sta succedendo, – restituire una normalizzazione (non etichettare), – coinvolgere e prendere in considerazione gli accompagnatori. Rallentare Il paziente in crisi iperventilatoria ha un bisogno fondamentale: qualcuno competente stia al suo fianco e con calma gli spieghi cosa sta succedendo. Coinvolti Infermieri di Pronto Soccorso (Ospedale di Cuneo), pazienti in crisi iperventilatorie. Obiettivi slow: – utilizzare “il rallentamento” attraverso la comunicazione professionale per aiutare il paziente a gestire una crisi iperventilatoria, – utilizzare “la normalizzazione” come rassicurazione e incentivazione all’autogestione di crisi iperventilatoria, 12Vernero 110:Layout 1 26-04-2012 10:18 Pagina 115 Sae l ute Slow medicine Territorio 115 N. 191 - 2012 – lavorare alla self efficacy (deutoapprendimento) dell’utente. Aspetti fast da superare: – i ritmi mediamente presenti in un Pronto Soccorso rendono difficile trovare uno spazio, prima di tutto mentale, per ricavare un “tempo buono abbastanza” da poter parlare ed ascoltare la persona, – evitare etichettamento “psico” della persona, – evitare inappropriato accesso ripetuto in Pronto Soccorso. Parole chiave slow: – attenzione alla storia dell’altro, – ascolto efficace anche in tempo a disposizione ridotto, – attenzione e coinvolgimento dell’eventuale accompagnatore, – parole che curano e non solo effetto placebo, – sobrietà: • tenuta sotto controllo dell’utilizzo delle risorse a disposizione, • tenuta sotto controllo da parte dell’operatore delle proprie cornici e proprie emozioni. 9. Diario di viaggio per famiglie e bambini/adolescenti che si apprestano ad affrontare l’insufficienza renale cronica [Maurizio Gaido] Descrizione Diario di viaggio per famiglie e bambini/adolescenti che si apprestano ad affrontare l’insufficienza renale cronica: strumento informativo dinamico e personalizzato per la famiglia e il bambino/ragazzo, partendo dalle necessità espresse dai bambini/ragazzi e dalle loro famiglie. Coinvolti Infermieri di SC Nefrologia, dialisi e trapianto del Presidio ospedaliero infantile Regina Margherita di Torino; bambini/adolescenti e le loro famiglie. Obiettivi slow: – mettere al centro la famiglia con il bambino/ragazzo (person focused care), – aumentare la consapevolezza sugli effetti della malattia cronica nella quotidianità, – incrementare il coinvolgimento attivo della famiglia e del bambino nella gestione del percorso diagnostico e terapeutico, – facilitare l’inserimento della malattia cronica nel proprio progetto di vita, – fornire supporto all’autocura: aiutare i ragazzi e le loro famiglie ad acquisire abilità e fiducia nella gestione della malattia, procurando gli strumenti necessari e valutando regolarmente i risultati e i problemi. – l’informazione finalizzata al consenso. Quali aspetti fast si propone di superare: – la cura centrata sulla malattia (disease focused care), – la dipendenza dal Centro, – la sopravvivenza passiva, Parole chiave slow: cura centrata sul paziente e sulla famiglia, ascolto, coinvolgimento, condivisione, consapevolezza, autodeterminazione, resilienza. Fig. 3 Fig. 4 13Masera 116:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 116 Giuliana Masera Infermiera - Docente di Discipline demoetnoantropologiche, Università degli Studi di Parma [email protected] N ella professione infermieristica il prendersi cura ha sempre rivestito un ruolo importante. Molte infermiere ritengono che la cura sia centro e fondamento della loro professione (Watson, Leininger, Benner) la considerano come l’essenza o come la sostanza ontologica della professione, come il suo ideale morale, il modo d’essere umano e il valore che sta a fondamento. Su di essa va costruita ogni teoria della professione d’infermiera. Sin dall’origine della mitologia e nell’antichità, la cura aveva almeno due diversi sistemi di connotazione: – da una parte veniva intesa come preoccupazione, difficoltà, ansia, – dall’altra come un “dare all’altro” o “fare per l’altro”. Oggi la cura ha connotazioni non solo di preoccupazione, compassione, ansietà e fardello, ma anche elementi che segnalano l’inclinazione, l’affetto, l’impegno dei confronti di una persona (advocay) di un ideale o di una causa, la risposta sensibile alla situazione dell’altro (Benner, Watson). Esistono quindi due sensi fondamentali in cui la cura è agita dall’infermiere: – il primo implica una risposta emotiva, cioè preoccupazione per l’altro, enfasi 10:25 Pagina 116 Slow medicine N. 191 - 2012 Parole per una cura slow sulla relazione e sul legame, e capacità di risposta ai bisogni di colui di cui ci si prende cura, – il secondo mette al centro l’occuparsi dell’altro o il provvedere ai suoi bisogni. La cura intesa nel primo senso non si occupa di compiti o processi, ma è un modo d’essere, una virtù, un atteggiamento verso l’oggetto delle proprie attenzioni; è in sostanza il come e non il cosa della cura ed una cura slow non può che investire su questa modalità di azione. La crisi della Medicina e delle Scienze infermieristiche, in questo nuovo millennio, secondo il pensiero di Jean Watson, teorica dell’Infermieristica americana, sembra avere radici nella mancanza di filosofia adeguata alla natura della professione: è necessario, per l’autrice, scavare per ricercare il mondo interiore, esplorare l’umanità, scoprire la vera causa della crisi di identità che la professione sta attraversando in questo periodo della storia. L’Infermieristica è cresciuta molto in competenze tecnologiche e quindi ci si trova ora di fronte alla necessità di ripristinare le competenze ontologiche che non si sono approfondite con la stessa intensità. Queste ultime infatti Le qualità essenziali per cercare una vera relazione di cura insieme al personale infermieristico non solo sono essenziali per la maturità degli infermieri, ma addirittura fondamentali per una professione di aiuto. È dentro i profondi luoghi e silenzi dell’anima, per l’autrice americana, che è possibile ritrovare le proprie radici, le proprie tradizioni filosofiche. gli ideali che ispirano e che hanno ispirato la professione. È possibile diventare nuovamente veri strumenti di cura, tornando ai fondamenti etici che valorizzano il servizio all’umanità. Ripensare quindi le possibilità espressive relazionali come momenti di cura fondamentali con l’assistito e la sua famiglia o i suoi care giver costituisce un punto di partenza imprescindibile che apre al confronto ed allarga lo sguardo sui cambiamenti avvenuti e quelli in divenire all’interno della professione e nel rapporto con altri professionisti. Il tempo La lievitazione del potere dell’uomo sulla malattia in virtù del grandioso sviluppo della Medicina e contemporanea- mente la lievitazione del potere della malattia sull’uomo costituiscono due condizioni, secondo Angelini, caratterizzanti la condizione di malattia oggi. Lo sviluppo macroscopico delle risorse cliniche, del sapere scientifico, provoca una dipendenza crescente del malato dall’apparato sanitario, e l’esperienza personale ne rimane mortificata, il paziente si affida all’apparato tecnico e perde di vista il tempo della malattia dell’infermità, come un tempo che lo costringe a rivedere pensieri, progetti, modi di sentire e di vivere i rapporti sociali. Alcune malattie sono dovute ad agenti esterni: una frattura, un’infezione, un trauma, che si risolvono con relativa facilità e rapidità, in questi ultimi anni attraverso l’utilizzo dei farmaci, alcune malattie si cronicizzano, e la cronicizzazione rende meno sicura la distinzione tra tempo della salute e tempo della malattia. La vita non è per sempre e ha bisogno di essere vissuta con la consapevolezza che non si può fermarla all’infinito. 13Masera 116:Layout 1 26-04-2012 10:25 Pagina 117 Sae l ute Slow medicine Territorio 117 N. 191 - 2012 Chi si trova a vivere una condizione di malattia ha bisogno di dialogo, immagini, modelli, opportunità di confronto, “di risorse simboliche”, che nella società contemporanea sono diventate sempre più improbabili e rare e tentare di portare alla luce la complessità e la densità antropologica del vissuto di malattia costituisce un’occasione di riflessione importante che un approccio slow può contribuire a portare. Il silenzio Il silenzio è espressione di emozioni, conoscenze, pratiche riflessive a sostegno della cura, ed il curato ha tutto il diritto di rivendicare momenti di solitudine: una dimensione in cui egli possa sperimentare l’opportunità di ripensare la propria condizione e il proprio modo di essere malati. La malattia, e più in generale la cura per la sempre incerta salute, assume oggi mediamente nella vita di ogni persona un rilievo crescente. Pare riservato proprio alla malattia il compito di riproporre la “grande questione” che da sempre l’uomo è per sé stesso così come Agostino nelle Confessioni sentenzia “factus eram ipse mihi magna quaestio” (Confessiones, 1. IV 4.9). Di essere una grande questione l’uomo e la donna contemporanei paiono scoprirlo solo in occasione della malattia. Il silenzio e la solitudine (il saper stare da soli) favoriscono l’assunzione del senso di continuità del proprio sé anche in condizioni di dolore e di sofferenza consentendo una presa di contatto con la propria interiorità. Il diritto alla solitudine è complementare, e per nulla dissonante, rispetto alla capacità di instaurare relazioni significative. L’ascolto L’ascolto è un processo complesso che richiede intenzionalità e disponibilità, conoscenza di sé e della propria visione del mondo, e capacità di riconoscersi reciprocamente in una relazione senza confondersi o sovrapporsi. Resistere alle distrazioni è probabilmente l’abilità più importante nell’ascoltare perché ci saranno sempre tante cose che avvengono intorno a noi e non facilitano il compito di ascoltare. Un primo passo verso la comprensione dell’altro, suggerisce Marianella Sclavi, antropologa, consiste nel saper decifrare i propri pensieri e i propri sentimenti, nell’esser fedeli a sé stessi e nel saper esattamente quel che vogliamo esprimere. L’ascolto autentico implica il passaggio da un atteggiamento del tipo “giusto/sbagliato”, ad un altro in cui si assume che l’interlocutore è intelligente e che dunque bisogna mettersi nelle condizioni di capire com’è che comportamenti ed azioni che ci sembrano irragionevoli, per lui sono totalmente ragionevoli e razionali. “Un buon ascoltatore”, ricorda sempre la Sclavi nel suo libro Arte di ascoltare e mondi possibili, “è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui sono quelli che si presentano alla coscienza come al tempo stesso trascurabili e fastidiosi marginali e irritanti perché incongruenti con le proprie certezze”. Chi svolge un lavoro di cura ha bisogno di interrogarsi sulla forza dei sentimenti e delle emozioni, per risignificare il corpo non solo come portatore di una patologia, ma di un luogo in carne ed ossa dove emozioni sentimenti e pensieri si intrecciano continuamente. L’esserci Il coraggio di mettersi in gioco in prima persona nella formazione e nell’apprendimento legittima e consolida l’idea per cui il principale strumento di lavoro dei professionisti della cura è il proprio esserci, prima delle cose che si sanno o si fanno. Non si possono cercare al di fuori di noi stessi “procedure” per rendere più efficace la relazione di cura, è fondamentale scoprire dentro la propria esperienza le risorse di cui si ha bisogno e le modalità più consone. Si parte sempre da sé, non da qualcosa di estraneo e lontano, ma dall’ascolto di ciò che appartiene profondamente al soggetto e dall’intreccio della dimensione professionale e personale, che inevitabilmente si sovrappongono e si sostengono. Questa “operazione” è possibile soltanto se ci si pone al centro del processo di conoscenza. Gli operatori elaborano un sapere quando i gesti compiuti, le scelte fatte sulle storie ascoltate sono illuminate dal pensiero e dalla riflessione. Il rispetto Rispetto e riconoscimento costituiscono due atteggiamenti fondamentali per arrivare ad un percorso di reale e concreta accettazione dell’altro. Richard Sennet, sociologo americano, sostiene che l’amore di sé e la stima di sé nascono dalla fiducia nelle proprie capacità personali, dalla percezione quotidiana che si è rispettati per quello che si è e solo dal rispetto di sé può nascere il rispetto verso l’altro di cui accettiamo la diversità così come questi accetta la nostra. La società secondo Sennet ha tre modi per modellare un carattere portando l’individuo a meritare rispetto o a non ispirarne affatto. IL primo modo avviene attraverso la crescita personale in particolare sviluppando abilità e competenze, il secondo modo consiste nella cura di sé, il terzo modo di meritare rispetto è quello di darlo agli altri. Rispetto non è né timore né terrore, esso denota nel vero senso della parola (“respicere“, guardare) la capacità di vedere una persona com’è, di conoscerne la vera individualità. Rispetto significa desiderare che l’altra persona cresca e si sviluppi per quello che è. Il rispetto perciò esclude lo sfruttamento; voglio che la persona amata cresca e si sviluppi secondo i suoi desideri secondo i suoi mezzi e non allo scopo di servirmi (Fromm). Rispetto quindi come capacità di vedere una persona così com’è, di conoscerne la vera individualità. IL rispetto autentico orienta verso una conoscenza realizzata attraverso l’esperienza e l’intelligenza di ciascuno. Ed ognuno a seconda delle proprie capacità, può sperimentare nei contesti in cui vive un rispetto che sia 13Masera 116:Layout 1 26-04-2012 10:25 Pagina 118 Sae l ute Territorio Slow medicine prima di tutto attenzione ai bisogni fondamentali dell’altro. Per coloro che si occupano di professioni legate alla cura il rispetto può tradursi in capacità di accoglienza e sospensione del giudizio al fine di conoscere meglio la persona nella situazione che si va delineando. In ambito sanitario per esempio conoscere meglio la persona in un determinato contesto è fondamentale a fine terapeutico perché consente di capire la vera natura del problema. Strettamente collegato al tema del rispetto vi è quello del riconoscimento. Per riprendere le parole di Charles Taylor: “un riconoscimento adeguato non è soltanto una cortesia che dobbiamo ai nostri simili, è un bisogno umano vitale”. Il non riconoscimento o misconoscimento può danneggiare, può essere una forma di oppressione che imprigiona una persona in un modo di vivere falso, distorto e impoverito. La scoperta Emozioni e sentimenti rivestono un ruolo fondamentale nel vivere una relazione di aiuto autentica, ci fanno conoscere cosa ci sia nel cuore e nell’immaginazione degli altri-da-noi. Le emozioni sono tante, ma l’elemento comune a ciascuna di esse è il fatto che ci portano fuori dai confini del nostro io e ci mettono in contatto con il mondo delle cose e delle persone portandoci a scoprire anche nelle piccole cose dettagli a volte impercettibili ma importanti nel percorso di cura. Non esiste relazione che non sia mediata dal linguaggio anche corporeo delle emozioni: dalla possibilità di guardarsi in volto e di scambiarsi una stretta di mano, a quella di sorridere e di accompagnare la parola con un gesto che ne dilati i significati. La conoscenza emozionale (conoscenza intuitiva) non è la conoscenza discorsiva (co- 118 N. 191 - 2012 noscenza razionale); le ragioni del cuore pascaliane non sono le ragioni della raison calcolante e il sapere dei sentimenti non è da porre in contrasto con il sapere della ragione. Le emozioni costituiscono modalità comunicativa importante, ci consentono di vedere e scoprire attraverso il loro linguaggio sfumature e tonalità altrimenti non dicibili (cfr. il linguaggio del pudore e della vergogna). La speranza Infondere speranza in situazioni di sofferenza, disagio, inadeguatezza e dipendenza costituisce per le professioni di cura una disposizione fondamentale del proprio riflettere ed agire. La forza terapeutica della speranza forse non è stata ancora misurata scientificamente, promuoverla però attraverso gesti intessuti di umanità, pazienza,e competenza aiuta i destinatari della cura a non sentirsi soli, abbandonati. La speranza costituisce la cifra della compagnia: ci sono e sono qui accanto a te, non devi avere paura. La speranza apre alla fiducia e alla prospettiva di un futuro; qualsiasi futuro la vita ci riservi. La speranza costituisce il respiro profondo della vita; sentimento capace di generare movimento, dinamicità, circolarità, sospingendoci verso ulteriori forme di esistenza. Per imparare a coltivare il desiderio di esserci è necessario poter respirare un clima impregnato di speranza. La speranza, per usare le parole di Luigina Mortari pedagogista italiana, come anche la fiducia, “non è cosa che si insegna, non si trasmette come si trasmette un sapere codificato, si aiuta l’altro ad aprirsi a questo sentimento quando lo si incarna, quando si testimonia concretamente il coraggio di sperare”. 14Giustetto 119:Layout 1 26-04-2012 10:26 Pagina 119 Sae l ute Slow medicine Territorio 119 N. 191 - 2012 Guido Giustetto Medico di famiglia Vice presidente Ordine medici chirurghi e odontoiatri della Provincia di Torino Q uesto intervento verte su come una delle declinazioni del concetto di cure giuste, e cioè l’accessibilità alle cure per i cittadini svantaggiati, fragili e per i non-cittadini sia presente nei documenti della deontologia e dell’etica medica (Codice deontologico, giuramento professionale e recente Carta europea di etica medica) e su come un Ordine professionale possa adoperarsi per rendere operativi tali principi. Nel Codice di deontologia medica del 2006 diversi articoli trattano il tema dell’uguaglianza degli uomini nell’accesso alle cure. L’art. 3, che definisce i doveri del medico, stabilisce che “dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana, senza distinzioni di età, di sesso, di etnia, di religione, di nazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace e in tempo di guerra, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera…”. È rilevante che in questa definizione si usino i termini uomo e persona e non cittadino, per sottolineare il fatto che il diritto alla salute e alla sua cu- Cure giuste per tutti ra c’è comunque per tutti, non è conseguenza dell’avere una residenza o essere membro di una comunità nazionale. L’art. 3 del Codice di deontologia è in qualche modo una specificazione dell’art. 32 della Costituzione: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti.” L’art. 32 offre molti strumenti per la difesa della salute dei più deboli a partire dall’uso dell’aggettivo “fondamentale”, che, nella Costituzione, compare solo a proposito del diritto alla salute, per sottolineare come questo sia posto a fondamento e sia prioritario rispetto ad altri. In un tempo di riduzione degli investimenti sociosanitari da parte dello Stato, questo aggettivo indica anche una gerarchia di priorità: per esempio in una teorica competizione tra diritto alla salute, all’istruzione o alla sicurezza, il primo dovrebbe essere quello a subire i minori disinvestimenti. Un secondo punto rilevante dell’art. 32 è la garanzia della gratuità delle cure per gli indigenti: in Italia la Caritas ha stimato che nel 2010 essi fossero 8.272.000 di cui 3.380.000 con necessità di assistenza alimentare. Ma Il Codice di deontologia medica l’indigenza cui fa riferimento questo articolo è anche quella relativa, quella cioè che riguarderebbe tutti noi se dovessimo pagare personalmente e direttamente, senza la copertura del Servizio sanitario nazionale, un intervento chirurgico complesso o una terapia cronica con farmaci biologici. L’art. 6 del Codice di deontologia medica tratta specificamente il tema dell’uguaglianza nelle opportunità di accesso: “Il medico agisce secondo il principio di efficacia delle cure nel rispetto dell’autonomia della persona tenendo conto dell’uso appropriato delle risorse. Il medico è tenuto a collaborare alla eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario, al fine di garantire a tutti i cittadini stesse opportunità di accesso, disponibilità, utilizzazione e qualità delle cure”. L’art. 32 richiama i doveri del medico nei confronti dei soggetti fragili: “Il medico deve impegnarsi a tutelare il minore, l’anziano e il disabile, in particolare quando ritenga che l’ambiente, familiare o extrafamiliare, nel quale vivono, non sia sufficientemente sollecito alla cura della loro salute, ovvero sia sede di maltrattamenti fisici o psichici, violenze o 14Giustetto 119:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 120 abusi sessuali, fatti salvi gli obblighi di segnalazione previsti dalla legge”. Un aggiornamento del Codice dovrebbe prevedere, a questo proposito, un esplicito riferimento agli stranieri immigrati. Infine, l’art. 51 definisce gli obblighi del medico nei confronti dei soggetti cui è stata limitata la libertà: “Il medico che assista un cittadino in condizioni limitative della libertà personale è tenuto al rispetto rigoroso dei diritti della persona, fermi restando gli obblighi connessi con le sue specifiche funzioni. In caso di trattamento sanitario obbligatorio il medico non deve richiedere o porre in essere misure coattive, salvo casi di effettiva necessità, nel rispetto della dignità della persona e nei limiti previsti dalla legge”. Al medico, nel caso dei carcerati, dovrebbe anche essere affidato un compito di tutela: in questi primi undici mesi del 2011 ci sono stati 59 suicidi nelle carceri e almeno 2 morti sospette di violenza da parte delle Forze dell’ordine. Il giuramento professionale Nel testo del giuramento che i medici compiono all’atto di iscrizione all’Ordine professionale, in almeno quattro punti sono richiamati i princìpi di uguaglianza, solidarietà, non discriminazione che compaiono nel Codice di deontologia medica. Il medico appena iscritto, infatti, giura: – “….di esercitare la Medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento rifuggendo da ogni indebito condizionamento; 10:26 Pagina 120 Slow medicine – di curare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno, prescindendo da etnia, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica e promuovendo l’eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario; – di attenermi nella mia attività ai principi etici della solidarietà umana contro i quali, nel rispetto della vita e della persona, non utilizzerò mai le mie conoscenze; – di prestare assistenza d’urgenza a chi ne abbisogni e di mettermi, in caso di pubblica calamità, a disposizione dell’autorità competente…”. È importante sottolineare il richiamo all’indebito condizionamento, che può essere inteso nelle sue varie componenti: dall’influenza dell’industria dei farmaci e degli apparecchi biomedicali, al conflitto di interesse, alle limitazioni poste dalle direttive delle istituzioni sanitarie. A questo proposito la Corte di Cassazione ha stabilito con la sentenza n° 1873/2010 che non è consentito farsi condizionare dalla logica economica e anteporla alla logica della tutela della salute. “… a nessuno è consentito di anteporre la logica economica alla logica della tutela della salute, né di diramare direttive che, nel rispetto della prima, pongano in secondo piano le esigenze dell’ammalato. Mentre il medico, che risponde anche ad un preciso compito deontologico, che ha in maniera più diretta e personale il dovere di anteporre la salute del malato a qualsia- N. 191 - 2012 si altra diversa esigenza e che si pone, rispetto a questo, in una chiara posizione di garanzia, non é tenuto al rispetto di quelle direttive, laddove esse siano in contrasto con le esigenze di cura del paziente e non può andare esente da colpa ove se ne lasci condizionare, rinunciando al proprio compito e degradando la propria professionalità e la propria missione a livello ragionieristico”. La Carta europea di Etica medica La Carta europea di Etica medica, adottata nel giugno scorso da 14 paesi del Consiglio europeo degli Ordini dei medici (CEOM), si compone di 16 principi. – Il Principio n° 1 stabilisce che il medico difende la salute fisica e psichica dell’uomo, dà sollievo dalle sofferenze nel rispetto della vita e della dignità della persona, senza alcun tipo di discriminazione, di qualunque natura essa sia, in tempo di pace come in tempo di guerra. – Il Principio n° 3 introduce un concetto nuovo, molto vicino a quelli della slow medicine, quello di cure essenziali: “il medico, senza discriminazione alcuna, fornisce al paziente le cure più essenziali ed appropriate”. Sarebbe interessante discutere se questo termine possa essere considerato un sinonimo di sobrio. Sulla base di questi principi etico-deontologici, che cosa fanno gli Ordini dei medici per garantire un giusto accesso alle cure? La Federazione nazionale degli Ordini dei medici (FNOMCeO) ha messo in pratica questi principi, per esempio, prendendo due ferme posizioni in favore dell’accesso alle cure degli stranieri immigrati, sia quando fu proposto nel 2009 che il medico dovesse denunciare i clandestini che si rivolgono alle strutture sanitarie, sia quando la politica dei respingimenti avrebbe impedito di accogliere molti migranti in fuga dai Paesi arabi in guerra civile (2011). “Qualora un medico dovesse andare incontro ad una sanzione per mancata segnalazione di un immigrato non in regola con il permesso di soggiorno, il Comitato centrale della FNOMCeO è pronto ad ogni azione di affiancamento e di sostegno al sanitario, sino ad arrivare all’autodenuncia”. La FNOMCeO nel maggio 2009 invitò i medici italiani ad appellarsi all’art. 22 del Codice di deontologia e ai principi del giuramento professionale, esprimendo una Clausola di scienza e coscienza, qualora la norma che introduceva il reato di immigrazione avesse previsto, contestualmente, l’obbligo di segnalazione del reato (art. 361-362 del Codice Penale). Ogni medico può esprimere una Clausola di scienza perché queste norme hanno un ritorno negativo sulla tutela della salute collettiva, rischiando di sottrarre patologie infettive e diffusive al controllo delle strutture sanitarie pubbliche. E può anche esprimere una Clausola di coscienza, in ragione del fatto che tale previsione normativa si cala nella 14Giustetto 119:Layout 1 26-04-2012 10:26 Pagina 121 Sae l ute Slow medicine Territorio 121 N. 191 - 2012 Relazione di cura, spogliando il medico di quella funzione di terzietà, accoglienza e solidarietà che, da sempre, e sino ad oggi, ha caratterizzato la matrice civile sociale ed etica della nostra professione. Nel marzo del 2011, durante le lotte della primavera araba, la FNOM e i Consigli nazionali dei medici francesi e spagnoli sollecitarono le rispettiva autorità ad intensificare gli interventi di assistenza ai migranti in fuga dalla guerra e a promuovere azioni umanitarie per le vittime di azioni violente nelle zone di conflitto. L’Ordine dei medici di Torino ha istituito una Commissione di solidarietà, cui partecipano esponenti di molte organizzazioni di volontariato. La Commissione ha suddiviso la sua attività in tre aree di lavoro: la cooperazione sanitaria e solidarietà internazionale, l’immigrazione, e l’uguaglianza nell’accesso alle cure (equity audit). Tra i molti temi di cui la Commissione si è occupata, ne segnalo a titolo esemplificativo tre. Lingua veicolare: molti stranieri regolarizzati non padroneggiano la lingua italiana e hanno difficoltà a comunicare con il medico di Medicina generale. Presso gli uffici delle diverse ASL dove può essere effettuata la scelta del medico, non è indicato se questi parli una lingua straniera e quale: la Commissione ha sollecitato la possibilità che la scelta del medico avvenga sapendo quale lingua straniera questi parla. Nel 2011 non è stato rinnovato, da parte dell’Assessorato alla Sanità della Regione Piemonte, il protocollo d’intesa con la Prefettura inerente l’esenzione ticket da parte dei rifugiati giunti in Italia in epoca antecedente al 1 gennaio 2011. Si è venuta pertanto a creare una disparità con quanti sono giunti in Italia a seguito della dichiarazione di emergenza umanitaria in Nord Africa dell’aprile 2011 che ne hanno invece diritto. Negare o ritardare la conoscenza di un referto, a causa del mancato pagamento del ticket, potrebbe essere penalmente perseguibile se dalla mancata conoscenza del risultato dipendesse un ritardo o una minore efficacia dell’intervento medico. La Commissione ha evidenziato alla Regione questo grave lesione del diritto alle cure. Nell’ambito dei rapporti di collaborazione didatticoscientifica integrata tra Università italiane ed Università di Paesi stranieri, la formazione specialistica può svolgersi anche in strutture sanitarie accreditabili o già accreditate in Paesi in via di sviluppo (PVS): il periodo trascorso all’estero può essere riconosciuto come parte del percorso formativo. La Commissione, ritenendo molto interessante e formativa tale opportunità connotata da una forte essenzialità del rapporto di cura e da un importante coinvolgimento umano, ha organizzato un convegno per sensibilizzare le Scuole di specialità ad intraprendere in maniera più ampia questa strada. 15Petrini 122:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 122 Carlo Petrini Fondatore di Slow Food Q uando la nostra esperienza di slow food iniziò gli elementi sostanzialmente erano tre: il piacere giusto non è antagonista alla salute, tanto che il sottotitolo del gruppo era “movimento internazionale per la tutela e il diritto al piacere”. Poi una rivalutazione antagonista a fast food, il recupero del valore della lentezza,che noi intendiamo un po’ come una medicina omeopatica. Abbiamo scelto il simbolo della lumaca dandogli il valore del governo del limite. La lumaca, infatti, costruisce la sua casa in maniera concentrica, poi rafforza quel guscio esile. Definire insostenibile il nostro sistema alimentare è poco, la vera definizione sarebbe criminale.È iperproduttivistico per cui la Fao ci dice che produciamo cibo per 12 miliardi di viventi, siamo 7 miliardi, 1 miliardo soffre di malnutrizione, un miliardo e 700 milioni di patologie causate da ipernutrizione. Anche nel settore sanitario c’è uno spreco, una mercificazione, e tornare a mettere al primo posto una visione non settoriale, non riduzionistica, un rapporto umano più forte, è la base di un nuovo paradigma. L’interazione della componente gastronomica 10:28 Pagina 122 Slow medicine N. 191 - 2012 Il riferimento di Slow Food con la Medicina è sempre stata forte. Nell’ultimo secolo i medici interagiscono molto con la gastronomia perché quando parliamo di stile di vita, di modo di alimentarci parliamo della salute delle persone. Negli USA Obama si batte per l’adozione di una Medicina democratica, anche se questo distruggerebbe il sistema alimentare americano basato sui surgelati, il microonde ed il televisore davanti al quale si mangia. Fortunatamente negli USA stiamo assistendo ad un cambiamento radicale dei comportamenti individuali e ad un nuovo orientamento della Medicina che è più sensibile a una visione olistica. La mercificazione del cibo è sostenuta da investimenti pubblicitari enormi che precedono quelli sui farmaci. Ecco come si crea una cultura, un consumatore passivo. C’è bisogno, in Medicina,di pazienti meno succubi: devono collaborare direttamente alla loro salute personale e pubblica altrimenti non possiamo rivendicare questo totem della Medicina che ci deve risolvere tutto. Nel rapporto tra cibo e Medicina la grande famiglia delle multinazionali produce farmaci e i prodotti transgenici per l’agricoltura. Non abbia- I punti in comune tra una nuova cultura del cibo e un modo diverso di praticare la Medicina mo ancora la coscienza di quale disastro può generare negli ecosistemi, quello che si viene a generare nel contesto agricolo attraverso piante geneticamente modificate. La proprietà delle sementi è nelle mani di cinque multinazionali che producono anche medicinali, danneggiando l’ambiente con la complicità di alcune Fondazioni mediche,che sostengono la non nocività del cibo transgenico. La vera malattia è questo sistema, questa logica perversa. Medicina slow avrà una grande successo internazionale, ma non strutturatevi troppo, state leggeri, fate funzionare la rete, gli scambi, la comunicazione, perché le strutture che poi si burocratizzano uccidono l’anima. “Terra madre” è una rete presente in 173 Paesi del mondo, 250 Università. Quando ci chiedono come abbiamo fatto a mettere in piedi questo gigante, rispondiamo che due cose sono importantissime: la prima è l’intelligenza affettiva mentre siamo pieni di intelligenza razionale; la seconda, che deve essere applicata nella costruzione di slow medicine, riguarda il principio di un’austera anarchia. Viviamo in un mondo complesso, la complessità va affrontata anche veleggiando in queste situazioni e non c’è dubbio che laddove l’austera anarchia dimostrerà di non avere capacità di fare rete, entrerà l’intelligenza affettiva che ci consoliderà, questo è l’elemento forte di un movimento, che non deve diventare né un partito né un sindacato. Deve esprimere un punto di incontro a livello mondiale utilizzando anche le nuove tecnologie, valorizzando le esperienze positive, esercitare la critica e l’autocritica, questa è la dimensione nuova della politica che molti non capiscono e pensano ancora che strutturandosi in maniera classica possano risolvere il problema del cambiamento delle risorse. Le cose molte volte cambiano da sole, ha ragione Garmorin quando afferma: questo accade, ad esempio, nel caso di una comunità che va in giro per il mondo e pratica già le 15Petrini 122:Layout 1 26-04-2012 10:28 Pagina 123 Sae l ute Slow medicine Territorio 123 N. 191 - 2012 buone scelte, particolarmente importanti come i mercati contadini che fanno slow medicine. Non c’è ancora la capacità di incidere sulla politica, ma gli slow dovranno per forza arrivare ed il terreno su cui si vince è quello locale, agricoltura locale, economia locale, sanità locale, Questo non significa essere tagliati fuori dal mondo ma realizzare la demo- crazia partecipativa anche dei pazienti, dobbiamo lavorare nel loro contesto, non all’esterno perché il metodo locale è determinante per rafforzare la democrazia partecipativa, se non hai la capacità di coinvolgere le persone a livello locale hai sbagliato tutto. È il livello locale che farà ricostruire il tessuto e le idee, la loro forza. 16Marcera 124:Layout 1 26-04-2012 Sae l ute Territorio 124 Maurizio Marceca1,2,3 Maria Laura Russo1,2,4 10:31 Pagina 124 Slow medicine N. 191 - 2012 Il paziente straniero 1 Società italiana di Medicina delle migrazioni 2 Sapienza Università di Roma Dipartimento di Sanità pubblica e Malattie infettive 3 Medico, specialista in Epidemiologia e Sanità pubblica 4 Sociologa N egli ultimi vent’anni, il fenomeno crescente della migrazione nel nostro Paese di persone provenienti da tutte le aree del mondo ha rappresentato, per chi opera nei servizi sanitari e nella relazione di cura, una formidabile occasione di riflessione1. Questo rimescolarsi della geografia umana, tra l’altro, propone ed invita ad assumere uno sguardo, una modalità di lettura, che sia in grado di comprendere e recepire la complessità, allontanandosi dalle interpretazioni meccanicistiche e lineari. Come l’intreccio è molto più dei fili che lo compongono, così l’analisi dei fenomeni non può essere ricondotta ad un’unica causa; alla pari, la presenza di persone provenienti da altri luoghi compone un mosaico il cui senso non è riconducibile ai singoli tasselli che lo formano: lingue, tradizioni, culture, religioni… Ancor di più, un unico elemento, come il luogo dove si è nati o la cittadinanza dei propri genitori – che oggi in Italia sostengono quel processo di differen- ziazione che crea soggetti differenti come “immigrati” e “cittadini” – non può dirigere e influenzare completamente la lettura e l’esperienza delle dinamiche relazionali in cui siamo immersi. Nell’ambito dei sistemi di cura, e in particolare nella relazione di cura, queste prospettive hanno innervato diverse riflessioni, nel tentativo di aggiungere elementi alla talvolta semplicistica lettura dell’incontro con il migrante, ridotto ad un binomio diversità/uguaglianza. Le difficoltà percepite, reali o ingrandite che siano, nella relazione con l’“alterità”, si incarnano nell’esperienza quotidiana in elementi che vanno dalle questioni legate alle differenze linguistiche a quelle vissute come riferibili al retroterra valoriale e culturale. Troppo spesso si è invocata o utilizzata la mediazione linguistico-culturale come unica (e sufficiente) risposta del sistema salute per poter incontrare e “soddisfare” pazienti con una storia migratoria alle spalle. Viceversa, riteniamo si tratti oggi di rifor- Il rapporto di cura con persone di etnie diverse come occasione di arricchimento personale e professionale mulare e rimodulare un approccio alla “salute” che consenta, garantisca e realizzi una sistema di cura realmente inclusivo, capace di interagire con le diversità a molteplici livelli. Lasciando da parte le pur rilevanti implicazioni ed analisi di carattere organizzativo-gestionale, si sceglie qui di rileggere la “sfida” delle alterità nella salute e nell’assistenza adottando la chiave di lettura del “rispetto”, cioè di una dimensione maggiormente radicata in quei valori etico-giuridici, a partire da quello della dignità della persona senza distinzioni e discriminazioni di sorta, fortemente affermati dalla nostra Costituzione. Ciò nel tentativo di “rovesciare” – pur incorporandola – quella impostazione che vede, nell’incontro con l’altro, solo un problema di “governo della diversità”. Non è raro, benché il più delle volte viene negato o rigettato, rintracciare in ambito sanitario atteggiamenti e approcci che appaiono sostanzialmente polarizzati, che oscillano, cioè, tra posizioni che negano qualsiasi diversità e che, quindi, tendono a “con-fondere” i soggetti, e posizioni che tendono invece a vedere nelle differenze – quelle più apparenti e magari mediaticamente enfatizzate – delle diversità talmente lontane e incommensurabili da considerarle come inesplorabili estraneità. Nel Box 1 abbiamo elencato – senza pretese di esaustività – alcune delle caratteristiche (attitudini e pratiche), che ci appaiono come sostegni per un approccio a una cura, a una Medicina che possa, a nostro parare, essere riconosciuta e vissuta come “rispettosa”. Si tratta di elementi non nuovi 1 Di particolare interesse è il patrimonio di esperienze sia di natura istituzionale che non istituzionale, che hanno trovato un luogo di espressione e confronto all’interno della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM), società scientifica fondata nel 1990 e caratterizzata da una multiprofessionalità degli aderenti e da una multidisciplinarietà dell’approccio (cfr. www.simmweb.it). 16Marcera 124:Layout 1 26-04-2012 10:31 Pagina 125 Sae l ute Slow medicine Territorio 125 N. 191 - 2012 nella tradizione medica che, forse, vanno in un certo qual modo riscoperti, acquisiti nuovamente o semplicemente potenziati attraverso un percorso di consapevolezza e interiorizzazione. D’altronde, nel novembre 2007, la Federazione nazionale dei medici chirurghi e degli odontoiatri (FNOMCeO) ha approvato il Manifesto sul multiculturalismo in Medicina e Sanità, che si apre con queste parole: “[la FNOMCeO …] considera il multiculturalismo e la molteplicità etnica proprie della società contemporanea quali uno stimolo e una sfida che i medici debbono affrontare nello spirito etico della tradizione ippocratica e nel rispetto dei valori di uguaglianza e universalità della nostra Costituzione”. Con uno sguardo attento all’elenco che proponiamo si può scorgere, in controluce, un filo rosso che unisce i diversi punti, nel comune riferimento al rispetto della dignità della persona – richiamando molti elementi di un approccio patient-centered – ed una lettura della salute intesa come un complessivo stato di “ben-essere”, composto da molteplici fattori ed espresso in una pluralità di manifestazioni. Gli inviti e i suggerimenti si muovono, quindi, all’interno di un alveo non nuovo, ma accompagnati dal tentativo di ri-costruire una prospettiva ed uno sguardo allargato ed arricchito dall’interconnessione di diverse discipline ed esperienze. Inoltre, come si può notare, le caratteristiche presentate possono essere riconosciute valide in maniera indipendente dal “tipo” di persona, paziente, o, dal punto di vista dei servizi, utente. Alcune di loro acquisiscono però una particolare rilevanza quando riferite alla esperienza di cura con persone con un retroterra migratorio. Non sono, infatti, le variabili di etnìa o cultura – che non delimitano categorie consolidate, né tantomeno epidemiologiche – ma l’aver sperimentato una storia di migrazione a porre le persone straniere in una posizione di potenziale vulnerabilità. Infatti, l’attenzione a “ricondurre ad un contesto” – n. 5) del Box 1 – invita a ricercare uno spazio che possa accogliere elementi che vadano oltre le semplici evidenze, ampliando ed approfondendo l’approccio anamnestico con strumenti e attenzioni in grado di cogliere, per esempio, le tracce importanti della storia migratoria del paziente, la forza ed anche la percezione del successo o insuccesso del proprio progetto migratorio. Si tratta, infatti, di riconoscere e “legittimare” alcuni fattori che possono essere elementi di cornice importanti o addirittura decisivi che influenzano in modo diverso l’arco dei determinanti sociali della salute in cui tutti noi siamo inseriti e, soprat- tutto, legati alla unicità di quell’individuo. Questo approccio può, ad esempio, attribuire il giusto peso sulla produzione di cefalalgia, insonnia e sofferenza muscolare allo “strappo” dei legami sociali e familiari – con relativi sensi di colpa legati in particolare all’abbandono dei figli – che caratterizzano la storia di una donna venuta a fare la “badante” in Italia… Proprio per questo, nello spazio della relazione di cura, una particolare premura va posta in quello che abbiamo riassunto come invito a “distinguere” – n. 12) – cercando, cioè, di riconoscere il ruolo e la forza dei nostri stereotipi e pregiudizi all’interno delle dinamiche che viviamo, riconoscendo la soggettività di coloro che incontriamo. La relazione con un paziente migrante spesso è viziata, come abbiamo accennato, da un’incapacità di vivere “equilibratamente” le differenze, talvolta meccanicamente si è portati ad impostare delle relazioni isomorfiche 2 tra etnia, lingua e cultura. Ciò che chiamiamo “cultura” viene usualmente caricata di un peso eccessivo e di una sovrabbondanza di significato, come se le differenze che contraddistinguono tutti noi si cristallizzassero e si ponessero come un elemento biologico, predeterminato: c’è un eccesso d’attenzione verso le differenze culturali, le diversità, l’identità, che non è un sino- nimo d’attenzione alle differenze. Infatti, sia chi vede nella cultura una ricchezza che chi la teme, nega a essa quella fluidità e quella complessità che la rendono speciale: “Ad incontrarsi o a scontrarsi non sono culture, ma persone. Se pensate come un dato assoluto, le culture divengono un recinto invalicabile… Ogni identità è fatta di memoria e oblio. Più che nel passato, va cercata nel suo costante divenire” (M. Aime, 2004, p. 81). Una Medicina, in questo senso, rispettosa, dovrebbe allora dare la possibilità a ciascuno degli attori della relazione di cura di esprimersi apertamente, nella consapevolezza che le identità e, soprattutto, ciò che possiamo chiamare appartenenze siano frutto di un processo, del percorso di vita di ciascun individuo. Il tentativo dovrebbe essere, allora, quello di costruire un punto di incontro che assomigli ad una soglia più che ad un confine, dove ognuno abbia la possibilità di “giocarsi” la propria identità senza attribuzioni predefinite. Ecco quindi che affermazioni molto condivise quali: “i cinesi sono una comunità chiusa, che non vuole utilizzare i servizi” o “le romene utilizzano l’IVG come contraccettivo”, o ancora, “le donne islamiche sono suddite dei loro mariti”, mostrano tutti i loro limiti e la loro pericolosità. Il saper “mediare/negoziare” 2 Tale termine viene utilizzato per descrivere quando “due strutture complesse possono essere mappate una nell’altra, in modo che per ogni parte di una struttura c’è una parte corrispondente nell’altra struttura, dove corrispondente significa che le due parti giocano ruoli simili nelle loro rispettive strutture” (Douglas Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: Un’Eterna Ghirlanda Brillante, Adelphi, Milano 1984, p. 49). 16Marcera 124:Layout 1 26-04-2012 10:31 Pagina 126 Sae l ute Territorio Slow medicine – n. 19) – richiama un altro fattore importante rispetto a queste dinamiche: il saper dare il giusto peso al fatto che l’alleanza terapeutica, e quindi la conquista della fiducia del paziente, richiede a volte di trovare un giusto compromesso. La base di questa relazione di fiducia è legata alla capacità, quindi, di (ri)conoscere i propri limiti – n. 8) – di mettersi in gioco e, soprattutto, di abbandonare i ruoli e le posizioni asimmetriche tra il professionista della salute ed il paziente. Ad esempio, se la presenza di un familiare (marito o fratello o altro) rappresenta un elemento invalicabile di legittimazione, per una donna, dell’essere visitati da un medico (in particolare se uomo), si può forse rinunciare al principio, di per sé legittimo e condivisibile, che il setting assistenziale è riservato al curante e al paziente, e ciò sia per riconoscere l’autenticità della sua richiesta sia per garantirle quella serenità che è alla base di un affidamento fiduciale. Un approccio, quindi, 126 N. 191 - 2012 che sia ancorato all’empatia, quella capacità di mettersi accanto e nei panni di, che nella pratica medica acquisisce un valore forte richiedendo al professionista lo sforzo di cercare di capire ed eventualmente condividere le reazioni emozionali del paziente alla malattia. Proseguendo su questa linea ci si ritrova, quasi naturalmente, all’invito a “non giudicare” – n. 20) – a dare cioè il giusto peso alla forza schiacciante del giudizio e alla forza liberante di una Fig. 1 astensione dal giudizio di valore. Il richiamo è all’epoché, composto delle parole greche epi (“su”) e échein (“tenere”); ovvero “tenere sopra”, “trattenere”, termine che tratteggia l’astensione del giudizio sulle cose, il mettere tra parentesi, permettendo la conoscenza ed una esperienza senza, appunto, alcuna visione preconcetta. Ad esempio, di fronte alla percezione di un utilizzo strumentale di un servizio sanitario (tipicamente il Pronto Soccorso) da parte di pazienti stranieri, 16Marcera 124:Layout 1 26-04-2012 10:31 Pagina 127 Sae l ute Slow medicine Territorio 127 N. 191 - 2012 sarebbe utile chiedersi quali siano, concretamente, le alternative praticabili per quella persona (se, per caso, non ha un medico di base o non è in grado di allontanarsi dal lavoro durante le ore diurne). …ancora una volta, siamo consapevoli che le stesse dinamiche possono riguardare alcune tipologie/gruppi di italiani. Il nostro approccio vuole intrecciare, quindi, la sospensione del giudizio alla capa- cità di essere empatici, conferendo valore ad un legame che riporta nuovamente al centro il rispetto e la dignità verso ogni essere umano, chiedendo al professionista della salute di valorizzare anche il “quotidiano” e i plurimi, diversificati mondi vitali dei pazienti. Se, quindi, deve esserci un percorso che sostenga la riflessione, l’acquisizione e il potenziamento delle suggestioni incorniciate nel Box 1 da parte dei professionisti della salute, questo chiama in causa immediatamente il ruolo della formazione, ed anche della formazione continua in Medicina (ECM). La formazione degli operatori può essere sicuramente uno strumento utile alla creazione di un clima e di un contesto di cura percepibile come “rispettoso”. Inoltre, l’acquisizione di una cultural competence appare come fondamento per la strutturazione di una relazione terapeutica efficace. La competenza culturale, in questo caso, viene intesa non solo come un insieme di saperi e abilità, ma anche come un’attitudine positiva del soggetto nel vivere le differenze e viene preso particolarmente in considerazione l’elemento processuale dell’apprendimento basato, soprattutto, sull’acquisizione di una consapevolezza critica. Il punto di partenza dovrebbe essere, infatti, il rico- Box 1. Slow attitudes and practices per una slow medicine… nell’ottica del “rispetto” Orientare consapevolmente l’impegno verso una Medicina che sappia: 1. Attendere (dare il giusto peso alla dimensione “temporale” della cura) 2. Ascoltare (dare il giusto peso alla dimensione della comunicazione nella cura) 3. Accogliere (dare il giusto peso alla dimensione protettiva della cura) 4. Mettere a proprio agio / intuire il possibile disagio (dare il giusto peso alla dimensione psicologica nella cura, attraverso la creazione di un clima favorevole) 5. Ricondurre ad un contesto (dare il giusto peso, ampliando l’approccio anamnestico, alla dimensione esistenziale / progetto migratorio – determinanti sociali della salute) 6. Spiegare (dare il giusto peso alla dimensione della chiarezza nella cura, anche attraverso la definizione dei propri obblighi, delle proprie competenze e dei propri limiti) 7. Orientare (dare il giusto peso alla dimensione “di sistema” della cura – l’ottica del percorso assistenziale) 8. (Ri)conoscere i propri limiti (dare il giusto peso alla relatività e limitatezza delle proprie categorie interpretative e della specificità della propria dimensione simbolica) 9. Lasciarsi indirizzare (dare il giusto peso al racconto del/della paziente come utile indirizzo interpretativo – approccio di Medicina “narrativa”) 10. Convincere di “avere a cuore” (dare il giusto peso a tutti quegli atti concreti e simbolici che configurano una reale “presa in carico”) 11. “Tener conto di”… (dare il giusto peso all’universo complesso dei riferimenti e delle esperienze che caratterizzano l’illness del paziente nel “qui ed ora”) 12. Distinguere (dare il giusto peso alla forza limitante dei propri stereotipi, non omologando i pazienti sulla base di categorie fittizie autodeterminate, ma percependone e rispettandone le differenze al di là di “facili” quanto superficiali approssimazioni) 13. “Riscoprire” (dare il giusto peso ad aspetti solo apparentemente secondari e spesso culturalmente “modulati”, come ad esempio il pudore o i diversi “codici di rispetto”, evitando i rischi di una Medicina “ammiccante”) 14. Proporsi/offrirsi per mandato, non per favore / carità / filantropia (dare il giusto peso alla dimensione del diritto alla salute, evitando di trasmettere un messaggio fuorviante di opzionalità/liberalità del proprio intervento) 15. Riconoscere le proprie insofferenze / giudizi / proiezioni (dare il giusto peso alla dimensione “proiettiva” del proprio giudizio e del proprio agire) 16. Equilibrare il “tecnico-professionale” con lo “psicologico-relazionale” (dare il giusto peso all’equilibrio e alla complementarietà tra “competenza” ed empatia) 17. Fare i conti con le molteplici e complesse dimensioni dell’identità (dare il giusto peso alla compresenza delle diverse identità e al non necessario prevalere di quella culturale…) 18. Creare spazi… (dare il giusto peso e rispetto alle distanze… fisiche, temporali, emotive, valoriali, rituali…) 19. Mediare / negoziare (dare il giusto peso al fatto che l’alleanza terapeutica, e quindi la conquista della fiducia del paziente, richiede a volte di trovare un giusto compromesso…) 20. Non giudicare (dare il giusto peso alla forza schiacciante del giudizio, e alla forza liberante, anche in termini di empowerment del paziente, di una astensione dal giudizio di valore…) 21. Gestire il ”potere” nell’interesse del paziente (dare il giusto peso all’utilizzo del proprio prestigio e credibilità in funzione di una attività di advocacy per chi è più vulnerabile) 16Marcera 124:Layout 1 26-04-2012 10:31 Pagina 128 Sae l ute Territorio Slow medicine noscimento e la messa in discussione della propria cultura e dei paradigmi a partire dai quali interpretiamo la realtà ed organizziamo la nostra professione (ancora una volta, il (ri)conoscere i propri limiti…). Focalizzare il processo formativo sul fornire informazioni ed elementi nozionistico-enciclopedici su quello che possono essere le “culture altre”, oltre che rendere queste – erroneamente – monolitiche, rischia di consolidare gli stereotipi e i pregiudizi già presenti. La questione, invece, da affrontare, è quella di modificare la qualità dell’esperienza relaziona- le, per esempio… riconducendo ad un contesto, distinguendo, mediando e sospendendo il giudizio…! Infine, ricordiamo come sia rilevante non limitare – malgrado la “rinuncia” consapevole da noi dichiarata all’inizio – la questione del “rispetto” ad una sola dimensione individuale, poiché, sia in una logica di presa in carico collettiva e di percorso assistenziale, che in quella della percezione dell’utente, la questione riguarda il modo di porsi, organizzarsi e “vivere” dei servizi; non a caso, è spesso sufficiente che un solo rappresentante dei servizi 128 N. 191 - 2012 adotti comportamenti, verbali o non verbali, ritenuti irrispettosi e offensivi, perché l’utente percepisca l’intero servizio come ostile. Non sfugga inoltre che laddove il contesto organizzativo-assistenziale è caratterizzato da dinamiche di relazione prevaricatorie e non simmetriche tra gli stessi operatori, questo viene percepito in modo pesante dai pazienti/utenti. Per accennare infine alle politiche, si sottolinea come l’Organizzazione mondiale della salute – regione Europa, ha recentemente richiamato l’importanza di definire e implementare le politiche per i migranti a partire dalla cornice concettuale dei determinanti sociali di salute e della loro interdipendenza (vedi Fig. 1). In ultima analisi, siamo convinti che una onesta riflessione critica sui modelli di cura attuali, a partire dalla “provocazione” portata dal paziente “migrante”, nelle sue diverse combinazioni e sfumature di alterità mutuamente percepita, possa realmente rappresentare una sfida per la qualità dei servizi di cui possono beneficiare anche gli utenti autoctoni ed una occasione per una Medicina più rispettosa di tutti. Bibliografia La Cecla F. (2003), Il malinteso. Antropologia dell‘ incontro, Laterza, Milano. Affronti M., Geraci S., Marceca M., Russo M.L. (a cura di) (2011), Salute per tutti: da immigrati a cittadini. 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