“Iulm Creative Happening” dal 2 al 4 Maggio: la satira in cattedra

Transcript

“Iulm Creative Happening” dal 2 al 4 Maggio: la satira in cattedra
E
3
-2
S . 22
W PAG
PAGINE 20-21
N
PAGINE 18-19
Unioni civili
A Milano si accende
il dibattito sul
registro promesso
da Pisapia entro
il 2012
LM
Perchè la borsa
italiana ha una
capitalizzazione
tra le più basse
d’Europa
IU
Piazza Affari
Aprile 2012
Anno IX
Numero II
labiulm.
campusmultimedia.net
Periodico del master in giornalismo dell’Università Iulm - Campus Multimedia In-formazione - Facoltà di Comunicazione, relazioni pubbliche e pubblicità
Bande
di
città
IN FUGA DAL CENTRO
Giovanni Puglisi
P
rima o poi doveva accadere:
la cultura del benessere ad
ogni costo, in un mondo nel
quale lo sfruttamento del meno sul
più è la regola, sarebbe entrata in
conflitto con la cultura dei diritti.
Accade in molte parti del mondo,
ogni giorno e forse ogni minuto,
accade in modo più o meno vistoso, secondo la natura dei diritti
violati e – ahimè!– la capacità di
reazione delle vittime, accade,
sempre più di sovente, senza
grande scandalo da parte di una
società abitualmente divisa tra i
distratti e i benpensanti, che, entrambi, de minimis non curant:
ogni giorno, ogni minuto una sofferenza, un delitto, un diritto negato o violato non vengono né
registrati, né perseguiti. La soddisfazione degli egoismi rasenta l’oscenità: tutto ormai si compra –
almeno così pensano i distratti e i
benpensanti – nulla sfugge alla logica del profitto a sconto di qualcuno o di qualcosa. Eppure
doveva accadere. L’indignazione
ha finito con l’avere voce e volto:
nella diversità delle lingue e dei
colori della pelle, essa ha assunto
un tono e un’immagine sempre
più forti e sempre più condivisi.
Aldilà dell’abuso che anche quest’espressione, così forte e così
ricca di valori etici, indignazione,
ha assunto nel nostro tempo
continua a pag.24
Furti in casa, gang di strada, scippi in aumento.
E intanto il carcere minorile si riempie
di ragazzi italiani che rubano per necessità.
Ma Milano non è Gotham City…
SERVIZI DA PAGINA 4 A PAGINA 17
“Iulm Creative Happening” dal 2 al 4 Maggio: la satira in cattedra
PAGINE 22-23
Crime
and the
city
Pagina 4
PRIMO PIANO
LAB Iulm
Quanto è
aumentata
la delinquenza
in città dal 2010?
Come opera
la polizia?
E quanto
si sentono sicuri
i milanesi?
Claudia Osmetti
“I
o sono pugliese, ma
vivo a Milano da
quando ero ragazzina.
Una situazione come quella
degli ultimi anni non l’avevo
mai vista”, Caterina ha lo
sguardo deluso, e probabilmente un po’ malinconico,
delle persone anziane che ricordano con nostalgia la loro
adolescenza, quando, seduta su
una panchina di parco Solari,
racconta come la vive lei questa città. “Una volta, saranno
stati gli anni Settanta, tornavo
in Puglia tutte le estati e mi
sorprendevo del degrado della
mia regione. Ovunque ti giravi
c’erano piccoli atti di criminalità, scippi, aggressioni, furti.
Io dicevo che quelle cose a Milano non succedevano, che Milano era una città sicura,
tranquilla, così lontana dal far
west pugliese… Beh, forse
adesso dovrei tornare a casa e
scusarmi con i miei compaesani, Milano in fondo non è
tanto diversa da Taranto”.
Il vigile travolto e ucciso da un
Suv guidato da un cittadino
serbo. L’inseguimento con la
polizia a Parco Lambro finito
in tragedia con la morte di un
giovane cileno. Le risse delle
gang sudamericane. I furti rimbalzati sui giornali perché non
hanno risparmiato nemmeno
personaggi famosi come Roberto Vecchioni. Probabilmente Caterina ha in mente
tutto questo quando racconta
perché la “sua” Milano non è
più quella di una volta. Perché
lei non si sente sicura, perché
la sera non esce più (a meno
che non la vengano a prendere
i figli), perché preferisce farsi
portare la spesa a casa piuttosto
che andare sola al supermercato.
È una tiepida mattina di inizio
primavera, la giacca comincia
a dar fastidio, Caterina se la toglie, ma non l’appoggia mai
sulla panchina: “Non giro più
con la borsa ho paura degli
scippi… La mia vicina ne ha
subito uno qualche settimana
fa. È uscita di casa, le hanno tagliato la borsa, sono scappati,
lei è caduta e si è anche fratturata un braccio”.
Ce l’ha un po’ anche con la polizia, Caterina. “Non ci sono
più vigili. Qualche anno fa ce
n’era uno ad ogni incrocio,
oggi se ti serve un poliziotto
devi aspettare ore. Girano in
macchina e non si fermano, a
meno che non ci sia già il
morto”. Si tratta, per la verità,
di un sentimento abbastanza
condiviso. In tanti, giovani e
meno giovani, lamentano la
VOX POPULI
scarsa presenza delle forze dell’ordine in città.
“La polizia è inesistente, la
sera girano poche pattuglie e
mai dove serve”, racconta
Sara, 23 anni, studentessa al
Politecnico. “La polizia…
Le critiche
più comuni:
poche pattuglie
per strada
e sempre
meno vigili
di quartiere
Mah!” le fa eco Sophia, una
madre di famiglia che porta il
figlioletto di due anni a passeggiare al parco, di mattina, “Se
hai bisogno che arrivi qualcuno devi pregare che una pattuglia di servizio sia già nei
paraggi…”. Anche Andrea, 32
anni, è critico: “Ci sono pochi
agenti in giro, probabilmente è
per quello che la gente esce
sempre meno, specie la sera”.
La sensazione per strada è questa, almeno da quando l’operazione “Strade Sicure” è partita
a livello nazionale dal 2008 (su
proposta dell’allora ministro
La Russa) e a livello cittadino
dal 2009. Con la nuova giunta
comunale l’esercito, che prima
affiancava poliziotti e carabinieri per le vie del centro, è
stato confluito essenzialmente
nelle periferie e a piazza
Duomo. C’è chi rivorrebbe i
militari sotto casa, ma i più non
sono d’accordo. “Quella dei
militari è una misura eccessiva,
alla fine è pur sempre Milano,
non Kabul!”, taglia corto Sophia prima di allontanarsi a
controllare che il bambino non
si sia fatto male sullo scivolo.
“In realtà io sono favorevole”,
ribatte Sara, “Dovrebbero ripristinarli anche in centro, non
solo a Piazza Duomo. Mi sentirei più sicura la sera, al-
meno”.
Il problema della sicurezza è
molto sentito. Anche Federico,
un netturbino che sta staccando
il turno e si prepara a tornare a
casa, dice la sua. Lui Milano
l’ha vissuta tante volte di notte,
a causa del suo lavoro, eppure
di incidenti gravi, aggressioni
o situazioni spiacevoli non ne
ha visti molti. “Comunque dipende dalle zone”, racconta,
“se mi trovo alle tre di notte a
Quarto Oggiaro, tutto solo, non
sono tranquillo… Ma a S.
Agostino mi sento sicuro. La
polizia fa quello che può, ed è
già tanto”.
Tre ragazzi stranieri dicono, un
po’ ridendo e un po’ seri, che a
Milano ci sono più ladri che turisti. Uno di loro, Baral, albanese, 24 anni e un tatuaggio a
forma di teschio sul gomito destro, lavora in una famosa discoteca del centro. “Ogni sera
succede qualcosa, non puoi
fermarti un attimo. Due setti-
LAB Iulm
PRIMO PIANO
Pagina 5
Mezzi obsoleti, compiti confusi
“Noi in strada a far numero”
L’INTERVISTA
LUCA, CAPORALMAGGIORE DELL’ESERCITO
Soldati di pattuglia, la divisa non basta...
Chiara Trombetta
D
mane fa mi hanno incendiato la
macchina... È per quello che
ho fatto il porto d’armi e mi
sono comprato una pistola.
Non giro armato per piacere,
ma se non l’avessi rischierei
grosso ogni giorno”.
Borseggi, furti
e rapine
in aumento.
Calano invece
gli omicidi
e i reati
maggiori
Baral, per la verità, è l’unico
che ammette candidamente di
possedere un arma da fuoco. A
parte qualche signora di mezza
età che assieme al rossetto
nella borsa tiene sempre uno
spray al peperoncino, i milanesi sembrano allergici alle
armi da difesa. “Assolutamente. Non ho mai pensato di
prenderne una e non la prenderò mai. Mi farebbe sentire
solo più vittima”, chiarisce Daniela, 37 anni, casalinga.
“Dove c’è una pistola c’è già
un morto”, le fa eco Ambrogio,
72 anni, pensionato dalle idee
ben chiare.
Insomma, la gente per strada
crede di vivere in una città
sempre meno sicura, con
troppi disonesti in giro e
troppo pochi poliziotti per le
strade. I dati della Questura
sembrano confermare questa
tendenza: nel 2011, rispetto all’anno precedente, sono stati
denunciati 4.419 reati in più. I
borseggi sono in aumento
(+18,75%), così come i furti in
abitazione (+14,41%) e le rapine commesse in strada
(+13,03%). Tuttavia i reati
maggiori sono in calo, anche
se la gente sembra non darci
troppo peso: nel 2011 a Milano
sono stati commessi solo 11
omicidi, 3 in meno rispetto al
2010, sono stati registrati 8
casi di associazione per delinquere (di cui uno solo di
stampo mafioso) e 13 per riciclaggio di denaro sporco.
La gente, al parco, spiega l’aumento degli scippi e dei reati
minori come uno dei tanti effetti collaterali della crisi economica. Si registrano più furti
perchè i più non arrivano alla
fine del mese. “Non sono razzista, ma è ovvio che a mettere
assieme più nazionalità il rischio è quello dello scontro”,
aggiunge Caterina, forse dimenticando che le diversità
c’erano anche quarant’anni fa,
quando lei veniva da Taranto e
credeva che Milano fosse sicura.
opo lunghe e accese discussioni, il sindaco di
Milano Giuliano Pisapia, ha deciso di eliminare
dalle strade del centro cittadino
i militari. Quello che però forse
non tutti sanno è che l’operazione “Strade sicure” non si è
interrotta: continua ancora
nelle periferie della città. Lo
scopo è quello di riqualificare
le zone più degradate dove la criminalità è quotidiana.
La domanda che ci
si pone è: serve
davvero l’esercito o
contribuisce solo a
far sembrare Milano come Beirut?
Luca (il nome è di
fantasia) ha 23
anni, è caporalmaggiore dell'esercito
ed è da poco arrivato a Milano come
volontario nell’operazione strade sicure.
L’immaginario comune
vuole il militare in una situazione che non si identifica
con quella cittadina. Ti capita mai di sentire i commenti dei passanti?
«A volte ci fermano per domandarci “Voi che ci fate qua?
qui non c’è bisogno dell’esercito non siamo in guerra!”».
La reazione della gente è di
paura?
«Paura forse è esagerato, diciamo che in molti non
comprendono l’intervento dell’esercito. Vedere un poliziotto
è normale, ma non appena si
accorgono che sei un militare
il loro volto cambia espressione. Sembra dire “perchè?”
Per l’immaginario collettivo
l’esercito va in guerra: “dovevate andare in Afghanistan non
venire qui”. Però capitano
anche alcune vecchiette che ci
ringraziano per quello che facciamo».
Come si svolge una vostra
giornata tipo?
«Il nostro compito è quello di
girare e perlustrare quelle zone
che da Milano arivano ai comuni della cintura milanese:
Abbiategrasso, Melegnano,
Corsico, San donato. Siamo in
4 su una camionetta: 3 militari
e un carabiniere a capo del
team. Il nostro è un lavoro di
supporto, non possiamo prendere alcun tipo di iniziativa,
ma dal momento in cui ci viene
dato l’ordine di intervenire
possiamo agire in totale autonomia».
Che tipi di situazioni vi trovate a fronteggiare?
«La criminalità a Milano è
davvero tanta ed eterogenea:
dall’ubriaco molesto che crea
disordini ai furti d’auto (usate
per il contrabbando di armi).
La cosa che mi ha fatto più impressione arrivando qui è il
quantitativo di droga che gira
per le strade. Ce n’è davvero
tanta: più di tutto cocaina».
La droga perciò è uno tra i
primi mali da sconfiggere
per la riqualificazione delle
aree periferiche della città?
«Sicuramente. È il principale
e il più difficile da smantellare.
La droga riesce a infilarsi in
“
In molti
ci dicono
che il nostro lavoro
è combattere
in Afghanistan
e non stare
in Italia
”
ogni tessuto sociale.
Si mettono perfino a
spacciare ai ragazzini nelle
scuole medie».
E voi cosa potete fare per
migliorare queste situazioni?
«Appena notiamo qualcosa di
sospetto procediamo con un
controllo veloce, se risultano
precedenti iniziamo con la perquisizione».
Se vi capita di trovare qualcuno in flagranza di reato
come vi comportate?
«Noi militari in nessun caso
abbiamo l’autorità di procedere con l’arresto. Solitamente
vengono portati in commissariato. Non sempre però le cose
sono semplici. Ad esempio
l’altro giorno ci è capitato di
fermare un sospetto che aveva
precedenti per spaccio di 15 kg
di cocaina. Condanna di soli 8
mesi e poi rilasciato per prove
insufficienti. Durante la perquisizione abbiamo trovato 10
grammi di coca, ma non abbiamo potuto fare nulla perchè
10 grammi in unica busta sono
da considerare “per uso personale”. Abbiamo dovuto lasciare
andare. Molto probabilmente
non ha mai smesso di spacciare
e noi lo sappiamo benissimo,
però non abbiamo potuto fare
nulla».
Spogliandoti dai panni del
militare. Secondo te è utile
l’operazione “Strade Sicure”?
«Si, anche se viene fatta male.
I carabinieri ci indicano le
zone in cui andare, ma lo
scopo è portare a casa dei “numeri”. Mi spiego meglio: ogni
giorno si decide di fermare un
tot di persone, 3 ad esempio,
una volta fermate le 3 persone,
difficilmente se ne fermerà una
quarta. Funziona così anche
per i posti di blocco. Hanno un
determinato numero
di macchine da controllare e fermare».
Quante in un
mese?
«Più o meno 70. E
quel numero non
dev’essere superato.
L’altro giorno ad
esempio ne abbiamo fermate 5 e il
carabiniere ci dice:
“basta basta per
oggi, siamo già a 50
e ancora ci mancano altre 2 settimane”».
Perchè non potete
fermare più auto?
«Purtroppo lo si prende come
lavoro di ufficio, si fa il minimo indispensabile. Ci si dimentica che il nostro lavoro
serve per far del bene ai cittadini e allo Stato. Se in un mese
arriviamo a fermare 100 macchine ad esempio, il mese dopo
ne dovremo fermare di nuovo
100, quindi è meglio assestarsi
su un numero base minimo,
come 70 appunto».
A luglio scorso, alcuni militari in servizio nell’operazione strade sicure hanno
deciso di rivolgersi a un avvocato per denunciare la miseria operativa in cui sono
costretti a lavorare. Tu cosa
pensi al riguardo?
«I mezzi che abbiamo a disposizione sono vecchissimi. Il
problema maggiore sono le camionette. Ne sono arrivate 100
l’altro giorno e ne funzionano
20, senza esagerare. Capita
anche che saltano i turni perchè la macchina non parte».
E in questi casi?
«Salta il turno e la zona rimane scoperta».
Prima di andare via Luca tira
fuori un volantino grande,
bianco, scritto fitto fitto per
tutte e quattro le facciate che lo
compongono. Sembra un foglio di istruzioni per l’uso,
sopra divise per punti ci sono
tutte le regole che un militare
deve seguire. Dal come comportarsi con i cittadini a che risposte dare ai giornalisti. E
persino che parole usare: il
manganello non va in nessun
caso chiamato “manganello”,
il suo nome è “sfollagente”. In
questo modo, testuali parole,
“non crea panico fra cittadini”.
Nella tana
del topo
Pagina 6
PRIMO PIANO
LAB Iulm
Anche nel 2011 Milano
si è confermata tra
le città italiane
con più furti in appartamento.
Navigli, Vigentina e Corso
Buenos Aires le zone
da bollino rosso.
Colpa della crisi
o mancanza di controlli?
Silvia Egiziano
Luca La Mantia
l cigolio di una serratura.
Una porta che si apre. Una
torcia per vedere nell’ombra. Passi felpati e mani avide
che scrutano, rovistano,
aprono cassetti e s’insinuano
tra i nostri ricordi. Afferrano i
beni accumulati negli anni,
frutto di sacrifici o dono di una
persona cara. Anche nel 2011
Milano si è confermata ai
primi posti nella classifica
delle città italiane con il maggior numero di furti in appartamento. Le denunce dei
cittadini derubati, raccolte lo
scorso anno dalle forze dell’ordine, sono state circa
7.000. Per avere una cifra più
precisa bisognerà attendere
settembre, quando la Prefettura di Milano otterrà la validazione dei dati dal Viminale e
potrà rendere pubblico il numero esatto.
Si tratta di un trend in crescita.
Rispetto al 2010, quando in
furti in appartamento furono
6.168, l’aumento è stato circa
del 14%. Dal 2009 al 2011
l’incremento totale è stato
circa del 49,2%. Unico dato
positivo: analizzando i numeri
degli ultimi tre anni, notiamo
che nel biennio 2010-2011 i
furti in casa, pur essendo aumentati di numero, sono cresciuti meno in percentuale
rispetto al 2009-2010. Non è
un paradosso. Tra 2009 (4694
denunce) e 2010 (6.168) i furti
d’appartamento erano saliti del
31,40%. Milano può almeno
vantarsi di non avere il primato
italiano dei furti in casa,
detenuto da Roma. Nella Ca-
I
pitale nel 2011 le denunce di
furti in casa sono state circa
8.000, il 15% in più rispetto
l’anno precedente. Nel 2009 i
casi sono stati 6028, nel 2010
ben 7017. A Roma il record di
furti d’appartamento è stato
raggiunto nel 2007, con 7412
casi. Magra consolazione in
ogni caso per Milano. Magrissima se si tiene conto del dato
della popolazione. Il capoluogo lombardo ha circa 1milione e 400mila residenti.
Significa che nel 2011 ha subito un furto in casa più o
meno 1 milanese su 200.
Le zone più colpite sono quelle
più vicine al centro storico. Secondo uno studio condotto da
Transcrime, centro interuniversitario sulla criminalità transnazionale, presso la Cattolica
di Milano, e pubblicato a gennaio, tra le aree maggiormente
interessate dai furti in appartamento ci sarebbero, fra le altre ,
i Navigli, Vigentina, Città Studi e
buona parte del quadrante di
corso Buenos Aires. Rischio
medio alto a piazzale Loreto,
corso Lodi, piazza del Duomo,
via Washington e al quartiere
Isola. Meglio va alle zone intorno alla stazione Centrale, a
Porta Romana e a viale Monza.
Pochi colpi messi a segno nelle
periferie, con qualche eccezione qua e là, Comasina e
Quarto Oggiaro. Occorre precisare che lo studio condotto
da Transcrime ha preso in considerazione solo i dati relativi
al periodo 2007-2010.
Spiegare i risultati di questa
analisi è semplice. Si colpiscono le zone “borghesi” della
città, presumendo che il bottino sarà più ricco. Spesso non
è così, ma i ladri ragionano per
sommi capi. Così è più facile
trovare una cassaforte piena di
oggetti di valore in centro piuttosto che in periferia. Il maggior numero di colpi viene
messo a segno il venerdì, seguito dal sabato. L’orario più
“di moda” tra i “topi d’appartamento” desta curiosità. Con
un’incidenza di furti che si verifica soprattutto nel weekend
ci si sarebbe aspettati che la fascia di punta fosse quella che
va dalle 23.00 e all’1.00 di
notte. E invece no. Un furto su
cinque si verifica tra il tardo
pomeriggio e la sera: a cavallo
fra le 18.00 e le 21.00. Ma le
stranezze non finiscono qui. A
Milano in agosto il tasso di
furti è sceso in drasticamente,
mentre è salito a dicembre, divenuto il mese più “caldo” da
questo punto di vista.
Colpa della crisi o mancanza di
adeguate politiche di sicurezza? Se l’aumento di scippi e
IL RAPPORTO TRA FURTI E RESIDENTI
Milano
1/200
Roma
1/350
LE DENUNCE NEL TRIENNIO 2009-2011
LAB Iulm
PRIMO PIANO
Pagina 7
LA TESTIMONIANZA
ROBERTO VECCHIONI
“Ci hanno rubato la serenità
E’ come essere violentati”
e subisci un furto in casa,
ti senti profanato nella
tua intimità. Roberto Vecchioni, grande cantautore italiano, è stato derubato due
volte. L’ultima a Capodanno,
mentre, ignaro, festeggiava
con la moglie e gli amici.
S
L’Assessore comunale
alla Sicurezza Marco Granelli
Furti cresciuti?
Colpa della crisi
Per arginare
il fenomeno
occorre lavorare
per la legalità
nei quartieri
popolari e dare
risposta alle
situazioni
di precarietà
aver dubbi Marco Granelli, assessore alla sicurezza del Comune di Milano. Riprendendo
il commento di fine anno del
questore Alessandro Marangoni, anche per Granelli i furti
in appartamento rientrano nel
gran calderone dei reati “legati
alla ricerca di soldi” che sarebbero una diretta conseguenza
della crisi.
Secondo l’assessore, infatti,
non si tratterebbe di furti seriali
commessi da professionisti,
ma di fenomeni di microcriminalità legati a situazioni di degrado e necessità.
“C’è un aumento di persone
che vivono alla giornata –
spiega Granelli –. Si tratta
spesso di sinti italiani, siciliani,
napoletani e talvolta rom. È un
problema di sicurezza, di
bande microcriminali che in
queste situazioni di precarietà
dispongono di maggior manovalanza”.
Situazione questa che rende
più difficile l’attività di contrasto e prevenzione da parte
delle forze dell’ordine. E allora
quali misure intraprendere per
arginare il fenomeno?
“In primo luogo – afferma
Granelli – vi è la necessità da
parte delle vittime di denunciare i furti, cosa che spesso
non avviene.
In secondo luogo occorre individuare e combattere gli insediamenti di persone che vivono
ai margini della società e che
spesso vengono reclutate per
queste attività.
Lavorare nei quartieri popolari
per dare maggior legalità e risposte alle situazioni di precarietà serve a ridurre quel
substrato che la criminalità usa
facilmente per questi reati”.
“
Sono riusciti
a entrare
nonostante
il caos di via
Moscova,
la vigilanza
e la stazione
dei Carabinieri
davanti casa
“
“
rapine per strada e nei supermercati può essere facilmente
ricondotto all’attuale crisi economica, infatti, più difficile appare l’analisi dei furti in
appartamento. Un reato, questo, che richiede “competenze”
criminali non semplici da improvvisare. Eppure sembra non
Professor Vecchioni, come ci
si sente quando si scopre di
aver subito un furto in casa?
«Violentati. La casa diventa
una parte essenziale di te stesso.
Una parte del tuo corpo. Diventa
la persona in più che vive con
te e la tua famiglia. Acquista
un corpo e un’anima. Quando
entrano in casa tua, ti portano
via le cose e ti mettono a soqquadro tutto fa un male tremendo. E’ come se fossi stato
colpito tu.»
Molte persone derubate per
qualche tempo avvertono un
senso di repulsione nei confronti della propria casa. E’
successo anche a lei?
«Quello non mi è successo.
Non mi hanno lasciato segni
così evidenti da dire questa
non è più casa mia. Però ho
avuto per giorni la sensazione
che la casa fosse un po’ estranea. Che non fosse quella di
prima. Che ci fosse qualcosa di
diverso. Non la riconoscevo
più com’era prima. Questo sì.»
Quando ha subito l’ultimo
furto?
«La sera di Capodanno.»
Ci può raccontare la dinamica?
“
I primi tempi
non mi
sembrava
più casa mia.
Ho sempre
paura
che possa
riaccadere
“
Luca La Mantia
«Io e mia moglie siamo usciti
per un paio d’ore con degli
amici a mezzanotte. In questo
lasso di tempo i ladri si sono
arrampicati su un albero,
hanno sfondato la finestra,
sono entrati, ci hanno derubato
e sono usciti dalla porta. E questo nonostante il caos di via
Moscova a quell’ora, la vigilanza privata e una stazione di
Carabinieri che si trova davanti
casa mia.»
Cosa le hanno preso?
«I gioielli che in quarant’anni
avevo regalato a mia moglie.
Devo dire però che qualche
colpa in quel che è successo l’
abbiamo anche noi.»
Perché?
«Mia moglie aveva tirato fuori
dalla cassaforte i gioielli per
scegliere quelli da indossare
per la sera di Capodanno e ha
lasciato gli altri nei cassetti del
bagno e poi non ho messo l’allarme.»
Ha qualche idea su chi
possa averla derubata?
«Sono convinto sia qualcuno
che era già entrato. Casa mia è
grande e piena di cassetti. Era
difficile trovare subito i gioielli. Loro sono andati direttamente in bagno, come se
sapessero che mia moglie li lasciava spesso in quella stanza.
Non hanno rubato quadri o
altro.»
Quindi non hanno messo
niente in disordine come avviene di solito?
«Poco. Anche se il concetto di
disordine è soggettivo, soprattutto se calpestano il suolo di
casa tua.»
Ha superato il trauma?
«Non ancora. Ho sempre
paura che possa riaccadere.
Come è già successo.»
Non era la prima volta che i
ladri le entravano in casa?
«No. Era già successo nella
mia casa fuori città. Ma lì è più
facile entrare. Ci vado solo durante le vacanze e in qualche
weekend. Comunque in quel
caso non hanno rubato niente
perché è praticamente vuota.
Non pensavo potesse riaccadere. Come si dice, è come
chiudere la stalla quando sono
passati i buoi.»
Il cantautore
Roberto Vecchioni
69 anni a giugno
vincitore
del Festival
di San Remo 2011
con la canzone
“Chiamami ancora amore”
Tra i suoi
grandi successi
“Luci a San Siro”
e “Samarcanda”
“
Gangs
of Milan
PRIMO PIANO
Pagina 8
LAB Iulm
Un fenomeno arrivato in Italia
a fine anni ‘90.
Le prime bande si formano a
Genova ma in poco tempo si
dif fondono in tutto il Nord.
Dal 2006 Milano conosce
l’escalation di violenza legata
alle pandillas
ilano come Quito,
Santo Domingo e
San Juan. Capitale
della moda e sempre più capitale delle gang sudamericane,
un titolo che il capoluogo lombardo si sta guadagnando a
colpi di machete.
Siamo alla fine degli anni
'90 e l'Ecuador sta vivendo una
grave crisi legata al fallimento
del sistema finanziario, complici la caduta del prezzo del
petrolio e alcuni accordi fra il
governo e delle banche corrotte.
Il 27% della popolazione,
più di 3 milioni di persone, lascia il Paese. A Genova ne
sbarcano 20.000, fra loro ci
sono anche esponenti di Latin
King, Vatos Locos e Los Diamantes: bande violente che lottano per spartirsi il territorio e
col passare del tempo affinano
gli interessi diventando sempre
più pericolose.
Nel novembre del 2003 davanti alla discoteca "Victor Latino" di Genova Josè Miguel
Gutierrez, un ragazzo di 21
anni arrivato dalla Colombia,
muore accoltellato in pieno
petto da un suo coetaneo ecuadoriano. Gli amici lo chiamano
"Marino". Verrà condannato a
18 anni. È il primo omicidio legato a scontri tra pandillas in
Italia.
Dalla Lanterna alla Madonnina il passo è breve. Ci si sposta in cerca di lavoro e si
ricrea, ancora una volta, il proprio mondo. Chi ha problemi a
Genova trova rifugio a Milano
e viceversa.
Un filo rosso che tra maggio
e giugno del 2006 le forze dell'ordine cercano di interrompere con alcune operazioni che
M
portano all'arresto di 32 persone, tra cui i capi storici di
Latin King e Neta.
Nel 2007 sociologi e mediatori sociali organizzano un
convegno, sostenuto dalla Provincia di Milano, che sancisce
la pace fra le pandillas.
Una pace destinata a durare
poco.
Il 7 giugno del 2009 David Stenio Betancourt Noboa, capo
del capitolo milanese dei Latin
King New York viene accoltellato a morte davanti la discoteca Thini Cafè di Milano, in
via Brembo, da 4 membri dei
“
L’INTERVISTA
Latin King Chicago, poi condannati a pene comprese tra i
18 e i 26 anni.
Da questo momento l’escalation di violenza delle gang
milanesi non ha conosciuto
battute d’arresto.
Il 12 febbraio 2011, Hamed
El Fayed Adou, 19 anni, viene
ucciso da alcuni giovani sudamericani in via Padova perché
si è lasciato scappare un’occhiata di troppo alla ragazza
sbagliata. La comunità nord
africana dà vita ad una guerriglia urbana.
Un anno dopo Luis Alberto
Bautista, un Trebol, cade sotto
le 18 coltellate infertegli da un
gruppo di Comando e Dangerz,
gang rivali alla sua.
Nell’ultimo anno gli episodi
di violenza e reati contro il patrimonio ad opera di appartenenti alle gang latine si sono
moltiplicati coinvolgendo anche
il centro città, con il membro
degli MS13 aggredito a colpi
di mannaia in via Torino a fine
novembre 2011.
A fine gennaio un ragazzo di
origini sudamericane viene picchiato e derubato alla fermata
della metro Missori di pieno
giorno. Il culmine con il caso
del cittadino cinese Hu Ke Chang,
morto dopo due settimane dal
pestaggio subito in via Baldinucci da parte di un 16enne
ecuadoriano, alterato dal troppo
alcool bevuto durante la festa
da cui stava tornando.
Un trend che il 7 febbraio
scorso l’operazione “Secreto”
del Commissariato di Mecenate ha smorzato: 25 arresti che
hanno coinvolto membri di
Luzbel, Neta, MS 13 e Chicago,
a cui vengono imputate rapine,
aggressioni e tentati omicidi.
Fra loro otto minorenni e
MASSIMO CONTE, ESPERTO DI DEVIANZE GIOVANILI
“Il gruppo dà un’identità a questi ragazzi”
“
Andrea Rossi Tonon
Massimo Conte, fondatore
di Codici Ricerche
Anche ai media
fanno comodo per
vendere
Alessandro Bartolini
assimo Conte non
ama chiamarle gang,
ma “gruppi di strada
latinoamericani”. Da anni lavora con ragazzi che cercano
di uscirne ed è socio fondatore
di Codici Ricerche, agenzia indipendente di ricerca sociale e
consulenza. Il suo lavoro parte
da un presupposto: “Non ci
troviamo davanti a organizzazioni criminali ma a ragazzi”.
Chi sono questi ragazzi?
«Nella maggior parte dei casi
si tratta di adolescenti ricongiunti recentemente ai genitori
dopo che in patria hanno vissuto abbandonati a se stessi.
Sanno cosa vuol dire essere
immigrati in un paese straniero
e sanno che essendo giovani e
immigrati, in una società come
quella italiana, sono emarginati».
M
Cos’è la gang?
«Una risposta I ragazzi si
rinchiudono in un mondo proprio che offre legami stretti, adrenalina e status sociale. Nel gruppo
pensano di ritrovare quello che
non hanno. Farne parte fornisce un’identità a ragazzi che
altrimenti non ne avrebbero
una. Senza dimenticare il contributo apportato dai media».
Cioè?
«Quello delle “bande” è un
brand vincente: offre vita spericolata, ragazze e notorietà. I
membri sanno che prima o poi
i media li etichetteranno come
parte di un fenomeno collettivo
e riconosceranno la loro patente
di “cattivi”: per loro vorrà dire
esistere. Dall’altra parte anche
i mezzi d’informazione ricevono un vantaggio».
Quale?
«I toni con cui parlano di
questa realtà sono sempre
estremi e criminalizzanti, viene
il sospetto che questi ragazzi
facciano comodo per vendere».
Faranno vendere, ma
stiamo parlando di un contesto particolarmente violento.
«Attenzione a non mettere
insieme cose che sono molto
diverse tra loro. La realtà è che
non esiste la violenza dei
gruppi di strada, ma esistono
diverse violenze all’interno di
diverse forme di interazione».
Sono omogenee per nazionalità?
«Sono aperte e trasversali.
Quello che le unisce non è il
passaporto ma la comune esperienza di essere giovani e stranieri in una città poco accogliente
come Milano».
Aperte anche agli italiani?
«Si. I nuovi gruppi stanno
perdendo i loro accenti latinoamericani».
PRIMO PIANO
LAB Iulm
Pagina 9
LA TESTIMONIANZA
“Il rispetto lo difendo
con il coltello”
Carlos, 17 anni, equadoriano racconta la sua storia violenta
o, non sappiamo
niente delle pandillas”. Ma non
si ritrovano sempre qui, al
parco? Questa non è la zona
dei Latin Kings? Non smette di
buttare lo sguardo a destra e a
sinistra. Non ci vuole guardare
in faccia. Lo sa: non si parla né
con i giornalisti, né con i poliziotti.
“Tu a che banda appartieni?”. “Non lo posso dire”. Si
zittisce, di colpo. Si è fregato.
Per la prima volta ci guarda
in faccia. Cerca subito di nascondere gli occhi sotto la visiera del cappellino da baseball
viola dal quale spunta un groviglio di capelli neri.
“N
Cosa spinge un ragazzo
italiano ad entrare in una banda
di latinoamericani?
«Sia latinoamericani che
italiani hanno in comune alcuni tratti. Tutti provengono da
percorso scolastico faticoso, soffrono l’assenza di figure adulte di
riferimento, subiscono la lontananza sia educativa che emotiva
dai propri genitori, e la cosa
più triste: tutti trascinano dietro di sé lo spettro del proprio
fallimento».
Cosa rimane a chi esce da
questa realtà ?
«L’esperienza delle bande
è un’esperienza di transito: si
entra, se ne vive l’epopea, se
ne esce. A volte, però, restano
le cicatrici, le denunce e le condanne. Sono queste spesso a
pesare di più. Noi lavoriamo
con ragazzi che per un cappellino rubato in una rissa hanno
perso il permesso di soggiorno».
“
no, di questo è meglio che non
vi dica niente, anche la polizia
ci rompe le palle. Si, ora hanno
arrestato questi, ma altre bande
stanno nascendo: filippini, marocchini, tipi dell’est…”. Pochi
giorni fa anche per questo episodio hanno arrestato 25
ragazzi delle pandillas. Tu hai
mai avuto problemi con la polizia? “Si”. Lo sguardo ricomincia a girare intorno a parco
Trotter pieno zeppo di mamme
e bambini arabi, sudamericani
e asiatici, che dondolano sulle
altalene, che si godono il sole.
Lo smartphone bianco passa
compulsivamente da una mano
all’altra.
Cosa hai fatto? Ci pensa.
“Beh la prima volta in Ecuador. La polizia ci ha fermato
mentre andavamo contro un’altra
Quando mi
hanno arrestato
mia madre ha
pianto. Voglio
uscirne, ma se lo
faccio mi
ammazzano
“
due ragazze.
Il fenomeno continua ad
evolversi coinvolgendo ragazzi
di altre etnie: arabi, filippini,
cinesi, slavi e italiani.
Giovani attrati dalla dinamica della banda, dalle feste a
base di alcool, droga e sesso.
Ragazzi che non sopportano
un futuro grigio, piatto, troppo
simile a quello dei loro genitori che escono all’alba e tornano la sera con la schiena a
pezzi e che spesso non sanno,
o non vogliono sapere, cosa
fanno i loro figli quando escono
con gli amici.
hanno menato, erano in cinque.
Allora un altro ragazzo sudamericano è intervenuto, mi ha
difeso e mi ha chiesto se volevo entrare nella sua banda.
Nessuno mi ha più rotto le
palle”. In quanti siete? “Più di
cinquanta”. Ci sono italiani?
“Si, non tantissimi, ma ci
sono”.
E come si entra? “Non scrivete il mio nome. Se mi scoprono mi ammazzano, non
dovrei parlarvi”. Tranquillo.
“Si entra se hai coraggio. Gli
altri della banda ti picchiano
per quattro minuti, devi resistere. Se resisti, entri. E poi
devi fare delle prove, tipo
scippi o rapine, oppure pestare qualcuno. Io ne ho fatta
una sola”. Cosa? “Non lo dico”.
Come si esce? “Non si esce.
Ridacchia imbarazzato. Carlos – il nome è di fantasia - ha
l’aria timida, se ne sta stravaccato su una panchina con una
birra incollata alla mano insieme al suo amico Juan, seduto accanto. 17 anni uno, 16
l’altro. Parco Trotter è il loro
dopo scuola, soprattutto quando
c’è un sole così bello, nonostante l’inverno.
“Se sei latinos è sicuro che
fai parte di una banda”, interviene Juan, anche il suo è un
nome inventato. La pelle più
scura. Magro come un chiodo.
Viso tagliente. Capelli nerissimi. Ah si, e voi di che banda
siete? “Questo non lo possiamo dire, davvero. Solo fra
noi sappiamo a che gruppo appartengono gli altri ragazzi. Io
sono entrato l’anno scorso,
grazie a un amico”. Dà una
bella sorsata alla birra da poco
e la passa a Carlos che si lascia
andare: “Io sono entrato tre
anni fa”. Perché? “Dopo due
settimane che sono arrivato in
Italia dall’Ecuador, a scuola,
un gruppo di ragazzi più grandi
mi rompeva. Un giorno mi
si fa parte di una banda? “Durante la settimana andiamo a
scuola. Il sabato e la domenica
ci ritroviamo al parco o in qualche posto. In centro non ci andiamo quasi mai”.“Il venerdì
sera andiamo a ballare al
Bahia, proprio qua dietro, in
via Padova”, dice Juan. Siete
tutti minorenni? “La maggior
parte. Il capo è maggiorenne,
sempre”. Cosa decide il capo?
“Eh – Carlos tira giù un sorso il capo decide tutto. Bisogna
fare quello che dice”. E se non
lo fai? Strabuzza gli occhi,
nemmeno avesse sentito una
bestemmia. “Non puoi! Devi
fare per forza quello che ti
dice. Vi ricordate l’egiziano di
via Padova nel 2010, quando successe tutto quel casino? Quello
aveva alzato la voce con qualcuno dei nostri, e questo non ci
piace”. Cosa non vi piace?
“Che qualcuno faccia l’arrogante con noi. Questo si era subito alterato perché qualcuno
aveva guardato la tipa che
stava con lui, il capo ci odinò
“
L’egiziano di via
Padova ha alzato
la voce contro
uno dei nostri
per una donna
ed è stato
accoltellato
Non si può tradire la banda, gli
altri ti picchierebbero ogni
volta che ti vedrebbero. Non ti
rispetterebbe più nessuno. Sei
un traditore e basta. Neanche
se ti nasce un figlio puoi
uscire. Tu abbandoni i tuoi fratelli? È una questione di rispetto”.
Perché vi scontrate con altre
bande? “Per il rispetto. A noi
non piace quando ci guardano
male o alzano la voce: quando
incontri quelli dei gruppi rivali
ti devono guardare con rispetto. Devono sapere che tu
non hai paura di loro, devono
lasciare stare le tue donne. Non
ti devono rompere le palle, altrimenti….” Altrimenti succede come alla Fnac di via
Torino? “Già”. Ma cos’è successo per scatenare tutta quella
violenza? Hanno aggredito un
ragazzo con un machete, no?
“Io conosco un ragazzo che….
banda. Ci hanno trovato armi
addosso, io avevo un coltello,
e allora i miei mi hanno fatto
venire in Italia”. Quanti anni
avevi? “Dodici”. Con chi vivevi? “Con i miei zii”. E
adesso le usi le armi? “Beh,
nello zaino ho sempre un coltello e a scuola ho nascosto una
mazza”. E la seconda volta?
“La seconda volta ho colorato
una macchina della polizia”.
Qui in Italia? “Si, fuori da
scuola”. Torna il sorriso. Come
colorata? “Si, con la bomboletta. Di verde. Ma qualcuno
ha fatto la spia, è arrivato lo
sbirro, l’ho spintonato e gli ho
tirato un pugno in faccia”. Ti
hanno condannato? “Il giudice
ha chiuso un occhio. Solo una
multa.”. I vostri genitori lo
sanno che siete dentro una pandilla? “Ormai i miei si”, Juan
invece scuote la testa. Ma
come si passano le giornate se
“
Alessandro Bartolini
Andrea Rossi Tonon
di partire e noi partimmo.
Tutti insieme. Ed è successo
quello che è successo”. E’ successo che Ahmed Abdel Aziz el
Sayed è morto per una coltellata al torace in mezzo alla
strada, aveva 19 anni. Tu hai
partecipato all’aggressione?
“No no, io non ho partecipato.
Non l’ho nemmeno vista. Il
capo mi chiese di andare a
chiamare altri dei nostri che stavano qui al Trotter. Andai per dirgli che stava succedendo
casino con gli arabi che erano
molti più di noi”. Carlos, non
sembri contento. “Non vorrei
più starci dentro. Vorrei uscire.
Dopo la cazzata della macchina colorata, mia mamma ha
pianto quando mi ha visto nella
cella di sicurezza della questura. Mi sono sentito in colpa
verso mio padre e i miei fratelli
più grandi. Ma se esco non so
come va a finire”.
Bad boys
made in Italy
Pagina 10
PRIMO PIANO
LAB Iulm
Sono sempre di più i ragazzi italiani
che finiscono dietro le sbarre.
Don Gino Rigoldi, storico cappellano dell’IPM
“C. Beccaria” di Milano, ci spiega il perchè
ono giovani, anche troppo, e di rispettare
la legge proprio non ne vogliono sapere.
S
Rubano, spacciano, rapinano.
Per disperazione, per povertà o anche solo perché è l’unica cosa che hanno imparato a fare.
E, soprattutto, sono per la maggior parte italiani.
E’ questo l’identikit dei detenuti del carcere minorile “Cesare Beccaria” di Milano, istituto che
più di ogni altro fotografa la realtà di una delinquenza minorile ad alto contenuto italiano. Sì
perché, a finire dietro le sbarre con maggiore frequenza negli ultimi anni, sono proprio i nostri
connazionali.
A lanciare l’allarme è la “Relazione 2011 sull’amministrazione della giustizia” presentata
dal guardasigilli Paola Severino lo scorso 17
gennaio in Parlamento. Un documento dal quale
traspare a chiare lettere l’inquietante ripresa del
“made in Italy” nella criminalità under 18.
Sono adolescenti, per il 93% maschi, con un comune segno particolare: una vita fatta di miseria
e malessere sociale, per i quali delinquere sembra essere l’unica strada possibile.
Alcuni di loro hanno ereditato l’esperienza della
galera dai genitori, che hanno vestito i panni dei
carcerati prima di loro, sono cresciuti in quartieri in cui le gang la fanno da padrona, periferie
nelle quali avere una spiccata mentalità criminale fin da giovanissimi è la prassi.
Altri invece vivono all’ombra del gruppo del
quale fanno parte che li protegge da un mondo
Don Gino Rigoldi: “Io, che con i grandi,
L’INTERVISTA
Silvia Pagliuca
on Gino, cosa è successo ai ragazzi italiani?
«Sono poveri, gli italiani sono
molto più poveri di prima.
Tanti dei ragazzi che arrivano
al Beccaria rapinano per dar da
mangiare alle famiglie. Sono
ragazzi che crescono in ambienti difficili, che li deprivano
rispetto alle aspettative.»
Sono le aspettative ad essere
cambiate rispetto al passato,
ad essere meno realizzabili?
«Tanti anni fa bastava una
casa di 2 stanze, una bici e andare a ballare il sabato sera per
essere sereni. Oggi ad essere
cambiato è il vissuto dei ragazzi. Anche ciò che sarebbe
normale, per alcuni di loro è
complicato. Pensiamo alla
casa, abitare a Quart Oggiaro o
in quartieri simili di Milano,
vuol dire vivere in un appartamento occupato abusivamente
da 20 anni, avere arretrati nell’affitto, essere sempre a rischio sfratto.»
Anche al Beccaria sono aumentati gli ingressi degli italiani?
«Si. Ne abbiamo mediamente
20 in più rispetto a prima. Ora
ci sono anche problemi di so-
D
IL CAPPELLANO DEL CARCERE MINORILE
vraffollamento perché per una
capienza di 40 posti, ospitiamo
circa 60 persone.»
Lei ha detto che italiani delinquono per povertà, ma la
povertà non riguarda anche
gli stranieri?
«Certo, la povertà riguarda
anche loro, ma in certi casi gli
stranieri hanno una marcia in
più, hanno per esempio, un
obiettivo preciso da raggiungere, sognano di poter costruire un futuro.»
E gli italiani no?
«I ragazzi italiani di oggi pur
avendo delle qualità straordinarie,hanno un’immagine del
loro futuro non molto brillante.
Del resto hanno in casa l’esempio del fallimento del papà e
della mamma che passano da
uno status perenne di occupati/disoccupati; sotto gli occhi
hanno un futuro modesto, davanti hanno uno scenario discutibile, come quello portato
dai media, a cui si aggiungono
i bisogni indotti come per
esempio avere l’i pad dell’ultimo modello, il cellulare
ecc…tutte cose che oggi sono
diventate importanti e che portano a cercare una scorciatoia
per poterle ottenere. Inoltre in
alcuni quartieri ci sono figure
storiche che sono ancora dei
miti, pensiamo ad un Vallanzasca per esempio, con le sue avventurose rapine…»
Cioè sta dicendo che Vallanzasca è il loro modello?
«Si, si. Ora lui è in carcere da
20anni, ma si raccontano sempre i successi non gli insuccessi! Il carcere è visto da chi
non c’è mai entrato come un
luogo per gli iniziati, per quelli
veramente tosti. Personaggi di
quel genere hanno ancora una
loro attrattiva. A questi poi si
aggiungono i modelli locali
come gli spacciatori di successo con i loro grossi macchinoni...»
A quali quartieri si riferisce?
«A Milano le situazioni più
difficili sono a Corvetto,
Quarto Oggiaro, Comasina,
Rozzano e Gratosoglio. Lì gli
italiani creano delle vere e
proprie bande. Sono però realtà particolari, si tratta di ragazzi che fuori dal loro
territorio sono completamente
perduti. Se, per esempio, dicessi ad uno di questi ragazzi
del corvetto che fa le rapine, di
andare a Porta Garibaldi, non
saprebbe cosa fare, ci metterebbe mezza giornata senza
saper dove andare.»
E le ragazze che ruolo
hanno in tutto questo?
«La gran parte delle ragazze
detenute al Beccaria sono rom.
Le italiane di solito si mettono
nei guai perché avevano in
mente di salvare un ragazzo, di
fare le crocerossinee poi invece vanno a finire nella stessa
maniera.»
Cosa le chiedono i ragazzi
italiani quando parlano con
lei?
“
Sono in continuo
aumento i ragazzi
italiani che rubano.
Lo fanno per
povertà e perchè
si sentono inadatti.
Vecchi miti come
Vallanzasca
affascinano ancora.
”
«Io sono al Beccaria da 40
anni, prima di loro ho visto
passare i loro padri. Di solito
questi ragazzi chiedono un
aiuto pratico su come trattare
con l’avvocato. Poi si fa in
modo che si accorgano che c’è
un adulto disposto ad ascoltarli. Questa è una cosa nuova
per molti di loro.»
Non sono ostili con lei che è
un prete?
LAB Iulm
PRIMO PIANO
LE NAZIONALITA’ DEI DETENUTI
ALL’IPM “C.BECCARIA”
Pagina 11
Il carcere minorile “C.Beccaria” di Milano, ospita 57 ragazzi, tutti maschi.*
Negli ultimi anni è notevolmente aumentato il numero di detenuti di
nazionalità italiana, colpevoli per reati contro il patrimonio, come furti e rapine.
Durante il periodo di detenzione, i ragazzi sono impegnati in attività
scolastiche volte a favorire la formazione e l’inserimento professionale.
La permanenza media all’IPM “C.Beccaria” è di 7-8 mesi.
*(Dati relativi al 5 marzo 2012)
che ai loro occhi è sconosciuto e molto spesso
non hanno coscienza del reato commesso fino
a quando le porte del carcere non si chiudono
alle loro spalle.
Una situazione, quella della criminalità dei
minori italiani che rischia di uscire dalla
marginalità sociale nella quale fino ad ora si è
alimentata, arrivando a coinvolgere fasce
sempre più ampie di popolazione, gravate da
una crisi finanziaria senza precedenti.
Ma è davvero solo la difficoltà economica a far
sì che i ragazzi scelgano la delinquenza?
Oppure c’è qualcos’altro che ha cambiato gli
adolescenti italiani nel profondo?
Per rispondere alle nostre domande, abbiamo
deciso di parlare con chi, del binomio
“giovani - galera” se ne intende: Don Gino Rigoldi, da oltre quarant’anni cappellano del
carcere minorile “C. Beccaria” e fondatore di
Comunità Nuova, associazione no profit nata
per aiutare i più deboli.
Don Gino è stato la nostra guida nel viaggio
alla scoperta del mondo della delinquenza minorile, per farlo ci ha aperto le porte di casa
sua, una cascina fuori Rozzano su cui le stelle
brillano come a Milano non succede più da
tanto tempo.
Lì vive con i ragazzi che hanno alle spalle le
storie più difficili, quelli per cui la parola
“casa” non ha mai significato “famiglia” e che
per la prima volta scelgono di cambiare.
(S.P)
i grossi e i cattivi ci divido casa...”
«No, anzi. Nonostante la pessima immaginedella Chiesa ufficiale, c’è unagrande voglia di
catechesi.»
Come riesce a creare un
rapporto con loro?
«E’ fondamentale partire da
una propria sicurezza emotiva,
i ragazzi più sensibili lo capiscono e si creano rapporti di
amicizia sincera fatta anche di
espressioni fisiche molto te-
“
Non esistono
ragazzi cattivi.
Esistono ragazzi
che hanno fatto
cose cattive.
Ciò che mi stupisce
ogni volta è vedere
quanto siano
bisognosi di affetto.
”
nere, come baci e abbracci
tanto che a volte devo cercare
di contenere queste richieste di
affetto. Ormai è una vita che
guardo le persone, imparo a
capire come si muovono, cosa
pensano...»
E in loro cosa vede?
«Una grande solitudine.»
Di ragazzi soli, Don Gino,
deve averne aiutati tanti, almeno a giudicare dalle decine
di dediche che firmano uno
striscione grande quanto
un’intera parete su cui si
legge: “Grazie don Gino per
questi 70 anni.” Non un crocefisso, non un’immagine sacra.
Solo fotografie, e libri nell’ufficio in cui ci riceve, una stanzetta nella sede di Comunità
Nuova, l’associazione no profit
da lui fondata nel 1973 allo
scopo di aiutare i più deboli.
Quanti di loro dopo il carcere riescono a fare una vita
diversa e quanti invece lei ha
visto ritornare dentro?
«Se riusciamo a risolvere
problemi essenziali come la
casa o il lavoro, la recidiva è
molto bassa. Parliamo di un
10-12%. Se invece passano direttamente dal carcere alla libertà, più della metà di loro
ritorna dentro. Sono troppo
esposti.»
I passaggi in comunità non
aiutano?
«Non sempre perché molte di
queste comunità hanno regole
troppo rigide, mentre dovrebbero riuscire a fare proposte
adulte. A maggio per esempio,
abbiamo mandato in comunità
15 ragazzi e abbiamo avuto
esattamente 15 ritorni in carcere.»
Cosa si dovrebbe fare secondo lei?
«Bisognerebbe patteggiare,
non regolamentare. Io parlo
per esperienza, prendo a vivere
con me i cosiddetti “grandi,
grossi e cattivi” ovvero quei
ragazzi che hanno commesso
reati pesanti come omicidi o
rapine. Con loro faccio una
sorta di “gentlemen agreement”, poi viene da sé che
ognuno ha il proprio turno per
i piatti o per tenere in ordine la
camera…Alla fine da casa mia
non se ne andrebbero più!»
Lei qualche anno fa aveva
detto che il carcere per i minori non serve a molto. Lo
pensa ancora?
«Certo. Bisogna fare una precisazione però. Un carcere
come il Beccaria, in cui i ragazzi escono alle 7.30 dalla
cella e vi fanno rientro alle
21.00 perché durante il giorno
sono impegnati in diverse attività, funziona. In questi casi, il
carcere ha un senso perché
insegna e i ragazzi imparano
qualcosa.»
E non è sempre così?
«No, in molte carceri minorili, specialmente al sud, si
vive come nel regime del 41bis
ovvero con 2 ore d’aria e 22
ore di chiusura.»
Cambierebbe qualcosa al
Beccaria?
«L’avviamento professionale.
Per com’è gestito ora, credo sia
da buttare. Ha modalità didattiche vecchie e prepara a
professioni che non ci sono
più. Io sto cercando di attrezzare uno spazio per far imparare a questi ragazzi ad usare i
quadri elettrici industriali, per
esempio, facendo non solo tecnica ma anche formazione.»
Come avviene l’immissione
nel mondo del lavoro?
«Attraverso la borsa lavoro
che è un sistema con il quale il
datore di lavoro non spende
niente perché i 300-400 euro di
paga li dà l’ente che la eroga.
La maggior parte delle borse
lavoro sono usate dai datori di
lavoro per far fare a questi
ragazzi le pulizie o il trasporto
pesante, raramente troviamo
imprenditori che insegnano per
esempio a fare la pizza o il verniciatore.»
Don Gino, pensa che
davvero per tutti possa esserci una seconda possibilità?
«Non esistono ragazzi cattivi.
Esistono ragazzi che hanno
fatto cose cattive. Un omicidio
uno se lo porta dietro tutta la
vita. In questi anni ho visto almeno un centinaio di omicidi,
specialmente tra i ragazzi di
Bollate. E’ difficile che a quarant’anni queste persone abbiano dimenticato tutto.
Quando è arrivata Erika (Erika
De Nardo, NdR) al Beccaria, le
abbiamo dedicato un’educatrice personale e un neuropsichiatra infantile. Adesso è
laureata in filosofia. Certo, è
sempre un po’ scompensata
però...»
Si ferma Don Gino.
Durante la nostra chiacchierata il telefono non ha smesso
un attimo di squillare. Prima
di congedarci, legge l’ennesimo sms. Poi, occhi bassi,
commenta: «Ecco, questa qui
ha fatto venti rapine.. ora
stanno per cacciarla di casa.
Chiede aiuto.»
Pagina 12
LAB Iulm
“Spacci a v o
a 12 anni,
mi sembrava
norma le ”
Dalla strada
al carcere.
Ricominciare a
vivere a vent’anni,
fuori dal ‘Beccaria’.
I ragazzi raccontano
le loro storie
Adele Grossi
lla fine, quella sera, il
Milan ha vinto. Ha rifilato all’Arsenal ben
quattro gol. I ragazzi devono
averla presa non troppo bene:
in casa sono tutti interisti,
come don Gino. Sono interisti,
hanno circa vent’anni -tranne
Ilir, che ne ha trenta. Lavorano, cucinano, lavano i piatti,
tengono in ordine una tra le
case più accoglienti in cui sia
mai entrata. Qualcuno sta studiando per prendere la patente.
Qualcun altro ringrazia il cielo
d’aver smesso di studiare, perché solo al pensiero di dover
riprendere i libri in mano, gli
verrebbe un colpo. C’è chi da
poco ha trovato una ragazza;
chi sogna di sposarsi perché la
sua donna aspetta un bambino.
A
Christian, 19 anni
“Ho iniziato a spacciare da
ragazzino. Lo facevano
tutti. Ho il fermo due
giorni a settimana. Dicono
che sono pericoloso”.
Chi desidera fare il lavoro che
ha in mente da un pezzo; chi
ha in cuore di scrivere e ha una
storia già pronta.
Ilir, Christian, Liu e Alehandro
hanno lasciato il carcere minorile di Milano qualche tempo
fa. Quando le porte dell’istituto si sono chiuse alle loro
spalle, Don Gino Rigoldi, il
cappellano dell’istituto, non
c’ha pensato un attimo e li ha
accolti in casa sua: una bella
cascina a due piani, vicino a
Rozzano, dove ora vivono in
tredici; quattordici con Don
Gino; più quattro cagnolini:
Clair, Katty, Pacco e Pepe. E’
lì che abbiamo incontrato i ragazzi. Lì, che ci hanno raccontato la loro storia, invitandoci
a cena, alle otto di sera, una
volta spenta la tv, mentre il
Milan vinceva contro l’Arsenal
e noi, seduti in sedici attorno
ad una tavola, mangiavamo
riso con la zucca.
Memorizzare i loro nomi è
stata dura: i ragazzi sono quasi
tutti stranieri, anche se vivono
in Italia da un pezzo; i più sono
cresciuti a Milano. Christian,
per esempio: italiano a metà,
perché il padre era brasiliano.
“Oggi ha telefonato mia
madre. Ti saluta, don Gino”,
dice rivolto al prete, poi ci
spiega: “Mia mamma è venuta
qui l’ultima volta un anno fa.
Mio padre non c’è più”.
Christian ha 19 anni; “quasi
20”, tiene a precisare. Oggi lavora come giardiniere. Si sveglia alle 5.30, prende il
motorino e da Rozzano, tutti i
giorni, arriva fino a Quarto Oggiaro, in quello stesso quartiere
di Milano dove ha passato la
sua infanzia. Lavora sempre,
tranne il sabato e la domenica:
“In quei giorni ho il fermo”, ci
dice e allora Alehandro, appoggiato al camino, chiarisce:
“Vuol dire che si deve comportare bene. Ogni due settimane deve andare dagli
assistenti sociali a farsi controllare”. Già, aggiunge Christian: “Dicono che sono
pericoloso per la società”.
La sua storia è iniziata a 12
anni, quando per la prima volta
è entrato al Beccaria. Ci è restato 6 mesi, per spaccio. Poi,
di nuovo, qualche anno dopo,
ha commesso 5 rapine ed è tornato dentro; questa volta per 1
anno e 8 mesi. “Mi hanno dato
poco perché abbiamo fatto
continuato: vuol dire che ti
danno il privilegio perché l’ho
fatto in poco tempo. È la
legge”.
Ma perché ha cominciato? Perché le rapine, perché lo spaccio? “A 12 anni, quando ho
iniziato a spacciare, nella mia
zona lo facevano tutti: mi sembrava una cosa nomale. A un
certo punto dici: cosa faccio
nella vita?”
Ha cominciato così. Per soldi.
Con i soldi, poi, usciva con gli
amici.“Mia madre sapeva: litigavamo, lei urlava forte, diceva di non fare ‘ste cose”.
La scuola, intanto, l’aveva
mollata quando era uscito dal
carcere. Faceva l’istituto tecnico, ha lasciato al secondo
anno “perché tanto non serviva
a niente”.
Fatto sta che, soprattutto la
prima volta, entrare in carcere
è stata dura. “E’ brutto perché
quando ti chiudono stai solo”.
Fortuna che lui, in cella, aveva
Alehandro, 19 anni
“Sono arrivato qui da
piccolo. I miei speravano
di far soldi. Sono
cresciuto tra una
comunità e l’altra”
ritrovato qualche amico.
“C’erano i ragazzi della mia
zona e poi comunque dentro si
fa amicizia. Ci sono tante attività: cucina, pasticceria giardi-
naggio. Mi piaceva cucina,
perché mangiavo”. Poi è finita. “E’ arrivato Don Gino e
mi ha portato qui. Questo è il
posto in cui volevo stare”.
Oggi vuole fare il cameriere o
il cuoco. “Mi piace e sono
bravo a servire”, ci dice.
Al Beccaria, Christian ha conosciuto Liu, 19 anni anche
lui, cinese. Dice che è stato in
carcere perché ha fatto “un po’
di tutto: spaccio, rapine prostituzione”. Ha gli occhi neri
e profondi; un’espressione riservata. In metro, diretti verso
la cascina di Rozzano, sedeva
di fronte a me. Ci siamo ritrovati in casa senza accorgerci
di aver fatto il viaggio insieme. Oggi, Liu lavora in una
pelletteria ed è lì che vorrebbe
restare. Non ha troppa voglia
di raccontarci del suo passato,
come se ormai fosse abbastanza lontano da non meritare nemmeno il ricordo.
Alehandro, invece, seduto vicino a lui, non vede l’ora.
Vive lì da un anno e mezzo. Al
Beccaria c’è stato nel 2009,
per rapina. Il padre è ecuadoriano, la mamma romena, ma
lui è passato da una comunità
all’altra e la famiglia non la
vede quasi mai.
Dove sei cresciuto? “In giro,
qua e là. Sono stato quattro
anni in una comunità, due in
un’altra, due in un’altra ancora; l’ultima era a Calvairate”. Sono state forse proprio
quelle comunità e il confronto
con i suoi coetanei a spingerlo
a finire in un brutto giro.
“Sono arrivato qui da piccolo;
i miei speravano di far soldi.
Io ho iniziato con le rapine per
questo. Un lavoro non ce
l’avevo. Vedevo gli altri che
avevano vestiti, tutto e allora…
Non mi ha coinvolto nessuno,
però. Scelta mia”. Una precisazione, questa, che tutti tengono
a fare.
Per un pelo, Alehandro non ha
conosciuto Christian in carcere: “Io sono uscito prima che
lui arrivasse. Sono fuori per sospensione pena. Significa che
Liu, 19 anni
“Ho fatto un po’ di
tutto: spaccio, rapine,
prostituzione. Ma ora
è tutto diverso, è tutto
cambiato”
entro 5 anni non devo fare nessun reato”. E poi aggiunge:
“L’ambiente del Beccaria alla
fine è tranquillo”. Qualcuno
ride, ma Alehandro insiste. “Il
carcere non è stato difficile. E’
una prova mentale e mi ha aiutato a pensare. In fondo, lì, non
c’è niente da fare e così pensi
soltanto. Per il resto, però, non
serve niente. Non riabilita nessuno; esci e ritrovi tutto esattamente com’era. La comunità
neanche ti rivuole più. Qualcuno finisce per pensare: quasi
quasi me ne torno in carcere,
almeno lì ho un posto dove
stare. Io l’ho pensato. Don
Gino diceva che mi avrebbe
preso con sé; io non ci credevo
e invece”.
LAB Iulm
Pagina 13
In sei Stati, la pena di morte è ancora applicabile anche ai minorenni
Adolescenti dietro le sbarre
la cattiva pagella dell’Italia
I penitenziari “contenitori di marginalità sociale”
ono dieci milioni i minorenni italiani. Nel 2007,
27.803 adolescenti sono
stati denunciati alle procure
della Repubblica. Nel 2010,
1.358 si trovano nelle comunità di recupero. Nel 2011, 762
attendono nei ventisette centri
di prima accoglienza, la convalida dell’arresto o il rilascio.
S
In carcere, sempre nel 2011, ne
sono finiti 339, a fronte di 164
stranieri.
Hanno tra i quattordici e i diciotto anni. Italiani, appunto, in
maggioranza. Alcuni hanno già
compiuto i ventun anni e
stanno aspettando insieme ai
ragazzi più giovani, che l’amministrazione penitenziaria si
decida a trasferirli in un carcere per adulti, ora che, in carcere, sono diventati grandi.
Su un totale di 503 minori,
solo 193 di loro stanno scontando una vera e propria condanna. Gli altri 310, dietro le
sbarre, aspettano la sentenza
che deciderà del loro futuro.
La giustizia italiana, dopotutto,
I NUMERI
Gli chiedo se oggi tornerebbe
a fare quel che faceva. “Il rimorso non c’è perché non ti
danno altre possibilità visto
che non c’è il lavoro, però non
lo rifarei perché non vorrei tornare in carcere. Non che mi
faccia paura il carcere in sé. E’
che ho paura di perdere tempo
in carcere”.
“Ora vorrei solo trovare lavoro
e sposarmi”. Vorrebbe fare il
magazziniere o lavorare nel sociale, con gli anziani o con i
bambini. La sua fidanzata è siciliana; è incinta di quattro
mesi. Aspettano una bambina:
la chiameranno Desirè.
Ci invitano a tornare, magari
per pranzo. Ilir ci accompagna
fino alla fermata della metro.
E’ albanese ed è il terzo figlio
di Don Gino. Già, perché
anche un prete può adottare dei
ragazzi e Don Gino l’ha fatto.
Proprio oggi il tribunale ci ha
messo la firma: ora Ilir di cognome fa Rigoldi.
Gli domando com’è l’Albania.
“Come l’italia”, risponde.
“Tanta corruzione; miseria e
corruzione”. Qui, lui adesso lavora in un locale, ma il suo
sogno è quello di fabbricare
gioielli e spera proprio di riuscirci.
Magari la storia che uno dei ragazzi spera di riuscire a scrivere parlerà proprio di questo.
Di chi ha un sogno e riesce ad
avverarlo. Perché, diamine, a
20 anni una storia deve avere
un lieto fine. In fondo, come
scrive qualcuno “non è mai
troppo tardi per avere un’infanzia felice”.
In Italia ci sono 19 carceri
minorili. Si tratta degli istituti di Acireale (Catania) , Airola (Benevento),
Bologna, Bari, Cagliari, Catania, Caltanisetta, Firenze, Catanzaro, Milano,
Nisida (Napoli), Palermo, Roma, Pontremoli (Massa Carrara), Potenza, Torino e Treviso.
Carcere di Nisida (Na)
A questi vanno aggiunti gli istituti di Lecce e L’Aquila, attualmente chiusi
per ristrutturazioni. Sezioni femminili riservate alle ragazze si trovano a
Milano, Nisida, Roma e Torino.
Pontremoli è l’unico istituto per minori esclusivamente femminile ed è in
funzione dal 2010.
Nel complesso, lo stato delle carceri in cui si trovano i giovani detenuti è
decisamente migliore di quello che caratterizza gli istituti di pena per gli
adulti. In ogni istituto si svolgono attività didattiche e formative per l’avviamento al lavoro. Negli anni, tuttavia, non sono mancati episodi di abusi
sui minori detenuti. E’ attualmente in corso il processo contro nove agenti
di polizia penitenziaria del minorile di Lecce, per diverse presunte violenze verificatesi nella struttura tra il 2003 e il 2005.
In attesa di giudizio è anche un agente di custodia del carcere minorile di
Torino, accusato di lesioni gravissime nei confronti di un minore marocchino.
Il carcere minorile è stato al centro
delle note di due grandi cantautori.
Proprio del “Ferrante Aporti” di
Torino scrisse Lucio Dalla, in una
sua canzone degli anni ‘70, mentre
Edoardo Bennato, nel 1982, dedicò
i suoi versi al minorile di Nisida.
Carcere “Ferrante Aporti” (Torino)
quando vuole è uguale per tutti
e in certi casi è talmente uguale
che il nostro sistema penale
non fa differenza tra ragazzi e
adulti, tra l’opportunità di applicare la pena detentiva e
quella di pensare a misure alternative, magari rieducative:
chi sbaglia finisce in cella,
punto, anche quando non si è
proprio sicuri al cento per
cento che abbia sbagliato e di
certo non sta lì a badare all’età.
Talmente uguale che se non
fosse stato per la Corte Costituzionale che nel 1994 lo cancellò per i minori, anche loro e
ancora oggi potrebbero persino
beccarsi l’ergastolo. Poca cosa.
Negli Stati Uniti, in Iran, in Pakistan, in Arabia Saudita, nello
Yemen e in Nigeria, i ragazzi
possono anche essere condannati a morte e negli ultimi 15
anni lo sono stati effettivamente.
L’Italia però non ha da rallegrarsi. Le nostre carceri sono
diventate “contenitori di marginalità sociale”, o almeno così
le ha definite il primo rapporto
sui 19 istituti penitenziari minorili, condotto dall’associazione Antigone, dopo un tour
iniziato nel 2008. A scorrere i
dati raccolti, si scopre che i
giovani italiani presenti sono
perlopiù provenienti dalle periferie del meridione; poi ci
sono rom e stranieri.
E non è tutto.
Più del sessanta
per cento
dei minori detenuti
sta aspettando
una condanna
definitiva
Leggi lacunose; gravi differenze di trattamento da Regione a Regione; finanziamenti
insufficienti; mancanza di un
sistema organico di protezione
dei minori: è solo parte di
quello che il Comitato delle
Nazioni Unite ha rimproverato
al nostro Paese appena lo
scorso ottobre, osservando lo
stato d’attuazione della Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989, che l’Italia, dal
1994, è obbligata a rispettare.
Come dire: quel che si fa per i
minori è poco. Troppo poco.
E il carcere, così com’è oggi,
non è una soluzione.
(AG)
Pagina 14
Viaggio fra
i diversi
approcci
alla sicurezza
urbana:
Francia, Usa,
Inghilterra,
Danimarca.
Ogni paese ha
un metodo
per prevenire
la criminalità
Stefano Taglione
n Inghilterra i poliziotti di
quartiere vanno in giro
senza pistole se non in casi
eccezionali, ma in molti altri
stati, come Francia, Germania
e Italia, sono armati fino ai
denti. Le modalità di presidio
del territorio sono molto diverse, ma in tutto il mondo i
pericoli di strada sono dietro
l’angolo e le autorità sono
chiamate ad interventi sempre
più frequenti ed estesi.
Le strategie dei governi per
combattere la criminalità sono
fra le più disparate e non riguardano solo gli armamenti,
ma anche le politiche sociali e
di sicurezza urbana.
Nel mondo ci sono diversi
approcci alla prevenzione dei
reati. Negli Stati Uniti si combatte soprattutto ciò che, alla
vista, fa trasparire delinquenza.
Le tracce della criminalità devono sparire. La polizia è intransigente e prevale il metodo
I
L’ESPERTO
Amato Lamberti,
docente di politiche
della sicurezza sociale
dell’Università
“Federico II” ed
ex presidente della
Provincia di Napoli
della “tolleranza zero” verso
chi commette illegalità e arreca
disturbo.
In Europa la situazione è un
po’ diversa e non c’è mai stato
un modello di “tolleranza
zero” da parte delle forze dell’ordine. Generalmente le politiche sociali hanno un peso
maggiore rispetto agli Usa,
dove comunque non mancano
iniziative di questo tipo. In Europa dare aiuto a chi ne ha bisogno è la via d’uscita
principale per prevenire episodi di micro-criminalità.
L’approccio europeo si differenza da zona a zona. “Esi-
L’Europa
scommette
sul
PRIMO PIANO
LAB Iulm
welfare
stono vari metodi – afferma il
professor Amato Lamberti, docente di politiche della sicurezza
sociale
presso
l'Università “Federico II” di
Napoli –. Io tendo a privilegiare un approccio che coinvolga tutte le strutture sociali
esistenti sul territorio. La sicurezza non è solo un problema
di polizia, bensì di partecipazione collettiva alla vivibilità
del territorio. Le associazioni continua Lamberti - svolgono
un ruolo fondamentale nelle
aree di marginalità che normalmente creano preoccupazioni ai cittadini”.
Fra i modelli più famosi in
questo campo vi è quello francese. “A Parigi ci sono situazioni molto diverse – spiega
Lamberti –. Le zone turistiche
sono ben controllate, le banlieue si differenziano fra di
loro, alcune più o meno abbandonate. Ma vi sono iniziative a
favore dei soggetti più deboli,
alloggi popolari, lavori socialmente utili e si privilegia l’intervento sociale rispetto a
quello repressivo”.
Tuttavia, negli ultimi anni,
sono stati molti gli episodi di
criminalità nelle periferie parigine. Nel 2007, dopo la morte
di due ragazzi a seguito di uno
scontro con un'auto della polizia nel quartiere di Villers-le
Bel, esplode la rivolta in strada
con giovani che mettono a
ferro e fuoco la città. Rivolta
che segue quella più imponente del 2005, quando le som-
FRANCIA
“
”
Si privilegia
l’intervento sociale
invece di quello
repressivo, vita dura
nelle banlieue
mosse si diffondono in gran
parte della capitale e del paese,
con il governo costretto a dichiarare lo stato di emergenza.
Il metodo che viene invece
considerato un modello per il
futuro è quello utilizzato in
Nord Europa. “Lì lo Stato si fa
carico delle situazioni di emarginazione con strutture adeguate – sottolinea Lamberti – e
un senzatetto ha la possibilità
di avere un alloggio e un sussidio economico. In cambio gli
si chiede di non stare per strada
a dare fastidio”.
Gli aiuti economici sono utilizzati anche nel Regno Unito.
“In Inghilterra l’indennità di
disoccupazione elimina molti
problemi – spiega Lamberti –
e c’è un welfare che tende a
coprire bisogni di salute, sociali, di reinserimento e di formazione.
Laddove
c’è
un’elevata disoccupazione giovanile si interviene con la formazione professionale e i
lavori socialmente utili”.
In ogni caso l’approccio
“social” non mette al riparo da
esplosioni di violenza. Dal 6 al
10 agosto 2011 i quartieri periferici di Londra sono stati oggetto di saccheggi, sciacallaggi
e rivolte. I disordini iniziano
nel quartiere di Tottenham, per
poi espandersi senza controllo
a Chelsea, Brixton e Oxford
Circus, una delle maggiori attrattive turistiche della città. La
causa delle sommosse è la
morte di un 29enne, Mark
Duggan, ucciso in una sparatoria con la polizia.
Per Lamberti l'approccio
della tolleranza zero è sbagliato, perché “si traduce in un
DANIMARCA
“
”
Salario minimo
garantito per tutti
e alloggi popolari
per scoraggiare
la delinquenza
elevato livello di carcerazione
e serve solo rassicurare l’opinione pubblica”.
La ricetta del professore na-
LAB Iulm
PRIMO PIANO
Pagina 15
Il “metodo Giuliani”: strade libere da graffitari, ambulanti e lavavetri
Tolleranza Zero per ripulire la città
Il mito americano fra successi e bluff
Marcello Longo
endicanti, ubriachi,
venditori ambulanti.
Farli sparire dalla città
per garantire una maggiore sicurezza o, almeno, per assicurare ai cittadini la sensazione
di una città meno pericolosa.
È l’idea di fondo della “Tolleranza Zero”, cavallo di battaglia dell’ex sindaco di New
York, Rudolph Giuliani, e ripresa dal successore Michael
Bloomberg. Un modello che
ha conquistato altre città in Europa e nel mondo, con ammiratori anche in Italia, ma che
deve fare i conti con limiti,
critiche e anche alcune ombre.
Tutto comincia nel 1994,
quando Giuliani è eletto sindaco. Il compito di applicare il
modello della Tolleranza Zero
viene affidato al capo della polizia William Bratton, che
chiede e ottiene uno sforzo
straordinario: il 40% del budget in più e il reclutamento di
12 mila nuovi agenti. Così la
Tolleranza Zero, che è prima di
tutto il contrasto alla percezione dell’insicurezza, porta la
polizia agli angoli delle strade,
una presenza costante finalizzata a rassicurare i cittadini e
reprimere i comportamenti devianti. I “nemici” della sicurezza
urbana
vengono
identificati nei venditori ambulanti, nei trasgressori sopresi
a scavalcare i tornelli della
metro, si annidano fra lavavetri, graffitari, accattoni e prostitute.
C’è una giustificazione ideologica per questo approccio e
risiede nella “Teoria della finestra rotta”, elaborata negli anni
Ottanta dagli studiosi George
Kelling e James Wilson e incoronata da un ampio successo
anche fuori dagli Usa. Secondo
questa teoria, «se una finestra
di un edificio dismesso viene
rotta da qualcuno, e non si
provvede a ripararla urgentemente, presto anche tutte le finestre saranno rotte, a un certo
punto qualcuno entrerà abusivamente nell’edificio, qualche
tempo dopo l’intero palazzo
diventerà teatro di comportamenti vandalici».
Il degrado urbano - sostengono gli autori - induce nella
comunità un senso di abbandono, di assenza dell’autorità,
destinato a stimolare comportamenti devianti. Il degrado riduce
l’attenzione
della
comunità verso le forme di devianza e produce il consolidamento delle culture criminali.
Sulla base di queste considerazioni si è provato a giustificare
una politica repressiva orientata a ripulire l’immagine della
città.
I dati lo hanno sempre detto
con chiarezza: New York è una
città più sicura rispetto a ven-
M
Due “bobbies” a Londra
poletano consiste nel coinvolgere tutte le realtà sociali del
territorio per migliorarne la vivibilità, mentre le pubbliche
amministrazioni
dovrebbe
INGHILTERRA
“
”
Casa e lavori
socialmente utili
per il reinserimento
e l’integrazione
nella società
creare più “zone verdi” per
evitare che i luoghi meno frequentati diventino un ricettacolo di criminalità.
Una scena del telefilm americano “The Chips”
zione: il mutamento nella composizione demografica della
città, un calo nei consumi di
droga, nuove norme sul possesso di armi.
I successi della Tolleranza
Zero, celebrati più volte, numeri alla mano, da Giuliani e
dal suo successore, sono stati
messi pesantemente in discussione da un’inchiesta pubblicata nel 2008 sul New York
Times. Un centinaio di funzionari del NYPD (New York Police
Department)
hanno
rivelato pressioni per forzare la
raccolta dei dati, organizzata
attraverso il sistema informatico CompStat che prevede una
scala di reati ordinati per
t’anni fa. Meno omicidi, meno
furti e rapine. Ma con altrettanta chiarezza - corredata da
ricerche e dati - molti studiosi,
anche di orientamento conservatore, hanno più volte messo
in discussione i successi celebrati da Giuliani e Bloomerg,
soprattutto in campagna elettorale. Si scopre, così, che il calo
del tasso di criminalità era già
cominciato prima dell’avvento
della Tolleranza Zero, su scala
diffusa, ed è sceso ancora
anche laddove il “metodo Giuliani” non è stato applicato.
Nel caso di New York, va aggiunto che sono entrati in funzione altri fattori a determinare
un miglioramento della situa-
LA CLASSIFICA
gravità. Per distorcere le statistiche, gli agenti erano istruiti
a convincere le vittime di alcuni reati a non sporgere denuncia, a “pilotare” le
deposizioni per declassare il
reato a categorie meno gravi
oppure, nei casi di furto, a registrare un valore della merce
inferiore a quello reale.
Il modello newyorkese
avrebbe anche contribuito a
“brutalizzare” l’atteggiamento
della polizia. Il primo allarme
viene dato nel 1996 da Amnesty International. In un rapporto sugli abusi commessi
dagli agenti newyorkesi,
l’organizzazione evidenzia alcuni fenomeni: incrementi nel
numero di richieste di risarcimento per danni causati da
perquisizioni violente, di denunce per abusi e comportamenti brutali subiti in gran
parti da neri e latinoamericani,
del numero di civili uccisi
durante operazioni di polizia.
Questa è la Tolleranza Zero.
Un modello “imperfetto” ma
di grande fascino, un mito per
gli sceriffi di tutto il mondo,
scalfito dagli scandali e dagli
eccessi. Un metodo applicato
per “ripulire” le strade dal “disturbo estetico” dei soggetti
marginali, degli anelli più deboli della società. In nome
della legge e del quieto vivere,
almeno apparente.
In America Latina il record di omicidi nel 2011
Città violente, la prima in Honduras
21°
New Orleans
USA
1°
San Pedro Sula
HONDURAS
57 omicidi
tasso di omicidi
ogni 100.000 abitanti
6°
Caracas
VENEZUELA
98 omicidi
158 omicidi
na media di 95 omicidi al mese, più di
tre al giorno, un tasso di 158 morti ogni
100 mila abitanti. Sono i numeri record
di una città dell’Honduras, San Pedro Sula, che
si è guadagnata il titolo di città più violenta al
mondo nel 2011. Lo stabilisce una classifica
stilata dal Consiglio per la sicurezza e la giustizia del Messico, raccogliendo i dati sul numero degli omicidi commessi nelle città del
mondo l’anno scorso. San Pedro de Sula è una
città di 700 mila abitanti, la seconda per importanza e considerata il cuore economico del
paese centramericano. Il suo dato si inserisce
in un contesto preoccupante, in numeri parlano
chiaro: delle 50 città più pericolose 40 si trovano America Latina, nessuna in Europa.
U
4Mosul
4°
IRAQ
37 omicidi
34°
Città del Capo
SUDAFRICA
46 omicidi
DATI 2011
Sul “podio”, al secondo posto, c’è Juarez, città
messicana al confine con gli Usa, sempre in
cima alle classifiche degli anni precedenti.
Scorrendo la graduatoria fino al 21esimo posto,
troviamo la prima città statunitense, New Orleans, con 199 omicidi su quasi 350 mila abitanti. Con New Orleans, altre tre città
americane: Detroit (30°), Saint Luis (43°) e
Baltimore (48°). Al 34esimo posto la prima
città non americana, Cape Town, in Sudafrica,
46 omicidi ogni 100 mila abitanti. A seguirla,
altre tre connazionali: Porth Elizabeth (41°),
Durban (49°) e Johannesburg (50°). L’unico
posto in classifica per il Medio Oriente lo “conquista” Mosul, la città irachena con 636 omicidi su un milione e 800 mila abitanti. (ML)
Pagina 16
PRIMO PIANO
LAB Iulm
Chi ha
paura del
controllore?
Tra esigenze di legalità
e multe che si perdono nel
nulla, indagine sull’evasione
nel sistema Atm. Una torta da
40 milioni di euro all’anno
Roberto Procaccini
dati raccontano che a Milano la media dei viaggiatori che non pagano il
biglietto sui trasporti pubblici
si attesta tra il 5 e l’8%. Tanto?
Poco? Sicuramente troppo per
Atm, l’azienda locale di trasporti, che secondo le stime di
Palazzo Marino ci perde qualcosa come 40 milioni di euro
all’anno. Ma pur sempre in
media con le grandi città europee e nord-americane (vedi i
valori di Londra, Parigi e New
York, tutti compresi tra l’8 e il
9%).
Cos’ altro raccontano i dati?
Parlano di una città i cui costumi stanno cambiando: sempre più persone si attengono
alle regole, sempre più persone
si fidelizzano al servizio pubblico (come testimoniato dal
boom di abbonamenti mensili
e annuali), sempre più persone,
in questa stagione di ritrovata
attenzione per la legalità, non
vedono di buon occhio le furberie piccole e grandi. Indicativo, in tal senso, il clima con
il quale è stata accolta lo
scorso febbraio la notizia dell’introduzione di squadre di
controllori in borghese, sguinzagliati da Atm per sanzionare
quei comportamenti (come attraversare il varco disabili o
obliterare biglietti già usati)
che il portoghese, in presenza
di divise, non replicherebbe.
E poi? Poi c’è che l’evasione
del pagamento del ticket segue
dinamiche che esulano dalla
portata di un’azienda locale
trasporti e riflettono questioni
nazionali. Cioè? Nel mare magnum di chi si becca una multa
(375mila nel 2010, 295mila
nel 2011) una piccola quota –
pari al 10-12% – è costituita da
chi ha un titolo di viaggio non
corretto (esempio classico: bi-
I
glietto urbano su tratta con capolinea extraurbano), mentre
nell’88% dei casi è rappresentata di persone prive di ticket.
Bene, il problema per Atm
non è tanto comminare la
multa, quanto farsela pagare.
Mediamente l’azienda riesce a
incassare solo il 30% delle
contravvenzioni, parte conciliata sul posto, parte perseguendo i portoghesi nel lungo
periodo. Ma ciò non evita che
molti si possano permettere di
non pagare mai.
Perché? Qui torniamo alle
questioni nazionali. La maggior parte dei contravventori
sono stranieri (l’89% del totale
secondo le stime del 2009, le
ultime disponibili) che o forniscono false identità (nell’88%
dei casi) o si rendono irreperibili (nel restante 12% dei casi).
Tra il 2009 e il 2010 su
190mila persone multate che
avevano dichiarato di essere
residenti a Milano, solo il 20%
diceva il vero, mentre l’80%
non risultava all’anagrafe del
comune meneghino. Il punto,
NEL MONDO:
allora, è che la debolezza di
Atm dipende dalle politiche sui
flussi migratori. La questione
si innesta su un altro problema,
relativo ai poteri dei controllori: mentre in alcuni paesi gli
ispettori hanno la potestà di
trattenere in stato di fermo se
non di arresto i contravventori
fino al loro riconoscimento, in
Italia non possono fare altro
che spiccare verbali.
Atm ha però pronte le prime
contromisure, alcune già concordate con la giunta Pisapia,
altre ancora da definire. Innanzitutto continueranno gli investimenti sull’informatizzazione
dei controlli, in corso dal 2007.
“Atm Lab”, la direzione dedicata dell’azienda, ha dotato i
152 controllori di palmari collegati ad un server centrale capace di immagazzinare ed
elaborare in tempo reale i dati
rilevati.
Londra, 50£ contro i furbi
Parigi, 620 gli ispettori
New York, c’è l’arresto
All’ombra del Big Ben
sono 285 gli ispettori. Dotati di palmari, comminano multe pari a 50
sterline (scontate del 50%
per chi paga subito). Il
tasso di evasione è dell’8%: nel 32% dei casi si
tratta di persone prive di
biglietto, nell’88% con
ticket non corretto
Nella capitale francese
sono 620 i controllori, con
il potere di trattenere in
stato di fermo i trasgressori. Il tasso di evasione è
dell’8,9%: il 13% delle
multe è per chi ha il biglietto sbagliato, l’87% a
chi non lo ha proprio. La
sanzione è di 40 euro, 22
se si concilia subito
Nella Grande Mela la
multa vale 160 dollari e
non prevede sconto. I
controllori, per di più,
hanno la facoltà di arrestare i portoghesi. Quelli
che non pagano rappresentano l’8,6% dei viaggiatori: il 64% non ha il
ticket idoneo, il 36% ne
è sprovvisto
Questi portatili diverranno a
breve in grado di leggere la
carta regionale dei servizi e il
nuovo tesserino magnetico del
permesso di soggiorno, così da
verificare sul posto la veridicità dei documenti presentati
dai contravventori.
Infine saranno anche dotati
di Pos (ovvero centralina per il
pagamento con bancomat,
carta di credito o prepagata), in
modo da facilitare la vita a chi
volesse conciliare subito.
Altra determinazione dell’azienda è quella di incidere
sulle abitudini stesse dei milanesi. Dal momento che i trasporti di superficie conoscono i
tassi più alti di evasione (prossimi al 12%), l’ipotesi al vaglio
(ora in fase sperimentale sulla
linea 31 Cinisello – piazzale
Lagosta) è quella di imporre un
nuovo modo di fruizione di autobus e tram: ingresso obbligato da una sola porta, tornello
“leggero” collegato a una
mini-sirena in caso di biglietto
errato o forzature, porte dedicate alla sola discesa dei passeggeri. Per quanto riguarda le
linee metropolitane, l’idea invece è quella di sistemare tornelli all’uscita dove obliterare
una seconda volta il ticket a
fine viaggio.
LAB Iulm
PRIMO PIANO
IL CASO/1:
Pagina 17
Dagli Indignados a “nun te pago”
un te pago!”.
Può capitare di
sentirlo urlare,
rivolto al personale Atm,
nelle stazioni del metrò da
chi ha appena scavalcato i
tornelli. Non è la provocazione di un esagitato né una
sbruffonata. E’ una rivendicazione.“Nun te pago”, questo lo slogan e il nome di un
movimento informale di disobbedienza fiscale che invita a non pagare il biglietto
per il trasporto pubblico.
Non nella maniera intima
del portoghese, ma ostentando la propria condotta.
Non vidimare il biglietto
è un’infrazione dal valore
materiale relativo, ma, nelle
intenzioni dei promotori
della protesta, dall’ampio
portato simbolico. Perché
così si vuole così individuare per il cittadino, in una
“N
L’INTERVISTA
Spagna, scene di
disobbedienza fiscale
stagione di crisi e taglio ai
servizi, una nuova modalità
di rivendicazione rispetto all’amministra la cosa pubblica.
Hanno portato a Milano
questa protesta di origine
straniera gruppi vicini al comitato No-Expo. Ad oggi la
pratica è ancora marginale e
affidata all’intraprendenza
dei singoli. Nell’area delle
stazioni della metro e delle
fermate degli autobus vengono lasciati adesivi per sensibilizzare un pubblico più
vasto.
A far scattare la scintilla
l’innalzamento tariffario dei
biglietti ordinari (saliti ad
1,50 per le tratte urbane e a
1,90 per quelle extraurbane), ma più in generale
c’è la volontà, da parte dei
movimenti, di far sentire la
propria pressione in vista
“delle trasformazioni urbanistiche, e quindi ai sistemi
di trasporto pubblico, che si
prevedono entro il 2015”.
Nato in Grecia nel 2011
quando, contro l’aumento
dei pedaggi autostradali,
cittadini bloccarono i caselli
permettendo alle auto in
transito di oltrepassarli gratuitamente, Nun te pago ha
poi attecchito nella Spagna
dei “recortes”, dove nelle
grandi città gli indignados
hanno esteso la pratica
anche ad autobus e metropolitana.
(RP)
FABIO MOSCONI, RESPONSABILE SOSTA, PARCHEGGI E RAPPORTO CLIENTI ATM
Per combattere i “portoghesi”, puntiamo sugli abbonati
A breve multe meno salate e scaglionate in base al tipo di infrazione. Ok dai vertici dell’azienda e da Palazzo Marino
l “comandante” dei 152
controllori ci accoglie in
Foro Buonaparte nella
sede di Atm. Lui è Fabio Mosconi, responsabile sosta, parcheggi e rapporto clienti
dell’azienda, nonché deus ex
machina delle contravvenzioni sui mezzi di trasporto
pubblici di Milano.
Si tratta di un ruolo non secondario vista la quantità di
multe comminate nel corso
degli ultimi anni (295 mila
nel 2011) e la difficoltà a
farle pagare ad alcune tipologie di clienti, in particolare
gli immigrati che forniscono
generalità fasulle e non sono
più rintracciabili.
Quanto pagano di multa
attualmente i trasgressori e
quanti effettivamente pagano?
«Oggi il sistema delle sanzioni è ‘monovalore’, nel
senso che la sanzione è di
centocinquanta euro ridotti di
un terzo se la conciliazione è
immediata o il pagamento avviene entro i 60 giorni.
Mediamente nel 2010 sono
state spiccate più di un migliaio di multe al giorno, nel
complesso 375 mila per un
importo pari a 5,6 milioni di
euro. Di queste, solo il 12% è
stata pagata sul momento».
E le altre?
«Nel resto dei casi solo il
30% dei passeggeri abusivi
ha pagato nei termini previsti.
Il restante 70% non ha sanato
la sua posizione.
Gran parte di chi non si
mette in regola entro due
mesi non lo fa quindi nemmeno in seguito.
Ciò è probabilmente
dovuto al fatto che il trasgressore non ha nessuna
convenienza a tirare fuori i
I
soldi subito.
Per questo motivo il Consiglio d’Amministrazione di
Atm, con l’ok della giunta comunale, ha approvato una
nuova struttura delle sanzioni».
“
Quando entrerà effettivamente in vigore?
«Tra qualche settimana,
prima dell’estate».
Come funzionerà questo
sistema?
«Verrà diminuito il valore
della sanzione: sarà pari a circa
45 euro (meno della metà ri-
spetto a prima) con pagamento
immediato, a sessantacinque
euro con versamento entro i 60
giorni, a centocinquanta euro
dopo.
In tal modo vogliamo indurre i viaggiatori ad avere un
vantaggio nel pagare immediatamente. Venti euro in tempi di
Fabio Mosconi
Dell’ispettore
si percepisce solo
il lato punitivo,
ma la sua è una
funzione civica
IL CASO/2:
“
Giorgio Meroni
Assago: ingressi gratis dall’uscita di sicurezza
’uscita di sicurezza si
trasforma nel varco dei
‘furbetti’. Il luogo del
fattaccio è la stazione Assago Forum (linea verde),
dove lo scorso febbraio (ma
il fenomeno andava avanti da
tempo), attraverso la porta
d’emergenza, migliaia di
passeggeri sbucavano dal
piazzale dei bus direttamente
sul piano dei binari.
Senza pagare il biglietto
prendevano la metro, indisturbati. Di tornelli, telecamere e personale nemmeno
l’ombra. Atm è corsa ai ripari con il presidio del varco
e le conseguenti sanzioni ai
trasgressori.
“Nel progetto, da parte dei
L
L’uscita di sicurezza
presa di mira dai “furbetti”
costruttori, è stato sottovalutato il movimento dei passeggeri. Ma ora le uscite di
sicurezza non si possono chiudere” dichiara Fabio Mosconi.
La soluzione? “Installeremo
tornelli, obbligando i clienti a
timbrare. E’ un problema di
struttura risolvibile. I colleghi
sono già al lavoro. Il nodo è
il reperimento delle risorse (si
parla di 150-200 mila euro
ndr)”.
Episodi analoghi a quanto
sembra non si sono verificati
in altre fermate. “Anche ad
Assago Milanofiori c’è
un’uscita simile ma porta nel
nulla e quindi non attrae l’attenzione e non è sfruttata”
conclude Mosconi.
Rimane il danno per
l’azienda. Da febbraio 2011
sono partite da Assago almeno un milione e mezzo di
persone: sono andati persi,
pare, centinaia di migliaia di
euro.
(GM)
crisi possono contare molto.
Inoltre sarà differente il trattamento in funzione dei tipi di
infrazione: un abbonato che dimentica la tessera a casa non
deve pagare la stessa cifra del
passeggero sprovvisto di biglietto e soprattutto deve essere un cliente ‘privilegiato’.
In sostanza sborsare meno denaro».
Quanto esattamente?
«Ci stiamo ancora ragionando».
“Essere abbonati conviene” potrebbe essere
quindi il vostro slogan?
«Certamente sì. La nostra
volontà è proprio di preservarli
e creare con loro un rapporto di
vicinanza.
Le tariffe degli abbonamenti, a fronte dell’aumento
dei biglietti singoli avvenuto il
settembre scorso, sono rimasti
invariati proprio per far crescere il numero complessivo
degli abbonati».
I dati vi stanno dando ragione?
«Abbiamo registrato un
30% in più in media di sottoscrizioni mensili e annuali a
gennaio, il che testimonia una
forte tendenza alla fidelizzazione al servizio di trasporto
pubblico Atm con un conseguente aumento dei ricavi
(+25% a gennaio, pari ad un
incremento di 4.4 milioni di
euro in confronto ad un anno
fa).
Sono invece in flessione i
‘titoli occasionali’, come i biglietti singoli, diminuiti del
9%, proprio come era nelle intenzioni dell’azienda.Questi
numeri, a mio modo di vedere,
testimoniano
l’apprezzamento per i nuovi sistemi attivati dall’azienda per facilitare
agli utenti la sottoscrizione e il
rinnovo delle tessere (sito internet, bancomat e parcometri)».
Una borsa
Pagina 18
ECONOMIA
LAB Iulm
piccola
piccola
Piazza Affari vale solo il 20% del Pil
italiano, una capitalizzazione
tra le più basse in Europa. Perchè?
E’ soprattutto un problema di famiglia
Valentina Casciaroli
iù che una Borsa, una
pochette. E’ questo il
dato forte che emerge
dal Review annuale della
Borsa italiana. Piazza Affari
scivola al ventesimo posto per
capitalizzazione: vale solo
333,3 miliardi di euro, pari al
20,7% del Pil. Una percentuale
tra le più basse all’interno dei
paesi OCSE e inferiore anche
a buona parte dei paesi in via
di sviluppo. Perché il sistema
produttivo italiano è allergico
al mercato azionario? Iniziamo
dal politologo statunitense Edward Banfield e dal suo tanto
citato “familismo amorale”. Il
Sistema Italia si basa su
aziende di famiglia, grandi,
piccole o medie. Buona parte
delle esperienze imprenditoriali italiane nascono dal genio
di un capofamiglia e si nutrono
di quell’energia, quella pas-
P
IL TREND
sione e quell’affiatamento che
solo le mura sicure della famiglia possono offrire. Esse crescono poi lungo quella serie di
relazioni personali che dalla
famiglia arrivano alla parrocchia, alla comunità cittadina.
Ecco allora i distretti italiani,
croce e delizia del Belpaese.
Una miriade di piccole, medie
e grandi imprese sospese tra
competizione e cooperazione.
Tutti si conoscono nel distretto, ci si può fidare. Le banche concedono mutuo e
finanziamento a coloro che ne
sono degni, mentre il debito
aumenta. Milano con la sua
Piazza Affari è lontana. Lì non
si conosce nessuno. E poi, raccogliere capitali attraverso una
quotazione in borsa vuol dire
cedere sovranità. Investitori
esterni avranno qualcosa da
dire sull’operato dell’azienda
perché ne saranno in parte proprietari. Meglio dunque au-
mentare il debito piuttosto che
raccogliere altro capitale e
dover dividere decisioni, oneri
e onori. Tuttavia, anche le imprese che divengono SPA
hanno qualche difficoltà ad abbandonare la vecchia governance. Se nel resto del mondo
il management è spesso espressione dell’azionariato diffuso,
in Italia gli investitori non
hanno alcun potere decisionale
poiché le attività dirigenziali
sono, salvo eccezioni, legate
esclusivamente alla cerchia familiare. Al punto da ridurre le
assemblee degli azionisti a
vuoti rituali.Vi è poi la questione dell’educazione finanziaria degli italiani, tra le più
basse in Europa. La finanza è
un mondo che gli italiani non
conoscono e di cui non si fidano. A nostra discolpa c’è da
dire che casi come Parmalat e
Cirio non hanno aiutato gli italiani a fidarsi della finanza.
Piazza Affari, su cui campeggia il famoso “dito” di Cattelan
Dunque l’Italia ha deciso di
fare a meno di Piazza Affari.
Potrà andare avanti? In fondo
le imprese sembravano aver
trovato quel delicato equilibrio
che le ha permesso di mantenere la proprietà dei propri
asset, indebitarsi, esprimere il
proprio genio e esportare intutto il mondo. Ma la crisi economica ha influenzato molto
Economia mondiale: è iniziata la corsa al capitale
questo scenario: nel 2001 la
piazza milanese era ottava al
mondo con una capitalizzazione di 593 miliardi, pari al
50% del Pil dell’epoca. Nei
quasi dieci anni tra la fine del
2001 e il giugno del 2011, i miliardi sfumati nella borsa italiana sono stati circa 234, con
una riduzione della capitalizzazione del 26,4%. Secondo i
Il credit crunch colpisce sopratutto le aziende indebitate come quelle italiane
Negli scorsi anni si è tanto parlato di corsa all’indebitamento,
dunque ora non dovremmo stupirci di essere nel bel mezzo
della peggiore crisi da sovra-debito dal 1929. Secondo il
McKinsey Institute i prossimi anni passeranno invece alla storia per la corsa al capitale: banche e imprese, per sopravvivere, dovranno rafforzare la propria struttura patrimoniale con
abbondanti iniezioni di denaro. Secondo la società di consulenza entro il 2020 le aziende di tutto il mondo avranno bisogno di 37.400 miliardi di dollari di nuovo capitale. Tuttavia,
sempre secondo i dati diffusi dalla società americana, nei prossimi anni si investirà meno in borsa. Le azioni sono il capitale
dell’azienda quotata: se c’è meno appetito, il loro valore
scende e, proporzionalmente, aumenta la necessità di capitale.
Gli istituti di credito hanno già aperto la caccia, le imprese
non tarderanno a farlo. Dunque, banche e aziende in questa
corsa alla ricapitalizzazione si pesteranno i piedi le une con le
altre.Svantaggiato sarà soprattutto chi parte da una situazione
patrimoniale più fragile: poco capitale e molti debiti, come le
aziende italiane. Le imprese della penisola hanno infatti da
sempre avuto la tendenza a finanziare le proprie attività con il
ricorso al debito piuttosto che con aumenti di capitale, più co-
La borsa di Wall Street
stosi nel breve termine ma garanti di solidità nel lungo periodo. E i problemi non finiscono qui: la struttura del debito
delle aziende italiane rende il nostro sistema particolarmente
fragile e poco appetibile in questo momento. Calcola Bnp Paribas che in Italia le aziende si indebitano al 91% attraverso il
canale bancario e solo al 9% attraverso il mercato obbligazionario. Questo espone le aziende italiane agli umori delle
banche. E ora, ciò, è diventato un problema. Se finora le imprese della penisola avevano beneficiato della loro scarsa affezione per il mondo della finanza, poiché questo le aveva
messe al riparo dal continuo sali-scendi del mercato azionario
e dai capricci delle agenzie di rating, adesso iniziano i guai.
Con la stretta del credito, il famigerato credit crunch, che si fa
sempre più tangibile l’Italia non può che partire svantaggiata
nella corsa al capitale. Riuscirà la crisi economica a tagliare
il cordone ombelicale che persiste tra banche e imprese italiane? Certo è che occorre mettere mano al portafogli e ricapitalizzare. I capitali, però, mancano, e allora bisognerà
cercarli altrove. Perché l’importante, al di là del mezzo, è sottoporre le imprese in sofferenza a iniezioni di capitale.
Insomma, ricapitalizzi chi può.
LAB Iulm
ECONOMIA
Rapporto capitalizzazione Borsa di Milano- Pil italiano
Pagina 19
I CASI
E l’Italia fece crack
TangoBond,CirioeParmalat:lasfiduciainiziaprimadel2008
e imprese non sono le uniche ad avere scarso appeal per
Piazza Affari. Anche un altro soggetto economico, i risparmiatori, sono pervasi da una sfiducia generalizzata.
Stavolta la crisi economica non c’entra. E’ successo tutto
molto prima del 2008. In soli tre anni tre crack finanziari si
sono susseguiti.
L
Mai così in basso dal 1996. Come si vede dal grafico, Piazza Affari non scende sotto quota 21% da 16
anni. Il record positivo si registra invece nel 2000, quando la Borsa di Milano arriva a capitalizzare una
cifra pari al 68,7% del Pil italiano.
Rapporto capitalizzazione- Pil di Paesi Ocse ed emergenti
TANGO BOND
Era il 2001 quando l’Argentina, per arginare la crisi che l’aveva
investita, decise che i miliardi di obbligazioni collocati in giro
per il mondo dovevano diventare carta straccia.
Oltre la beffa, il ricatto: o i risparmiatori prendevano i Tango
Bond, con durate lunghissime e
interessi bassissimi, o si tenevano i titoli infruttiferi.
In ogni caso la perdita del valore dei titoli sfiorava il 70%.
Poi dicono che i titoli di Stato
sono investimenti sicuri!
CIRIO
Dal grafico emerge la forte capitalizzazione delle borse dei paesi emergenti, mentre nei paesi OCSE la
finanza ricopre un ruolo sempre più marginale. Il Brasile, con il suo 64% sta per raggiungere gli USA,
fermi a quota 86,70%. Il Sudafrica si attesta a quota 87,20% superando di gran lunga il 72,80% della Spagna, mentre la Russia degli oligarchi sfiora quota 207%.
calcoli di Wall Street Italia la
Borsa di Milano ha oggi una
capitalizzazione complessiva
inferiore a quella di appena
due società americane: Apple
ed Exxon, che insieme capitalizzano a Wall Street 755 miliardi di dollari, pari a 531
miliardi di euro. Tutti questi
dati cosa hanno a che fare con
l’economia reale? Molto più di
quanto possiamo pensare. Un
mercato azionario piccolo in
rapporto all’economia del
Paese contribuisce in maniera
marginale alla crescita della
nazione e al rafforzamento
delle imprese. Un sistema finanziario sviluppato ed efficiente è un volano necessario
per la crescita di un paese. Solo
gli investitori finanziari hanno
la liquidità per finanziare progetti di sviluppo ampi e di
lungo termine. Negli ultimi
venti anni l’Italia non è cresciuta, ha investito poco in ricerca e in formazione del
capitale umano, non ha saputo
integrare i giovani nel sistema
lavorativo. Si può incolpare la
classe politica o gli evasori fiscali , ma indubbiamente in
tutto ciò un ruolo fondamen-
LA STORIA
Ilfrancobollodedicato al
bicentenariodellaborsaitaliana
-1808: viene istituita la
“Borsa di Commercio” di
Milano, con decreto del vicerè Eugenio Bonaparte.
-1932: viene inaugurato Palazzo Mezzanotte, tutt’ora
sede della Borsa.
-1996: un decreto legislativo prevede l'avvio di una
procedura di privatizzazione della Borsa italiana,
che porta alla nascita di
Borsa Italiana S.p.A.
-1997: la Borsa Italiana accorpa e sostituisce tutte le
piazze di scambio minori,
che svolgevano una funzione regionale, come ad
esempio la Borsa Valori di
Roma.
-2007:la Borsa Italiana si
fonde con la Borsa di
Londra andando a creare il
London Stock Exchange
group.
tale lo ha svolto l’assenza di un
sistema finanziario degno di un
paese industrializzato. Quando
un paese raggiunge un certo livello di sviluppo, l’ulteriore
crescita può avvenire solo puntando su attività che difficilmente
possono
essere
finanziate con debito.
Le aziende piccole e poco capitalizzate non effettuano ricerca,
non
possono
permettersi di pagare personale
altamente qualificato. Ecco
dunque che restano isolate nel
microcosmo dei distretti, dove
neanche il merito viene premiato a pieno perché è importante assumere persone fidate
prim’ancora che qualificate.
Poi c’è l’arena globale, quella
in cui i pesci piccoli, soprattutto se macinano utili, vengono inghiottiti da quelli
grandi.
Gucci,
Bulgari,
Brioni… solo alcuni dei gioielli italiani finiti oltralpe. Se le
imprese italiane continueranno
a rifugiarsi nelle mura amiche
dei distretti e a finanziarsi con
le risorse famigliari e il debito
bancario, l’Italia non riuscirà
mai a fronteggiare le sfide
poste della globalizzazione.
Il crack della Cirio risale al
2003, ed ha tutta la fisionomia
di un disastro annunciato.
I finanziamenti bancari passano dal 94% dei debiti verso
terzi del 1999 al 28% del 2002,
mentre le obbligazioni avanSergio Cragnotti
zano dal 6 al 72%. I Bond nel
Amministratore Unico Cirio.
2002, in sostanza, hanno
sostituito il debito bancario
finendo nel portafoglio di circa 35 mila piccoli risparmiatori.
Questi Bond erano originariamente stati emessi in Lussemburgo
con titoli riservati ad investitori istituzionali (ovvero le stesse
banche). Dunque, non avrebbero potuto essere venduti allo sportello attraverso una sollecitazione al pubblico risparmio, ma solo
su eventuale esplicita richiesta dei clienti.
Tuttavia questi titoli sono passati, per gran parte, dalle banche
ai piccoli risparmiatori.
Gli istituti di credito hanno fatto ciò perché sapevano che il
gruppo Cirio era sull’orlo del fallimento?
Sarà il tribunale a stabilirlo. La sentenza di I grado è arrivata il
4 luglio 2011: le banche sono state riconosciute responsabili e
Geronzi, ad di Unicredit all’epoca dei fatti, è stato condannato
a 4 anni di reclusione.
PARMALAT
Il caso Parmalat arriva subito
dopo quello Cirio, che aveva
già profondamente minato la fiducia nei confronti del sistema
finanziario e creditizio del nostro paese. Il crack Cirio, c’è
però da dire, risultò di proporzioni decisamente più piccole.
Parmalat, infatti, era l’ottavo
gruppo industriale italiano per
fatturato, era presente in 30 di
versi paesi e in tutti e cinque i
continenti. Nonostante la sua
Calisto Tanzi
struttura globale, Parmalat tutAd Parmalat
tavia è sempre rimasta un
gruppo a conduzione familiare.
La società contava su tanti piccoli azionisti, mentre mancavano
altri rilevanti soci industriali che avrebbero garantito una maggiore dialettica imprenditoriale.
La famiglia non è mai voluta scendere sotto il 51%, la struttura
di governo dell’azienda ha sempre mantenuto un vertice inaccessibile. E’ il dicembre 2003 quando si scopre che il buco della
Parmalat è di 14 miliardi di euro, pari all’1% del Pil italiano.
Due miliardi di euro di obbligazioni erano state sottoscritte da
piccoli risparmiatori.
Il fallimento della Parmalat è costato l’azzeramento degli investimenti dei piccoli azionisti, mentre i risparmiatori che hanno
acquistato bond hanno ricevuto solo un parziale risarcimento.
Una grande banca americana, la Citigroup, ha caldeggiato l’acquisto di bond ai risparmiatori fino a pochi giorni prima del
crack.
Incredibile fu anche il ritardo con cui Standard&Poors ha declassato la Parmalat: praticamente quando il dissesto era già ampliamente manifesto.
Viene da chiedersi: dov’erano in quegli anni le agenzie di rating?
Hanno sbagliato.
Potrebbero farlo di nuovo. (vcc)
Unioni
all’italiana
Pagina 20
SOCIETA’
LAB Iulm
Sono sempre più
i Comuni che ricorrono
ai registri
delle coppie di fatto.
A Milano Pisapia
lo ha promesso
entro il 2012.
Ma a cosa servono
senza una legge nazionale?
Silvia Egiziano
ra il 27 giugno del 1992
quando dieci coppie,
nove di uomini e una di
donne, celebrarono a Milano,
in Piazza della Scala, il primo
matrimonio gay simbolico
d’Italia. A officiare le nozze
davanti a Palazzo Marino, la
sede Comune, fu Paolo Hutter,
primo consigliere comunale
milanese a dichiararsi gay. Più
che un vero e proprio matrimonio, i manifestanti chiedevano una legge che ne
riconoscesse la parità di diritti
e l’uguaglianza rispetto agli
altri cittadini, degna di un
paese europeo, avanzato e “civile”. A distanza di vent’anni,
cosa è cambiato nel nostro
paese? In concreto niente, se si
esclude il debole tentativo del
governo Prodi di introdurre i
“Dico” sul modello dei Pacs
francesi. Un tema spinoso
quello delle coppie di fatto,
cancellato dall’agenda dai governi Berlusconi e che neanche
l’esecutivo Monti sembra
avere intenzione di affrontare,
nonostante la recentissima sentenza della Corte di Cassazione
che, accogliendo il ricorso di
una coppia gay sposata in
Olanda, ha riconosciuto alle
unioni omosessuali gli stessi
diritti delle famiglie fondate
sul matrimonio.
Se in Italia si continua a discutere sulla nozione di “famiglia”, la tendenza in Europa
sembra invece ormai chiara.
La maggior parte dei paesi riconosce diritti alle coppie di
fatto e ben sette, ai quali a giugno si andrà ad aggiungere la
Gran Bretagna, hanno adottato
le nozze omosessuali. Una tendenza sancita di anche dal Parlamento
di
Strasburgo,
secondo cui gli stati membri
non devono dare “definizioni
restrittive di famiglia allo
E
scopo di negare protezione alle
coppie gay e ai loro figli”,
dando così il via libera, in linea
di principio, al matrimonio
omosessuale. Posizione che ha
scatenato un acceso dibattito
sia a destra che a sinistra. E
mentre la politica si divide, i
Scola:
“Non possono
essere i sindaci
a decidere
sulle coppie
di fatto”
problemi delle coppie di fatto
restano e, in mancanza di una
legge nazionale, sono crirca 60
le città italiane che hanno adottato i registri delle “unioni civili”, grazie ai quali anche le
LA STORIA
coppie non sposate, etero o gay
che siano, possono accedere ad
alcuni diritti e agevolazioni altrimenti riservati alle coppie
sposate. Ultima, in ordine di
adozione, è Napoli, dove il sindaco De Magistris lo aveva
promesso in campagna elettorale.
Anche a Milano Giuliano
Pisapia aveva fatto delle unioni
civili uno dei punti cardine del
suo programma, ma qui le cose
appaiono più complicate. Ad
aggravare le già note divisioni
del centrosinistra, qui a rallentare l’iter del registro, promesso dal sindaco entro il
2012, c’è anche l’imminente
visita di Papa Benedetto XVI,
che dall’uno al tre giugno sarà
a Milano in occasione del
Forum mondiale delle famiglie. Il banco di prova per il fu-
turo registro è stato l’estensione del fondo anticrisi alle
coppie di fatto, anche dello
stesso sesso, approvato a gennaio scorso dalla giunta. Il
provvedimento, fortemente difeso dall’assessore alle Politiche sociali Pierfrancesco
Majorino e prontamente bollato come “anticostituzionale”
dall’Avvenire, ha fatto emergere molti mal di pancia non
solo nell’opposizione, ma
anche all’interno dell’area cattolica del Pd, che ha accusato
la giunta di aver scavalcato il
consiglio comunale. Tra le
prime a prendere le distanze
dall’iniziativa, condannando la
fuga in avanti della giunta, è
stata la consigliera del Pd Marilisa D’Amico, presidente
della commissione Affari istituzionali a Palazzo Marino.
Niente di strano, se non fosse
che la stessa D’Amico, a metà
febbraio, con una mossa a sorpresa ha annunciato il deposito
in Consiglio della delibera istitutiva del registro delle unioni
civili, primo passo per una discussione in aula che, nelle sue
Majorino:
“Sulla delibera
andremo
avanti”. Prevista
l’approvazione
a settembre
intenzioni, sarebbe dovuta avvenire in estate, solo dopo l’approvazione del Pgt e del
bilancio. Il testo, ispirato al
modello di Torino, definisce le
unioni civili come “un insieme
“Convivivo da 20 anni, ora chiedo diritti”
Le aspettative di Marco, omosessuale milanese in attesa che il Comune approvi le unioni civili
arà anche solo per il
suo valore simbolico, ma quando
sarà approvato il registro delle
unioni civili io mi ci iscriverò
subito”. Non ha dubbi, Marco.
“In Italia siamo al grado zero
in merito ai diritti civili – aggiunge – quindi non possiamo
dare niente per scontato: questo è un primo passo, e in
quanto tale è importante. Poi
non posso che essere lieto dell’attenzione che il Comune di
Milano sta rivolgendo a questa tematica. Dopo venti anni
di medioevo, direi”.
Marco ha circa 45 anni. La
sua non è una storia eccezionale: nato a Brescia, trasferitosi a Milano da ragazzo,
lavora presso un’azienda informatica ed è il “deputy director”
(vicedirettore,
“S
diremmo noi) di Parks, associazione no-profit di imprese
che tutelano e promuovono al
loro interno la diversità sessuale. Il compagno di Marco
ha qualche anno in più ed è
medico. Convivono da 17 anni
e costituiscono una famiglia
arcobaleno, dal momento che
insieme crescono figli avuti da
precedenti relazioni.
Proprio perché non eccezionale, la voce di Marco rappresenta un campione interessante
di chi, il giorno in cui il comune di Milano approverà –
eventualmente – la delibera
sulle unioni civili, di questo registro potrà giovarsi.
Se gli si fa notare che il registro già esiste in oltre 60 comuni italiani, ma in molti di
questi non ha riscosso grande
successo, la determinazione di
Marco non diminuisce. C’è chi
dice che una delle debolezze
delle unioni civili è che non
preveda un rituale pubblico,
ma tutto si risolve in una domanda e in una marca da bollo,
lo sapevi? “Che c’entra – risponde – . Non è il matrimonio, non c’è enfasi, non c’è
riso da lanciare e non c’è marcia nuziale. Non può neanche
essere equiparato a qualcosa di
simile a un matrimonio. Ma
dobbiamo essere pratici e concreti – puntualizza –: stiamo
parlando di uno strumento che
riconosce alle coppie, anche
omosessuali, diritti e doveri. E
i diritti sono la cosa più importante”.
C’è chi adombra il sospetto
che in alcuni contesti (magari
non a Milano, ma in città più
piccole sì) al registro delle
unioni civili non si è iscritto
nessuno perché è difficile fare
outing.
Forse la società italiana non
è pronta? “Sciocchezze – taglia corto Marco – la società
civile è prontissima. Anzi,
malgrado tutto, è molto più
avanti di quanto la classe politica locale e nazionale la voglia rappresentare. Fosse per
loro, saremmo fermi agli anni
’50 e nel codice penale
avremmo ancora l’attenuante
del delitto d’onore”. (RP)
LAB Iulm
SOCIETA’
L’INTERVISTA
Pagina 21
IVAN SCALFAROTTO, VICEPRESIDENTE NAZIONALE PD
“In nessun paese un ritardo come il nostro”
Parla il dirigente democratico, dai Comuni lo stimolo perché l’Italia introduca i matrimoni gay
Q
di persone legate da vincoli affettivi coabitanti e aventi dimora abituale nello stesso
comune”. Il registro sarà istituito all’anagrafe, che rilascerà
ai richiedenti un attestato di famiglia anagrafica “basata su un
vincolo affettivo, inteso come
reciproca assistenza morale e
materiale”. In concreto, l’articolo sul sostegno alle unioni
civili prevede la possibilità di
accedere alle graduatorie per
l’assegnazione delle case popolari e ai contributi per l’affitto o per il mutuo. Particolare
attenzione sarà data alle situazioni di svantaggio economico
e sociale. Previste agevolazioni
anche per la sanità comunale,
lo sport e il tempo libero, i servizi Atm, la scuola e l’assistenza sanitaria ai conviventi
in caso di malattia. L’iniziativa
ha scatenato vero un vespaio di
polemiche soprattutto all’interno della maggioranza che
sostiene il sindaco Pisapia, da
Sel all’area cattolica del Pd.
Risultato:
provvedimento
“congelato” a data da destinarsi. Un'ipotesi, adesso, è che
possa essere presentato in
estate, in una data simbolica
come quella del Gay Pride nazionale, per essere approvato a
settembre. Nel frattempo, a
frenare il progetto della giunta
è arrivato anche il monito dell’arcivescovo Angelo Scola.
“Non possono essere i sindaci
a decidere sulle coppie di fatto
- ha sottolineato Scola in
un’intervista a Famiglia Cristiana - operazioni di questo
tipo possiedono una preoccupante connotazione ideologica”. “Massimo rispetto per
Scola,
ma noi andremo
avanti” ha invece confermato
Majorino. I tempi sono quindi
destinati a dilatarsi, ma da più
parti, assicurano, il registro si
farà. Nella speranza che Milano, oltre che arancione, possa
essere sempre più arcobaleno.
ualcosa in Europa si
muove. Tra qualche
mese le coppie omosessuali inglesi potranno sposarsi legalmente, come è già
possibile in Spagna e Danimarca.
Ma, mentre Londra prepara i confetti arcobaleno, in
Italia si discute ancora la definizione di amore. La situazione italiana non è cambiata
di tanto negli ultimi 20 anni,
anzi il nostro paese è rimasto
dov’era, al punto zero.
Ce lo spiega Ivan Scalfarotto, vicepresidente nazionale del Partito Democratico
e autore del libro di denuncia
“In nessun paese”, che racconta cosa succede all’estero
mentre da noi i diritti degli
omosessuali sono ancora
tabù.
«La tragedia è che il resto
del mondo si è mosso, e moltissimo. Tutti i paesi con i
quali ci confrontiamo abitualmente si sono dati delle leggi
molto avanzate. Se la mettiamo in questi termini, la
stasi italiana è addirittura vergognosa».
Perché da noi è ancora
così difficile parlare non
solo di matrimonio ma
anche di unioni civili?
«Credo che ci sia una serie
il Pd non è così compatto.
di cause concorrenti.
Sicuramente dobbiamo fare Non crede che questo influii conti con una certa pavidità sca sulle scelte legislative?
«Non è una questione di dedella politica italiana che per
ragioni di consenso elettorale stra o sinistra. Semplicemente
rinuncia a fare ciò che sarebbe ci sono delle volte in cui la pogiusto. E non dobbiamo di- litica tiene la schiena dritta e
menticare
l’opposizione volte in cui non lo fa. Quando
estrema della Chiesa Cattolica venne approvata la riforma del
diritto di
che ha cofamiglia,
struito
nel 1975,
una trinla classe
cea invalidirigente
cabile».
italiana
Eppure
ebbe la cain altri
pacità di
paesi catprendere
tolici,
delle posicome la
z i o n i
Spagna,
Ivan Scalfarotto anche scosi è rium o d e .
sciti
a
Oggi non
istituzioOggi la politica
riusciamo
nalizzare
non
ha
più
il
coraggio
a farlo e
il matridi innovare e di tenere paghiamo
monio
un prezzo
omosesla schiena dritta
m o l t o
suale.
alto».
Non crede
Pisapia
che questa sia un’anomalia tutta ita- ha dichiarato che entro
l’anno Milano si doterà di un
liana?
«Il condizionamento della registro per le unioni civili. Il
Chiesa nel nostro paese è sicu- Pd appoggia questa iniziaramente agevolato da una poli- tiva?
«Beh, credo di sì, in fondo
tica che è troppo ricettiva, che
spesso non riesce ad imporsi». era nel programma di Pisapia
Se la Spagna può vantare quando si è presentato alle eleuna coalizione di centro-sini- zioni».
Ma il Pd è coeso sull’argostra piuttosto coesa, in Italia
“
“
Claudia Osmetti
L’ITALIA DEI REGISTRI
PADOVA
Palazzo Moroni
E’ la prima città italiana a istituire l’attestazione di famiglia
anagrafica. Approvata con delibera nel dicembre 2006
(giunta Zanonato). Requisito
per l’accesso al documento è
la dimostrazione della convivenza. Sulle oltre duecento
coppie registrate, il 20 per
cento è rappresentata da quelle
omosessuali.
I comuni che hanno adottato lo strumento sono più
di 60. Ecco i principali:
. ...
..
Torino
NAPOLI
Palazzo San Giacomo
E’ l’ultimo grande comune italiano ad essersi dotato di registro delle unioni civili e certificazione
di famiglia anagrafica. La giunta De Magistris ha
così completato un iter travagliato protrattatosi
durante primo e secondo mandato della Iervolino
(2001-2011). Per sostenere il provvedimento è
nato un comitato di associazioni.
BOLOGNA
Palazzo D’Accursio
Ferrara
Firenze
Pisa
mento?
«Il presidente del partito,
Rosy Bindi, sta elaborando una
linea comune.
Io non credo che il Pd prenderà una posizione sul matrimonio, la maggioranza del
partito è favorevole piuttosto
alla regolamentazione delle
unioni civili. Questo non significa, però, che il Pd non abbia
preso l’iniziativa sui diritti
degli omosessuali. Nel 2006, il
governo Prodi provò a introdurre i DICO, una proposta già
allora insufficiente, ma comunque un primo passo
avanti».
Un registro per le unioni
civili a Milano. Napoli l’ha
appena approvato. Queste
iniziative comunali hanno
senso senza l’appoggio di
una legislazione nazionale?
«Queste iniziative hanno efficacia sul piano simbolico, a
livello di contenuti è ovvio che
non spetta ai comuni legiferare
su questo tipo di cose.
Il significato di queste proposte è per lo più politico. Due
città, due capitali italiane come
Milano e Napoli, si sono schierate di recente per l’uguaglianza e la pienezza dei diritti
di tutti i cittadini e delle loro
famiglie. Effetti pratici purtroppo non ce ne sono, ma sul
piano simbolico è un passaggio
molto importante».
. .
Bari
Se non crea divisioni all’approvazione, non è detto che il
registro non le comporti dopo.
E’ il caso di Bologna, dove il
registro è stato istituito nel
1999 ma la cui utilità è stata recentemente messa in discussione.
Valentina Castaldini, presidente in quota Pdl della commissione affari generali e
costituzionali del comune felsineo, ha denunciato che “in
dodici anni di esistenza neanche una coppia si è iscritta al
registro”.
Secondo Gaia Giuliani,
ricercatrice
presso
l’Università di Bologna
e esperta di questioni di genere,
sono state diverse le debolezze
del registro: “Non ha goduto
della pubblicità che meritava,
non si è creato intorno ad esso
un movimento d’opinione
laico che lo sostenesse e, soprattutto, non risulta davvero
utile”.
A cura di Roberto Procaccini
Pagina 22
IULM NEWS
LAB Iulm
Non ci resta
che ridere
Dal 2 al 4 maggio l’Università
Iulm ospiterà la seconda
edizione dello “Iulm Creative
Happening”. Quest’anno va in
cattedra la satira politica.
Interverranno Luca e Paolo,
Geppi Cucciari e i Soliti Idioti.
Un’occasione per riflettere
sul futuro dell’irriverenza
nell’era della sobrietà
Alessandro Bartolini
’è sempre da divertirsi nell’era della
crisi e della sobrietà
politica? Quali saranno i bersagli della satira adesso che
l’intera classe dirigente del
Paese sembra aver indossato le
vesti della responsabilità?
Adesso che “bisogna abbassare
i toni”. Adesso che le parole
che girano più frequentemente
sulla bocca dei tecnici e dei politici sono: crisi, sacrifici e rigore? Che noia! E pensare a
quanto ci siamo sganasciati
dalle risate in questo decennio.
Ci siamo divertiti come matti;
a memoria d’uomo repubblicano mai una classe politica
aveva divertito così, e anche i
comici hanno avuto gioco facile: alcuni hanno fondato le
loro brillanti carriere prendendo in giro il circo di nani e
ballerine offerto dalla Seconda
Repubblica.
Proprio ora dovremo annoiarci a morte? Oppure qualche
bravo comico riuscirà, in un
modo o nell’altro, ad inventarsi
qualcosa per strapparci due risate anche ora che c’è poco da
scherzare? Insomma, che ne
sarà della nostra cara, vecchia,
C
“
satira politica?
È questo lo spunto di riflessione che dal 2 al 4 Maggio
sarà al centro della rassegna
Iulm Creative Happening, il
Festival multimediale delle
Università e delle Scuole di
Cinema dell’Unione Europea
Il modello di satira
vincente è quello dei
“Soliti Idioti”
perché spingono
all’estremo i vizi del
berlusconismo
ma senza parlare di
politica
”
promosso
dall’Università
IULM. Ma a differenza della
prima edizione, quest’anno, la
manifestazione non utilizzerà
solamente il cinema come
forma espressiva ma tenterà di
I volti de “Gli Sgommati”, il programma di satira politica trasmesso da SkyUno
coinvolgere ogni ambito creativo: spazio dunque alla musica, alla letteratura e alla
fotografia.
Quello che non cambierà rispetto all’edizione passata sarà
il tema fisso come filo conduttore dei lavori presentati dai
partecipanti. Un tema che si
adatta ai tempi che corrono.
Infatti, se l’anno scorso lo
spunto veniva offerto dalla serietà: parola bandita agli onori
delle cronache politiche, in un
Paese che appariva irresponsabilmente spensierato, quest’anno tocca ad uno dei più
antichi generi letterari ma
anche una delle più potenti
forme di linguaggi invisi al potere.
Durante la tre giorni di conferenze e tavole rotonde saranno ospitati veri e proprie
istituzioni del tema. Solo per
fare alcuni nomi: Geppi Cucciari, Luca e Paolo e i “Soliti
Idioti” campioni d’incassi al
botteghino, Francesco Mandelli, alias il Nongio e Fabrizio Biggio oltre che ai
protagonisti di Zelig; senza dimenticare la satira che si sta
muovendo sul web dove i modelli vincenti non mancano,
basta pensare al blog di “Sora
Cesira” o alle battute taglienti
sull’attualità politica create
dalla community del blog
“Spinoza.it”. Ma oltre alla riflessione sulla satira – spiega il
Prof. Gianni Canova, preside
della Facoltà di Comunicazione, relazioni pubbliche e
pubblicità all’Università Iulm
e promotore dell’evento - in
questi tre giorni di full immersion in risate, si presenterà
anche l’occasione per i partecipanti di cimentarsi nelle vesti
di comici.”
Oltre ai workshop gratuiti e
a numero chiuso di otto ore al
giorno con il tema “Scrivere il
comico per…”, organizzati da professionisti
come Umberto Contarello, sceneggiatore di
Nanni Moretti e
Paolo Sorrentino,
sarà organizzato, insieme alla
tv satellitare Comedy Central
in onda su Sky, partner della
manifestazione, un concorso
che vuole essere un momento
di placement: “Costruiremo
una specie di video box spiega Canova – ed ogni
giorno daremo un tema giornalistico e inviteremo
chi lo desiderasse a
registrare
due minuti di
Gianni Canova, preside della Facoltà di Comunicazione,
Relazioni Pubbliche e Pubblicità IULM
LAB Iulm
IULM NEWS
OSSERVATORIO PROFESSIONI
Pagina 23
IL NUOVO INDIRIZZO IULM
Digital marketing
Laureati e imprese
Il gap si può colmare? per professionisti 2.0
Silvia Pagliuca
C
osa fare da grandi:
ecco il grande dilemma
dei neolaureati italiani.
Con un livello di disoccupazione giovanile che tocca
cifre da record, trovare lavoro
subito dopo la laurea rischia di
essere un’impresa sempre più
difficile. Riuscire ad individuare i settori di eccellenza e
le aree professionali in espansione verso le quali indirizzare
i propri laureandi, è la scommessa a cui gli atenei italiani
sono chiamati a rispondere.
A questo scopo è stata
presentata lunedì 16 aprile
presso l’Aula Magna dell’Università IULM la prima “Indagine sulla formazione dei
neolaureati ed esigenze d’impresa”, realizzata dall’Osservatorio sulle professioni
dell’Università IULM.
Analizzare il gap tra sistema
universitario e necessità
d’impresa è il punto centrale di
una ricerca che ha visto impegnate circa 200 grandi aziende
italiane, con la collaborazione
di Fondazione Crui e Centromarca e il patrocinio del
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. L’indagine ha messo in evidenza la
distanza esistente fra le aspettative delle imprese e le competenze dei nuovi laureati.
monologo comico o satirico su
quel tema. A fine giornata
l’ideatore del monologo più divertente vincerà 1.000 euro,
che di questi tempi non sono
zuccherini. Non solo, ma i vincitori vedranno il loro video
pubblicato oltre che sul sito
dell’università Iulm anche su
quello di Comedy Central e
avranno l’opportunità di partecipare ad un provino per questa tv.” Sarà da questo
concorso che spunteranno
fuori i nuovi mattatori della satira che deve trovare nuovi
spunti da una politica terribilmente noiosa? Speriamo, ma
intanto chi, fra gli artisti in circolazione, si adatta meglio a
questa fase di passaggio sia per
la politica che di conseguenza
per la satira?
“Secondo me - dice Canova
– i “Soliti Idioti” offrono un
modello originale: Ruggero e
Gianluca (padre e figlio) incarnano tutti i vizi e i difetti del
berlusconismo,
portandoli
grottescamente all’eccesso ma
senza mai parlare di politica.”
Ma adesso che l’homo berlusconiano sembra che si stia
estinguendo, chi e come saprà
prendere in giro la realtà? Lo
scopriremo solo ridendo.
Digitale ed eco-sostenibilità,
public speaking e problem solving, sono le aree formative
che gli atenei dovranno potenziare. Ad aprire la giornata di
lavori sono stati il Magnifico
Rettore dell'Università IULM,
il Prof. Giovanni Puglisi, e il
presidente di Centromarca,
Luigi Bordoni.
I dati dell'indagine sono stati
oggetto di analisi in una tavola
rotonda che ha coinvolto
numerosi esponenti del mondo
accademico e di quello imprenditoriale tra cui Emanuela
Stefani (Direttore Fondazione
Crui); Alessandro Belleri (Direttore risorse umane CocaCola Hbc Italia); Filippo
Romanini (Direttore Barilla
LAB for Knowledge Innovation) e Cristina Scialino (Direttore risorse umane L'Oréal
Italia). L’Osservatorio pubblicherà un Libro Bianco in cui
saranno riunite le proposte per
avvicinare i neolaureati ai profili professionali più richiesti.
Roberto Procaccini
l marketing aziendale ai
tempi dei social network e
del web 2.0 è cambiato. La
formazione di chi nel marketing opera si è adeguata ai
nuovi strumenti tecnologici?
No, o meglio, non ancora. E’
per rispondere a questa lacuna
che l’università Iulm presenta
“Digital Marketing Management”, nuovo indirizzo di
studio del corso di laurea magistrale in Marketing, Consumi
e Comunicazione. Operativo
dall’anno accademico 20122013, l’indirizzo si rivolge agli
studenti che vogliano costruire
le basi per essere conoscitori
dei meccanismi digitali della
comunicazione nonché professionisti capaci di affiancare
alle leve tradizionali del
marketing quelle proposte
dalla tecnologia.
Il piano di studi è stato elaborato in sintonia con imprese
partners dell’università quali
Barilla, Bnl-Bnp Paribas,
L’Oréal, Intel, Microsoft e
Vodafone, oltre che realtà internazionali come Wpp e
ZenithOptimedia.
L’obiettivo è dotare gli studenti di tutte le soft skills indispensabili per confrontarsi col
mondo delle aziende. Le aree
tematiche del piano di studi,
per citarne alcune, sono art
I
management, leadership e
psicologia nelle organizzazioni complesse, comunication
strategy e media planning,
public speaking, pensare
imprenditorialmente,
self
marketing e problem solving
& decision making.
Per mantenere quanto più
aderente è possibile il percorso
di studio alle richieste del
mercato lavorativo, l’indirizzo
di studio Digital Marketing
Management nel corso del
biennio
prevede
le
testimonianze delle aziende
partner dell’Università.
I laureati saranno nelle
condizioni di lavora in
aziende, enti, agenzie di
comunicazione e società di
consulenza.
Chi volesse maggiori
informazioni può consultare il
sito www.iulm.it, scrivere a
[email protected], chiamare
il
numero
02891412386. E’ attivo anche il
numero verde 800363363.
QUANDO LE IMPRESE SCOPRONO I SOCIAL NETWORK
Facebook aiuta il business. Oppure no?
Livio Lazzari
social network possono essere un alleato per il business? E se la risposta è sì,
quante aziende li utilizzano
con efficacia? A queste domande tenta di rispondere l’annuale ricerca, del Master in
social media marketing dello
Iulm, guidata dal professor
Guido di Fraia.
Giunta alla seconda edizione, la ricerca ha l’obbiettivo
di capire quanto le imprese italiane riescono a districarsi nel
complesso mondo dei social
media, diffondendo i loro obbiettivi aziendali tra un I like e
un tweet. I risultati ottenuti,
sono stati presentati il 15
marzo scorso presso l’aula
conferenze dell’università.
Considerando sei settori
chiave dell’economia italiana:
alimentare, bancario, arreda-
I
mento, hospitality, moda e
pubblica amministrazione, si
sono scelti 120 casi per settore,
suddivisi a loro volta in imprese piccole, medie e grandi.
Rispetto all’anno precedente, il
2011 ha visto un aumento
delle imprese che adoperano
almeno un social network
come strumento d’impresa,
passando dal 32% registrato
nel 2010 al 50% dell’anno appena passato.
Soprattutto tre settori hanno
incrementato la propria presenza sui social media, in particolare
la
pubblica
amministrazione con un più
27% rispetto al 2010, al secondo posto la moda con un
aumento del 25% e infine il
settore bancario, già presente
sui media nel 2010, ma che ha
aumentato la propria presenza
con un più 7%.
Altro aspetto rilevante della
ricerca, è che le piccole e
medie imprese sembrano aver
colto l’importanza dei social
network, aumentando la loro
presenza sia su Facebook che
sugli altri network a disposizione. L’aumento più rilevante
è quello delle piccole imprese
che sono passate dal 10 al 43%
di attività sui social media.
Ma se l’approccio quantitativo fa registrare un balzo in
avanti, lo stesso si può dire dell’aspetto qualitativo? Per valutare in modo accurato l’attività
di un’azienda sui social network, gli studenti del master,
hanno elaborato un indicatore
sintetico dell’attività complessiva dell’azienda, prendendo in
considerazione tre aspetti fondamentali: il tempo, ovvero da
quanto le aziende sono presenti
sui canali social. L’attenzione
alla gestione di post aziendali
e dei relativi aggiornamenti.
L’efficacia, ovvero quanto i
post riescano ad attirare l’attenzione degli utenti, creando
interesse e quindi dibattito.
Questo indicatore, ribattezzato “SocialMediAbility”, ha
permesso di elaborare un
schema in cui all’incremento
di attività delle aziende non
corrisponde però un aumento
dell’efficacia del messaggio
veicolato dai social network.