Ostia così vicina Ostia così lontana: "Alì ha gli occhi

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Ostia così vicina Ostia così lontana: "Alì ha gli occhi
Ostia così vicina Ostia così lontana: "Alì ha gli occhi azzurri"
Giovedì 29 Novembre 2012 10:40
Antonello Sotgia - Ostia. La lunga striscia di asfalto che corre parallela al mare, simile più che a
un boulevard ad una trincea che, ad est, s’inspessisce con un alto bordo edilizio e, ad ovest,
con quell’altrettanto invasivo bordo di manufatti e attrezzature balneari che murano mare e quel
che resta della spiaggia. Nader e Stefano devono scavalcare una recinzione, arrampicarsi su di
un tetto di una cabina e finalmente gettare uno sguardo lontano verso l’orizzonte d’acqua. Non
lo possono fare dalla strada. Da qui il mare, anche se vicinissimo, non si vede.
Guardano il mare, ma per non più di un attimo, condannati come sono a interessarsi solo a
quello che in quel medesimo momento possono vedere e toccare. La loro vita scorre in giornate
di assoluta linearità sovrapposte a quella stessa striscia di asfalto dove inanellano, con la
medesima indifferenza, la rapina a danno di una prostituta al furto di un motorino, la scuola al
“matinè” in discoteca, tentativi d’innamoramento a rabbia, a desideri. Tutto da prendere e
consumare immediatamente senza farsi troppe domande.
Neppure con se stessi. Nader 16 anni, nato in Egitto e in Italia da dieci, si ribella ai
convincimenti religiosi della famiglia che non vogliono che abbia una relazione con una
coetanea. In famiglia parla ostentatamente con la madre non in arabo, ma in italiano dicendo
che se “loro” ( cioè noi) lo facciamo, perché impedire a lui di scopare a 16 anni.
Perché lui a Brigitte - una coetanea bionda che vive in una famiglia romana, dove al padre
regalano per il compleanno un potente fucile a pompa immediatamente inaugurato nel terrazzo
condominiale in uno di quei cortili infiniti murati dagli intensivi in zona San Giovanni - vuole
bene. Va a trovarla in metropolitana, esile filo che lo porta fuori da Ostia, per regalarle un anello
comprato con i soldi della rapina fatta subito prima di entrare a scuola lo stesso giorno.
Stefano, suo coetaneo non riesce a capacitarsi di essere stato “accannato dalla pischella”. Vive
questo problema come un affronto. E’ impossibile che lei, una ragazza, possa scegliere
secondo i propri desideri, dirgli “non mi piaci più! hai pure l’apparecchio”. Lui ribatte che
l’apparecchio l’aveva anche prima. Nulla! lei lo lascia per sciamare lungo via del Corso a Roma
risucchiata dalle amiche e dalla loro solidarietà.
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Nader e Stefano, di amici non sembrano averli, non parlano neppure tra loro dei propri
problemi, meno che mai legano con altri ragazzi. Non hanno una banda, né un gruppo. Si
aggirano in coppia nei mucchi dei giovani che frequentano, prendendo da ognuno le cose che
al momento possono servire: da un informazione, al convincere un coetaneo a fingersi cliente di
un prostituta da rapinare, all’acquisto a buon mercato di una pistola da un suonatore di batteria
che trova il proprio palcoscenico sonoro su uno di quei ponti del Laurentino risparmiato dalla
distruzione di Veltroni che reputava l’architettura essere causa del disagio sociale.
Il ritmo della batteria è, insieme a una canzone (Nino d’Angelo), la sola musica che attraversa
l’intero film. I due i non sentono musica, né smanettano su qualche aggeggio elettronico, né mai
telefonano. Non ci sono smartphone, telefonini, autoradio, computer. Quando devono trovarsi o
trovare qualcuno o, è lo stesso, scappare da qualcuno (una banda di rumeni che vogliono
vendicare uno sgarro fatto a un loro connazionale) camminano in un Ostia fotografata da
Daniele Ciprì con sciabolate di luci radenti, a disegnare come le barriere di case e stabilimenti
facciano filtrare gelide lamine luminose proprie di uno spazio carcerario.
I ragazzi si cercano e, per trovarsi, si attaccano al citofono delle loro case. Si sta sulla striscia
d’asfalto, si va su e giù tra due polarità: dall’idroscalo (a ponente) dove la torre
michelangiolesca non riesce a riscattare l’immondezzaio in cui è stato assassinato Pasolini, alla
scuola (a levante) dove, per loro, Ostia finisce ed inizia quella metropoli a cui non riescono ad
avvicinarsi, bloccati da una pineta morente abitata solo da prostitute.
I due le disprezzano come disprezzano ogni donna che esprima una scelta. Nader può
offendere la madre, ma non tollerare che il suo amico possa baciare sua sorella, fino a sparargli
ricorrendolo su quell’arenile nero e catramoso dell’idroscalo. Lo mancherà e le strade dei due si
divideranno. Solitudini destinate a continuare e a estendersi. Nader non vuole più tornare in
quella casa dove i suoi “so proprio arabi”.
La famiglia forse l’aspetta. Ma tace, pranzando con il televisore acceso collegato ad Al jazeera,
sentendo le notizie del protagonismo delle piazze della primavera araba. Nessun commento,
nessuna emozione, nessun fremito. L’Egitto e Ostia non sono più, per loro, due mondi, neppure
due luoghi geografici:sono due immense solitudini che non possono comunicare. Siamo ad
Ostia nel 2011.
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Solo un anno dopo, con sette scuole occupate, gli studenti di Ostia, alla testa delle mobilitazioni
studentesche del novembre di quest’anno contro il governo, la scuola e la precarietà, hanno
portato a Roma le loro passioni.
Con loro i tanti (anche Stefano e Nader che avrà smesso di coprirsi gli occhi con improbabili
lenti a contatto azzurre ascoltando Brigitte che l’invita a” falla finita co’ ste lenti” ?) che hanno
deciso di trascinare giù il cielo, lungo quella striscia di asfalto troppo esile a contenere la loro
ribellione.
link originale: dinamopress
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