fiacre - Leo d`Alessandro

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fiacre - Leo d`Alessandro
PAUL BOURGET
LA PRIGIONE
(La geole)
Traduzione di DECIO CINTI, ED. ATHENA, 1923, MILANO
INDICE
I. - La lettera rubata
II. - Il 14 ottobre 1877
III. - Il professor Vernat
IV. - L'appello alla madre.
V. - Dopo ventisette anni.
VI. - La minaccia
VII. - Madre e figlio
VIII. - Suocera e nuora.
IX. - Gli amanti
X. - Verso la catastrofe.
XI. - Verso la catastrofe (seguito)
XII. - L'esorcismo
XIII. - Epilogo
I.
La lettera rubata.
Il peggiore e il più rattristante male che producano le guerre civili è
l'alterazione della moralità nelle coscienze fondamentalmente delicate. Le
tentazioni della vita privata non le avrebbero mai sfiorate; il fanatismo le
falsa subitamente. Si tratta di servire la Causa, e, nell'ardore della lotta, il
partigiano non indietreggia davanti agli atti più evidentemente colpevoli:
tradire una confidenza, spiare un amico, comprare una testimonianza, violare
il segreto di una corrispondenza, praticare la delazione. La tragica avventura
che vorrei narrare oggi ebbe per punto di partenza uno di quei traviamenti
dei quali chi se li permette non potrebbe misurare le lontane e talvolta
terribili conseguenze. È sempre il detto profondo della Sacra Scrittura:
“Perdonatemi, Signore, quelli fra i miei peccati che io non conosco”, ed è
anche la prova che il dovere non s'interpreta. Bisogna accettarlo umilmente,
letteralmente. Semplice e saggia verità che gli esaltati della politica
dimenticano incessantemente, nella frenesia in cui li getta l'Idea, come essi
dicono tuttora, e un fervore religioso arde nelle loro pupille, nel momento
stesso nel quale essi trasgrediscono al più elementare onore. Ma ecco il fatto,
senz'altri commenti. Rigorosamente vero, come tutti i particolari degli
avvenimenti che determinò, c'è pericolo che sembri abbastanza straordinario
perché si sia giudicato necessario allacciarlo ad una legge di psicologia
generale dominante purtroppo su tutti i periodi torbidi della storia.
Il fatto risale all'autunno dell'anno 1877. Gli uomini, ora vecchi, che
avevano allora l'età di interessarsi degli affari pubblici, se ne rammentano: la
campagna elettorale scatenata dal mezzo colpo di Stato del 16 maggio
provocava in tutto il paese una violenta sovreccitazione degli animi. Ma i
rapporti personali rimanevano cortesi esternamente. D'altronde, non fu
sempre così anche in crisi di un'altra intensità? Camillo Desmoulins non
ebbe forse per testimonio del suo matrimonio, in pieno Terrore, quel
Robespierre che pochi mesi dopo lo mandò alla ghigliottina? Fra i salotti nei
quali s'incontravano, in un'apparente neutralità, avversari ed amici del
Maresciallo, uno dei più simpatici era quello di una giovane coppia molto
alla moda nella Parigi elegante di quei tempi lontani. Se sfoglierete un giorno
i libri, troppo dimenticati, del cronista delle frivolezze di dopo la guerra del
1870, di quel vivace Fervacques, caro a Barbey d'Aurevilly, vi troverete il
nome della graziosa signora Vialis, citato quasi ad ogni pagina. Ma
Fervacques era già morto in quell'anno 1877 che segnò l'apogeo di quella
breve regalità mondana, sinistramente interrotta. Ciò che rendeva
paradossale, non già il successo di quella simpatica donna, ma l'eclettismo
del suo salotto, era la condizione del marito di lei, capo di gabinetto di uno
dei più aggressivi collaboratori del duca di Broglie. Alcuni particolari.
biografici su quel capo- gabinetto e sul suo ministro spiegheranno questa
anomalia.
Giovanni Vialis, appena ventottenne, realizza va veramente il tipo del genere
di servitori ricercato da Mazarino. “È felice, costui?” domandava anzitutto il
giudizioso cardinale. Felice, infatti, era sempre stato quel giovane intelligente
e leale; felice, almeno nel disegno visibile della sua sorte. Era uscito da una
vecchia famiglia di proprietari di terre del Nivernese, divenuta opulenta per
la sua partecipazione all'impresa delle ferriere d'Imphy. La sua fortuna aveva
voluto che suo padre lo allevasse affettuosamente, ma severamente. Giovanni
era stato messo prima nel collegio di Nevers, poi, come interno, al liceo
Louis-le-Grand, a Parigi. Vi si era appassionato per le belle lettere, tanto che
all'uscire dal collegio, premiato quattro o cinque volte nel Concorso generale,
aveva potuto prepararsi alla licenza, cominciando già il corso di legge. Era
stato licenziato primo nella sessione di luglio, durante l'estate stessa nella
quale scoppiò la guerra franco- tedesca. Arruolato fin dal primo giorno, ebbe
una condotta tanto brillante, che, quando Parigi fu liberata dalla Comune,
poté ritornare all'Università di legge con un nastro rosso all'occhiello della
sua giacchetta da studente. Aveva pagato il suo tributo al comune dolore
umano perdendo quasi subito il padre e la madre. Ma quegli ottimi genitori,
sapendosi ammalati, e per prolungare la loro protezione sul loro figliolo,
l'avevano - ultimo benefizio loro! - unito in matrimonio con una deliziosa
creatura di loro scelta, la quale lo aveva confortato col suo amore in quella
circostanza, l'unica dolorosa in un'esistenza continuamente felice. Si può
forse calcolare come un dolore la sorpresa di avere udito per caso, a sei anni,
raccontare da due donne di servizio che un suo zio, il quale soleva viziarlo
molto, si era ucciso con una pistolettata? Quelle ragazze ripetevano: “Il
signor Andrea Vialis si è ucciso!” - Si è ucciso! Quelle poche sillabe avevano
stupito il fanciullo troppo sensibile, che se le era ripetute indefinitamente,
con un brivido di spavento immaginativo, confessato un giorno a sua madre.
Egli non sapeva che quell'ingenua confessione aveva deciso suo padre a
metterlo in collegio. “Bisogna virilizzarlo, lui!” Queste parole del fratello del
suicida, Giovanni non le aveva nemmeno sospettate, né aveva potuto pensare
che quella catastrofe di famiglia dovesse avere un'influenza assai benefica
sul suo avvenire. Essa gli assicurava infatti quell'educazione più maschia di
cui il suo temperamento troppo simile a quello dello zio, dal punto di vista
dell'emotività, aveva certamente bisogno. Il collegio gli aveva giovato tanto,
che, avendo avuto anche la fortuna di vedersi nascere un figlio, fin dal primo
anno del suo matrimonio, aveva annunziata l'intenzione di educarlo allo
stesso modo. “Il collegio è una scuola di energia”, diceva a sua moglie, che
già era tormentata dal pensiero di una futura separazione dal suo Gianmaria.
Avevano chiamato così il loro figliolo, per dargli un nome che unisse i loro
due, simbolo di una passione reciproca, rimasta - nel 1877, e dopo cinque
anni - ardente come nei primi giorni. Quando tornavano da qualche festa, la
sera, stretti l'uno all'altra nel loro piccolo coupé, lui orgoglioso della bellezza
e della grazia della sua giovane moglie, che come sempre era stata molto
ammirata, - lei commossa nel ritrovarsi sola con lui e nel vederlo tanto
affettuoso, - accadeva loro di confessarsi ad alta voce il comune pensiero, la
comune speranza di avere una bambina, ora... una Giovanna- Maria che si
trastullasse con Gianmaria.
“Saremmo troppo felici!” diceva lei; e i suoi profondi occhi azzurri
s'oscuravano quando soggiungeva: “Avrei paura!”.
Frattanto, a quell'intima felicità del focolare domestico, venivano ad
aggiungersi dei successi di carriera. Imparentato per parte sua e per parte di
sua moglie, nata Taraval, con personaggi del partito conservatore, Giovanni
Vialis s'era trovato già arruolato nella squadra di giovani ingegni che si
raccolsero, dopo le dimissioni di Thiers, intorno ai capi d'un supremo sforzo
di difesa sociale che fu poi anche troppo giustificato. Uno degli uomini più
importanti del ministero del 16 maggio si era assicurata la sua devozione con
la promessa di farlo entrare immediatamente, e addirittura dall'alto, nella
diplomazia, se le elezioni fossero riuscite favorevoli, come speravano
fermamente tutti i familiari dell'Eliseo.
Quel patrono di Giovanni Vialis era un nuovo venuto nella politica, al quale
il 16 maggio aveva dato il primo portafoglio. Grande industriale, egli pure
del Nivernese, era stata mandato all'Assemblea di Bordeaux, a cinquantasei
anni suonati, dallo scrutinio del febbraio 1871. Il maggior pericolo di tali
ingressi alla Camera, un po' tardivi, non consiste nella presunzione
dell'incompetenza che crede di saper tutto. Essa urta prestissimo contro le
realtà, e s'infrange. Consiste, invece, in un eccesso di diffidenza che finisce
in un abuso della riflessione. L'esordiente in politica, se ha dell'amor proprio
e del criterio, si fissa così delle regole di condotta, sagaci in fondo, poiché
risultano da osservazioni serie, da letture storiche, da prudenti conversazioni;
ma il nostro coscritto del Parlamento le applica in un modo troppo
sistematico. Ora egli crede troppo poco, ora invece crede troppo all'influenza
dei piccoli mezzi. Questo errore, appunto, era quello dell'uomo di Stato,
rientrato poi nella vita privata, dopo l'insuccesso dell'ottobre 1877,
principalmente per effetto del dramma di cui quest'analisi è il prologo
obbligatorio. Si capirà fra poco perché il suo nome non deve essere detto. In
virtù di una di quelle regole, egli aveva scelta per capo del suo gabinetto un
figlio di famiglia, ricca, elegante, che sarebbe passato facilmente per un
dilettante desideroso di occuparsi o per un vanitoso in cerca di onori. Chi si
sarebbe accorto della sua vera funzione, della quale egli stesso non avrebbe
indovinata la natura? Egli avrebbe creduto alla simpatia del ministro, mentre
questi si proponeva di servirsene per coprire le sue più delicate relazioni
politiche e quasi poliziesche. L'uomo di Stato soleva dare i suoi
appuntamenti più gravi e più segreti in casa dei Vialis, a pianterreno di un
vecchio palazzo di via San Domenico, dove quella coppia di innamorati
nascondeva la sua onesta felicità. Durante quel periodo di lotta accanita in
cui i partiti si spiavano a vicenda con uguale animosità, egli incontrava in
quella casa, e sempre con dei pretesti fallaci, certi agenti che considerava
come compromettenti se li avesse ricevuti al ministero oppure nel suo
domicilio privato. Un'altra delle sue massime: “L'uomo di Stato non ha mai
troppi alibi”. Certe corrispondenze, particolarmente clandestine, gli
giungevano sotto il nome del giovane, che conservava d'altronde la più intera
libertà nei suoi rapporti di società o d'amicizia. Quella libertà, il suo
principale non s'accontentava di lasciargliela: gliela imponeva. È questa la
spiegazione dell'anomalia a cui accennavo: - il salotto di quel favorito d'un
ministro di combattimento, aperto indistintamente a visitatori di tutti i
partiti. L'ex- industriale, che andava machiavellizzandosi, - mi si perdonerà
questo neologismo che qui è necessario - credeva soprattutto, lo ripeto, nei
piccoli mezzi, nella studio dell'opinione, nell'utilità del contatto anonimo con
l'avversario. Giudicava che ricevendo specialmente degli amici della sua età e di un altro ambiente, - Giovanni Vialis potesse informarlo meglio sugli
“imponderabili”. Immaginava di essere verista nel pronunciare, strizzando
furbescamente le palpebre, quel termine preso a prestito dalla fraseologia
bismarchiana e che quasi basterebbe a datare questo racconto. Non eravamo
tutti ipnotizzati, allora, dal prestigio dei vincitori del 1870, e specialmente
del Cancelliere di ferro?
Aggiungeremo, per dare il suo carattere di nobiltà a quella figura di ottimo
francese, ch'egli voleva essere scaltrissimo, per servire meglio il suo paese,
convinto che la sconfitta del radicalismo fosse, per la Francia, una questione
di vita o di morte. Egli non era solo, in quel ministero di bravissime persone,
ad esagerarsi l'importanza dei minuti calcoli di retroscena. Sainte-Beuve
indicò molto pittorescamente l'insufficienza di quei procedimenti di furberia,
cari ai parlamentari, nel nostro tempo di brutalità democratica, quando
paragonò Guizot e Thiers a due abilissimi giocatori di scacchi intenti a
manovrare sapientemente i loro pezzi sul dorso di una balena addormentata.
Il mostro si muove un poco. Le masse popolari si agitano. Scacchiera,
giocatori e “combinazioni” precipitano in fondo all'acqua. E Sainte-Beuve
scriveva questo verso il 1850! Da allora, la balena è cresciuta.
Fra i compagni di gioventù che frequentavano il salotto dei Vialis, senza
nascondere la loro ostilità al 16 maggio, c'era un certo Marcello Faugières.
Questo repubblicano appassionato obbediva anch'egli venendo lì, al
desiderio di quel contatto con l'avversario, a cui il ministro dava l'importanza
di un dogma. Però, Faugières non se ne rendeva conto. Una amicizia nata sui
banchi del vecchio collegio Louisle-Grand univa i due giovani, che si erano
ritrovati, poi, nell'esercito della Loira. Quei due ricordi: quello delle infantili
emulazioni scolastiche e quello del pericolo marziale affrontato insieme,
erano più forti che non l'antagonismo delle loro idee, accentuato tuttavia
dagli anni e dalla differenza delle loro condizioni. Marcello Faugières era
povero. Una magra pensione che gli mandava suo padre, proprietario, al Puy,
di una modesta drogheria, gli aveva permesso - attraverso quante privazioni,
dell'uno e dell'altro! - di arrivare a laurearsi in legge. Da poco, aveva aperto
studio d'avvocato, utilizzando una piccolissima eredità lasciatagli da quel
padre, del quale formava tutto l'orgoglio. Fino a qual punto! Chi conosce lo
spirito d'economia dei nostri montanari del centro, lo comprenderà da questo
semplice particolare: l'invio dello studente del Puy ad un collegio di Parigi,
per consiglio di un professore che aveva detto all'umile bottegaio: “Marcello
sarà la vostra gloria!” - Marcello, purtroppo, non era ancora che un
avvocatuccio senza cause, le cui convinzioni radicali implicavano contraddizione frequente nei giovani di quel tipo - un'ingenua semplicità ed
insieme un duro calcolo. I suoi primi rancori sociali vi trovavano una tregua,
e la sua ambizione vi attingeva speranza. Egli era troppo vicino al popolo per
non indovinare che l'avvenire, in un regime fondato sul suffragio universale,
era a sinistra. Quando usciva da un ricevimento in casa Vialis, le sue larghe
spalle si alzavano, al ricordo dei discorsi chimerici che aveva uditi in quel
salotto. Il frequentare quei rappresentanti delle classi così dette dirigenti, e il
constatare la loro ignoranza delle correnti sottomarine del paese, davano
forza alla certezza ch'egli aveva della loro sconfitta e del sicuro trionfo dei
363. Molti si ricordavano del magistrale “colpo di partito” mediante il quale
i capi dell'opposizione, sostenendo quel numero, fecero approvare da un
plebiscito il più equivoco dei programmi. I lavori oscuri e lunghi a cui si
dedicava non permettevano a Faugières di formarsi relazioni che gli
avrebbero offerte le probabilità di una candidatura. D'altronde, su tutta la sua
persona era come diffuso un non so che di feroce che sconcertava le
simpatie. Quel giovanotto pesante, tarchiato, massiccio, dagli occhi gialli che
luccicavano in una faccia biliosa, dava l'impressione di un animale da preda,
pieno di aspre bramosie, e il salotto reazionario dei Vialis aveva infatti per
lui questa brutale attrattiva: il plebeo indigente vi respirava un'atmosfera di
lusso.
Quando egli pranzava in quella casa, la cucina fine gli faceva dimenticare
per un giorno le solite bettole. L'eleganza dell'ambiente e degli abbigliamenti
delle donne vellicava la sua sensualità, e siccome tutto è complesso,
nell'anima, a quell'età di fermentazione, il fascino della vivace intelligenza di
Giovanni non era estraneo alla sua assiduità. Forse la stima che egli aveva
per il suo amico, aggiunta alla sua intransigenza, gli dava, senza che se ne
accorgesse, un febbrile bisogno di inculcargli i suoi principi. E tutte le loro
conversazioni divenivano discussioni, ugualmente appassionanti per il
tradizionalista e per il giacobino. La scherma della controversia intellettuale
non è infatti una delle ebbrezze della gioventù che pensa? La lotta d'idee le
dà la consapevolezza e l'orgoglio della sua forza. Inoltre, essa misura, in
questa lotta, l'entità della propria inferiorità. La dialettica più agile di
Giovanni, la sua prontezza nel rispondere vivacemente ad ogni assalto, la sua
cultura più varia - perché egli aveva viaggiato - finivano sempre coll'irritare
l'amico meno rapido, più pesante, meno munito di argomenti. Faugières si
sarebbe stupito assai se qualcuno gli avesse detto che tutte quelle impressioni
tanto diverse avevano per fondo nascosto il più triste dei sentimenti umani:
l'invidia, ma un'invidia inconfessata, che s'ignorava, appiattata in
quell'ultima latebra del cuore, fino alla quale non si vuole né si può scendere.
Sia questa, se non la scusa, almeno la spiegazione dell'atto fatale a cui sto per
giungere!
Nell'ultima settimana del mese di settembre del 1877, - il 29, precisiamo:
quindici giorni prima dello scrutinio che doveva aver luogo il 14 ottobre, - il
caso volle che Marcello Faugières, tornando dal municipio del settimo
circondario, dove era andato a domandare una informazione professionale,
passasse da via San Domenico e suonasse, verso le due, il campanello di casa
Vialis. Voleva farsi prestare da Giovanni certe riviste, e sperava di trovare,
come di consueto, la giovane coppia nel salottino attiguo allo studio.
- Il signore e la signora hanno fatto colazione fuori di casa - gli disse il
domestico, - ma rientreranno fra poco.
- Li aspetterò nello studio, - disse Marcello Faugières. - Il signor Vialis deve
aver preparato per me un pacco di libri.
Molto naturalmente, il domestico introdusse l'amico di casa nella stanza, ad
un tempo intima e severa, ove tante volte i due giovani avevano discusso per
ore intere, cordialmente o aspramente, sempre su argomenti di un ordine
elevato. Alte biblioteche antiche, di quercia scolpita, rivestivano le pareti. Gli
scaffali erano pieni di volumi che avevano appartenuto al nonno e al
bisnonno di Giovanni. Le rilegature datavano dal primo Impero o dalla
Restaurazione. Lo stato di conservazione dei cuoi attestava la religiosa cura
di cui erano stati oggetto quei volumi. I titoli dicevano la serietà e la cultura
dei ricchi borghesi che avevano raccolto così dei memoriali, i capolavori dei
classici antichi e moderni, e molti volumi di storia, di scienza, di filosofia, di
giurisprudenza. Quale contrasto coi libri generalmente non rilegati, e coi
volgari repertori, acquistati a rate, che s'ammucchiavano alla meglio nelle
scansie di legno annerito dello studiolo dell'avvocato! Questo confronto
sorse, nella mente di lui, senza ch'egli lo volesse. In uno spazio di muro
lasciato libero fra due corpi della biblioteca, spiccava un pastello che
rappresentava Maria Vialis, col suo figliolo, col loro figliolo fra le braccia. A
Giovanni bastava alzare il capo, stando seduto in poltrona al suo scrittoio,
per avere davanti agli occhi la sua felicità. Faugières, che s'avvicinava a quel
tavolo per verificare se vi fossero i fascicoli desiderati, si mise a guardare
lungamente, a sua volta, quel ritratto. Altro contrasto, e non meno umiliante,
per il diseredato! Le sue amanti casuali a l'avvilimento delle loro maschere
imbellettate gli tornarono improvvisamente alla memoria, davanti a quel
volto radioso e bello di donna onesta dal delicato colorito di fiore, dagli
occhi profondi e tanto soavemente azzurri, dall'ovale energico e puro nella
cornice dei leggeri capelli biondi, e dalla bocca fremente e amorosa. Si voltò
bruscamente, e, visto sul tavolo un fascio di riviste, vi cercò quelle che
voleva farsi prestare dall'amico. Non avendole trovate, una curiosità senza
motivo lo indusse ad osservare la larga cartella posata trasversalmente
davanti al calamaio. Il marocchino, d'un rosso cupo, non aveva nemmeno
una macchia. I portapenne e le matite bene allineate accanto ad un lucido
calamaio di cristallo, attestavano, come il calendario mobile che segnava
esattamente il giorno, l'ordine meticoloso di un lavoratore metodico. Ancora
macchinalmente, Marcello Faugières sollevò la parte superiore della cartella.
Vide allora nell'interno una lettera aperta, con la sua busta accanto.
Evidentemente, essa era stata consegnata a Vialis poco prima ch'egli uscisse.
Non volendo portarsela via, e non avendo tempo di chiuderla in un cassetto,
Vialis l'aveva messa lì dentro. L'indiscreto - senza premeditazione, non lo
calunniamo - credette di riconoscere la scrittura. Prese la lettera, e le poche
linee che lesse, quasi senza volere, lo fecero trasalire. Non si era ingannato.
Quello scritto era di un certo Grangier, suo condiscepolo al liceo di Puy,
ch'egli aveva ritrovato al Quartiere Latino e poi presentato a Vialis.
Quest'u1timo aveva sempre dimostrato della ripulsione per quel personaggio,
giovane di un certo valore, che sapeva fare dei versi spiritosi, ma che era già
degradato dall'ubriachezza, e che, ritornato nell'Alta Loira, vi dirigeva ora un
giornaletto d'avanguardia. Faugières aveva saputo, non senza stupore, che
quell'individuo si presentava come candidato d'estrema sinistra. “Ecco dove
conduce l'alcoolismo!” aveva pensato nel constatare quell'atto d'indisciplina
che minacciava di compromettere le probabilità del 363, - per parlare col
gergo elettorale di allora. - Quel rivoluzionario, in corrispondenza con gli
uomini del 16 maggio?..Era possibile? La sorpresa da cui rimase colpito
Faugières fu tale, ch'egli ne rimase per un momento come pietrificato.
Rimise la lettera nella cartella, senza neppure cominciarne la lettura, con un
movimento di disgusto. Poi bruscamente la riaprì, quella cartella, riprese la
lettera, e una curiosità non più involontaria gliela fece leggere e rileggere,
una volta, due volte, tre volte, per convincersi di non essere zimbello di una
illusione.
“Signor Ministro”, diceva quella lettera datata da Puy, “ho coscienza di
essere utile alla Francia e alla vera Repubblica, combattendo l'individuo
che, con l'aiuto dell'equivoco dei 363, vuole ingannare la buona fede degli
elettori della mia città nativa. Avrei bisogno, a tale scopo, per supplire alle
spese della campagna, di una somma di 30. 000 franchi. Esito tanto meno
ad accettarla dal Governo, in quanto che onoro certamente di più, come
uomo, il signor duca di Colombières, che non un sotto- veterinario come
X... ” Qui, il cronista di questa troppo veridica storia domanda ancora il
permesso di non citare un nome che interessa tanto poco quanto le formale di
deferenza ossequiosa con le quali finiva quella lettera, rivelatrice di una
manovra frequente e perciò assai banale.
Il candidato ministeriale del Puy era il vecchio duca di Colombières, uno dei
grandi proprietari del Velay, da parte di sua madre, che era dell'antica
famiglia comitale dei Brives-Charensac. Il prefetto aveva pensato, per
diminuire la probabilità di successo dell'opposizione, di ricorrere ad una
candidatura indipendente e ultra- radicale. Egli aveva fatto scandagliare il
bisognoso Grangier, che si era prestato alla combinazione tanto più volentieri
in quanto che si sentiva screditato fra i liberali. Quella lettera era stata il
pegno voluto dal ministro, patrono di Giovanni Vialis, che soleva ripetere
sentenziosamente una delle sue massime alla Fouché:
- E' sempre bene avere molti piccoli documenti.
Grangier non aveva nulla da perdere, in fatto d'onore. Aveva scritto
freddamente la lettera, indirizzata in plico raccomandato al capo gabinetto,
per misura di precauzione. Il briccone, tracciando sulla busta il nome del
destinatario, aveva avuto un po' di vergogna. Poi, ricordandosi del carattere
cauto di Giovanni, aveva pensato:
- Almeno, sono sicuro che Vialis non parlerà!…
E aveva soggiunto ironicamente:
- Tuttavia, per un'anima buona, non c'è male! ...
L'anima buona era il nomignolo col quale il suo cinismo precoce aveva
qualificato in altri tempi il candido Vialis, pieno di scrupoli, ed era vero che
per il capo- gabinetto era stato un sacrificio il collaborare, anche soltanto a
quel modo: - cioè ricevendo e conservando il documento, - a quel traffico che
apparteneva alla categoria dei procedimenti che gli onesti prendono a prestito
dai loro avversari sul triste e fangoso terreno della politica. La posizione
della lettera nella cartella indicava che essa vi era stata gettata in un sussulto
di ripulsione. La busta gualcita attestava l'irritazione provata a
quell'immondo contatto. Un'amicizia affettuosa l'avrebbe indovinato. Ma
quella di Marcello Faugières per Giovanni Vialis era un'amicizia astiosa.
C'era del trionfo, nell'atroce risata in cui egli proruppe subitamente, alla
quarta o quinta lettura di quello scritto accusatore. Per chi? Per i corruttori
non meno che per il corrotto. Sì; che risata atroce!
Quale rivincita, per Faugières, l'aver scoperto nel suo amico una colpevole
complicità! L'acre passione politica, che lo possedeva, ribolliva in lui, mentre
egli teneva fra le mani quella carta, per lui infame. E ripeté ad alta voce,
mordacemente, una delle frasi che allora servivano da grido di guerra
dall'altra parte della barricata:
- E questo si chiama l'ordine morale!....L'ordine morale!
Ma non rideva già più. Un'espressione feroce gli contraeva il viso. Con le
sopracciglia aggrottate, coi denti stretti, come nei momenti d'implacabile
risoluzione, estrasse di tasca il portafoglio, vi mise la lettera, dopo averla
accuratamente chiusa nella sua busta. Ah! ora non si curava più affatto delle
riviste da farsi prestare!... Uscì dalla biblioteca. Al domestico che gli venne
incontro nell'anticamera, disse semplicemente.
- Avevo dimenticato che ho un appuntamento per le due. Non posso
aspettare.
La sua voce fu dura, nel pronunciare queste parole banali. Egli si sentiva
preso da un tremito interno, al pensare che, sulla scalinata, nel cortile, o
all'uscire dal portone, avrebbe potuto imbattersi in Vialis.
- Oh! via! - pensò, provando un gran sollievo nel ritrovarsi in via San
Domenico senza aver visto l'amico in casa del quale aveva commesso un
abuso di fiducia che giustificava coi suoi principi, pur sentendo un segreto
rimorso per il vero movente profondo del suo atto. - Oh! via! Se l'avessi
incontrato, l'avrei svergognato! Tutto è finito fra noi, da oggi, dopo ciò che
ho scoperto, ed è meglio così... E voi, signor duca di Colombières, non sarete
deputato del mio paese!
II
Il 14 ottobre 1877
Soltanto la sera, alle undici, Giovanni Vialis s'avvide della scomparsa della
pericolosa lettera, ricevuta, come già si disse, nel momento d'uscire, e tanto
imprudentemente lasciata nello studio. Invece di rincasare con sua moglie,
come dapprima aveva pensato di fare, egli era andato al Ministero, dove
aveva del lavoro arretrato.
Per tutto il pomeriggio, aveva dato udienza a dei visitatori e aveva scorso un
enorme mucchio di corrispondenza ufficiale. Era tornato in via San
Domenico solo per cambiare d'abito in fretta e per risalire immediatamente
in carrozza.
Doveva pranzare all'Eliseo, con sua moglie.
Al ritorno, era entrato direttamente nel suo studio, per esaminarvi la sua
posta personale della sera. Quando infine aveva voluto riprendere, per riporla
in luogo sicuro, la lettera di Grangier, non l'aveva ritrovata. Ne provò una di
quelle scosse terribili che agghiacciano, ad un tratto, tutto il corpo e tutta
l'anima.
Precisamente perché si era prestato con estrema ripugnanza all'ignobile
traffico accettato dal giornalista radicale, egli vide subito il pericolo della
pubblicità di un simile documento. Che fosse stata rubata, quella lettera?...
Ma, era possibile? Eppure, la memoria non l'ingannava. Quella lettera,
l'aveva realmente ricevuta; l'aveva messa, realmente, con la sua busta, in
quella cartella che riaprì e che scosse nervosamente e puerilmente. Sì! una
sola ipotesi era accettabile: quella del furto! Ma chi poteva averlo commesso,
il furto? I domestici, marito e moglie, che servivano nell'appartamento, erano
di Béard, villaggio nivernese dei dintorni d'Imphy, conosciuto dai curiosi di
arte romanza per la rovina della sua bella chiesa del dodicesimo secolo.
Appunto durante una visita a quel santuario trasformato in fienile, i Vialis,
uniti in matrimonio da sei mesi, avevano incontrato Giovanni e Maria
Bourrachot, sposati da poco, essi pure. Quella giovane coppia aveva detto
loro, guidandoli fra i ruderi, che si proponeva di andare a servizio presso una
qualche famiglia di Nevers.
- Prendiamoli noi! - aveva detto la signora Vialis. - Si chiamano come noi.
E' un caso curioso. Li formeremo. Saranno migliori degli altri domestici.
Gli altri, erano stati una prima coppia, licenziata perché colpevole
d'indelicatezze. Era verosimile che Parigi, in pochissimi anni, avesse corrotto
anche quei due contadini, sui quali si erano avute informazioni ottime e
sicure, e che uno di essi avesse potuto commettere un atto che sottintendeva
un tenebroso calcolo di ricatto e di scandalo?
Appena concepito, un tal sospetto fu insopportabile. per Giovanni, che subito
chiamò il suo servo.
Egli ascoltò l'avvicinarsi dei passi di quel giovane, osservando se l'andatura
di lui rivelasse una fretta o una lentezza ugualmente denunziatrici. Ma no.
Nessun turbamento, neppure su quel volto un po' addormentato. Nessuna
nervosità nei movimenti del domestico, mentre, cinque minuti dopo, aiutava
il padrone a svestirsi. Vialis, obbligato talvolta dal suo lavoro a vegliare
molto innanzi nella notte, aveva la propria camera particolare, attigua a
quella della moglie. Una cassaforte, in un angolo, gli serviva per tenere
chiuse le carte importanti che gli venivano affidate dal ministro. Questo dato
spiegherà completamente perché egli avesse lasciata nella cartella la lettera di
Grangier. Aveva dovuto affrettarsi. La serratura della cassaforte s'apriva
mediante una combinazione di lettere alquanto complicata e che richiedeva
un po' di tempo.
Alla vista di quel mobile, che ravvivò in lui il sentimento della sua
storditaggine, egli si decise. Bruscamente, ma con un fare quasi indifferente,
per non infliggere ad un innocente l'oltraggio di una diffidenza confessata,
domandò:
- Avete messo in ordine il mio scrittoio, oggi nel pomeriggio, Bourrachot?
Non ho trovate le mie carte come le avevo lasciate.
Egli aveva notato anche lo spostamento del fascio di riviste. La mano del
domestico, che in quel momento gli slacciava le scarpe, non tremò affatto,
mentre egli rispondeva, con l'accento caratteristico, e un po' strascicato, della
sua provincia:
- Sarà stato il signor Faugières, che è venuto verso le due. Il signor Faugières
mi ha detto che doveva esserci un pacco di libri preparato per lui.
- Il signor Faugières? - ripeté Vialis. - Dunque mi ha aspettato?..Per molto
tempo?
- No, per poco. Nell'andarsene, mi ha detto che si era scordato di avere un
appuntamento.
- M'ha aspettato nello studio?
- Sì, nello studio. Diamine! Siccome si trattava del signor Faugières, ho
pensato... Vedo che il signore sembra molto contrariato, ora.....
- Io? - disse Giovanni. - Ma niente affatto!
In realtà, egli era stato scosso violentemente da un brivido che gli soffocava
la voce.
Il domestico non osò insistere né scusarsi di più; ma, ritornato da sua
moglie, le disse:
- Credo di aver commesso una sciocchezza! - E dopo averle raccontata la
visita di Faugières, la sua improvvisa uscita dallo studio, la visibile
contrarietà del padrone: - Eppure, sono molto amici! - concluse.
- Oh! non tanto! - rispose giudiziosamente la moglie di Giovanni
Bourrachot.
- Se fosse così, la signora, che vede soltanto con gli occhi del signore,
manifesterebbe dell'amicizia per quel Faugières. A me pare, solo dal tono con
cui la signora pronuncia il suo nome, che ella lo detesti, o quasi...
Lo spirito d'osservazione dei domestici è, per certe sfumature, infallibile
quanto quello dei fanciulli. Maria Vialis provava infatti, nelle sue relazioni
con Marcello Faugières, una specie di disagio che suo marito subiva
ugualmente. Nell'amicizia, la reciprocanza delle impressioni non è sempre
cosciente, ma è costante. Un amico, invidiato dall'amico, come Giovanni
Vialis era invidiato dal suo compagno di collegio, non si confessa che
quell'amico l'invidia, ma indovina quella segreta ostilità. La fiuta. Ne è
infastidito, spesso senza ammetterlo. E poi, c'è, nelle differenze radicali del
pensiero su certi punti essenziali, - la religione, la politica,- un principio
d'antipatia che può nascondersi sotto le effusioni della cordialità. Questo
principio di antipatia è sempre presente, irriducibile. Per quanto Giovanni
Vialis volesse essere tollerante, le opinioni rivoluzionarie di Faugières
l'offendevano. nel suo essere più segreto. Specialmente da alcuni mesi un
oscuro lavorio d'avversione, verso il compagno di studi e dell'esercito della
Loira, andava compiendosi in lui. Egli ne provava rimorso e se ne puniva
con un raddoppiamento di gentilezza che poi si rimproverava come
un'ipocrisia. Ma se non l'avesse avuta, quell'avversione, avrebbe forse
pensato immediatamente, e con tanta certezza dopo la rivelazione del
domestico circa la presenza di Faugières nello studio:
- “Marcello mi ha rubata la lettera e se ne servirà. Ma come?”
Andare direttamente dall'amico traditore, senza indugio; strappargli la
confessione del furto; esigere la restituzione del documento, o, se rifiutasse,
comprendere almeno le sue intenzioni... Questo il più saggio, questo l'unico
mezzo per uscire da una incertezza che non aveva alcun altra via d'uscita. Un
energico non avrebbe esitato. Ma la prospettiva dei conflitti duri e decisivi,
come doveva essere quello, ripugna agli emotivi, che allontanano
indefinitamente l'ora di agire e si divorano in silenzio. Giovanni Vialis,
nervosissimo per temperamento (e ciò s'indovinava dalla finezza delle sue
estremità, dalla mobilità della sua fisionomia, dai suoi grandi occhi neri
troppo espressivi in un viso d'una delicatezza di lineamenti quasi femminea),
era stato come sensibilizzato dall'atmosfera troppo dolce, troppo
costantemente tenera della sua vita coniugale. L'avvicinarsi di una
spiegazione violenta con Faugières avrebbe angosciato quell'essere ansioso,
per quanto egli potesse essere sicuro di avervi la parte migliore. Ma non ne
era il caso. Se l'altro aveva commesso quell'indelicatezza - e l'aveva
commessa, - l'avrebbe giustificata col suo diritto d'impedire una bassa
manovra. Ma come? Questa domanda gli s'imponeva di nuovo. Coricato, ora,
accanto a sua moglie addormentata, Vialis cercava di rispondere a sé stesso.
Vedeva coll'immaginazione Faugières già intento a scrivere a Grangier, per
minacciarlo di divulgare la lettera se non avesse ritirata la sua candidatura.
Che avrebbe fatto, Grangier? Avrebbe avvertito della cosa la prefettura del
Puy, la quale ne avrebbe avvertito il ministro. Ora se quest'ultimo doveva
essere informato, bisognava che lo fosse da lui, Vialis, primo colpevole. Ma
che scena, dover confessare al suo capo la sua storditaggine e le conseguenze
di essa! Bastò questo pensiero a turbarlo a tal segno da impedirgli di dormire
fino al mattino! Gli sembrava di vedere l'uomo di Stato in atto di ascoltarlo,
con quella maschera autoritaria che rivelava nell'ex- padrone d'officina
l'abitudine al comando. I rapporti di lui con Giovanni erano singolari. Amico
personale dei Vialis, egli aveva preso con sé il giovane per i motivi che già si
dissero, ma anche perché lo sapeva molto sicuro, e perché, nella sua qualità
di provinciale, diffidava dei parigini. Nella parzialità ch'egli dimostrava per
quel giovane, intelligentissimo, molto fine, ma esitante, c'era un po' di
quell'infatuamento, per metà indulgente e per metà sprezzante, che gli esseri
molto maschi provano per i caratteri più deboli, più sensitivi. Ne risultava
quella specie di protezione che intimidisce e che paralizza l'espansione in
colui che ne è oggetto. Questi si sente, ad un tempo, favorito e disconosciuto.
Come avrebbe potuto sopportare, Vialis, lo sguardo di quegli occhi celesti,
tanto luminosi sotto le folte sopracciglia arruffate e brizzolate, e l'accento di
quella voce profonda, irritata nel rimproverargli una colpa tanto grave? Sì,
tanto grave, che il poveretto non comprendeva neppure come l'avesse
commessa. Abbandonare una lettera simile. Dimenticarla in una cartella
aperta a chiunque, - come l'accaduto dimostrava!... Giovanni Vialis sapeva
da quali dubbi fosse tormentato il ministro, diversamente dai suoi colleghi,
circa l'esito della campagna elettorale. Solo per il cosiddetto “punto d'onore”,
quell'uomo perspicace aveva accettato una solidarietà attiva con lo stato
maggiore del suo partito. Avendo approvata l'operazione del 16 maggio, egli
era pronto a subirne per proprio conto tutte le conseguenze. Egli si era data
una volta per sempre - e il suo confidente lo sapeva - la parola d'ordine che
doveva essere quella del duca di Broglie a De Fourtou, quando quest'ultimo
volle dimettersi venendo a sapere il risultato dello scrutinio del 14 ottobre:
“Noi abbiamo accettato un compito. La nostra missione è penosa e dura.
Dobbiamo compierla sino alla fine. ” La fine, era, in caso di sconfitta, per il
ministro da cui dipendeva Giovanni Vialis, la perdita d'ogni probabilità di
ritornare al potere, una carriera politica spezzata, la rinuncia all'alta
ambizione da cui quella personalità forte era dominata. Tutto questo andava
unito ad un'irritabilità segreta che spesso si manifestava in violenti scoppi di
cui Giovanni era testimone quando il ministro constatava, da parte dei suoi
subordinati, o anche dei suoi colleghi, qualche errore di tattica capace di
diminuire le ultime probabilità di successo. Che cosa sarebbe avvenuto,
quando il suo protetto gli avrebbe detto: “Ho lasciato cadere quell'arma nelle
mani del nemico?”.
Ma l'avrebbe impiegata, il nemico? Quella “fuga nella malattia” di cui parla
il celebre psichiatra di Vienna - Freud - non è mai più evidente che nel corso
di quelle crisi nelle quali l'emotivo si rifugia nell'incertezza, per non essere
obbligato a volere. Fra il 29 settembre, giorno in cui la lettera era stata
rubata, e il 14 ottobre, estrema data nella quale quella carta potesse servire,
poiché era la data dello scrutinio finale, Giovanni Vialis, fin dalla prima
mattina, dopo quella notte d'insonnia, si accanì morbosamente a moltiplicare
i suoi motivi di dubbio circa l'utilizzazione possibile del documento rubato, e
a tacerne, non solo col ladro e col ministro, ma anche con sua moglie, alla
quale, secondo un'abitudine tanto dolce, soleva dire tutto, in ogni
circostanza. Aveva saputo intanto, fin dai primi giorni d'ottobre, da un amico
comune incontrato per via, che Faugières aveva lasciato Parigi. Per andar
dove? L'altro non aveva saputo dirlo.- Forse a Puy, per esercitare su Grangier
quella pressione prevista da Vialis già dal primo momento? Con quale
angoscia, ogni giorno, dopo esser stato informato di quella partenza, egli
spiegò i giornali arrivati dall'Alta Loira! Ad ogni lettera coi bolli di laggiù, ad
ogni telegramma, egli fremeva. Sta va per leggere la notizia della rinunzia del
firmatario della lettera rubata? Una settimana passò, ne cominciò un'altra, e
nulla ancora! Il duca di Colombières, il 363, e Grangier, il sedicente
candidato indipendente, continuavano la loro campagna. Dunque Faugières
non aveva agito. Come si sarebbe potuto sapere, almeno, se egli era al Puy?
Vialis esitava perfino a compiere quella piccola inchiesta, che pure non
avrebbe dato luogo ad alcun conflitto personale. Non vi accadde, da bambini,
di tenere nel cavo della mano un insetto, coccinella o cetonia, che facesse il
morto? Moralmente, l’ansioso Vialis era come quell'insetto. Tremava al
pensiero d'incontrare, o di creare, un incidente qualunque, e ne aspettava
uno, in quel suo stato di stupore febbrile. E poi, si sforzava di
tranquillizzarsi. Chi sa? Forse Faugières era stato preso da un rimorso.
Utilizzare la lettera, significava colpire crudelmente un amico che era stato
sempre gentile e delicato verso di lui. Forse, egli aveva distrutta la lettera, per
sfuggire alla tentazione? Così si spiegavano il suo silenzio e la sua assenza.
Sicuro che il suo amico doveva essersi accorto della scomparsa del
documento, egli lo fuggiva, forse, per non essere costretto a parlargliene...
Vialis finiva coll'attribuire a quell'energico, del quale peraltro gli era nota la
brutalità, i modi di sentire che avrebbe avuti se fosse stato nei panni di lui. O
forse Faugières aveva invece minacciato Grangier, e, semplicemente, gli era
fallito il colpo? In tal caso, come mai Grangier non aveva avvertita la
prefettura del Puy o lo stesso Vialis? Forse... Ma a che serve enumerare le
soluzioni immaginarie inventate a volta a volta dal disgraziato per risolvere
l'enigma, per ingannare la penosissima attesa e sopra tutto per non parlare,
per non confessare, neppure a sua moglie? Questa vedeva ch'egli si
tormentava, ch'egli si rodeva, e nemmeno lei osava parlare. Maria s'era
imposto l'affettuoso principio di rispettare i segreti professionali che suo
marito poteva, doveva avere, nella sua condizione di confidente d'un alto
personaggio Politico. L'imminenza di uno scrutinio del quale sapeva la
formidabile importanza, non bastava a giustificare, secondo lei, lo sguardo
vago del suo Giovanni adorato, né la ruga profonda che gli attraversava la
fronte, né la contrazione delle sue labbra, né la morbosa tensione di tutto il
suo essere, di cui ella doveva, più tardi, comprendere con disperazione il
sinistro significato e il tragico pronostico.
Finalmente, era venuto il 14 ottobre. Verso sera, - una sera d'autunno piovosa
e cupa, - i risultati delle elezioni cominciarono ad esser noti. I ministri che
avevano giuocato e che stavano per perdere quell'audace partita, erano tutti
riuniti in piazza Beauvau. Nella stanza attigua a quella in cui tenevano
consiglio, si accalcavano i loro amici personali, i loro segretari, i loro addetti,
molti giornalisti, i capi gabinetto. Fra questi ultimi era Giovanni Vialis,
letteralmente fulminato, fin dal mattino, per effetto della lettura del Giornale
repubblicano dell'Alta Loira, nel quale aveva trovato la riproduzione del
terribile documento firmato da Grangier e poi rubato da Faugières. Costui,
recatosi a Puy, aveva esitato per parecchi giorni prima di decidersi a
commettere l'abominevole azione. Egli aveva lasciato Parigi per non essere
esposto ad incontrare il suo compagno di collegio, e coll'intenzione precisa di
costringere Grangier a desistere dalla candidatura, minacciandolo. Vialis
aveva indovinato, su quel punto. Ma in che modo Faugières, si era procurata
la lettera? Ecco ciò ch'egli avrebbe dovuto dire o lasciare indovinare a
Grangier, e, orgoglioso, non aveva saputo decidervisi. All'ultimo momento,
la passione politica aveva vinto in lui tutti gli scrupoli d'amicizia. Quelli
d'orgoglio avevano resistito. Invece di fare un passo diretto presso il
candidato, Faugières aveva anonimamente mandata la terribile carta al
direttore del giornale che sosteneva col massimo ardore la lista dei 363. La
copia autografa era stata pubblicata alla vigilia dello scrutinio, sotto questo
titolo anche troppo esatto: “Un documento- clava”. Giovanni, che da due
settimane si faceva spedire tutti i giornali dell'Alta Loira, aveva avuto quello
fin dalle nove del mattino. Appena ricevuto quel numero, che cosa gli
comandava la ragione? Di portarlo al ministro affinché questi venisse a
sapere la cosa soltanto da lui, e vedesse, contemporaneamente, la
disperazione del suo rimorso. Egli era andato, infatti, al ministero, con
quell'intenzione. Ma aveva trovato l'uomo di Stato talmente nervoso, che non
aveva osato mostrargli il giornale. Aveva passata la giornata, senza poter
rivederlo, a sbrigare gli affari in corso, ed ora aspettava, comprendendo bene
che la sua sorte si decideva in quelle ore, solenni per tutta la Francia, - e più
ancora per lui!... Se il governo avesse vinto, nella gioia della vittoria la sua
storditaggine sarebbe sembrata priva d'ogni gravità. In una sconfitta, invece,
essa avrebbe assunto l'importanza d'un tradimento...
Le ore passano. I telegrammi continuano ad affluire. L'opposizione vince a
Parigi... Cosa prevista. Vince nei grandi centri... Previsto anche questo. Ma
arrivano dei telegrammi dalle campagne. Il governo guadagna qualche
seggio. Vialis spera. I voti dell'alta Loira non sono ancora completamente
contati... Finalmente, eccone le cifre. Il duca di Colombières è sconfitto.
Subito, altri risultati si succedono, sempre più disastrosi. All'alba, tutte le
elezioni sono note. Un crollo irreparabile! I ministri escono nel crepuscolo
lugubre e grigio, che scolpisce con duri rilievi i lineamenti, smorti per la
veglia e per il dolore, di quegli uomini di Stato vinti e decaduti. Giovanni
Vialis freme nell'incontrare lo sguardo del suo ministro, che sa tutto. Il
giovane l'indovina, senza che l'altro abbia parlato. Lo segue. Il vento del
disastro ha già disperso il maggior numero. degli astanti di poco prima,
alcuni partiti in fretta per diffondere la notizia, altri preoccupati già di
disertare da una nave che affonda. Le carrozze dei ministri sono nel cortile.
Vialis sta per salutare, accommiatandosi dal suo superiore. Questi, dallo
sportello aperto, gli ordina, con un cenno imperioso, di salire con lui, e,
quando la carrozza si mette in moto, sogghigna con un accento di atroce
ironia:
- Complimenti, signor Vialis! Avete puntato pro e contro... Ottimo giuoco!
Soltanto... - e non rideva più - non è affatto onesto!
Era visibile che quell'uomo non si dominava più. Il suo capo- gabinetto, in
quel momento, rappresentava per lui il disastro nel quale tutte le ambizioni
della sua vecchiaia erano crollate ad un tratto! Siccome esse erano al servizio
di ciò ch'egli giudicava il bene pubblico, l'uomo di Stato soffriva meno per la
sua ferita personale, che non per la sventura - certa, secondo lui - che colpiva
il suo paese. E un'indignazione di buon cittadino ruggiva nella sua voce,
mentre continuava:
- Sciagurato! Come hanno potuto prendere anche voi, anche voi, anche
voi?… E cosa vi hanno promesso?
- Ma vi assicuro... - balbettava Giovanni, con voce soffocata dalla sorpresa.
Egli s'aspettava degli aspri rimproveri, - ma quel sospetto, no! Era troppo
atroce!
- Non mi dite che la smarriste, quella lettera! - interruppe il ministro, la
collera del quale andava crescendo. - Non mi dite che ve la rubarono!... Se
fosse vero, ve ne sareste accorto. Oh! siete diligente, voi!.
Di nuovo, egli ricorreva ad una crudele ironia, nel fare, di una delle buone
qualità che riconosceva nel giovane, un motivo di più per assalirlo:
- Sareste venuto ad avvertirmi immediatamente. Si possono ricomprare, i
documenti di quel genere! Anzi, vengono rubati soltanto da chi vuol
rivenderli! Io vi avrei perdonato; lo sapete benissimo. Avevo tanta affezione
per voi! Tanta fiducia in voi!...
- Dunque, credete... ? - disse Vialis, a cui continuava a mancare il respiro.
- Credo a quello che ci ha telefonato il duca di Colombières. Egli era sicuro
del successo... Quel documento è stato causa della sua sconfitta... ed io ho
dovuto udire, nel Consiglio, parole quali non mi erano mai state dette! Infatti,
signor Vialis... - e la sua mano robusta scuoteva duramente il braccio della
sua vittima, - infatti, per tutti, il mio capo- gabinetto ed io siamo la stessa
persona. Io sono responsabile delle sue colpe. Per il duca di Colombières,
l'ho data io agli avversari, quella lettera, poiché l'ho affidata ad una persona
indegna! – (E, mentre l'altro voleva protestare): - Insomma, confessate!
Confessate, dunque! Non è possibile, capite?, non è possibile che quella
lettera vi sia stata rubata, e che abbiate taciuto!... D'altronde, laggiù... (Aveva
cessato di stringere il braccio del giovane per indicare con un gesto
furibondo, dal finestrino della carrozza, la direzione del palazzo di Piazza
Beauvau). Laggiù, eravamo poco fa in dieci, tutti uomini di cuore e d'onore,
a commentare i telegrammi relativi all'elezione dell’Alta Loira e a quella
manovra dell'ultimo momento, a quella pubblicazione di lettera che
assassinava il nostro candidato! Ora andate a domandare ai miei colleghi che
cosa pensino di voi! Infatti, sono stato costretto a nominarvi, per difendere il
mio onore. Il mio Onore!
Egli ripeté ancora: “il mio onore! E, come preso dal delirio, come pronto a
percuotere, soggiunse:
- Basta! Andatevene!...
Aveva afferrato il tubo acustico per gridare al cocchiere: “Fermate!”
Giovanni Vialis tentò di parlare, ancora, per l'ultima volta... Poi, con un
gesto di disperazione, aprì lo sportello e saltò nella via.
Uno dei migliori fisiologi del nostro tempo, il professor Widal, ha creato la
parola emoclasi per caratterizzare uno squilibrio d'umori, il cui principale
fenomeno consiste in un subitaneo scoppio di certi globuli del sangue in
certe condizioni e sotto certe influenze. Non si ha forse nell'ordine mentale, e
per effetto delle grandi commozioni, un fenomeno analogo, una vera
psicoclasi, si potrebbe dire, che è come uno scoppio interno di tutti gli
elementi di cui si compone il nostro essere: intelligenza, sensibilità, volontà?
Il timor panico è un fatto di psicoclasi. L'amore che nasce improvvisamente
è un altro fatto dello stesso genere. Il sentimento d'un disastro irreparabile
nella vita privata l'annunzio d'una morte, di una rovina, di un disonore
specialmente, può produrre in un individuo predisposto un uguale
scompiglio di tutto l'essere, e demoralizzarlo, altra parola efficacissima,
ammirata da Napoleone. L'energia di quell'individuo si dissolve e non è più
capace di reagire. E appunto allora, se l'atavismo depose in lui l'impulso al
suicidio, che è la più inspiegata e la più terribile eredità, l'idea di sfuggire,
mediante la morte volontaria e immediata, ad un dolore intollerabile, sorge
dalle profondità incoscienti dell'anima. Appena apparsa, quell'idea suole
realizzarsi in un gesto quasi automatico, tanto improvviso da sconcertare
tutte le previsioni. Il padre di Giovanni Vialis, quando, nel passato, aveva
detto di suo figlio: “Bisogna virilizzarlo”, aveva pensato al proprio fratello, il
cui atto disperato, era da lui attribuito ad una improvvisa debolezza di
carattere. Infatti, egli non aveva mal constatato in sé stesso quell'impulso che
però aveva già determinato il suicidio d'un prozio materno e quello di due
cugini. Quell'eredità aveva dormito ugualmente in Giovanni, a cui, da molto
tempo, la vita non si era mostrata in alcun modo severa. Essa si ridestò ad un
tratto sul marciapiede del Viale dei Campi Elisi. mentre Giovanni guardava
allontanarsi, sotto la pioggia, la carrozza del suo superiore. Per un momento,
egli restò con la testa abbassata, con gli occhi fissi, immobile. Poi,
camminando in linea retta, con un passo meccanico da sonnambulo, si
diresse verso la Senna, attirato dal fiume, del quale guardò lungamente,
tenendo puntati i gomiti sul parapetto, l'acqua verde e fredda che si frangeva
contro i piloni del ponte della Concordia. Quel parapetto, egli non lo
scavalcò. Aveva fermamente deciso di morire, ma non prima di aver gridata
la sua innocenza.
Ora dunque, dopo aver resistito al fatale impulso, il giovane camminava
verso la sua casa. Simili stati di decomposizione interna, precisamente
perché sono contemporanei ad una carenza nella parte centrale e direttrice
del1'“io”, sono stranamente instabili.
Certo, se quel delirante avesse visto, quando aprì la porta del suo
appartamento, il sorriso commosso della sua giovane moglie, sì, certo,
sarebbe avvenuto nel suo pensiero un rivolgimento che l'avrebbe salvato. Ma,
come suo marito non tornava, Maria Vialis aveva concluso che lo spoglio
degli scrutini di provincia si prolungava, senza dubbia, ed era uscita, per
andare in chiesa. Giovanni, dunque, incontrò soltanto, nell'anticamera, il suo
domestico, il povero ed onesto Bourrachot, causa innocente di quel sinistro
dramma, che, quindici giorni prima, aveva introdotto nella biblioteca il
traditore. Non guardò né la corrispondenza del mattina, che il bravo giovane
gli porgeva su di un vassoio, né quel viso di villano devoto, sul quale si
leggeva un oscuro rimorso.
Bourrachot era troppo riflessivo, nella sua qualità di campagnolo, per non
associare il mutamento notata nel suo padrone alla conversazione avuta con
lui dopo la visita di Faugières, che non era più ritornato.
- Com'è pallido, il signore! - Osò dire,. stupita dalla fisionomia del
moribondo.
Infatti, si leggeva veramente la morte, su quel viso livido e convulso.
- Il signore sta male, forse?
- No. E' perché non ho dormito... Ma fra cinque minuti dormirò
profondamente.
Il cameriere non poteva capire quale significata lugubre assumesse in quale
bocca quella semplice frase pronunciata con un accento tanto stanco.
- Preparerò subito il letto del signore, - disse - e vi metterò una boccia
d'acqua bollente. Il signore deve avere molto freddo!
Ma Vialis entrava già nella biblioteca, ancora in preda alla stessa vertigine
tragica. La cartella che era sulla scrivania gli rese ancor più presente il
ricordo del suo errore e di ciò che ne era seguito. Bruscamente, egli aprì un
cassetta nel quale teneva una rivoltella d'ordinanza, quella che aveva portata
alla cintura nell'esercito della Loira. Quell'arma era rimasta carica da allora.
La prese, si assicurò che i proiettili fossero a posto. Poi, con mano ferma e
con la strana calma delle supreme risoluzioni, scrisse due lettere che mise in
due buste di dimensioni diverse. Sulla più piccola tracciò il nome del suo
ministro. Senza chiuderla, la introdusse nell'altra, che suggellò con cura. La
sua penna tremava, ora, scrivendo a guisa di indirizzo: Per la mia cara
Maria. Si alzò, andò verso il pastello che Faugières aveva guardato, prima
del suo furto, con una sì bassa invidia. Tutte le gioie della sua esistenza, tutte
le sue ragioni di non uccidersi erano lì, su quella tela illuminata dalle tenere
pupille azzurre della sua cara Maria, come aveva scritto e tanto sentito poco
prima, e dai riccioli castani del loro bel bimbo, d'un colore tanto uguale a
quello dei capelli del padre. Quella visione del suo passato esasperò il dolore
del disperato, invece di attenuarlo. Il pensiero che la sua vergogna potesse
ricadere su quei due esseri che portavano il suo nome e ch'egli amava tanto,
lo turbò maggiormente. Ritornò in fretta allo scrittoio. Riprese l'arma, e, ritto
davanti allo specchio del caminetto, se ne puntò la canna sulla tempia,
tenendo il dito sul grilletto. Il colpo partì. Il disgraziato cadde, fulminato. La
morte era stata istantanea.
III
Il professor Vernat.
Il domestico accorse, alla denotazione, e vide il suo padrone a terra, davanti
al caminetto. Le dita contratte stringevano il calcio della rivoltella. Dalla
tempia forata un filo di sangue scorreva sulla guancia destra e andava
formando una larga macchia sul tappeto. Il bravo giovane, spaventato,
indietreggiò fino all'anticamera, chiamando sua moglie: “Maria! ... Maria! ...
” proprio nel momento in cui la chiave girava nella serratura della porta
d'ingresso.
- È la signora!... - esclamò Bourrachot, turbandosi maggiormente.
Era infatti la signora Vialis, che ritornava, tenendo in una mano il libro da
messa e nell'altra un giornale che aveva comperato all'angolo della Piazza di
Santa Clotilde per cercarvi il risultato delle elezioni.
- È in casa, il signore? - aveva domandato al portinaio.
E avuta una risposta affermativa, si era affrettata. Il pallore del suo bel viso e
la sua stanchezza attestavano abbastanza il turbamento prodotto in lei dalla
lettura delle notizie, e dicevano che ella pure aveva dormito pochissimo in
quella notte, della quale tuttavia non sospettava ancora l'orribile
ripercussione sul suo destino. Era in quel bel periodo delle giovani coppie,
durante il quale le separazioni di dodici ore costituiscono dei veri dolori.
Giovanni, nell'uscire la sera antecedente, dopo il pranzo, le aveva annunciato
che certo avrebbe dovuto rimanere al Ministero fino al mattino. Ella era
tormentata, ora, dal pensiero del viso stanco che certo stava per vedergli,
dopo quella notte di veglia. L'aveva lasciato nervosissimo, e diceva a sé
stessa ch'egli doveva essere anche molto addolorato per l'esito delle elezioni.
Una donna che ama è sempre oscuramente gelosa del tempo e dei sentimenti
che una carriera d'ambizione sottrae alla tenerezza anche nell'uomo più
innamorato. Se le luminose pupille azzurre di Maria Vialis si fossero lasciate
scrutare fino in fondo, forse vi si sarebbe indovinata la gioia di una
liberazione, al pensiero ch'ella stava per avere suo marito unicamente ed
interamente per sé. Santo Dio! come si preparava, la sua voce, a divenire
consolatrice e persuasiva, per mormorargli, in un abbraccio: “Ebbene: non
sarai segretario d'ambasciata. Poco male! Io continuerò ad essere la moglie di
un semplice avvocato del foro di Parigi. Che importa, purché ti abbia?” Ella
giungeva in casa, fine e flessuosa in un abito tailleur il cui colore verdemirto s'intonava con la sua carnagione. L'aveva scelto, quel colore, per una
tenera civetteria...
Che violenta sorpresa, ora, al vedere aperta la porta della biblioteca, e, sulla
soglia, il domestico, bianco in viso come il suo grembiule da lavoro, che la
supplicava, sbarrandole l'ingresso con le braccia tese, per fermarla! Una voce
pronuncia, lì accanto, una frase alla quale ella fa eco immediatamente. È la
cameriera, che domanda con un tremito di terrore:
- Ma che c'è?
- Sì, che c'è? - ripete Maria Vialis. - Il signore... - balbetta il domestico
Ma non può continuare. La vedova ha indovinato una catastrofe. S'è
slanciata. Egli vuol trattenerla. Con una forza centuplicata dall'angoscia, si
svincola. È già nella stanza. Vede l'atroce spettacolo. Con un grido
straziante, si butta in ginocchio accanto al cadavere. Lo solleva per le spalle,
ed implora:
- Giovanni! Giovanni!... Sono io! Ti parla la tua Maria! Ma guardami! Ma
dimmi che mi senti! ... Dimmelo, Giovanni mio! ... Dimmelo!... Non mi
rispondi? Non mi guardi?... Ma no... Non è possibile!... Ah! perché m'hai
fatto una cosa simile?...
E, in un secondo grido, ancor più acuto, che è quasi un urlo, ella lascia
ricadere la povera testa e s'abbandona a terra, ella pure, come una belva
ferita, abbracciando strettamente il morto, baciandogli gli occhi vuoti, la
tempia insanguinata, la bocca senza respiro, prendendogli le mani, le spalle,
tutta scossa da un singhiozzo senza parole, lungo e convulsivo, che fa
pensare che anch'ella stia per spirare...
- Signora!... - supplicano i due domestici.
Signora!
E, chini sulla desolata, cercano di rialzarla, mentre ella si dibatte
respingendoli.
- Lasciatemi! - geme - Sciagurati! Eravate qui, e non gli avete impedito... Ah!
lasciatemi! Lasciatemi!
- Purché il piccino non la senta! - dice piano la cameriera. Poi, ad alta voce:
- Ce ne andiamo signora... ma non gridate! Il signorino, Gianmaria, non s'è
ancora svegliato...
Il nome del figlio aveva colpito nella madre una corda profonda che aveva
vibrato automaticamente, senza ch'ella sapesse nemmeno? Oppure, provò
ella quella sensazione animale di sollievo perché i due domestici avevano
cessato di tenerla? Il suo lamento, ora, diveniva dolce, soffocato e tanto più
doloroso, e, incessantemente, lo stesso appassionato rimprovero del primo
momento si ripeteva: “Perché, perché mi hai fatto questo?”
Con un gesto istintivo, per avere la fronte e la guancia proprio sulla fronte e
sulla guancia del morto, ella si era strappato dalla testa il cappello, i cui
lunghi nastri chiari e stracciati giacevano nel sangue, accanto all'arma.
Quel particolare, di un ordine tanto umile, provocò nella cameriera uno di
quei “riflessi” di mestiere che sono anch'essi quasi automatici, ma che,
sentiti in certi momenti di stupore doloroso, fanno ritornare al sentimento
della realtà.
- Giovanni... - isse ella sottovoce, raccogliendo con lo stesso movimento il
cappello civettuolo e l'arma funesta, e dandoli a suo marito, - lasciamola, e
vieni... Devo parlarti.
Poi, rinculando in punta di piedi, e obbligandolo a fare altrettanto, riprese,
senza cessare di guardare il tragico gruppo:
- Resterò qui, per non lasciarli soli. Tu, devi andare subito a dire a Luisa che
non si stacchi dal piccolo. Le dirai pure che è avvenuta una disgrazia, ma che
non ne parli. Luisa è un'inglese. Se promette, manterrà. Ai portinai e alla
cuoca, nemmeno una parola. Ciarlerebbero per tutto il quartiere, e allora!...
Erano altri automatismi, non più della domestica, ma della contadina, quella
paura dei pettegolezzi e quegli ordini dati al marito... Ella aveva sempre
comandato a Giovanni, e ora dimostrava di avere veramente del senno,
continuando:
- E poi, bisogna andare a cercare un medico, anzitutto per lei, e specialmente
per la Giustizia, perché non ci siano storie di tribunali, nelle quali si sarebbe
immischiati anche noi....
- Un medico? - disse Giovanni. - Ci sarebbe quel dottore che abita all'angolo
di via Las Cases…
- La signora è in quello stato, e tu vorresti condurle un dottore che non
conosce? No! no! nemmeno per sogno! Bisogna trovare il dottor Vernat, che
è il medico di casa... E subito! Egli è di servizio alla Carità. È una vera
fortuna! ... Va! Prima Luisa, e poi sbrigati! Corri! Corri!
- E se non fosse alla Carità?
- Ci sarà. È la sua ora, e ad ogni modo troverai certamente un suo allievo,
quello ch'egli mandò, due mesi fa, quando il piccino fu ammalato e lui non
poté venire... Ma corri, dunque! Corri! Santo Dio! Povera signora! Come
piange! Lo amava tanto!... Ah! è proprio vero che lui non avrebbe dovuto
fare una cosa simile! Ma che mai gli sarà capitato?...
- Sì, che cosa sarà capitato, al nostro povero padrone? - si domandava anche
Giovanni Bourrachot, andando col suo passo più veloce da via San
Domenico a via dell'Università, che sbocca appunto in via Jacob, dov'è
l'antico ospedale.
Il suo semplice buon senso di contadino gli suggeriva una risposta a quella
domanda, poiché anch'egli aveva sentito parlare del suicidio dello zio di
Giovanni Vialis: “Quand'è in una famiglia, questa idea di distruggersi!...
Però, lui che amava tanto la signora! .., E lei, e lei, quanto gli voleva bene!...
Se impazzisse, non me ne stupirei affatto!... Purché ci sia, Vernat! Aggiusterà
tutto lui, con la Giustizia!..Infatti, c'è anche questa complicazione... Mia
moglie ha ragione. Ah! che testa fine!... Ecco! Me l'aveva detto... Ecco
Vernat!”
Egli aveva riconosciuto, ferma davanti al portone della Carità, la carrozza
della quale aveva aperto tante volte lo sportello, davanti all'ingresso del
pianterreno dei Vialis, da quando la giovane coppia aveva preso per medico
Vernat, cioè da cinque anni. I Vialis l'avevano ereditato dai loro genitori, i
quali l'avevano avuto dal famoso Trousseau. L'illustre maestro aveva
indovinato in Vernat un genio medico del lo stesso genere del suo, fatto per
la clinica più che per il laboratorio. E qui si presenta l'opportunità di
tracciare un altro ritratto: quello di quel gran terapeutico, che, come
professore, con minor precisione, nella forma, di quanta ne aveva avuta
Trousseau, e con un'eloquenza convincente inferiore a quella del suo rivale
Giorgio Dieulafoy, fu una delle celebrità della Facoltà di Parigi. Ma se c'è
una gloria effimera quanto quella degli attori e dei cantanti, questa gloria è
appunto quella del medico. Dopo la sua morte, rimane soltanto la memoria
delle sue teorie, e, in medicina, le ipotesi di oggi saranno sostituite da quelle
di domani. Broussais, Charcot, Bouchard... che cosa rappresentano questi
nomi, il cui prestigio fu sovrano? Tre romanzi patologici, uno
sull'infiammazione, l'altro sull'isterismo, il terzo sui rallentamenti della
nutrizione. Il vero valore di quegli uomini superiori consisteva in una forza
personale, scomparsa con loro, tanto potente mentre essi vivevano, che certe
cure, inefficaci fra altre mani, guarivano se erano dirette da loro. Questo
prestigio, Paolo Vernat l'aveva già al massimo grado, in quel periodo dei suoi
esordi, nel quale non aveva ancora, come più tardi, il vantaggio degli onori
ufficiali, che s'impongono agli ammalati ancor più che ai colleghi. Egli non
era che un libero docente e un semplice medico degli ospedali. Ma
avvicinarlo, equivaleva a credere in lui, ciecamente. Quella sua forza di
persuasione dominatrice doveva fargli sostenere una parte decisiva in
un'avventura di un ordine banale quanto tragico. Se la prudente cameriera
non avesse impedito a suo marito di rivolgersi ad un medicastro di rione,
secondo la prima idea ch'egli aveva avuto, certo quel suicidio di un
impulsivo non sarebbe stato altro che un brutale fatto di cronaca. Esso non
avrebbe dato origine al grande e profondo dramma di vita morale a cui il
gesto frenetico del povero Giovanni Vialis servì di prologo sanguinoso,
dramma prolungato durante tutta un'esistenza di vedova e di madre, e che
ebbe per teatro un'anima ammirabile.
Il più strano è che quel medico, il cui intervento determinò il dramma, era
allora, come tanti uomini distinti della sua generazione, un negatore
sistematico del mondo spirituale. Egli è rimasto tale perfino nella morte, e i
suoi amici credenti - poiché ne aveva - conservano il tristissimo ricordo del
pomeriggio d'estate nel quale accompagnarono al cimitero del Père Lachaise
il funerale civile che quell'uomo pieno d'abnegazione e di cuore aveva
formalmente voluto. Rimane infatti insolubile, almeno per me, questo
enigma: - la sensibilità di Vernat, di quello scientista per quale nulla esisteva
che non dipendesse dal bisturi e dalla storta, era tutta altruismo, tutta
sacrificio. Nessuno ebbe più di lui, dalla prima e laboriosa gioventù fino alla
fulgida maturità, la preoccupazione appassionata della fermezza morale,
l’odio dell'impostura, il disgusto dei compromessi di coscienza, il culto
scrupoloso del dovere. Queste virtù, egli le esigeva intorno a sé. L'egoismo e
la furberia l'indignavano, anche nelle loro manifestazioni più innocue. Per
esempio, se un candidato si faceva raccomandare per un esame, un tale
inabile e quasi infantile intrigo bastava perché egli fosse doppiamente severo
nel suo verdetto. Questa rigidezza da giansenista ateo andava unita ad una
impareggiabile delicatezza d'amicizia, quando egli aveva concesso a
qualcuno la propria stima e la propria simpatia. Quella non era mai disgiunta
da questa. Egli aveva il dono rarissimo della comprensione affettuosa. “Per
guarire un ammalato, - insegnava ai suoi allievi, - bisogna anzitutto
consolarlo”. - Ciò equivaleva a dire che esiste un'influenza sovrana
dell'anima sul corpo, ed egli non credeva nell'anima! Un prete di grande
valore, ch'egli aveva curato con la maestria e la sollecitudine di cui dava
prova invariabilmente, gli domandava un giorno: ”Ma, insomma, come
spiegate il pensiero?”
- “Col moto”. - “E il moto?” - “Coll'energia”. - “E l'energia?” - “Esiste, e
tanto basta”. - “Ma se essa giunge a produrre il pensiero, ciò vuol dire che lo
contiene. Da un sacco nel quale non ci sia dell'oro, certo non potete estrarre
oro”. - “E che cosa concludete?” - “Che lo psichismo suppone lo spirito”. “A me bastano gli elettroni. La vostra idea di Dio, signor abate, è
l'attaccapanni illusorio al quale appendete un sogno di felicità e di giustizia,
il quale non è che l'istinto di conservazione, trasformato dall'evoluzione di
un'eredità secolare”.
Questo dialogo ha in sé la sua data. L'evoluzione!... L'eredità!... Con quale
accento i fisiologi di cinquant'anni fa pronunciavano queste parole nelle
quali facevano stare tutta la vita con tutto il suo ignoto! Se Vernat, che era
uno di loro, avesse analizzato il suo essere intimo con lo stesso acume con
cui soleva esaminare i pazienti nel suo ospedale, avrebbe constatata la
limitazione di un'ipotesi falsamente semplice che mutila l'uomo riducendolo
all'addizione dei suoi atavismi. Questi non sono che i materiali coi quali noi
costruiamo la nostra persona. Appunto a questo lavoro su noi stessi, che
presuppone una volontà libera e responsabile, egli invitava i suoi ammalati,
quando comandava loro di reagire. Secondo lui, ciò voleva dire “dar loro la
scossa morale”. Ed egli stesso, che li suggestionava, altro non era che un
volitivo, certo preparato dalle proprie eredità, che però aveva utilizzate per il
proprio sviluppo, modificandole invece di subirle. Suo padre, uno dei più
brillanti professori di retorica dei licei di Parigi (del quale, fra parentesi
Giovanni Vialis era stato allievo) aveva trasmesso al figlio il gusto
d'esprimersi bene, il senso dell'ordine nel discorso e quell'istintivo rispetto
della gerarchia che appartiene propriamente al funzionario. Questi caratteri si
ritrovavano nel medico. Così si spiegavano la lucidità superiore, l'eleganza
dei suoi articoli o delle sue lezioni di clinica, e l'importanza quasi ingenua
ch'egli attribuiva ai gradi ed agli onori. Ma, sul letterato, egli aveva, a forza
di volontà, costruito uno scienziato, e, sul funzionario, un indipendente per
tutto ciò che si riferiva alla sua vita privata e alle sue opinioni. Di origine
provenzale, come rivelavano i suoi occhi bruni e caldi nel volto fine e
mobile, egli aveva disciplinata l'immaginazione, che gli proveniva dalla sua
razza, come pure, per mezzo di un costante allenamento, aveva irrobustito il
suo organismo, troppo debole per natura. Chi l'avrebbe pensato, al vederlo
basso di statura: ma vigoroso, camminare con un'andatura che rivelava
l'agilità e la forza? Nella sua qualità di figlio di professore, dominato dalle
idee, egli aveva avuto, da studente, quell'indifferenza per le cose esterne che
è troppo vicina all'incuria. Un'osservazione di Trousseau era bastata per
correggerlo: “Ricordatevi, amico mio, che noi dobbiamo avvicinarci agli
ammalati con abiti puliti come le nostre mani”, gli aveva detto con
semplicità quel maestro, indicandogli una macchia sul bavero della
giacchetta mal spazzolata. Dalle cose piccole alle cose grandi, tutto era
disciplina, in quell'illustre clinico; e che cos'è la disciplina, se non l'impero
dell'io su sé stesso, l'affermazione, mediante il fatto, che l'anima è una realtà?
Dirò ancora che quell'intelligenza, la cui divisa era la sottomissione al fatto,
rifiutò sino alla fine di riconoscere il fatto suddetto.
Invece, ripeto, per un'inconseguenza che ricorda il detto famoso del Padre
della Chiesa sulle “anime naturalmente cristiane”, egli riconosceva il
fanatismo del dovere, e, come tutti gli uomini di una moralità vera, metteva
in prima linea fra gl'imperativi categorici (poiché si serviva volentieri di
questa espressione kantiana) l'obbligo professionale.
- Noialtri medici, - gli piaceva ripetere, - siamo il Soccorso, e immediato, se
possiamo.
Quando Burrachot, salite le scale a quattro gradini alla volta, giunse sul
pianerottolo del secondo piano dell'ospedale, Vernat, seguito dai suoi allievi,
stava per entrare nella sala in cui era di servizio. In quel momento
interrogava l'interno di guardia, circa le osservazioni della notte.
S'interruppe, vedendo avvicinarsi il domestico dei Vialis con gli occhi pieni
di spavento e con la faccia stravolta:
- Qualcuno della famiglia sta male? - domandò.
- Ho bisogno di parlarvi in disparte, signor dottore, - rispose Bourrachot.
- Potrete parlarmi dopo la visita, fra un'oretta.
- No, signor dottore... - insisté l'altro. E avvicinandoglisi maggiormente,
soggiunse sottovoce: - Venite subito! Il signor Vialis si è ucciso poco fa!
Quantunque un medico degli ospedali di Parigi sia troppo assuefatto alle
tragedie e alle catastrofi, per stupirsi facilmente, Vernat rimase come
atterrato da quella notizia, per alcuni secondi... Poi, rivolgendosi al medico
di guardia, domandò:
- E la polmonite del 22?...
- È già in piena fase risolutiva. Le “punte di fuoco” hanno dato un risultato
meraviglioso, come pure l'iniezione di caffeina.
- Continuate la cura. E poiché non c'è nulla di grave nella sala, provvedete
voi al servizio. Del resto, ripasserò prima di mezzogiorno a dare ancora
un'occhiata. Andate pure, signori.
Deposto il camice da ospedale e indossato rapidamente il soprabito, Vernat
salì nella sua carrozza per recarsi in via San Domenico. Aveva fatto salire
con sé il domestico, e, mentre la carrozza correva, continuava ad
interrogarlo, come già aveva fatto nella guardaroba e sulle scale.
- Dunque, il signor Vialis era appena tornato a casa, dopo aver passata la
notte al ministero?..C'era della corrispondenza per lui?... L’ha aperta?...
- No...
- In questi ultimi giorni, avevate notato ch'egli fosse triste, irritabile?...
- No...
- E aveva appetito? Dormiva?... Non sapete?..- Poi, bruscamente: - Siete da
molto tempo in casa Vialis, voi?
- Sì...
- Dunque, conoscete la famiglia... Sapete che qualche parente del vostro
padrone si sia ucciso, nel passato?... Qualche cugino, qualche zio?
- Sì, uno zio, signor dottore, e almeno un altro parente...
- E come?
- Con una revolverata. Tutti e due così, mi fu detto...
Certo, quella testimonianza aveva per il medico un'importanza capitale,
poiché egli cessò d'interrogare il cameriere e non disse più nulla fino al
momento in cui la carrozza si fermò davanti all'abitazione dei Vialis.
- Ora sapremo se è proprio morto... Sì, - soggiunse, ad un gesto del suo
compagno, - finche non si è ascoltato il cuore, non si può sapere...
- Ah! signor Dottore! - disse Bourrachot, quand'ebbe aperta la porta
dell'anticamera ed introdotto il medico, - Se non fosse morto, la signora non
piangerebbe come piange!...
S'udiva ancora lo stesso lamento, lungo e lento, rotto dalla stessa frase, che,
ripetuta indefinitamente, dava la sensazione di un delirio:
- Perché, perché m'hai fatto questo?
E la povera donna era ancora stesa a terra accanto al cadavere, e ancora lo
abbracciava strettamente, sorvegliata dalla cameriera, che stava sulla soglia,
attenta anche al ritorno di suo marito.
- Signor dottore! - isse ella, sottovoce; - come si fa a staccarla da lui? Ho
tentato ancora... Ma ha gridato!... Ho pensato che impazzisse!
Il medico osservò per un momento quel gruppo tragico, rimanendo
immobile. S'era già formato un'idea circa la causa probabile del suicidio.
Poiché c'erano state altre morti volontarie, nella famiglia, l'eredità era in
giuoco. Ma quale occasione aveva provocato l'atto improvviso? Psicologo
troppo penetrante per non aver compreso che un'appassionata tenerezza
univa i due coniugi, Vernat era anche abbastanza informato relativamente al
retroscena della vita, per non sapere che un'infedeltà fisica è possibile, anche
nell'amore più sincero, spesso da parte dell'uomo, qualche volta da parte
della donna. Egli ascoltava dunque le, parole che quella sventurata gemeva,
quasi senza pronunciarle, e cercava di tradurle. Dal loro significato esatto,
dipendeva la condotta ch'egli avrebbe tenuto verso di lei. La minaccia di
pazzia intravista dall'ignorante Maria Bourrachot andava precisandosi per
lui. Gli era nota, per averne curati i malesseri, la fragilità nervosa di un
organismo che certo poteva essere scombussolato per sempre da un simile
trauma psichico... Ma ora bisognava agire. Andò direttamente a lei, e,
calcolando che la sorpresa di una presenza inaspettata le avrebbe inflitta una
scossa forse salutare, la chiamò tre volte per nome: “Signora Vialis! Signora
Vialis! Signora Vialis!”, senza che ella rispondesse.
Allora la prese per un braccio, e trovò una resistenza convulsiva che gli fece
temere una pericolosa crisi, se avesse insistito. In quel momento, mentre
allentava quella stretta, scuotendo il capo, egli vide la busta lasciata sulla
tavola dal suicida. Lesse la soprascritta. Gli si offriva il mezzo che cercava.
- Signora, - disse semplicemente, - vostro marito vi ha scritto.
La vedova si sollevò, con un gesto non meno convulsivo della sua resistenza
di poco prima. Vernat le porgeva la busta, tenendola piuttosto alta. Ella
dovette staccarsi dal cadavere e alzarsi in piedi, per prenderla. L'avidità di
avere la spiegazione dell'atroce enigma vinceva in lei perfino il dolore. Con
una mano che non tremava più, ella apriva la busta, senza badare al medico,
il quale, inginocchiato ora al posto occupato da lei qualche minuto prima,
applicava l'orecchio sul petto del morto, per debito di coscienza
professionale. Già dal primo sguardo, egli aveva constatata la rigidezza del
cadavere. Disse piano una parola al domestico, che andò - a prendere una
salvietta, e poi con questa coprì la testa di Giovanni, alla quale il foro della
fronte, gli occhi già vitrei, La bocca aperta, davano un aspetto terribile.
Maria Vialis non s'avvide nemmeno di quell'atto. Tutta l'anima sua era
assorta nella lettura di quelle due lettere, ogni parola delle quali giungeva a
lei come pronunciata dalla cara voce che non avrebbe udita mai più.
IV
L'appello alla madre.
“Cara anima mia, - diceva la prima lettera, - quando ritornerai in casa, io
non sarò più. Ti amo appassionatamente, ma non posso sopravvivere al
disonore. La qui unita lettera al ministro ti spiegherà tutto. Gliela porterai. È
impossibile che egli non comprenda che non gli ho mentito. Non ho che un
modo per convincerlo che non sono un traditore, un infame. Sono stato, sì,
molto colpevole, ma non come egli ha pensato. Sono colpevole verso di te,
verso nostro figlio, andandomene a questo modo. Ma non posso, non posso
più vivere. Soffro troppo. Perdono! Perdono! Perdono, amore mio! Ti amo,
ma devo lasciarti, perché non vi sia macchia sul nostro nome. Il mio, è il tuo,
è quello di Gianmaria. Dio avrà pietà di me. Noi ci ritroveremo. All'essere
accusato come sono, e non poter dimostrare la verità altrimenti che col
morire, - poiché, insomma, ai morti si crede, - è cosa assai dura! Addio, mio
unico amore! Pregandoti di portare tu stessa la lettera al ministro, ti affido il
mio onore. ”
L'altra lettera era così concepita:
“Signor ministro,
“L'uomo che vi scrive sta per uccidersi. Egli ha diritto di dirvi che non ha
commesso l'azione che voi, dal canto vostro, avete avuto diritto di
rimproverargli. E' vero: egli doveva, poiché l'onoravate della vostra fiducia,
non avere l'imperdonabile leggerezza di lasciare in una cartella da scrittoio nella quale poteva esser presa, e fu presa - quella lettera la cui pubblicazione
ha determinato il disastro del Puy. Dopo il furto di quella lettera, egli avrebbe
dovuto correre da voi, che eravate stato tanto buono per lui, e confessarvi il
suo fallo. Ebbe invece troppa vergogna, e - perché non ve lo direbbe, in
questo momento della suprema verità? - troppo timore, anche, di una collera
come quella che avete avuto poco fa e che egli non si permette di
rimproverarvi. Tutte le apparenze sono contro di me. Ho un modo solo per
provarvi che non sono un traditore, e consiste nel mostrarvi, - cosa di cui non
potrete dubitare, - ch'io non sopporto la perdita della vostra stima. Non posso
giustificarmi per mezzo di testimoni, ma la morte è appunto una
testimonianza. Un uomo che non può accettare il disonore, non commise
un'azione disonorante. Io non vi ho tradito. Sono stato tradito, io, da un
amico di gioventù, del quale vi do il nome perché possiate controllare la mia
sincerità, mediante una inchiesta. Quel miserabile si chiama Marcello
Faugières. È avvocato alla Corte d'appello, e abita in via GayLussac, 12.
D'altronde affermo ancora che un moribondo non mentisce, ed è appunto un
moribondo, che vi scrive; è un moribondo, che vi prega di avere per coloro
che lascia, - sua moglie e suo figlio, - la stessa benevolenza che aveste
sempre per lui, prima della severità di questa mattina. Vi ripeto che capisco
che era legittima quella severità. Ora non più, e lo sapete. ”
Trascorsero parecchi minuti di un orribile silenzio. Vernat, ritto ora fra il
morto e la vedova, si preparava a trattenerla, se un nuovo slancio di
disperazione l'avesse precipitata di nuova sul cadavere. Che cosa
contenevano quelle due lettere, per effetto delle quali ella rimaneva come
pietrificata?..
- Devo andare! – disse ella infine, - e subito!
Rimetteva già le lettere nelle loro buste, con un gesto febbrile, con uno
sguardo selvaggiamente risoluto, ripetendo: “Subito! Subito!”
- Ma dove? - domandò il dottore.
- Al ministero.
- S'è ucciso per un errore commesso nell'esercizio delle sue mansioni... pensò Vernat. - Come sarà accolta, questa povera donna, e che farà?
Poi, ad alta voce:
- La mia carrozza è davanti alla porta, signora, a vostra disposizione. Se
permettete, vi accompagnerò.
- Siete molto buono, dottore... - disse ella.
- Così non sarò sola!...
E non ebbe una parola di stupore al vedersi accanto quel medico che non
aveva chiamato, né gli rivolse alcuna domanda. Ciò dimostrava che la sua
estrema disperazione confinava veramente con la pazzia. Dal mondo esterno,
non riceveva più, ormai, altre impressioni che quelle che avevano relazione
col suo dolore.
- Ma prima, devo dare un bacio a mio figlio... riprese.
E mentre si voltava per uscire, si vide in uno specchio, con delle macchie di
sangue sul viso.
- Ah! - gemette, dopo un grido d'orrore. - Non deve vedermi così, il mio
piccino!
Uscì, seguita dalla cameriera, mentre Vernat diceva all'inquieto Bourrachot:
- Ha pensato a suo figlio. Spero che stia per riaversi. Ma ci sono delle
formalità necessarie: anzitutto, la dichiarazione al Municipio. Andate voi, a
farla... Correte! Venisse almeno il commissario di polizia prima del ritorno
della signora! Si tratta di evitarle nuove emozioni, che potrebbero essere
pericolose...
- Oh! - fece il domestico, visibilmente rasserenato dalla speranza manifestata
dal medico. - La signora è piena di coraggio, al pensiero di a vere un dovere
da compiere! Avete visto, signor dottore, quando le avete data quella lettera...
Però, - soggiunse, - ha ragione! Il signor Vialis non avrebbe dovuto fare una
cosa simile! Quando egli entrò nella politica, dissi a mia moglie: “Il signore
non è fatto per queste cose... Si agita troppo per dei nonnulla!”
L'aspetto della vedova, quando ella ricomparve, giustificò le parole di
Bourrachot. Dal suo volto, ancor più pallido di prima, ma risoluto, le tracce
sinistre erano scomparse. Ella aveva avuto l'energia d'indossare già una veste
nera, un mantello nero, di mettersi dei guanti da lutto. La sua bocca serrata,
la tensione dei suoi lineamenti delicati, la fissità de' suoi occhi azzurri
dicevano abbastanza che persisteva in lei la febbre interna, domata però da
quella volontà del dovere che Vernat aveva eccitata per caso. Lo stato di
smarrimento nel quale egli aveva trovata la vedova gl'imponeva l'evidenza
della necessità di elevare una diga fra lei e la sua sventura; una diga, non già
per un momento, ma per sempre. Quale? Quell'innocente vittima d'un
contraccolpo tragico dell'eredità, - poiché quest'ipotesi entrava troppo nel suo
sistema, per non essere ammessa da lui completamente, - gl'ispirava già
quella compassione particolare dei medici non induriti dall'ospedale. Essi
vedono chiaramente il pericolo sospeso sull'ammalato, il quale invece non ne
ha sospetto. Quando Maria aveva parlato del suo figliolo, il lampo di un
terribile pronostico aveva attraversata la mente dello scienziato: il nipote si
era ucciso come lo zio e come altri parenti. Quante probabilità, dunque, che
il figlio si uccidesse, più tardi, come il padre! Ed egli la guardava camminare
davanti a sé nell'anticamera, dalla quale l'aveva chiamato, senza entrare
questa volta nella biblioteca, poiché non si sentiva abbastanza sicura di sé.
- Andiamo, - aveva detto la vedova, con semplicità.
Seduta in fondo alla carrozza, ella non disse più nemmeno una parola
durante il tempo abbastanza lungo che il cavallo da nolo impiegò a
percorrere la distanza fra la via San Domenico e il ministero. Ma un gesto
incosciente che ella ebbe, appena le ruote cominciarono a girare, fu più
espressivo, per il suo compagno, che non tutte le confidenze possibili. Ella
gli aveva afferrato il braccio e glielo stringeva con la forza di una morsa.
Muto commento alla sua esclamazione: “Così non sarò sola!” La contrazione
di quella stretta rivelava la sua angoscia. La sua anima, ancora in vertigini,
temeva di perdere la ragione. Quella convulsione continuata aumentava
l'apprensione di Vernat. E siccome Maria teneva nella mano che aveva libera
la busta sulla quale egli poteva leggere il nome del destinatario, il dottore si
ripeteva:
- Come l'accoglierà, il ministro? Vorrà riceverla, anzi?… Se potessi parlargli
prima! Se potessi spiegargli che è in giuoco tutto l'avvenire di questa povera
donna!... Ma in che stato dev'essere, lui, dopo le elezioni!... E se sì tratta di
un errore grave commesso in servizio e relativo, appunto, a queste elezioni?...
Ad ogni modo, potrò domandargli una cosa, per il figlio del povero Vialis; ...
potrò pregarlo di evitare che la stampa si occupi di questo suicidio. E' nostro
interesse, d'altronde.
Questo “nostro” indicherà che il medico della Carità condivideva le idee del
governo d'allora. Le sue opinioni, eccezionali nel suo ambiente,
dimostravano che il suo empirismo sistematico aveva almeno registrato e
compreso il fatto della Comune. A Parigi e nelle crisi acute, ogni uomo un
po' in vista ha la propria scheda politica, nota agli interessati. Vernat aveva
dunque una probabilità di riuscire in un passo che considerava come
importantissimo. Esso avrebbe forse impedito che il figlio conoscesse un
giorno la morte involontaria del padre, e avesse a subire l'assidua e terribile
ossessione dell'imitazione. - Altra fortuna: il ministro c'era. L'usciere di
servizio ravvisò la signora Vialis, che era venuta moltissime volte a prendere
suo marito. Fece nondimeno delle obiezioni che Vernat troncò, dicendo:
- Potete almeno far passare il biglietto da visita della signora ed il mio, con
queste due righe.....
E scrisse rapidamente:
“Signor ministro,
“Giovanni Vialis, vostro capo- gabinetto, si è ucciso. Per UMANITA'
(sottolineò tre volte questa parola), vorrete ricevere la vedova, che ha una
lettera del morto da consegnare a voi. ”
- Sua eccellenza vi aspetta, - tornò a dire l'usciere, che lasciò passare il
medico con la giovane signora.
Il ministro era in piedi accanto al suo scrittoio. Teneva in mano il biglietto
di Vernat, e la sua maschera d'uomo forte esprimeva stupore e sgomento per
il sinistro effetto che la sua collera aveva avuto. Agitò quella carta, senza
nemmeno salutare i visitatori, balbettando:
- Ma è possibile?... E' possibile?...
Per tutta risposta, Maria Vialis porse a colui che ormai considerava come
l'assassino di suo marito la lettera ch'era stata incaricata di portare. Il
ministro la prese. Mentre la leggeva, due grosse lagrime cominciarono a
scorrere sulle sue guance avvizzite, attestando il suo rimorso per il cieco
trasporto di collera che aveva ridotto alla disperazione e al suicidio un
giovane ch'egli amava. Quel violento era un giusto. Appena Giovanni Vialis
era sceso dalla carrozza, egli aveva provato rimorso per quella brutale
condanna, non preceduta da un esame dei fatti, alla quale l'aveva spinto
l'irritazione prodotta in lui dalla terribile notte degli scrutini. Gli era nota la
sensibilità morbosa del suo capo- gabinetto.
“Se quella lettera gli fu rubata, come asserisce, - aveva ragionato fra sé - è
abbastanza naturale, dato il suo carattere, ch'egli non abbia parlato! Ho perso
le staffe... Ho avuto torto”. Tornato al ministero per vedere la
corrispondenza, prima di andarsene a casa a riposarsi, aveva lasciato da parte
ogni cosa, per scrivere subito a Giovanni Vialis una lettera che stava appunto
per mandare in via San Domenico nel momento in cui gli era stata
annunciata la vedova. La prese sullo scrittoio, quella lettera inutile, dicendo
alla sventurata:
- Quella stima che il vostro povero marito mi prega di restituirgli, signora,
egli l'aveva sempre avuta, l'aveva sempre meritata. Il malinteso che poté
sorgere fra noi, è durato solo un momento. Eccone la prova: gli scrivevo
poco fa, per richiamarlo... Mio Dio! perché non ha aspettato?
Maria respinse con la mano la busta che quell'uomo le offriva con un gesto
implorante. E, senza guardarlo, senza salutarlo, uscì dalla stanza, mentre
Vernat, rimasto indietro, cercava di rimediare all'effetto di quella partenza
insultante.
- Signor ministro, quella povera donna non sa quel che fa. In questo
momento, non è responsabile. Perdonatele, e perdonate a me, che come
medico, affinché il figlio non sappia mai in che modo è morto suo padre, vi
supplico d'impedire che la stampa si occupi di questo suicidio.
- Giovanni Vialis sarà morto per un aneurisma. Redigete voi stesso la
notizia... - disse l'uomo di Stato.
- Almeno questo, glielo doveva! - disse la vedova, quando Vernat, ritornato
presso di lei, le ebbe comunicata quella promessa. - Ma fatemi un altro
favore! - soggiunse. Fate in modo che quell'uomo non venga al funerale!
Voglio esserci, e se ci fosse lui, non potrei!
- Signora, cercherò di ottenere anche questo, - disse il medico, - ma quando
vi avrò riaccompagnata a casa.
Gli si offriva l'occasione di osservarla ancora e di precisare a sé stesso il
progetto audace che comincia va a intravedere, per dare a quella creatura
disperata la “scossa morale” preconizzata dalla sua terapeutica. Appena si fu
di nuovo seduto con lei nella carrozza, una parola d'ordine assolutamente
professionale gli si pronunciò nel pensiero:
- C'è già defervescenza. Ormai, ella ha potuto agire la sua emozione. La pila
s'è scaricata.
Ed era vero che l'allentamento nervoso diveniva evidente per il contrasto fra
il contegno attuale della disgraziata e la sua frenesia di poco prima, di
quando si era aggrappata al braccio del compagno, come un naufrago che
stesse per affondare. Ella se ne stava, ancora, in fondo alla carrozza; si
sentiva esausta, quasi in deliquio, ma provava quella strana sensazione di
sollievo animale che succede, anche nella disperazione, alle crisi esplosive
nelle quali sembra, infatti, che l'anima abbia spesa tutta la sua potenzialità di
sofferenza. Provava, suo malgrado, una specie di benessere stanco, e ne era
riconoscente a colui che l'aveva aiutata. E il medico la vedeva, nello stesso
tempo, accorgersi della sua presenza e stupirsene:
- Come siete stato buono, dottore! ... ripeteva la poveretta, come alla
partenza, ma questa volta lucidamente. - Senza di voi, non avrei potuto fare
ciò che dovevo. Ora capisco... Bourrachot è corso a chiamarvi, e siete venuto
immediatamente, voi che siete tanto occupato. Ah! grazie!
Poi, senza transizione, come avviene sempre negli stati emotivi in cui le idee
si associano con un'apparente incoerenza, la quale segue una logica interna:
- Vi ha detto, Bourrachot, com'è andata la cosa?... Egli era in casa, infatti...
Ah! Se ci fossi stata anch'io! Sono rimasta fuori meno di mezz'ora. Sono
uscita dalla chiesa prima della fine della messa... Troppo tardi! Troppo
tardi!... Ma avrei dovuto aiutarlo prima, il mio povero Giovanni!... Vedevo,
in questi ultimi giorni, ch'egli aveva un peso sul cuore. Era per il furto di
quella lettera... Capireste, se vi avessi fatto leggere ciò che ha scritto al
ministro... Avrei dovuto farvi leggere... Sapreste che cuore aveva il mio
Giovanni!... Ah! che ingiustizia, da parte di quell'uomo, l'averlo creduto un
traditore! Per una carta che un amico - capite? - un compagno di collegio, un
mostro, rubò da una cartella in cui mio marito l'aveva lasciata!... Gliel'aveva
affidata il ministro, quella carta... Il ladro l'ha pubblicata. Questa
pubblicazione ha fatto andare all'aria non so quale elezione... Ecco ciò che
temeva, il mio Giovanni, e perché era tanto triste!... Ed io non osavo
domandargliela, il segreto della sua tristezza! . ;. Pensavo: “è inquieto per gli
affari pubblici”... Era tanto patriota!... Tanto convinto!... Cercavo soltanto di
divertirlo, di distrarlo... Lo trascinavo in società, mentre avrei dovuto
interrogarlo, strappargli il suo segreto!... Certo, avrei aggiustato tutto. Sarei
andata io, dal ministro, immediatamente, prima che lo scandalo scoppiasse...
Ah! sono imperdonabile! La presentivo, la sciagura, già da molto tempo.
Eravamo stati troppo felici!... Lo presentii anche di più in questi ultimi
giorni, vedendo tanto triste il mio Giovanni, e non volli credere a quel
presentimento!... Fui vile!... Ah! se egli fosse tornato a casa mezz'ora prima,
o se io fossi uscita mezz'ora dopo!... L'avrei incontrato per via, certamente, e
l'avrei obbligato a parlarmi, a dirmi tutto!... Ah! mio Dio! mio Dio!
Ella pensava ad alta voce, così, e man mano che si riavvicinava alla sua
casa, asilo della sua felicità e, ormai, della sua tragica vedovanza, si esaltava
rievocando i ricordi della. sua dolce vita coniugale, sparsi anche nei minimi
aspetti delle vie ben note per le quali passava.
- Come posso impedire ch'ella ritorni subito presso il cadavere? - si
domandava Vernat, inquieto per quel ritorno di nervosità che già succedeva
alla breve calma. - Bisognerebbe che, come poco fa, vedesse anzitutto suo
figlio.
E quando la carrozza entrò nel cortile, egli disse ad alta voce:
- Dov'è la camera del vostro figliolo, signora?
- Là, a destra... rispose la madre, senza nemmeno volgere il capo verso le
finestre indicate così.
Era posseduta interamente dal desiderio di rivedere il caro viso di colui che
aveva perduto per sempre. La sua agitazione annunciava una nuova e
pericolosa crisi, che stava per esser fermata, non già dalla sua volontà, non
già dalla suggestione imperativa del medico, ma dal più volgare degli
ostacoli. Stavano svolgendosi le formalità della constatazione del suicidio,
del quale Bourrachot aveva fatta la dichiarazione al commissario di polizia,
quando la signora Vialis era uscita. Come li maledice, il cuore che sanguina,
quegli umili e inevitabili particolari, d'un ordine freddamente
amministrativo, che la nostra civiltà burocratica moltiplica intorno a una
morte! Ma qualche volta dovrebbe benedirli. Essi gl'impongono, infatti, un
arresto nella sua agitazione, il quale gli permette di sopravvivere.
- Il commissario e il medico dei morti sono nella biblioteca.
Queste parole, pronunciate dal domestico sottovoce e soltanto per il medico,
furono ripetute alla vedova dallo stesso Vernat, che soggiunse:
- Vi risparmierò di vederli, signora. Dirò loro che state poco bene... ed è
vero. Andate ad abbracciare vostro figlio. La madre saprà trovare la forza di
non piangere.
- Sarà un po' di tempo guadagnato,... riprese tra sé il professore, risalito nella
sua carrozza dieci minuti dopo. - Come per il mio ammalato del 22! Che
cosa abbiamo voluto fare, con le punte di fuoco e la caffeina? Guadagnare
tempo, fino alla risoluzione naturale.
Egli tornava al suo ospedale, come aveva annunciato, pronto a soccorrere il
povero che soffriva alla Carità nella propria carne infettata dal pneumococco,
come aveva aiutata la donna ricca colpita nel vivo della sua sensibilità
intima, e, senza distinguere troppo una dall'altra quelle due sofferenze, si
preoccupava principalmente delle difficoltà terapeutiche, e continuava il suo
monologo:
- C'è questa differenza, però: il periodo risolutivo di una polmonite ha dei
sintomi più precisi. Quando gli sputi diventano più abbondanti, sottocrepitanti, fini, poi grossi, e la temperatura s'abbassa, siamo sicuri che la
dispnea sta per scomparire. Gli essudati psicologici non si sciolgono come
quelli dei bronchi.
Si sciolgono anch'essi, tuttavia, poiché scompaiono. E' ciò che si chiama
consolarsi. Soltanto, dove sono le ventose, i vescicanti e i cataplasmi
senapati, dov'è l'olio canforato e dov'è il siero che possono agire in casi come
quello di questa povera donnina? Però credo di sapere il modo. di guarire
anche lei... A meno che...
Nel dire a sé stesso questa formula di dubbio, egli agitava il capo, come
soleva nei momenti difficili. Quel gesto sarebbe bastato a rivelare ad un suo
allievo l'audacia dell'atto chirurgico ch'egli si accingeva a tentare. Infatti, si
trattava veramente di una operazione, non meno ardita, nel dominio morale,
di quelle di cui egli era stato testimonio in gioventù, passando, nel vecchio
Hotel-Dieu, dalla clinica di Trousseau, suo maestro, a quella di
Maisonneuve. Si narrava, su quest'ultimo, una macabra leggenda, della quale
si ricordano quanti studiarono medicina prima del 1870. Un giorno in cui
quel sorprendente virtuoso del bisturi aveva eseguito, senza anestesia e senza
antisepsi, una delle sue amputazioni prodigiosamente audaci, il suo
assistente gli avrebbe domandato, indicando i due tronconi del paziente:
“Quale è il pezzo che si deve riportare nel letto?” Pur non avendo i terribili
aspetti dell'opera sanguinosa, certi interventi d'ordine puramente
sentimentale sono tanto gravi! e la loro ripercussione può presentare pericoli
tanto spaventosi!
Come non esitare, prima di pronunciare una parola, che, quando sia stata
udita, non sarà dimenticata mai più, o prima di rivelare un segreto che forse
scombussolerà del tutto una mente già turbata? Vernat, la cui migliore
qualità, al capezzale degli ammalati, consisteva in una franca risolutezza, si
domandava ancora se avrebbe realizzato il suo disegno, quando, alle sei di
sera, dopo un pomeriggio interamente dedicato a delle visite, - una delle
quali era stata quella al ministro, promessa a Maria Vialis, - scese
nuovamente di carrozza davanti alla casa di via San Domenica. Il volto
ancora stravolto di Bourrachot, venuto ad aprirgli, distrusse immediatamente
i suoi scrupoli.
- Ah! siete voi, signor dottore! - gemeva il buon uomo. - Proprio ora, mia
moglie mi supplicava di correre a chiamarvi... La signora sta peggio di
prima! Da parecchie ore, la signora sta accanto al morto, e gli tiene stretta la
mano, e non vuol staccarsene!... Non ha ancora preso cibo, in tutta la
giornata, e di tanto in tanto si mette a gridare, a gridare!... Avete già sentito
anche voi, come grida!... E intanto, il signor Gianmaria ha una delle sue
terribili crisi di collera!... Per credere, bisogna aver visto!... Grida anche lui,
chiamando suo padre e sua madre. Bisogna tenerlo fermo, e appena viene
lasciato, ricomincia! Solo la signora riesce a calmarlo... Ma, nel suo stato
presente, Dio sa che effetto le farebbe il vedere il piccino agitarsi così!...
- Fate in modo che io possa vederlo, senza avvertirlo, - disse Vernat.
- Venite, signor dottore... Ecco... (e Bourrachot schiuse una porta) L'udite?...
S'udivano infatti delle grida, nel corridoio interno in cui erano entrati i due
uomini, uno dietro all'altro. Da un'altra porta schiusa dal domestico, il
medico vide lo spettacolo veramente atroce di uno di quei furori infantili che
giustificano l'antico detto secondo il quale la collera è una breve pazzia. Il
fanciullo - che non aveva ancora cinque anni - errava per la stanza, con, le
fiamme al viso, dibattendosi come un animale impaurito. Quando la
bambinaia, Luisa, e la cameriera Maria, volevano afferrarlo, egli le batteva,
le mordeva, e, riuscito a sfuggire dalle loro mani, si avventava contro le
pareti, come per spaccarvisi il capo. Oppure, si avvoltolava sul pavimento, in
preda a convulsioni durante le quali una specie di rantolo succedeva agli urli.
- Avete ragione... Ha bisogno di sua madre, - disse Vernat al domestico. Ora torno con lei. Sorvegliatelo senza toccarlo... La signora è nella camera da
letto?... Sì? Potete rimanere... Mi raccapezzerò. Conosco la casa.
Con quella memoria dei piccoli particolari fisici - pianta di una casa o
lineamenti d'un viso, - che è propria dei mestieri nei quali l'uomo esercita
molto il proprio sguardo, egli si era già diretto a destra, per il corridoio, e si
era fermato davanti ad un'altra porta, dalla quale era passato molte volte, - se
ne rammentava, - specialmente quando la signora Vialis era stata incinta di
Gianmaria. Rimase immobile per ascoltare i gemiti di cui gli aveva parlato
Bourrachot. Ma non udì nulla.
- È in un momento di calma... - ne concluse. - Tanto meglio.
Bussò. Una volta. Due volte. Tre volte. Nessuna risposta. Entrò, e la vide
inginocchiata accanto al letto, con la testa appoggiata su una mano del
morto. All'altra mano era avvolto un rosario. Ella baciava a quando a quando
quelle dita livide. Se non fossero stati quei baci e i profondi sospiri che le
sfuggivano dal petto, avrebbe potuto sembrare morta ella pure, tanto
rimaneva immobile nel suo atteggiamento. Vernat le si avvicinò, senza
ch'ella se ne accorgesse. Dovette toccarle una spalla per toglierla da quello
stato d'ipnosi. Ella si volse, in un brusco sussulto, con quell'espressione di
selvaggia rivolta che il medico le aveva già vista, quella mattina, ma che
s'attenuò appena ella ravvisò l'uomo la cui compassione intelligente era stata
il suo unico conforto in quella giornata d'angoscia. Gli aveva già parlato
abbastanza del suo dolore, per poter pensare ancora ad alta voce davanti a
lui, come aveva fatto dopo la terribile scena nel gabinetto del ministro. E
riprendendo dopo alcune ore la confessione interrotta:
- Guardate! Guardate com'è triste! - disse, indicando il bel volto pallido del
suicida, incorniciato sinistramente da una benda che gli era stata messa per
nascondere il foro nero alla tempia. E soggiunse con voce accorata: - Ed io
gli domando perdono di non avere indovinato! Ah! sono stata molto
colpevole!
- Signora, - disse il medico severamente, - in questo momento siete
colpevole soprattutto verso il vostro figliolo. Al vostro bimbo, specialmente;
dovete domandare perdono...
Maria Vialis lo guardò con stupore. Scossa in tutti i nervi dal dramma di cui
quella funebre contemplazione le rinnovava ancora l'orrore, ella intravide ad
un tratto una peggiore catastrofe.
- Il mio figliolo?! - ripeté - che cosa è accaduto al mio figliolo?
- Venite a vedere, - disse Vernat.
Rispondere a quel grido d'angoscia con quella frase equivoca, era un modo
crudele ma sicuro per ridestare la madre nella vedova. Ella si precipitò
infatti, immediatamente, verso la camera che la furibonda collera del bimbo
empiva ancora di gridi. La vide, il bimbo e, si slanciò verso di lei con la
stessa frenesia con la quale poco prima si era dibattuto contro i tre domestici.
Ella lo sollevò da terra, con uguale passione, e, stringendosi a lei, Gianmaria
cominciò a calmarsi, rifiutando però di rispondere altrimenti che, con pianti
ed abbracci a questa domanda, indefinitamente e teneramente ripetuta:
- Ma che hai, piccino mio?..Che hai?..
- Bisogna metterlo a letto mentre è tranquillo, - ordinò il medico. - Aiutate la
signora, - soggiunse, rivolgendosi alle due domestiche, - a svestirlo piano
piano. E voi, signora, rimanete qui, fino a quando si sarà addormentato,
perché non sia ripreso dalla crisi. Si addormenterà prestissimo.
Meno di dieci minuti dopo, infatti, la madre ricomparve.
- Se sapeste che cosa ha immaginato, il mio povero piccino! - disse ella. Siccome non aveva visto suo padre in tutta la giornata, né me, in tutto il
pomeriggio, s'è creduto abbandonato!… E questo, perché ieri gli lessi la
favola di Mignolino..Che sensibilità! Avete visto?...
- Ho visto che è veramente figlio di suo padre, - rispose Vernat. Poi, dando
al suo accento tutta la gravità di un solenne avvertimento: - E appunto questo
dovete ripetere a voi stessa, signora, dopo ciò che è avvenuto oggi, in tutte le
ore, in tutti i minuti della vostra vita...
La vedova si appoggiò con le mani ad una tavola sulla quale erano sparsi dei
balocchi, per non cadere sotto il nuovo colpo che le era dato da quella
semplice frase, piena per lei d'un significato tanto funesto, e balbettò:
- Volete forse dire, dottore...
- Che il fanciullo è sotto la minaccia di finire come suo padre?... Sì continuò l'implacabile medico, che ormai si era deciso ad agire. - Seguitemi,
signora! - soggiunse con singolare autorità, prendendola per mano e
traendola seco verso la biblioteca.
- No! non là! - implorò lei; - non là, ve ne supplico!
- Sì, signora! - insisté Vernat, costringendola ad entrare - qui, in questa
stanza dove vostro marito ha commesso l'atto che voi non avete capito e che,
come madre, dovete capire, per il vostro figliolo! Quando sono entrato,
questa mattina, dicevate al vostro povero marito: “Perché, perché mi hai fatto
questo?”. Poi, quando vi siete trovata ,davanti al ministro, avete accusato lui,
e più tardi vi siete accusata voi stessa, in carrozza, ed anche poco fa. Ebbene,
signora... Sul mio onore di medico, vi affermo che nessuno è responsabile di
questa morte: né il ministro, né voi, né lo stesso Vialis. Ciò che gli ha messo
in mano l'arma, in questo ambiente, notate, nel quale aveva davanti agli
occhi il vostro ritratto, quello del suo bambino, tutte le ragioni di non
uccidersi, è stato un impulso più forte di lui, diverso da lui. Mi avete inteso:
ho detto diverso. Infatti, egli non commise una vera e propria colpa... Vi fu
un malinteso; il ministro l'ha detto in mia presenza. Ma c'era l'eredità... “L'eredità!” - ripeté il medico, scandendo le sillabe e dando loro un suono di
campana funebre. - Sapete, infatti, che un suo zio ed uno, almeno, de' suoi
cugini, si uccisero, e precisamente come lui...
- Sì, - disse Maria, - ma che c'entra?...Lo zio di cui parlate era un gaudente,
un giocatore, mentre Invece il mio Giovanni...
- Quello zio era un ereditario come vostro marito, - interruppe Vernat. - Il
mondo è pieno - riprese - di gaudenti e di giocatori che non si uccidono,
semplicemente perché non hanno nel sangue questo sinistro atavismo della
morte volontaria... Ma se cercate nella famiglia dei Vialis...
- È vero, - disse ella, scossa da un brivido; - sentii parlare di quel cugino, ed
anche di un prozio...
- Ne ero sicuro. Non c'è suicidio che non sia ereditario, eccettuato, a quanto
pare, il prima... Ma, se si osservasse bene, si vedrebbe che anche il primo
suicidio, in una famiglia, non è in realtà che il termine finale di un atavismo
emotivo sviluppatosi di generazione in generazione... Che era, vostro marito,
se non un “grande emotivo”, straordinariamente impressionabile? Gliela
rimproveraste molte volte in mia presenza, al vostro capezzale, quando ogni
vostro piccolo male lo rendeva come pazzo... E vostro figlio, anche, non è
forse già un emotivo della stessa specie? Davanti a noi, un quarto d'ora fa,
quell'istinto di distruggersi per il quale egli si scaglia va contro le pareti, non
era forse una prova?..
- Ah! - interruppe la madre, prendendosi il viso fra le mani; - mi fate troppo
male! Tacete!... Perché mi dite queste cose?..Volete dunque farmi morire di
dolore, qui, davanti a voi?
- Voglio - disse il medico - che troviate in questa verità la forza di fare il
vostro dovere!
- Quale dovere? Se voi avete ragione, non c'è dovere, non c'è né il bene né il
male, poiché non siamo responsabili. Sono parole vostre, queste... E Dio? Ma
non sarebbe il Dio misericordioso dei credenti, se permettesse che un uomo
giusto, delicato, onesto come mio marito fosse condannato a uccidersi, e così
suo figlio dopo di, lui, per un germe che avessero nel sangue!... Ah! dottore!
il mio peggiore nemico non mi avrebbe parlato come avete parlato voi!...
- Mi ringrazierete un giorno, signora... rispose Vernat, triste, ma con
fermezza. - Non vi ho detto, né vi dirò mai che l'eredità sia inevitabile. Io la
combatto, quando per esempio prescrivo dei rimedi e un'igiene ad un
fanciullo nato da genitori tubercolotici. Riflettete. Se vostro marito fosse
morto d'una malattia di petto, vi parlerei forse da nemico, se vi dicessi:
“vostro figlio è minacciato; portatelo nel Mezzogiorno”? Ora io non faccio
altro che denunziarvi una minaccia, indicandovi una temibile
predisposizione che si trasmette nella famiglia, e avvertendovi della necessità
di combatterla. Sì, signora... c'è in vostro figlio un elemento morboso. Ne
avete constatata la virulenza, or ora, in quella crisi di collera. Dipende da voi
che tale virulenza s'attenui o s'aggravi; dipende da voi, - insisté dall'educazione che gli darete... Voi dovete compiere quest'opera di
salvazione. Essa è possibile. Il fatto che il padre e il nonno di vostro marito
non si uccisero, prova che il germe ereditario non sboccia necessariamente.
Dico che dovete! La prova che si può nello stesso tempo riconoscere la legge
dell'eredità e credere al dovere, è che io credo al dovere, appunto, e cerco di
compierlo, in questo momento. Vi ho guardata soffrire, questa mattina e
poco fa. Ho capito che stavate per affondare nella disperazione; e allora, che
sarebbe avvenuto di vostro figlio? Per lui, e perché egli ha in sé quel germe,
la dominerete, la vostra disperazione... Vi ripeto che dovete! ...
A questo punto Vernat ebbe un momento d'esitazione. Una delle sue regole
più rigorose era quella di non permettersi mai una menzogna d'idee. D'altra
parte gli era nota la religiosità della signora Vialis, e le sue osservazioni
quotidiane gli avevano dimostrato abbastanza che ogni forza viva comprende
una potenzialità di guarigione, perché non giudicasse opportuno lasciare
intatta in quell'anima ferita la forza della religione. Quell'ateo era contrariato,
ora, perché la sventurata aveva tratto dal suo discorso un argomento contro
Dio. Riprese:
- D'altronde, signora, voi avete un confessore; consultatelo. Sarei molto
stupito se quel sacerdote non vi dicesse, come vi dico io, che l'eredità
rimane, in realtà, il mistero dei misteri, mentre è la causa delle cause. Egli la
spiegherebbe, certo, con la reversibilità. Io invece la spiego con l'evoluzione
delle cellule. Sono soltanto ipotesi. Non si può comprendere tutto, ma un
fatto è un fatto. Vi manderò questa sera stessa due o tre volumi di scienza nei
quali troverete studiato nella sua crudezza il fatto che c'interessa. Quanto al
mezzo di difendere vostro figlio, in questo momento non posso far altro che
indicarvene le grandi linee. Bisogna anzitutto che il bimbo non sappia nulla
di questa catastrofe. Abbiamo già provveduto in questo senso. Ho redatto un
articoletto che il ministro diramerà ai giornali. Si saprà che Giovanni Vialis è
morto d'una malattia di cuore. È necessario che il fanciullo non veda la
vostra disperazione. Ne sarebbe sensibilizzato oggi, e forse illuminato più
tardi. Nessuna scossa! Sia questa la vostra regola verso di lui. Con la calma,
potrete guidarlo come vorrete... Ma dovrete farvi tutto un programma. Io
sono pronto ad aiutarvi. Se vostro marito potesse parlarvi, ora, sapete che
cosa vi direbbe? “Salva il piccino!”
E vedendo che in lei non era più traccia della rivolta di poco prima, Vernat
concluse:
- Giuratemi, signora, in questa stanza nella quale Vialis ha sofferto la
suprema agonia, di fare tutto il possibile per costruire la vostra vita avvenire
su questa sua volontà: salvare suo figlio!
- Cercherò, ve lo giuro! - disse la vedova dopo un silenzio, vinta da quella
specie di radioattività che emanava quell'uomo superiore, tutto teso, in quel
momento, in uno di quegli atti d'influenza per mezzo dei quali un essere
comunica ad un altro l'energia della propria convinzione intima, e
gliel'infonde.
- Ma, - soggiunse, - sarà arduo, questo compito, e io sono tanto debole!
Poi, più piano, rivelando così la diffidenza che aveva di sé stessa, domandò:
- Il ministro non verrà, domani al funerale?
- È inteso che non verrà - rispose Vernat.
E quando, dopo quella conversazione, si ritrovò nella sua carrozza, solo coi
suoi pensieri, disse fra sé: “Quella donna è più forte di quanto essa supponga.
Claudio Bernard ha ragione: noi possiamo più di quanto possiamo. Ella
cercherà di salvare suo figlio, come ha giurato. È un'anima fedele. lo, ho
fatto ciò che bisognava fare. Sono stato il Soccorso... ”
La sua coscienza non era mai tanto vivamente soddisfatta come nei momenti
in cui egli poteva dire così, applicando a sé stesso quella parola che aveva
adottata per suo motto. Poi, scuotendo il capo, concluse: “Qualunque cosa
ella faccia, d'altronde, è molto probabile che quel figliolo finisca come suo
padre. Ha un bel dire, il mio collega Grasset, che l'eredità non è né fatale, né
ineluttabile (Prof. GRASSET, Physiopathologie clinique. T. III, p. 1093)! È
la prigione. Ma ad un prigioniero in un carcere, perché non si spacchi la testa
contro il muro, come voleva fare il piccolo Gianmaria, si può forse dire: Voi
potete uscirne. Meritatelo? Ahimè! quando si tratta di quella prigione, non
c'è nessuno che abbia qualità per dare l'exeat!”.
V
Dopo ventisette anni
Ventisette lunghi anni erano passati, da quel sinistro giorno dell'ottobre
1877, nel quale il medico della Carità aveva strappato alla vedova di
Giovanni Vialis quel giuramento, o piuttosto quel voto di una lotta contro la
fatalità sospesa sul figlio del suicida.
Oh! contraddizione di un negatore della forza spirituale, che esortava una
madre disperata a compiere uno sforzo il quale sottintendeva appunto un
appello alla forza spirituale! Più d'un mezzo secolo d'ospedale e di
laboratorio non aveva prodotto alcun mutamento nelle teorie del monista
Vernat, che continuava a considerarsi come fedele al metodo scientifico,
cercando soltanto - attraverso i suoi esperimenti di clinico - delle
verificazioni a certe ipotesi metafisiche ammesse una volta per sempre. Ora
titolare di una cattedra alla Facoltà di medicina era divenuto uno di quei
medici famosi che sono veri gran signori della Parigi moderna, e che vivono
fra le magnificenze d'un lusso principesco, attorniati da una corte di
discepoli e di clienti, ugualmente fanatici. Una simile esistenza è come un
terreno già scavato per ricevere i tre fiumi di fuoco di cui parlava Pascal
dopo San Giovanni: la passione di sentire, la passione di sapere e l'orgoglio
della vita: “Omne quod est in mundo, concupiscentia carnis est, et
concupiscentia oculorum, et superbia vitae (“Tutto ciò che è nel mondo, è
concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e orgoglio della vita...
”; S. Giovanni. Ep. I, c. II, v. 16)”. E l'apostolo soggiunge subito: “Il mondo
passa, e la concupiscenza del mondo passa con lui... ”. Vernat, nel suo
trionfo, era già molto vicino a quel trascorrere di tutte le cose periture che
faceva dire allo stesso Pascal: “I fiumi di Babilonia scorrono, e si riversano
in cascate, e travolgono. O Santa Sion, dove tutto è stabile e nulla cade!”.
Alla città mistica di dopo la morte, il gran medico non credeva affatto.
Credeva invece nella sicurezza del proprio diagnostico, e si sapeva
condannato per una scadenza più o meno lunga, avendo riscontrati in sé tutti
i sintomi iniziali del terribile morbo di Bright: cefalea, palpitazioni, vertigini,
piccole emorragie; sensazione del dito morto, crampi, pruriti, ecc.
Gli accadeva spesso di passarsi la mano sulla fronte per constatarvi la
flessuosità in rilievo dell'arteria dilatata.
E quando si osservava nello specchio, vedeva una maschera gonfia di
sessantenne, il cui sguardo triste non rammentava affatto la luminosità
orgogliosa dei suoi occhi d'un tempo. Quantunque s'imponesse
l'atteggiamento stoico del suo maestro Trousseau, il pensiero di essere alla
mercé di un episodio acuto gli empiva d'ombra la mente. Non varcava mai la
soglia del suo palazzo del Parco Monceau, senza che una voce interna gli
mormorasse il fatale: “Presto bisognerà lasciare tutte queste cose!” E tutte
queste cose non erano soltanto quella bella abitazione con i suoi quadri, i
suoi mobili rari, le sue tappezzerie. Comprendevano anche la più devota
delle compagne, la donna un tempo deliziosamente bella (e ancora tanto
graziosa nella sua vecchiaia incipiente) ch'egli aveva sposata un po' prima
del suicidio di Giovanni Vialis; - anche il suo ospedale della Carità, nel quale
aveva creato un servizio modello e che amava come Napoleone poteva avere
amata la caserma della sua Guardia; - anche i pochi salotti nei quali gli
piaceva essere accolto fra gli omaggi, ed infine, e soprattutto, i suoi
ammalati. Era rimasto appassionato per l'arte sua come quando, studente
giovanissimo, saliva le scale del vecchio Hotel-Dieu per andare a udire lo
stesso Trousseau; come quando, il suo cuore batteva forte se gli accadeva di
trovarsi, fra gli uditori del maestro, a fianco di quell'altro maestro che si
chiamava Duchenne (di Boulogne).
Continuava a mettere in pratica, con un fervore esaltato dalla convinzione
della sua prossima fine, il suo nobile motto: “Essere il Soccorso!” Non
avendo avuto che un figlio, morto nel nascere, aveva dedicato tutto le sue
forze affettive ai suoi pazienti, e specialmente a quelli che seguiva fin dal
principio della sua carriera. Perciò, nessuna visita eccitava in lui un interesse
tanto vivo, come quelle che andava facendo in quella casa in via San
Domenico, dove Maria Vialis continuava a vivere.
Dopo il suicidio del marito, ella non aveva mai voluto lasciare
quell'appartamento, nel quale aveva trascorso tanti anni d'una felicità sì
completa, tragicamente ed improvvisamente naufragata in una di quelle
catastrofi dalle quali certe anime - quelle che sanno amare - non si
risollevano mai. Non aveva permesso che cosa alcuna vi fosse mutata. Il suo
culto per la memoria del marito voleva che tutto continuasse ad essere, in
quella casa, esattamente come nel giorno in cui il giovane capo gabinetto,
accusato dal suo ministro, si era ucciso in un accesso di vertigine emotiva, -
purtroppo ereditaria! - Ella aveva anche continuato a tremare all'idea della
minaccia. E il medico, come avrebbe potuto non dire a sé stesso che forse
aveva commesso un errore provocandola, quella minaccia?
Quante volte questo scrupolo aveva tormentata la sua coscienza, e più
ancora nel momento in cui questo racconto ricomincia! Ora si comprenderà
perché.
Volgeva l'ultima settimana del mese d'ottobre 1904; era passato da
pochissimi giorni l'anniversario del dramma del 1877, e Vernat scendeva
dalla sua carrozza davanti alla casa di via San Domenico, all'ora stessa in cui
il domestico di Vialis era andato a chiamarlo, una mattina uguale a quella,
velata e triste. Una chiamata troppo uguale gli era giunta, al suo destarsi,
sotto la forma di un biglietto scritto dalla vedova, che lo supplicava di
passare da lei nel recarsi all'ospedale. Ella diceva di sentirsi un po' sofferente
per un'infreddatura, e la sua lettera finiva con questa frase anche troppo
significante: “Non devo consultarvi soltanto sulla mia salute. Mi avete
compresa. C'è urgenza”.
- C'è urgenza, - si ripeteva Vernat, - ed ha sottolineato queste parole. Vorrà
parlarmi di suo figlio. Me l'aspettavo.
Si fermò un momento sul pianerottolo, come se avesse avuto bisogno di
raccogliere tutte le forze del proprio spirito prima di affrontare un colloquio
del quale intuiva la pericolosa gravità. Da molto tempo, egli evitava con la
signora Vialis le allusioni a ciò che continuava ad essere, nondimeno, il loro
comune pensiero. Aveva approfittato, per tranquillizzare completamente la
madre, di un fatto che d'altra parte aveva per lui una grande importanza.
Giovanni Vialis si era ucciso a ventotto anni. Gianmaria aveva compiuto,
appunto, i ventotto anni nel 1900, e quella data era stata oltrepassata senza
che nulla di anormale fosse avvenuto. Ora, nell'eredità del suicidio c'è una
legge che i psichiatri moderni chiamano omocronismo. In una famiglia di
predisposti, la morte volontaria si osserva generalmente alla stessa età e
spesso nella medesima stagione. “Il momento, pericoloso è passato”, aveva
detto il medico alla vedova; “avete salvato vostro figlio”. Ma, fra sé: “Che
cosa sarebbe avvenuto - si era domandato Vernat, - se proprio a quell'età si
fosse presentata a Gianmaria una circostanza come quella che ridusse al
suicidio suo padre nell'ottobre 1877?” Il terapeutico in voga era troppo
informato delle minime dicerie di salotto, per non sapere che una circostanza
analoga poteva ormai presentarsi al giovane, da un momento all'altro, e
provocare in lui il gesto fatale. Era informata, la madre, di uno stato di cose
rimasto segreto, ma non abbastanza perché lui, Vernat, lo ignorasse? Se ella
lo avesse interrogato, che cosa le avrebbe risposto? Mentre tirava il cordone
che metteva in moto, alla maniera antica, un campanello interno, si sorprese
a mormorare la formula dell'antico giuramento ippocratico:
- Nec visa, nec audita, nec intellecta...
E, ad alta voce, al domestico che gli apriva la porta e che era lo stesso che
gliel'aveva aperta tante volte nel 1877, domandò:
- La signora sta male, Bourrachot?
- Ogni anno in questo mese, - rispose il domestico, - si ripete la stessa cosa,
signor dottore... Questa data le ricorda troppo il povero signore... Lo stesso
accade a me, in luglio, che è il mese in cui morì mia moglie... La signora se
ne sta sola per delle ore, chiusa in quel maledetto studio dove avvenne la
tragedia. Signor dottore, ordinatele almeno di stare nel salotto. Certo non
soffrirebbe tanto, per niente! Guardate, signor dottore....
Bourrachot aprì un'altra porta, quella della biblioteca, e, con un gesto
scoraggiato, indicò la vedova, ancora in gramaglie, che stava assorta nei suoi
pensieri, seduta accanto al fuoco, a - due passi dallo scrittoio sul quale era
sempre rimasta la cartella dalla quale l'amico traditore aveva rubata la lettera
fatale. Ora i capelli della bionda Maria Vialis d'una volta erano tutti bianchi.
Della bellezza graziosa dei suoi venticinque anni, le era rimasto soltanto il
fine profilo, divenuto sì doloroso, sì amaro... Erano ancora gli stessi
lineamenti delicati che si vedevano nel ritratto, ancora appeso alla parete, nel
quale ella teneva il suo figliolo stretto a sé, - profetico simbolo di ciò che
doveva essere tutta la sua vita! Soltanto, quei lineamenti, ora, sembravano
come incisi con una punta, Un costante terrore aveva dato una continua
espressione d'ansietà a quel volto, raggiante, un tempo, di tenerezza felice.
Esso si illuminò, tuttavia, quando ella vide finalmente il visitatore, d'un
vago sorriso che scoprì i suoi bianchissimi denti rimasti intatti, indizio, come
i folti capelli, come la flessuosità della persona, come l'agilità delle movenze
- di una vitalità molto resistente. Purtroppo, ella l'aveva impiegata soltanto a
soffrire, in quell'ambiente della sua felicità d'altri tempi, che le metteva
intorno la malinconia della eleganze appassite. L'appartamento era stato
arredato all'epoca del suo matrimonio, nel 1872. I mobili coperti di stoffa
erano allora “di moda”. In quello studio, c'erano delle poltrone imbottite, la
seta delle quali era scolorita. Quella delle tende, anche, si sdruciva e
scoloriva. Le rilegature dei volumi ereditati dai nonni di Vialis rivestivano
ancora le pareti col loro marocchino avvizzito ed aggiungevano anch'essi
qualcosa a quell'aspetto di triste vetustà, tanto più che il pianterreno dava su
di uno stretto giardino, nel quale, in quella mattina grigia, due alberi magri
lasciavano cadere le loro foglie morte su un tappeto erboso pure ingiallito...
Frattanto la reclusa di quell'asilo di rimpianti s'era alzata con una febbrilità
che dimostrava come ella avesse atteso Vernat molto impazientemente, dal
fondo della sua solitaria fantasticheria.
- Avevo tanto timore - disse - che veniste più tardi!… E siccome aspetto
Gianmaria per le undici...
- Avete voluto parlarmi di lui, prima... - interruppe il medico. - Ma anzitutto
dobbiamo parlare di voi. Dunque avete di nuovo preso freddo. Al cimitero,
naturalmente!... Suvvia! lasciate ch'io vi ascolti...
Parlando, l'aveva obbligata a sedersi, ed ora, applicato l'orecchio prima al
petto, poi alle spalle di lei, diceva:
- Respirate. Non respirate... Va bene... Nulla di grave. Ma se non sarete un
po' più prudente, vi manderò nel Mezzogiorno!...
- Sapete bene che non posso andarci! Le mie opere di carità...
- Anche per quelle, vi affaticate troppo.
- Non vorrete proibirmele!..Dimenticate che mi hanno aiutata a vivere,
specialmente dopo il matrimonio di mio figlio?
Seguì un breve silenzio, che Vernat interruppe per il primo.
.
- C'è qualcosa di nuovo, da quella parte? - domandò.
- Sì... C'è, anzitutto, che Gianmaria non è felice! - rispose la madre. - Sapevo
bene che quella moglie non era la più desiderabile, per lui! E anche voi lo
sapevate. Quando venni ad annunziarvi: “Gianmaria è innamorato di Sabina
Lancelot: vuole sposarla... ” compresi subito, dalla vostra fisionomia, che
quella ragazza non vi andava a genio...
- La conoscevo appena - corresse il medico - . Però vi dissi la verità,
affermandovi che l'avevo vista piena di abnegazione al letto di morte del suo
nonno, presso il quale ero stato chiamato per un ultimo consulto.
- Me lo diceste, infatti, - riprese la signora Vialis, - e aggiungeste che era
soprattutto necessario agire con molti riguardi, data l'esaltazione di
Gianmaria. Mi rammento perfettamente di tutto il vostro discorso, e delle
cifre che mi citaste, secondo le quali quindici suicidi su cinquanta hanno per
causa delle storie d'amore. Non è un rimprovero, amico mio.
Il medico doveva parlarmi come mi parlaste, allora, ed io dovevo agire come
agii. Quando cominciai a fare delle obiezioni a Gianmaria, egli mi guardò...
E rividi talmente, nei suoi occhi lo sguardo di suo padre!...
- Non dovete esser pentita, - disse Vernat - Sono, tutti e due, abbastanza
ricchi, hanno due bei bambini sanissimi. Conducono, è vero, una vita un po'
troppo mondana... Ma sono giovani... Gianmaria trascura un poco gli studi di
storia che iniziò quando uscì dalla Scuola diplomatica?... Vi avevo
consigliato di dirigerlo da quella parte, per evitargli una carriera d'ambizione
e i suoi pericoli possibili... Quei pericoli sono evitati. Resta da sapere se
quell'esistenza di svaghi che oggi è la sua, sia preferibile, per la sua salute,
all'abuso di lavoro intellettuale che mi rendeva inquieto, ve lo confesso.
Quanto al non essere felice... persuadetevi che la felicità, gli sarà sempre
vietata dal suo carattere...
- E siete voi, che parlate così, a me... a sua madre?! - interruppe Maria
Vialis, guardando il suo interlocutore fissamente e con un fremito delle
labbra e delle palpebre. - Voi! - ripeté. Ma se non dite la verità a me, voi, su
quale aiuto, su quale, potrò far calcolo? Non dissi mai a nessuno, nemmeno
al mio confessore, che mio marito si uccise. E al mio confessore, non voglio
chiedere consiglio... Soltanto a voi, dunque, soltanto a voi, posso parlare di
quella cosa orribile!...
- Calmatevi, signora; calmatevi! - disse il medico. - Desiderate che io vi dia
un consiglio?..Sono pronto a darvelo.
- Ebbene, riprese la madre, - anzitutto, devo rivolgervi una domanda.
- Dite... Vi risponderò.
- Voi frequentate molta gente, dottore, e sentite dire molte cose. Quando si
parla di mia nuora, in società, che cosa se ne dice?
- Che è una donna graziosissima, molto simpatica...
- Ah! - esclamò la madre, irritata. - Ancora questa menzogna!... È una
menzogna, infatti!... È vero o non è vero, che mia nuora viene giudicata una
civetta?... Non mi rispondete! Eppure, mi avete promesso... Non dicono tutti
che è leggera?... Non mi rispondete!... Non viene pronunciato, parlando di
lei, il nome di un uomo?..Non mi rispondete! Ma cercate di capire, dunque,
che se ve le rivolgo, queste domande, non è per me! Io, ho già la mia
convinzione. Sabina non è una donna onesta. Ora è necessario che mi
aiutiate a difendere mio figlio, perché...
Ella indicava li scrivania sulla quale suo marito, prima di uccidersi, le aveva
scritta la breve lettera d'addio. E, ad un gesto del medico, che significava:
“Ma che cosa posso fare io?” continuò:
- Da alcune settimane, mio figlio è atrocemente triste. Si tratta di uno di
quegli abbattimenti come gliene vidi tanti, quand'era piccolo, prima di
andare a confessarsi, o prima di un esame, ogni volta, insomma, che aveva
occasione di manifestare quella tendenza all'ansietà che ho tanto combattuta
in lui, appunto per questo, volli che tutta la sua educazione si svolgesse qui.
Attualmente, egli attraversa una crisi. È una crisi grave, poiché mi ha scritto
annunciandomi la sua visita per questa mattina, in termini molto inquietanti,
e pregandomi d'essere sola! ... Amico mio... poiché infatti siete un mio
amico, il migliore, il più sicuro, quello che sa tutto... vi prego nuovamente di
aiutarmi, in questa circostanza!....
- Dunque, credete ch'egli voglia parlarvi di sua moglie?..Credete che sia
geloso? - disse Vernat, senza rispondere direttamente.
Mentre Maria Vialis lo tormentava con le sue domande, la fisionomia di lui
era divenuta sempre più indecifrabile. Egli non aveva sbagliato, prevedendo
un'inquisizione alla quale la sua coscienza non gli permetteva di prestarsi. Il
segreto professionale, per un medico scrupoloso, non si riferisce soltanto alle
malattie. Si estende perfino ai discorsi uditi in salotti nei quali il medico
viene accolto specialmente come tale. Vernat era dunque fermamente deciso
a non pronunciare parola alcuna che confermasse i sospetti della suocera
relativamente alla nuora; e poiché alla sua domanda sulla gelosia di
Gianmaria, la signora Vialis aveva risposto affermativamente, egli volle
prevenirla, e le domandò:
Temete dunque che vostro figlio pronunci, lui, un nome d'uomo?
- Sì.
- E potreste dirmelo, questo nome?
- Giorgio Saintenois! - disse Maria con voce strozzata.
Ella aveva afferrato il braccio di Vernat, come quel giorno lontano, nella
carrozza che li portava al ministero, e allentando la stretta esclamò:
- Ah! non avete sussultato! Dunque è vero che questo nome non vi dice
nulla! - Poi, accasciata: - Ma che cosa prova, questo? Non sareste quel gran
medico che siete, se non sapeste tenere tutto qui e qui! - E gli toccava
alternativamente il petto e la fronte, gemendo: - Ah! come sono sola!
- Ma no, signora! non siete sola! replicò Vernat prendendole a sua volta una
mano.
E, mettendo in pratica, infatti, quella regola professionale del sapersi
dominare, della quale ella lo aveva lodato allora, assunse un tono bonario e
indulgente per tranquillizzarla. Pensava: “Povera donna! Ha indovinato!” E
riprese ad alta voce:
- Suvvia! permettetemi di ragionare con voi... Che cos'avete sperato,
interrogandomi? Che vi avrei risposto: sì, ho sentito parlare di Giorgio
Saintenois, a proposito di vostra nuora; oppure: no, non ne ho sentito parlare!
Ma non proverebbero nulla, i discorsi o il silenzio della gente! Quante
relazioni innocentissime vengono calunniate! Quante relazioni colpevoli
sono invece ignorate! ... Voi vorreste, in realtà, controllare i vostri sospetti.
Checché diciate, infatti non potete avere che dei sospetti! Ma non avete
trovato il mezzo più opportuno.
- Voi sfuggite sempre! disse la madre, scuotendo il capo con tristezza. - È un
vostro diritto, oppure è il vostro dovere... Ma non sfuggirete a quest'altra
domanda. Mio figlio sarà qui fra mezz'ora. Supponiamo ch'io non m'inganni,
- e su quel punto non m'inganno di certo... Ho osservato troppo bene il suo
contegno verso sua moglie in questi ultimi tempi... Supponiamo dunque
ch'egli sia geloso ed abbia motivo di esserlo. Supponiamo inoltre ch'egli mi
dica un nome e che questo nome sia quello di Giorgio Saintenois. Siete o non
siete del parere che io debba condividere la sua idea, e manifestargli la mia
opinione? Non credete che, agendo così, io possa provocare uno sfogo
salutare, da parte sua? Se il mio povero marito, il giorno in cui constatò il
furto di quella lettera che gli era stata affidata dal ministro, me ne avesse
parlato, e avessi potuto ragionare con lui delle possibili conseguenze di quel
fatto, egli non avrebbe subito l'ossessione della fissazione che gli fu fatale.
Ne sono sicura. Poi, nella scena col ministro, l'urto sarebbe stato meno
violento per lui, e ciò che avvenne non sarebbe avvenuto.
- Il caso non è uguale, - rispose Vernat. - C'era un fatto positivo, allora, e un
fatto si circoscrive, si precisa... Nella circostanza presente, non si tratta, vi
ripeto, che di sospetti, tanto in voi che in vostro figlio, dato ch'egli sia
veramente geloso. I suoi sospetti, li moltiplichereste coi vostri,
semplicemente, e così determinereste l'esplosione. Il mio parere, poiché me
lo domandate, è che gli teniate celato, invece, tutto ciò che mi avete detto or
ora, ma risolutamente, assolutamente! Se egli dirà il nome di Saintenois,
come temete, abbiate il coraggio di alzare le spalle, e di scherzare...
- Ma, dottore... - interruppe Maria, - calcolate bene ciò che mi consigliate?
Dunque, Sabina avrebbe un amante, ed io, madre del marito, dovrei coprire
una simile infamia?..
- Procurate di non doverla coprire...
- Ma in che modo, se la cosa è vera?
- Coll'avere con vostra nuora la conversazione che non dovete avere con
vostro figlio.
- Non vi capisco... Una conversazione con mia nuora? Su Saintenois?
- Sì.
- Ma così l'avvertirei.
- Appunto; e la fermereste, qualora ella fosse ancora nel periodo delle
semplici leggerezze, oppure la decidereste ad una rottura, se si fosse spinta
più oltre; Se vostro figlio vi ha pronunciato quel nome, non esitate:
ripetetelo, voi, a sua moglie, non già come avendolo saputo da vostro figlio,
ma come avendolo scoperto da sola. Vedrete così come vi risponderà, vostra
nuora, quando le manifesterete la vostre ragioni di pensare che ella non sia
onesta. Io non ve le domando, queste ragioni. Non potrei discuterle. Voi
dovete averne, per diffidare particolarmente di quel giovane.
- Certo... Ma soprattutto per diffidare di lei, e questo, appunto, rende assai
difficile la conversazione che mi proponete. Mi proibii sempre di lagnarmi di
mia nuora, anche con voi. C'è voluto il biglietto di mio figlio questa mattina,
e il sentimento della gravità probabile del colloquio ch'egli vuole avere con
me, perché io mi sia decisa a parlarvi apertamente, come ho fatto. Fra mia
nuora e me, fin dal primo giorno, i rapporti furono glaciali. Come avete
detto, a lei piace immensamente la vita di società, e questa vita, quando s'è
sofferto come ho sofferto io, non è più sopportabile. Ella ha trascinato mio
figlio in un turbine nel quale non li ho seguiti. Ai loro pranzi, ai loro
ricevimenti, non presi mai parte. La solitudine, qui, col mio passato; fuori, la
chiesa e le mie opere di carità: ecco tutta la mia esistenza da quando mio
figlio si sposò. Non ho nulla da rimproverare a Sabina dal punto di vista
della correttezza. Ella mi dimostrò sempre quella fredda deferenza che
significa: vivete e lasciatemi vivere. Oh! ha saputo condursi bene, tanto bene
che non potrei formulare contro di lei una lagnanza qualunque. Ora vi par
possibile che io abbia a passare ad un tratto da questo silenzio cortese ed
armato ad un brusco attacco? Se è colpevole, Sabina rifiuterà di darmela,
questa spiegazione...
- Però, è sposata, - disse Vernat, - e con un uomo del quale deve conoscere il
carattere, poiché la giudicate tanto riflessiva. Lo vide collerico, violento.
Dovette subire più d'uno di quegli accessi d'ira che ci spaventarono tanto, nel
passato. Se è colpevole, vorrà ad ogni costo evitare che voi la denunziate ad
un uomo del quale non può non avere paura. Il mio pronostico è che la
troverete docile, tanto da stupirvene, appena sarà stato pronunziato il nome
di Saintenois - almeno se non si tratta di un errore da parte vostra. E se siete
in, errore, se vostra nuora non ha nessun romanzo nella sua vita, che cosa
rischiate?... Se ella mi avesse tenuto per medico, vi risparmierei una
conversazione che sembra esservi troppo penosa... Infatti un medico può
permettersi molte indiscrezioni.
- Ma non vi volle più per medico - rispose la signora Vialis, - e fu in un
momento in cui ciò poteva dar da pensare...
Era lei, ora, che fissava sul suo interlocutore uno sguardo acutamente
scrutatore. Quale altra terribile verità cerca va di scoprire? Vernat
l'indovinava anche troppo, e diveniva sempre più impassibile mentre la
madre insisteva:
- Sì!... Quando ella fu incinta della sua seconda creatura...
- Riprese, allora, il medico che aveva avuto da ragazza, - disse egli, - ed io
non me ne offesi affatto. Anzitutto, non ero a Parigi, quando cominciò quella
gravidanza. Ebbe dei malesseri che resero necessarie delle cure immediate.
Si rivolse ad un mio collega che conosceva già. Nulla di più legittimo.
Continuò a farsi curare da lui. Giustissimo!... Ma... (Egli si era alzato e
consultava l'orologio). Ma non ho molto tempo disponibile. Scusatemi...
D'altronde, avete già la mia ricetta, almeno per il morale: a vostro figlio, il
cloroformio, l'anestesia; a vostra nuora, il bisturi, se sarà necessario!...
Quanto alla vostra infreddatura, ecco...
Si sedette allo scrittoio, sulla stessa poltrona che aveva occupata, prima
d'uccidersi, il povero Giovanni Vialis. Estrasse di tasca una penna
stilografica e un taccuino dal quale staccò un foglietto su cui scrisse
rapidamente poche parole. Non aveva voluto adoperare la carta né la penna
che la vedova continuava a tenere lì, accanto alla cartella; senza servirsene
mai, nemmeno lei, ispirata unicamente dall'ingenua religiosità di un affetto
che si concede l'illusione di prolungare una vita profondamente rimpianta.
Quella divinazione e quel rispetto d'una sfumatura di sentimento ch'ella
stessa riconosceva come quasi puerile, non sfuggirono a Maria Vialis. Ella
prese la ricetta, ringraziando commossa. Poi accompagnò verso l'uscita il
visitatore, che, giunto alla porta, si voltò per dirle con lo stesso accento
imperioso che aveva avuto ventisette anni prima, a quello stesso posto:
- Ricordatevi, signora, di ciò che mi giuraste, qui, sulla memoria di vostro
marito: tentare tutto il possibile per salvare suo figlio!
Le stesse parole di allora, destinate a medicare, la stessa piaga... E quelle che
egli disse fra sé, quando fu risalito in carrozza, fecero eco alle formale delle
quali il suo determinismo si era accontentato ventisette anni prima:
- La crisi s'avvicina. Se il povero Gianmaria saprà che sua moglie ha per
amante Saintenois, e se inoltre saprà la verità sulla figlia, si ucciderà
certamente, egli pure. Sì, l'eredità è la prigione!… Ma saprà, Gianmaria?
Riuscirà, la povera madre, ad illuderlo?..Io le ho indicato l'unico mezzo.
Avrà l'energia di agire come le ho detto? E pensare che ella si proponeva di
dire tutto a suo figlio! ... , M'interrogava soltanto per aver delle prove da
dargli, più complete di quelle che possiede già! Questo pericolo, almeno, è
allontanato!
VI
La minaccia.
Il perspicace osservatore non si era ingannato. La povera madre – com’egli la
chiamava anche troppo giustamente - aveva soltanto dei sospetti. Quando
aveva detto: “Sabina non è una moglie onesta”, aveva affermato ciò che
temeva - e che non sapeva, - per togliere ogni scrupolo al suo interlocutore.
“Egli parlerà - aveva pensato - se crederà ch'io sappia tutto”. Nello stesso
tempo, ella sperava - e con quanta passione! - una risposta negativa, ma
francamente, fermamente data, e non già quel rifiuto di rispondere, opposto
alla sua inquisizione. Era in giuoco, per lei, tutta l'opera della sua vita,
interamente dedicata ad allontanare da suo figlio le emozioni che avrebbero
potuto scatenare la funesta eredità. Se sua moglie, della quale era innamorato
come nel primo giorno, lo tradiva, e se egli veniva a saperlo, che cosa
sarebbe accaduto? La madre fremeva ogni volta che si faceva questa terribile
domanda, ed anche in quel momento, rimasta sola dopo la visita del dottor
Vernat. Per un attimo, ella aveva visto distintamente in fondo agli occhi di
quell'uomo, che volevano essere imperscrutabili, il pensiero vero di quell'amicizia devota, e aveva chiaramente compreso che lo scrupolo del dovere
professionale aveva imposto al medico il silenzio, alla rapida allusione alla
nascita della seconda creatura.
- Egli pure - pensava, mentre Vernat si allontanava - egli pure ha,
relativamente a Giulietta, il dubbio che ho io! Egli crede che la piccina non
sia di Gianmaria.
Appunto da quel dubbio circa la legittimità della bimba, era cominciato il
doloroso sospetto. Fino ad allora, fra la nuora e la suocera, non c'erano mai
stati altri rapporti che quelli, glaciali ma corretti di cui ella aveva parlato a
Vernat. Essi erano spiegati abbastanza da uno dei soliti dissidi fra due
generazioni, reso più grave, nel caso particolare, dalla severità assoluta. del
lutto della più attempata delle due donne. La sostituzione di un medico ad un
altro, all'inizio della seconda gravidanza di Sabina, era stato il primo
incidente veramente grave, che aveva suscitata la diffidenza di Maria Vialis.
Eppure la spiegazione era semplicissima, e lo stesso Vernat l'aveva data. I
primi sintomi di quella gravidanza si erano manifestati quando Sabina era
ritornata a Parigi, in settembre, dopo esser stata al mare. Frattanto, suo
marito era alle acque di Néris. Ciò che Vernat si era ben guardato dal
rammentare, dopo aver giustificato con la propria assenza la scelta di un altro
medico, era il fatto che la bambina era nata - così si era detto - un po' in
anticipo. Il contegno di Sabina col nuovo dottore aveva dato
immediatamente alla suocera l'impressione di una di quelle tacite complicità
quali se ne stabiliscono fra un'ammalata e colui che la cura, quando ella sente
ch'egli ha indovinato un mistero del quale non parleranno mai. La vedova era
troppo profondamente cristiana per non essersi rimproverato quel giudizio
temerario come una colpevole mancanza di carità. Ma certi pensieri, quando
si siano formati nella nostra mente, sono semi che germinano con una forza
irresistibile. Quando la piccina era nata e Sabina aveva voluto nutrirla,
mentre aveva rifiutato di nutrire il primogenito, la suocera se ne era stupita,
come pure del nome di Giulietta, scelto dalla nuora. Perché, quella scelta?
Non aveva potuto saperlo. Giulietta era il nome della madre di Giorgio
Saintenois, e l'amante del giovane aveva voluto chiamare così la figlia che
aveva avuta da lui. La madre del marito aveva sentito in quel particolare un
enigma, come aveva sentito la menzogna nell'accento col quale Sabina aveva
insistito sulla pretesa somiglianza della povera creaturina vagente col padre
che le veniva attribuito. Quella commedia si era prolungata per qualche
tempo. Era cessata ad uno sguardo scambiato un giorno fra le due donne... In
quello sguardo si erano affrontate la sfida dell'una e la perspicacia dell'altra.
Da allora, la nuora aveva sempre opposto all'osservazione continua della
suocera uno sguardo non già sfuggente - poiché anche lo sfuggire dello
sguardo è una confessione, - ma muto, inespressivo, come quello di un essere
che si sia murato nel proprio segreto. La bambina aveva cominciato a
crescere. Su di lei si era fissata, ormai, l'attenzione di Maria, un'attenzione
continua, divinatrice, sviluppata in lei dal pensiero che la tormentava
incessantemente. La giovane coppia abitava in via Villejust, nella parte
confinante col Boulevard del Bosco di Boulogne, dove la bambina era
condotta a passeggio nelle belle giornate. Quante volte la vedova aveva
percorsa la distanza fra via San Domenico e quei paraggi!... Con quale
speranza? Forse con quella di veder fermarsi davanti alla carrozzina spinta
dalla nurse di Giulietta un uomo che accarezzasse la piccina, e la cui
fisionomia rivelasse la vera somiglianza..
Un giorno, infatti, mentre svoltava, da un viale trasversale, in quello del
Bosco di Boulogne, ella aveva scorta quella carrozzina, e aveva visto
avvicinarsi ad essa un signore che aveva parlato con la nurse come avrebbe
fatto un amico di casa dei padroni. Poi, quel signore aveva baciata la piccina
addormentata, piano, per non svegliarla. La signora Vialis aveva ravvisato in
lui un compagno di reggimento di suo figlio, che era venuto a trovarlo in
casa, parecchie volte nel passato, e del quale le era rimasto un, ricordo un po'
penoso, per un motivo che non aveva mai confessato a sé stessa. Era un
giovane dai lineamenti irregolari in, una maschera dura che colpiva
l'attenzione, con qualche cosa di marziale e di risoluto, nella fisionomia, che
lo rendeva simpatico e insieme gli conferiva una specie di autorità. Come
avrebbe potuto, la madre di Gianmaria, non provare un'invidia istintiva
paragonando quell'aspetto maschio con l'espressione esitante, incerta e come
di morbosa sensibilità, che constatava di continuo in suo figlio e che le
ispirava un sì profondo timore? Il giovane tanto affettuosamente chino sulla
piccola Giulietta era quel Giorgio Saintenois che la vedova aveva nominato
al dottor Vernat. Staccandosi dalla bambina, egli era passato davanti a Maria
Vialis senza guardarla. Ma tutta la forza d'osservazione di cui ella era capace
le si era concentrata negli occhi, per non lasciarsi sfuggire nulla delle linee di
quel volto, di quei gesti, di quel portamento, e nella memoria di lei si era
fissata una specie di lastra fotografica, sulla quale la sua riflessione aveva
meditato indefinitamente.
E anzitutto, nelle settimane seguenti, ella era ritornata ogni giorno al Viale
del Bosco di Boulogne, nell'ora in cui era quasi sicura d'incontrarvi la nurse
con la piccola Giulietta. Soleva sedersi nello stesso viale trasversale dal quale
era uscita l'altra volta. Un folto cespuglio le permetteva di nascondersi, e
rimaneva lì a spiare, con un po' di segreta vergogna per quell'agguato
clandestino. Le sensibilità molto pure hanno rimorsi immaginari di questo
genere, quando accade loro di compiere con assoluta innocenza certi atti per
solito commessi dai colpevoli. E al principio della seconda settimana, aveva
riveduto quello stesso giovane, quel Giorgio Saintenois già
appassionatamente sospettato dalla sua intuizione materna. Egli svoltava
dall'Avenue Malakoff, insieme con chi?..Con Sabina! La coppia si fermò un
momento sul marciapiede, per guardare, lei da una parte, lui dall'altra. Che
cercavano? La carrozzina della bambina, verso la quale si diressero subito,
insieme. Si sorridevano con la bocca e con gli occhi, sorretti, animati da
quella gioia della presenza che rende radioso l'amore felice e che basta a
denunziarlo. Giunti presso la carrozzina, Sabina aveva presa in braccio sua
figlia, e l’aveva tesa al suo compagno. Il gesto di quest'ultimo per prendere a
sua volta la piccina e baciarle la fronte e gli occhi, aveva finito di convincere
l'osservatrice, tanto più che in quello stesso momento l'altro bimbo - Renato che somigliava tanto evidentemente a Gianmaria, - era sopraggiunto
correndo, per abbracciare sua madre. Ella lo aveva subito rimandato a
giocare col cerchio. Saintenois, salutato dal bimbo, gli aveva semplicemente
accarezzata una guancia con la punta delle dita, guardandolo appena. Allora
la suocera si era avvicinata, sperando di sorprendere nella nuora un
turbamento ancor più rivelatore. Aveva visto in quel momento, rabbuiarsi un
poco la fisionomia di Sabina, già si aperta e sì lieta. Ma un simile mutamento
all'avvicinarsi della suocera, non era affatto insolito, né poteva bastare a
rivelare nella moglie di Gianmaria un'impressione particolare. Saintenois,
invece non aveva potuto dissimulare un certo imbarazzo, quando, presentato
dalla nuora alla suocera, aveva sentito dire da quest'ultima: “Conobbi già
questo signore, in altri tempi... ” Ma quell'imbarazzo, non era stato spiegato
dalla frase con cui egli aveva risposto: “Siete troppa buona, signora,
ravvisando in me un amico di vostro figlio, che accoglieste in casa vostra
con tanta cortesia, e che da molto tempo avrebbe dovuto venire ad
ossequiarvi... ”.
- Non vi scusate, signore, - aveva detto lei, - da molti anni, non sono più di
questo mondo.
Le donne che non sono più di questo mondo, le solitarie come lei,
sviluppano nella loro esistenza. monotona una forza di comprensione
veramente singolare. Si pensa che ignorino tutto, delle persone e delle cose,
che siano ingenue, facilmente illuse, e si rimane stupiti dalla sagacità
penetrante delle loro osservazioni sui caratteri e sulle situazioni. È perché,
essendo ridotta al minimo, per loro, la parte degli avvenimenti esterni, quelle
solitarie non se ne lasciano sfuggire nulla. Newton, quando gli fu domandato
come avesse scoperto la gravitazione, rispose: “Pensandoci sempre”.Le
vedove, le zitellone, le donne condannate dalla loro salute a non uscire di
casa, offrono incessantemente degli esempi sorprendenti di codesto potere
del pensiero costante e riflessivo, che si constata anche nelle monache. Come
avrebbe potuto fermarsi, Maria Vialis, nella sua inchiesta, dopo essersi
lanciata su quella traccia? Negli ultimi quattro anni, ella non aveva mai
guardata la sua pretesa nipotina senza continuare quella paziente e minuziosa
analisi d'ogni minimo indizio, che il genio dello scienziato suole praticare
per metodo. L'istinto di una innamorata gelosa o di una madre inquieta non
procede diversamente. La bambina si muoveva, balbettava, parlava, rideva,
guardava;, agitava il capo, e nei suoi gesti, nella costruzione del suo
corpicino, nei moti delle sue labbra, nel colore dei suoi occhi, dei suoi
capelli, delle sue carni, la vedova cercava e trovava l'animale di un'altra
razza, una creatura che non aveva nulla del sangue di suo marito e di suo
figlio. Gianmaria era castano come suo padre. Lei, sua madre, era bionda...
Quando Sabina, pure bionda, diceva ridendo alla sua figlioletta: “Brutta
morettina!” preveniva un'osservazione inevitabile da parte di chiunque
vedesse la bimba fra lei e suo marito. Quest'ultimo dava a Giulietta un altro
soprannome, più affettuoso, ma che la madre sua non poteva udire senza
fremere. La chiamava “La signorina infanta”, ed era vero che quella graziosa
creatura somigliava a quelle principessine di tipo sì intensamente spagnolo
che dipinse Velasquez. Ma il paese basco è già la Spagna, e per i suoi parenti
materni, Giorgio Saintenois era oriundo di una borgata di quella parte dei
Bassi Pirenei che fu un tempo la Bassa Navarra: Hasparren, in dialetto
Ahazparné. Egli pure, a prima vista, faceva pensare ad un personaggio di
Velasquez, per il suo colorito olivastro e per la magrezza ossosa del suo viso
un po' lungo. I suoi capelli erano dello stesso nero di quelli della piccina, e
così pure i suoi occhi. La giovane coppia era andata, un anno, a passare
l'autunno a San Giovanni di Luz, precisamente per consiglio di Saintenois, e
Gianmaria, al ritorno, aveva detto alla vedova, dalla quale aveva condotto
Giulietta:
- Laggiù, sembrava veramente un'infanta fra le sue meninas, quando giocava
con altre bimbe della città! Tutti credevano che fosse di quei paesi... .
Che parole, queste, per una madre suppliziata dalla cecità del suo figliolo, la
quale, nondimeno, sarebbe morta piuttosto che comunicargli i suoi dubbi! Ed
ella lo ascoltava soggiungere, vantando la bellezza incantevole di tutta la
vallata della Nivelle:
- Giorgio ci aveva trovata una deliziosa casa del sedicesimo secolo,
nientemeno, ma modernizzata nell'interno. Aveva anche avuto il riguardo
gentile di pensare allo studioso di storia. Figurati che nel palazzo municipale
di San Giovanni si conserva l'atto del matrimonio di Luigi XIV con Maria
Teresa di Spagna, celebrato nel 1660. “È un bel soggetto per te, quel
matrimonio!” mi diceva Giorgio. Ma non temere, mamma. Non abbandonerò
la mia storia del Duca del Nivernese!
Gianmaria infatti, memore d'Imphy e della provincia nativa, aveva
cominciato, dopo aver compiuti i suoi studi, un saggio su quel pronipote del
Mazarino, che aveva partecipato a tutta la diplomazia della sua epoca, per le
sue ambasciate a Roma, a Berlino, in Inghilterra; alla letteratura, per le sue
favole e i suoi discorsi accademici; alla vita dei salotti, con la grazia dei suoi
modi e quell'eleganza che gli fu riconosciuta dal principe di Ligne; all'arte
dei giardini, con Prunevaux e i suoi pergolati; alla grande storia umana per il
suo atteggiamento elegantemente stoico nelle prigioni rivoluzionarie. Il
giovane studioso si era appassionato per quella figura piena d'una grazia
manierata, ma tanto delicata. Ne aveva parlato moltissimo a sua madre. Poi,
dopo il matrimonio, le sue sedute alla Biblioteca e negli archivi del Ministero
degli Esteri erano divenute sempre più rare.
Non significava nulla, quel consiglio di Saintenois al suo collega, circa un
mutamento di lavoro. Ma la madre vi aveva visto un nuovo indizio, e aveva
pensato che Saintenois non era un vero amico, poiché dimostrava di non
comprendere quel carattere sempre incerto ed esitante. Per un'invincibile
associazione d'idee, ella si era ricordata del falso amico di suo marito, la cui
fellonia aveva avuto, nel passato, conseguenze tanto tragiche. Da allora, non
era mai accaduto a Gianmaria di pronunciare il nome di Saintenois, senza
ch'ella ripensasse a Marcel Faugières. La vedova di Giovanni Vialis
identificava l'impressione d'antipatia che aveva provato, da giovane, per quel
traditore, anche prima del suo atto infame, e quella che provocava in lei
Saintenois ad ognuna delle brevi visite ch'egli si credeva obbligato a farle
attualmente. Che scopo avevano, le sue visite, se non quello d'ingannare
sempre più Gianmaria? Ella voleva attribuire quell'antipatia ad un
presentimento. Aveva torto? Le stesse cause producono sempre gli stessi
effetti. Le relazioni fra i due giovani i cui caratteri sono antitetici, hanno
molte probabilità di finire in una lotta segreta, talvolta ignorata dai due
combattenti e nella quale la personalità più energica fa del male all'altra.
Quando l'immagine di Marcello Faugières risuscitava così nella memoria
della vedova, il cui marito si era ucciso per colpa di lui, un altro
presentimento s'imponeva. Faugières, infatti, era finito male. Era riuscito ad
entrare alla Camera. Anzi, era divenuto sottosegretario di Stato. Sbagliava,
Maria Vialis, pensando che esistesse una relazione fra il disastro di quella
carriera politica, troncata bruscamente nel 1898, e il delitto commesso da
quell'uomo vent'anni prima? Le nostre azioni colpevoli hanno il risultato
immediato di diminuire la nostra forza di moralità. Il tradimento verso
Giovanni Vialis aveva subito segnato, per Faugières, l'inizio di una
decadenza interna. Per stordire il suo rimorso, dopo il suicidio della sua
vittima, egli aveva preso delle abitudini d'intemperanza e di vizio. Da ciò,
quei bisogni di denaro che fanno di un uomo politico povero ed avido, una
preda designata dei pirati della finanza. Compromesso nel fallimento di una
banca bacata, Faugières era stato giudicato in Corte d'assise. Assolto, ma
dopo dibattimenti che l'avevano demolito, egli aveva dovuto ritirarsi dalla
vita politica. Poco tempo dopo, Maria Vialis aveva avuto notizia della sua
morte.
- Questo sarà punito come l’altro! - pensava, quando considerava come
uguali la perfidia di Saintenois e quella di Faugières.
Poi ella pensava alla catastrofe che sarebbe stata per suo figlio la rivelazione
del tradimento di quell'amico, e davanti a quella prospettiva troppo dolorosa,
si sgomentava. Si accaniva allora a distruggere l'edificio di argomenti
costruito dalla sua riflessione di tanti giorni, e si ripeteva, talvolta ad alta
voce, per suggestionarsi coll'energia della propria affermazione:
- Non ho prove sicure!
Comunque, fosse o non fosse vero il tradimento, Gianmaria non ne aveva
sospetto, e ad ogni modo bisognava che il martirio della gelosia gli fosse
risparmiato ad ogni costo. La madre si convinceva sempre più, per aver letto
moltissimi libri sul suicidio, che in un essere predisposto alla morte
volontaria, una sventura immaginaria può essere funesta quanto una sventura
vera. Suo marito non si era ucciso per un disonore che non esisteva? Ella
aveva dunque tese tutte le sue forze, per settimane, per mesi, per anni interi poiché ormai la bambina aveva quattro anni - nel tenere nascosta
quell'inchiesta che non poteva astenersi dal continuare intorno a Sabina, a
Saintenois, a Giulietta, enigmi viventi. Si era tormentata, nel silenzio, tanto
più ripiegata su sé stessa, tanto più segreta, quanto più s'avvicinava alla
certezza; e, se fosse scesa in fondo alla propria coscienza, avrebbe
riconosciuto, come l'aveva gridato al medico in un momento di verità totale,
che la sua convinzione era assoluta. Si ostinava in un ultimo resto di dubbio,
unicamente per non dover rimproverarsi troppo il suo contegno verso la
nuora e verso la bambina. Accarezzava la piccola Giulietta, la cui presenza
nella sua camera bastava a farle provare una stretta al cuore, come
accarezzava il piccolo, Renato, vero figlio di suo figlio. Quella Sabina la cui
impurità, sospettata, indovinata, sentita, faceva orrore alla delicatezza di
donna onesta, l'accoglieva con dei sorrisi. Si lasciava chiamare “mamma”.
Tendeva la gota a quelle labbra profanate da baci delittuosi. Per non
giudicare come una complicità il proprio contegno bisognava che ella non
sapesse interamente.
Altro motivo imperioso per non confessarsi, nonostante l'evidenza, che
sapeva tutto!
Quanto tempo sarebbe durata quella strana tempesta interna? Sempre, forse,
se colei che la subiva, indugiandovisi per timore di una pena peggiore, non
fosse stata colpita da un'altra evidenza, inquietante quanto improvvisa, che
aveva rammentato alla vedova certi modi di suo marito nelle due settimane
che avevano preceduto il suicidio. Un giorno, essendo entrata, secondo la sua
abitudine, all'ora della benedizione, nella basilica di Santa Clotilde, sua
parrocchia, le era sembrato di riconoscere suo figlio, appoggiato al muro di
una cappella laterale, di quella dove l'aveva condotto tante volte, da
bambino, a udire la messa, detta da un vecchio prete ormai morto, che era
stato suo confessore e che aveva preparato Gianmaria alla prima comunione.
Dopo il matrimonio di suo figlio, la vedova accusava la nuora della
negligenza sempre crescente di Gianmaria nel seguire le pratiche religiose.
La vita mondana ch'egli conduceva con la moglie non era compatibile con le
abitudini di religiosità alquanto rigorose e severe nelle quali sua madre
l'aveva cresciuto, anzitutto perché ella stessa era molto devota, e poi perché
aveva lette e rilette senza fine le seguenti linee, nel libro del dottor Brierre de
Boismont sul suicidio: “Quante volte udimmo degli ammalati che ci
esponevano le loro sofferenze, esclamare: “Privi di religione, ci saremmo
data la morte!” (BRIERRE DE BOISMONT Du suicide, Cap. VII:
“Traitement du suicide”). Nemmeno di quel raffreddamento della sua vita
cristiana, ella aveva osato parlargli per terrore di essere trascinata a criticare
Sabina in termini che gli avrebbero dato troppo da pensare.
Al vederlo così, presso quell'altare, in atto di meditazione, di preghiera poiché, poco dopo, egli s'inginocchiò, - poco mancò che la madre gli si
avvicinasse, per inginocchiarsi ella pure a pregare accanto a lui, come una
volta.
Mentre ella esitava, trattenuta dallo scrupolo di riserbo che provano le
sensibilità molto fini davanti alle emozioni intime e segrete di un'altra anima,
sia pure la più cara, il giovane si alzò per andarsene. Quasi sfiorò sua madre,
senza vederla, ed ella tremò osservando su quel volto, dai lineamenti tanto
simili a quelli di Giovanni Vialis, un'espressione d'angoscia. Ne rimase tanto
turbata, da non potere astenersi dal recarsi in via Villejust, verso sera, con un
pretesto qualunque. E constatò di nuovo nella fisionomia di suo figlio
un'alterazione visibilissima, che l'indusse ad interrogarlo anzitutto sulla sua
salute. Poi, mentre egli le rispondeva evasivamente, si fermò, sconvolta da
questo pensiero: “Forse ha dei sospetti su Sabina, egli pure!”
Erano trascorsi tre mesi da quando si era svolto quell'incidente,
precisamente alla vigilia d'una partenza estiva per i Pirenei. Al ritorno di
Gianmaria, la madre aveva immediatamente osservato in quegli occhi che
conosceva sì bene, la stessa malinconia profonda. Da allora, ella non aveva
cessato di seguire, su quella fronte corrugata, intorno a quelle labbra che si
contraevano, su quelle guance che s'incavavano, gli indizi di un pensiero
divorante. Oggi, Gianmaria lottava contro quell'ossessione, e sua madre lo
vedeva allegro quasi come una volta, o almeno sforzarsi di essere allegro,
con la, febbrilità di chi vuol riaversi ad ogni costo. Ma ella sapeva che
domani suo figlio le avrebbe risposto appena, a monosillabi, come estraneo,
come assente.
Un'altra osservazione aumentava la sua angoscia. Le accadeva di
sorprendere un altro sguardo fisso sul giovane con una curiosità indagatrice:
lo sguardo di Sabina. E Gianmaria, quando se ne accorgeva, egli pure
trasaliva visibilmente. Da bambino, egli aveva avuto quell'espressione di
pentimento, ogni volta che si era sentito colpevole. Era pentito? Di che cosa,
se non di un pensiero che temeva di vedere indovinato da sua moglie?
Perché? Perché era offensivo per lei, quel pensiero... E per scacciarlo, se
Giulietta e Renato erano presenti in quel momento, egli baciava l'una e l'altro
con passione. Più particolarmente la bambina, la quale dimostrava di avere
una preferenza per il suo papà, mentre Sabina - e la vedova se ne stupiva aveva delle parzialità per il maschietto. Almeno, lo vezzeggiava di più,
ostensibilmente. Altro enigma, relativamente al quale la suocera doveva
proibirsi non solo d'interrogare ma di scandagliare la nuora: quella tenerezza
per Renato derivava da un rimorso? Sì, altro enigma ed altro silenzio, dopo
tanti silenzi talmente dolorosi da non poter prolungarsi indefinitamente!
Maria Vialis lo comprendeva troppo bene, e, benché tormentata fino al
martirio dall'incertezza, concepiva un supplizio peggiore: quello di una
spiegazione, il cui esito possibile la pietrificava letteralmente dallo spavento.
Eppure, ella stava per averla, quella spiegazione. Il biglietto di suo figlio,
ricevuto la sera antecedente e del quale aveva parlato al dottor Vernat,
gliel'annunciava. Non ne dubitava. Altrimenti, Gianmaria avrebbe forse
presa la precauzione di avvertirla della sua visita, pregandola di esser sola?
Gianmaria sapeva che la mattina ella soleva uscire per andare in chiesa o dai
poveri. Sapeva altresì che ella dava spesso degli appuntamenti a persone che
s'occupavano come lei di carità. Aveva quindi fatto in modo che ella avesse
tempo di rendersi libera. Che significava, quell'insistenza nell'assicurarsi così
un colloquio da solo a sola? La risposta non era stata dubbia, per la madre,
nemmeno per un attimo.
Gianmaria voleva parlarle del dolore che da tre mesi era causa della sua
muta e persistente tristezza, - ed ella era tanto sicura che quel dolore gli
veniva da Sabina, da essersi decisa a domandare consiglio a Vernat, a
quell'amico superiormente intelligente e buono, che l'aveva aiutata nella crisi
più tragica della sua vita. Aveva sperato da lui, che conosceva tanta gente e
riceveva tante confidenze, la rivelazione di qualche fatto positivo, forse, che
le avrebbe probabilmente permesso - se avesse dovuto parlar a sua nuora,
dopo il colloquio con Gianmaria - di tagliare corto a qualsiasi protesta. Non
immaginava affatto che quell'arma, domandata a Vernat inutilmente,
gliel'avrebbe data lo stesso Gianmaria, né che proprio lui l'avrebbe mandata a
parlare a sua moglie... ma in quali condizioni!
VII
Madre e figlio.
Subito, appena Gianmaria fu entrato nella biblioteca, dove la signora Vialis
aveva voluto riceverlo, in memoria del dramma che vi si era svolto, e per
attingervi forza, ella vide che il giovane era in preda ad un turbamento
profondo. Egli le si avvicinò e l'abbracciò con una frenesia nella quale era
qualcosa di supplichevole. Quell'abbraccio disperato, diceva:
“Salvami! Salvami!” E siccome il buon Bourrachot dopo averlo introdotto
ed essersi ritirato, riapriva la porta per domandare alla padrona un ordine,
Gianmaria si voltò verso di lui con un gesto furibondo e gli gridò con voce
violenta:
- Non potresti farne a meno di disturbarci?... Vattene!... Vattene!....
Come le conosceva, la vedova del suicida, quelle collere improvvise che
davano al suo figlio dei forti sussulti ed il cui spasimo forsennato rivelava un
sì profondo squilibrio emotivo! Un lampo della memoria glielo fece rivedere,
bambino, appunto nel pomeriggio che aveva seguito il suicidio del padre, e il
delirio che 1'aveva spinto a scagliarsi contro le pareti.
Ella udiva ancora distintamente, attraverso gli anni trascorsi, il diagnostico
del medico: “E' proprio figlio di suo padre!”. E indulgente, carezzevole,
affettuosa come allora, afferrò la mano del suo figliolo, per dirgli:
- Povero figlio mio, non irritarti contro il nostro buon Bourrachot! Egli non
sa! - Poi, obbligandolo a sedersi: - Nemmeno io, so... Mi ha resa tanto
inquieta, la tua lettera!... Calmati, caro! - E accarezzandogli la fronte, i
capelli, le guance: - Come hai caldo!... Hai la febbre! ... Sentiamo! Di che
cosa vuoi parlarmi?
Anticipatamente, e senza ch'egli avesse pronunciata una sola parola, la
madre era già sicura che le labbra irritate di Gianmaria stavano per accusare
Sabina. Ma perché egli non indovinasse che anche sua madre accusava
mentalmente quella donna, continuò:
- Si tratta dei bambini? Stanno male? O sei inquieto per la tua salute?... Sii
sincero. Hai dei fastidi di denaro? Hai speculato, giuocato in borsa?... Tu non
fai di queste cose....Ad ogni modo ricordati che la mia sostanza è tua, anche
mentre sono viva...
- Come sei buona, mamma! - rispose il giovane. - Come mi ami!... M'hanno
fatto bene, le tue parole... No, non si tratta dei bimbi, né della mia salute.
Devo parlarti di Sabina.
A quell'attacco tanto diretto, la madre oppose a sua volta un viso chiuso
come quello del dottor Vernat, poco prima, in quella stessa stanza.
Involontariamente, ella si ricordò di quella maschera indecifrabile, e pensò:
“A lui, riusciva più facile che a me!” mentre ascoltava, suo figlio, che
cominciava la confessione della sua vita coniugale.
- Perché tu possa comprendere, mamma diceva egli, dandole del tu, come
ella lo aveva abituato a fare per mantenere fra loro una più stretta intimità, devo riprendere le cose di lontano. Ne ho bisogno io stesso, per rimettere un
po' d'ordine nel tumulto della mia mente... - E, dopo un silenzio: - Tu sai
meglio di chiunque quanto io abbia amato Sabina. Tanto, che non mi curai,
non già della tua volontà, ma delle tue idee...
- Le mie idee? - interruppe la madre alzando le spalle.
- Io non ebbi mai altra idea che quella della tua felicità.
- Ebbene: la felicità, Sabina me la diede per tre anni, i tre primi, nei quali mi
dolsi soltanto che tu volessi startene lontana dalla nostra vita. Ma, se mi
lagnava perché non venivi mai ai nostri pranzi, ai nostri ricevimenti, tu mi
dicevi: “Non abbiamo la stessa età, e tu non hai sofferto come ho sofferto io.
” Non potevo rimproverarti di rimpiangere mio padre, come avrei voluto che
Sabina rimpiangesse me, se fossi morto come lui...
Lo sventurato non pensava di ferire al cuore sua madre con quel “come lui”.
La povera donna l'interruppe, per evitare ch'egli insistesse:
- Ma l'ami ancora, Sabina! - disse. - Ma sei ancora felice!....
- L'amo ancora; ma non sono più felice! Io non sono mutato. Lei, sì, è
mutata!
- Come? Perché? Quando?
- Per risponderti, mamma, dovrei parlare per delle ore. Sai tu pure che la vita
coniugale di tutti i giorni è fatta d'innumerevoli, d'indefinibili impressioni
che fanno sentire in casa l'unione affettuosa o il divorzio. Ti riassumerò tutto
in poche parole: da quattro anni, mia moglie non è più mia moglie; - da
quando nacque la bambina.
Dall'accento con cui egli aveva detto la, invece di dire la mia o la nostra
bambina, la madre trasalì. Egli continuò:
- Perdonami la brutalità di questi particolari fisici, mamma. E' necessario
ch'io te li dia. Dopo il parto, ella si staccò da me, col pretesto delle sue
condizioni di salute. Mi fece parlare dal suo medico, da quel Monclar, che
volle sostituire al nostro amico Vernat. Oggi non lo permetterei più, questo
cambiamento di medico!
Che sussulto ebbe ancora la madre, constatando che lo spirito di Gianmaria
era giunto al sospetto insieme col suo! E, sempre più ansiosa, ma
dominandosi, ella riprese:
- Con qual diritto, figlio mio, supponi che quel dottor Monclar sia un uomo
disonesto? Con qual diritto credi che Sabina non sia sincera verso di te? Il
matrimonio, d'altronde, non è soltanto la passione. E' anche l'amicizia, la
unione dei cuori, i doveri comuni, la famiglia...
- L'amicizia? - ripeté Gianmaria con un'ironia dolorosa.
- Ma essere amici vuol dire sentire, pensare allo stesso modo, e basta che io
esprima un sentimento, adotti una idea, perché Sabina senta e pensi in un
modo assolutamente contrario. Mi dirai che le cose non hanno un solo
aspetto, che due punti di vista diversissimi possono essere legittimi entrambi.
La prova che si tratta, in questo caso, di un'antipatia da persona a persona, è
che io ho ripetuto cento volte l'esperimento di adattarmi alle idee di lei, di
condividere i suoi sentimenti... Tanto basta perché ella pensi subito in un
altro modo! D'altra parte, i sentimenti, le idee, non sono la vita. La vita sta
nei gesti, nel suono della voce, in tutto ciò che fa sì che ognuno di noi non
sia un essere diverso da sé stesso. Ebbene: io non piaccio affatto a Sabina.
Nulla le piace di ciò che costituisce il mio essere. Lo capisco, lo vedo.
Un'inezia: quando camminiamo, non teniamo mai lo stesso passo. Quando io
rido, lei s'irrita. Quando parlo ad alta voce... (è un mio difetto, l’eccitarmi nel
discorrere, e tu me l'hai rimproverato tante volte, ma tanto affettuosamente!)
Sabina si chiude in un silenzio insolentemente ostile! Quando voglio
baciarla... (l'amo ancora, te lo ripeto)... come s'irrigidisce! come si contrae!
come volge altrove il capo!... Mi dirai ancora: sono piccolezze... Ma ciò che
non è una piccolezza, è il distacco di cuore che rivelano. Non solo mia
moglie non mi ama più, ma le sono divenuto, fisicamente, moralmente,
intellettualmente, insopportabile!
- Te l'immagini, figlio mio! - corresse la signora Vialis. - Ricordati. In tutta
la tua infanzia, in tutta la tua prima gioventù, ti fabbricasti sempre dei dolori
immaginari, prendesti sempre per vero tutto ciò che è illusorio, ti creasti
sempre delle “celle in aria”, come diceva Vernat invece di dire “castelli in
aria”, per farci ridere. Ora un professore ti era nemico, ora un compagno ti
evitava! ... Non avresti mai superato quel tale esame... non saresti mai
riuscito a fare quel tal lavoro... stavi per avere una grave malattia, della quale
avevi letta la descrizione in un libro di medicina!... E ti fossi almeno
accontentato di parlarmi di simili pazzie! ....Ma no: t'imbronciavi, ti chiudevi
in te stesso!... Quanto dovevo lottare, per confessarti, per strapparti il segreto
dei tuoi bronci, per esorcizzare l'incubo! Una vecchia mamma ha pazienze di
questo genere. Una moglie giovane come Sabina, vivace, mondana, non le
ha. Se discorressimo, Sabina ed io, scommetto che ella mi direbbe di te,
esattamente, ciò che mi dici di lei... La sentirei lagnarsi delle tue
suscettibilità, dei tuoi silenzi, del tuo carattere difficile. Ed io, le risponderei
con quattro parole che saranno anche la mia risposta a te: Pensate ai vostri
figlioli!
- Ah! mamma! - disse Gianmaria, alzandosi, - questa è la piaga maggiore! E
tu l'hai toccata!
- Non m'ingannavo. Ho indovinato anche questo! - pensò la madre.
Questa volta, ella non poté impedire che il suo volto si alterasse, mentre il
geloso continuava il suo lamento.
Di nuovo si manifestava un sorprendente parallelismo fra le osservazioni di
lui e quelle di lei, che mettevano capo alla stessa atroce conclusione, davanti
alla quale indietreggiavano tutti e due. Gli stessi piccoli fatti li avevano
entrambi avvertiti, e Gianmaria li evocava passeggiando per la stanza come
suo padre, un tempo, nei momenti di cattivo umore.
- Ti ricorderai, mamma, che mi rimproverasti molte volte di viziare troppo
Giulietta, e che io ti rispondevo: “E' per compensare....Mia moglie vizia
l'altro, ed è troppo severa per la piccina”. Avevo l'impressione che Sabina
non le volesse bene abbastanza... - E con un sogghigno amaro, Gianmaria
soggiunse: - Ero tanto cieco, da considerare ciò come effetto di un rancore
per una maternità che ella non aveva voluta, e per un parto particolarmente
doloroso. Tali pensieri miei s'accordavano bene con ciò che ti ho detto poco
fa e coi pareri del medico... Ed ecco che un giorno, un po' più di tre mesi fa,
mi accadde di ritornare dal Quai d'Orsay, dove ero andato a prendere degli
appunti per una ripresa del mio lavoro storico, un po' prima del solito. La
bambina era stata piuttosto male, quella mattina... Salgo alla sua camera,
cercando di non far rumore sulle scale, per timore di svegliarla.....
Apro la porta con precauzioni da ladro...Vedo Giulietta addormentata, infatti,
nel suo lettino; e, inginocchiata, intenta a guardarla con un'adorazione che
non so descriverti, - con quella stessa adorazione con la quale mi guardavi tu,
mamma, quand'ero piccolo, - vedo Sabina, lì accanto! I due visi, quello di
Giulietta ed il suo, si riflettevano in uno specchio nel quale potevo studiarli
bene, l'uno e l'altro. A quando a quando Sabina si sollevava un poco, e
posava le labbra sulla fronte della piccina, sì dolcemente che quel bacio non
la destava. E poi, con la punta delle dita, le accarezzava il viso... Renato,
seduto in un angolo, stava sfogliando un libro illustrato. Ad un tratto, lo
lasciò cadere, quel libro... Il rumore destò la bambina, che si mise a piangere.
La madre allora afferrò il colpevole e lo scosse duramente, con uno sguardo
che nemmeno posso descriverti:..con lo stesso sguardo che ha per me!...
- E vuoi ch'io non dica che tutte queste sono cose che t'immagini? ... - disse
la signora Vialis. - Anch'io, lì per lì, pensai che forse avevo dato un significato falso a ciò che
avevo visto. Dissi a me stesso: “La bimba è malata. Sua madre ha un rimorso
di non essere sempre buona per lei. ” Ma la mia attenzione era desta, ormai...
E senti, mamma: le mie osservazioni quotidiane mi hanno condotto alla
certezza che Sabina recita una commedia davanti a noi, che ella ama
profondamente sua figlia, mentre riesce appena a sopportare suo figlio, e che
dissimula questi sentimenti con una terribile padronanza su sé stessa.
Perché? . ,..Sì, perché, se nella nascita della bambina non c'è un segreto che
mia moglie non vuole lasciar sospettare? Questo pensiero era appena nato in
me, quando mi s'impose un'altra evidenza. Giulietta non somiglia a Sabina,
né somiglia a me, né a te, mamma... I suoi capelli neri, il suo colorito
olivastro, i suoi occhi di fiamma... E cominciai a dirmi: “Non è del mio
sangue. Così, tutto si spiega…”
- Come se una somiglianza significasse qualche cosa!... disse la madre.
Quante volte l'aveva ripetuta a sé stessa, questa frase, senza crederci! Ed ora
la ripeteva anche a suo figlio, che l'avrebbe accolta con uguale scetticismo!
Che cosa avrebbe potuto dirgli, di diverso? E in tono quasi supplichevole,
riprese:
- Ma guardati intorno, povero figlio mio! Tutti i giorni, incontri dei bimbi
che non somigliano né al padre né alla madre, e le loro mamme sono mogli
oneste, delle quali non si può dubitare. Se si conoscessero gli zii, le zie, i
nonni, le bisnonne di quei bambini, forse si troverebbe la somiglianza!
- Io ho trovato a chi somiglia Giulietta! - disse Gianmaria. - O almeno...
Si lasciò cadere di nuovo su una seggiola, come un uomo fermato da
un'orribile sensazione: quella di dar corpo, con la propria parola, e quindi
una realtà completa, a delle visioni fino a quel momento chiuse in lui, e che
gli hanno straziato il cuore, per quanto egli abbia continuato a dubitarne... E
rifugiandosi, anche questa volta, in quel dubbio, per sfuggire ad un dolore
troppo acuto, il marito geloso soggiungeva:
- Almeno, m'è sembrato di aver trovato!...
Poi, alzandosi e avvicinandosi a sua madre, fissò lo sguardo negli occhi
della povera donna, per leggerle fino in fondo all'anima, e disse:
- Mamma! Giulietta somiglia a Giorgio Saintenois...
- A... ? - Ed ella non ebbe la forza di pronunciare quel nome, ma ebbe quella
di protestare ancora: - Ma sei pazzo, figlio mio!
- Non pensavo a lui, da principio... - riprese Gianmaria, ricominciando a
passeggiare per la stanza. - L'amicizia è per me un sentimento tanto sacro,
che un'azione simile... prendere la moglie di un compagno di gioventù
affezionato e fiducioso... mi sembrò sempre una ignominia. E non è facile
ammettere che il figlio del generale Saintenois, di un eroe, eroe egli pure, poiché Giorgio fu tale, al Tonchino, - manchi al più elementare onore... Poi,
un giorno, durante un gran pranzo, in casa nostra, lo guardai. Fu come se
avessi, visto per la prima volta i suoi capelli, il suo colorito, i suoi occhi; la
forma allungata del suo viso. Una voce interna mi disse: “Ma è lui, il padre!”
Però, quella stessa voce protestò subito: “E' impossibile!” Mia moglie era lì,
di fronte a me. Nel lampo di un'allucinazione abominevole, li vidi
abbracciati... Le loro bocche si cercavano... La sala da pranzo, la tavola,
gl'invitati, tutto era scomparso, per me, e vedevo soltanto l'immonda scena
immaginaria, che quasi mi faceva gridare!
“Impazzisco!” pensai... E mi destai da quel delirio ch'era durato un minuto,
per riprendere una conversazione insignificante con la mia vicina. Sabina
non si era accorta di nulla. Ma l'aver potuto avere quella crisi emotiva, da
solo, vicino ad un essere che non se n'era accorto, quale prova sicura che ci
sono due persone, in ognuno di noi: una che va, che viene, che si conosce,
mentre l'altra... ! Perché Saintenois, perché mia moglie non avrebbero avuto
essi pure una vita doppia?... Allora cominciò per me un'agonia di gelosia. Lo
crederai, mamma? Mi abbassai, io, il tuo Gianmaria, fino a voler servirmi di
una di quelle ignobili agenzie di polizia segreta di cui gettiamo nel cestino,
con disgusto, le solite circolari! ... Andai fino alla porta della più nota di
quelle infami officine. Ma non entrai. Dire a delle spie il nome di mia
moglie, quello che porti anche tu! non mi fu possibile!... Un'altra volta,
m'accadde di giungere in via Villejust proprio nel momento in cui il
portalettere consegnava alla portinaia la corrispondenza. Tu sai, mamma, che
seguii sempre la tua saggia massima: fra marito e moglie non si hanno mai
troppi riguardi reciproci. - Fin dal principio della nostra unione, considerai
come un dovere di cortesia il rispettare la corrispondenza di Sabina. Essa le
viene consegnata a parte, e non me ne occupo mai, con alcuna domanda.
Quella mattina, riconobbi su una di quelle buste la scrittura di Saintenois.
Istintivamente, presi quella lettera insieme con le mie, quantunque fosse
indirizzata a mia moglie. Rimasi per un'ora, forse, a guardare quella busta,
sul mio tavolo e a dirmi: “Evidentemente, ho diritto di aprirla”, ma senza
decidermi a lacerarla. Si trattava di nuovo dello spionaggio e della sua
bassezza... Infine, cedetti alla tentazione. Con la vergogna in cuore, aprii la
busta, per trovarvi un biglietto che dava un'informazione qualunque e il
firmatario del quale chiamava Sabina “Signora”, le dava del voi, e le porgeva
i suoi ossequi, come si usa.
- Dunque vedi... - disse la signora Vialis.
- Ma tutti sanno che gli amanti scaltri si creano un linguaggio loro, che
rende inintelligibile la loro corrispondenza per chi non ne ha la chiave... E'
un sistema classico.
- Sempre supposizioni...
- E ciò che ti dirò ora, è una semplice, supposizione? - riprese Gianmaria più
vivacemente. - L'altra mattina, ero a cavallo, al Bosco di Boulogne. Incontrai
Casal, il vecchio amico di mio padre (ti rammenti?) che è sempre tanto
gentile verso di me, per quel ricordo... Egli è, ora, presidente interinale del
Circolo di Via Reale. Trottammo insieme. “Nel nostro circolo, mi disse,
abbiamo attualmente una faccenda molto fastidiosa... So che non siete
ciarliero, mio piccolo Vialis... Ve la racconterò... ” Fra parentesi, mamma,
questa confidenza di Casal, punto ciarliero anche lui, significa, e lo capirai,
ch'egli pensa che la cosa mi riguarda in qualche modo. Fui subito
attentissimo, quando egli riprese: “Come sapete (o come non sapete, dato che
non siete giocatore) attualmente il giuoco è molto forte, nelle nostre sale.
Avviene spessissimo che un perdente, per cercare di rifarsi, prelevi dalla
cassa dei giuochi una somma superiore al credito a cui ciascun socio ha
diritto secondo il regolamento. È un abuso, ma, data la qualità delle persone
si può chiudere un occhio. D'altronde, non si ebbero mai incidenti. Sabato
scorso, il cassiere aveva accettato un assegno bancario di cinquantamila
franchi, che gli era stato rilasciato dal nostro amico Saintenois... ”. Come
puoi pensare, mamma, mi sentii battere forte il cuore, all'udire quel nome,
mentre Casal continuava: “Con quei cinquantamila franchi anticipati dal
cassiere, Saintenois tenne un banco. Li perse, e quando il cassiere andò alla
Banca sulla quale era stato emesso l'assegno, gli fu risposto che non c'era
deposito. Egli venne ad avvertirmi. Io ho chiamato nel mio ufficio
Saintenois. Non ha negato. È figlio di un valoroso ufficiale che conobbi, e
non ho voluto rovinarlo, immediatamente, come avrei potuto fare, dato che è
confesso della sua truffa. Gli ho accordato cinque giorni, fino alla prossima
seduta del Consiglio, per trovare quella somma e restituirla alla cassa. Poi,
dovrà dimettersi da socio. Se farà così, la cosa non sarà resa pubblica. Se non
pagherà, il Consiglio ne sarà informato e deciderà”. Casal, evidentemente mi
parlava a quel modo soltanto per esercitare su Saintenois, per mezzo mio,
una pressione efficace. Egli continuò, infatti, precisando la forma che si
sarebbe data al procedimento contro il socio colpevole. Il Circolo non
avrebbe intentato un processo. L'avvocato di Saintenois, infatti, avrebbe
certamente fatto entrare quei cinquantamila franchi nella categoria dei debiti
di giuoco, per i quali l'articolo 1965 del Codice non accorda azione alcuna.
La somma verrebbe rimborsata d'ufficio alla cassa, sui fondi di riserva. Ma le
dimissioni di Saintenois non sarebbero accettate. Egli sarebbe stato espulso
con una decisione del Consiglio, affissa nelle sale. Lasciato Casal, io rimasi
in preda ai sentimenti tormentosi che puoi immaginare. Te l'ho già detto: la
narrazione a me di un fatto simile, è un indizio. La pressione efficace di cui
ti ho parlato non mi sarebbe stata suggerita da Casal, se egli non avesse
pensato che avevo un mezzo per esercitarla... Non io direttamente, ma una
persona alla quale avrei raccontato a mia volta quella storia: Sabina...
capisci? Su questo punto, potevo sbagliare. Ma certo non potevo dubitare,
ormai, dell'immoralità di Saintenois. Uno chèque senza deposito
corrispondente, costituisce, come aveva detto giustamente Casal, una vera
truffa. E il mio principale argomento, l'unico, contro i miei sospetti, era stato:
“Giorgio ha troppo il sentimento dell'onore, per tradire un amico”!
L'onore di un truffatore! Ma io, ero stato sinceramente suo amico. Lo ero
ancora, poiché, malgrado quei sospetti, ad un tratto ravvivati in modo
terribile, la sua degradazione mi accorava profondamente per lui. Allora mi
venne un'idea, tale da conciliare quei sentimenti contraddittori: - offrire a
Saintenois quei cinquantamila franchi che lo avrebbero salvato, e guardarlo
bene in faccia, negli occhi, mentre gli avrei fatta quell'offerta, per riuscire
finalmente a sapere. Vi sono sempre, nel carattere d'un uomo che ci abbia
inconcepibilmente delusi sul proprio conto, dei tratti essenziali che le
peggiori colpe non aboliscono. Che uno di questi tratti, in Saintenois, fosse
l'orgoglio, io l'avevo constatato troppo spesso, per non essere certo che il mio
passo, se egli mi aveva tradito e in qual modo!- gli avrebbe inflitta un'atroce
umiliazione. Appena ebbi concepita quella prova come possibile, mi accinsi
a tentarla.
Spronai il cavallo, per ricondurlo alla scuderia. Ve lo lasciai, e salii nel
primo fiacre che passò. Meno di un'ora dopo aver lasciato Casal, ero in via
Fortuny, in casa di quell'uomo che per poco non strangolai con le mie mani,
quando, alla mia proposta, lo vidi impallidire, volgere altrove lo sguardo,
abbassare il capo... Lui, che è tanto orgoglioso! ... Quando entrai, alle mie
prime parole: “Giorgio, ho saputa la faccenda dello chèque... ” egli volle
esser forte, e negò. Gli nominai Casal, e allora mi rispose: “Sì, è vero...
Avevo perso la testa... La follia del giuoco!” Ma nella sua voce fremeva la
passione. Ora, per ringraziarmi della mia offerta, quella voce diveniva
debolissima... Mamma, vedevo che si vergognava... Non già del suo falso,
ma della mia offerta!..Perché sarebbe stato così, se non ci fosse una donna,
fra noi due?... E quella vergogna, come l'avevo vista salire a quel viso
arrogante, la vidi svanire, mentre egli mi rispondeva: “Tu sei la bontà
personificata, Gianmaria. Non dimenticherò mai questo tuo passo. Ma i
cinquantamila franchi, li ho già trovati. Li restituirò oggi stesso”..Mamma,
non era vero. Passai dal Circolo l'altra sera, ieri sera. Rividi Casal tutte le
volte... Saintenois non ha restituito nulla.
- Forse avrà avuto il denaro soltanto questa. mattina, - disse la signora
Vialis.
- No, - rispose Gianmaria. - Prima di venire qui, sono andato di nuovo da
Casal. Nulla ancora. La verità, mamma, è che Saintenois preferisce essere
disonorato, piuttosto che doverlo a me, quel denaro... Ah! perché, anche
essendo colpevole, non ha accettato la mia offerta, per illudermi, o per
cavalleria? Infatti, Sabina, se è sua amante, deve aver capito che sono geloso.
Deve averglielo detto... Ma che vigliaccheria! No. Meglio soffrire e sapere!
Però, ancora adesso, io non so. Da due giorni mi accanisco a studiare il viso
di Sabina, per indovinare se ella sa la storia dello chèque... Non la sa. Ho
voluto trovare in questo una prova della sua innocenza. Venti volte ho avuto
la tentazione di raccontargliela, e ho pensato: “No; se si vedono, e per timore
che Casal mi parli essendomi molto amico, vorrà avvertirla egli stesso”.
Come sempre, siamo stati veramente insieme soltanto alle ore dei pasti. Puoi
immaginare le mie sensazioni nel mettermi a tavola e nel guardarla. Nessun
mutamento, in lei, nessuna traccia di preoccupazione o non si sono visti, o
Saintenois continua, a tenerle nascosta la cosa. Ieri, pranzammo fuori. Il
nome di Saintenois venne pronunciato, senza che nessuno sembrasse
informato della tragedia che quello sciagurato attraversa in questi giorni.
Casal, dunque, ne ha parlato soltanto a me. La mia gelosia aumentò, a questa
constatazione. Mentre tornavamo a casa in carrozza, Sabina ed io, - e mentre
sentivo il suo respiro, il suo profumo - , il mio bisogno di sapere diventò un
dolore acutissimo. Sì, di sapere se veramente un altro l'ha posseduta, lei, i
suoi piedi, i suoi fianchi, la sua bocca! ,..Mi venne alle labbra la domanda:
“Sai che cosa capita a Saintenois?... ” Ma le parole mi si fermarono in gola.
Ebbi paura del mio delirio, se, ascoltandomi e rispondendomi, ella avesse
detta una frase, o fatto un movimento in cui avessi sentita la confessione!
L'avrei uccisa, e poi mi sarei soppresso...
E ad un gesto di sua madre, che giungeva le mani supplichevolmente,
Gianmaria riprese:
- Rimasi muto, mamma, per paura di me stesso. Ah! in certi momenti, il
peso della vita è veramente troppo grave! Questa notte, solo nel mio letto,
pensavo: “Essere morto, e stare steso così, nel buio, per sempre... Che
riposo!” Non dovere alzarsi, come mi sono alzato questa mattina, per soffrire
ancora, che bella cosa, infatti!... Mamma! questo stato di cose non può
durare! Il mio cervello si smarrisce!... E ho pensato a te, mamma... Io non
posso parlare a Sabina, per la ragione che ti ho detto. Non so affatto che cosa
farei, se per caso... Ma tu, sei una donna tanto intelligente, tanto fine!... Ciò
che ti ho raccontato, dovresti ripeterlo a Sabina... Anzitutto, la faccenda di
Saintenois. Capisci? Anzitutto!... La vedrai arrossire, soltanto all’udire quel
nome pronunciato da te, e saprai!!! E se non c'è nulla, fra loro... (è ancora
possibile! )... se la gelosia mi fa vaneggiare... dille il resto, mamma... dille le
mie pene, il mio amore, tutto ciò che non posso più dimostrarle, per la
gelosia che mi tormenta!... Accetta, mamma, di far questo, per me. In te sola,
ho fede... una fede assoluta, totale, cieca! Tu, non mi mentirai... O tornerai a
dirmi: “le tue supposizioni erano anche troppo giustificate”, e allora, noi due,
provvederemo. Con te, troverei la forza di regolarmi come devo, verso la
madre di mio figlio. Di Renato, almeno, non posso dubitare. E' il mio ritratto
e quello di mio padre bambino... Oppure, mi dirai: “Ti sei ingannato”, e certo
saprai trovare le parole per ricondurre a me Sabina, per restituirmela! Sono
ancora tanto innamorato di lei!... Non dirmi di no, mamma!... Non ho che te,
al mondo:... Mamma! se mi vuoi bene, promettimi che andrai da Sabina, che
le parlerai, che saprai...
- Sì, figlio mio, - rispose la signora Vialis, - le parlerò.
- Ma quando?
- Lasciami riflettere, meditare sul modo più opportuno di condurre il
colloquio. Devi capire che si tratta di cosa delicatissima...
- No, no... Non posso aspettare! Ti ripeto che perdo la testa! Impazzisco!
Adesso, subito, devi parlare a Sabina!... Ho tenuto la carrozza. Te ne servirai
tu. Sabina è in casa. So che ha dato appuntamento per questa mattina al suo
gioielliere, per un lavoro da fargli eseguire. Le ho detto, nell'uscire, che avrei
fatto colazione con un amico, al ristorante. Quindi, ella non mi aspetta. Farò
colazione con, te, mamma, per non lasciarti, se dovrò udire, quando tornerai,
le parole di cui ho paura. Ma le preferirò a questa agonia! Vai, mamma?
I suoi lineamenti scomposti rivelavano una angoscia tanto intensa! La sua
voce assumeva un tono di preghiera tanto straziante!... E quel nome:
“mamma!... mamma!... ” ripetuto di continuo. come da un bimbo malato,
scendeva a far vibrare la corda più profonda, nel cuore di colei ch'egli
implorava così. La madre non seppe resistere, e, alzandosi, disse:
- Sì, caro... Vado.
VIII
Suocera e nuora.
Fra via San Domenico, dove abitava la signora Vialis, e via Villejust, la
distanza è grande. Ella trovò modo d'impiegare maggior tempo, nel tragitto,
facendo fermare la carrozza davanti alla basilica di Santa Clotilde, nella
quale era stata celebrata la messa funebre di suo marito, e dove, due giorni
prima, ella aveva sorpreso il figlio, appoggiato al muro della cappella della
sua prima comunione, e tanto visibilmente infelice. Era troppo religiosa
perché il suicidio del marito non le avesse lasciato nel cuore, oltre alla
disperazione per quella perdita, un'angoscia che sempre si rinnovava al
pensiero delle conseguenze di quella morte volontaria. Era giunta perfino a
cercare in un esemplare del catechismo del Concilio di Trento, che aveva
trovato fra i libri ereditati dai vecchi Vialis, il commento fatto al quarto
precetto del Decalogo, nel quale si osserva che legge non dice: “Non
ucciderai un altro uomo”, ma semplicemente: “Non ucciderai”. Il suo
maggior conforto contro il terrore circa la dannazione di colui che aveva
amato tanto, era una fede profonda e totale nella misericordia divina. La
preghiera da cui traeva. la più potente consolazione, era l'atto di fiducia in
Dio del venerabile padre Claudio della Colombière: “Mio Dio, sono tanto
persuaso che voi proteggete coloro che sperano in voi, e che non si può
mancare di nulla quando si aspetta da voi ogni cosa... ”. Ella aggiungeva a
quelle parole tranquillizzanti il ricordo dell'affermazione del professare
Vernat: “Sul mio onore di medico, vi affermo che Vialis non è responsabile
di questa morte!” E meditava su quelle parole: “No, non può esserne
responsabile, poiché fu vittima di una eredità fatale! Non sarebbe giusto, e
Dio è giusto. ” Mentre quell'idea d'una fatalità ereditaria, calmava la sua
inquietudine circa la sorte dell'anima di Giovanni nell'altro mondo, ella vi
trovava una ragione di tremare per suo figlio in questo, e di aver paura di una
ripetizione dell'atto terribile. Anche quella mattina, inginocchiata in quella
chiesa nella quale aveva pianto tanto, implorava da Colui che può tutto e da
Colei che fu la Mater Dolorosa, la forza di fare quanto le aveva domandato,
o meglio imposto, quel figlio, e di farlo in modo che un secondo sorso del
calice fosse evitato a lei stessa.
Come sempre, quella sosta in chiesa valse a dare un po' di pace alla sua
anima. Ma certo, ella giunse davanti alla casa di via Villejust con una grande
tensione di spirito. Prevedeva emozioni penosissime, ma un motivo diverso
dal desiderio di far del bene a Gianmaria le dava l'energia di accingersi
coraggiosa mente a quella conversazione con la nuora. La sua coscienza non
temeva più di essere condannata a delle compiacenze che le avrebbero
lasciata l'amarezza di un rimorso. Ormai quel supplizio morale era finito.
Con l'infallibile logica della passione, il geloso aveva riassunto la situazione
in un dilemma senza scappatoie. Come aveva detto, quel colloquio doveva
dargli una di queste due certezze: che le relazioni fra Sabina e Saintenois
erano colpevoli soltanto in apparenza (sussisteva questa possibilità), o che
essi erano amanti l'una dell'altro. Ma da quel dilemma, la madre traeva una
conclusione che non era quella di suo figlio.
Nel primo caso, ella avrebbe rassicurato suo figlio; la cosa andava da sé. Nel
secondo, avrebbe avuto diritto di tacere, poiché quella relazione sarebbe
troncata, anzitutto dal suo passo. “Avvertire, equivale a fermare”... Queste
parole di Vernat le tornavano alla memoria. D'altronde, anche senza il passo
ch'ella stava per fare, l'obbrobrio di Saintenois avrebbe imposta la rottura.
Egli avrebbe lasciato Parigi. Anche se fosse rimasto, Sabina non avrebbe
tenuto un amante disonorato. Per la madre, non denunciare a suo figlio dei
tradimenti che ormai apparterrebbero soltanto al passato, non significava più
proteggerli. Significava risparmiare, a colui che sapeva tanto acutamente
sensibile, un dolore troppo pericoloso, ed anche dare alla moglie colpevole
una probabilità di riparare alla sua colpa. Davanti all'infamia del suo
complice, non si sarebbe infatti giudicata, Sabina? Mettendo a confronto la
nobiltà del marito tradito con la bassezza dell'amante preferito a lui, non
sarebbe ritornata, Sabina, guarita dal disgusto e dal rimorso, all'uomo di
cuore che aveva straziato?... Così Gianmaria avrebbe avuto ancora della
felicità, Sabina si sarebbe riabilitata... E le frasi del Vangelo sul peccatore
pentito salivano dal cuore alle labbra della madre. Ella era pronta a ripeterle.
Entrò nel piccolo palazzo in cui abitava, sua nuora - (edificio la cui
decorazione ultramoderna attestava una vita assai diversa dalla sua) sentendosi sorretta dai sentimenti ai quali ho accennato, molto strani per
esser provati in quel luogo d'intensa e frivola mondanità. La scala piena di
luce e adorna di piante verdi saliva ad una vasta galleria, destinata ai grandi
ricevimenti, dalla quale si accedeva ad un salotto che serviva da boudoir a
Sabina. Un'altra porta s'apriva in un corridoio che conduceva allo studio di
Gianmaria e ad una camera più lontana riservata a Renato e Giulietta.
- La signora è in colloquio col suo gioielliere, - disse il domestico che
introdusse Maria Vialis. - Vado ad avvertirla.
- I bambini sono in casa?
- Sì, signora, nella stanza da studio.
- Dite alla signora che l'aspetterò in quella stanza, - concluse la vedova.
Mentre stava per cominciare quel colloquio che si annunciava quasi come
una lotta, non sarebbe stato un conforto, per lei, abbracciare il suo, nipotino,
quello di cui ella pure, come Gianmaria, era veramente sicura? Non si
preparava ella a lottare anche per lui, affinché gli rimanessero, uniti, i suoi
genitori?... Quel nipotino rappresentava per lei il prolungarsi della missione
che si era imposta, poiché l'eredità salta talvolta delle generazioni, Era, sopra
tutto, una creaturina che ella amava. Le ricordava tanto il suo Gianmaria,
quale le aveva sorriso nel passato, nei primissimi anni di quella vedovanza
della quale era stato il tormento ed insieme la consolazione! - Quando ella
entrò, dal corridoio, nella stanza da studio, Renato era seduto ad una piccola
scrivania adatta per lui, sulla quale stava terminando di copiare un compito,
mentre sua sorella leggeva il sillabario, aiutata da una governante della quale
la signora Vialis aveva moltissime volte scrutato, con attenzione diffidente,
la fisionomia evidentemente sorvegliata. Le donne che hanno, come Sabina,
un segreto nella loro esistenza intima, temono troppo lo spionaggio dei loro
domestici, per non aver cura di scegliersi delle cameriere e delle istitutrici
devote soltanto a loro e di una discrezione provata. Quella donna, che
rispondeva al nome di Marcellina Tullugowy - un nome dei Pirenei, - veniva
infatti dalla regione basca. Era nata a Mauléon. Naturalmente, era stata
indicata ai Vialis da Giorgio Saintenois. .. Un altro degli innumerevoli
piccoli indizi raccolti, dalla suocera, relativamente all'influenza di
quell'uomo nella vita coniugale di Gianmaria. Ed era un indizio anche
l’analogia di tipo fra quella mezza spagnola e la piccola Giulietta. È risaputo
che in nessun luogo le caratteristiche di razza sono più visibili che in quella
popolazione della Bassa Navarra, ultimi resti degl'Iberi antichi. - Quella
mattina, mentre Giulietta si slanciava impetuosamente verso colei che
credeva sua nonna, quella singolare identità s'impose nuovamente
all'osservatrice, come pure le s'imposero le differenze fisiologiche tra il
fratello e la sorella. A quattro anni e mezzo, con le sue piccole membra già
robuste, con le sue guance pienotte e la sua carnagione fresca sotto il colorito
bruno, Giulietta era un piccolo animale tutto ardore e tutta forza, - una vera
figlia dell'amore. Renato, invece, esile e gracile, aveva la meschinità di un
figlio del dovere. Egli si avvicinava alla nonna con la timidezza un po'
esitante che aveva sempre, in tutti i suoi movimenti. Per una simulazione
contraria a quella che suo figlio aveva denunziata in Sabina, la madre di
Gianmaria aveva sempre ostentato di vezzeggiare maggiormente quella
bambina, della quale diceva a sé stessa: “Non è nulla, per me!... ” Questa era
stata, come fu già detto, una delle forme quotidiane del suo martirio e quale
ne era stato il risultato?... Il sospetto era entrato ugualmente nell'animo di
Gianmaria, al quale ella aveva cercato di evitarlo ad ogni costo!
- Oh! nonna! - disse Giulietta, - ho già compilato tutte queste parole!
Guarda!..Te le ripeterò, se vuoi!
La piccina mostrava con una mano il sillabario, mentre con l'altro braccio
cingeva il collo della signora Vialis, coprendole di baci le guance. E la
vedova s'inteneriva e insieme si vergognava un poco, nell'accettare l'affetto
appassionato di quel cuore di bimba illuso da una menzogna.
- E tu, - domandò a Renato, - che cosa fai?
- Sgridatelo, signora! - disse la governante. E, preso il quaderno sulla
scrivania, soggiunse: - Guardate questa pagina! Non fece mai tanti errori
d'ortografia quanti ne ha fatti nel suo dettato di questa mattina, e, col
vocabolario, non riesce a trovarli!
Il povero Renato abbassava il capo. Le lagrime di cui gli s'empirono gli
occhi denunciavano l'emotività ereditaria. La signora Vialis lo baciò a sua
volta, abbandonandosi ora ad un istintivo impeto di tenerezza, con un calore
che stupì il fanciullo, assuefatto a vederla meno espansiva. Egli sentì in quel
trasporto una carità per la sua umiliazione e mormorò alla sua nonna un
“grazie” sommesso, tanto fremente di gratitudine ch'ella ne fu commossa
fino in fondo all'anima.
- Ah! mamma! - disse Sabina, entrando appunto in quel momento; - come
avete ragione di voler tanto bene al mio Renato! È tanto buono! tanto carino!
- E accarezzava intanto le guance del suo figlioletto. - Invece, questa piccola
indemoniata... - soggiunse, dando a Giulietta dei leggerissimi scappellotti. Non hai raccontata alla nonna la tua ultima stupidaggine?... Fa vedere il tuo
libro!
La bimba, tutta rossa in viso, porse il sillabario, le cui figure
rappresentavano dei paesaggi, degli animali, ora coi nomi, ora senza. Sabina
lo sfogliò, cercandone una, sulla quale era disegnata una stalla. Un enorme
maiale vi stava sdraiato sulla paglia. La piccina, sempre più turbata, si
nascondeva il viso col grembiule di Marcellina.
- Sapete, mamma, - insisté Sabina - che nome dà, la nostra scioccherella, a
questo animale? Lo chiama cuscino rosa!.., A San Giovanni di Luz,
Marcellina le indicò un giorno un maialino, dicendole: “Guarda che bel
cuscinetto rosa!” E, lei, convinta di sapere il nome della specie, chiama
cuscino rosa il maiale del suo sillabario, più grosso del cuscinetto che vide!...
Non potrebbe essere più grulla!
La madre di Gianmaria aveva ancora pieno il capo delle lagnanze di suo
figlio contro il contegno ipocrita di Sabina verso i due bimbi. Ella stessa, si
era rimproverata, proprio allora, una ipocrisia analoga, scusata da un motivo
diverso, ma che era ugualmente, un'ipocrisia... Quella scena le riuscì penosa.
L'interruppe bruscamente, dicendo:
- Potete dedicarmi alcuni minuti, mia cara Sabina? Sono venuta per parlarvi
di cose abbastanza gravi.
La nuora guardò la suocera. Un'espressione di diffidenza le contrasse il volto
fine, tanto ardito per solito. Era una, donnina esile, non molto alta, bionda
con lineamenti delicatissimi e con un colorito pallido illuminato da due occhi
ardenti, luminosi e d'una profondità singolare. Le pupille di fuoco, il naso
corto e sensuale, le labbra un po' tumide, il vigore del mento segnato da una
fossetta, tutto accusava in lei l'energia nervosa, che s'affermava anche nelle
movenze, nel busto eretto, nel ritmo preciso col quale i piedi piccini
battevano leggermente sul suolo nel camminare. La sua veste di seta
turchina, stretta alla vita, lasciava indovinare la muscolatura robusta di un
giovane corpo allenato a tutti gli esercizi di sport: equitazione, tennis, golf...
La sua voce un po' grave aveva quelle intonazioni da contralto che secondo
certi osservatori sono indizio d'intensità nella passione. La sua forza di
volontà si manifestava in un modo ancor più certo: ella soleva manovrarla,
quella voce, con grande maestria, sospendendone quando voleva la carezza
avvincente. La sua parola allora assumeva l'intonazione secca e impersonale
che suo marito le rimproverava e con la quale ella rispose all’invito
inaspettato della visitatrice:
- Volete venire nella galleria, mamma?
- Andiamo piuttosto nel vostro salottino. Ciò che devo dirvi è importante, e
sarà bene che nessuno possa udirne una parola.
- Che mistero! - disse Sabina, ridendo con ostentazione, come se non avesse
indovinato il genere del colloquio che si preparava.
E, premendo il bottone di un campanello, soggiunse :
- Avvertirò i domestici che non sono in casa per nessuno...
Poi, quand'ebbe dato l'ordine alla cameriera, e per sapere se la suocera era
venuta con un incarico di Gianmaria, soggiunse, ancora ridendo:
- Spero che il mio signor marito non capiti ad interromperci. Dev'essere con
un amico, col quale ha fatto colazione. Sarebbe di troppo anche lui?
- È preferibile ch'egli non ci sia, dato l'argomento che avrà la nostra
conversazione, - cominciò la signora Vialis, - sedendosi nella poltrona che
l'altra aveva avvicinata per lei cerimoniosamente.
- Il mistero s'intensifica... - disse Sabina, che invece di sedersi andò verso il
caminetto, dove rosseggiava un fuoco semispento. - Aggiungo un po' di
legna, - riprese; fa molto freddo.
E, quando sorse la fiamma, prese in una coppa una sigaretta russa, che
accese, dopo aver domandato:
- Permettete?... Ed ora, - soggiunse, aspirando con gaia avidità una boccata
del fumo squisitamente odoroso di quel tabacco che aveva il colore de' suoi
capelli, - vi ascolto.
La suocera aveva assistito a quel maneggio senza che la sua fisionomia
tradisse la minima impazienza per quella frivolezza troppo evidentemente
finta. Ella raccoglieva tutte le forze del suo pensiero per trovare le parole
necessarie che doveva dire, e per evitare di dirne altre. Cominciò:
- Riconoscerete, mia cara Sabina, che non mi occupo mai dei fatti di casa
vostra. Pensai forse, nel passato, e desiderai, che mio figlio avesse a
condurre, con sua moglie, una vita meno mondana, più calma, più intonata ai
gusti ch'egli ebbe nella sua prima gioventù, dedicata principalmente agli
studi. Ma non mi riconobbi il diritto d'imporre i miei modi di vedere, né a
voi, né a lui. Appartenete tutti e due ad una generazione assai diversa dalla
mia. I vecchi devono ammettere che i giovani pensino e sentano in un altro
modo... Tutto cambia, cogli anni... Tutto? No. Il dovere non muta, e il primo
dovere di una donna maritata, le piaccia o non le piaccia la vita di società,
consiste nel non far parlare di sé....
- Ora la cosa diventa più chiara! - disse Sabina, che cessò di ridere e gettò
nel fuoco la sigaretta. - Secondo voi, io faccio parlare di me?
- Sì, - disse la suocera.
- Ah! - replicò Sabina. - E con chi?... Infatti, dire ad una donna che “fa
parlare di sé” equivale a dire... (sarò esplicita come voi)... che quella donna
ha un amante...
- Non così esattamente, ma che ella si presta a delle intimità pericolose, che
dovrebbe proibirsi.
- Vi ripeto la mia domanda: di chi volete parlare?
- Del signor Giorgio Saintenois! disse la suocera guardando fissamente la
nuora.
Questa non impallidì, non arrossì; si mise a ridere di nuovo, ma più forte di
prima, con insolenza e con aria di sfida... Poi, con una voce divenuta
mordente:
- Del signor Giorgio Saintenois, - ripeté.
- Ebbene, sì! è mio amico, il signor Saintenois! Ed, è anche amico di mio
marito. Voi, ch'io sappia, non siete una di quelle persone che non ammettono
che una donna abbia degli amici... Avete pure, voi, da molti anni, per amico
intimo il professor Vernat... Se venissero a dirvi: “Sapete? Si parla di questa
amicizia... ” tronchereste forse le vostre relazioni con lui?..No, certo. Direste:
“Una calunnia non si discute, si disprezza!” Parli pure chi vuol parlare; io
sono amica di Giorgio Saintenois, e continuerò ad esserla...
- Non ho più la vostra età, - disse la signora Vialis, - e vi assicuro che
trent'anni fa, quand'ero giovane, se qualcuno fosse venuto a dirmi come vi
dico io, e coi sentimenti che ho per voi: “Badate. La gente è cattiva. Il nome
che portate non è soltanto vostro... ”
- Se è mio marito che vi manda... - Interruppe vivacemente Sabina, - vi dirò
che avrebbe potuto parlarmi egli stesso...
Una conversazione come quella in cui si affrontavano ora le due donne,
somiglia ad un duello fra schermidori, ciascuno dei quali cerca anzitutto di
comprendere il metodo dell'altro. La suocera aveva avuto subito due
sensazioni: quella di non aver stupito affatto la nuora nel dirle il nome di
Saintenois, e quella di capire che Sabina avrebbe difesa la sua intimità con
quell'uomo, ostinatamente, implacabilmente, sfidando la sua accusatrice a
fornire delle prove. Che cosa si poteva concludere da tutto ciò? Che
significato poteva avere quella domanda sul marito, che tendeva a sostituirlo
alla sua inviata? Se fosse stata innocente, avrebbe avuto, Sabina, un
contegno diverso? Quell'inchiesta, della quale il figlio aveva con tanta
passione e con tanto dolore incaricata la madre, stava dunque per fallire
completamente? La signora Vialis pensò appunto a Gianmaria, in quel
momento, e ai suggerimenti avuti, circa il modo d'interrogare Sabina, da
quell'uomo che, avendo sofferto molto per colpa di sua moglie,
sapeva quale potesse essere il punto debole di lei e come convenisse colpirla:
- Prima di tutto, la storia di Saintenois! - aveva detto il marito geloso. E
aveva insistito: - Prima di tutto!
Quella storia, la storia della truffa, Sabina non la sapeva, evidentemente... E
Gianmaria aveva ragione: il raccontargliela brutalmente, senza preparazione,
costituiva forse il mezzo più sicuro per strapparle il grido rivelatore. “Con
vostra nuora, il bisturi!” aveva detto anche il medico. Ma chi doveva
adoperarlo, il bisturi, era una donna... Una donna che aveva amato. E un po'
di compassione involontaria nasceva in lei, per Sabina colpevole, al pensiero
ch'ella amasse veramente il miserabile del quale stava per conoscere
l'ignominia. Riprese:
- È naturalissimo che non comprendiate il mio passo... forse non ho
cominciato bene. Ma volendo giovarvi, ho dovuto rivolgervi quella domanda
a quel modo... Mi è sembrato necessario avvertirvi anzitutto che si parla di
Saintenois e di voi, perché abbiate il contegno che dovete avere nelle
circostanze assai deplorevoli in cui quell'uomo sta per trovarsi.
- Il mistero ricomincia... - disse Sabina.
Ora, l'eccesso della sorpresa prevista da Gianmaria le impediva di dominare i
propri nervi. Le era nota la riservatezza della suocera, alla quale questa aveva
d'altronde accennato fin dal principio del colloquio, e aveva già capito che si
trattava di qualcosa di molto grave. Quale poteva essere il motivo della
mossa di Maria Vialis, se non un accesso di gelosia da parte di Gianmaria,
che mandava a sua moglie quell'ambasciatrice? Istintivamente, ella aveva
cominciato a difendersi con energia. Ora, l'accento con cui l'altra aveva
pronunciate le parole: assai deplorevoli e quell'uomo, l'avvertiva di un
incidente nuovo. Di che genere?
- Infatti lo scandalo di cui vi parlerò, - riprese la suocera - non è ancora
pubblico. Domani, tutta Parigi se ne occuperà... E allora sarete la prima a
riconoscere che una donna, se può, come dite, avere degli amici, dev'essere
almeno assai cauta nella scelta...
- Uno scandalo?..Uno scandalo intorno a Saintenois?..Che cosa pretendete
d'insinuare, mamma?
Sabina non si padroneggiava più. Dal principio della settimana, era andata
ogni giorno in casa del suo amante, trascurando ogni prudenza. Vi era andata
cedendo alle insistenze del giovane, che tuttavia, per solito, si preoccupava
assai dei pericoli a cui poteva esporre la sua amante. Quelle visite avevano
lasciato nell'animo di Sabina un'impressione strana d’inquietudine vaga, ma
tormentosa. Saintenois non le si era mai mostrato più innamorato, più
appassionato, e quell'ardore, invece di darle piacere, l'aveva quasi spaventata.
I baci dell'amante avevano, in quei giorni, quel non so che di frenetico, di
disperato, che caratterizza gli estremi addii... Ella lo aveva sentito, senza
comprendere la causa di tanta tristezza nell'esaltazione. Aveva esitato a
interrogare Giorgio. Come lui, ella aveva orrore della leziosaggine
sentimentale. Pure, già sulla soglia per uscire, alla fine dell'ultima visita, aveva osato dirgli, perché l'aveva visto più preoccupato che mai:
- Hai dei fastidi, amore mio?
- Quali fastidi vuoi ch'io abbia? - aveva risposto Saintenois, fissando su di
lei uno sguardo singolare nel quale s'indovinava una violenta emozione
subito dominata.
Ed egli l'aveva baciata lungamente, cercando di correggere quello sguardo
con un sorriso intensamente affettuoso.
- Vuoi sapere quel che ho? - aveva soggiunto. - Ti amo troppo!
- Troppo? - aveva detto lei, scherzosamente. - Non basta ancora!
- Credi?..aveva concluso. Giorgio, con un tono tanto triste, che Sabina non
aveva più potuto dir nulla.
Non provava ella pure, alla fine d'ogni convegno, un'angoscia profonda:
quella di dover rientrare nella sua vita separata da quella di lui? Aveva
interpretato così il sospiro doloroso dell'amante, che la inseguiva fin dal
giorno antecedente. Riflettendo però, si domandava se quel “Credi?” non
aveva anche qualche altro significato. Ed ora le giungeva la più inaspettata
conferma di tutti i timori che non aveva voluto confessarsi. Il suo turbamento
cresceva, più forte della sua volontà. I suoi lineamenti si alteravano, le sue
palpebre battevano, la sua bocca si schiudeva, ansando quasi per i battiti
precipitati del cuore, mentre la suocera riprendeva, fissandola con quelle
pupille penetranti, contro l'inquisizione delle quali ella non si difendeva più:
- No. Sabina... non insinuo nulla. Vi ripeto soltanto ciò che ho saputo questa
mattina, da fonte sicura, sicurissima!...Saintenois è giocatore... Lo sapete
certamente. In questi ultimi tempi, aveva perso molto. Ha voluto rifarsi. Ha
preso dalla cassa di giuoco del Circolo una somma rilevante: cinquantamila
franchi. L'ha giuocata, e l'ha persa. Questo non sarebbe nulla. Ciò che è
grave, è che, per avere quei cinquantamila franchi, egli rilasciò al cassiere un
assegno bancario dello stesso valore. Il cassiere l'accettò, naturalmente, non
potendo pensare che un socio del Circolo fosse un truffatore. Poi, quando
quell'uomo andò alla banca per riscuotere con quell'assegno, si constatò che
non c'era alcun deposito di Saintenois! Ora bisogna supporre che Saintenois
sia considerato da tutti come completamente rovinato, poiché egli non è
riuscito è trovare immediatamente, a Parigi, la somma necessaria per pagare
un debito che contrasse mediante un falso! Lo troverà, forse, quel denaro, ma
è stato denunciato al presidente del Circolo, che è il signor Casal, e questi
esige le sue dimissioni. Una prova che la sua vergogna sta per essere resa
pubblica, sta nel fatto che io ne sono già informata. Certamente il cassiere
parlerà, certamente Casal sarà costretto a spiegare la cosa al Consiglio...
Insomma, Giorgio Saintenois è disonorato! Io ho voluto, Sabina, che non
abbiate il viso che avete ora, quando una vostra amica, per esempio, vi darà
questa notizia... Ah! disgraziata!... Non occorre più, ormai, che mi diciate la
verità....La so... La so!...
Quale confessione, infatti, l'atteggiamento di Sabina, all'udire quelle terribili
parole!... Ella si era lasciata cadere su una sedia, e, con le mani
convulsivamente giunte, con viso proteso, guardava... Che cosa? L'abisso che
si era improvvisamente spalancato ai suoi piedi. Una sciagura estrema e
subitanea ha di queste visioni, assolutamente simili a quelle di chi s'annega,
nelle quali. delle lunghe serie di avvenimenti passano rapide nel campo del
pensiero. Nel lampo d'un secondo, si accumulano degli anni. Il disonore di
Saintenois significava per Sabina la fine della sua relazione con lui. Egli se
ne sarebbe andato da Parigi, dato che non facesse di peggio. - Della dolorosa
frenesia delle carezze ch'egli le aveva prodigato due giorni prima e il giorno
antecedente, Sabina aveva ragione d'avere paura. Egli infatti, nei suoi
abbracci deliranti, s'era stretta al cuore la felicità, s'era stretto al cuore
l'amore, prima di perdere per sempre l'una e l'altro. E non le aveva detto
nulla! Quella rovina, quel bisogno di denaro, che doveva esser tragico...
tutto, tutto le aveva nascosto, mentre ella era ricca e lo amava tanto!... Lei,
non aveva saputo indovinare nulla!
Ed ora (come la suocera prevedeva giustamente), che cosa avrebbe letto
negli occhi, che cosa avrebbe sentito nelle parole delle sue amiche, e non
soltanto di esse, ma di tutte le persone della società che frequentava? Perché
avrebbe mentito, ormai? Per ingannare chi? Ad un tratto, e come avviene in
una grande sciagura, una reazione quasi selvaggia - quella dell'animale
perseguitato che morde - la fece scattare in piedi, e, fissando a sua volta la
madre di suo marito, le disse, cercando le parole più adatte a ferirla
profondamente:
- Sì, è vero... Sì! Amo Saintenois! L'amo, capite?..L'amo! ... E poi?..Andate
pure a dirlo al vostro Gianmaria che vi ha mandata per strapparmi questa
confessione! Ah! Questo mezzo è degno di lui... E gli è riuscito!… Ora, non
mi tormentate più!
In quel momento, era la suocera, che si sentiva battere forte il cuore e
fremere tutta alla: minaccia contenuta in quelle frasi della ribelle. Ella non
pensò affatto ad adirarsi, come l'altra s'aspettava, contro quell'insolenza,
contro l'insulto lanciato dalla moglie indegna al marito tradito. Certo, era
venuta per sapere, ma soprattutto perché suo figlio non sapesse... Invece, egli
stava ormai per avere una rivelazione completa! ... In che stato l'aveva
lasciato, poco prima! E forse, a provocare il gesto ereditario, sarebbe bastata
una commozione violenta, come quella che avrebbe provato per l'impudente
confessione di Sabina!... Ma questa aveva parlato così, credendosi perduta ed
essendo convinta che suo marito le avesse mandata sua madre per strapparle
quella confessione e per punirla poi. Comprendesse, invece, che quella
madre era pronta a perdonarle, se, liberata da un amante infame, ella fosse
ritornata al sentimento del dovere! E, alzatasi, la vedova del suicida, animata
dalla volontà di salvare il suo figliolo, disse coll'accento di una martire:
- Come mi conoscete poco, Sabina! ... Sì, mi ha mandato Gianmaria... Egli è
geloso, è vero... La storia di Giorgio Saintenois l'ho saputa da lui, ed è anche
vero che ve l'ho detta per sapere... Ma v'ingannate se supponete che io stia
per tornare a casa, dove Gianmaria mi aspetta, per denunziargli ciò che
voglio, ad ogni costo - capite? ad ogni costo! - ch'egli ignori completamente!
Soffrirebbe troppo, e non voglio che abbia questo dolore, non voglio che...
S'interruppe, per un momento. Stava forse per gridare la sinistra verità il cui
peso le opprimeva il cuore da anni?... Le mancarono le parole, per rivelare
quel crudele, segreto, serbato troppo, lungamente. A che scopo d'altronde,
l'avrebbe rivelato? Quella donna, certo, non avrebbe condiviso il suo terrore
di vedere il figlio imitare il padre! e continuò:
- Ma, mia povera Sabina, già da parecchi anni avevo indovinato che
Saintenois è vostro amante! Volete che vi dica da quando data la vostra
relazione?... Da quando andaste al mare mentre Gianmaria era a Néris. La
bambina non è di mio figlio. Indovinai anche questo, fin dal primo giorno.
Diffidaste di Vernat, temeste ch'egli non si prestasse alla vostra versione
d'una nascita un po' anticipata. È vero?
Ebbene: quella creatura della quale so che non è del mio sangue, mi avete
visto baciarla, vezzeggiarla... Voi, vi astenete dall'accarezzarla troppo, perché
non volete che si capisca la vostra preferenza. Perché? Perché siete madre.
Dunque, la madre, in voi, deve sentire, solo da questo fatto, quanto io ami il
mio Gianmaria! Perché egli non sapesse nulla, nulla, nulla, divenni vostra
complice col mio silenzio. Continuerò a tacere. Farò anche di più.
Addormenterò i suoi sospetti. Vi salverò. Ma il mio silenzio vi crea un debito
verso di me. Sì! ho diritto di chiedervi d'aiutarmi nel lavoro che vado
facendo per salvare lui, il mio povero caro figliolo, dalla disperazione!
Tornando a casa, fra poco, gli dirò che vi ho parlato di Saintenois, della sua
bassezza, e che avete accolto le mie rivelazioni con una tranquillità che mi ha
dimostrata la vostra innocenza. Sarà la mia peggiore menzogna. Dio me la
perdonerà. Ah! sono sicura che per morire non soffrirò di più! Ma voi,
Sabina, commetterete un delitto - capite? un delitto! - se mi smentirete
quando lo vedrete! E poi, lasciate che una vecchia, che conosce la vita
meglio di voi, vi dica che il vero amore, profondo, delicato, appassionato,
l'avevate presso di voi! Ora che la catastrofe di colui che non voglio più
nominare vi ha illuminata circa il vostro errore, ritornate ai vostri doveri! Mi
troverete sempre pronta ad aiutarvi, senza mai un'allusione al passato, senza
mai un rimprovero, con riconoscenza, se rivedrò negli occhi di mio figlio una
luce che s'è spenta... Non mi rispondete! Ci faremmo troppo male, l'una
all'altra, e tutto è già detto...
La suocera uscì dal salotto prima che la nuora, ancora accasciata sulla sua
sedia, avesse pronunciata una parola, fatto un gesto per trattenerla o
semplicemente per salutarla. Attraversò la galleria, e si fermò un momento
per ascoltare, attraverso la porta del corridoio, rimasta semiaperta, le risate
dei bambini che si trastullavano e correvano insieme, allegramente, senza
sospettare che una scena tragica del loro destino si era svolta poco prima, a
pochi passi da loro.
- Poveri piccini! - pensò la nonna, unendo all'altra la creatura dell'adulterio,
nella stessa compassione. E, scendendo le scale, soggiunse fra sé: - Avrò
tempo di riavermi abbastanza perché Gianmaria mi veda arrivare sorridente,
e perché anche solo il mio ritorno, tanto presto e con quel sorriso, sia per lui
una prova... Ah! È stato penoso, questo colloquio! Sarà penoso, il seguito!...
Ma la cosa orribile non avverrà! Non è possibile che quella sciagurata non si
presti a ciò che le ho chiesto... Ah! mio Dio! Potesse veramente pentirsi, e
ritornare a voi!... Ritornerebbe anche a lui!..
La vedova saliva in carrozza mormorando questa preghiera, nella quale la
sua religiosità di fervente cristiana e la sua tenerezza materna si
confondevano in un voto ardentemente appassionato. Che avrebbe detto se,
dieci minuti dopo, fosse stata ancora lì, davanti al palazzo, e avesse visto
uscire sua nuora, e poi, seguendola, l'avesse udita dare ad un vetturino
l'indirizzo di via Fortuny, dove abitava Giorgio Saintenois?
IX
Gli amanti.
Bisogna pensare che Sabina, solitamente tanto riflessiva e tanto padrona di
sé, fosse turbata fin nel profondo dell'essere, per commettere l'imprudenza, la
follia, di correre immediatamente dal suo amante, dopo un colloquio simile.
Era l'ora della colazione. L'adultera rischiava che suo marito tornasse a casa e
trovasse soli a tavola i bambini. Egli l'avrebbe interrogata, poi, su quella
strana assenza... Ed ella sapeva, ora, quanto fosse geloso quell'uomo,
ripensando all'incarico ch'egli aveva dato a sua madre. Maria Vialis avrebbe
mantenuta la parola, certamente. La nuora non ne dubitava, quantunque non
comprendesse il brivido di terrore da cui l'aveva vista fremere, al pensiero
che suo figlio potesse, un giorno, sapere la verità. Sì, ella avrebbe mantenuta
la parola. Ma le avrebbe creduto, il geloso? Se le avesse creduto, non si
sarebbe egli precipitato da sua moglie, per chiederle perdono di aver
sospettato di lei? E non trovandola in casa, non avrebbe egli avuto un nuovo
sussulto di diffidenza? Non sarebbe corso, pure precipitosamente, a casa di
Saintenois, per accertarsi che sua moglie non vi fosse? E allora?..Tutte queste
possibilità si erano presentate allo spirito di Sabina. Ella non se ne era curata,
non già come un'impulsiva che non misura le conseguenze d'un gesto, ma
come una creatura energica, ugualmente capace, seconde le circostanze, di
contenersi e aspettare, oppure di decidersi all'azione e di precipitarvisi
immediatamente. Così sono le anime forti. Sembra paradossale parlar di
forza, trattandosi di una parigina, ricca e mondana, impegnata nel più banale
dei romanzetti con un giovane che frequentava la sua casa e che era il
migliore amico di suo marito, come si usa in una società che non prende più
sul serio nient'altro che il piacere, la moda e il denaro. Per solito, si trova di
tutto, in simili relazioni: della vanità e dell'accidia, dell'interesse e del falso
sentimentalismo, della sensualità, qualche volta, e della depravazione; di
tutto, eccettuato l'amore. La passione vera è altrettanto rara, nella società
elegante, quanto la vera intelligenza. Vi si trovano tuttavia delle donne,
refrattarie a tutto ciò che è fittizio nel loro ambiente, e alle quali rimase un
cuore semplice. Queste donne sono come delle primitive conservatesi intatte
in una civiltà invecchiata. La parata mondana non significa altro, per loro,
che il dover figurare in una scena. La loro vera esistenza è nei loro
sentimenti. Con moralità tanto differenti, le due signore Vialis, suocera e
nuora, erano due donne di questo tipo. Per la prima, da quando suo marito si
era ucciso, non esisteva più che suo figlio; per l'altra, dacché si era data a
Saintenois, non esisteva più che questo amante. Il professor Vernat avrebbe
trovato in ciò una conferma di quella legge dell'eredità, considerata come
causa delle cause, che gli era tanto cara. Tutt'e due erano bretoni: una, la
suocera, per un atavismo già lontano. La sua bisavola era nata nel
circondario di Plancoet, profondamente celtico, come l'attesta il bel viale
coperto di Ville-Genohen, presso Kréhel. Quanto ai Lancelot, sono oriundi
del circondario di Carhaix, attraversato dall'Osme, poeticamente chiamato,
laggiù, Sainte-Aoun, il fiume profondo. Si sa che in ogni epoca e in ogni
paese, per quanto i casi della vita abbiano portati lontano dalla penisola
nativa i suoi figli, la razza celtica si distingue sempre per un potere singolare
di concentrazione interna. Questa facoltà di un'intensa e coraggiosa
sostenutezza caratterizzava ugualmente le due donne. Una era nella virtù ciò
che l'altra era nella colpa, conviene aggiungere con molte scuse. Ogni
creatura umana è, come ha detto un filosofo, la somma della propria razza,
ma si può dire che sia anche quella delle sue impressioni d'infanzia e di
gioventù. Ed ecco quali erano state le prime impressioni di Sabina.
Suo padre, Tristano Lancelot - l'allegro Tristano, come lo chiamavano alla
Borsa, - era uno dei principali agenti di cambio di Parigi. Egli l'aveva avuta
dal suo primo matrimonio. Quella nascita era costata la vita alla madre.
Meno di un anno dopo, il vedovo si era riammogliato, e dalla seconda moglie
aveva avuto parecchi figlioli. Sabina si era subito sentita un'estranea, in
quella nuova nidiata. La matrigna l'aveva odiata anzitutto per istinto. E poi,
quella bimba d'un altro letto era troppo diversa, troppo impenetrabile,
soprattutto, con quei suoi sconcertanti ed irritanti silenzi come ne hanno gli
esseri dotati d'una vita interna troppo chiusa. Per la stessa ragione, i
fratellastri e le sorellastre non l'avevano amata di più. Erano morti tutti,
successivamente, quando ella aveva toccati i quindici anni. L'avversione
della loro madre colpita così, si era maggiormente esasperata contro la
superstite. E ciò spiegava il matrimonio di Sabina con Gianmaria Vialis. Ella
aveva voluto lasciare ad ogni costo la casa paterna, per sottrarsi a quelle
ostilità di ogni giorno e di ogni momento. Tutto ciò era stato indovinato
perfettamente, con la lucidità infallibile degli affetti appassionati, dall'altra
madre, dalla madre di Gianmaria, che aveva pensato: “Costei non ama mio
figlio, che l'adora. Costei aspira soltanto alla propria libertà. Perché ha scelto
mio figlio, piuttosto che un altro?” Ed ella non aveva trovato risposta a
questo punto interrogativo. Ma forse nessuna risposta precisa sarebbe stata
possibile. Una ragazza, sia pure la più risoluta nelle sue volontà, conserva in
sé dell'indeterminato. Non si conosce interamente. Crede di obbedire a certi
motivi, mentre è spinta da altri. Gianmaria Vialis era stato presentato per
caso alla signorina Lancelot, in una festa, in casa del padre d'un suo
compagno di studi. Subito egli aveva impiegato, per rivederla e spesso,
quell'ingegnosità dell'amore nascente, sulla quale una donna che ne è
l’oggetto non s'inganna mai. Constatando che il giovane s'innamorava di lei,
Sabina si era sentita spinta immediatamente ad incoraggiarlo, soltanto perché
la sua matrigna manifestava per lui un'antipatia che si spiegava anch'essa
molto semplicemente. Come avrebbe potuto, la matrigna, accettare
volentieri, per una figliastra detestata, l'idea di un'unione in cui tutte le
probabilità di esistenza felice che una donna dell'alta borghesia può sognare,
sembravano riunite? Onorabilità della famiglia, intelligenza, serietà di
carattere e grande ricchezza... Sabina, quando suo padre le aveva trasmessa
la domanda di matrimonio, aveva esitato, tuttavia, pensando alla signora
Vialis e per timore di un'altra schiavitù in quell'altra famiglia. Poi, l'evidenza
di un sentimento profondo in Gianmaria, l'aveva indotta a sposare quel
giovane, sentendosi sicura di dominarlo e dicendosi: “Farò di lui quel che
vorrò”.
Ed era riuscita anche troppo nel suo intento. Non si sarà dimenticato con
quanta amarezza la madre di Gianmaria avesse parlato, al più sicuro
confidente delle sue angosce, del turbine di vita gaia nel quale la giovane
coppia si era lasciata trascinare, guidata da Sabina. Si trattava veramente di
quell'ebbrezza d'evasione che la reclusa di via San Domenico aveva
indovinata dietro al consenso della futura nuora.
Ella aveva avuto per un momento l'illusione che questa avrebbe potuto, per
gratitudine, affezionarsi a colui che le procurava la gioia della liberazione.
Aveva constatato infatti nella giovane sposa una gentilezza verso il marito, la
quale sembrava dovesse diventare affetto vera, alla nascita del primo bimbo.
Invece, era avvenuto il contrario. Come si è già notato, la meschinità
psicologica del piccolo Renato attestava chiaramente ch'egli non era un figlio
dell'amore. Nondimeno, il bimbo avrebbe potuta divenire un principio
d'unione fra marito e moglie. Ma era stato un'immediata occasione di
disaccordo. Gianmaria avrebbe desiderato che sua moglie allattasse. Ella non
aveva voluto, poiché le stava a cuore di riprendere prestissimo la sua
esistenza mondana, mentre suo marito accarezzava il sogno di una vita di
famiglia più ritirata, più raccolta.
Allora Sabina aveva constatato, nel corso di quel conflitto, finito per altro
con la sua vittoria, che c'erano degli angoli oscuri in quel carattere d'uomo
che credeva di conoscere tanto bene.
Gli emotivi impongono spesso degli stupori di questo genere. Gianmaria era
capace, a volta a volta, di fronte agli altri, di compiacenze che giungevano
fino alla debolezza, e di brusche resistenze tese fino all'ostinazione e alla
violenza. Presentava così delle sconcertanti alternative di eccitazione e di
depressione, irritandosi qualche volta per i più minuti incidenti domestici, e
qualche altra volta esitando e tergiversando davanti alle decisioni più facili,
più evidentemente necessarie. Oggi, si divertiva, come uno scolaro in
vacanza, per un gran pranzo, per una noiosa serata a teatro, per una festa da
ballo ufficiale; domani, stava taciturno e triste in una riunione di persone
simpatiche, in una sala invasa dal contagio delle più pazze risate, in una
festicciola organizzata da lui stesso. Ciò che una donna sopporta meno in un
uomo col quale coabita senza amarlo d'amore, è l'indeterminato. Anche gli
animali sono così. Un cane non si affeziona mai davvero a un padrone che lo
sconcerta con gesti impreveduti. Un cavallo non resta mai tranquillo, se
guidato da un cavaliere nervoso. I continui sbalzi d'umore di Gianmaria
avevano impedito a Sabina di distinguere le qualità dell'anima di lui, ed ella
si era assuefatta a non mostrargli mai nulla della propria anima.
Vivevano così, insieme, non infelici, ma nemmeno felici... Quando, al
principio del quarto anno di quell'unione senza la fusione dei cuori, aveva
conosciuto Giorgio Saintenois, Sabina non aveva trovato in sé elemento
alcuno che potesse aiutarla a reprimere l'impressione prodotta nell'animo suo
da quell'uomo. La sua indifferenza per il marito fermava in lei lo slancio
della maternità per il figlio nel quale lo riconosceva. Dopo il primo
stordimento che la libertà le aveva data, e pur continuando a sostenere la sua
parte di donna alla moda, ella aveva finito col sentirne la vanità. Non aveva
mai avuto molta religione, - poiché reagiva anche in questo contro la seconda
signora Lancelot, la cui devozione ostentata non era che un mezzo per
insinuarsi in certi ambienti. In nome di che cosa avrebbe ella rinunciato a
vivere la sua vita, come si diceva ancora in quegli anni? Infatti, oggi nessuno
prende più sul serio quell'espressione, ridicola in realtà quando vuol
significare il diritto al capriccio e alla ribellione pretenziosa. Non sarebbe
entrata nel linguaggio comune, se non corrispondesse ad un disagio
caratteristico delle società molto avanzate. Queste società proteggono la
sicurezza degli individui e moltiplicano le facilità del loro benessere. Ma
impongono loro, specialmente nelle classi oziose, un tipo di esistenza spesso
tanto convenzionale, che le loro potenze più profonde rimangono non
impiegate e che essi ne soffrono! Tale era il caso di Sabina. Quella donna,
nata per l'amore e che non aveva mai amato, provava una ripugnanza
istintiva per la galanteria.
Aspettava la passione, e non lo sapeva. Si credeva frigida. I sensi dovevano
destarsi, in lei, soltanto insieme col cuore, che non si era ancora interessato
di nessuno dei gaudenti che l'attorniavano. Per sua disgrazia, aveva
incontrato Saintenois proprio nel momento dell'esistenza loro in cui
cercavano, lei un uomo come lui, e lui una donna come lei. Saintenois aveva
allora trent'anni. La sua bruttezza tormentata era virile quanto era quasi
effeminata la distinzione fine di Gianmaria. Quel figlio di uno dei nostri
migliori generali, prematuramente tolto all'esercito e alla Francia, si era
distinto a sua volta per le migliori virtù militari, prima in Mauritania, poi
nell'Estremo Oriente, d'onde era tornato da poco, deciso a ripartire
prestissimo per l'Africa. Soleva parlare dei suoi viaggi come il Centurione di
Ernesto Psichari, facendo l'elogio dei lunghi “vagabondaggi nella solitudine”
e di “quell'odore di deserto, di quella brezza vivificante che esaltano quel che
c'è di migliore in noi”. Sembrava che la generazione di prima della guerra si
preparasse al sacrificio supremo mediante quella iniziazione al pericolo,
come se gli avvenimenti ancora futuri proiettassero su di essa un'ombra
annunciatrice. Ma quel soldato era anch'egli un amante nato che non aveva
ancora amato. Subito, i suoi discorsi contro la meschinità della vita avevano
trovato un'eco in Sabina. Si era sentito ammirato da quella donna; aveva
sentito ch'ella comprendeva la maschia poesia del suo destino di ufficiale. E
poi... - o sconcertanti contraddizioni dell'amore! - Sabina aveva fatto di tutto
per impedirgli di proseguire su quella strada, tenendolo presso di sé. Ed egli,
dopo essersi innamorato di lei perché si associava tanto generosamente, col
pensiero, al suo fervore per il mestiere delle armi, aveva rinunciato a questo
mestiere per non lasciare l'amante. Sabina era divenuta infatti sua amante,
senza difendersi, durante quel soggiorno a Deauville, dal quale era tornata
incinta. Egli aveva domandato una lunga licenza, e poi aveva date le
dimissioni. Erano passati cinque anni da allora, e continuavano ad amarsi
profondamente, ardentemente, come nei primi giorni.
Gli innumerevoli ricordi di quella lunga passione condivisa incendiavano il
cuore di Sabina, nel fiacre che la portava verso quell'amante
improvvisamente accusato, con una precisione tanto brutale, della colpa
forse più degradante nell'ambiente in cui vivevano: di una truffa in una
vicenda di giuoco! “E' possibile?” si domandava, fuori di sé. “E come ha
potuto non dirmene nulla?” Che Giorgio Saintenois fosse un assiduo al
baccarà del Circolo, ella lo sapeva da commenti più o meno malevoli, ai
quali non aveva mai, dato importanza.
Era ricchissima da parte di sua madre, aveva sposato un uomo pure molto
ricco, e la questione finanziaria non le si era mai imposta, nella sua
implacabile durezza, più che non si imponga a tutte le sue uguali, alle quali
l'opulenza sembrava un'atmosfera naturale. Saintenois giuocava? Perché no?
Gli piaceva fare ciò che fanno tanti dei suoi compagni di club! Ella non
sapeva che il generale, - mal consigliato nei suoi impieghi di denaro, aveva
lasciato al figlio un'eredità tutt'altro che cospicua. Il giovane, per poter
resistere nell'ambiente elegantissimo in cui viveva la sua amante, non aveva
tardato a spendere più delle sue rendite e ad intaccare il capitale. L'esempio
del padre non gli aveva giovato. Aveva speculato in Borsa imprudentemente,
e così si era completamente rovinato. Il baccarà gli era sembrato, come a
tanti altri, un mezzo possibile per rimediare alle perdite subite. Infatti, alcuni
banchi tenuti con ardire e favoriti dalla fortuna l'avevano rimesso a galla per
un po' di tempo. Il resto s'indovina. Le vicende del giuoco, una vita
dispendiosissima sostenuta a forza di paroli e di altre continue audacie, la
sensazione del pericolo, che agiva su quel soldato in riposo tanto più
fortemente in quanto che ingannava la sua nostalgia dell'avventura, rendendo
nello stesso tempo ancor più febbrili le segrete gioie del suo amore, - ed
infine il disastro... Oggi una perdita di diecimila franchi, domani un'altra di
ventimila, poi un'altra di trentamila, poi tutto il fondo di riserva rischiato su
un'ultima carta, e subito svanito... Allora, un colpo disperato, un'ultima posta
ottenuta con frode mediante quello chèque senza deposito corrispondente...
Cinquantamila franchi messi in banco alle undici... A mezzanotte, erano
divenuti duecentomila. Al tocco, trecentomila... Alle due, più nulla! Il crollo
totale!...E poi, il resto della notte passato dal giocatore sbancato a
domandarsi come avrebbe trovato modo di fare onore alla propria firma, e la
mattinata impiegata in tentativi inutili!... Era andato al Circolo ad implorare,
da1 cassiere dei giuochi, che l'assegno fosse presentato alla Banca solo
ventiquattr'ore dopo... Ma il cassiere l'aveva già presentato, aveva già parlato
al presidente. Ad altri, anche?...
Tutti questi particolari, Sabina li ignorava ancora. Ella sapeva l'ultimatum di
Casal, sapeva ciò che essa significava per il suo disgraziato amante, e
correva da lui senza ragionare, come avrebbe preso il treno se le avessero
detto che egli fosse moribondo, in un'altra città, rischiando tutto, ma con
l'idea di salvarlo, o almeno di soccorrerlo. Prima d'uscire, aveva introdotto
nel manicotto il suo vezzo di perle di maggior valore. Ed ora le palpeggiava
con la sensazione di avere con sé il necessario per trarre l'amante dall'abisso
in cui era caduto, purché egli avesse accettato. Intanto pensava: “Sì, perché
non mi ha parlato? Certo perché non pensassi che volesse chiedermi qualche
cosa... Ma la mia offerta l'accetterà, se mi ama... E certamente mi ama..”
Rivedeva ancora lo strano e triste delirio degli occhi del giovane, come
l'aveva visto in quegli ultimi giorni. Si sentiva sulla bocca il doloroso ardore
dei baci di lui... Tutto le si spiegava, ora, e la devastazione morale della
passione in un cuore di donna colpevolmente innamorata è tale, che ella non
pensava affatto a condannare l'atto disonorante commesso dal suo Giorgio.
Sentiva ch'egli soffriva, e quanto!... E ciò bastava perché non trovasse in sé
la forza di giudicarlo.
La casa nella quale abitava Saintenois in via Fortuny, era uno di quei grandi
edifici, quali le società di assicurazioni ne vanno costruendo
incessantemente, a Parigi, dal principio della terza Repubblica, impersonali e
privi di carattere. Il giovane occupava, a pianterreno, un appartamento che
era stato di suo padre. La pigione modica, in una costruzione nuova, aveva
tentato il generale, negli ultimi due anni della sua vita, quando era già quasi
rovinato. Giorgio aveva ereditato quell'alloggio, e dopo aver date le
dimissioni da ufficiale lo aveva tenuto. Aveva pensato di trovare una certa
sicurezza, per il mistero della sua relazione, in quel quartiere poco
frequentato, separato da grandi arterie dal quartiere di Sabina, e abitato da
artisti arricchiti o da commercianti danarosi, estranei tutti all'ambiente in cui
vivevano i Vialis. Una particolarità l'aveva deciso definitivamente: la porta
di quel pianterreno s'apriva nell'androne, prima dello sgabuzzino del
portinaio. I visitatori potevano esservi introdotti con molte probabilità di non
esser notati. La brevità della via permetteva loro, inoltre, di veder bene se vi
fosse qualcuno in osservazione, e di scomparire in fretta, uscendo, nelle
profondità dell'Avenue Villiers. D'altronde, una certa mancanza di
precauzioni non costituisce, talvolta, una precauzione? Gianmaria, quando
aveva pensato di far pedinare sua moglie, come aveva detto alla madre, non
aveva giudicata necessaria la sorveglianza dell'abitazione nota di Saintenois.
Come non supporre che questi avesse un altro appartamento, uno di quegli
anonimi asili nei quali i parigini e le parigine nascondono per solito i loro
romanzi segreti? Era anche quella, d'altronde, una manifestazione
dell'audacia innata dei due amanti. L'arditezza di quei convegni rispondeva
in lui alla spavalderia che hanno comune tutti i temperamenti fatti per
l'azione, e Sabina vi trovava una rivincita al ritegno che doveva imporsi in
casa sua. Per solito, quando giungeva in via Fortuny, ella guardava a destra
ed a sinistra. Quel giorno, ella licenziò la carrozza e non prese alcuna
precauzione. Un solo pensiero le dava angoscia, mentre suonava il
campanello: “Sarà in casa, Giorgio?...” Quando l'aspettava, egli soleva
mandare fuori il suo domestico. Sabina udì avvicinarsi, dietro all'uscio, una
persona di cui riconobbe il passo. “Giorgio è uscito!” pensò; e le batté forte il
cuore, quando, apertosi l'uscio, le apparve la faccia un po' stupida del
cameriere. Quell'uomo era stato ordinanza dell'ufficiale, che lo giudicava
molto devoto e molto fidato. Egli conosceva la signora Vialis, per averla
vista in qualche villeggiatura dove aveva accompagnato il suo padrone. Certe
relazioni segretissime sono già perfettamente note ai servi quando tutta l'altra
gente non ne sa ancora nulla... Infatti, quel giovanotto non sembrò affatto
stupito, al vedere quella visitatrice, che l'interrogava con voce tremante.
- Sì, signora, - le rispose; - il signor Saintenois è in casa, ma è molto
occupato. Ha detto che non vuol ricevere nessuno.
- Portategli questo, - disse Sabina.
Aveva preso, nella sua borsetta, un biglietto da visita e una piccola matita,
con la quale scrisse sul cartoncino, in inglese: I want to see you,
immediately. Sottolineò quest'ultima parola, poi diede il biglietto al
domestico, che obbedì. Dopo un minuto, egli ritornò, dicendo:
- Il signore riceverà subito la signora. La prega di scusarlo, per un momento.
È nel salotto, con una persona... Se la signora vuol venire nella sala da
pranzo...
E introdusse Sabina in quella stanza che le ricordava momenti felici
d'intimità: quelli in cui un'assenza del marito le aveva reso possibile di far
colazione o di prendere il tè, lì, sola col suo Giorgio, coniugalmente. Certe
umili gioie del matrimonio sono profondamente desiderate e care,
nell'adulterio, quando questo sia determinato da un sentimento vero. Quale
lezione per i colpevoli, se sapessero comprenderla! L'innamorata aveva tanto
goduto di quelle piccole feste d'amore! Ne guardava ora con viva
commozione la scena, che contrastava stranamente con quei ricordi.
Saintenois non aveva mutato nulla dell'arredamento di stile Impero che suo
padre aveva ereditato a sua volta dal padre suo, ufficiale egli pure nella
Grande Armata. Un ritratto di quel personaggio in divisa di gala della
Guardia, opera di un buon allievo di David, era l'unico ornamento di quella
sala austera. Sabina aveva sempre avuto simpatia per quel quadro, nel quale
si notava una sorprendente somiglianza fra l'avo e il nipote. Si mise ad
osservarlo, e rimase colpita da un'espressione di quel volto, alla quale non
aveva mai badato. Era un volto fine, dalla mascella dura e stretta, dagli occhi
pieni d'orgoglio e di sfida: occhi d'un civilizzato vicinissimo a ridiventare
selvaggio. Mentre ella s'ipnotizzava davanti a quel dipinto rivelatore, fu
improvvisamente scossa da un rumore di voci che s'udiva attraverso il
pesante panneggiamento che nascondeva una porta. Vide che quella porta, la
quale separava la sala da pranzo dal salotto, non era ben chiusa. Il domestico
l'aveva soltanto spinta, nella sua fretta di ritornare con la risposta del
padrone. Ella s'avvicinò all'interstizio rimasto, e udì una fine di discussione
che la fece sussultare.
- Suvvia, signor Altana... - diceva Saintenois, - arriverete almeno a
venticinquemila...
- No. Ventimila... - rispondeva il famoso antiquario, che Sabina conosceva
per aver comprato da lui, come tutte le parigine del suo ceto, qualcuno di
quei mobili antichi dei quali è tanto ghiotta l’epoca nostra, priva di uno stile
proprio. - Vedete, - continuava quel negoziante, - che sono molto onesto!...
Qualunque mio collega avrebbe agito diversamente. Voi non sapevate che i
bronzi di questa sedia fossero di Thomyre. Ve l'ho detto io. E c'è solo questo
mobile, che abbia un vero valore. Ventimila per tutto ciò che vendete è il
prezzo giusto.
- Sia pure. Accetto ventimila, ma in contanti.
- Vi firmo l'assegno, qui, immediatamente, - disse Altana.
- E i mobili, manderete a prenderli domani; è inteso. Vi ho già detto che
partirò stasera. Eccovi il mio indirizzo a Londra, e quello del mio notaio a
Parigi...
A questo punto, una pausa. Il rumore di una poltrona spostata fece capire
che i due uomini si erano seduti ad una tavola, uno dopo l'altro, per scrivere.
Saintenois riprese:
- Il mio domestico resterà qui per alcuni giorni, e vi faciliterà tutto.
- Se ne va? - pensava Sabina. - Se ne va?... Senza salutarmi?...
E fu presa da una pazza tentazione di spalancare la porta, di comparire
bruscamente, e di gridargli: “Non hai diritto di lasciarmi!” Soltanto il timore
di umiliare il suo amante davanti all'usuraio la fermò. E, chiudendo gli occhi
come per raccogliere tutte le sue forze, disse fra sé:
- Ah! lo salverò!...
Frattanto, Altana si accomiatava dal suo cliente, che l'accompagnava alla
porta. Un minuto dopo, Saintenois entrò nella sala da pranzo. La porta
semiaperta non gli lasciò alcun dubbio. La sua conversazione con
l'antiquario era stata udita. D'altronde, poiché aveva lasciata la sua amante
due giorni prima, senza averle fissato un appuntamento, la presenza di lei, a
quell'ora, gl'imponeva una ipotesi unica: che la sua storia cominciasse ad
essere nota e che qualche buona amica avesse avvertito Sabina. Egli aveva
sperato di poter partire senza rivederla, di confessarsi a lei per lettera,
evitando così una scena penosa quanto inutile. Ora quella scena era
inevitabile! Egli cominciò, pallidissimo, con la bocca amara; e l'espressione
risoluta del suo volto accentuò la sua somiglianza col ritratto dell'avo, appeso
alla parete, al disopra del suo capo.
- Devono avervi parlato, Sabina, e so che cosa vi avranno detto... Che firmai
un assegno per una grossa somma, senza avere alla banca il debito
corrispondente... Che feci questo per aver modo di giuocare, che non vinsi, e
che dovrò lasciare il Circolo... Siete venuta per sapere se è vero... Ebbene, sì:
è vero!
Per sola risposta, Sabina estrasse dal manicotto il suo vezzo di perle, e disse
porgendoglielo:
- Dunque, prendi questo... Va a vendere queste perle, e paga!
Poi soggiunse, fremente:
- Ma non partire! Non voglio che tu parta! Rimani a Parigi! Rimani con me!
- Come mi ami! - esclamò Saintenois. E lasciandosi cadere su una seggiola,
ripeté con voce soffocata dalla commozione: - Come mi ami!
Poi, respingendo il vezzo di perle che ella continuava a tendergli, riprese:
- È questa la ragione per cui non t'ho parlato, mia povera Mia! (Quell'espressione infantile era una delle loro carezze di linguaggio). Sapevo già che mi avresti offerto ciò che non posso accettare, ciò che non
accetterò!... - E, ribellandosi, quasi altero, disse ancora: - È già troppa, è già
troppa la mia vergogna! Sabina aveva rimesso il vezzo nel manicotto,
passivamente, abbassando il capo. Si scosse, e s'avvicinò maggiormente a
Giorgio:
- È possibile, - implorò, - che tu preferisca andartene, lasciarmi?... - E,
indicando la porta: - Ero lì... Ho udito la tua conversazione con Altana.
Vendi tutto... Altana ti ha dato uno chèque. L'hai messo nel tuo portafoglio.
Ora pagherai, e poi te ne andrai a Londra! Non puoi sopportare l'idea di un
affronto possibile, delle dimissioni dal Circolo, di un saluto non reso, di una
stretta di mano rifiutata?..
- Vorresti forse che mi adattassi a tutto questo?
- E io?..Credi che accetterei di perderti?... No! no! no!
Ella lo aveva afferrato per le spalle e lo scuoteva forte. Lo lasciò, per coprirsi
il viso con le mani, e continuò singhiozzando:
- Parli di vergogna? Ah! come hai potuto commettere quell'azione orribile,
quel furto... tu che sei un eroe? Tu che per me eri tanto in alto, in tutto
migliore degli altri?... E ho dovuto saperlo da mia suocera, la quale sa ch’io
sono la tua amante! ... - E, ad un gesto di Saintenois: - Mia suocera non dirà
nulla a Gianmaria. Me l'ha giurato!..Mi ha parlato per indurmi a
lasciarti!..Ah! disgraziato!... Non pensasti a me, alla mia disperazione quando tutto fosse scoperto, nel firmare quell'assegno falso?...
- Anche troppo, pensai a te! - gemette il giovane.
- A me? A me?..- ripeté Sabina; e, col riso convulsivo del dolore che rasenta
la crisi nervosa, continuò: - Tu mi ami; sì... ma più di me, ami il giuoco!
Confessalo, almeno, e non mentire!...
- Sabina! - disse Giorgio, solennemente e coll'accento di chi parla dal fondo
del proprio essere: - ascoltami bene! Io giuocai soltanto per te... Non
interrompermi! - (Ella protestava. ) - È venuto il momento di dirti ciò che ti
nascosi sempre da quando cominciammo ad amarci... Io ritornai dall'Estremo
Oriente dopo la morte di mio padre, per raccogliere i rimasugli d'una
sostanza che quel pover'uomo aveva gestita malissimo. Non gli rimprovero
nulla. Aveva speculato soltanto per aumentare la mia eredità. Si era rovinato.
Mi aveva lasciato, tuttavia, quanto avrebbe potuto bastarmi, rimanendo in
servizio, per essere più ricco di molti miei colleghi. Ti amai. Nacque
Giulietta. Diedi le dimissioni per rimanere dove eri tu, dov'era la piccina, e
per vivere come tu vivevi. Comprendimi, anima mia... Nemmeno a te, faccio
dei rimproveri... Non rimpiango nulla. Ebbi da te cinque anni di una
indicibile ebbrezza interna, e certo non posso lagnarmi, dopo aver gustato
gioie tanto complete!... Per essere con te, nel tuo ambiente mi occorreva più
denaro di quanto ne avevo... Pensai di lavorare, di entrare negli affari... Ma
avrei dovuto impiegare diversamente una parte del tempo che dedicavo a
te!... Ti ricordi? Ci vedevamo ogni giorno, spesso due volte, o anche tre.
Come avrei potuto conciliare un'esistenza simile con un mestiere? Non era
facile. Allora feci anch'io come mio padre. Il suo esempio avrebbe dovuto
giovarmi... M'illusi di essere più abile, meglio informato... Speculai, da
principio con fortuna. Poi la sorte cambiò. Al Circolo, per caso, avevo
gettato qualche volta dei luigi sulla tavola di baccarà, e avevo vinto. Vedevo
certi amici miei che riuscivano, a quel modo, a condurre una vita
dispendiosa... Finii col dire a me stesso che quello era ancora il mezzo
migliore per assicurarmi il denaro di cui avevo bisogno, e giuocai come loro,
prudentemente... Ma poi, come accade sempre, mi lasciai trascinare. Volli
correre dietro alle mie vincite e alle mie perdite... Negli ultimi quindici mesi,
non ebbi mai di mio, nemmeno un giorno, più di trentamila franchi: la metà
di ciò che spendo annualmente. Intaccavo quella somma, fissandomi una
cifra. Un giorno perdevo; il giorno seguente mi rifacevo... Due settimane fa,
a queste intermittenze successe la disdetta assoluta. Rimasi con diecimila
franchi, poi con cinquemila, poi con duemila soltanto... , poi con nulla!...
Allora decisi di tentare una partita suprema. Me presente, il vecchio
Machault aveva vinto trecentomila franchi in due ore. Perché non sarebbe
toccato anche a me un banco come il suo?... Fu come se avessi le vertigini!...
Tu mi rimproveri di amare il giuoco... È vero; quelle sensazioni mi
piacquero, ma solo come sensazioni... E nel firmare quell'assegno, nel
riprendere il giuoco con quel denaro non mio, nel maneggiare le carte, provai
ciò che avevo provato nell'andare al fuoco: la terribile gioia del pericolo!
Intanto pensavo: “Per lei, per lei, per non perderla, mi espongo a questo
rischio!” Il resto, lo sai già... Saprai anche, suppongo, che Gianmaria venne
qui ieri mattina. Aveva saputa da Casal la mia disgrazia. Mi offrì di
prestarmeli, i cinquantamila franchi del mio chèque. Naturalmente, non
accettai... Ma che dura umiliazione, per me, vederlo qui e sapere che del mio
atto gli era noto soltanto il lato materiale, e sentire che mi disprezzava, e non
potermi difendere, né spiegargli, come a te, che trasgredii all'onore soltanto
per amore!... Ti dico tutto, tutto!... E penso che è molto strano che io, col mio
orrore per la menzogna, abbia potuto mentire a quell'uomo per tanti anni!... E
non ne provo rimorso, perché fu per te, che mentii!... Quando lo vidi, tuo
marito, tutto turbato egli pure, e venuto per soccorrermi nella mia angoscia,
provai per la prima volta un po' di questo rimorso... Ah! Sabina! non
domandarmi di rimanere a Parigi, e di continuare a subirvi
quest'agonia!..Non posso, nemmeno per te!... Ti amo profondamente, in
modo assoluto... Ma, ti ripeto, è già troppo grande la mia vergogna! - (E
scuoteva il capo, come per una nausea. ) - Devo, Devo partire!
- Per andar dove?
- Agli Stati Uniti, semplicemente, come tanti miei amici, che ricominciarono
la loro vita laggiù...Infatti, con dell'energia, si può ancora fare qualche cosa,
in quei paesi. I ventimila franchi di Altana, non li adopererò per pagare lo
chèque; li porterò con me. Si tratta di un capitale troppo piccolo, che non
estinguerebbe il mio debito. Me ne servirò più utilmente. Prima, andrò a
Londra: mio padre vi fu addetto militare, e vi lasciò degli amici, dai quali
otterrò certamente delle lettere di presentazione per New York o per Boston.
Forse, mi spingerò fino alle regioni dell'Ovest, per tentarvi l'allevamento dei
cavalli. Potrei, poiché me ne intendo. Ma non ho avversione per il
commercio, né per gli affari di banca. Prenderò quello che mi capiterà nel
Nord, nel Sud, in qualunque luogo... E lavorerò. Oh! sì! lavorerò! Fra due, o
tre, o quattro anni, avrò guadagnato abbastanza per poter pagare, con
gl'interessi relativi, il debito che lascio qui. Quando sarò partito, la gente dirà
quel che vorrà. Una cosa sola mi sta a cuore: ciò che penso, io, di Giorgio
Saintenois! In questo momento, ho quasi schifo di me stesso. Ho perduto
l'onore! Guarda il mio occhiello: non porto più il nastrino rosso che mi
guadagnai al Tonchino. Lo riprenderò quando avrò pagato col frutto del mio
lavoro. Allora sentirò di averlo ritrovato, l'onore... E anche tu penserai così,
non è vero?
- Ciò che penso, - disse Sabina, - è che io sola sono veramente colpevole. Sì,
io, che t'ho condotto a questo momento terribile, io che non capii, che non
vidi nulla! Ero troppo felice di vederti di continuo, di averti con me
dappertutto! Avrei dovuto essere inquieta, per te, cercare di sapere se non ti
trascinavo ad un'esistenza che non potevi sostenere. Ma al denaro, non
pensai mai, né per me, né per te... Ah! se avessi saputo! Sarebbe stato tanto
semplice darti invece il consiglio di “farti una posizione”! Avrei potuto
procurartela io stessa, molto facilmente, per mezzo di mio padre... E allora ci
saremmo amati lontano dalla vita di società. Avrei trovato modo di vederti
nelle tue ore libere. Saresti stato il cantuccio segreto della mia vita, la mia
felicità nascosta, il compenso per il resto..Ora, invece!...
.
E, gettandosi su di lui, abbracciandolo appassionatamente, riprese:
- Ma non è ancora troppo tardi!... Hai ragione: devi partire. E io, partirò con
te; sì, io, con nostra figlia! Non dirmi di no... - (E gli chiudeva la bocca. con
un bacio. ) - Anch'io, ho l'orrore della menzogna, e ho mentito, finora,
soltanto per te! Quante volte, già, ebbi la tentazione di gridartelo, ciò che ti
grido adesso: Conducimi via con te!... Ma t'avrei preso tutta la tua vita, tutto
il tuo avvenire, e non me ne riconobbi il diritto. Ti volli libero e fedele, ma
libero di allontanarti da me, se avessi cessato di amarmi... Ora che stai per
essere tanto solo, lontano dal tuo paese, dai tuoi amici, da tutto, non voglio
più lasciarti! :... Dimmi che mi porti via con te!... Dimmelo! Dimmelo!...
- E tuo figlio? - domandò Saintenois con tristezza, svincolandosi dalle
braccia di lei.
- Avrà suo padre e la sua nonna...
E, scuotendo il capo, ella soggiunse, duro lo sguardo, amara la bocca:
- Ah! se dovessi rimanere e perderti per causa sua!... Non farmi pensare ad
una cosa simile!... Sarebbe mostruoso!... Credo che l'odierei, mio figlio! incalzò, con voce strozzata. - Mi rimprovero già di non amarlo abbastanza, di
non avere per lui un vero cuore di madre, perché... Oh! che cosa mi fai dire,
ancora?... Perché è figlio di un altro, non tuo, e perché io sono tua moglie capisci? - soltanto tua!...
- Amore mio! Amore mio! - ripeté Saintenois. - Mi hai reso felice, in questi
cinque anni! Te lo dicevo poco fa... Ma certo non fui mai tanto felice come
in questo momento, mentre dovrei abbandonarmi alla disperazione!
Egli la strinse, a sua volta, in un abbraccio frenetico. Poi, bruscamente
l'allontanò da sé:
- Ma non c'è soltanto tuo figlio, fra noi due! - riprese, nuovamente altero. C'è la tua ricchezza! Fu anche per questa, che non ti dissi mai di fuggire con
me! Eri ricca, tu, ed io ero povero... E non avevo ancora questo debito da
pagare... Pagarlo col tuo denaro? - (E indicò il vezzo di perle. ) - No! Mai!...
Vivere del tuo denaro?... Mai! Quando si sono commesse certe colpe, non si
patteggia più con la propria coscienza! Oppure, si ruzzola nel fango... nel
fango!... Io non voglio saperne! Voglio lavarmi, voglio espiare... Condurti via
con me, non è possibile! Non posso obbligarti a condividere la mia miseria,
né posso d'altronde accettare nulla dalla tua ricchezza. Non c'è che una via
d'uscita: separarci!..Perderti, è una cosa atroce... È il principio
dell'espiazione!
Mentre Giorgio parlava, il volto di Sabina aveva assunto un'espressione di
selvaggia risolutezza. Ella si era seduta, e, slacciandosi il mantello, disse con
un accento non meno fermo di quello del suo amante:
- Non uscirò di qui. Ecco! Non mi manderai fuori per forza, suppongo! ...
Mio marito, non vedendomi tornare a casa, mi cercherà. Penserà di venire
qui da te... Allora, dovrai pure tenermi!
E, supplichevole, ad un tratto, ella riprese giungendo le mani:
- Giorgio mio! non lasciarmi!... Non essere orgoglioso. Non preoccuparti di
ciò che dirà o penserà la gente. Tu vuoi, ora, pagare il tuo debito lavorando, e
vivere del tuo lavoro. Così farai. Avrai un mestiere, ed io starò nella stessa
città, dove vivrò per conto mio, come a Parigi, ma con la differenza che non
sarò più obbligata a mentire...
Poi, avvicinandosi a lui, buona e carezzevole, continuò:
- Ah! Giorgio! Verrà, verrà pure, un giorno in cui, per la forza delle cose, io
sarò libera! La mia fuga, con la bambina, darà origine ad un processo,
necessariamente, e ne risulterà la separazione, ne risulterà il divorzio. Allora,
ti sposerò. Il tuo debito, l'avrai già pagato col tuo lavoro. Avrai vissuto del
tuo lavoro. Ci sposeremo, ti dico... Ti saresti forse giudicato spregevole, se
fossi diventato marito di una donna più ricca di te, quando l'avessi
incontrata, nel passato?..L'hai incontrata ora, e l'ami, ed ella ti ama. Prometti
che la sposerai!
Nel parlare, Sabina si era liberata completamente dal mantello, ed ora si
toglieva il cappello, con l'automatismo delle crisi di esaltazione, nelle quali il
pensiero diventa atto, senza che ce ne accorgiamo esattamente. Ella non
formulava una vana minaccia. Saintenois lo comprese; comprese che quella
donna non sarebbe ritornata a casa sua, se non avesse ottenuto la promessa
che domandava. E egli era, d'altronde, tanto appassionatamente desideroso di
fargliela, quella promessa!... Sabina gli aveva ormai preso tutto il cuore, con
l'evidenza di una devozione totale, e compiangendolo, senza più biasimarlo,
per la colpa terribile. Egli aveva tanto temuto di sentirsi condannare anche da
lei! ... Invece, Sabina, gli prospettava quell'esilio in due, nel quale i loro
interessi sarebbero stati divisi, e divise le loro esistenze, e così gli offriva il
mezzo di risolvere la contraddizione che gli straziava l'anima: il bisogno di
riabilitarsi e quello di non perdere lei!... Mezzo follemente romanzesco!…
Ma tutta la sua vita, da quando aveva incontrata Sabina, non era forse stata
un romanzo? Non era egli uscito una volta per sempre dalla via diritta e
piana, domandando al giuoco tutto ciò che gli occorreva per sostenere una
folle avventura d'amore, di paternità clandestina e di pericolo? Nello stesso
tempo, e certo per la prima volta, perché il rimorso della sua tristissima colpa
aveva destata in lui la coscienza, egli provava di fronte a quell'amante tanto
sincera, tanto innamorata, tanto sua, un sentimento di responsabilità, e si
ascoltava rispondere, accettando e rifiutando insieme la proposta di fuga:
- Sposarti? Sì, è un bel sogno! E il giorno in cui sarai libera, come dicevi
dinanzi, verrò io ad offrirti di realizzarlo.
- Ah! grazie! - disse ella, baciandogli umilmente la mano.
- Ma oggi, siamo nella realtà. La realtà è che devo partire oggi. La mia storia
sta per esser nota a tutti. Tuo marito, tua suocera, la sanno già. Casal ha
parlato; cosa naturalissima; e certamente ha parlato anche il cassiere del
Circolo, com'è altrettanto naturale. Ti ripeto, che ormai non potrei adattarmi
a certi incontri! Dunque parto, e non posso condurti via così. Certe
risoluzioni, tali da sconvolgere tutto un destino, non si prendono mentre si è
in preda ad una violenta emozione, quale è la nostra attualmente!... Un'ora fa,
tu eri la signora Vialis, nel suo palazzo, coi suoi figlioli, con suo marito,
rispettata nella migliore società... Adesso parli di sacrificare tutto questo.
- Bel sacrificio! - disse Sabina alzando le spalle.
- Sì, sarebbe un sacrificio! Non lo senti, in questo momento; ma domani?
ma posdomani? ma fra un anno?...
E, ad un nuovo cenno di protesta, Giorgio Saintenois continuò, con calma,
con fermezza:
- Tu dici che ti consideri come mia moglie?..Una moglie deve obbedienza al
marito, ed ecco ciò che esigo da te... ciò che esigo, capisci?... Ora tornerai a
casa tua, e aspetterai, per fare una prova su te stessa, prendendo tempo per
riflettere... Non otto giorni, non quindici, non un mese possono troncare il
legame che ci unisce e del quale oggi abbiamo sentito la forza... Io sarò a
Londra domani mattina. Avrai il mio indirizzo. lo ti scriverò al nostro solito
ufficio postale, alle solite iniziali... Ti scriverò anche dall’America... E poi,
se mi raggiungerai, dopo aver considerato bene, ed a lungo, il destino che
t'imporrai così, ti ripeto che lo vivremo, il tuo sogno... Se invece non mi
raggiungerai, penserò che la madre, in te, avrà vinta l'amante, come ora ti
sembra inammissibile, e non te ne serberò rancore. Ma adesso, dimostrami
che mi capisci, e che mi ami come voglio essere amato, lasciandomi perché
io possa avere la forza di fare ciò che devo fare! Ne ho bisogno, della mia
forza, e non ne ho più, affatto!
Sabina l'aveva ascoltato senza interromperlo più, guardandolo con una
serietà appassionata. Egli la vide rimettersi il cappello, muta, rimettersi il
mantello, e introdurre di nuovo nei manicotto il vezzo di perle rimasto sulla
tavola. Poi Sabina afferrò ancora per le spalle l'amante, e ancora se lo strinse
al seno, lungamente. Infine, senza una lagrima, ma pallidissima, andò verso
la porta, si volse, e, fissandogli in viso uno sguardo profondo, disse:
- Ti ricorderai?... Hai promesso!
- Sì, - rispose Giorgio. - Va. Addio, amore mio!....
- No, non addio... - ella disse, - arrivederci, laggiù.
X
Verso la catastrofe.
Saintenois, quando si ritrovò solo, meditò lungamente. Non aveva mai amato
Sabina di un amore tanto violento.
Un delirio di pentimenti gli faceva dire, a sé stesso, frasi di orribile
tentazione: “Avrei dovuto accettare le perle. Perché no?... Avrei pagato, e a
chi per primo m'avesse mancato di rispetto, i padrini!... Nella vita, non c'è di
vero che l'amore!... ”
Poi una voce protestava in lui: quella dell'uomo di una volta, addormentato
per anni dall'ebbrezza della passione, e svegliato, dopo l'errore commesso, da
un sussulto di disgusto davanti alla propria bassezza: “No! sono contento di
aver rifiutato! No! non c'è soltanto l'amore... C'è l'onore. All'onore, ho
trasgredito una volta... A questa vergogna, posso rimediare... All'altra, non
avrei potuto”. E poi: “Le rivedrò mai, lei e la bambina?... Ella si ritroverà,
ora, nella sua vita, nel suo ambiente... Le parleranno di me. Come? Lo so
anche troppo!... Sarà la prova. Se mi amerà abbastanza per passare oltre...
allora... ” Chiuse gli occhi per trattenere la visione che gli sorgeva nella
mente: un porto lontano, un piroscafo che s'avvicinava, e lui, sulla banchina,
che riconosceva dietro al parapetto le due creature tanto care... La voce
interna continuava: “Allora... Ma bisognerà che quella risoluzione venga da
lei sola. Non dovrò nemmeno scriverle più, se non una volta per dirle addio...
Poi, silenzio, per lasciarla assolutamente libera”. E poiché alla pendola
suonava il tocco: “Non ho tempo da perdere, se voglio partire stasera!”
pensò. E, chiamato il domestico: “Comincia a preparare i bauli”, ordinò.
“mentre finisco di mettere in ordine queste carte. ” Si sedette al suo scrittoio,
dove l'aveva sorpreso la visita di Altana, per distruggere certe lettere e
metterne da parte certe altre. In uno dei cassetti che andava vuotando
frettolosamente, trovò una fotografia dimenticata, che lo rappresentava
vestito da collegiale, con suo padre in divisa di colonnello. Guardò
lungamente quel volto marziale, e, sfiorando con le labbra quell’effigie
scolorita, disse ad alta voce, come se rispondesse ad una parola pronunciata
da quella bocca venerata: “Sì, padre mio: mi riabiliterò!”
Mentre quel discendente d'una famiglia di soldati manifestava così quella
forza dell'eredità, della quale la madre di Gianmaria aveva tanto timore per il
suo figliolo, da far risultare innocente agli occhi di lui - attraverso quali e
quanti scrupoli! - la colpevole nuora, costei ritornava in via Villejust,
senz'altro rimorso che quello d'aver lasciato solo il suo amante in momenti sì
duri! Ella se ne giustifica va ripetendosi che lasciarlo ora significava
obbedirgli, e veramente gli dava, con quell'obbedienza, una prova del suo
amore, più commovente forse della sua offerta d'aiuto materiale. Tale
sottomissione quasi automatica di un'anima ad un'altra, come se tutt'e due
non avessero che una sola volontà - nelle minime come nelle grandissime
cose, - è l'indizio più sicuro di quel possesso totale di cui il poeta antico
diceva già la demenza, gemendo: Nunc insanus amor... Chi ama così, uomo
o donna, non è più padrone di sé. Si tratta di una quasi abolizione delle sue
idee, di un ipnotismo, di una fatalità, come pure dicevano gli Antichi. Sabina
Vialis era uscita di casa sua, decisa, come si vide, ad evadere dalla sua vita
coniugale, ad un cenno di un uomo disonorato ch'ella non avrebbe mai più
ricevuto, dopo la brutta storia del Circolo, se non l'avesse amato. Ma
l'amava, e l'avrebbe seguito nella sua fuga. Egli esigeva che ritornasse a casa
sua, ed ella vi ritornava, camminando veramente come un'ipnotizzata, come
un automa. Non era salita in una carrozza, per ritardare un poco il momento
in cui avrebbe dovuto riprendere la catena della sua esistenza ufficiale. Due
passanti che conosceva la salutarono. Rispose al loro saluto senza
identificarli, tanto la sua anima era altrove, totalmente rimasta col povero
Saintenois.
Ella seguiva il giovane, con uno di quegli sforzi di doppia vista che
ingannano la disperazione della separazione, durante i preparativi, e il suo
appassionato desiderio di raggiungerlo presto si esaltava maggiormente.
Riviveva tutti i particolari del doloroso addio. Rivedeva Giorgio nell'atto di
respingere il vezzo di perle; l'udiva rifiutare la ricchezza che gli veniva
offerta... E l'ammirava per quei due gesti, ed anche per l'altro, per quello
disonorante, poiché egli l'aveva fatto per amore! ... Per amore, ugualmente,
Giorgio Saintenois non permetteva ch'ella partisse subito con lui. Ed ella
giungeva perfino ad essergli riconoscente di quel ritardo, che le avrebbe dato
modo di provargli meglio la sincerità del suo cuore. “Quando arriverò con la
bambina - pensava - Giorgio capirà che non si tratterà d'un colpo di testa, ma
del dono di tutto il mio essere, ponderato, assoluto... ”
Frattanto, fra quel tumulto di pensieri, i suoi piedi la conducevano, lungo
l'Avenue Wagram, la Piazza dell'Etoile, il Viale del Bosco di Boulogne, fino
a Via Villejust... Ecco il cancello della sua palazzina, la ghiaia del piccolo
cortile da vanti alla scalinata, le sculture della facciata... Era arrivata.
In una vita doppia, sistematicamente organizzata e prolungata, c'è una forza
di dissociazione singolare, la quale finisce col creare nella stessa persona due
individualità come divise una dall'altra da una porta chiusa ermeticamente.
Bisogna credere che tale dualismo corrisponda, in certe anime, a bisogni
profondi. Come si spiegherebbe, diversamente, la loro energia, la loro
continuità nel trovarcisi bene, e il coraggio che esse vi manifestano?
Talvolta, il principio di quell'adattamento è quello strano amore della
menzogna, innato nei caratteri perversi. Talvolta invece, quello
sdoppiamento è una difesa dei sentimenti veri del nostro cuore contro
l'apparenza sociale a cui la nostra sorte ci costringe. Qualunque sia
l'anomalia intima che c'induce a condurre così due esistenze contraddittorie,
il passaggio dall'una all'altra è sempre come l'uscita da un sogno. Quante
volte Sabina aveva subito la scossa d'un brusco risveglio nel lasciare
Saintenois!... Mai, però, come quel giorno. “E' in casa, il signore?” domandò
al portinaio, con voce quasi strozzata. - Gianmaria non era rientrato.
Che sollievo! e con che passo subitamente più lesto, ella salì le scale!...
Incontrò i suoi bambini nella galleria. Dopo la colazione, uscivano a
passeggio con l'enigmatica Marcellina Tullugowy.
La suocera, che sospettava di complicità quella governante basca, avrebbe
indovinato infatti una completa consapevolezza del retroscena vero della
famiglia, nello sguardo col quale quella donna seguì Sabina, che baciava con
trasporto la sua cara Giulietta, e offriva appena la guancia al bacio di Renato.
- Sono stati buoni? - domandò.
- Buonissimi, signora, - rispose Marcellina, la cui testimonianza
compiacente, destinata a proteggere la bimba preferita dalla padrona, fu
subito smentita da Renato.
- Giulietta ha macchiato tutto il suo libro! - disse il piccino. - Ci ha
rovesciato sopra il calamaio!
- E tu sei cattivo perché fai la spia!... - disse Sabina severamente.
Aveva notato spesso che Renato nutriva una segreta ostilità contro Giulietta.
Cosa naturalissima. Le disuguaglianze dei modi della madre, tanto affettuosa
per il bambino, tanto fredda per la sua sorellina, in presenza del padre loro, e
assolutamente l'opposto quando il padre non c'era, doveva produrre in
Renato, emotivo come Gianmaria, un'irritazione che era anche accresciuta
dalla diversità di sangue. L'animalità di quelle due creature era ad un tempo
troppo uguale e troppo opposta, come avviene nei figli uterini e nei
consanguinei. Questo, appunto, rende tanto pericolosi i secondi matrimoni,
dal punto di vista dell'unità dello spirito di famiglia, e tanto funesto
l'adulterio.
L'antipatia manifestata con quella puerile denuncia s'accordava
perfettamente col progetto formato dalla madre di separare i due bimbi
conducendo seco la piccina. Alcune ore prima, ella ne avrebbe provato, come
per solito, un oscuro rimorso. In quel momento, se ne sentì quasi lieta. Ma
era già uscita dalla galleria. Ascoltava i suoi figlioli ridere dietro alla porta
richiusa, e suonava il campanello per farsi servire, con una tazza di tè, una
leggera colazione.
Aveva appena finito di mangiare e si era seduta alla sua scrivania, per
scrivete una lettera, quando suo marito entrò nel salottino. Cinque minuti
prima, egli avrebbe sorpreso quel pasto, indizio troppo evidente dell'assenza
di Sabina dalla tavola della colazione, e quindi della sua uscita dopo la visita
della suocera. Certo, se ne sarebbe stupito e le avrebbe rivolte delle domande.
Quell'interrogatorio era evitato. Il solo fatto d'esser stata esposta a subirlo, e
di sentirlo, irritò la ribelle, che continuava a scrivere con la sua alta
calligrafia ardita e robusta, mentre Gianmaria cominciava:
- Ho lasciato or ora la mamma, Sabina... Mi ha detto di avervi parlato della
terribile storia di Giorgio Saintenois.
- Sì, - ella rispose, - ma è proprio vero? - E, fra sé, pensando alla suocera: Ha mantenuto la promessa. Ho un debito verso di lei... Ora lo pagherò!
La sua voce non aveva rivelato alcuna commozione. Tutt'al più, esaminando
da vicino la scrittura del biglietto che stava per mandare ad un fornitore, si
sarebbe notata la nervosità della mano che aveva scritto.
- Mia madre aveva ragione... - pensava Gianmaria dal canto suo. - La calma
di Sabina a questa notizia, è una prova, che sollievo, mio Dio! Che
sollievo!...
La gioia di sentir svanire improvvisamente un'ossessione durata tanti giorni,
l'inteneriva circa la sorte di colui che ne era stato oggetto, per uno di quei
rimbalzi che sono frequenti nella gelosia, specie di mania intermittente. - ed
egli diceva ora, senza alcun sospetto della sinistra ironia delle sue parole:
- Sapete che lo vidi?... Gli offrii, anzi, i cinquantamila franchi che gli
occorrevano per pagare il suo debito... Rifiutò, evidentemente per orgoglio...
oppure aveva davvero già trovata altrove quella somma. Ma no; non deve
averla trovata... Questa mattina, non aveva ancora pagato, alla cassa del
Circolo. L'ho saputo da Casal... Se tornassi ad offrirgli quel denaro? Che ne
dici? Forse questa volta...
- Ma se vi disse di aver già trovati i cinquantamila franchi, - rispose Sabina
chiudendo le sua lettera, - certo li aspetta da qualche usuraio che si fa un po'
piegare... Ecco. Lasciate ch'egli aggiusti gli affari suoi a modo suo. Dovete
capire che l'avete umiliato... Non è il caso di tornar da capo. - (Aveva scritto
l'indirizzo sulla busta, e si era alzata. ) - Avete visto se la carrozza è pronta?
L'ho ordinata per il tocco e mezzo. - (E, ad una risposta affermativa): - Vado
dalla parte dei Boulevards. Volete che vi deponga in qualche luogo?...
- Al Circolo, se non vi dispiace. Così saprò se Saintenois ha pagato,
finalmente... Come vorrei che avesse pagato!... Casal mi ha promesso il
silenzio...
E pochi minuti dopo, quando furono seduti nella carrozza e questa si mise in
moto, egli disse:
- Confessate che è preferibile un buon motore!... Si sarebbe già arrivati in
Via Reale. Coi cavalli, invece...
In quegli anni di transizione, l'automobilismo era ancora agl'inizi. Nelle
famiglie ricche, l'automobile era argomento di eterne discussioni. Si doveva
o non si doveva decidere di trasformare la scuderia in un garage e il
cocchiere in uno chauffeur? Si sarebbe venduto l'attacco inglese, che era
tanto elegante? Saintenois, uscito dalla Scuola di Saumur, professava il culto
del cavallo. Sabina naturalmente pensava come lui. Gianmaria, nella sua
qualità d'intellettuale, aveva delle velleità di curiosità scientifica. Era stato un
assiduo dell'ultima esposizione delle macchine, e si era fatto spiegare
minuziosamente il nuovo mezzo di locomozione, del quale si atteggiava a
partigiano tanto più volentieri in quanto che era assai mediocre
nell'equitazione e nel guidare.
- Ebbene, comprate un'automobile! - rispose Sabina.
- Rinunziereste ai vostri cavalli?..
- Perché no?
Era la prima volta che ella non rispondeva evasivamente alle insinuazioni
del marito su quel mutamento di veicolo. Decisa a partire, perché avrebbe
sostenuto, ormai, una delle solite discussioni meschine e noiose?..Era quella,
da parte sua, una concessione insignificante, che però riuscì assai grata a
Gianmaria, tormentato in quei giorni da un'impressionabilità quasi morbosa.
Obbedendo ad un impulso di riconoscenza, che avrebbe dovuto commuovere
Sabina e che invece l'irritò, le prese la mano e gliela baciò lungamente. Ella
si liberò, dicendo:
- Oh! Non siamo in automobile... L'automobile va veloce, e si passa
inosservati. Siamo nella nostra carrozza e ai Campi Elisi, dove c'è tanta gente
che ci conosce! Non siate ridicolo, e non rendete ridicola anche me!
Erano infatti passati, proprio allora, accanto alla carrozza di una loro amica,
che li aveva salutati, nel passare, con un sorriso e con un grazioso cenno del
capo.
- Che c'è di ridicolo, se un marito è innamorato della propria moglie? - disse
Gianmaria con accento di affettuoso rimprovero?
A quell'umile domanda, Sabina non rispose. Come il figlio aveva confessato
alla madre, l'intimità non esisteva più, fra sua moglie e lui, già da anni. Era
rarissimo che egli si permettesse con lei una mezza carezza, ch'ella avrebbe
potuto interpretare come una timida manifestazione d'un desiderio. Quella
pressione della mano del marito sulla sua mano, poi quel bacio sul polso, fra
la manica e il guanto, inflissero un brivido di ripulsione a tutta la sua carne.
Allora ella si mise a parlare con volubilità delle visite che si proponeva di
fare e dei negozi nei quali sarebbe entrata. Ma quando si separarono davanti
al Circolo, all'angolo di via Reale, Gianmaria ebbe ancora uno sguardo di
quelli che da molto tempo sua moglie non gli vedeva passare negli occhi...
Ed ora, andandosene sola verso la Maddalena, ella pensava :
- Effetto dei consigli di sua madre! Crede d'essere vicino a riprendermi. Ora
capisco... Il vero amore, l'avevate accanto a voi... Ritornate ai vostri doveri...
Capisco che cosa voleva dire, sua madre...
Ed ebbe una risatina di sfida, nel concludere:
- Se mio marito ha di queste idee, partirò prima. Ecco!
La carrozza attraversava la piazza, mentre ella diceva a mezza voce quelle
parole di ribellione. Attraverso il vetro dello sportello, vedeva aprirsi lì
accanto l'ampio Boulevard Malesherbes, che continuava lontano verso Via
Fortuny. “Giorgio! Povero Giorgio mio” ripeté a sé stessa, presa da una pazza
tentazione di saltare giù da quella carrozza, che le dava l'impressione d'una
prigione ambulante, di correre a piedi per quel boulevard, di arrivare laggiù,
dall'amante, di gettarglisi fra le braccia come poco prima! Portami via!
Portami via!... ” Ma no. Egli aveva ordinato... Gli obbediva.
Il caso volle che, dieci minuti dopo, mentre i suoi cavalli dovevano, per un
ingombro, procedere pianissimo, ella fosse salutata di nuovo, e questa volta
da un signore il quale non era altri che Casal. Ebbe negli occhi un lampo di
odio, sul significato del quale il denunciatore di Sabina non s'ingannò.
- Suo marito le ha parlato, - pensò. - Il Circolo sarà rimborsato. Sapremo che
costei avrà smarriti i suoi brillanti o le sue perle... E sarà tanto carina verso il
marito, che questi, per consolarla, le regalerà un vezzo più bello!
Questa induzione era esatta, come sappiamo, soltanto per metà. Casal non
aveva sbagliato, nell'indovinare che Sabina Vialis, avvertita, avrebbe voluto
pagare immediatamente il debito del suo amante. Ma egli giudicava male
quest'ultimo, supponendo che avrebbe accettata quell'offerta. Quello stolto
aveva potuto, in un accesso d'aberrazione, commettere un atto indegno. Ma
quell'atto non gli somigliava, e Casal non sapeva che questa fosse la verità.
L'esperienza dei vecchi conoscitori di Parigi spesso non s'accorge di certe
cose. Essi videro tollerate dalla gente tante indegnità, nascoste sotto
apparenze ingannatrici, che la loro opinione ne rimane ristretta. Sembra
paradossale chiamare ingenuo il loro pessimismo, eppure, sono veramente
degli ingenui della disillusione, poiché non vedono la complessità delle
situazioni che sembrano più chiare e dei caratteri apparentemente
classificabili con precisione. Per Casal, Giorgio Saintenois era un gaudente
(come egli ne aveva conosciuti molti, per aver molto vissuto), che si
sosteneva a forza di espedienti; - uno di quelli che, ruzzolando da una
debolezza ad un'altra, finiscono coll'avere, dell'onore, soltanto gli
atteggiamenti, e coll'agire da veri lestofanti. Quanto a Sabina Vialis, per
quali indizi l'avrebbe egli distinta dalle altre parigine dello stesso “ambiente”
che coltivano una relazione illecita? Il ricordo delle proprie avventure, che
erano state innumerevoli, gli rievocava nella mente soltanto delle innamorate
molto tranquillamente assuefatte ad appartenere nello stesso tempo
all'amante e al marito. Egli stesso ammetteva, quasi con ingenuità, che una
tal divisione delle loro sensazioni non impedisse loro di essere delle
innamorate. L'attrazione esercitata da Saintenois su Sabina, da Sabina su
Saintenois, proveniva precisamente dal fatto che né l'uno né l'altra
assomigliavano, nel loro essere intimo, a quei parigini e a quelle parigine.
Tutti e due appartenevano alla specie rarissima - che però esiste - del
frequentatori di salotti la cui anima è rimasta insocievole. La finzione
mondana è insomma per loro una gesticolazione alla quale si prestano senza
darsi. Poi, nelle ore di crisi, e quando è in giuoco la loro persona vera, essi
reagiscono al contrario dei loro simili dei clubs e dei ritrovi eleganti. Così
Saintenois, confesso d'improbità, si amputava ad un tratto tutto il suo
passato, per strapparsi a quella cancrena. Sabina, ritornata da Deauville
incinta di Giulietta, aveva voluto ridarsi a suo marito. Così aveva fatto, e
aveva provato un tale orrore di quella prostituzione legale, da dover subito
sottrarsi ad essa con selvaggia energia, per non appartenere più che
all'amante - attraverso quali e quanti rischi! - ben decisa a troncare ogni
legame, se fosse rimasta incinta un'altra volta. Quella segreta tragedia d'un
cuore di donna, Casal non la sospettava neppure, come non indovinava il
dramma di orgoglio virile nel quale si dibatteva Saintenois. E, come avviene
quando la nostra opinione su di un carattere non è che una costruzione,
quell'osservatore per solito sì bene informato e tanto furbo doveva, quella
sera stessa, essendosi incontrato in società con Vialis, dare a sé stesso delle
nuove ragioni per rafforzarsi maggiormente nel suo errore.
Fu ad un pranzo in casa della “sempre bella” signora di Miossens - secondo
la formula adottata dalle gazzette per gli articoletti sui ricevimenti della
contessa Cléme, come la chiamavano i famigliari. Con le sue relazioni
molteplici e notorie, per la sua disinvoltura e la sua leggerezza, per il suo
egoismo e la sua aridità di cuore, Clementina di Miossens era il vero tipo
dell'eroina delle avventure mondane quali le concepiva Casal. Se non avesse
avuto prevenzioni, egli si sarebbe accorto, forse, della differenza che esisteva
fra Sabina e quella bambola elegante. A quel pranzo, vedendole sedute
abbastanza vicine l'una all'altra, vestite quasi allo stesso modo, di fronte ai
loro mariti, come avrebbe potuto non vederle molto simili? Una analogia di
circostanze l'induceva inoltre a disprezzarle tutt'e due ugualmente. L'ultimo
amante della “sempre bella” si era ammogliato tre settimane prima, e
sembrava che ella non pensasse a lui più di quanto Sabina mostrava di
pensare a Saintenois. La parete della sala da pranzo era ornata, dietro a loro,
da un arazzo di Lancret. Le pastorelle e i pastori di quel pittore di feste d'altri
tempi evocavano la galanteria del secolo XVIII, intorno a quella tavola con
sedici commensali, tutta adorna di fiori, d'argenteria, di cristalli, di vasellame
prezioso. Casal, che conosceva tutte le storie di quelle donne imbrillantate e
degli uomini in frac che le corteggiavano, si divertiva a rammentarsele, col
piacere singolare del misantropo mondano. Non si parlava, quella sera, che
del matrimonio di uno dei Sarliève, amico comune, appunto, di Saintenois e
di Vialis... Rovinato dal giuoco e dalle donne, quel messere sposava la
celebre signora Moraines, ora cinquantenne e divenuta parecchie volte
milionaria per l'eredità del barone Desforges, che si diceva l'avesse
mantenuta per anni, vivente ancora il più cieco dei mariti.
È una bella fine, per Francesco Vittorio! - diceva uno degl'invitati, senza
malignità.
- Saremo finalmente invitati a delle vere feste! - diceva un altro. - Francesco
Vittorio ama il bello.
- Ed ha molto buon gusto!... affermava un altro.
- E poi, - riprese una signora, - Susanna Moraines dà ricevimenti!... E come
sa vestirsi!...
- Divinamente! - disse Clementina di Miossens, - e trova modo di essere
ancora graziosissima!
- Ma che età può avere? domandò qualcuno.
Questa domanda, fatta per storditaggine o con cattiveria, - non si sa mai, interruppe la conversazione, che durava da un quarto d'ora senza che nessuno
avesse minimamente alluso all'origine vergognosa dei milioni della fidanzata
e all'ignominioso calcolo del fidanzato. Casal aveva taciuto perché aveva
orrore di somigliare ai filosofi della famosa Orgia Romana di Couture. Era
uno di quegli ironisti disillusi che non s'irritano mai e si stupiscono di rado.
Rimase sorpreso, nondimeno, all’udire Sabina Vialis, poco lontana da lui;
rispondere ad alta voce alla domanda sull'età della signora Moraines.
- Che età?... Vent'anni più di quanti ne ha Francesco Vittorio, e altrettanti
milioni!
Poi, con una brutalità che fece tacere tutti per un momento, Sabina
soggiunse:
- La cosa è semplicemente ripugnante!
- E il vostro bel damo, virtuosa signora? - pensò Casal. - Costei si crede
molto abile, fingendo d'indignarsi solo perché si parla di un uomo che riceve
denaro da una donna!...
Non immaginava, Casal, che l'amante di Giorgio Saintenois s'indignava
realmente e in buona fede, constatando la compiacenza con la quale tutti
quei farisei della buona società accoglievano la notizia di un matrimonio
abominevole. Ella contrapponeva la loro indulgenza alla severità che essi
avrebbero manifestata domani, quando fosse divenuto notorio il fallo
commesso dal suo Giorgio, tanto scusabile, secondo lei, data la sincerità
dell'amore che aveva condotto a commetterlo. Giorgio si riabilitava già, con
la sua volontà di una nuova vita che sarebbe dura, ma ch'egli preferiva a
questa nuova concessione di coscienza: accettare che la sua amante pagasse
il suo debito. Egli era nobile e fiero, quanto Francesco Vittorio era infame ed
abbietto!
- E costoro andranno tutti a pranzo da lui! - aveva anche pensato,
nell'ascoltare le conversazioni dei commensali - mendicheranno degl'inviti
alle feste ch'egli darà, mentre invece il mio povero Giorgio...
Udiva già le frasi di disprezzo che avrebbero avuto per lui la signora di
Miossens e gli altri, non esclusi, certamente, Sarliève e Susanna di Moraines,
e la parola che andava ripetendo fra sé, le era sfuggita: “Ripugnante”!
Una sola persona, fra i presenti, aveva sentito che Sabina aveva espresso con
sincerità il suo pensiero. Suo marito. Ah! se egli avesse indovinata la verità
sul sentimento che le ispirava quel grido contro la bassezza e l'ipocrisia della
società nella quale vivevano! Ma in quella rinascita di fiducia che lo
infiammava di gioia dopo, la lunga crisi di gelosia, poteva egli immaginare
ciò che si celava sotto quella ribellione? Essa non era che un sussulto d'amore. Egli la considerò come uno scatto di lealtà, e ne fu commosso
profondamente... Lo disse a Sabina, quando furono di nuovo soli nella
carrozza che li riportava in via Villejust:
- Come sono stato orgoglioso di voi, a tavola! Rimproveravo a me stesso di
non protestare contro il matrimonio di Sarliève con la Moraines. Si è
indignati, disgustati... Poi si pensa: A che serve? E tacendo, si diventa
complici della viltà generale... Ah! le donne sono veramente più coraggiose
degli uomini!
Parlando, le aveva presa la mano, come aveva già fatto nel pomeriggio. E di
nuovo avvicinò alle proprie labbra quelle dita frementi, per baciarle, e
chiamandola con un nome affettuoso che non le da va più da molto tempo,
sospirò:
- Mia piccola Saba, ora è buio... Non pretenderai che qualcuno possa
vederci e giudicarci ridicoli!...
L'attirava a sé, rammentandole con quell'allusione, fatta in tono di dolce
rimprovero, la risposta dura avuta da lei nel pomeriggio. Mentre col braccio
tentava di cingerle il busto, la sentì inarcarsi e sottrarsi alla sua stretta, dalla
quale si rassegnò a desistere. Ma il gesto di lei, le parole e lo sguardo che
l'avevano sottolineato, avevano avuto un significato anche troppo chiaro...
- No!... No!... - si ripeteva Sabina, poco dopo, mentre la cameriera l'aiutava
a svestirsi.
E appena la ragazza fu uscita, corse a chiudere a chiave le due porte della
camera; poi, alzando ripetutamente le spalle delicate, soggiunse, con
profonda avversione:
- Non vede niente! Non capisce niente! ... Venga, ora!... forse capirà!
Non era passato un quarto d'ora, quando una lieve pressione e un colpetto
alla porta l'avvertirono infatti che suo marito voleva essere ricevuto.
Raggomitolata nel letto, dopo aver spente tutte le luci, Sabina non rispose.
Un altro colpetto... Un altro ancora... Ella continua va a rimanere muta. Nel
gran silenzio del palazzo addormentato, udì un rumore di passi che si
allontanava... Per quella sera, era salva! Ma che cosa sarebbe avvenuto il
giorno seguente? E, prevedendo una lotta, il pensiero della quale bastava a
farle sentire quanto profondamente appartenesse all'altro, disse di nuovo:
- Me ne andrò più presto!... Ecco.
Che notte, passò, dormendo solo a intervalli e per pochi minuti, subito
destata dalla incessante, ossessionante visione di Giorgio Saintenois in
viaggio per l'esilio!... Le sembrava di udire l'ansare della locomotiva che lo
trascinava verso Calais, e poi il rumore del mare, e i colpi pesanti delle
ondate contro i fianchi del piroscafo. Giorgio scendeva sulla banchina di
Dover. Un altro treno l'aspettava. Un'alba sinistra illuminava vagamente la
campagna bagnata di pioggia... Poi, Londra, fumosa e triste. Giorgio entrava
in una banale camera d'albergo, nello stesso momento in cui ella si alzava, in
mezzo al lusso della sua casa, in quel mattino, un po' freddo ma luminoso, di
un autunno francese! Per ingannare la nostalgia, ella si sforzava d'occuparsi
automaticamente dei figlioli e della casa, come ogni giorno; ma la sua anima
era assente.
- Partì ieri sera alle otto, - pensava. - Ebbe tempo per scrivermi... Ma ci avrà
pensato?... Se ci pensò, certo imbucò la lettera prima di salire in treno. L'avrò
questa mattina...
La prospettiva di aver fra le mani quella prova palpabile della passione del
suo amante l'indusse a sbrigarsi col cuoco e col maggiordomo, a rimandare
in fretta dalla loro governante Renato e Giulietta, e a vestirsi rapidamente...
Si era già messo il cappello, quando vennero ad annunciarle che era venuta
sua suocera, la quale domandava di lei.
- È mandata da mio marito! - pensò. - Così presto!...
Marito e moglie non si erano visti, in quelle prime ore della mattinata, ma
Sabina non se ne era stupita. Avveniva spessissimo che si vedessero soltanto
alla seconda colazione. Il figlio del suicida, sempre inquieto, ansioso e
timido, soleva fuggire davanti alle spiegazioni che s'imponevano, secondo
una particolarità di carattere che hanno comune tutti gli esseri sensibili come
lui. Bastava ch'egli avesse scambiato con sua moglie, il giorno prima,
qualche parola un po' acre, o attraversasse per causa di lei una crisi
d'angoscia, perché provasse un'invincibile apprensione al pensiero di
rivederla. Questo caso si era ripetuto, per lui, dopo il suo timido e goffo
tentativo di riavvicinamento, e dopo aver subita l'umiliazione della porta
chiusa.
Aveva pensato di andare a piangere da sua madre, ma questa l'aveva
prevenuto. Era corsa a trovarlo, appena alzata, dopo aver dormito pochissimo
ella pure, preoccupata fino all'angoscia per le sue due mosse del giorno
antecedente: il colloquio con la nuora, e poi l'affettuosa e dolorosa menzogna
a Gianmaria. L'aveva trovato triste, di una tristezza abbattuta, scoraggiata,
quasi più inquietante, per lei (dati i timori di cui subiva l'ossessione), che
non le violenze della confessione di ieri. Nel suo furore di gelosia, Gianmaria
aveva almeno manifestato una certa vitalità... Ora, invece, ella lo vedeva
prostrato, accasciato... Quanti sforzi, per strappargli la narrazione di ciò che
era avvenuto nel pomeriggio, nella serata e più tardi!... E, ancora l'eterno
lamento, ripetuto indefinitamente: “Sabina non mi ama! Non mi amerà mai!”
Dopo quella visita, appunto, e tutta turbata dallo spettacolo di quella
depressione, la suocera aveva deciso di andar subito a parlare alla nuora,
senza che Gianmaria lo sapesse. La sua fisionomia, quando il domestico
l'introdusse presso Sabina, rivelava una preoccupazione vivissima. Sabina fu
immediatamente pronta a difendersi:
- Siete venuta ancora a farmi dei rimproveri? - disse arditamente.
- Sì, Sabina. Ho parlato poco fa con Gianmaria, e... ,
- Ed egli vi ha mandata da me un'altra volta... - interruppe la nuora.
- No. Mi avrebbe supplicata di non dirvi nulla, se avesse pensato che vi
avrei vista, dopo averlo lasciato. Non vengo da voi a nome suo, Sabina... Vi
parlo come sua madre, rammentandovi ciò che feci per voi... Vi sono dei
sacrifici, ve lo dissi già ieri, che danno dei diritti, a chi li compie, su chi li
riceve. Sapere che tradite mio figlio, e tacere, e nascondere questo
tradimento, è o non è un sacrificio? Rispondete.
- Ma io non ve l'ho chiesto, signora!
Non più “mamma”: “signora”. Questo mutamento, l'accento della voce nel
dare quell'insolente risposta, lo sguardo che sottolineò le parole, tutto
dimostrava che Sabina voleva resistere risolutamente. Ella non sapeva da
quale terribile ricordo fosse ossessionata la vedova del suicida, il cui
contegno, perciò, non le risultava interamente spiegato. Lì per lì, quando la
suocera le aveva strappata la confessione, ella non aveva pensato ai motivi di
quella promessa di silenzio, spontanea quanto strana. Aveva saputo allora il
disonore di Saintenois, e aveva pensato unicamente al pericolo a cui il suo
amante era esposto. La suocera non la denunciava. Perché? Questo non le
importava... - Ma ora si ribellava istintivamente all'idea che quella donna si
valesse del proprio silenzio per imporle condizioni. - Squadrava dunque la
sua nemica con un sorriso di sfida, domandandosi chi fosse: - Una madre
spinta fino all'aberrazione dal suo amore per il figlio, e che, sapendolo
appassionatamente innamorato di sua moglie, voleva ad ogni costo
asservirgliela, questa moglie?... Oppure, una borghese - a cui faceva paura lo
scandalo, e che voleva servirsi del segreto della nuora per obbligarla a
ritornare sulla retta via? Anche questo, che importava? L'innamorata sentiva
crescere in sé la volontà di liberazione che le aveva fatto dire a sé stessa, due
volte, prima nel pomeriggio e poi nella notte mentre Gianmaria bussava alla
sua porta: “Me ne andrò più presto! Ecco!” E, pronta alla battaglia, rimase
sconcertata all'udire sua suocera, che le rispondeva con voce subitamente
mutata:
- Signora? Mi chiamate signora? E con che tono!... Ah! come mi
comprendete poco, Sabina, se supponete ch'io sia venuta per minacciarvi!....
Quella donna nobilissima s'interruppe. Durante le sue meditazioni della
notte, ella aveva immaginati i sentimenti della nuora secondo quelli che
avrebbe provati, lei, se per disgrazia avesse dovuto attraversare una crisi
analoga. L'aveva immaginata riconoscente per il silenzio della suocera, che le
avrebbe permesso di riparare al passato, e aveva supposto che di quel passato
si vergognasse. I particolari ch'ella aveva saputi da suo figlio le avevano fatto
pensare che si trattasse di un equivoco, naturalissimo poiché Gianmaria
ignorava di qual dolore soffrisse sua moglie... Ora, rimaneva stupita davanti
a quel volto ostile e chiuso. Aveva creduto, rievocando la propria
immolazione, di svegliare un'eco in quella coscienza, e invece non trovava
davanti a sé che una collera orgogliosa. Ma aveva visto infelicissimo il suo
figliolo, e doveva ad ogni costo cercare di agire, per evitare almeno una
rottura.
- Che cosa temete da me? - riprese. - Che io non mantenga la, mia promessa
di ieri . ?... È vero: non me la chiedeste... Non la feci a voi, quella promessa,
ma a me stessa; ne convengo. Soltanto... - Esitò di nuovo, poi, supplichevole
e ad un tempo autoritaria, soggiunse:
- Avere avuto una passione, e aver commesso una colpa, non vuol dire aver
perso il senso dell'onore... Mio figlio, poco fa, m'ha ripetuto una frase vostra
sul matrimonio di Francesco Vittorio Sarliève, la quale dimostra che l'avete,
questo senso dell'onore... Non vi parlo più di me, e accetto che stimiate di
non dovermi nulla. Soltanto, vi prego di scendere in fondo alla vostra
coscienza e di rispondere a questa domanda: quando una donna ha dato a suo
marito una creatura che non è di lui, ha o non ha, verso di lui, un debito?
- Infatti, sì... - rispose Sabina. - Ed io sono pronta a dire a Gianmaria che la
mia Giulietta non è sua figlia, e sono pronta, anche, ad andarmene con lei!
- Ah! non farete questo!... - supplicò la madre, con un grido.
- Se non volete, cercate di non spingermi, né voi né lui, ad agire così! - disse
Sabina.
Ed uscì, bruscamente.
XI
Verso la catastrofe (seguito).
Maria Vialis non l'avrebbe saputo dire da quanto tempo sua nuora fosse
uscita da quella camera, quando suo figlio vi entrò. La terribile frase: “...e ad
andarmene con lei”, echeggiava in tutto il suo essere, come nel passato il
suono di campana del funerale di suo marito, ed ella rimaneva immobile in
una poltrona, fissando il tappeto con occhi da allucinata. Era un piccolo
tappeto di Smirne, quasi dello stesso disegno di quello che ornava il
pavimento dello studio di Via San Domenico.
L'identità dell'origine spiegava quella somiglianza, ma la povera madre era in
uno di quei momenti nei quali i più semplici casi assumono un carattere di
avvertimento. Avrebbe potuto sopportare, Gianmaria, il terribile colpo che
l'avrebbe scosso se Sabina avesse realizzata la sua minaccia, rivelando al
marito la verità sulla nascita di Giulietta e allontanandosi dalla casa di lui?
Sembrò alla madre, ad un tratto, di vedere il suo figliolo steso a terra, col
capo forato da un proiettile!... Il suo figliolo, suicida come già il padre!... E
fu per lei una violenta sorpresa il vederselo accanto, ritto, e l'udire la sua
voce:
- Ho visto uscire Sabina, e il domestico m'ha detto che tu eri qui. Ho capito
che devi averle parlato, ed ho avuto paura.
- Di che cosa, figlio mio? - disse la vedova, ritrovando la forza di sorridere.
- Ma... della vostra conversazione! ... Quando Sabina ha attraversato il
salotto, poco fa, ho riconosciuto il rumore dei suoi passi. Ho aperto subito la
porta della mia camera. Lei non se n'è accorta; non m'ha visto. Meglio così.
Sembra va tanto irritata!... Eppure, mamma, t'avevo raccomandato di
risparmiarla!
- Abbiamo parlato appena... Sabina aveva fretta... Doveva uscire.
- E dunque perché, mamma, rimanevi qui sola e tanto triste?..Non dirmi che
non eri triste! ...
- Ma sì, caro... Per, questa situazione! Infatti, mentre scambiavamo poche
parole, come t'ho detto, ho sentito che Sabina era nervosissima. Ne ho
concluso che tu non sai dimostrarle bene il tuo affetto. Dovresti essere molto
buono, molto tenero, con lei, e molto paziente… soprattutto quando nella
vita coniugale si è giunti ad una specie di divorzio come il vostro, anche la
semplice espressione del desiderio di una ripresa d'intimità dev'essere
prudentissima, delicatissima... Una vecchia madre può parlare a suo figlio di
simili cose, di cui nessun estraneo potrebbe parlargli... Una donna ha delle
suscettibilità, dei pudori, che voialtri uomini non comprendete, qualche
volta...
- Seguirò il tuo consiglio, mamma, - disse Gianmaria. - Purtroppo, mi
dimostra che ho ragione, e che tu sai che ho ragione: Sabina non mi ama...
Ma è già una tale felicità, per me, che ella non ami un altro, e che tu abbia
trovato la somiglianza di Giulietta nel ritratto della tua vecchia zia!...
Era stata una delle astuzie della madre, che il giorno antecedente aveva
mostrato a Gianmaria uno di quei dagherrotipi, come se ne facevano agli
inizi della fotografia, e sui quali il tempo sfumava i lineamenti a tal segno da
farli diventare irriconoscibili, o quasi. Il geloso si era lasciato suggerire che
certe particolarità del viso della piccina fossero pure, realmente, su quella
oscura lastrina, tanto era forte il suo bisogno di liberarsi dall'ossessione che
lo tormentava sempre, e anche in quel momento. - Infatti domandò:
- Non ti ha detto, Sabina, perché usciva?
- Ridiventi geloso, figlio mio?... - disse la madre.
- Oh! no! Te lo prometto!...
E con un mezzo sorriso che gli ridiede per un attimo la fisionomia che aveva
avuto da: bambino, soggiunse:
- Mamma, non lo farò più!
Poi disse, serio, quasi con solennità:
- Come vuoi ch'io possa diffidare ancora di mia moglie, se tu, mamma, mi
dici d'aver fiducia in lei?
Egli certo non immaginava che parlando così immergeva un pugnale nel
cuore di sua madre, e che ella si domandava, in quello stesso momento, con
indicibile angoscia:
- Infatti, dove andava Sabina? E' possibile che voglia rivedere quel
Saintenois, dopo aver saputo tutto sul conto suo?
Eppure, Sabina correva veramente verso “quel Saintenois”, o almeno verso
ciò che poteva avere di lui in quel momento: una lettera, febbrilmente
desiderata, sperata appena. L'ufficio postale che gli amanti avevano scelto
per la loro corrispondenza clandestina, come il più sicuro per la sua distanza
dalle case loro, era in via Dufrénoy, fra l'Avenue Victor Hugo e le
fortificazioni. La mano di Sabina tremò, nel prendere la lettera che le porse
l'impiegato delle “ferme in posta”, quando gli ebbe dette le solite iniziali. La
sua commozione fu tale, che dovette appoggiarsi a un muro, appena uscita
dall'ufficio e prima di lacerare la busta, che conteneva soltanto poche righe,
ma come concepite!
“Ti adoro, mio unico amore, e me ne vado. Qualunque cosa ti venga
raccontata sul conto mio, - poiché infatti i pettegolezzi saranno molti, ora! ricordati che ti ho detto la verità, tutta la verità! Certo, fui molto colpevole
facendo ciò che feci. Ma agii così perché ti amavo appassionatamente,
pazzamente. Quel che provo nell'allontanarmi da questa città dove lascio te
e la bambina, è inesprimibile. Ma avrò coraggio. Addio, mia cara Mia”
- Com'è coraggioso, e come mi ama! - ella pensava, rimettendosi a
camminare e sentendosi caldo il sangue, in quel frigido mattino d'autunno,
per un'improvvisa e forte sensazione di pienezza interna. Saintenois le aveva
scritto precisamente le parole di cui ella aveva bisogno per convincersi
sempre più, soprattutto rammentandosi dei discorsi uditi al pranzo del giorno
antecedente, che quel disonorato, quel paria, - poiché la sua partenza bastava
a renderlo tale, - meritava ancora di essere preferito. Ad un tratto, e per una
decisione istintiva, quasi incosciente, tanto fu rapida e senza ragione, pensò
di andare dall'uomo d'affari al quale i Vialis affidavano i loro interessi, la
gestione dei loro stabili, la amministrazione delle loro terre, la sorveglianza
del loro “portafoglio”. Gianmaria, specialmente per punto d'onore, aveva
sempre lasciato un conto aperto a sua moglie, presso quell'agente. Ella non
ne aveva mai abusato. Come tutte le vere appassionate, era totalmente esente
dal difetto della vanità, che è il maggior principio di rovina per le donne
della sua classe.
Mezz'ora dopo, suonava il campanello dell'appartamento occupato, in via
Monte Tabor, dall'agenzia diretta dal signor Margeret. Così si chiamava
l'uomo d'affari, il quale aveva esordito come impiegato negli uffici del signor
Lancelot, e l'aveva conosciuta bambina. Egli era oggi un vecchietto esile e
scarno, i cui modi rivelavano una grande meticolosità. Questa qualità faceva
parte del suo carattere, e il mestiere l'aveva esagerata, in lui, fino a renderla
un difetto. Aveva ancora per il suo principale d'altri tempi una riconoscenza
che si rifletteva su Sabina e che si traduceva, professionalmente, in sapienti
consigli su affari di Borsa, accolti per solito con indifferenza da quella donna
disinteressata. Oggi, ella li ascoltava con un'attenzione il cui motivo avrebbe
meravigliato assai colui che li dava, se egli avesse potuto leggere nel
pensiero della sua bella cliente.
- Perché Giorgio non mi disse mai nulla? - pensava costei. - Se avessi saputo
che speculava, l'avrei mandato da quest'ottimo Margeret, e non si sarebbe
rovinato!
- Avete una disponibilità di settantasettemila franchi e ottanta centesimi,
signora, - diceva il vecchio. - Guardate...
E, preso un giornale finanziario che aveva a portata di mano, continuò:
- Guardate coi vostri occhi a quanto è salito il titolo che vi raccomandai
l'ultima volta che veniste a trovarmi, tre mesi fa... Era a quattrocentodue, ve
ne rammentate? Oggi, è a cinquecentoventiquattro... Calcolate come si
sarebbero moltiplicati i vostri settantasettemila franchi, se m'aveste lasciato
manovrare in quel senso... Per fortuna, il signor Vialis si fida più di voi dei
miei pareri. Vi avrà detto, forse, che gli ho parlato di un impiego di denaro
ancor più interessante... Sapete se ha intenzione di venire da me oggi o
domani?.. Mi aveva fissato uno di questi due giorni.
- No, - rispose Sabina. - Passavo per caso da queste parti, e siccome avrei
bisogno di un po' di denaro....
- Sono a vostra disposizione, signora. Quanto volete?
- Dodicimila franchi, - disse ella.
Si sarà già capito che quella visita all'agente d'affari era un principio di
preparazione per la sua partenza. Ella era venuta, in realtà, coll'intenzione di
prelevare una somma molto più considerevole. Ma Margeret, che nulla
sospettava del dramma dei Vialis, avrebbe certamente parlato al marito di
quella visita. Una cifra troppo rilevante avrebbe stupita la prudenza di
Gianmaria, e avrebbe forse dato motivo ad un interrogatorio penoso quanto
inutile.
- Basteranno, per la partenza, - pensava Sabina nell'andarsene, col pacchetto
di biglietti di banca chiuso nella borsetta insieme alla cara lettera del suo
Giorgio. - Poi, avrò i miei gioielli.
Il progetto si precisava. Come avviene quando si differisce con
rincrescimento, e per ragioni esterne, l'esecuzione di una volontà ben decisa,
ogni incidente doveva, - in quella giornata e nelle seguenti, - fornire a Sabina
delle ragioni determinanti o meglio dei pretesti per affrettare la sua fuga. La
colpì, anzitutto, appena ritornò a casa e durante la colazione, la gentilezza di
Gianmaria, che sembrava afflitto e pentito. Quel giorno stesso, nel
pomeriggio, egli doveva dire a sua madre:
- Ho seguito il tuo consiglio, mamma. Però sento che umiliandomi (poiché
un uomo si umilia, domandando perdono a una donna per torti che non ha),
l'offendo ancor più che se fossi brutale verso di lei.
Il marito innamorato e infelice non s'ingannava. Ritrovandolo tanto mite,
tanto rassegnato a subire tutto da lei, Sabina si era irritata. Malgrado i suoi
traviamenti, ella aveva un'anima troppo alta per non soffrire di una
generosità che non giudicava più semplicemente ridicola.
Avrebbe preferito - e Gianmaria l'aveva indovinato - la dura inquisizione
della gelosia o la brutalità del desiderio che l'avrebbero giustificata ai propri
occhi. E, confrontando l'atteggiamento di quel giorno con quello del giorno
antecedente, ella si ripeteva: “E' peggio! è peggio, così!”, sola nella carrozza
che la portava in piazza Vendòme dal suo gioielliere. Aveva ancora con sé,
nella borsetta, il vezzo di perle rifiutato da Saintenois, al quale aveva
aggiunto tutto un finimento di brillanti. Anche dal gioielliere, come
all'agenzia Margeret, rischiava che la sua ricerca di denaro venisse a
conoscenza del marito e provocasse un'inchiesta. Aveva una spiegazione già
pronta, che diede senz'altro al negoziante (il quale era stato da lei il giorno
antecedente per un altro motivo): - far stimare le perle e i diamanti, col
pretesto di un cambio che si proponeva di fare.
- Ho qui, dunque, duecentomila franchi... - diceva fra sé, dopo esser risalita
in carrozza.
Il gioielliere aveva attribuito quel valore ai gioielli. “Almeno duecentomila
franchi”, aveva soggiunto. - E Sabina continuava il suo monologo:
- E' quanto basta per aspettare di poter disporre della mia sostanza personale.
Gianmaria non vorrà certo oppormi in questo delle difficoltà...
Si sorprese così a stimare suo marito per quella delicatezza di cuore che
l'aveva irritata, trovando anche in quella stima un pretesto per sopprimere
ogni indugio a quella fuga tanto appassionatamente desiderata: “Ragione di
più per non recitargli più a lungo una commedia divenuta assurda. Mentivo
per Giorgio, mentivo per uno scrupolo: non volevo che egli potesse
rimproverarmi, un giorno, di aver presa tutta la sua vita. Dandogli la mia,
ora, non gli prenderò nulla, poiché egli non ha più nulla... Sì: avrà me!”
Aveva portato con sé, da casa, una lettera preparata per il suo amante.
Passando davanti a un ufficio postale, scese di carrozza e andò verso la
cassetta. Introdusse la busta nella fessura, ed esitò un momento, prima di
lasciarla cadere. “Se la riaprissi, - pensò. - per aggiungere: arriverò domani?
Ma no... ” E lasciò cadere la lettera, soggiungendo: “No, poiché vuole ch'io
aspetti! A che serve, aspettare?...Ma partirò presto!” L'idea di quella partenza
vicinissima la tormentava tanto, che ne continuava i preparativi in un modo
quasi automatico. Come era andata, nella mattinata, dall'uomo d'affari, e dal
gioielliere dopo colazione, entrò impulsivamente in alcuni negozi per
comprare certi piccoli oggetti che le avrebbero servito per il viaggio: un
piccolo nécessaire per sua figlia, degli astucci rotondi di cuoio per mettervi
le monete d'oro, una minuscola farmacia portatile. Passò dal pellicciaio,
ordinò che le pellicce sue e della piccina, che aveva date in deposito, le
fossero spedite a Londra, ad un albergo dove si proponeva di scendere. Si
munì da un banchiere, di banconote inglesi.
Questi diversi atti rappresentavano già la realizzazione del suo desiderio, e ne
risultava per lei una calma che non doveva durare.
- Uscirò all'ora di pranzo, - disse al cocchiere, quando fu tornata in via
Villejust. - La carrozza alle sette e tre quarti.
Si proponeva di mettere in ordine le sue carte, come aveva fatto Saintenois il
giorno antecedente. Pensò di far dire, a chiunque venisse, che non riceveva.
Ma se ne astenne per orgoglio. Era sua abitudine ricevere, quando prendeva
il tè in casa, e i suoi famigliari lo sapevano. “Se si parla già della storia di
Giorgio - disse fra sé - non voglio che si supponga ch'io abbia paura”. Però
non sapeva se si era già divulgata, quella storia... La curiosità di saperlo la
rodeva, ma quella sua incertezza non durò molto. Si era appena occupata
della merenda dei bimbi, e stava per sedersi, nel suo salottino, davanti al
tavolino da tè, quando il domestico introdusse un visitatore, il quale non
poteva essere che un messaggero dei “pettegolezzi” annunciati dal biglietto
di Saintenois. L'indovinò subito da un mezzo sorriso, che rievocava per lei
un ricordo odioso. Il visitatore era Massimo de Portille, altro amico di club di
Saintenois e di Gianmaria, noto fra i viveurs eleganti di Parigi d'allora.
Portille aveva fatto la corte a Sabina, nel passato. Un giorno, era stato tanto
ardito verso di lei, in quella stessa stanza, ch'ella aveva dovuto suonare il
campanello per farlo andar via. I loro rapporti, da quel giorno, erano sempre
stati soltanto “corretti”. La fisionomia di quell'uomo, noto per le sue
avventure fortunate, aveva per solito quell'espressione di arroganza felina che
è comune agli uomini della sua specie. In quel momento, essa era
freddamente cattiva. Che Portille le serbasse un feroce rancore per lo smacco
subìto, Sabina lo sapeva, e sapeva altresì ch'egli odiava in Saintenois un
rivale preferito. Era troppo evidente ch'egli era venuto per assaporare la
propria vendetta... La padrona di casa gli aveva appena versato il tè, come se
nulla fosse, quando entrarono due donne: la giovane signora Machault e la
molto meno giovane signora Ethorel, venute esse pure - (Sabina lo comprese
immediatamente) - per vederla soffrire. “Ma non vedrete nulla, mie care
amiche!” diceva ella fra sé, servendo l'una e l'altra con la sua grazia consueta.
- Sapete che cosa si racconta di Saintenois?... - . domandò la signora
Ethorel, tendendo la propria tazza, mentre Sabina si accingeva a versarle del
latte. - No, grazie. Piuttosto, un po' di limone.
- Sì, mia cara Sabina, - insisté la signora Machault, - a quanto pare... Ah!
com'è buono, il vostro tè! Dove lo comprate?... A quanto pare, dicevo, è stato
colto in flagrante mentre barava!
- Non sapete bene come stanno le cose, signore mie...- corresse Portille. - Ero
poco fa, con altri consiglieri, dal nostro presidente Casal, che ci ha convocati
per consultarci prima della seduta plenaria che avrà luogo domani per
decidere sulla condotta che converrà tenere. Quindi, so tutto, nel modo più
preciso. Il nostro Saintenois non ha barato, cara Cecilia... (Si rivolgeva alla
signora Machault, della quale era stato molto amico, come soleva far
risultare, da quel vanesio che era, chiamandola confidenzialmente così). - Ha
fatto di meglio, - riprese. - Si è fatto prestare dalla cassa dei giochi
cinquantamila franchi, dando a quel babbeo del nostro cassiere, che l'ha
accettato, un assegno su una banca presso la quale non aveva più nemmeno
un soldo!... Li ha giuocati, quei cinquantamila franchi, e li ha persi. Poi se l'è
svignata, scrivendo a Casal una lettera monumentale, nella quale si dà ancora
delle grandi arie. Vi parla del suo onore!... Dice che pagherà al Circolo il suo
debito, capitale e interessi... quando si sarà riabilitato... mediante il lavoro,
naturalmente in America!... È un po' vecchia la storiella...
- Ah! se ci fosse ancora suo padre! - disse la signora Ethorel. - Povero
generale! Che fortuna, per lui, esser morto prima di questo scandalo!
- Ma Gianmaria, che era tanto amico di quello sciagurato, che cosa ne dice,
mia cara Sabina? - domandò Cecilia Machault.
Un pellerossa legato al palo di guerra non ha un'impassibilità più assoluta di
quella che una donna che ama sa mostrare, per difendere il segreto delle sue
gioie o delle sue disperazioni contro le curiosità e le ostilità dei salotti.
Sabina, che stava bevendo la sua tazza di tè, rispose con semplicità, fra due
sorsi:
- Non me ne ha ancora parlato...
E, mutando bruscamente argomento, soggiunse:
- A proposito del Circolo, sapete, Portille, per che data sia fissata
definitivamente la grande serata musicale?
- È molto forte, non c'è che dire, la nostra bella amica!... - esclamò Cecilia
Machault, un quarto d'ora dopo, nell'uscire con la signora Ethorel e con
Portille.
Le due donne e il giovane avevano tentato, a parecchie riprese, di
menzionare nuovamente il nome di Saintenois, ma Sabina non aveva mai
cessato di parlar d'altro, con leggerezza, e di sorridere.
- Forse ne era già stanca del suo Giorgio! - disse la signora Ethorel.
- Oppure, - insinuò Portille, sogghignando, - quei cinquantamila franchi
erano forse destinati a lei...
.
- A lei? esclamò Cecilia Machault. - Ma siete pazzo, Massimo!...
- Chi può mai conoscere il vero bilancio di una donna? - riprese Portille.
- Ma se Saintenois l'ha giuocata e persa, quella somma...
- Avrà forse voluto rifarsene, dopo averla data...
- Che lingua sacrilega, il nostro Massimo! .., - diceva la signora Ethorel,
rimasta sola con l'amica.
La calunnia di Portille era stata abominevole quanto pazzesca. Ma, come
dice la frase celebre, di una calunnia rimane sempre qualche cosa...
- È veramente cattivo! - rispose Cecilia Machault. - Ma è tanto divertente! Poi, chinando un poco la testa aggraziata: - Povero Saintenois!.. Sabina
avrebbe dovuto salvarlo! Non si lascia colare a picco un amante, per
cinquantamila franchi, quando si hanno i gioielli che ha lei!..
- Sì, è vero... Avrebbe dovuto salvarlo, - ripeté la signora Ethorel. E
soggiunse, sentimentalmente: - Ah! mia cara Cecilia! com'è raro, il buon
cuore! ...
- Così è la gente! - pensava Sabina, rimasta sola, mentre quei discorsi
venivano fatti sul marciapiede della via. - Quel Portille, che non mi perdona
di non esser riuscito a mettermi nell'elenco delle sue conquiste... Quella
piccola Machault, che mi serba rancore perché fece invano la civetta con
Giorgio, che non volle saperne di lei... Quella vecchia Ethorel, che mi detesta
perché sono giovane e amata... (Infatti, lo sa, e anche gli altri lo sanno, che
Giorgio mi ama! ...) No, non mi hanno vista soffrire, ed erano venuti soltanto
per questo!... Che miserabili! ... E gli altri, saranno anche peggiori!... Suvvia!
Ora debbo corazzarmi per questa sera. - Pensava al suo pranzo fuori di casa,
e ai nuovi tormentatori che vi avrebbe trovati! Soltanto Gianmaria, - riprese
fra sé, - si farà uno scrupolo di parlarmi male di Saintenois, perché era suo
amico, e perché certo si rimprovera d'esserne stato geloso, ora che sua madre
l'ha tranquillizzato.
Di nuovo, il pensiero della generosità di suo marito le fece male, più male
che non la cattiveria dei suoi visitatori di poco prima. La frase che si era già
ripetuta sì spesso, dal giorno antecedente, le tornò alle labbra: “Durerà poco,
tutto questo!... Ma intanto che farà, lui?... ” Ora pensava all'assente...
“Povero Giorgio mio! ... E' partito da ventiquattro ore... Dov'è, ora? ...Che
fa?… Lo saprò domani da una sua lettera”.
Ella avrebbe vissuto, per tutta quella sera, durante la quale avrebbe
continuamente dovuto subire delle frasi perfide e ambigue, unicamente
sorretta da quella speranza: la lettera del giorno seguente. Al grado di
passione al quale era salita, l'attesa diventa una specie di anestetico. Le
persone con le quali pranzò e quelle che vennero dopo il pranzo, parlavano
tutte dell'amante che le stava tanto profondamente a cuore. Ella le ascoltava
moltiplicare intorno all'assente i commenti malevoli e gli aneddoti inesatti,
fra quell'eccitazione che sempre suscita, nella buona società, il più recente
scandalo. Tutti vogliono essere bene informati. Ognuno interpreta e giudica.
Sabina, molto guardata, molto presa di mira, rimaneva indifferente quanto
può esserlo, fra le mani del chirurgo, un paziente a cui sia stata fatta una
iniezione di cocaina. Soltanto la delicatezza di Gianmaria, troppo conforme a
ciò che aveva previsto, la commosse fino ad intenerirla. Ella udì suo marito,
in un gruppo, difendere il povero Saintenois, affermare la sua buona fede,
sostenere che avrebbe certamente pagato, come aveva promesso nella sua
lettera a Casal, e che un'ora di traviamento non abolisce un passato di onore
e di coraggio, come quello dell'eroico ufficiale d'Africa e d'Indocina.
Insomma, per cavalleria, - Sabina lo capiva egli diceva dell'uomo di cui era
stato tanto dolorosamente e legittimamente geloso, le parole stesse che ella
avrebbe gridate a quei giustizieri da salotto, se ne avesse avuto diritto. - Per
la prima volta, la moglie adultera sentiva ciò che vi è di tragico, ma anche di
nobile e di alto, nella fiducia di un generoso cuore tradito; e quando, ritornati
a casa, lei e suo marito si lasciarono sulla soglia della sua camera da letto,
ella ebbe quasi la tentazione di buttarsi in ginocchio per domandargli
perdono. Avrebbe potuto, almeno, dirgli delle parole di simpatia. Il ricordo
della notte precedente gliele gelò sulle labbra. Ma i suoi sentimenti, quando
fu sola, non furono più quelli che aveva avuti ventiquattrore prima. Per uno
di quei mutamenti di pensiero che sono tanto frequenti nelle rotture, le buone
qualità di quell'uomo dal quale aveva deciso di separarsi per sempre le
apparivano nella loro vera luce, mentre prima le aveva disconosciute per
anni, vedendo di lui solamente i difetti. Quell'esitante, quel dubbioso,
quell'ansioso, aveva, per natura, un modo di sentire nobilissimo. La sua
mancanza di affermazione personale corrispondeva ad una delicatezza quasi
morbosa, ma tanto fine!…Quel cuore del quale ella non aveva saputo far
nulla, le si era dato con tanta verità!...
Mentre stava per infliggergli il colpo più crudele ch'egli potesse ricevere, la
sofferenza che le dava il suo amore per Giorgio la rendeva pietosa verso la
passione che le ispirava quell'essere buono... Per la prima volta, anche,
provava il rimorso che aveva già provato Saintenois all'offerta di denaro da
parte dell'amico tradito, e lo stesso orrore di mentire ad un uomo tanto leale.
Quel rimorso, per un altro fenomeno di sensibilità, la irrigidiva
maggiormente nella sua intenzione sempre più energica di non indugiare
molto a partire... Ed era soltanto alla fine della prima giornata di separazione!
Si era addormentata con un senso di disagio prodotto dal mutamento
avvenuto nei suoi sentimenti verso il marito. Quel disagio aumentò, quando
ella si svegliò l'indomani, che doveva essere la seconda giornata, con un
nuovo sentimento, facilmente prevedibile. Non c'era soltanto suo marito,
nella sua vita: c'era anche suo figlio. Saintenois gliel'aveva rammentato, e
subito ella si era ribellata, con la sensazione, - che aveva confessata, - di una
anomalia nelle sue reazioni di fronte a quel bimbo, giudicata da lei stessa
come mostruosa. Ella era semplicemente nella sinistra logica della sua colpa.
Da quando aveva dato a Renato una sorella illegittima, nutriva una specie di
rancore verso di lui, per il fatto che era stato concepito in amplessi che non
erano quelli dell'amante o, piuttosto, rimproverava a sé stessa questo fatto.
Ma se l'amante, in lei, aveva contrariata così, incessantemente, e paralizzata
la madre, non l'aveva però soppressa. Il suo affetto istintivo rimaneva vivo,
attraverso un sì grande turbamento, e quell'affetto stava per commuoversi
quasi animalmente nell'occasione di un incidente assai banale.
Ma nelle ore che precedono un atto come quello che ella meditava, i minimi
avvenimenti assumono un significato profondo, per la luce che proiettano
sull'avvenire.
Quella mattina, dunque, del secondo giorno, Giulietta e Renato erano venuti
come di consueto a dare un bacio alla loro mamma ancora in letto. Ella
accarezzava distrattamente i riccioli dei due bimbi, quando prese a pensare,
ad un tratto, che una di quelle due testoline frementi stava per rimanere
orfana.
In un irresistibile slancio, la strinse, quella testa, e la baciò lungamente.
Allora il fanciullo guardò la madre, con uno sguardo che era quello di
Gianmaria. Qual paura avrebbe provato la madre colpevole, se avesse saputo
che quello sguardo era identico allo sguardo del nonno di Renato, e che quel
nonno si era ucciso! Per fortuna, o per disgrazia, - poiché quell'avvertimento
avrebbe certamente fermato il suo fatale proposito - ella ignorava la minaccia
contenuta in quell'indizio della peggiore delle eredità. Eppure, conosceva
abbastanza i lati morbosi del carattere di suo marito, per comprendere che
anche Renato aveva in sé la stessa disposizione a soffrire, la stessa tendenza
alle emorragie della sensibilità, come aveva sentito dire da Vernat, una volta,
al capezzale del bimbo. Ora, qual colpo stava ella per dare,
coll'abbandonarla, a quella piccola anima indifesa che nulla sospettava del
destino che la minacciava! “Ma quel destino sei tu!”, diceva a Sabina la sua
coscienza.“Quel destino è la tua volontà!” E il rimprovero della voce interna
le fu tanto insopportabile, che si decise ad un tratto a mandare via i due
bimbi, per mettere fra sé stessa e quella commozione, in mancanza della
presenza dell'amante, un foglio di carta toccato da lui, la sua scrittura, la
lettera, insomma, ch'egli doveva averle mandata il giorno prima. Ne aveva
bisogno come di un cordiale, per riacquistare tutta la sua energia.
- Sì, - diceva fra sé, vestendosi, - Giorgio arrivò a Londra ieri mattina.
Appena giunto all'albergo, non potendo telegrafarmi, mi avrà scritto, e
certamente a tempo per far partire la lettera in giornata… Sto per sapere,
dunque, come viaggiò, che cosa pensa... Ah! se mi chiamasse, se mi dicesse
di raggiungerlo, come correrei da lui!...
In questa condizione di spirito, ella entrò, prima delle dieci, nell'ufficio
postale di via Dufrénoy. L'impiegato la ravvisò, e andò subito al casellario
delle “ferme in posta”, con un sorriso di mezza complicità. Poi, tornando a
mani vuote, disse:
- Questa mattina, nulla, signora....
- Non è arrivata, dunque, la posta d'Inghilterra? - osò domandare Sabina.
- Sì, signora, è arrivata, ed è stata smistata regolarmente.
Due ore dopo, ella tornò a quello stesso ufficio, per udire ancora la stessa
risposta, che le fu ripetuta anche nelle prime ore del pomeriggio e verso sera.
- Che avveniva? Quell'amante appassionato che tre giorni prima l'aveva
abbracciata con tanta frenesia, non poteva averla dimenticata! Ella lo
conosceva troppo, per supporre che non fosse sincero, ed egli troppo
conosceva lei per non sapere che non scrivendole la riduceva alla
disperazione. Non si trattava più ora, per Sabina, dei rimproveri della sua
coscienza di fronte alla bontà del marito, né di rimorsi di fronte alla nervosità
del figlio. Il non ricevere lettera durante quella seconda giornata, le dava
un’angoscia di continuo crescente, e, frattanto, ella attendeva alle sue solite
occupazioni mondane, faceva delle visite, entrava in qualche negozio.
La gente le parlava, lei rispondeva, ma era continuamente tormentata da
supposizioni di ogni specie... Che Saintenois fosse rimasto vittima d'un
disastro ferroviario o marittimo? No; i giornali ne avrebbero parlato. O forse
una malattia improvvisa l'aveva colpito, atterrato?...Ma ella lo aveva lasciato
tanto energico e pieno di vita!... E voleva costringersi à pensare che si
trattasse di un qualche errore nel servizio postale.
- Se domani non avrò lettera, gli telegraferò, - disse fra sé.
Anche il giorno seguente, nessuna lettera. Sabina telegrafò... Nessuna
risposta. Altro telegramma...Uguale silenzio! Era il quarto giorno, ormai, e
già Sabina cominciava a non poter più sopportare i suoi doveri mondani.
Quel quarto giorno, e poi il quinto, ella li passò interi ad agitarsi, in preda a
quella febbre dell'incertezza che produce sullo spirito il morboso effetto di
allungare talora, talaltra di abbreviare stranamente la nozione del tempo,
Innumerevoli possibilità sorgono nella mente e la popolano di visioni che si
sostituiscono l'una all'altra, di continuo, in un turbine tale da farci vivere
come in un sogno. La successione troppo rapida delle immagini non può più
servire di misura al tempo. Non era ancora trascorsa una settimana intera dal
giorno in cui, sulla soglia della sala da pranzo di via Fortuny, Sabina aveva
detto a Saintenois: “Arrivederci, laggiù!”. Ma le sembrava che mesi e mesi la
separassero da quel saluto, e dopo ogni nuovo tentativo inutile a quell'ufficio
postale di via Dufrénoy, dove ormai tutti gl'impiegati la conoscevano di vista
e la guardavano, alcuni con pietà, altri con ironia, se ne tornava a casa
sempre più incapace di rimanere più a lungo in quella totale ignoranza, in
quell'oscurità, in quella morte.
C'erano due testimoni, troppo inquieti perché quello stato di morbosa
eccitazione nervosa potesse sfuggire alle loro riflessioni: Gianmaria e sua
madre. Sabina li aveva così assolutamente dimenticati, dacché s'ipnotizzava
su quella mancanza di notizie, e l'idea fissa l'isolava dalla sua vita sì
completamente, che rimase assai sorpresa, una mattina, - quella del sesto
giorno, - quando, tornata da un'altra delle sue gite inutili all'ufficio postale,
trovò nel suo salottino la signora Vialis, che l'aspettava. - Le due donne non
avevano più avuto alcuna conversazione intima, da quando si erano
affrontate, una atterrita, l'altra minacciosa. Quel giorno, Sabina si era
ribellata a qualsiasi intrusione nella sua vita sentimentale, con tutta la forza
del suo amore, felice, malgrado l'avversità, per la speranza che lo sosteneva.
Ora invece, spossata dal logorio di quella settimana d'impotente attesa, non
aveva più che l'energia del mutismo che non discute, che sfugge... Ascoltò
dunque la suocera con una triste passività, per la quale ella fu subito inquieta
più che per l'irascibile resistenza di prima.
Comprese infatti, la madre di Gianmaria, che quel torpore annunciava un
domani più temibile e più oscuro.
- Sabina... - cominciò con dolcezza, - lasciate ch'io vi ringrazi di non aver
detto a Gianmaria nulla che potesse far rinascere in lui il sospetto. Il vostro
contegno mi ha provato che avevo ragione di pensare, come vi dicevo l'altro
giorno, che in voi è rimasto intatto il senso dell'onore... Perciò appunto, ora,
mi rivolgo nuovamente a voi, per scongiurarvi di dominare un poco,
possibilmente, un dolore che comprendo. Non sarei donna, se non sentissi
quanto sia atroce una delusione come quella che subite... Ma pensate ai
vostri figlioli. Gianmaria è di nuovo inquieto. Non può non essere inquieto...
Voi soffrite, ed egli se ne accorge. Vi ama. Pensate che è stato geloso,
pazzamente geloso. Riflettete che la vostra visibile tristezza coincide col
disastro e con l'assenza dell'uomo di cui era geloso... Vi faccio notare che
egli non mi ha detto di aver stabilito un rapporto fra i due fatti. Crede ancora
che gli serbiate rancore perché... - (Ella esitò, poi soggiunse,
coraggiosamente):
- Non sarei donna, neppure, se non comprendessi la vostra ribellione di
quella sera, per la quale anzi vi stimo. Fu la prova di una sincerità in un
passato che peraltro dovete considerare come assolutamente abolito. Infatti lo
è. Gianmaria mi ha promesso di essere con voi quale desiderate che sia. Io vi
prego soltanto di non ridestare la sua gelosia. La ridesterete, inevitabilmente,
se non gli nasconderete una tristezza di cui s'accorgono anche i vostri figlioli.
“Perché piange sempre, la mamma, quando è sola?” mi disse Renato proprio
ieri. Fortunatamente, suo padre non c'era. Pensate a quel povero piccino;
pensate a vostra figlia, Sabina... Se la gelosia di Gianmaria si ridesterà, ne
risulteranno il dramma, la separazione... Vostro figlio resterà senza madre, e
vostra figlia... so già che non vorrete lasciarvela togliere. E allora.....
Nel grido dell'abnegazione materna esaltata fino al martirio, la povera donna
soggiunse:
- Quando vi sentirete troppo infelice, venite da me... Mi parlerete. Vi
compiangerò. Piangerete. Ma non davanti a lui! Davanti a lui, abbiate la
forza di sorridere, per pietà....Per i vostri figlioli, per me, per lui!
L'angoscia di ventisette anni sempre vissuti nel terrore della spaventosa
eredità, fremeva in quelle parole pronunciate con labbra tremanti.
Quell'offerta di una simpatia che oltrepassava la semi complicità del silenzio
era tanto straordinaria, che Sabina intravide il mistero sepolto nelle
profondità di quell'anima. Ella aveva sempre sentito dare, della morte
improvvisa del padre di suo marito, la spiegazione immaginata da Vernat,
quella che la brutalità dei fenomeni cardiaci suggerisce naturalmente quando
si voglia nascondere un suicidio; - la rottura di un aneurisma. Temeva forse,
la madre, che un'emozione troppo forte infliggesse a suo figlio una fine come
quella?
Le condizioni di salute del figlio non autorizzavano in nessun modo un
simile pronostico. La signora Vialis, alquanto originale, secondo la nuora,
non poteva nutrire un tal timore che per una di quelle fissazioni
dell'immaginazione per le quali non si ha carità quando si sanguina, come
Sabina in quel momento, da una ferita aperta nella carne viva.
- Cercherò di fare ciò mi domandate, - rispose con semplicità la moglie di
Gianmaria. E, per tagliare corto a quella scena, soggiunse subito, evitando
d'intenerirsi: - Sono stata molto scossa, in questi giorni... Mi dite che
comprendete il mio dolore, e vi ringrazio se mi compiangete. Ora dovete
pure capire che soffro, a parlarne e a sentirne parlare, e anche solo a pensare
che qualcuno se ne occupi...
La suocera non insisté. Sabina diceva la verità. Il sentirsi di nuovo guardata,
spiata, era stato un supplizio, per lei. Quella sensazione di una sorveglianza
in agguato fu ancora accresciuta da una frase che le disse suo marito quando
si separarono per la notte, dopo esser tornati da un pranzo al quale erano stati
invitati, il quinto, in quella crudele settimana! - e durante il quale, malgrado
la sua promessa, era stata assolutamente incapace di conversare coi suoi
vicini. Si era accomiatata prestissimo, col pretesto di un'emicrania, e,
rincasando, non aveva scambiato nemmeno una parola con Gianmaria, che
aveva voluto accompagnarla. Sulla soglia della sua camera, egli le disse,
prendendole la mano:
- Sabina... mia madre ha parlato con voi, questa mattina. So da lei che
desiderate non essere più, per me, altro che un'amica... Ora, non potreste
permettermi di essere realmente un amico vero?... Con un amico, si
discorre... Gli si dice quel che si pensa... - (Egli cercava le, parole, fissando
su di lei uno sguardo la cui inquietudine smentiva la timidezza della sua
voce). - Quando si hanno delle pene, gli si confidano, o almeno si lasciano
indovinare.
- Ma, - interruppe Sabina vivacemente, - chi vi ha detto che ho delle pene?…
Ho i nervi un po' in disordine: ecco tutto. È una cosa ridicola, ma passerà.
Suvvia, a domani... Per una volta che posso coricarmi presto, non vogliate
guastarmi il sonno...
Era già guastato, il suo sonno. Il dubbio non le era più possibile; sua suocera
aveva indovinato: Gianmaria stava per ridiventare geloso. Egli s'era accorto
della disperazione di sua moglie, troppo evidente per non essere rivelatrice
del segreto di lei. Sabina aveva visto l'immagine di Saintenois passare in
quegli occhi ansiosi. La suocera le aveva annunciato un dramma nella
famiglia... Perché aspettarlo? Giorgio, quando aveva voluto che la sua
amante ritornasse al tetto coniugale, - poiché l'aveva voluto, infatti, - aveva
supposto ch'ella vi avrebbe ritrovato una vita dolorosa, ma possibile. Egli
aveva interpretato la visita e l'offerta di Gianmaria come una prova che
questi non sapesse nulla. Lei stessa gli aveva detto che la madre del marito
non aveva parlato, né parlerebbe... Egli la credeva al sicuro, da quel lato...
L'avrebbe forse lasciata senza appoggio, in una lotta che ella avesse dovuto
sostenere per causa sua?... E se avesse saputo, non le avrebbe scritto, forse,
di andare subito a rifugiarsi da lui?... Non le avrebbe scritto che
l'aspettava?… Perché, ella stessa, non gli aveva confessato subito la verità
della sua condizione?... Non aveva cessato, in tutta quella settimana, di
mandargli una lettera ogni giorno, una lettera che era un lamento senz'ombra
di rivolta e che lo supplicava di darle finalmente segno di vita. Del marito,
non gli scriveva nulla, poiché non voleva né mentire, né denunciare un
tentativo di riavvicinamento che l'aveva turbata nel suo pudore d'innamorata.
Ora bisognava ch'egli sapesse tutto, ch'egli sapesse anche perché non poteva
sopportare più a lungo il ritardo imposto. Si era coricata. Si alzò, per sedersi
al suo piccolo scrittoio, e cominciò a scriverla, quella lettera di una sincerità
assoluta, che gli avrebbe annunciato il suo arrivo imminente. Quando l'ebbe
finita, la rilesse, e la gettò nel fuoco.
- Non risponderebbe nemmeno a questa! - pensò; e, ad alta voce ripeté a sé
stessa la frase che Giorgio aveva come rizzata fra loro, durante la loro ultima
conversazione: “C'è la tua ricchezza!... ”
Fra le molte ipotesi a volta a volta formate e respinte, in quei giorni di
tormentosa aspettativa, una sola aveva finito col sembrarle certezza, e quella
- come si ricorderà - corrispondeva alla verità. I minimi particolari del
colloquio di addio le si agitavano ancora nella memoria. Rivedeva Saintenois
e la sua espressione ostile, quando le aveva parlato di denaro....
- È la sua fierezza - disse fra sé, - che gli vieta di scrivermi!
Coricatasi di nuovo nel suo letto, e spente tutte le luci, continuò:
- Sì, la sua fierezza! Per punto d'onore, Giorgio vuol lasciarmi assolutamente
libera. Non vuol fare un gesto per chiamarmi, perché io sono ricca, mentre
lui è povero... Eppure l'offerta che gli ho fatto di vivere all'estero esattamente
come vivo qui, divisa da lui, che vivrà del suo lavoro, è il miglior mezzo per
risolvere tutto. Egli continua a resistere... Per la gente?... E che cosa conta la
gente, quando si ama?… Oppure, per uno scrupolo verso di me? Ma se sarò
io che avrò voluto... io che l'avrò obbligato ad acconsentire!... Ah! quando
sarò dov'è lui, bisognerà pure ch'egli mi tenga! Non ho già più che lui... Qui, la guerra! No: devo partire, e domani, laggiù, avrò la libertà, la felicità,
a meno che il suo silenzio non voglia dire che Giorgio è mutato a mio
riguardo! ....Ebbene: se è mutato, lo saprò. Soffrirò meno che in questa
incertezza!... Ma è assurda, l'incertezza! Giorgio non è mutato!...
Era decisa, ormai, e la sua risoluzione era precisa, definitiva. Non più indugi!
Avrebbe lasciato Parigi quel giorno stesso! Alle cinque del mattino, dopo un
breve ma profondo sonno, di quelli che succedono alle crisi di ansietà, si alzò
di nuovo, per prendere nell'armadio del gabinetto da toeletta il suo
nécessaire da viaggio, che preparò minuziosamente. Vi ripose i suoi gioielli,
empì un'altra valigia piatta, che aveva comprata insieme con la valigetta
destinata a sua figlia. Aveva avuto cura, per precauzione, di tenere sotto
chiave quegli oggetti rivelatori. Poi passò nella camera dei bambini, per
prendere da un cassettone la biancheria e gli altri pochi indumenti
indispensabili per l'arrivo. Entrò in quella stanza e ne uscì in punta di piedi,
scalza, servendosi di una lanternina elettrica. I piccini, che dormivano, non si
svegliarono. Ad un certo momento, ella si avvicinò al letto di Renato, e stette
ad ascoltare il respiro del bimbo. Mentre stava per abbandonare quella
povera creatura, la madre trasalì ancora, in lei... Un pensiero folle le
attraversò la mente: condurre via con sé anche Renato!... Ma subito rifletté:
“Non ne ho diritto!” Il considerare la legge naturale è l'unico mezzo, per una
coscienza, di giustificarsi nelle aperte ribellioni contro il patto sociale in
nome della passione. No; non avrebbe disputato al padre quel fanciullo! E
pensando che ormai egli non avrebbe più saputo nulla di lei, se non da quel
padre, si sedette di nuovo per scrivere a quell'uomo, che avrebbe potuto
chiuderle il cuore di suo figlio, una lunga lettera che poi gettò nel fuoco
come l'altra.
- Neppure questa servirebbe a qualche cosa! - disse fra sé.
La pendola segnava già le sette. Sull'orario delle ferrovie che le aveva servito
per seguire il viaggio di Saintenois, Sabina aveva visto che a mezzogiorno
partiva un treno, col quale, per la via di Calais, sarebbe arrivata a Londra
poco dopo le sette di sera. Avrebbe approfittato di quel treno. Ma come
avrebbe fatto? Si trattava anzitutto, per lei, di sapere se Gianmaria sarebbe o
non sarebbe rimasto in casa, quella mattina, e specialmente se sarebbe
venuto nella sua camera. Non ci venne. Verso le nove e mezza, quando
usciva a cavallo, solevano tenergli pronta in mezzo al cortile la cavalcatura
già sellata. Sabina, tendendo l'orecchio, e con un gran tumulto nel cuore,
riconobbe ad un tratto il rumore degli zoccoli della bestia sul selciato... Corse
alla finestra, e poté vedere suo marito, in sella, uscire dal portone in via
Villejust. S'intendeva d'equitazione abbastanza per constatare, dall'andatura
nervosa del cavallo, che anche la mano che teneva le redini era nervosissima:
altro piccolo indizio che le diceva come non si fosse ingannata nelle sue
impressioni. Ma che importava, ormai? Poteva agire liberamente. Suonò il
campanello.
- Ho bisogno di un fiacre, - disse al maggiordomo. E a Marcellina: - Vestite
Giulietta, in modo che sia ben coperta. La conduco via con me, per una breve
assenza.
Poco le importa, anche, dello stupore della governante e di quello della
cameriera al vedere le tre valige pronte... Si siede allo scrittoio un'altra volta,
per scrivere a suo marito una lettera che non distruggerà... Il fiacre è venuto.
Le valige vengono caricate. Ora deve abbracciare suo figlio, - dopo avere
evitato di vederlo per tutta la mattinata, - senza che nessuno possa accorgersi
della sua commozione. Si avvicina alla porta della stanza da studio, dove - le
ha detto Marcellina - Renato sta terminando un compito. Giunta lì, teme di
sé stessa, e non entra. Ma, mentre scende le scale, Giulietta - che tiene per
mano - le domanda:
- Hai freddo, mamma? Come tremi! - E, vedendole delle lagrime sulle
guance, la piccina soggiunge : - Ma che hai, mamma?
- Niente, cara... - risponde la madre prendendola in braccio e coprendola di
baci.
Il sentirsi stretto al cuore quel piccolo essere che ormai non ha più che lei al
mondo, le ridà forza. - Il portinaio le apre lo sportello della carrozza. Gli
consegna la lettera destinata a Gianmaria, dicendo: “Per il signore, quando
tornerà.” E al vetturino, ad alta voce: “Alla stazione dell'Avenue HenriMartin. Presto!”
Non si proponeva soltanto di evitare d'essere raggiunta, qualora si tentasse
un inseguimento immediato, facendosi condurre a quella stazione della
ferrovia di circonvallazione. La via Dufrénoy è in quei paraggi. Vi sarebbe
passata per l'ultima volta, dopo aver cambiato fiacre alla stazione. Forse
avrebbe trovato una lettera di Giorgio, a quell'ufficio postale. - Ma no; nulla
ancora...
È sicura, però, di sapete la ragione vera di quel silenzio! D'altronde, non può
più indietreggiare... Prende uno stampato per telegramma, sul quale, con
mano ferma, scrive l'indirizzo inglese di Saintenois, e poi, semplicemente
“Saremo Stazione Victoria alle sette. – Sabina”. Ed ora il fiacre nel quale è
sola con la sua Giulietta, corre verso la stazione del Nord. L'orologio del suo
braccialetto sta per segnare le undici. Ancora sessantacinque minuti, e poi il
treno la porterà lontano, con sua figlia... Che cosa troverà, laggiù, come disse
nel lasciare il suo amante? La felicità; ne è sicura, lo sente. Ma che lascia,
dietro di sé? Un figlio orfano, un marito abbandonato, il proprio nome
disonorato, forse una tragedia... Sa anche questo, sente anche questo... e per
assopire il rimorso che non vuol provare, si ripete piano, indefinitamente:
“Non potevo più... L'amo troppo! L'amo troppo!... ”
XII
L'esorcismo.
Erano appena suonate le undici e mezza. Sabina, dopo aver preso posto con
Giulietta in uno scompartimento che per fortuna aveva trovato vuoto,
cominciava a scartocciare dei cibi comprati al buffet. Preparava la colazione
della piccina. Questa batteva le mani, scoccava baci impetuosi a sua madre, e
diceva parole che date le circostanze erano piene di una patetica ironia:
- Oh! come sarà divertente!... E come si sta bene, noi due, sole!...
In quel momento, la solitaria di via San Domenico si disponeva ella pure a
far colazione. Non aveva cambiate le ore dei pasti, dalla gioventù, e stava per
passare nella sala da pranzo, dove mai nessuno, dopo il suicidio del marito,
si era seduto a tavola di fronte a lei: nemmeno suo figlio. Bourrachot l'aveva
appena avvertita che la colazione era servita, ed ella indugiava ancora nel suo
salottino, mettendo in ordine certe carte relative ad una delle sue carità,
quando udì suonare forte il campanello dell'anticamera. Poco dopo,
Gianmaria era davanti a lei. Egli aveva trovato la lettera della fuggitiva,
tornando dalla passeggiata, e, vestito com'era, col frustino in mano, era
balzato nella prima carrozza vuota che era passata, per correre
immediatamente da sua madre. Era livido, e il suo aspetto bastava a rivelare
una violenta tempesta interna. La povera donna non ebbe bisogno di
spiegazioni. Si era astenuta, quella mattina, dal passare a domandare notizie
in via Villejust, poiché era rimasta inquieta per l'accoglienza fatta dalla nuora
al suo passo del giorno antecedente. Ormai erano inutili, simili prudenze...
Era già avvenuta, la sventura ch'ella aveva tanto appassionatamente cercato
di scongiurare! ... E le sfuggì questo grido:
- Sabina?!... E’ partita?....
Gianmaria la guardò, prorompendo in una risata che ebbe un significato
terribile, in quel momento, e poi, nello spasimo di una collera che lo
scuoteva violentemente, esclamò:
- Certo!... Lo sapevi!... Lo sapevi!... - ripeté. - Sì, è partita, lasciandomi
questa lettera... Ecco!... Ecco!... Prendi!...
Aveva estratto dal guanto della sinistra un foglio, introdottovi poco prima
rabbiosamente, e lo tendeva con mano convulsa alla vedova, che lo prese
tremando e cominciò a leggere questo scritto, ancor più terribile per lei che
per suo figlio:
“Venerdì mattina, ore 10. - Gianmaria, me ne vado. Raggiungerò Giorgio
Saintenois. È infelice, mi devo a lui. L'amo, già da anni. Giulietta è sua
figlia. Vostra madre lo sa, ella pure già da anni. Interrogatela. Può ormai
non mantenere la sua promessa di silenzio. Mi porto via la piccina, che
appartiene a suo padre. Servitevi di questa lettera come crederete meglio,
per il nostro divorzio. Accetto tutto anticipatamente, fuorché di ridarvi
Giulietta. Ma so che dopo aver parlato con vostra madre, non me la
domanderete. Per la sistemazione dei nostri rispettivi interessi, lascio fare a
voi, interamente. Infatti, nell'andarmene, mi preme di assicurarvi che vi
stimo moltissimo per il vostro carattere, la vostra delicatezza e la vostra
lealtà. Quando dovrete scrivermi, fatelo per mezzo del nostro notaio,
Métivier, col quale mi metterò in rapporti appena sarò arrivata. Sappiate
che se ricomincerete la vostra vita, ne avrò sollievo, poiché sinceramente
rimpiango di non aver potuto amarvi, mentre voi mi avete amata molto. Non
eravamo fatti l’uno per l’altra. Non vi domando di educare nostro figlio in
modo che gli resti intatto nel cuore l'affetto per sua madre. Non sareste voi,
se agiste diversamente. Parlando vi così, vi do certamente la massima prova
della mia stima, nel momento in cui vi dico addio per sempre.
Addio, Gianmaria”.
- Dunque, è vero? - riprese il figlio, mentre la madre rimaneva immota,
paralizzata dall'orrore, all’udire passare in quella voce, ch'era sempre stata
rispettosa e affettuosa per lei, l'ira di un delirio parricida. - Tu sapevi!...
Sapevi!...
- Gianmaria! - esclamò la povera donna, supplichevolmente.
- Sapevi! - egli ripeté, interrompendola. - E l'altro giorno, quando venni da te,
agonizzante per inquietudine, ad implorare la verità dall'unico essere di cui
potessi fidarmi, tu mentisti!... - (A questo punto, la madre cercò di parlare... )
- Taci! Per anni... è scritto qui, in questa lettera... tu m'hai lasciato badare
quella bambina come mia figlia, mentre sapevi che non era mia!... E tu
vedevi questo... e lo permettevi!... Tu... tu, mia madre, aiutavi quella donna
ad ingannarmi!... Il mio migliore amico, mia moglie, mia madre, tutti
traditori! ...
Ella fece un passo verso di lui, tendendo le braccia:
- Non avvicinarti! - gridò Gianmaria, respingendola con un movimento tanto
violento, da farla urtare contro una seria, e cadere...
Non aveva ancora potuto alzarsi, la poveretta, e già il demente usciva dalla
stanza, dando uno spintone a Bourrachot, che, attirato dagli scoppi di quel
furore, accorreva presso la sua padrona. Il brav'uomo la vide, semisvenuta,
aggrapparsi penosamente ad un mobile, e mentre l'aiutava a rialzarsi,
domandò:
- Che aveva, signora, il signor Gianmaria? Mi ha fatto pensare al mio povero
padrone defunto...
- Hai ragione! - sospirò Maria Vialis, come se quelle parole del domestico
che era stata testimone dell'atto insensato del padre ravvivassero in lei il
pensiero del pericolo mortale da cui, in quel momento, il suo figliolo era
minacciato. - Corrigli dietro, Bourrachot! - ella soggiunse; - riconducilo
qui!... Subito! capisci?… Non può esser lontano...
Quella scossa che certo poteva mettergli in mano un'arma, e che elle gli
aveva evitata di settimana in settimana, di giorno in giorno, d'ora in ora, per
tutta l'infanzia, per tutta la gioventù, il figlio del suicida l'aveva avuta! ... Ed
ella non si era aggrappata alle sue braccia, alle sue spalle, ai suoi abiti, per
impedirgli di allontanarsi!... Ma Bourrachot doveva averlo raggiunto, proprio
in quel momento, e certo gli parlava, l'obbligava a tornare... Aveva tanto
cuore, Gianmaria! Appena uscito, doveva essersi vergognato, sicuramente,
dell'empio suo gesto di poco prima... E sarebbe ritornato! ....
La poveretta ebbe un forte sussulto, quando rimasta sulla soglia, rivide il
domestico che riattraversava il cortile, solo.
- Il signor Gianmaria era venuto in carrozza - disse Bourrachot; - la carrozza
svoltava già all'angolo della via... Mi sono messo a correre, ho chiamato, ma
il vetturino non ha udito.
- Presto! la cameriera!... - disse la signora Vialis; - il mio mantello, un
cappello!... Corri a cercarmi un fiacre, Bourrachot!... Presto!... Presto!... Ah!
mio Dio!... Non l'ho trattenuto, l'ho lasciato andar via!...
Sì. L'aveva lasciato uscire... non l'aveva trattenuto!... Dove, dove sarebbe
andato, Gianmaria?... Forse, balzando giù dal fiacre nella via affollata, si
sarebbe precipitato sotto le ruote d'un omnibus!... Oppure, giunto alla Senna,
vi si sarebbe gettato, dall'alto di un ponte! ... O sarebbe tornato a casa sua,
dove... Una frase di Brierre de Boismont, sulla quale aveva meditato tante
volte, le tornava in mente, testuale, mentre il fiacre procurato
immediatamente da Bourrachot la porta va in via Villejust. Ella aveva dato
questo indirizzo al vetturino... Solo in via Villejust, avrebbe potuto sapere
qualche cosa, se... “La ripetizione ereditaria - dice Brierre - non si manifesta
soltanto con la riproduzione dell'atto, ma spesso, dopo lunghi anni
d'intervallo, con la copia più esatta del genere di suicidio” (BRIERRE DE
BOISMONT, Du suicide et de la folie suicide, cap. I, pag. 18). La visione di
Giovanni Vialis, ritto davanti allo specchio, con la canna della rivoltella
puntata sulla frante, le s'imponeva, come un'allucinazione. Giungeva le mani,
la poveretta, e ad ogni giro di ruota, pregava:
- Mio Dio! Fate ch'io giunga a tempo!
Finalmente, ecco l'Avenue Kléber. Come le sembra lunga la breve salita con
cui la via Villejust s'apre su quella larga arteria! Ecco la palazzina.
- Aspettate, - dice la povera madre al vetturino. Non dovrà in caso di
disgrazia, correre subito altrove? Con voce strozzata, domanda al portinaio: È in casa, il signore?...
Quella stessa domanda, la rivolse ventisette anni prima, al portinaio di via
San Domenico, tornando dalla messa, il giorno in cui Giovanni Vialis si
uccise... Se ne ricorda, e come le batte il cuore, all'udire la risposta, che è
affermativa! “Pagate il vetturino” dice, senza badare all'espressione singolare
della fisionomia di quell'uomo. Egli ha visto partire Sabina con le valige...
poi Gianmaria lacerare febbrilmente la busta della lettera lasciata da Sabina...
Naturalmente, quei fatti gli suggeriscono un'ipotesi che riassume a modo suo
poco dopo, dicendo sua moglie:
- Scommetto che la signora ha piantato il padrone, per andarsene con un
amante! Guarda un po' come trotta la vecchia!
Infatti la madre, fuori di sé, saliva correndo la scalinata d'accesso, poi le
scale, coll'angoscioso timore di giungere troppo - tardi anche questa volta!
- Il signore è nel suo studio... - le dice il cameriere, accorso, ad una semplice.
scampanellata, sul pianerottolo del primo piano.
Ella non guarda nemmeno quell'altro testimonio, né vede con quali occhi
quell'uomo la osservi. In quegli occhi, c'è tutta la curiosità beffarda che
hanno i servi malevoli per i drammi coniugali dei loro padroni. Per lei esiste
un solo fatto: il domestico è lì; dunque non ha udito alcuna denotazione. Si
slancia nel corridoio che conduce allo studio. La porta è chiusa a doppio giro
di chiave. Ella bussa violentemente, con un'indicibile angoscia nel cuore....
Suo figlio le apre... forse obbedendo ad un riflesso meccanico, assolutamente
incosciente, proprio nel momento di terminare i preparativi del suicidio!...
Oppure, un'ultima e folle illusione gli ha suggerito che Sabina possa essere
ritornata, pentita... Egli vede sua madre. Indietreggia... C'è una lettera, sullo
scrittoio; una lettera ch'egli stava per chiudere... Lì accanto, la penna,
deposta in quel momento... La madre si precipita, legge la soprascritta... La
lettera è per lei!... Dalla serratura d'un cassetto rimasto semiaperto, pende un
mazzo di chiavi che dondola ancora. La madre tira a sé quel cassetto, lo apre
bruscamente... C'è un revolver, del quale s'impadronisce subito... E grida:
- Anche tu!... Come lui!... Anche tu vuoi darmi lo stesso strazio!...
Ucciderti!... Ucciderti! - ripete, fuori di sé. - E mi scrivevi... Come lui!...
Come lui! ...
Da quando ella era entrata, Gianmaria rimaneva ritto presso la porta, con le
braccia conserte, con la stessa espressione di furore concentrato che aveva
avuta mezz'ora prima, in casa di lei. La sua crisi di disperazione continuava.
Delle frasi di sua madre, sì stranamente enigmatiche, e che avrebbero dovuto
stupirlo, l'aveva colpito una sola parola, che s'accordava con la sua sinistra
risoluzione...
- Sì! voglio uccidermi! Soffro troppo!...Non posso sopportare ciò che m'ha
fatto Sabina, ciò che m'hai fatto tu!
Gli stessi dolori si manifestano con gli stessi gridi. Quel “soffro troppo”, quel
“non posso”, erano parole d'agonia che la vedova del suicida aveva lette in
quella lettera d'addio che aveva rievocata.
- Ciò che t'ho fatto?... - gemette. - È vero... Tu non puoi capire!...
S'interruppe. Lottò con sé stessa. Il professor Vernat le aveva tanto
raccomandato di non parlar mai a Gianmaria del suicidio del padre, perché
non ne avesse l'ossessione e non subisse la tentazione d'imitarlo!... Ma quel
silenzio risultava inutile. Gianmaria non sapeva nulla di quel suicidio, e
l'imitava!... Ella poteva parlare, ora... Poteva raccontare le sue angosce... E
parlava... Nel confessare il lungo martirio, la sua voce diveniva tanto
patetica! tanto commovente!... Era veramente un sospiro de profundis, era il
lamento di un'anima scesa nell'abisso d'una pena senza rimedio, e che
piange, e che compiange sé stessa, per tutto ciò che amò, per tutto ciò che
ama. Gianmaria non l'aveva mai udita, quella voce di sua madre. E la
sorpresa che ne provava cominciava a destarlo dalla sua frenesia… La madre
gemeva ancora:
- Eppure, mi hai vista vivere, figlio mio... Sai che non ebbi mai alcun
pensiero che non fosse per te, alcun sentimento che non fosse per te!... Come
hai potuto non pensare, poco fa, che tua madre, della quale certo non puoi
dubitare, deve avere avuto una ragione molto, molto forte, per nasconderti
ciò che ti nascose! ... Dovevi pensare che ho sofferto molto, sapendo
quell'infame segreto e astenendomi dal dirtelo!... Sì! Sì, purtroppo!... La so
già da tempo, la colpa di Sabina; so già da tempo la vergogna della nascita di
Giulietta... e da tempo agonizzo dal dolore, e ne soffoco, e taccio!...
Perché?... Perché, mi domandi?... Non hai dunque udito, or ora, il mio
grido?..“Anche tu! Anche tu! come lui!...” Come lui... E non hai capito?...
- Come lui?... - ripeté Gianmaria. - Ma di chi si tratta, mamma?
Ella gli si era avvicinata, parlando, e dal suo dolore emanava come un fluido,
che lo dominava... Dal suo dolore, dal suo volto in lagrime che si protendeva
verso di lui, e da quegli occhi pieni d'una febbre d'angoscia, e da quelle mani
che gli si contraevano sulle spalle e sulle braccia, e che ad un tratto
ricaddero... La povera donna abbassava il capo, come impaurita dalle parole
che pronunciava: ,
- Di tuo padre! Si tratta di tuo padre!... - gli rispondeva.
- Di mio padre? - balbettò Gianmaria, in un sussulto di violenta sorpresa.
Le braccia, ora, gli pendevano lungo i fianchi. La sua fisionomia era mutata.
Egli guardava sua madre con una specie di stupore, simile a quello di chi
riacquista i sensi dopo uno svenimento... E andava ripetendo:
- Di mio padre?.. Ma dunque si uccise, mio padre?...
- Sì, figlio mio!... Si uccise come ti uccideresti anche tu, in questo momento,
se Dio non avesse voluto ch'io fossi qui!
Ella si fece il segno della croce, chiudendo gli occhi, mentre grosse lagrime
le scendevano sulle guance rugose, e continuò:
- Ah! ho proprio dovuto dirtela, l'atroce verità!... Anch'io, soffersi troppo,
quando fosti tanto crudele verso di me!... Nemmeno a me fu possibile
sopportare che tu pensassi di me ciò che t'ho visto pensare!... Ma ora saprai
tutto il martirio di tua madre, e saprai quanto ti abbia amato!..
E, ansante, come spaventata dalle proprie parole, soggiunse:
- Sì, figliolo mio... tuo padre si uccise! In quali circostanze, lo saprai più
tardi... Ciò che devi sapere subito, per conoscermi, per comprendermi, per
compiangermi, è ciò che Vernat mi disse allora... Fu Vernat, che mi confortò
in quei terribili momenti... Egli fu solo a sapere, insieme coi Bourrachot
marito e moglie... Anche uno zio di tuo padre, anche altri tuoi parenti si
erano uccisi... Vernat mi disse: “Avete un figliolo; salvatelo da questa
eredità!” E da quel giorno la mia vita non ebbe più a1cun'altra mira, figlio
mio, che quella di evitarti ogni dolore, di difenderti, di salvarti... Ma che
cosa ho ottenuto?... - (Ella indicò il revolver, che aveva posato sullo
scrittoio... Poi, riabbracciando Gianmaria, riprese): - Eppure, sì, ti ho salvato,
poiché sono qui, poiché tu respiri, e mi odi, e mi baci!... (Gianmaria, infatti,
l'aveva baciata) - Oh! grazie! grazie!... Ma ascoltami ancora... Ah! sono
troppo commossa!... Mi manca la voce, mi mancano le parole... Ma se non ti
spiassi tutto, in questo momento in cui mi ridai il tuo cuore e che forse non si
ripeterà, quando quando, mi giustificherei?..“Anzitutto, ch'egli ignori il
suicidio di suo padre!” mi aveva detto Vernat; e tu non ne sapesti nulla.
“Abbiate ogni premura per lui; evitategli tutte le emozioni!”. Ed io ti tenni
sempre presso di me, con infinito amore, e non ti misi in collegio, e ti feci
studiare senza destinarti ad alcuna carriera... Se tuo padre non avesse avuto
ambizioni, non sarebbe stato capo gabinetto di un ministro, non gli
avrebbero rubata una carta affidatagli da un ministro... Si credette
disonorato, per quel fatto, e... - (Ella indicò di nuovo l'arma, sul tavolo. ) Ma in questo momento, voglio parlarti soltanto di te... Fu per la stessa
ragione, che quando volesti prendere moglie, la tua scelta mi afflisse tanto. Avrei voluto per te una moglie che continuasse l'opera mia. Non feci nulla,
tuttavia, per impedire quel matrimonio, perché sentivo che eri
profondamente innamorato. Ebbi paura che tu avessi a soffrire... Quando
avevi negli occhi una tristezza, figlio mio, rivedevo lo sguardo di tuo padre,
alla vigilia del terribile giorno, mentre cominciava a disperarsi! L'aveste
quello sguardo appena ti feci qualche piccola obiezione allorché tu mi
nominasti Sabina Lancelot... E poi ti sposasti. Mi fosti tolto. lo mi ritirai,
tremando. Pensavo: “È felice; soltanto questo ha importanza... ”.
Avevi già oltrepassata l'età in cui tuo padre si era ucciso, come già suo zio, Il
buon dottor Vernat m'aveva detto che quello era il periodo critico, e che
ormai ti considerava come guarito. Ora puoi capire… Mi sembrò
d'impazzire, quando cominciai ad avere qualche sospetto dell'ignobile
tradimento. Potevi indovinarlo anche tu!... Quanto io abbia sofferto negli
ultimi cinque anni, lo sa soltanto il mio crocifisso!... I miei sospetti
diventarono subito certezza. Non una volta, ma venti, ma cento, uscii di casa
per venire da te con questo pensiero: “Se deve saper tutto, un giorno o l'altro,
è preferibile che sia io, a dirgli tutto... ” Ma ti trovavo sempre tanto
fiducioso! E dicevo a me stessa: “In realtà, non ho che qualche indizio... mi
manca una prova innegabile... non ho visto nulla... ” E non parlavo. Ma
venne un giorno in cui tu sospettasti la verità... E allora cominciò la tortura,
per me... Tu mi rendevi presente, terribilmente, l'idea fissa che fu il tormento
di tutte le mie ore, per venticinque anni!... Conosco sì bene tutte le
espressioni del tuo viso! E ti vedevo una ruga in mezzo alla fronte, e vedevo
contrarsi le tue labbra, e vedevo il tuo pallore!... Ora ciarlavi per stordirti, ora
tacevi troppo. Le tue collere frequenti mi facevano male, e il tuo silenzio mi
faceva paura! Ma poteva darsi che tu dubitassi soltanto, e che il tuo dubbio
svanisse a poco a poco... Dirti il dubbio che avevo io, sarebbe stato un
rischio eccessivo. Non osai... E poi, tu mi scrivesti quel giorno perché volevi
parlarmi... Pensai che certo mi avresti interrogata su Sabina, sulla bambina...
Che dovevo fare? Consultai Vernat, che mi disse: “A qualunque costo,
risparmiategli ogni certezza dolorosa. Negate! Negate! Se è geloso, non può
avere che dei sospetti. Se gli farete intravedere i vostri, moltiplicherete i suoi,
e determinerete l'esplosione.” Queste furono le sue parole. Gli obbedii.
Vernat mi aveva detto anche: “Parlate a vostra nuora. La fermerete, se non ha
ancora oltrepassato il periodo delle civetterie.” Tu venisti da me; mi parlasti
del disonore di Saintenois, di quel miserabile... Quel fatto, avrebbe
determinata la fine subitanea della colpevole relazione! Così pensai, almeno,
e mi sentii sicura che Sabina avrebbe avuto orrore di avere amato un
truffatore. “Se si pentisse!... - pensai. - Se finalmente comprendesse la
superiorità del cuore, dei sentimenti di Gianmaria!... ” Quanto dovetti
soffrire, ancora, figlio mio, durante quel colloquio con lei, giungendo perfino
a prometterle di difenderla presso di te, purché ti si riavvicinasse!... Sì,
tutto... tutto: la menzogna, la vergogna, la complicità... tutto, piuttosto che...
Ella aveva toccato l'arma rimasta sullo scrittoio, ed ora la spingeva verso suo
figlio, mentre finiva la dolorosa confessione con questo grido straziante:
- Adesso, figlio mio, fa ciò che vuoi! Ma prima, uccidi tua madre! Le farai
meno male!... .
- Mamma! - supplicò Gianmaria.
Si era buttato in ginocchio davanti a lei, e, baciandole le mani,
contemplandola, le ripeteva :
- Mamma! perdonami!... Dimmi che mi perdoni!... Sono stato spregevole,
poco fa... Ma, vedi, ero troppo infelice!... Pensare a Sabina, partita con
quell'uomo... mentre credevo ancora in loro, malgrado tutto!... E pensare a te,
mamma... a te che, m'ispirasti sempre tanto rispetto, tanta venerazione...
dopo aver letto, in quella lettera, che sapevi tutto!... Avevo detto a me stesso.
“Non è possibile! Se mia madre avesse saputo, mi avrebbe parlato!... ” Ma
quando ho compreso, da te, che era vero, che tu sapevi, la mente mi si è
oscurata, ho avuto una sensazione di vertigine, di crollo totale, di fine
inevitabile, e poi... - (A sua volta indicò il revolver) - Ora, la luce è fatta. Ora
capisco quanto fu dolorosa la tua vita e quali prove d'affetto mi desti sempre,
ogni giorno, anche ieri!... Ah! mamma! Perdono! Perdono, per le parole che
ho pronunciate, per i sentimenti che ho avuti!... Dimmi che mi perdoni,
mamma!
- Non posso! - disse ella, con un sorriso debolissimo, che però illuminò il suo
volto immensamente triste. - Non ti ho mai giudicato colpevole... - E,
stringendosi al cuore, appassionatamente la testa del figlio, soggiunse: - Ma
tu, figlio mio, figliolo mio caro, giurami....
Gianmaria non le lasciò finire la frase, e, alzandosi, disse:
- Che non farò come mio padre?… Te lo giuro, mamma!
Aveva messo in quel giuramento una solennità singolare. S'avvicinò allo
scrittoio, allontanò da sé il revolver con un gesto brusco, prese la lettera
pronta lì accanto, la ridusse in molti piccoli pezzi che gettò tra le fiamme del
caminetto. Quale contrasto, fra il suo furore di poco prima e la calma
improvvisa delle sue parole e dei suoi gesti in quel momento!... Le grandi
scosse morali producono talvolta simili mutamenti istantanei. Così la goccia
d'acqua fredda spezza ad un tratto il fumoso getto di vapore. - La signora
Vialis, affranta dall'emozione, si era lasciata cadere in una poltrona...
Gianmaria le si sedette accanto, su una sedia bassa, e, coi gomiti sul
bracciolo della poltrona della madre, con la fronte fra le mani con gli occhi di
chi guardi nel più lontano orizzonte del proprio spirito, mormorò:
- È strano, mamma... Ti ho sentita soffrire tanto, dianzi, che la mia
sofferenza è come sospesa... E poi, questa rivelazione, questa cosa terribile
che non avevo mai nemmeno sospettata... ! Mio padre, dunque, si uccise, e
prima di lui si uccisero un suo zio, altri parenti!... E da trent'anni povera
mamma cara, tu porti sul cuore il peso di questo segreto?... Bisognerà ch'io
sappia tutto, di quella morte! Me l'hai promesso... Ma non ora. Sarebbe
troppo!... Ecco dunque perché, nella mia vita, tante volte, quand'ebbi dei
dolori, piccoli o grandi, pensai di andarmene per sempre! Mi sorgeva dal
fondo dell'essere, quel pensiero! Mi attirava, e mi faceva paura... L'avevo
dunque nel sangue!... Nell'estate scorsa, quando diventai geloso di
quell'infame, come mi tentò, il gran sonno!... Un giorno, straziato, torturato,
come stregato, passavo davanti al negozio d'un armaiolo. Eravamo stati a
colazione fuori di casa, con Saintenois. Sabina e lui avevano parlato molto,
fra loro. Per una specie di punto d'onore, non me ne ero interessato... Ma che
crisi, dopo! Si ha una sensazione dolorosa, come di artigli che afferrino
dentro, qui sotto al cuore... Mi fermai davanti a quel negozio.
Impulsivamente, vi entrai. Comprai quell'arma. - Venni a casa. La caricai...
Mi misi davanti a quello specchio e mi puntai la canna sulla tempia... Allora,
una voce interna mi disse: “È una vigliaccheria, uccidersi!... È una
vigliaccheria!” Gettai il revolver in un cassetto. Mi ero riavuto. Ma la
tentazione mi riprese. Non c'è nulla d'analogo a questa vertigine. Dopo, ci si
desta come da un delirio... Ora capisco bene. Era un'ossessione!... Mamma!
tu mi hai liberato, esorcizzato, istantaneamente... È straordinario!...
Quell'attrazione contro la quale dovevo lottare, si manifestava in me in
accessi improvvisi, come una febbre. Non me la spiegavo. Non sapevo come
combatterla. Tu ora, me ne hai dato il mezzo, mamma, rivelandomi la tua
agonia... Basterà ch'io mi ricordi delle tue lagrime, del tuo grido!... Ah!
perché non mi parlasti prima?... Il professare Vernat è un gran medico, ma s'è
ingannato. Per vincere un'ossessione, bisogna anzitutto prevenirla, e per
prevenirla bisogna conoscerla. Egli temette che l'idea di una fatalità potesse
privarmi d'ogni forza su me stesso... Forse sarebbe stato così, se non avessi
avuto in te, mamma, un punto d'appoggio... Capisci, ora, quanto sarebbe
stato meglio se avessi saputo tutto?... Quando volli sposare Sabina, tu non
avresti evitato di dissuadermene. L'amavo molto; ma amai sempre te, molto
di più. Avrei pensato anche, comprendendo il tuo lungo martirio, che tu
avevi diritto ad una nuora per la quale potessi avere dell'affetto... Oppure, se
non t'avessi dato retta, e se le cose fossero andate allo stesso modo, tu non
avresti dovuto nascondermi i tuoi sospetti, e, avvertito, avrei forse potuto
togliere di mezzo il pericolo... Almeno, quando nacque la bambina, avremmo
scoperto insieme ciò che indovinammo poi separatamente, soffrendo tanto.
Avrei avuto la forza che ho adesso, da quando m'hai parlato. Infatti l'ho,
questa forza... L'ho, e non la perderò più. Ti ripeto che mi hai liberato. Lo
sento!
- Ebbene, figlio mio, - disse la madre, - devi dimostrarmelo.
Ella si era alzata, mentre suo figlio si confessava così, a sua volta, con una
padronanza di sé, e con una lucidità che per lei, dopo la scena tanto recente
di via San Domenico, era quasi miracolosa.
- In che modo? - domandò Gianmaria.
- Promettendomi, per le mie lagrime, poiché mi dici che t'hanno liberato, di
fare per tuo figlio ciò che ho fatto per te.
- Di vivere per salvarlo, anche lui?... Sì, vivrò e lo salverò. Ma a lui, appena
potrà comprendere, parlerò come tu mi hai parlato ora. Ti ripeto che è
necessario sapere, per lottare meglio.
- Hai ragione tu, - disse la madre, dopo un silenzio, - e Vernat aveva torto. Lo
credo. Lo vedo. Non c'è che la verità, che possa salvare... Sì, sapere come
siamo, sapere ciò che abbiamo in noi, ciò che dobbiamo vincere in noi! Il
povero piccino è già colpito da una sventura che a te non toccò.
- La partenza di sua madre? - disse Gianmaria.
Ed ella lo vide chiudere gli occhi. Era ripreso dal sentimento acuto della sua
infelicità, rimasto sospeso, come aveva detto egli stesso? Si alzò, ad un
tratto, e si passò le mani sugli occhi, come chi voglia scacciare un incubo.
- Prendi! Porta via... - disse a sua madre, afferrando il revolver e
introducendolo nel manicotto ch'ella aveva deposto su di un mobile. Poi,
abbracciandola di nuovo:- Ti supplico ancora di perdonarmi, mamma!...
Metteremo fra il mio dolore e me, il mio povero figliolo! ...
Per uno di quegli sforzi che formano l'eroismo della vita domestica, un
sorriso gli errò sulle labbra, dopo ch'egli ebbe pronunciate quelle parole tanto
tragiche; e guardando la pendola, soggiunse:
- Mezzogiorno e mezzo! Avevo ordinato che il piccino facesse colazione da
solo... Dev'essere tanto triste, senza nessuno! Andiamo a metterei a tavola
anche noi, mamma... Tu prenderai il posto di sua madre...
- Sì, figlio mio.
- E non soltanto oggi! - implorò Gianmaria.
- Vorresti che venissi a vivere con te? - domandò la signora Vialis.
- Sì, mamma.
- Accetto, - disse ella, dopo un altro silenzio. - Anch'io devo liberarmi, devo
dimenticare ciò che avvenne laggiù, in via San Domenico, e guarire la mia
ferita che non cessò mai di sanguinare... Ti aiuterò, e tu pure, ora che
possiamo parlare, aiuterai me. Ma, per finire... - Esitò, poi soggiunse
gravemente: - Gianmaria, tu credi in Dio, non è vero?
- Sì, - rispose lui, con uguale gravità.- In questi ultimi tempi; ebbi molti
dubbi. Ma se Dio non esistesse, donde verrebbero le anime come la tua? Ripeté: - Sì, credo in Dio!
- Dunque ringrazialo insieme con me della grande grazia che ci ha fatto,
permettendo a tua madre di non giungere troppo tardi. Inginocchiati accanto
a me, come facevi da bambino, mattina e sera. Insieme, domanderemo la
forza di perseverare.
Il figlio obbedì alla madre. Rimasero così per alcuni minuti, pregando in un
silenzio di raccoglimento. Quando si alzarono, la signora Vialis disse a suo
figlio:
- Ho pregato anche per lei... per quella disgraziata...
Indicava un ritratto di Sabina, che era sul caminetto. Vide che Gianmaria
trasaliva, e appoggiandosi al suo braccio per trascinarlo verso la porta, disse
ancora: Pensa alla frase riguardante il nostro Renato, da lei scritta nella sua
lettera. Ad ogni modo, è sua madre...
- E poi non sappiamo che sarà di lei... non sappiamo qual sorte l'aspetta...
Verrà forse un giorno nel quale la compiangerai.
XIII
Epilogo.
Il professor Vernat non lasciava passare giorno senza redigere qualche
osservazione, fatta nel suo ospedale o fra la sua clientela. Tutti i grandi
lavoratori intellettuali della sua specie hanno procedimenti propri, che
rasentano la mania, per raccogliere e classificare le loro documentazioni.
Vernat faceva intercalare dei fogli nei volumi della sua biblioteca
professionale ai quali attribuiva maggiore importanza. Poi scriveva sulle
pagine bianche i suoi appunti clinici, che così servivano di commento al
testo stampato. Come si penserà, il dramma intimo che si era svolto sotto i
suoi occhi in casa Vialis, l'aveva interessato troppo, perché non cercasse di
estrarne il significato psicologico, o, per usare il suo linguaggio, psichiatrico.
La nota nella quale compendiò le sue riflessioni figurava nel Trattato di
medicina legale pubblicato - circa quarant'anni fa - da Legrand du Saulle,
predecessore del giudizioso Paolo Garnier e del geniale Ernesto Dupré
all'Infermeria speciale annessa al carcere della prefettura di polizia.
L'undecimo capitolo di quell'opera già antica contiene pagine eccellenti, che
riassumono i pareri della scienza d'allora sull'etiologia del suicidio. A fianco
del paragrafo sull'Influenza dell'eredità, Vernat aveva tracciate le linee
seguenti che si giudicò interessante trascrivere, nonostante la loro
terminologia un po' astrusa e d'altronde molto arbitraria, come conclusione a
questo racconto. Certo il professore teneva particolarmente alla sua formula
personale sulle fatalità dell'atavismo, poiché aveva messo due titoli la quella
sua nota; il primo, assolutamente tecnico. Terapeutica possibile del suicidio;
l'altro, nel quale si ritroverà la sua metafora preferita: La breccia nella
Prigione. Ma ecco la nota, alla quale egli aveva aggiunto in margine: “19041914. La guarigione sembra sicura”. Prova che quest'aggiunta è
dell'ultimissimo periodo della sua vita. Egli morì nel mese di giugno del
1914.
“Osservazioni su G. V. - Il padre si uccise nel 1877. Tentativo di suicidio del
figlio, nel 1904. Determinazione improvvisa. Scatto, per effetto di una
violenta commozione sentimentale, d'una tendenza certamente ereditaria.
Numerosi suicidi nella famiglia: prozio, bisnonno, altri parenti. Nota bene:
G., malato d'ansietà per tutta la vita, ignorò sempre il suicidio di suo padre.
Dunque, nessuna influenza dell'imitazione per ossessione. Si accinge ad
uccidersi come suo padre e suo zio, con un colpo d'arma da fuoco. Altro
indizio di eredità: legge d'omoprassi. Shok nel momento stesso del tentativo.
Sopraggiunge la madre. Scena fra madre e figlio, nella quale ella gli rivela il
suicidio del padre, e gli racconta i ventisette anni di martirio impiegati a
cercare di salvarlo dalla stessa fine. Rivoluzione nell'animo di G., dalla quale
egli esce guarito (???).
“Dati probabili della guarigione: - 1. Shok nel momento della crisi: È il fatto
brutale del rovesciamento. Analogia con l'ipotesi di Brown-Sequard sui
fenomeni di dinamogenia e d'inibizione per scossa delle regioni centrali.
Conferma della mia teoria sull'ictus benefico, quando si sa darlo.
“2. Effetto dello shok, prolungato dalla personalità della madre, la quale
comunica il suo tonus alla personalità più debole del figlio. Caso
d'interpsicologia (pithiatismo di Babinski?). Oscurità del processo, evidenza
dell'azione prodotta: elevazione della tensione morale, quindi della resistenza
vitale. Identità delle leggi della natura in tutti i campi. Frase di Pasteur:
“Diminuite con un mezzo qualunque quella resistenza vitale che, notate, non
ha nulla di astratto nei miei discorsi e rappresenta sempre una forma
concreta, e vedrete quei microbi prima innocui, prendere possesso
dell'organismo. Delle idee ossessionanti ereditarie considerate come bacini
psichici..
“3. Guarigione consolidata da una miglior disciplina di lavoro. Guarigione
dai pensieri neri per mezzo di uno scopo d'attività. Strano esempio citato da
Brierre de Boismant: “Una persona che per un gran dolore era caduta in
un'estrema disperazione, ne fu liberata dalla passione per gli autografi che
venne destata in lei. ” In questo caso, vecchie ricerche di storia, riprese con
successo.
“4. Altra disciplina bene applicata: altruismo. Partecipazione di G. alle carità
di sua madre. Contatto delle sofferenze fisiche, salutare per gli ammalati
morali, che si dominano meglio paragonandosi.- G. arriva a riprendere con
sé, dopo la morte della moglie, una figlia della quale seppe, con disperazione,
che non era sua. Reazione in senso contraria. Oscillazione sconcertante.
“5.Coadiuvante: rinascita di vita religiosa.
“6. Singolarità del casa: la rivelazione, da parte della madre, del suicidio del
padre, sembra abbia aiutata la guarigione. Fatto contrario all'opinione
consueta. Problema: è preferibile far sapere ad un ereditario tutta la sua
eredità? Altra analogia pasteuriana: questa nazione dell'eredità, che opera
come un vaccino mentale e produce un'immunizzazione. Ricercare se il caso
si verificò già, ed in quali condizioni...
“Punti interrogativi:
- a. Si avrà una ricaduta? Aspettiamo la prova. - b. Quid de filio? R. V. ,
figlio di G. ha quindici anni. Suo padre e la sua nonna vogliono rivelargli il
male di famiglia quando ne avrà diciotto. Che cosa si deve consigliare?
Questo angoscioso problema di coscienza medica, l'autore di quella nota
senza conclusione non ebbe modo di risolverlo, poiché morì, come si è detto,
nel giugno del 1914. In agosto, scoppiò la guerra. Gianmaria Vialis partì
immediatamente, come ufficiale della riserva. Fu coraggiosissimo nei cinque
anni di lotta, senza mai rimanere ferito. Anche suo figlio Renato volle
partire, appena ebbe diciotto anni.- Non occorre dire che né suo padre né la
sua nonna prima che partisse, gli gravarono il cuore del peso di un segreto
che avrebbe rattristato il suo slancio giovanile. Egli non tornò. Rimase ucciso
nel luglio del 1918, presso Reims, durante il terribile assalto dell'armata
Berthelot contro l'ala sinistra tedesca. Una di quelle coincidenze
commoventi, che esitiamo a considerare come dovute semplicemente al caso,
volle che il caporale Renato Vialis e il tenente colonnello Giorgio Saintenois
fossero nella stessa armata, senza saperlo. L'amante di Sabina fu ucciso in
quello stesso giorno, da una granata, a trecento metri di distanza dal giovane
al quale aveva, quattordici anni prima, rapita la madre. Quella morte eroica
riabilitò definitivamente quel fuorviato d'un ora. Egli aveva mantenuto la
parola data; aveva lavorato virilmente, guadagnando, negli Stati Uniti, tanto
da poter pagare il suo debito verso il Circolo. Appena dichiarata la guerra,
aveva abbandonato l'impresa d'allevamento, già importante che aveva
fondata nell'Ovest. Rientrato nell'esercito col grado di capitano, ferito tre
volte, caduto infine sul campo di battaglia, merita certamente che i fedeli del
generale Saintenois, suo padre, l'associno, nonostante il suo errore, al pio
ricordo che serbano di quell'ammirabile capo.
Gianmaria Vialis affrontò, dunque, la prova attesa dal professor Vernat... E
quale prova! La morte d'un figlio amatissimo, amorosissimo, nel quale aveva
posto le sue più care speranze d'avvenire. Egli sopportò quel terribile colpo,
cristianamente. Si sarà notato che in quella nota di un medico che s'impone
di parlare dei fatti morali unicamente dal punto di vista clinico, la rinascita
di vita religiosa, constatata nell'ereditario guarito, è citata come un
coadiuvante nella guarigione. Ma che cos'è un coadiuvante, in terapeutica? È
un rimedio ausiliare che favorisce l'azione della medicazione principale. Si è
visto in che consistesse, nel caso in questione, per Vernat, la medicazione
principale: - anzitutto, nella scossa, da lui chiamata shok per sottolineare la
somiglianza che voleva stabilire fra la scossa puramente psicologica e lo
shok chirurgico.
Ma se la signora Vialis non avesse intimamente, profondamente impregnato
suo figlio di quella, vita religiosa qualificata dall'ateo come coadiuvante,
avrebbe potuto, quel figlio, ritrovarsi capace, dopo quella scossa inibitoria, di
pregare con lo stesso fervore col quale poi si associò a tutte le carità di sua
madre? Vernat aveva parlato d'altruismo, per non parlare di carità, perché gli
ripugnava quella parola che si definisce: amore del prossimo in
considerazione di Dio. Ma, sopprimendo ogni interpretazione mistica del
dolore, come si può pretendere che un ammalato morale trovi un sollievo in
un contatto con sofferenze tali da provargli maggiormente che la vita è un
male e non merita d'esser vissuta? Come mai, anche, un realista come
Vernat, che conosceva dall'origine l'intensità passionale del carattere di
Gianmaria, aveva potuto annoverare fra le medicazioni principali di quel
cuore frenetico la ripresa dei suoi lavori storici? Certamente, questi lavori
furono per Gianmaria un rimedio contro la malinconia, tanto più che il suo
soggetto primitivo, la modo grafia dell'ultimo duca del Nivernese, si ampliò.
Egli si propose di scrivere l'intera storia di quel ducato, in tutte le sue
vicissitudini, che ne fecero successivamente una provincia romana,
un'appendice del regno d'Aquitania, un appannaggio delle dinastie dei
Borboni, di Borgogna e di Fiandra, fino a quando Mazarino lo riscattò infine
dai Gonzaga nel 1652. L'associarsi in spirito al destino di quell'angolo di
Francia offre evidentemente un interesse diverso da quello che consiste nel
riunire degli autografi. I due primi volumi di questa storia, che sarà completa
in cinque, furono pubblicati uno nel 1911, l'altro nel 1913. La guerra sospese
questa pubblicazione, che è già considerata come autorevole. Ma Vernat non
immaginò mai quante volte l'autore interruppe il suo lavoro, posando la
penna, chiudendo i documenti nelle cartelle, scoraggiato da uno studio tanto
noioso! Per arginare l'onda di amari ricordi che sentiva rifluire dal fondo del
suo passato, egli riapriva un libro assolutamente estraneo agli elementi di
storia ammucchiati sul suo tavolo. Era semplicemente una Imitazione, avuta
in dono da sua madre per la prima comunione. Egli stesso aveva scritto sulla
prima pagina di quel libro: “Cristo è il Dolore. Il Dolore è l'Essere, nella
verità del suo essere”, e vi rileggeva senza fine il capitolo dodicesimo del
secondo libro sulla Via regale della Santa Croce. “Se qualcuno vuol venire
con me, rinunci a sé stesso, sollevi la sua croce, e mi segua”.La medicazione
principale è questa professor Vernat! Il rimedio ausiliare, il coadiuvante, - è
il resto.
Questa devozione, sempre più fervida, e rimasta uguale, nelle pratiche, a
quella della madre, è la sola cosa che possa spiegare un mutamento che la
nota del medico dichiara sconcertante: quello relativo a Giulietta, figlia
dell'adulterio, affermata tale nella confessione scritta di Sabina. Si sarà
capito, seguendo la nota, che la felicità sognata da quella sciagurata donna
non era durata. Sabina aveva lasciato Parigi al principio del mese di
novembre del 1904. Fu sepolta nel mese di gennaio del 1907, a Denver, dove
Saintenois si era stabilito da principio. Una malattia infettiva l'aveva uccisa
in pochi giorni. Contrariamente alle sue previsioni, nessuna domanda di
separazione era stata presentata, né alcuna sconfessione di paternità, dal
marito abbandonato. Si comprenderà che Gianmaria aveva pensato a suo
figlio Renato, come nel passato sua madre aveva pensato a lui, con la ferma
volontà di evitargli più tardi delle scosse troppo crudeli e le loro possibili
conseguenze. Il ragazzo non aveva dimenticato né sua madre, né sua sorella.
Non era preferibile che nessun documento ufficiale gli apprendesse mai, con
indiscutibile certezza, ciò che i casi imprevedibili della vita avrebbero forse
permesso di tenergli nascosto? Gli avevano detto - e tale era d'altronde la
versione adottata per gli estranei - che una crisi di salute rendeva necessario
l'isolamento di Sabina in una casa di riposo, all'estero, e che ella aveva
condotto con sé sua figlia, e che tutt'e due sarebbero ritornate presto. Era
giunta la notizia della morte, e Gianmaria aveva preso una decisione, che
infatti era difficile concepire e sostenere, se non ricorrendo ad una di quelle
ragioni, delle quali parla Pascal, che non sono comprese dalla ragione. Egli
aveva rivendicati i diritti che il Codice gli dava su Giulietta, e il padre vero
non vi si era opposto, o perché non avesse voluto un processo che certamente
gli sarebbe stato sfavorevole, o perché, essendogli nota la nobiltà di carattere
del suo amico d'altri tempi, vedesse in quel ritorno dell'orfana al focolare del
padre legale la probabilità di un avvenire migliore. Egli stava dibattendosi,
allora, fra tante difficoltà!... Gli era cosa sì dura acclimatarsi all'esilio, e le
sue condizioni erano tanto precarie! ... Giulietta, dunque, era ricomparsa nel
palazzo di via Villejust. È facile immaginare fra quali commenti, tanto più
che l'odio della seconda signora Lancelot, la matrigna, aveva perseguitato
Sabina anche nella sua figliola. Il vecchio Lancelot aveva rifiutato di vedere
quella creatura, che era del suo sangue e che veniva raccolta da Gianmaria,
solo legalmente suo padre.
- È ricca, e i Vialis vogliono mettere le mani sulla sua sostanza.
Queste ignobili parole, diffuse da tutte le signore Miossens, da tutte le
signore Ethorel, e da tutti i Portille, erano state riferite a Gianmaria, che le
aveva disprezzate.
Ormai, quelle maldicenze sono lontane. Vicinissimo, invece, è il matrimonio
di quella fanciulla (divenuta, dopo la morte di suo fratello, per le eredità
future dei Lancelot e dei Vialis, un magnifico partito) con Andrea Moreau
Janville, futuro erede, dal canto suo, delle Felnere della Rochelle. Alcune
frasi scambiate, la sera di questo matrimonio, fra Gianmaria Vialis e sua
madre, finiranno di spiegare con quale strumento fu aperta quella “breccia
nella Prigione” della quale Vernat si era stupito.
- Credi, mamma, - diceva Gianmaria dopo lunghi discorsi sulle probabilità di
vita felice della giovane coppia, sulle buone qualità di Giulietta, su quelle di
Andrea, tanto laborioso, tanto riflessivo e insieme tanto sensibile, - credi,
mamma, che la sua lontananza sarà un gran sollievo, per me!... In quattordici
anni, - (e cantava sulle dita) - non m'accadde mai di baciarla senza sentir
male qui!. - (e si toccava il cuore. ) - Somigliava troppo a lui!...
- Io lo seppi sempre, - rispose la madre, - e nemmeno. a me era cara la sua
presenza... Ma abbiamo agito bene. Il nostro povero Renato, almeno, non
ebbe mai nessun sospetta. Amava tanto Giulietta!...
- Fu appunto per lui, per continuare, quando egli non fu più con noi, ciò che
avrei fatto se fosse stata ancora qui, che io, ebbi la forza di non allontanarla...
E poi, come è scritta in quella vita di Mollevaut che leggevamo insieme
l’altro giorno: “il dolore equivale alla buona preghiera”... e noi abbiamo
qualcuno che ha tanto bisogno che si preghi e si meriti per lui!..
Seguì un silenzio. Il “qualcuno” il cui fantasma risorgeva tanto spesso fra
Gianmaria e sua madre, era il suicida del 15 ottobre 1877. Si ricorderanno le
parole che disse Vernat la sera di quel terribile giorno: “L'eredità rimane il
mistero dei misteri, mentre è la causa delle cause. Un prete la spiegherebbe
con la reversibilità; io, invece, la spiego con l'evoluzione delle cellule”. Nel
dogma della reversibilità, c'è però ben altro che la solidarietà fatale che
collega in un organismo o in una specie le energie delle cellule viventi. C'è
una solidarietà spirituale e creatrice, che, in questo mondo e nell’altro,
consente alle anime di aiutarsi reciprocamente. La signora Vialis aveva
vissuto di questa fede, e l'aveva comunicata. a sua figlio. Tutti e due
conservavano la speranza che l'atto tragico che li aveva resi, lei vedova, lui
orfana, avesse trovato grazia davanti alla Sovrana Giustizia, essendo stato
commesso in un eccesso di smarrimento, e che il suo autore potesse essere
salvo. L'immagine di quel padre che gli aveva trasmessa il funesto germe era
sorta, ora, nella mente di Gianmaria. Egli era seduto presso lo scrittoio nel
cassetto del quale, al momento della sua crisi, era stato in procinto di
prendere l'arma carica, allorché sua madre era sopraggiunta. Guardò la buona
vecchia, che mentre discorreva con lui, lavorava ad una maglia grigia, per un
povero... Fu preso da un'inesprimibile commozione, s'impadronì di quelle
venerabili mani, le baciò teneramente, religiosamente, e disse, riassumendo
in una frase, senza saperlo, tutta la terapeutica del suicidio, della quale
Vernat aveva sognato come tanti altri.
- Mamma! come posso ringraziarti d'avermi salvato?..
- Io, no, figlio mio... Tu, da solo...
- Sì! tu, mamma, insegnandomi col tuo esempio a saper soffrire e a dare un
significato al mio dolore!
Maggio, 1922 - gennaio 1923.
FINE.