fiacre - Leo d`Alessandro
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fiacre - Leo d`Alessandro
PAUL BOURGET LA PRIGIONE (La geole) Traduzione di DECIO CINTI, ED. ATHENA, 1923, MILANO INDICE I. - La lettera rubata II. - Il 14 ottobre 1877 III. - Il professor Vernat IV. - L'appello alla madre. V. - Dopo ventisette anni. VI. - La minaccia VII. - Madre e figlio VIII. - Suocera e nuora. IX. - Gli amanti X. - Verso la catastrofe. XI. - Verso la catastrofe (seguito) XII. - L'esorcismo XIII. - Epilogo I. La lettera rubata. Il peggiore e il più rattristante male che producano le guerre civili è l'alterazione della moralità nelle coscienze fondamentalmente delicate. Le tentazioni della vita privata non le avrebbero mai sfiorate; il fanatismo le falsa subitamente. Si tratta di servire la Causa, e, nell'ardore della lotta, il partigiano non indietreggia davanti agli atti più evidentemente colpevoli: tradire una confidenza, spiare un amico, comprare una testimonianza, violare il segreto di una corrispondenza, praticare la delazione. La tragica avventura che vorrei narrare oggi ebbe per punto di partenza uno di quei traviamenti dei quali chi se li permette non potrebbe misurare le lontane e talvolta terribili conseguenze. È sempre il detto profondo della Sacra Scrittura: “Perdonatemi, Signore, quelli fra i miei peccati che io non conosco”, ed è anche la prova che il dovere non s'interpreta. Bisogna accettarlo umilmente, letteralmente. Semplice e saggia verità che gli esaltati della politica dimenticano incessantemente, nella frenesia in cui li getta l'Idea, come essi dicono tuttora, e un fervore religioso arde nelle loro pupille, nel momento stesso nel quale essi trasgrediscono al più elementare onore. Ma ecco il fatto, senz'altri commenti. Rigorosamente vero, come tutti i particolari degli avvenimenti che determinò, c'è pericolo che sembri abbastanza straordinario perché si sia giudicato necessario allacciarlo ad una legge di psicologia generale dominante purtroppo su tutti i periodi torbidi della storia. Il fatto risale all'autunno dell'anno 1877. Gli uomini, ora vecchi, che avevano allora l'età di interessarsi degli affari pubblici, se ne rammentano: la campagna elettorale scatenata dal mezzo colpo di Stato del 16 maggio provocava in tutto il paese una violenta sovreccitazione degli animi. Ma i rapporti personali rimanevano cortesi esternamente. D'altronde, non fu sempre così anche in crisi di un'altra intensità? Camillo Desmoulins non ebbe forse per testimonio del suo matrimonio, in pieno Terrore, quel Robespierre che pochi mesi dopo lo mandò alla ghigliottina? Fra i salotti nei quali s'incontravano, in un'apparente neutralità, avversari ed amici del Maresciallo, uno dei più simpatici era quello di una giovane coppia molto alla moda nella Parigi elegante di quei tempi lontani. Se sfoglierete un giorno i libri, troppo dimenticati, del cronista delle frivolezze di dopo la guerra del 1870, di quel vivace Fervacques, caro a Barbey d'Aurevilly, vi troverete il nome della graziosa signora Vialis, citato quasi ad ogni pagina. Ma Fervacques era già morto in quell'anno 1877 che segnò l'apogeo di quella breve regalità mondana, sinistramente interrotta. Ciò che rendeva paradossale, non già il successo di quella simpatica donna, ma l'eclettismo del suo salotto, era la condizione del marito di lei, capo di gabinetto di uno dei più aggressivi collaboratori del duca di Broglie. Alcuni particolari. biografici su quel capo- gabinetto e sul suo ministro spiegheranno questa anomalia. Giovanni Vialis, appena ventottenne, realizza va veramente il tipo del genere di servitori ricercato da Mazarino. “È felice, costui?” domandava anzitutto il giudizioso cardinale. Felice, infatti, era sempre stato quel giovane intelligente e leale; felice, almeno nel disegno visibile della sua sorte. Era uscito da una vecchia famiglia di proprietari di terre del Nivernese, divenuta opulenta per la sua partecipazione all'impresa delle ferriere d'Imphy. La sua fortuna aveva voluto che suo padre lo allevasse affettuosamente, ma severamente. Giovanni era stato messo prima nel collegio di Nevers, poi, come interno, al liceo Louis-le-Grand, a Parigi. Vi si era appassionato per le belle lettere, tanto che all'uscire dal collegio, premiato quattro o cinque volte nel Concorso generale, aveva potuto prepararsi alla licenza, cominciando già il corso di legge. Era stato licenziato primo nella sessione di luglio, durante l'estate stessa nella quale scoppiò la guerra franco- tedesca. Arruolato fin dal primo giorno, ebbe una condotta tanto brillante, che, quando Parigi fu liberata dalla Comune, poté ritornare all'Università di legge con un nastro rosso all'occhiello della sua giacchetta da studente. Aveva pagato il suo tributo al comune dolore umano perdendo quasi subito il padre e la madre. Ma quegli ottimi genitori, sapendosi ammalati, e per prolungare la loro protezione sul loro figliolo, l'avevano - ultimo benefizio loro! - unito in matrimonio con una deliziosa creatura di loro scelta, la quale lo aveva confortato col suo amore in quella circostanza, l'unica dolorosa in un'esistenza continuamente felice. Si può forse calcolare come un dolore la sorpresa di avere udito per caso, a sei anni, raccontare da due donne di servizio che un suo zio, il quale soleva viziarlo molto, si era ucciso con una pistolettata? Quelle ragazze ripetevano: “Il signor Andrea Vialis si è ucciso!” - Si è ucciso! Quelle poche sillabe avevano stupito il fanciullo troppo sensibile, che se le era ripetute indefinitamente, con un brivido di spavento immaginativo, confessato un giorno a sua madre. Egli non sapeva che quell'ingenua confessione aveva deciso suo padre a metterlo in collegio. “Bisogna virilizzarlo, lui!” Queste parole del fratello del suicida, Giovanni non le aveva nemmeno sospettate, né aveva potuto pensare che quella catastrofe di famiglia dovesse avere un'influenza assai benefica sul suo avvenire. Essa gli assicurava infatti quell'educazione più maschia di cui il suo temperamento troppo simile a quello dello zio, dal punto di vista dell'emotività, aveva certamente bisogno. Il collegio gli aveva giovato tanto, che, avendo avuto anche la fortuna di vedersi nascere un figlio, fin dal primo anno del suo matrimonio, aveva annunziata l'intenzione di educarlo allo stesso modo. “Il collegio è una scuola di energia”, diceva a sua moglie, che già era tormentata dal pensiero di una futura separazione dal suo Gianmaria. Avevano chiamato così il loro figliolo, per dargli un nome che unisse i loro due, simbolo di una passione reciproca, rimasta - nel 1877, e dopo cinque anni - ardente come nei primi giorni. Quando tornavano da qualche festa, la sera, stretti l'uno all'altra nel loro piccolo coupé, lui orgoglioso della bellezza e della grazia della sua giovane moglie, che come sempre era stata molto ammirata, - lei commossa nel ritrovarsi sola con lui e nel vederlo tanto affettuoso, - accadeva loro di confessarsi ad alta voce il comune pensiero, la comune speranza di avere una bambina, ora... una Giovanna- Maria che si trastullasse con Gianmaria. “Saremmo troppo felici!” diceva lei; e i suoi profondi occhi azzurri s'oscuravano quando soggiungeva: “Avrei paura!”. Frattanto, a quell'intima felicità del focolare domestico, venivano ad aggiungersi dei successi di carriera. Imparentato per parte sua e per parte di sua moglie, nata Taraval, con personaggi del partito conservatore, Giovanni Vialis s'era trovato già arruolato nella squadra di giovani ingegni che si raccolsero, dopo le dimissioni di Thiers, intorno ai capi d'un supremo sforzo di difesa sociale che fu poi anche troppo giustificato. Uno degli uomini più importanti del ministero del 16 maggio si era assicurata la sua devozione con la promessa di farlo entrare immediatamente, e addirittura dall'alto, nella diplomazia, se le elezioni fossero riuscite favorevoli, come speravano fermamente tutti i familiari dell'Eliseo. Quel patrono di Giovanni Vialis era un nuovo venuto nella politica, al quale il 16 maggio aveva dato il primo portafoglio. Grande industriale, egli pure del Nivernese, era stata mandato all'Assemblea di Bordeaux, a cinquantasei anni suonati, dallo scrutinio del febbraio 1871. Il maggior pericolo di tali ingressi alla Camera, un po' tardivi, non consiste nella presunzione dell'incompetenza che crede di saper tutto. Essa urta prestissimo contro le realtà, e s'infrange. Consiste, invece, in un eccesso di diffidenza che finisce in un abuso della riflessione. L'esordiente in politica, se ha dell'amor proprio e del criterio, si fissa così delle regole di condotta, sagaci in fondo, poiché risultano da osservazioni serie, da letture storiche, da prudenti conversazioni; ma il nostro coscritto del Parlamento le applica in un modo troppo sistematico. Ora egli crede troppo poco, ora invece crede troppo all'influenza dei piccoli mezzi. Questo errore, appunto, era quello dell'uomo di Stato, rientrato poi nella vita privata, dopo l'insuccesso dell'ottobre 1877, principalmente per effetto del dramma di cui quest'analisi è il prologo obbligatorio. Si capirà fra poco perché il suo nome non deve essere detto. In virtù di una di quelle regole, egli aveva scelta per capo del suo gabinetto un figlio di famiglia, ricca, elegante, che sarebbe passato facilmente per un dilettante desideroso di occuparsi o per un vanitoso in cerca di onori. Chi si sarebbe accorto della sua vera funzione, della quale egli stesso non avrebbe indovinata la natura? Egli avrebbe creduto alla simpatia del ministro, mentre questi si proponeva di servirsene per coprire le sue più delicate relazioni politiche e quasi poliziesche. L'uomo di Stato soleva dare i suoi appuntamenti più gravi e più segreti in casa dei Vialis, a pianterreno di un vecchio palazzo di via San Domenico, dove quella coppia di innamorati nascondeva la sua onesta felicità. Durante quel periodo di lotta accanita in cui i partiti si spiavano a vicenda con uguale animosità, egli incontrava in quella casa, e sempre con dei pretesti fallaci, certi agenti che considerava come compromettenti se li avesse ricevuti al ministero oppure nel suo domicilio privato. Un'altra delle sue massime: “L'uomo di Stato non ha mai troppi alibi”. Certe corrispondenze, particolarmente clandestine, gli giungevano sotto il nome del giovane, che conservava d'altronde la più intera libertà nei suoi rapporti di società o d'amicizia. Quella libertà, il suo principale non s'accontentava di lasciargliela: gliela imponeva. È questa la spiegazione dell'anomalia a cui accennavo: - il salotto di quel favorito d'un ministro di combattimento, aperto indistintamente a visitatori di tutti i partiti. L'ex- industriale, che andava machiavellizzandosi, - mi si perdonerà questo neologismo che qui è necessario - credeva soprattutto, lo ripeto, nei piccoli mezzi, nella studio dell'opinione, nell'utilità del contatto anonimo con l'avversario. Giudicava che ricevendo specialmente degli amici della sua età e di un altro ambiente, - Giovanni Vialis potesse informarlo meglio sugli “imponderabili”. Immaginava di essere verista nel pronunciare, strizzando furbescamente le palpebre, quel termine preso a prestito dalla fraseologia bismarchiana e che quasi basterebbe a datare questo racconto. Non eravamo tutti ipnotizzati, allora, dal prestigio dei vincitori del 1870, e specialmente del Cancelliere di ferro? Aggiungeremo, per dare il suo carattere di nobiltà a quella figura di ottimo francese, ch'egli voleva essere scaltrissimo, per servire meglio il suo paese, convinto che la sconfitta del radicalismo fosse, per la Francia, una questione di vita o di morte. Egli non era solo, in quel ministero di bravissime persone, ad esagerarsi l'importanza dei minuti calcoli di retroscena. Sainte-Beuve indicò molto pittorescamente l'insufficienza di quei procedimenti di furberia, cari ai parlamentari, nel nostro tempo di brutalità democratica, quando paragonò Guizot e Thiers a due abilissimi giocatori di scacchi intenti a manovrare sapientemente i loro pezzi sul dorso di una balena addormentata. Il mostro si muove un poco. Le masse popolari si agitano. Scacchiera, giocatori e “combinazioni” precipitano in fondo all'acqua. E Sainte-Beuve scriveva questo verso il 1850! Da allora, la balena è cresciuta. Fra i compagni di gioventù che frequentavano il salotto dei Vialis, senza nascondere la loro ostilità al 16 maggio, c'era un certo Marcello Faugières. Questo repubblicano appassionato obbediva anch'egli venendo lì, al desiderio di quel contatto con l'avversario, a cui il ministro dava l'importanza di un dogma. Però, Faugières non se ne rendeva conto. Una amicizia nata sui banchi del vecchio collegio Louisle-Grand univa i due giovani, che si erano ritrovati, poi, nell'esercito della Loira. Quei due ricordi: quello delle infantili emulazioni scolastiche e quello del pericolo marziale affrontato insieme, erano più forti che non l'antagonismo delle loro idee, accentuato tuttavia dagli anni e dalla differenza delle loro condizioni. Marcello Faugières era povero. Una magra pensione che gli mandava suo padre, proprietario, al Puy, di una modesta drogheria, gli aveva permesso - attraverso quante privazioni, dell'uno e dell'altro! - di arrivare a laurearsi in legge. Da poco, aveva aperto studio d'avvocato, utilizzando una piccolissima eredità lasciatagli da quel padre, del quale formava tutto l'orgoglio. Fino a qual punto! Chi conosce lo spirito d'economia dei nostri montanari del centro, lo comprenderà da questo semplice particolare: l'invio dello studente del Puy ad un collegio di Parigi, per consiglio di un professore che aveva detto all'umile bottegaio: “Marcello sarà la vostra gloria!” - Marcello, purtroppo, non era ancora che un avvocatuccio senza cause, le cui convinzioni radicali implicavano contraddizione frequente nei giovani di quel tipo - un'ingenua semplicità ed insieme un duro calcolo. I suoi primi rancori sociali vi trovavano una tregua, e la sua ambizione vi attingeva speranza. Egli era troppo vicino al popolo per non indovinare che l'avvenire, in un regime fondato sul suffragio universale, era a sinistra. Quando usciva da un ricevimento in casa Vialis, le sue larghe spalle si alzavano, al ricordo dei discorsi chimerici che aveva uditi in quel salotto. Il frequentare quei rappresentanti delle classi così dette dirigenti, e il constatare la loro ignoranza delle correnti sottomarine del paese, davano forza alla certezza ch'egli aveva della loro sconfitta e del sicuro trionfo dei 363. Molti si ricordavano del magistrale “colpo di partito” mediante il quale i capi dell'opposizione, sostenendo quel numero, fecero approvare da un plebiscito il più equivoco dei programmi. I lavori oscuri e lunghi a cui si dedicava non permettevano a Faugières di formarsi relazioni che gli avrebbero offerte le probabilità di una candidatura. D'altronde, su tutta la sua persona era come diffuso un non so che di feroce che sconcertava le simpatie. Quel giovanotto pesante, tarchiato, massiccio, dagli occhi gialli che luccicavano in una faccia biliosa, dava l'impressione di un animale da preda, pieno di aspre bramosie, e il salotto reazionario dei Vialis aveva infatti per lui questa brutale attrattiva: il plebeo indigente vi respirava un'atmosfera di lusso. Quando egli pranzava in quella casa, la cucina fine gli faceva dimenticare per un giorno le solite bettole. L'eleganza dell'ambiente e degli abbigliamenti delle donne vellicava la sua sensualità, e siccome tutto è complesso, nell'anima, a quell'età di fermentazione, il fascino della vivace intelligenza di Giovanni non era estraneo alla sua assiduità. Forse la stima che egli aveva per il suo amico, aggiunta alla sua intransigenza, gli dava, senza che se ne accorgesse, un febbrile bisogno di inculcargli i suoi principi. E tutte le loro conversazioni divenivano discussioni, ugualmente appassionanti per il tradizionalista e per il giacobino. La scherma della controversia intellettuale non è infatti una delle ebbrezze della gioventù che pensa? La lotta d'idee le dà la consapevolezza e l'orgoglio della sua forza. Inoltre, essa misura, in questa lotta, l'entità della propria inferiorità. La dialettica più agile di Giovanni, la sua prontezza nel rispondere vivacemente ad ogni assalto, la sua cultura più varia - perché egli aveva viaggiato - finivano sempre coll'irritare l'amico meno rapido, più pesante, meno munito di argomenti. Faugières si sarebbe stupito assai se qualcuno gli avesse detto che tutte quelle impressioni tanto diverse avevano per fondo nascosto il più triste dei sentimenti umani: l'invidia, ma un'invidia inconfessata, che s'ignorava, appiattata in quell'ultima latebra del cuore, fino alla quale non si vuole né si può scendere. Sia questa, se non la scusa, almeno la spiegazione dell'atto fatale a cui sto per giungere! Nell'ultima settimana del mese di settembre del 1877, - il 29, precisiamo: quindici giorni prima dello scrutinio che doveva aver luogo il 14 ottobre, - il caso volle che Marcello Faugières, tornando dal municipio del settimo circondario, dove era andato a domandare una informazione professionale, passasse da via San Domenico e suonasse, verso le due, il campanello di casa Vialis. Voleva farsi prestare da Giovanni certe riviste, e sperava di trovare, come di consueto, la giovane coppia nel salottino attiguo allo studio. - Il signore e la signora hanno fatto colazione fuori di casa - gli disse il domestico, - ma rientreranno fra poco. - Li aspetterò nello studio, - disse Marcello Faugières. - Il signor Vialis deve aver preparato per me un pacco di libri. Molto naturalmente, il domestico introdusse l'amico di casa nella stanza, ad un tempo intima e severa, ove tante volte i due giovani avevano discusso per ore intere, cordialmente o aspramente, sempre su argomenti di un ordine elevato. Alte biblioteche antiche, di quercia scolpita, rivestivano le pareti. Gli scaffali erano pieni di volumi che avevano appartenuto al nonno e al bisnonno di Giovanni. Le rilegature datavano dal primo Impero o dalla Restaurazione. Lo stato di conservazione dei cuoi attestava la religiosa cura di cui erano stati oggetto quei volumi. I titoli dicevano la serietà e la cultura dei ricchi borghesi che avevano raccolto così dei memoriali, i capolavori dei classici antichi e moderni, e molti volumi di storia, di scienza, di filosofia, di giurisprudenza. Quale contrasto coi libri generalmente non rilegati, e coi volgari repertori, acquistati a rate, che s'ammucchiavano alla meglio nelle scansie di legno annerito dello studiolo dell'avvocato! Questo confronto sorse, nella mente di lui, senza ch'egli lo volesse. In uno spazio di muro lasciato libero fra due corpi della biblioteca, spiccava un pastello che rappresentava Maria Vialis, col suo figliolo, col loro figliolo fra le braccia. A Giovanni bastava alzare il capo, stando seduto in poltrona al suo scrittoio, per avere davanti agli occhi la sua felicità. Faugières, che s'avvicinava a quel tavolo per verificare se vi fossero i fascicoli desiderati, si mise a guardare lungamente, a sua volta, quel ritratto. Altro contrasto, e non meno umiliante, per il diseredato! Le sue amanti casuali a l'avvilimento delle loro maschere imbellettate gli tornarono improvvisamente alla memoria, davanti a quel volto radioso e bello di donna onesta dal delicato colorito di fiore, dagli occhi profondi e tanto soavemente azzurri, dall'ovale energico e puro nella cornice dei leggeri capelli biondi, e dalla bocca fremente e amorosa. Si voltò bruscamente, e, visto sul tavolo un fascio di riviste, vi cercò quelle che voleva farsi prestare dall'amico. Non avendole trovate, una curiosità senza motivo lo indusse ad osservare la larga cartella posata trasversalmente davanti al calamaio. Il marocchino, d'un rosso cupo, non aveva nemmeno una macchia. I portapenne e le matite bene allineate accanto ad un lucido calamaio di cristallo, attestavano, come il calendario mobile che segnava esattamente il giorno, l'ordine meticoloso di un lavoratore metodico. Ancora macchinalmente, Marcello Faugières sollevò la parte superiore della cartella. Vide allora nell'interno una lettera aperta, con la sua busta accanto. Evidentemente, essa era stata consegnata a Vialis poco prima ch'egli uscisse. Non volendo portarsela via, e non avendo tempo di chiuderla in un cassetto, Vialis l'aveva messa lì dentro. L'indiscreto - senza premeditazione, non lo calunniamo - credette di riconoscere la scrittura. Prese la lettera, e le poche linee che lesse, quasi senza volere, lo fecero trasalire. Non si era ingannato. Quello scritto era di un certo Grangier, suo condiscepolo al liceo di Puy, ch'egli aveva ritrovato al Quartiere Latino e poi presentato a Vialis. Quest'u1timo aveva sempre dimostrato della ripulsione per quel personaggio, giovane di un certo valore, che sapeva fare dei versi spiritosi, ma che era già degradato dall'ubriachezza, e che, ritornato nell'Alta Loira, vi dirigeva ora un giornaletto d'avanguardia. Faugières aveva saputo, non senza stupore, che quell'individuo si presentava come candidato d'estrema sinistra. “Ecco dove conduce l'alcoolismo!” aveva pensato nel constatare quell'atto d'indisciplina che minacciava di compromettere le probabilità del 363, - per parlare col gergo elettorale di allora. - Quel rivoluzionario, in corrispondenza con gli uomini del 16 maggio?..Era possibile? La sorpresa da cui rimase colpito Faugières fu tale, ch'egli ne rimase per un momento come pietrificato. Rimise la lettera nella cartella, senza neppure cominciarne la lettura, con un movimento di disgusto. Poi bruscamente la riaprì, quella cartella, riprese la lettera, e una curiosità non più involontaria gliela fece leggere e rileggere, una volta, due volte, tre volte, per convincersi di non essere zimbello di una illusione. “Signor Ministro”, diceva quella lettera datata da Puy, “ho coscienza di essere utile alla Francia e alla vera Repubblica, combattendo l'individuo che, con l'aiuto dell'equivoco dei 363, vuole ingannare la buona fede degli elettori della mia città nativa. Avrei bisogno, a tale scopo, per supplire alle spese della campagna, di una somma di 30. 000 franchi. Esito tanto meno ad accettarla dal Governo, in quanto che onoro certamente di più, come uomo, il signor duca di Colombières, che non un sotto- veterinario come X... ” Qui, il cronista di questa troppo veridica storia domanda ancora il permesso di non citare un nome che interessa tanto poco quanto le formale di deferenza ossequiosa con le quali finiva quella lettera, rivelatrice di una manovra frequente e perciò assai banale. Il candidato ministeriale del Puy era il vecchio duca di Colombières, uno dei grandi proprietari del Velay, da parte di sua madre, che era dell'antica famiglia comitale dei Brives-Charensac. Il prefetto aveva pensato, per diminuire la probabilità di successo dell'opposizione, di ricorrere ad una candidatura indipendente e ultra- radicale. Egli aveva fatto scandagliare il bisognoso Grangier, che si era prestato alla combinazione tanto più volentieri in quanto che si sentiva screditato fra i liberali. Quella lettera era stata il pegno voluto dal ministro, patrono di Giovanni Vialis, che soleva ripetere sentenziosamente una delle sue massime alla Fouché: - E' sempre bene avere molti piccoli documenti. Grangier non aveva nulla da perdere, in fatto d'onore. Aveva scritto freddamente la lettera, indirizzata in plico raccomandato al capo gabinetto, per misura di precauzione. Il briccone, tracciando sulla busta il nome del destinatario, aveva avuto un po' di vergogna. Poi, ricordandosi del carattere cauto di Giovanni, aveva pensato: - Almeno, sono sicuro che Vialis non parlerà!… E aveva soggiunto ironicamente: - Tuttavia, per un'anima buona, non c'è male! ... L'anima buona era il nomignolo col quale il suo cinismo precoce aveva qualificato in altri tempi il candido Vialis, pieno di scrupoli, ed era vero che per il capo- gabinetto era stato un sacrificio il collaborare, anche soltanto a quel modo: - cioè ricevendo e conservando il documento, - a quel traffico che apparteneva alla categoria dei procedimenti che gli onesti prendono a prestito dai loro avversari sul triste e fangoso terreno della politica. La posizione della lettera nella cartella indicava che essa vi era stata gettata in un sussulto di ripulsione. La busta gualcita attestava l'irritazione provata a quell'immondo contatto. Un'amicizia affettuosa l'avrebbe indovinato. Ma quella di Marcello Faugières per Giovanni Vialis era un'amicizia astiosa. C'era del trionfo, nell'atroce risata in cui egli proruppe subitamente, alla quarta o quinta lettura di quello scritto accusatore. Per chi? Per i corruttori non meno che per il corrotto. Sì; che risata atroce! Quale rivincita, per Faugières, l'aver scoperto nel suo amico una colpevole complicità! L'acre passione politica, che lo possedeva, ribolliva in lui, mentre egli teneva fra le mani quella carta, per lui infame. E ripeté ad alta voce, mordacemente, una delle frasi che allora servivano da grido di guerra dall'altra parte della barricata: - E questo si chiama l'ordine morale!....L'ordine morale! Ma non rideva già più. Un'espressione feroce gli contraeva il viso. Con le sopracciglia aggrottate, coi denti stretti, come nei momenti d'implacabile risoluzione, estrasse di tasca il portafoglio, vi mise la lettera, dopo averla accuratamente chiusa nella sua busta. Ah! ora non si curava più affatto delle riviste da farsi prestare!... Uscì dalla biblioteca. Al domestico che gli venne incontro nell'anticamera, disse semplicemente. - Avevo dimenticato che ho un appuntamento per le due. Non posso aspettare. La sua voce fu dura, nel pronunciare queste parole banali. Egli si sentiva preso da un tremito interno, al pensare che, sulla scalinata, nel cortile, o all'uscire dal portone, avrebbe potuto imbattersi in Vialis. - Oh! via! - pensò, provando un gran sollievo nel ritrovarsi in via San Domenico senza aver visto l'amico in casa del quale aveva commesso un abuso di fiducia che giustificava coi suoi principi, pur sentendo un segreto rimorso per il vero movente profondo del suo atto. - Oh! via! Se l'avessi incontrato, l'avrei svergognato! Tutto è finito fra noi, da oggi, dopo ciò che ho scoperto, ed è meglio così... E voi, signor duca di Colombières, non sarete deputato del mio paese! II Il 14 ottobre 1877 Soltanto la sera, alle undici, Giovanni Vialis s'avvide della scomparsa della pericolosa lettera, ricevuta, come già si disse, nel momento d'uscire, e tanto imprudentemente lasciata nello studio. Invece di rincasare con sua moglie, come dapprima aveva pensato di fare, egli era andato al Ministero, dove aveva del lavoro arretrato. Per tutto il pomeriggio, aveva dato udienza a dei visitatori e aveva scorso un enorme mucchio di corrispondenza ufficiale. Era tornato in via San Domenico solo per cambiare d'abito in fretta e per risalire immediatamente in carrozza. Doveva pranzare all'Eliseo, con sua moglie. Al ritorno, era entrato direttamente nel suo studio, per esaminarvi la sua posta personale della sera. Quando infine aveva voluto riprendere, per riporla in luogo sicuro, la lettera di Grangier, non l'aveva ritrovata. Ne provò una di quelle scosse terribili che agghiacciano, ad un tratto, tutto il corpo e tutta l'anima. Precisamente perché si era prestato con estrema ripugnanza all'ignobile traffico accettato dal giornalista radicale, egli vide subito il pericolo della pubblicità di un simile documento. Che fosse stata rubata, quella lettera?... Ma, era possibile? Eppure, la memoria non l'ingannava. Quella lettera, l'aveva realmente ricevuta; l'aveva messa, realmente, con la sua busta, in quella cartella che riaprì e che scosse nervosamente e puerilmente. Sì! una sola ipotesi era accettabile: quella del furto! Ma chi poteva averlo commesso, il furto? I domestici, marito e moglie, che servivano nell'appartamento, erano di Béard, villaggio nivernese dei dintorni d'Imphy, conosciuto dai curiosi di arte romanza per la rovina della sua bella chiesa del dodicesimo secolo. Appunto durante una visita a quel santuario trasformato in fienile, i Vialis, uniti in matrimonio da sei mesi, avevano incontrato Giovanni e Maria Bourrachot, sposati da poco, essi pure. Quella giovane coppia aveva detto loro, guidandoli fra i ruderi, che si proponeva di andare a servizio presso una qualche famiglia di Nevers. - Prendiamoli noi! - aveva detto la signora Vialis. - Si chiamano come noi. E' un caso curioso. Li formeremo. Saranno migliori degli altri domestici. Gli altri, erano stati una prima coppia, licenziata perché colpevole d'indelicatezze. Era verosimile che Parigi, in pochissimi anni, avesse corrotto anche quei due contadini, sui quali si erano avute informazioni ottime e sicure, e che uno di essi avesse potuto commettere un atto che sottintendeva un tenebroso calcolo di ricatto e di scandalo? Appena concepito, un tal sospetto fu insopportabile. per Giovanni, che subito chiamò il suo servo. Egli ascoltò l'avvicinarsi dei passi di quel giovane, osservando se l'andatura di lui rivelasse una fretta o una lentezza ugualmente denunziatrici. Ma no. Nessun turbamento, neppure su quel volto un po' addormentato. Nessuna nervosità nei movimenti del domestico, mentre, cinque minuti dopo, aiutava il padrone a svestirsi. Vialis, obbligato talvolta dal suo lavoro a vegliare molto innanzi nella notte, aveva la propria camera particolare, attigua a quella della moglie. Una cassaforte, in un angolo, gli serviva per tenere chiuse le carte importanti che gli venivano affidate dal ministro. Questo dato spiegherà completamente perché egli avesse lasciata nella cartella la lettera di Grangier. Aveva dovuto affrettarsi. La serratura della cassaforte s'apriva mediante una combinazione di lettere alquanto complicata e che richiedeva un po' di tempo. Alla vista di quel mobile, che ravvivò in lui il sentimento della sua storditaggine, egli si decise. Bruscamente, ma con un fare quasi indifferente, per non infliggere ad un innocente l'oltraggio di una diffidenza confessata, domandò: - Avete messo in ordine il mio scrittoio, oggi nel pomeriggio, Bourrachot? Non ho trovate le mie carte come le avevo lasciate. Egli aveva notato anche lo spostamento del fascio di riviste. La mano del domestico, che in quel momento gli slacciava le scarpe, non tremò affatto, mentre egli rispondeva, con l'accento caratteristico, e un po' strascicato, della sua provincia: - Sarà stato il signor Faugières, che è venuto verso le due. Il signor Faugières mi ha detto che doveva esserci un pacco di libri preparato per lui. - Il signor Faugières? - ripeté Vialis. - Dunque mi ha aspettato?..Per molto tempo? - No, per poco. Nell'andarsene, mi ha detto che si era scordato di avere un appuntamento. - M'ha aspettato nello studio? - Sì, nello studio. Diamine! Siccome si trattava del signor Faugières, ho pensato... Vedo che il signore sembra molto contrariato, ora..... - Io? - disse Giovanni. - Ma niente affatto! In realtà, egli era stato scosso violentemente da un brivido che gli soffocava la voce. Il domestico non osò insistere né scusarsi di più; ma, ritornato da sua moglie, le disse: - Credo di aver commesso una sciocchezza! - E dopo averle raccontata la visita di Faugières, la sua improvvisa uscita dallo studio, la visibile contrarietà del padrone: - Eppure, sono molto amici! - concluse. - Oh! non tanto! - rispose giudiziosamente la moglie di Giovanni Bourrachot. - Se fosse così, la signora, che vede soltanto con gli occhi del signore, manifesterebbe dell'amicizia per quel Faugières. A me pare, solo dal tono con cui la signora pronuncia il suo nome, che ella lo detesti, o quasi... Lo spirito d'osservazione dei domestici è, per certe sfumature, infallibile quanto quello dei fanciulli. Maria Vialis provava infatti, nelle sue relazioni con Marcello Faugières, una specie di disagio che suo marito subiva ugualmente. Nell'amicizia, la reciprocanza delle impressioni non è sempre cosciente, ma è costante. Un amico, invidiato dall'amico, come Giovanni Vialis era invidiato dal suo compagno di collegio, non si confessa che quell'amico l'invidia, ma indovina quella segreta ostilità. La fiuta. Ne è infastidito, spesso senza ammetterlo. E poi, c'è, nelle differenze radicali del pensiero su certi punti essenziali, - la religione, la politica,- un principio d'antipatia che può nascondersi sotto le effusioni della cordialità. Questo principio di antipatia è sempre presente, irriducibile. Per quanto Giovanni Vialis volesse essere tollerante, le opinioni rivoluzionarie di Faugières l'offendevano. nel suo essere più segreto. Specialmente da alcuni mesi un oscuro lavorio d'avversione, verso il compagno di studi e dell'esercito della Loira, andava compiendosi in lui. Egli ne provava rimorso e se ne puniva con un raddoppiamento di gentilezza che poi si rimproverava come un'ipocrisia. Ma se non l'avesse avuta, quell'avversione, avrebbe forse pensato immediatamente, e con tanta certezza dopo la rivelazione del domestico circa la presenza di Faugières nello studio: - “Marcello mi ha rubata la lettera e se ne servirà. Ma come?” Andare direttamente dall'amico traditore, senza indugio; strappargli la confessione del furto; esigere la restituzione del documento, o, se rifiutasse, comprendere almeno le sue intenzioni... Questo il più saggio, questo l'unico mezzo per uscire da una incertezza che non aveva alcun altra via d'uscita. Un energico non avrebbe esitato. Ma la prospettiva dei conflitti duri e decisivi, come doveva essere quello, ripugna agli emotivi, che allontanano indefinitamente l'ora di agire e si divorano in silenzio. Giovanni Vialis, nervosissimo per temperamento (e ciò s'indovinava dalla finezza delle sue estremità, dalla mobilità della sua fisionomia, dai suoi grandi occhi neri troppo espressivi in un viso d'una delicatezza di lineamenti quasi femminea), era stato come sensibilizzato dall'atmosfera troppo dolce, troppo costantemente tenera della sua vita coniugale. L'avvicinarsi di una spiegazione violenta con Faugières avrebbe angosciato quell'essere ansioso, per quanto egli potesse essere sicuro di avervi la parte migliore. Ma non ne era il caso. Se l'altro aveva commesso quell'indelicatezza - e l'aveva commessa, - l'avrebbe giustificata col suo diritto d'impedire una bassa manovra. Ma come? Questa domanda gli s'imponeva di nuovo. Coricato, ora, accanto a sua moglie addormentata, Vialis cercava di rispondere a sé stesso. Vedeva coll'immaginazione Faugières già intento a scrivere a Grangier, per minacciarlo di divulgare la lettera se non avesse ritirata la sua candidatura. Che avrebbe fatto, Grangier? Avrebbe avvertito della cosa la prefettura del Puy, la quale ne avrebbe avvertito il ministro. Ora se quest'ultimo doveva essere informato, bisognava che lo fosse da lui, Vialis, primo colpevole. Ma che scena, dover confessare al suo capo la sua storditaggine e le conseguenze di essa! Bastò questo pensiero a turbarlo a tal segno da impedirgli di dormire fino al mattino! Gli sembrava di vedere l'uomo di Stato in atto di ascoltarlo, con quella maschera autoritaria che rivelava nell'ex- padrone d'officina l'abitudine al comando. I rapporti di lui con Giovanni erano singolari. Amico personale dei Vialis, egli aveva preso con sé il giovane per i motivi che già si dissero, ma anche perché lo sapeva molto sicuro, e perché, nella sua qualità di provinciale, diffidava dei parigini. Nella parzialità ch'egli dimostrava per quel giovane, intelligentissimo, molto fine, ma esitante, c'era un po' di quell'infatuamento, per metà indulgente e per metà sprezzante, che gli esseri molto maschi provano per i caratteri più deboli, più sensitivi. Ne risultava quella specie di protezione che intimidisce e che paralizza l'espansione in colui che ne è oggetto. Questi si sente, ad un tempo, favorito e disconosciuto. Come avrebbe potuto sopportare, Vialis, lo sguardo di quegli occhi celesti, tanto luminosi sotto le folte sopracciglia arruffate e brizzolate, e l'accento di quella voce profonda, irritata nel rimproverargli una colpa tanto grave? Sì, tanto grave, che il poveretto non comprendeva neppure come l'avesse commessa. Abbandonare una lettera simile. Dimenticarla in una cartella aperta a chiunque, - come l'accaduto dimostrava!... Giovanni Vialis sapeva da quali dubbi fosse tormentato il ministro, diversamente dai suoi colleghi, circa l'esito della campagna elettorale. Solo per il cosiddetto “punto d'onore”, quell'uomo perspicace aveva accettato una solidarietà attiva con lo stato maggiore del suo partito. Avendo approvata l'operazione del 16 maggio, egli era pronto a subirne per proprio conto tutte le conseguenze. Egli si era data una volta per sempre - e il suo confidente lo sapeva - la parola d'ordine che doveva essere quella del duca di Broglie a De Fourtou, quando quest'ultimo volle dimettersi venendo a sapere il risultato dello scrutinio del 14 ottobre: “Noi abbiamo accettato un compito. La nostra missione è penosa e dura. Dobbiamo compierla sino alla fine. ” La fine, era, in caso di sconfitta, per il ministro da cui dipendeva Giovanni Vialis, la perdita d'ogni probabilità di ritornare al potere, una carriera politica spezzata, la rinuncia all'alta ambizione da cui quella personalità forte era dominata. Tutto questo andava unito ad un'irritabilità segreta che spesso si manifestava in violenti scoppi di cui Giovanni era testimone quando il ministro constatava, da parte dei suoi subordinati, o anche dei suoi colleghi, qualche errore di tattica capace di diminuire le ultime probabilità di successo. Che cosa sarebbe avvenuto, quando il suo protetto gli avrebbe detto: “Ho lasciato cadere quell'arma nelle mani del nemico?”. Ma l'avrebbe impiegata, il nemico? Quella “fuga nella malattia” di cui parla il celebre psichiatra di Vienna - Freud - non è mai più evidente che nel corso di quelle crisi nelle quali l'emotivo si rifugia nell'incertezza, per non essere obbligato a volere. Fra il 29 settembre, giorno in cui la lettera era stata rubata, e il 14 ottobre, estrema data nella quale quella carta potesse servire, poiché era la data dello scrutinio finale, Giovanni Vialis, fin dalla prima mattina, dopo quella notte d'insonnia, si accanì morbosamente a moltiplicare i suoi motivi di dubbio circa l'utilizzazione possibile del documento rubato, e a tacerne, non solo col ladro e col ministro, ma anche con sua moglie, alla quale, secondo un'abitudine tanto dolce, soleva dire tutto, in ogni circostanza. Aveva saputo intanto, fin dai primi giorni d'ottobre, da un amico comune incontrato per via, che Faugières aveva lasciato Parigi. Per andar dove? L'altro non aveva saputo dirlo.- Forse a Puy, per esercitare su Grangier quella pressione prevista da Vialis già dal primo momento? Con quale angoscia, ogni giorno, dopo esser stato informato di quella partenza, egli spiegò i giornali arrivati dall'Alta Loira! Ad ogni lettera coi bolli di laggiù, ad ogni telegramma, egli fremeva. Sta va per leggere la notizia della rinunzia del firmatario della lettera rubata? Una settimana passò, ne cominciò un'altra, e nulla ancora! Il duca di Colombières, il 363, e Grangier, il sedicente candidato indipendente, continuavano la loro campagna. Dunque Faugières non aveva agito. Come si sarebbe potuto sapere, almeno, se egli era al Puy? Vialis esitava perfino a compiere quella piccola inchiesta, che pure non avrebbe dato luogo ad alcun conflitto personale. Non vi accadde, da bambini, di tenere nel cavo della mano un insetto, coccinella o cetonia, che facesse il morto? Moralmente, l’ansioso Vialis era come quell'insetto. Tremava al pensiero d'incontrare, o di creare, un incidente qualunque, e ne aspettava uno, in quel suo stato di stupore febbrile. E poi, si sforzava di tranquillizzarsi. Chi sa? Forse Faugières era stato preso da un rimorso. Utilizzare la lettera, significava colpire crudelmente un amico che era stato sempre gentile e delicato verso di lui. Forse, egli aveva distrutta la lettera, per sfuggire alla tentazione? Così si spiegavano il suo silenzio e la sua assenza. Sicuro che il suo amico doveva essersi accorto della scomparsa del documento, egli lo fuggiva, forse, per non essere costretto a parlargliene... Vialis finiva coll'attribuire a quell'energico, del quale peraltro gli era nota la brutalità, i modi di sentire che avrebbe avuti se fosse stato nei panni di lui. O forse Faugières aveva invece minacciato Grangier, e, semplicemente, gli era fallito il colpo? In tal caso, come mai Grangier non aveva avvertita la prefettura del Puy o lo stesso Vialis? Forse... Ma a che serve enumerare le soluzioni immaginarie inventate a volta a volta dal disgraziato per risolvere l'enigma, per ingannare la penosissima attesa e sopra tutto per non parlare, per non confessare, neppure a sua moglie? Questa vedeva ch'egli si tormentava, ch'egli si rodeva, e nemmeno lei osava parlare. Maria s'era imposto l'affettuoso principio di rispettare i segreti professionali che suo marito poteva, doveva avere, nella sua condizione di confidente d'un alto personaggio Politico. L'imminenza di uno scrutinio del quale sapeva la formidabile importanza, non bastava a giustificare, secondo lei, lo sguardo vago del suo Giovanni adorato, né la ruga profonda che gli attraversava la fronte, né la contrazione delle sue labbra, né la morbosa tensione di tutto il suo essere, di cui ella doveva, più tardi, comprendere con disperazione il sinistro significato e il tragico pronostico. Finalmente, era venuto il 14 ottobre. Verso sera, - una sera d'autunno piovosa e cupa, - i risultati delle elezioni cominciarono ad esser noti. I ministri che avevano giuocato e che stavano per perdere quell'audace partita, erano tutti riuniti in piazza Beauvau. Nella stanza attigua a quella in cui tenevano consiglio, si accalcavano i loro amici personali, i loro segretari, i loro addetti, molti giornalisti, i capi gabinetto. Fra questi ultimi era Giovanni Vialis, letteralmente fulminato, fin dal mattino, per effetto della lettura del Giornale repubblicano dell'Alta Loira, nel quale aveva trovato la riproduzione del terribile documento firmato da Grangier e poi rubato da Faugières. Costui, recatosi a Puy, aveva esitato per parecchi giorni prima di decidersi a commettere l'abominevole azione. Egli aveva lasciato Parigi per non essere esposto ad incontrare il suo compagno di collegio, e coll'intenzione precisa di costringere Grangier a desistere dalla candidatura, minacciandolo. Vialis aveva indovinato, su quel punto. Ma in che modo Faugières, si era procurata la lettera? Ecco ciò ch'egli avrebbe dovuto dire o lasciare indovinare a Grangier, e, orgoglioso, non aveva saputo decidervisi. All'ultimo momento, la passione politica aveva vinto in lui tutti gli scrupoli d'amicizia. Quelli d'orgoglio avevano resistito. Invece di fare un passo diretto presso il candidato, Faugières aveva anonimamente mandata la terribile carta al direttore del giornale che sosteneva col massimo ardore la lista dei 363. La copia autografa era stata pubblicata alla vigilia dello scrutinio, sotto questo titolo anche troppo esatto: “Un documento- clava”. Giovanni, che da due settimane si faceva spedire tutti i giornali dell'Alta Loira, aveva avuto quello fin dalle nove del mattino. Appena ricevuto quel numero, che cosa gli comandava la ragione? Di portarlo al ministro affinché questi venisse a sapere la cosa soltanto da lui, e vedesse, contemporaneamente, la disperazione del suo rimorso. Egli era andato, infatti, al ministero, con quell'intenzione. Ma aveva trovato l'uomo di Stato talmente nervoso, che non aveva osato mostrargli il giornale. Aveva passata la giornata, senza poter rivederlo, a sbrigare gli affari in corso, ed ora aspettava, comprendendo bene che la sua sorte si decideva in quelle ore, solenni per tutta la Francia, - e più ancora per lui!... Se il governo avesse vinto, nella gioia della vittoria la sua storditaggine sarebbe sembrata priva d'ogni gravità. In una sconfitta, invece, essa avrebbe assunto l'importanza d'un tradimento... Le ore passano. I telegrammi continuano ad affluire. L'opposizione vince a Parigi... Cosa prevista. Vince nei grandi centri... Previsto anche questo. Ma arrivano dei telegrammi dalle campagne. Il governo guadagna qualche seggio. Vialis spera. I voti dell'alta Loira non sono ancora completamente contati... Finalmente, eccone le cifre. Il duca di Colombières è sconfitto. Subito, altri risultati si succedono, sempre più disastrosi. All'alba, tutte le elezioni sono note. Un crollo irreparabile! I ministri escono nel crepuscolo lugubre e grigio, che scolpisce con duri rilievi i lineamenti, smorti per la veglia e per il dolore, di quegli uomini di Stato vinti e decaduti. Giovanni Vialis freme nell'incontrare lo sguardo del suo ministro, che sa tutto. Il giovane l'indovina, senza che l'altro abbia parlato. Lo segue. Il vento del disastro ha già disperso il maggior numero. degli astanti di poco prima, alcuni partiti in fretta per diffondere la notizia, altri preoccupati già di disertare da una nave che affonda. Le carrozze dei ministri sono nel cortile. Vialis sta per salutare, accommiatandosi dal suo superiore. Questi, dallo sportello aperto, gli ordina, con un cenno imperioso, di salire con lui, e, quando la carrozza si mette in moto, sogghigna con un accento di atroce ironia: - Complimenti, signor Vialis! Avete puntato pro e contro... Ottimo giuoco! Soltanto... - e non rideva più - non è affatto onesto! Era visibile che quell'uomo non si dominava più. Il suo capo- gabinetto, in quel momento, rappresentava per lui il disastro nel quale tutte le ambizioni della sua vecchiaia erano crollate ad un tratto! Siccome esse erano al servizio di ciò ch'egli giudicava il bene pubblico, l'uomo di Stato soffriva meno per la sua ferita personale, che non per la sventura - certa, secondo lui - che colpiva il suo paese. E un'indignazione di buon cittadino ruggiva nella sua voce, mentre continuava: - Sciagurato! Come hanno potuto prendere anche voi, anche voi, anche voi?… E cosa vi hanno promesso? - Ma vi assicuro... - balbettava Giovanni, con voce soffocata dalla sorpresa. Egli s'aspettava degli aspri rimproveri, - ma quel sospetto, no! Era troppo atroce! - Non mi dite che la smarriste, quella lettera! - interruppe il ministro, la collera del quale andava crescendo. - Non mi dite che ve la rubarono!... Se fosse vero, ve ne sareste accorto. Oh! siete diligente, voi!. Di nuovo, egli ricorreva ad una crudele ironia, nel fare, di una delle buone qualità che riconosceva nel giovane, un motivo di più per assalirlo: - Sareste venuto ad avvertirmi immediatamente. Si possono ricomprare, i documenti di quel genere! Anzi, vengono rubati soltanto da chi vuol rivenderli! Io vi avrei perdonato; lo sapete benissimo. Avevo tanta affezione per voi! Tanta fiducia in voi!... - Dunque, credete... ? - disse Vialis, a cui continuava a mancare il respiro. - Credo a quello che ci ha telefonato il duca di Colombières. Egli era sicuro del successo... Quel documento è stato causa della sua sconfitta... ed io ho dovuto udire, nel Consiglio, parole quali non mi erano mai state dette! Infatti, signor Vialis... - e la sua mano robusta scuoteva duramente il braccio della sua vittima, - infatti, per tutti, il mio capo- gabinetto ed io siamo la stessa persona. Io sono responsabile delle sue colpe. Per il duca di Colombières, l'ho data io agli avversari, quella lettera, poiché l'ho affidata ad una persona indegna! – (E, mentre l'altro voleva protestare): - Insomma, confessate! Confessate, dunque! Non è possibile, capite?, non è possibile che quella lettera vi sia stata rubata, e che abbiate taciuto!... D'altronde, laggiù... (Aveva cessato di stringere il braccio del giovane per indicare con un gesto furibondo, dal finestrino della carrozza, la direzione del palazzo di Piazza Beauvau). Laggiù, eravamo poco fa in dieci, tutti uomini di cuore e d'onore, a commentare i telegrammi relativi all'elezione dell’Alta Loira e a quella manovra dell'ultimo momento, a quella pubblicazione di lettera che assassinava il nostro candidato! Ora andate a domandare ai miei colleghi che cosa pensino di voi! Infatti, sono stato costretto a nominarvi, per difendere il mio onore. Il mio Onore! Egli ripeté ancora: “il mio onore! E, come preso dal delirio, come pronto a percuotere, soggiunse: - Basta! Andatevene!... Aveva afferrato il tubo acustico per gridare al cocchiere: “Fermate!” Giovanni Vialis tentò di parlare, ancora, per l'ultima volta... Poi, con un gesto di disperazione, aprì lo sportello e saltò nella via. Uno dei migliori fisiologi del nostro tempo, il professor Widal, ha creato la parola emoclasi per caratterizzare uno squilibrio d'umori, il cui principale fenomeno consiste in un subitaneo scoppio di certi globuli del sangue in certe condizioni e sotto certe influenze. Non si ha forse nell'ordine mentale, e per effetto delle grandi commozioni, un fenomeno analogo, una vera psicoclasi, si potrebbe dire, che è come uno scoppio interno di tutti gli elementi di cui si compone il nostro essere: intelligenza, sensibilità, volontà? Il timor panico è un fatto di psicoclasi. L'amore che nasce improvvisamente è un altro fatto dello stesso genere. Il sentimento d'un disastro irreparabile nella vita privata l'annunzio d'una morte, di una rovina, di un disonore specialmente, può produrre in un individuo predisposto un uguale scompiglio di tutto l'essere, e demoralizzarlo, altra parola efficacissima, ammirata da Napoleone. L'energia di quell'individuo si dissolve e non è più capace di reagire. E appunto allora, se l'atavismo depose in lui l'impulso al suicidio, che è la più inspiegata e la più terribile eredità, l'idea di sfuggire, mediante la morte volontaria e immediata, ad un dolore intollerabile, sorge dalle profondità incoscienti dell'anima. Appena apparsa, quell'idea suole realizzarsi in un gesto quasi automatico, tanto improvviso da sconcertare tutte le previsioni. Il padre di Giovanni Vialis, quando, nel passato, aveva detto di suo figlio: “Bisogna virilizzarlo”, aveva pensato al proprio fratello, il cui atto disperato, era da lui attribuito ad una improvvisa debolezza di carattere. Infatti, egli non aveva mal constatato in sé stesso quell'impulso che però aveva già determinato il suicidio d'un prozio materno e quello di due cugini. Quell'eredità aveva dormito ugualmente in Giovanni, a cui, da molto tempo, la vita non si era mostrata in alcun modo severa. Essa si ridestò ad un tratto sul marciapiede del Viale dei Campi Elisi. mentre Giovanni guardava allontanarsi, sotto la pioggia, la carrozza del suo superiore. Per un momento, egli restò con la testa abbassata, con gli occhi fissi, immobile. Poi, camminando in linea retta, con un passo meccanico da sonnambulo, si diresse verso la Senna, attirato dal fiume, del quale guardò lungamente, tenendo puntati i gomiti sul parapetto, l'acqua verde e fredda che si frangeva contro i piloni del ponte della Concordia. Quel parapetto, egli non lo scavalcò. Aveva fermamente deciso di morire, ma non prima di aver gridata la sua innocenza. Ora dunque, dopo aver resistito al fatale impulso, il giovane camminava verso la sua casa. Simili stati di decomposizione interna, precisamente perché sono contemporanei ad una carenza nella parte centrale e direttrice del1'“io”, sono stranamente instabili. Certo, se quel delirante avesse visto, quando aprì la porta del suo appartamento, il sorriso commosso della sua giovane moglie, sì, certo, sarebbe avvenuto nel suo pensiero un rivolgimento che l'avrebbe salvato. Ma, come suo marito non tornava, Maria Vialis aveva concluso che lo spoglio degli scrutini di provincia si prolungava, senza dubbia, ed era uscita, per andare in chiesa. Giovanni, dunque, incontrò soltanto, nell'anticamera, il suo domestico, il povero ed onesto Bourrachot, causa innocente di quel sinistro dramma, che, quindici giorni prima, aveva introdotto nella biblioteca il traditore. Non guardò né la corrispondenza del mattina, che il bravo giovane gli porgeva su di un vassoio, né quel viso di villano devoto, sul quale si leggeva un oscuro rimorso. Bourrachot era troppo riflessivo, nella sua qualità di campagnolo, per non associare il mutamento notata nel suo padrone alla conversazione avuta con lui dopo la visita di Faugières, che non era più ritornato. - Com'è pallido, il signore! - Osò dire,. stupita dalla fisionomia del moribondo. Infatti, si leggeva veramente la morte, su quel viso livido e convulso. - Il signore sta male, forse? - No. E' perché non ho dormito... Ma fra cinque minuti dormirò profondamente. Il cameriere non poteva capire quale significata lugubre assumesse in quale bocca quella semplice frase pronunciata con un accento tanto stanco. - Preparerò subito il letto del signore, - disse - e vi metterò una boccia d'acqua bollente. Il signore deve avere molto freddo! Ma Vialis entrava già nella biblioteca, ancora in preda alla stessa vertigine tragica. La cartella che era sulla scrivania gli rese ancor più presente il ricordo del suo errore e di ciò che ne era seguito. Bruscamente, egli aprì un cassetta nel quale teneva una rivoltella d'ordinanza, quella che aveva portata alla cintura nell'esercito della Loira. Quell'arma era rimasta carica da allora. La prese, si assicurò che i proiettili fossero a posto. Poi, con mano ferma e con la strana calma delle supreme risoluzioni, scrisse due lettere che mise in due buste di dimensioni diverse. Sulla più piccola tracciò il nome del suo ministro. Senza chiuderla, la introdusse nell'altra, che suggellò con cura. La sua penna tremava, ora, scrivendo a guisa di indirizzo: Per la mia cara Maria. Si alzò, andò verso il pastello che Faugières aveva guardato, prima del suo furto, con una sì bassa invidia. Tutte le gioie della sua esistenza, tutte le sue ragioni di non uccidersi erano lì, su quella tela illuminata dalle tenere pupille azzurre della sua cara Maria, come aveva scritto e tanto sentito poco prima, e dai riccioli castani del loro bel bimbo, d'un colore tanto uguale a quello dei capelli del padre. Quella visione del suo passato esasperò il dolore del disperato, invece di attenuarlo. Il pensiero che la sua vergogna potesse ricadere su quei due esseri che portavano il suo nome e ch'egli amava tanto, lo turbò maggiormente. Ritornò in fretta allo scrittoio. Riprese l'arma, e, ritto davanti allo specchio del caminetto, se ne puntò la canna sulla tempia, tenendo il dito sul grilletto. Il colpo partì. Il disgraziato cadde, fulminato. La morte era stata istantanea. III Il professor Vernat. Il domestico accorse, alla denotazione, e vide il suo padrone a terra, davanti al caminetto. Le dita contratte stringevano il calcio della rivoltella. Dalla tempia forata un filo di sangue scorreva sulla guancia destra e andava formando una larga macchia sul tappeto. Il bravo giovane, spaventato, indietreggiò fino all'anticamera, chiamando sua moglie: “Maria! ... Maria! ... ” proprio nel momento in cui la chiave girava nella serratura della porta d'ingresso. - È la signora!... - esclamò Bourrachot, turbandosi maggiormente. Era infatti la signora Vialis, che ritornava, tenendo in una mano il libro da messa e nell'altra un giornale che aveva comperato all'angolo della Piazza di Santa Clotilde per cercarvi il risultato delle elezioni. - È in casa, il signore? - aveva domandato al portinaio. E avuta una risposta affermativa, si era affrettata. Il pallore del suo bel viso e la sua stanchezza attestavano abbastanza il turbamento prodotto in lei dalla lettura delle notizie, e dicevano che ella pure aveva dormito pochissimo in quella notte, della quale tuttavia non sospettava ancora l'orribile ripercussione sul suo destino. Era in quel bel periodo delle giovani coppie, durante il quale le separazioni di dodici ore costituiscono dei veri dolori. Giovanni, nell'uscire la sera antecedente, dopo il pranzo, le aveva annunciato che certo avrebbe dovuto rimanere al Ministero fino al mattino. Ella era tormentata, ora, dal pensiero del viso stanco che certo stava per vedergli, dopo quella notte di veglia. L'aveva lasciato nervosissimo, e diceva a sé stessa ch'egli doveva essere anche molto addolorato per l'esito delle elezioni. Una donna che ama è sempre oscuramente gelosa del tempo e dei sentimenti che una carriera d'ambizione sottrae alla tenerezza anche nell'uomo più innamorato. Se le luminose pupille azzurre di Maria Vialis si fossero lasciate scrutare fino in fondo, forse vi si sarebbe indovinata la gioia di una liberazione, al pensiero ch'ella stava per avere suo marito unicamente ed interamente per sé. Santo Dio! come si preparava, la sua voce, a divenire consolatrice e persuasiva, per mormorargli, in un abbraccio: “Ebbene: non sarai segretario d'ambasciata. Poco male! Io continuerò ad essere la moglie di un semplice avvocato del foro di Parigi. Che importa, purché ti abbia?” Ella giungeva in casa, fine e flessuosa in un abito tailleur il cui colore verdemirto s'intonava con la sua carnagione. L'aveva scelto, quel colore, per una tenera civetteria... Che violenta sorpresa, ora, al vedere aperta la porta della biblioteca, e, sulla soglia, il domestico, bianco in viso come il suo grembiule da lavoro, che la supplicava, sbarrandole l'ingresso con le braccia tese, per fermarla! Una voce pronuncia, lì accanto, una frase alla quale ella fa eco immediatamente. È la cameriera, che domanda con un tremito di terrore: - Ma che c'è? - Sì, che c'è? - ripete Maria Vialis. - Il signore... - balbetta il domestico Ma non può continuare. La vedova ha indovinato una catastrofe. S'è slanciata. Egli vuol trattenerla. Con una forza centuplicata dall'angoscia, si svincola. È già nella stanza. Vede l'atroce spettacolo. Con un grido straziante, si butta in ginocchio accanto al cadavere. Lo solleva per le spalle, ed implora: - Giovanni! Giovanni!... Sono io! Ti parla la tua Maria! Ma guardami! Ma dimmi che mi senti! ... Dimmelo, Giovanni mio! ... Dimmelo!... Non mi rispondi? Non mi guardi?... Ma no... Non è possibile!... Ah! perché m'hai fatto una cosa simile?... E, in un secondo grido, ancor più acuto, che è quasi un urlo, ella lascia ricadere la povera testa e s'abbandona a terra, ella pure, come una belva ferita, abbracciando strettamente il morto, baciandogli gli occhi vuoti, la tempia insanguinata, la bocca senza respiro, prendendogli le mani, le spalle, tutta scossa da un singhiozzo senza parole, lungo e convulsivo, che fa pensare che anch'ella stia per spirare... - Signora!... - supplicano i due domestici. Signora! E, chini sulla desolata, cercano di rialzarla, mentre ella si dibatte respingendoli. - Lasciatemi! - geme - Sciagurati! Eravate qui, e non gli avete impedito... Ah! lasciatemi! Lasciatemi! - Purché il piccino non la senta! - dice piano la cameriera. Poi, ad alta voce: - Ce ne andiamo signora... ma non gridate! Il signorino, Gianmaria, non s'è ancora svegliato... Il nome del figlio aveva colpito nella madre una corda profonda che aveva vibrato automaticamente, senza ch'ella sapesse nemmeno? Oppure, provò ella quella sensazione animale di sollievo perché i due domestici avevano cessato di tenerla? Il suo lamento, ora, diveniva dolce, soffocato e tanto più doloroso, e, incessantemente, lo stesso appassionato rimprovero del primo momento si ripeteva: “Perché, perché mi hai fatto questo?” Con un gesto istintivo, per avere la fronte e la guancia proprio sulla fronte e sulla guancia del morto, ella si era strappato dalla testa il cappello, i cui lunghi nastri chiari e stracciati giacevano nel sangue, accanto all'arma. Quel particolare, di un ordine tanto umile, provocò nella cameriera uno di quei “riflessi” di mestiere che sono anch'essi quasi automatici, ma che, sentiti in certi momenti di stupore doloroso, fanno ritornare al sentimento della realtà. - Giovanni... - isse ella sottovoce, raccogliendo con lo stesso movimento il cappello civettuolo e l'arma funesta, e dandoli a suo marito, - lasciamola, e vieni... Devo parlarti. Poi, rinculando in punta di piedi, e obbligandolo a fare altrettanto, riprese, senza cessare di guardare il tragico gruppo: - Resterò qui, per non lasciarli soli. Tu, devi andare subito a dire a Luisa che non si stacchi dal piccolo. Le dirai pure che è avvenuta una disgrazia, ma che non ne parli. Luisa è un'inglese. Se promette, manterrà. Ai portinai e alla cuoca, nemmeno una parola. Ciarlerebbero per tutto il quartiere, e allora!... Erano altri automatismi, non più della domestica, ma della contadina, quella paura dei pettegolezzi e quegli ordini dati al marito... Ella aveva sempre comandato a Giovanni, e ora dimostrava di avere veramente del senno, continuando: - E poi, bisogna andare a cercare un medico, anzitutto per lei, e specialmente per la Giustizia, perché non ci siano storie di tribunali, nelle quali si sarebbe immischiati anche noi.... - Un medico? - disse Giovanni. - Ci sarebbe quel dottore che abita all'angolo di via Las Cases… - La signora è in quello stato, e tu vorresti condurle un dottore che non conosce? No! no! nemmeno per sogno! Bisogna trovare il dottor Vernat, che è il medico di casa... E subito! Egli è di servizio alla Carità. È una vera fortuna! ... Va! Prima Luisa, e poi sbrigati! Corri! Corri! - E se non fosse alla Carità? - Ci sarà. È la sua ora, e ad ogni modo troverai certamente un suo allievo, quello ch'egli mandò, due mesi fa, quando il piccino fu ammalato e lui non poté venire... Ma corri, dunque! Corri! Santo Dio! Povera signora! Come piange! Lo amava tanto!... Ah! è proprio vero che lui non avrebbe dovuto fare una cosa simile! Ma che mai gli sarà capitato?... - Sì, che cosa sarà capitato, al nostro povero padrone? - si domandava anche Giovanni Bourrachot, andando col suo passo più veloce da via San Domenico a via dell'Università, che sbocca appunto in via Jacob, dov'è l'antico ospedale. Il suo semplice buon senso di contadino gli suggeriva una risposta a quella domanda, poiché anch'egli aveva sentito parlare del suicidio dello zio di Giovanni Vialis: “Quand'è in una famiglia, questa idea di distruggersi!... Però, lui che amava tanto la signora! .., E lei, e lei, quanto gli voleva bene!... Se impazzisse, non me ne stupirei affatto!... Purché ci sia, Vernat! Aggiusterà tutto lui, con la Giustizia!..Infatti, c'è anche questa complicazione... Mia moglie ha ragione. Ah! che testa fine!... Ecco! Me l'aveva detto... Ecco Vernat!” Egli aveva riconosciuto, ferma davanti al portone della Carità, la carrozza della quale aveva aperto tante volte lo sportello, davanti all'ingresso del pianterreno dei Vialis, da quando la giovane coppia aveva preso per medico Vernat, cioè da cinque anni. I Vialis l'avevano ereditato dai loro genitori, i quali l'avevano avuto dal famoso Trousseau. L'illustre maestro aveva indovinato in Vernat un genio medico del lo stesso genere del suo, fatto per la clinica più che per il laboratorio. E qui si presenta l'opportunità di tracciare un altro ritratto: quello di quel gran terapeutico, che, come professore, con minor precisione, nella forma, di quanta ne aveva avuta Trousseau, e con un'eloquenza convincente inferiore a quella del suo rivale Giorgio Dieulafoy, fu una delle celebrità della Facoltà di Parigi. Ma se c'è una gloria effimera quanto quella degli attori e dei cantanti, questa gloria è appunto quella del medico. Dopo la sua morte, rimane soltanto la memoria delle sue teorie, e, in medicina, le ipotesi di oggi saranno sostituite da quelle di domani. Broussais, Charcot, Bouchard... che cosa rappresentano questi nomi, il cui prestigio fu sovrano? Tre romanzi patologici, uno sull'infiammazione, l'altro sull'isterismo, il terzo sui rallentamenti della nutrizione. Il vero valore di quegli uomini superiori consisteva in una forza personale, scomparsa con loro, tanto potente mentre essi vivevano, che certe cure, inefficaci fra altre mani, guarivano se erano dirette da loro. Questo prestigio, Paolo Vernat l'aveva già al massimo grado, in quel periodo dei suoi esordi, nel quale non aveva ancora, come più tardi, il vantaggio degli onori ufficiali, che s'impongono agli ammalati ancor più che ai colleghi. Egli non era che un libero docente e un semplice medico degli ospedali. Ma avvicinarlo, equivaleva a credere in lui, ciecamente. Quella sua forza di persuasione dominatrice doveva fargli sostenere una parte decisiva in un'avventura di un ordine banale quanto tragico. Se la prudente cameriera non avesse impedito a suo marito di rivolgersi ad un medicastro di rione, secondo la prima idea ch'egli aveva avuto, certo quel suicidio di un impulsivo non sarebbe stato altro che un brutale fatto di cronaca. Esso non avrebbe dato origine al grande e profondo dramma di vita morale a cui il gesto frenetico del povero Giovanni Vialis servì di prologo sanguinoso, dramma prolungato durante tutta un'esistenza di vedova e di madre, e che ebbe per teatro un'anima ammirabile. Il più strano è che quel medico, il cui intervento determinò il dramma, era allora, come tanti uomini distinti della sua generazione, un negatore sistematico del mondo spirituale. Egli è rimasto tale perfino nella morte, e i suoi amici credenti - poiché ne aveva - conservano il tristissimo ricordo del pomeriggio d'estate nel quale accompagnarono al cimitero del Père Lachaise il funerale civile che quell'uomo pieno d'abnegazione e di cuore aveva formalmente voluto. Rimane infatti insolubile, almeno per me, questo enigma: - la sensibilità di Vernat, di quello scientista per quale nulla esisteva che non dipendesse dal bisturi e dalla storta, era tutta altruismo, tutta sacrificio. Nessuno ebbe più di lui, dalla prima e laboriosa gioventù fino alla fulgida maturità, la preoccupazione appassionata della fermezza morale, l’odio dell'impostura, il disgusto dei compromessi di coscienza, il culto scrupoloso del dovere. Queste virtù, egli le esigeva intorno a sé. L'egoismo e la furberia l'indignavano, anche nelle loro manifestazioni più innocue. Per esempio, se un candidato si faceva raccomandare per un esame, un tale inabile e quasi infantile intrigo bastava perché egli fosse doppiamente severo nel suo verdetto. Questa rigidezza da giansenista ateo andava unita ad una impareggiabile delicatezza d'amicizia, quando egli aveva concesso a qualcuno la propria stima e la propria simpatia. Quella non era mai disgiunta da questa. Egli aveva il dono rarissimo della comprensione affettuosa. “Per guarire un ammalato, - insegnava ai suoi allievi, - bisogna anzitutto consolarlo”. - Ciò equivaleva a dire che esiste un'influenza sovrana dell'anima sul corpo, ed egli non credeva nell'anima! Un prete di grande valore, ch'egli aveva curato con la maestria e la sollecitudine di cui dava prova invariabilmente, gli domandava un giorno: ”Ma, insomma, come spiegate il pensiero?” - “Col moto”. - “E il moto?” - “Coll'energia”. - “E l'energia?” - “Esiste, e tanto basta”. - “Ma se essa giunge a produrre il pensiero, ciò vuol dire che lo contiene. Da un sacco nel quale non ci sia dell'oro, certo non potete estrarre oro”. - “E che cosa concludete?” - “Che lo psichismo suppone lo spirito”. “A me bastano gli elettroni. La vostra idea di Dio, signor abate, è l'attaccapanni illusorio al quale appendete un sogno di felicità e di giustizia, il quale non è che l'istinto di conservazione, trasformato dall'evoluzione di un'eredità secolare”. Questo dialogo ha in sé la sua data. L'evoluzione!... L'eredità!... Con quale accento i fisiologi di cinquant'anni fa pronunciavano queste parole nelle quali facevano stare tutta la vita con tutto il suo ignoto! Se Vernat, che era uno di loro, avesse analizzato il suo essere intimo con lo stesso acume con cui soleva esaminare i pazienti nel suo ospedale, avrebbe constatata la limitazione di un'ipotesi falsamente semplice che mutila l'uomo riducendolo all'addizione dei suoi atavismi. Questi non sono che i materiali coi quali noi costruiamo la nostra persona. Appunto a questo lavoro su noi stessi, che presuppone una volontà libera e responsabile, egli invitava i suoi ammalati, quando comandava loro di reagire. Secondo lui, ciò voleva dire “dar loro la scossa morale”. Ed egli stesso, che li suggestionava, altro non era che un volitivo, certo preparato dalle proprie eredità, che però aveva utilizzate per il proprio sviluppo, modificandole invece di subirle. Suo padre, uno dei più brillanti professori di retorica dei licei di Parigi (del quale, fra parentesi Giovanni Vialis era stato allievo) aveva trasmesso al figlio il gusto d'esprimersi bene, il senso dell'ordine nel discorso e quell'istintivo rispetto della gerarchia che appartiene propriamente al funzionario. Questi caratteri si ritrovavano nel medico. Così si spiegavano la lucidità superiore, l'eleganza dei suoi articoli o delle sue lezioni di clinica, e l'importanza quasi ingenua ch'egli attribuiva ai gradi ed agli onori. Ma, sul letterato, egli aveva, a forza di volontà, costruito uno scienziato, e, sul funzionario, un indipendente per tutto ciò che si riferiva alla sua vita privata e alle sue opinioni. Di origine provenzale, come rivelavano i suoi occhi bruni e caldi nel volto fine e mobile, egli aveva disciplinata l'immaginazione, che gli proveniva dalla sua razza, come pure, per mezzo di un costante allenamento, aveva irrobustito il suo organismo, troppo debole per natura. Chi l'avrebbe pensato, al vederlo basso di statura: ma vigoroso, camminare con un'andatura che rivelava l'agilità e la forza? Nella sua qualità di figlio di professore, dominato dalle idee, egli aveva avuto, da studente, quell'indifferenza per le cose esterne che è troppo vicina all'incuria. Un'osservazione di Trousseau era bastata per correggerlo: “Ricordatevi, amico mio, che noi dobbiamo avvicinarci agli ammalati con abiti puliti come le nostre mani”, gli aveva detto con semplicità quel maestro, indicandogli una macchia sul bavero della giacchetta mal spazzolata. Dalle cose piccole alle cose grandi, tutto era disciplina, in quell'illustre clinico; e che cos'è la disciplina, se non l'impero dell'io su sé stesso, l'affermazione, mediante il fatto, che l'anima è una realtà? Dirò ancora che quell'intelligenza, la cui divisa era la sottomissione al fatto, rifiutò sino alla fine di riconoscere il fatto suddetto. Invece, ripeto, per un'inconseguenza che ricorda il detto famoso del Padre della Chiesa sulle “anime naturalmente cristiane”, egli riconosceva il fanatismo del dovere, e, come tutti gli uomini di una moralità vera, metteva in prima linea fra gl'imperativi categorici (poiché si serviva volentieri di questa espressione kantiana) l'obbligo professionale. - Noialtri medici, - gli piaceva ripetere, - siamo il Soccorso, e immediato, se possiamo. Quando Burrachot, salite le scale a quattro gradini alla volta, giunse sul pianerottolo del secondo piano dell'ospedale, Vernat, seguito dai suoi allievi, stava per entrare nella sala in cui era di servizio. In quel momento interrogava l'interno di guardia, circa le osservazioni della notte. S'interruppe, vedendo avvicinarsi il domestico dei Vialis con gli occhi pieni di spavento e con la faccia stravolta: - Qualcuno della famiglia sta male? - domandò. - Ho bisogno di parlarvi in disparte, signor dottore, - rispose Bourrachot. - Potrete parlarmi dopo la visita, fra un'oretta. - No, signor dottore... - insisté l'altro. E avvicinandoglisi maggiormente, soggiunse sottovoce: - Venite subito! Il signor Vialis si è ucciso poco fa! Quantunque un medico degli ospedali di Parigi sia troppo assuefatto alle tragedie e alle catastrofi, per stupirsi facilmente, Vernat rimase come atterrato da quella notizia, per alcuni secondi... Poi, rivolgendosi al medico di guardia, domandò: - E la polmonite del 22?... - È già in piena fase risolutiva. Le “punte di fuoco” hanno dato un risultato meraviglioso, come pure l'iniezione di caffeina. - Continuate la cura. E poiché non c'è nulla di grave nella sala, provvedete voi al servizio. Del resto, ripasserò prima di mezzogiorno a dare ancora un'occhiata. Andate pure, signori. Deposto il camice da ospedale e indossato rapidamente il soprabito, Vernat salì nella sua carrozza per recarsi in via San Domenico. Aveva fatto salire con sé il domestico, e, mentre la carrozza correva, continuava ad interrogarlo, come già aveva fatto nella guardaroba e sulle scale. - Dunque, il signor Vialis era appena tornato a casa, dopo aver passata la notte al ministero?..C'era della corrispondenza per lui?... L’ha aperta?... - No... - In questi ultimi giorni, avevate notato ch'egli fosse triste, irritabile?... - No... - E aveva appetito? Dormiva?... Non sapete?..- Poi, bruscamente: - Siete da molto tempo in casa Vialis, voi? - Sì... - Dunque, conoscete la famiglia... Sapete che qualche parente del vostro padrone si sia ucciso, nel passato?... Qualche cugino, qualche zio? - Sì, uno zio, signor dottore, e almeno un altro parente... - E come? - Con una revolverata. Tutti e due così, mi fu detto... Certo, quella testimonianza aveva per il medico un'importanza capitale, poiché egli cessò d'interrogare il cameriere e non disse più nulla fino al momento in cui la carrozza si fermò davanti all'abitazione dei Vialis. - Ora sapremo se è proprio morto... Sì, - soggiunse, ad un gesto del suo compagno, - finche non si è ascoltato il cuore, non si può sapere... - Ah! signor Dottore! - disse Bourrachot, quand'ebbe aperta la porta dell'anticamera ed introdotto il medico, - Se non fosse morto, la signora non piangerebbe come piange!... S'udiva ancora lo stesso lamento, lungo e lento, rotto dalla stessa frase, che, ripetuta indefinitamente, dava la sensazione di un delirio: - Perché, perché m'hai fatto questo? E la povera donna era ancora stesa a terra accanto al cadavere, e ancora lo abbracciava strettamente, sorvegliata dalla cameriera, che stava sulla soglia, attenta anche al ritorno di suo marito. - Signor dottore! - isse ella, sottovoce; - come si fa a staccarla da lui? Ho tentato ancora... Ma ha gridato!... Ho pensato che impazzisse! Il medico osservò per un momento quel gruppo tragico, rimanendo immobile. S'era già formato un'idea circa la causa probabile del suicidio. Poiché c'erano state altre morti volontarie, nella famiglia, l'eredità era in giuoco. Ma quale occasione aveva provocato l'atto improvviso? Psicologo troppo penetrante per non aver compreso che un'appassionata tenerezza univa i due coniugi, Vernat era anche abbastanza informato relativamente al retroscena della vita, per non sapere che un'infedeltà fisica è possibile, anche nell'amore più sincero, spesso da parte dell'uomo, qualche volta da parte della donna. Egli ascoltava dunque le, parole che quella sventurata gemeva, quasi senza pronunciarle, e cercava di tradurle. Dal loro significato esatto, dipendeva la condotta ch'egli avrebbe tenuto verso di lei. La minaccia di pazzia intravista dall'ignorante Maria Bourrachot andava precisandosi per lui. Gli era nota, per averne curati i malesseri, la fragilità nervosa di un organismo che certo poteva essere scombussolato per sempre da un simile trauma psichico... Ma ora bisognava agire. Andò direttamente a lei, e, calcolando che la sorpresa di una presenza inaspettata le avrebbe inflitta una scossa forse salutare, la chiamò tre volte per nome: “Signora Vialis! Signora Vialis! Signora Vialis!”, senza che ella rispondesse. Allora la prese per un braccio, e trovò una resistenza convulsiva che gli fece temere una pericolosa crisi, se avesse insistito. In quel momento, mentre allentava quella stretta, scuotendo il capo, egli vide la busta lasciata sulla tavola dal suicida. Lesse la soprascritta. Gli si offriva il mezzo che cercava. - Signora, - disse semplicemente, - vostro marito vi ha scritto. La vedova si sollevò, con un gesto non meno convulsivo della sua resistenza di poco prima. Vernat le porgeva la busta, tenendola piuttosto alta. Ella dovette staccarsi dal cadavere e alzarsi in piedi, per prenderla. L'avidità di avere la spiegazione dell'atroce enigma vinceva in lei perfino il dolore. Con una mano che non tremava più, ella apriva la busta, senza badare al medico, il quale, inginocchiato ora al posto occupato da lei qualche minuto prima, applicava l'orecchio sul petto del morto, per debito di coscienza professionale. Già dal primo sguardo, egli aveva constatata la rigidezza del cadavere. Disse piano una parola al domestico, che andò - a prendere una salvietta, e poi con questa coprì la testa di Giovanni, alla quale il foro della fronte, gli occhi già vitrei, La bocca aperta, davano un aspetto terribile. Maria Vialis non s'avvide nemmeno di quell'atto. Tutta l'anima sua era assorta nella lettura di quelle due lettere, ogni parola delle quali giungeva a lei come pronunciata dalla cara voce che non avrebbe udita mai più. IV L'appello alla madre. “Cara anima mia, - diceva la prima lettera, - quando ritornerai in casa, io non sarò più. Ti amo appassionatamente, ma non posso sopravvivere al disonore. La qui unita lettera al ministro ti spiegherà tutto. Gliela porterai. È impossibile che egli non comprenda che non gli ho mentito. Non ho che un modo per convincerlo che non sono un traditore, un infame. Sono stato, sì, molto colpevole, ma non come egli ha pensato. Sono colpevole verso di te, verso nostro figlio, andandomene a questo modo. Ma non posso, non posso più vivere. Soffro troppo. Perdono! Perdono! Perdono, amore mio! Ti amo, ma devo lasciarti, perché non vi sia macchia sul nostro nome. Il mio, è il tuo, è quello di Gianmaria. Dio avrà pietà di me. Noi ci ritroveremo. All'essere accusato come sono, e non poter dimostrare la verità altrimenti che col morire, - poiché, insomma, ai morti si crede, - è cosa assai dura! Addio, mio unico amore! Pregandoti di portare tu stessa la lettera al ministro, ti affido il mio onore. ” L'altra lettera era così concepita: “Signor ministro, “L'uomo che vi scrive sta per uccidersi. Egli ha diritto di dirvi che non ha commesso l'azione che voi, dal canto vostro, avete avuto diritto di rimproverargli. E' vero: egli doveva, poiché l'onoravate della vostra fiducia, non avere l'imperdonabile leggerezza di lasciare in una cartella da scrittoio nella quale poteva esser presa, e fu presa - quella lettera la cui pubblicazione ha determinato il disastro del Puy. Dopo il furto di quella lettera, egli avrebbe dovuto correre da voi, che eravate stato tanto buono per lui, e confessarvi il suo fallo. Ebbe invece troppa vergogna, e - perché non ve lo direbbe, in questo momento della suprema verità? - troppo timore, anche, di una collera come quella che avete avuto poco fa e che egli non si permette di rimproverarvi. Tutte le apparenze sono contro di me. Ho un modo solo per provarvi che non sono un traditore, e consiste nel mostrarvi, - cosa di cui non potrete dubitare, - ch'io non sopporto la perdita della vostra stima. Non posso giustificarmi per mezzo di testimoni, ma la morte è appunto una testimonianza. Un uomo che non può accettare il disonore, non commise un'azione disonorante. Io non vi ho tradito. Sono stato tradito, io, da un amico di gioventù, del quale vi do il nome perché possiate controllare la mia sincerità, mediante una inchiesta. Quel miserabile si chiama Marcello Faugières. È avvocato alla Corte d'appello, e abita in via GayLussac, 12. D'altronde affermo ancora che un moribondo non mentisce, ed è appunto un moribondo, che vi scrive; è un moribondo, che vi prega di avere per coloro che lascia, - sua moglie e suo figlio, - la stessa benevolenza che aveste sempre per lui, prima della severità di questa mattina. Vi ripeto che capisco che era legittima quella severità. Ora non più, e lo sapete. ” Trascorsero parecchi minuti di un orribile silenzio. Vernat, ritto ora fra il morto e la vedova, si preparava a trattenerla, se un nuovo slancio di disperazione l'avesse precipitata di nuova sul cadavere. Che cosa contenevano quelle due lettere, per effetto delle quali ella rimaneva come pietrificata?.. - Devo andare! – disse ella infine, - e subito! Rimetteva già le lettere nelle loro buste, con un gesto febbrile, con uno sguardo selvaggiamente risoluto, ripetendo: “Subito! Subito!” - Ma dove? - domandò il dottore. - Al ministero. - S'è ucciso per un errore commesso nell'esercizio delle sue mansioni... pensò Vernat. - Come sarà accolta, questa povera donna, e che farà? Poi, ad alta voce: - La mia carrozza è davanti alla porta, signora, a vostra disposizione. Se permettete, vi accompagnerò. - Siete molto buono, dottore... - disse ella. - Così non sarò sola!... E non ebbe una parola di stupore al vedersi accanto quel medico che non aveva chiamato, né gli rivolse alcuna domanda. Ciò dimostrava che la sua estrema disperazione confinava veramente con la pazzia. Dal mondo esterno, non riceveva più, ormai, altre impressioni che quelle che avevano relazione col suo dolore. - Ma prima, devo dare un bacio a mio figlio... riprese. E mentre si voltava per uscire, si vide in uno specchio, con delle macchie di sangue sul viso. - Ah! - gemette, dopo un grido d'orrore. - Non deve vedermi così, il mio piccino! Uscì, seguita dalla cameriera, mentre Vernat diceva all'inquieto Bourrachot: - Ha pensato a suo figlio. Spero che stia per riaversi. Ma ci sono delle formalità necessarie: anzitutto, la dichiarazione al Municipio. Andate voi, a farla... Correte! Venisse almeno il commissario di polizia prima del ritorno della signora! Si tratta di evitarle nuove emozioni, che potrebbero essere pericolose... - Oh! - fece il domestico, visibilmente rasserenato dalla speranza manifestata dal medico. - La signora è piena di coraggio, al pensiero di a vere un dovere da compiere! Avete visto, signor dottore, quando le avete data quella lettera... Però, - soggiunse, - ha ragione! Il signor Vialis non avrebbe dovuto fare una cosa simile! Quando egli entrò nella politica, dissi a mia moglie: “Il signore non è fatto per queste cose... Si agita troppo per dei nonnulla!” L'aspetto della vedova, quando ella ricomparve, giustificò le parole di Bourrachot. Dal suo volto, ancor più pallido di prima, ma risoluto, le tracce sinistre erano scomparse. Ella aveva avuto l'energia d'indossare già una veste nera, un mantello nero, di mettersi dei guanti da lutto. La sua bocca serrata, la tensione dei suoi lineamenti delicati, la fissità de' suoi occhi azzurri dicevano abbastanza che persisteva in lei la febbre interna, domata però da quella volontà del dovere che Vernat aveva eccitata per caso. Lo stato di smarrimento nel quale egli aveva trovata la vedova gl'imponeva l'evidenza della necessità di elevare una diga fra lei e la sua sventura; una diga, non già per un momento, ma per sempre. Quale? Quell'innocente vittima d'un contraccolpo tragico dell'eredità, - poiché quest'ipotesi entrava troppo nel suo sistema, per non essere ammessa da lui completamente, - gl'ispirava già quella compassione particolare dei medici non induriti dall'ospedale. Essi vedono chiaramente il pericolo sospeso sull'ammalato, il quale invece non ne ha sospetto. Quando Maria aveva parlato del suo figliolo, il lampo di un terribile pronostico aveva attraversata la mente dello scienziato: il nipote si era ucciso come lo zio e come altri parenti. Quante probabilità, dunque, che il figlio si uccidesse, più tardi, come il padre! Ed egli la guardava camminare davanti a sé nell'anticamera, dalla quale l'aveva chiamato, senza entrare questa volta nella biblioteca, poiché non si sentiva abbastanza sicura di sé. - Andiamo, - aveva detto la vedova, con semplicità. Seduta in fondo alla carrozza, ella non disse più nemmeno una parola durante il tempo abbastanza lungo che il cavallo da nolo impiegò a percorrere la distanza fra la via San Domenico e il ministero. Ma un gesto incosciente che ella ebbe, appena le ruote cominciarono a girare, fu più espressivo, per il suo compagno, che non tutte le confidenze possibili. Ella gli aveva afferrato il braccio e glielo stringeva con la forza di una morsa. Muto commento alla sua esclamazione: “Così non sarò sola!” La contrazione di quella stretta rivelava la sua angoscia. La sua anima, ancora in vertigini, temeva di perdere la ragione. Quella convulsione continuata aumentava l'apprensione di Vernat. E siccome Maria teneva nella mano che aveva libera la busta sulla quale egli poteva leggere il nome del destinatario, il dottore si ripeteva: - Come l'accoglierà, il ministro? Vorrà riceverla, anzi?… Se potessi parlargli prima! Se potessi spiegargli che è in giuoco tutto l'avvenire di questa povera donna!... Ma in che stato dev'essere, lui, dopo le elezioni!... E se sì tratta di un errore grave commesso in servizio e relativo, appunto, a queste elezioni?... Ad ogni modo, potrò domandargli una cosa, per il figlio del povero Vialis; ... potrò pregarlo di evitare che la stampa si occupi di questo suicidio. E' nostro interesse, d'altronde. Questo “nostro” indicherà che il medico della Carità condivideva le idee del governo d'allora. Le sue opinioni, eccezionali nel suo ambiente, dimostravano che il suo empirismo sistematico aveva almeno registrato e compreso il fatto della Comune. A Parigi e nelle crisi acute, ogni uomo un po' in vista ha la propria scheda politica, nota agli interessati. Vernat aveva dunque una probabilità di riuscire in un passo che considerava come importantissimo. Esso avrebbe forse impedito che il figlio conoscesse un giorno la morte involontaria del padre, e avesse a subire l'assidua e terribile ossessione dell'imitazione. - Altra fortuna: il ministro c'era. L'usciere di servizio ravvisò la signora Vialis, che era venuta moltissime volte a prendere suo marito. Fece nondimeno delle obiezioni che Vernat troncò, dicendo: - Potete almeno far passare il biglietto da visita della signora ed il mio, con queste due righe..... E scrisse rapidamente: “Signor ministro, “Giovanni Vialis, vostro capo- gabinetto, si è ucciso. Per UMANITA' (sottolineò tre volte questa parola), vorrete ricevere la vedova, che ha una lettera del morto da consegnare a voi. ” - Sua eccellenza vi aspetta, - tornò a dire l'usciere, che lasciò passare il medico con la giovane signora. Il ministro era in piedi accanto al suo scrittoio. Teneva in mano il biglietto di Vernat, e la sua maschera d'uomo forte esprimeva stupore e sgomento per il sinistro effetto che la sua collera aveva avuto. Agitò quella carta, senza nemmeno salutare i visitatori, balbettando: - Ma è possibile?... E' possibile?... Per tutta risposta, Maria Vialis porse a colui che ormai considerava come l'assassino di suo marito la lettera ch'era stata incaricata di portare. Il ministro la prese. Mentre la leggeva, due grosse lagrime cominciarono a scorrere sulle sue guance avvizzite, attestando il suo rimorso per il cieco trasporto di collera che aveva ridotto alla disperazione e al suicidio un giovane ch'egli amava. Quel violento era un giusto. Appena Giovanni Vialis era sceso dalla carrozza, egli aveva provato rimorso per quella brutale condanna, non preceduta da un esame dei fatti, alla quale l'aveva spinto l'irritazione prodotta in lui dalla terribile notte degli scrutini. Gli era nota la sensibilità morbosa del suo capo- gabinetto. “Se quella lettera gli fu rubata, come asserisce, - aveva ragionato fra sé - è abbastanza naturale, dato il suo carattere, ch'egli non abbia parlato! Ho perso le staffe... Ho avuto torto”. Tornato al ministero per vedere la corrispondenza, prima di andarsene a casa a riposarsi, aveva lasciato da parte ogni cosa, per scrivere subito a Giovanni Vialis una lettera che stava appunto per mandare in via San Domenico nel momento in cui gli era stata annunciata la vedova. La prese sullo scrittoio, quella lettera inutile, dicendo alla sventurata: - Quella stima che il vostro povero marito mi prega di restituirgli, signora, egli l'aveva sempre avuta, l'aveva sempre meritata. Il malinteso che poté sorgere fra noi, è durato solo un momento. Eccone la prova: gli scrivevo poco fa, per richiamarlo... Mio Dio! perché non ha aspettato? Maria respinse con la mano la busta che quell'uomo le offriva con un gesto implorante. E, senza guardarlo, senza salutarlo, uscì dalla stanza, mentre Vernat, rimasto indietro, cercava di rimediare all'effetto di quella partenza insultante. - Signor ministro, quella povera donna non sa quel che fa. In questo momento, non è responsabile. Perdonatele, e perdonate a me, che come medico, affinché il figlio non sappia mai in che modo è morto suo padre, vi supplico d'impedire che la stampa si occupi di questo suicidio. - Giovanni Vialis sarà morto per un aneurisma. Redigete voi stesso la notizia... - disse l'uomo di Stato. - Almeno questo, glielo doveva! - disse la vedova, quando Vernat, ritornato presso di lei, le ebbe comunicata quella promessa. - Ma fatemi un altro favore! - soggiunse. Fate in modo che quell'uomo non venga al funerale! Voglio esserci, e se ci fosse lui, non potrei! - Signora, cercherò di ottenere anche questo, - disse il medico, - ma quando vi avrò riaccompagnata a casa. Gli si offriva l'occasione di osservarla ancora e di precisare a sé stesso il progetto audace che comincia va a intravedere, per dare a quella creatura disperata la “scossa morale” preconizzata dalla sua terapeutica. Appena si fu di nuovo seduto con lei nella carrozza, una parola d'ordine assolutamente professionale gli si pronunciò nel pensiero: - C'è già defervescenza. Ormai, ella ha potuto agire la sua emozione. La pila s'è scaricata. Ed era vero che l'allentamento nervoso diveniva evidente per il contrasto fra il contegno attuale della disgraziata e la sua frenesia di poco prima, di quando si era aggrappata al braccio del compagno, come un naufrago che stesse per affondare. Ella se ne stava, ancora, in fondo alla carrozza; si sentiva esausta, quasi in deliquio, ma provava quella strana sensazione di sollievo animale che succede, anche nella disperazione, alle crisi esplosive nelle quali sembra, infatti, che l'anima abbia spesa tutta la sua potenzialità di sofferenza. Provava, suo malgrado, una specie di benessere stanco, e ne era riconoscente a colui che l'aveva aiutata. E il medico la vedeva, nello stesso tempo, accorgersi della sua presenza e stupirsene: - Come siete stato buono, dottore! ... ripeteva la poveretta, come alla partenza, ma questa volta lucidamente. - Senza di voi, non avrei potuto fare ciò che dovevo. Ora capisco... Bourrachot è corso a chiamarvi, e siete venuto immediatamente, voi che siete tanto occupato. Ah! grazie! Poi, senza transizione, come avviene sempre negli stati emotivi in cui le idee si associano con un'apparente incoerenza, la quale segue una logica interna: - Vi ha detto, Bourrachot, com'è andata la cosa?... Egli era in casa, infatti... Ah! Se ci fossi stata anch'io! Sono rimasta fuori meno di mezz'ora. Sono uscita dalla chiesa prima della fine della messa... Troppo tardi! Troppo tardi!... Ma avrei dovuto aiutarlo prima, il mio povero Giovanni!... Vedevo, in questi ultimi giorni, ch'egli aveva un peso sul cuore. Era per il furto di quella lettera... Capireste, se vi avessi fatto leggere ciò che ha scritto al ministro... Avrei dovuto farvi leggere... Sapreste che cuore aveva il mio Giovanni!... Ah! che ingiustizia, da parte di quell'uomo, l'averlo creduto un traditore! Per una carta che un amico - capite? - un compagno di collegio, un mostro, rubò da una cartella in cui mio marito l'aveva lasciata!... Gliel'aveva affidata il ministro, quella carta... Il ladro l'ha pubblicata. Questa pubblicazione ha fatto andare all'aria non so quale elezione... Ecco ciò che temeva, il mio Giovanni, e perché era tanto triste!... Ed io non osavo domandargliela, il segreto della sua tristezza! . ;. Pensavo: “è inquieto per gli affari pubblici”... Era tanto patriota!... Tanto convinto!... Cercavo soltanto di divertirlo, di distrarlo... Lo trascinavo in società, mentre avrei dovuto interrogarlo, strappargli il suo segreto!... Certo, avrei aggiustato tutto. Sarei andata io, dal ministro, immediatamente, prima che lo scandalo scoppiasse... Ah! sono imperdonabile! La presentivo, la sciagura, già da molto tempo. Eravamo stati troppo felici!... Lo presentii anche di più in questi ultimi giorni, vedendo tanto triste il mio Giovanni, e non volli credere a quel presentimento!... Fui vile!... Ah! se egli fosse tornato a casa mezz'ora prima, o se io fossi uscita mezz'ora dopo!... L'avrei incontrato per via, certamente, e l'avrei obbligato a parlarmi, a dirmi tutto!... Ah! mio Dio! mio Dio! Ella pensava ad alta voce, così, e man mano che si riavvicinava alla sua casa, asilo della sua felicità e, ormai, della sua tragica vedovanza, si esaltava rievocando i ricordi della. sua dolce vita coniugale, sparsi anche nei minimi aspetti delle vie ben note per le quali passava. - Come posso impedire ch'ella ritorni subito presso il cadavere? - si domandava Vernat, inquieto per quel ritorno di nervosità che già succedeva alla breve calma. - Bisognerebbe che, come poco fa, vedesse anzitutto suo figlio. E quando la carrozza entrò nel cortile, egli disse ad alta voce: - Dov'è la camera del vostro figliolo, signora? - Là, a destra... rispose la madre, senza nemmeno volgere il capo verso le finestre indicate così. Era posseduta interamente dal desiderio di rivedere il caro viso di colui che aveva perduto per sempre. La sua agitazione annunciava una nuova e pericolosa crisi, che stava per esser fermata, non già dalla sua volontà, non già dalla suggestione imperativa del medico, ma dal più volgare degli ostacoli. Stavano svolgendosi le formalità della constatazione del suicidio, del quale Bourrachot aveva fatta la dichiarazione al commissario di polizia, quando la signora Vialis era uscita. Come li maledice, il cuore che sanguina, quegli umili e inevitabili particolari, d'un ordine freddamente amministrativo, che la nostra civiltà burocratica moltiplica intorno a una morte! Ma qualche volta dovrebbe benedirli. Essi gl'impongono, infatti, un arresto nella sua agitazione, il quale gli permette di sopravvivere. - Il commissario e il medico dei morti sono nella biblioteca. Queste parole, pronunciate dal domestico sottovoce e soltanto per il medico, furono ripetute alla vedova dallo stesso Vernat, che soggiunse: - Vi risparmierò di vederli, signora. Dirò loro che state poco bene... ed è vero. Andate ad abbracciare vostro figlio. La madre saprà trovare la forza di non piangere. - Sarà un po' di tempo guadagnato,... riprese tra sé il professore, risalito nella sua carrozza dieci minuti dopo. - Come per il mio ammalato del 22! Che cosa abbiamo voluto fare, con le punte di fuoco e la caffeina? Guadagnare tempo, fino alla risoluzione naturale. Egli tornava al suo ospedale, come aveva annunciato, pronto a soccorrere il povero che soffriva alla Carità nella propria carne infettata dal pneumococco, come aveva aiutata la donna ricca colpita nel vivo della sua sensibilità intima, e, senza distinguere troppo una dall'altra quelle due sofferenze, si preoccupava principalmente delle difficoltà terapeutiche, e continuava il suo monologo: - C'è questa differenza, però: il periodo risolutivo di una polmonite ha dei sintomi più precisi. Quando gli sputi diventano più abbondanti, sottocrepitanti, fini, poi grossi, e la temperatura s'abbassa, siamo sicuri che la dispnea sta per scomparire. Gli essudati psicologici non si sciolgono come quelli dei bronchi. Si sciolgono anch'essi, tuttavia, poiché scompaiono. E' ciò che si chiama consolarsi. Soltanto, dove sono le ventose, i vescicanti e i cataplasmi senapati, dov'è l'olio canforato e dov'è il siero che possono agire in casi come quello di questa povera donnina? Però credo di sapere il modo. di guarire anche lei... A meno che... Nel dire a sé stesso questa formula di dubbio, egli agitava il capo, come soleva nei momenti difficili. Quel gesto sarebbe bastato a rivelare ad un suo allievo l'audacia dell'atto chirurgico ch'egli si accingeva a tentare. Infatti, si trattava veramente di una operazione, non meno ardita, nel dominio morale, di quelle di cui egli era stato testimonio in gioventù, passando, nel vecchio Hotel-Dieu, dalla clinica di Trousseau, suo maestro, a quella di Maisonneuve. Si narrava, su quest'ultimo, una macabra leggenda, della quale si ricordano quanti studiarono medicina prima del 1870. Un giorno in cui quel sorprendente virtuoso del bisturi aveva eseguito, senza anestesia e senza antisepsi, una delle sue amputazioni prodigiosamente audaci, il suo assistente gli avrebbe domandato, indicando i due tronconi del paziente: “Quale è il pezzo che si deve riportare nel letto?” Pur non avendo i terribili aspetti dell'opera sanguinosa, certi interventi d'ordine puramente sentimentale sono tanto gravi! e la loro ripercussione può presentare pericoli tanto spaventosi! Come non esitare, prima di pronunciare una parola, che, quando sia stata udita, non sarà dimenticata mai più, o prima di rivelare un segreto che forse scombussolerà del tutto una mente già turbata? Vernat, la cui migliore qualità, al capezzale degli ammalati, consisteva in una franca risolutezza, si domandava ancora se avrebbe realizzato il suo disegno, quando, alle sei di sera, dopo un pomeriggio interamente dedicato a delle visite, - una delle quali era stata quella al ministro, promessa a Maria Vialis, - scese nuovamente di carrozza davanti alla casa di via San Domenica. Il volto ancora stravolto di Bourrachot, venuto ad aprirgli, distrusse immediatamente i suoi scrupoli. - Ah! siete voi, signor dottore! - gemeva il buon uomo. - Proprio ora, mia moglie mi supplicava di correre a chiamarvi... La signora sta peggio di prima! Da parecchie ore, la signora sta accanto al morto, e gli tiene stretta la mano, e non vuol staccarsene!... Non ha ancora preso cibo, in tutta la giornata, e di tanto in tanto si mette a gridare, a gridare!... Avete già sentito anche voi, come grida!... E intanto, il signor Gianmaria ha una delle sue terribili crisi di collera!... Per credere, bisogna aver visto!... Grida anche lui, chiamando suo padre e sua madre. Bisogna tenerlo fermo, e appena viene lasciato, ricomincia! Solo la signora riesce a calmarlo... Ma, nel suo stato presente, Dio sa che effetto le farebbe il vedere il piccino agitarsi così!... - Fate in modo che io possa vederlo, senza avvertirlo, - disse Vernat. - Venite, signor dottore... Ecco... (e Bourrachot schiuse una porta) L'udite?... S'udivano infatti delle grida, nel corridoio interno in cui erano entrati i due uomini, uno dietro all'altro. Da un'altra porta schiusa dal domestico, il medico vide lo spettacolo veramente atroce di uno di quei furori infantili che giustificano l'antico detto secondo il quale la collera è una breve pazzia. Il fanciullo - che non aveva ancora cinque anni - errava per la stanza, con, le fiamme al viso, dibattendosi come un animale impaurito. Quando la bambinaia, Luisa, e la cameriera Maria, volevano afferrarlo, egli le batteva, le mordeva, e, riuscito a sfuggire dalle loro mani, si avventava contro le pareti, come per spaccarvisi il capo. Oppure, si avvoltolava sul pavimento, in preda a convulsioni durante le quali una specie di rantolo succedeva agli urli. - Avete ragione... Ha bisogno di sua madre, - disse Vernat al domestico. Ora torno con lei. Sorvegliatelo senza toccarlo... La signora è nella camera da letto?... Sì? Potete rimanere... Mi raccapezzerò. Conosco la casa. Con quella memoria dei piccoli particolari fisici - pianta di una casa o lineamenti d'un viso, - che è propria dei mestieri nei quali l'uomo esercita molto il proprio sguardo, egli si era già diretto a destra, per il corridoio, e si era fermato davanti ad un'altra porta, dalla quale era passato molte volte, - se ne rammentava, - specialmente quando la signora Vialis era stata incinta di Gianmaria. Rimase immobile per ascoltare i gemiti di cui gli aveva parlato Bourrachot. Ma non udì nulla. - È in un momento di calma... - ne concluse. - Tanto meglio. Bussò. Una volta. Due volte. Tre volte. Nessuna risposta. Entrò, e la vide inginocchiata accanto al letto, con la testa appoggiata su una mano del morto. All'altra mano era avvolto un rosario. Ella baciava a quando a quando quelle dita livide. Se non fossero stati quei baci e i profondi sospiri che le sfuggivano dal petto, avrebbe potuto sembrare morta ella pure, tanto rimaneva immobile nel suo atteggiamento. Vernat le si avvicinò, senza ch'ella se ne accorgesse. Dovette toccarle una spalla per toglierla da quello stato d'ipnosi. Ella si volse, in un brusco sussulto, con quell'espressione di selvaggia rivolta che il medico le aveva già vista, quella mattina, ma che s'attenuò appena ella ravvisò l'uomo la cui compassione intelligente era stata il suo unico conforto in quella giornata d'angoscia. Gli aveva già parlato abbastanza del suo dolore, per poter pensare ancora ad alta voce davanti a lui, come aveva fatto dopo la terribile scena nel gabinetto del ministro. E riprendendo dopo alcune ore la confessione interrotta: - Guardate! Guardate com'è triste! - disse, indicando il bel volto pallido del suicida, incorniciato sinistramente da una benda che gli era stata messa per nascondere il foro nero alla tempia. E soggiunse con voce accorata: - Ed io gli domando perdono di non avere indovinato! Ah! sono stata molto colpevole! - Signora, - disse il medico severamente, - in questo momento siete colpevole soprattutto verso il vostro figliolo. Al vostro bimbo, specialmente; dovete domandare perdono... Maria Vialis lo guardò con stupore. Scossa in tutti i nervi dal dramma di cui quella funebre contemplazione le rinnovava ancora l'orrore, ella intravide ad un tratto una peggiore catastrofe. - Il mio figliolo?! - ripeté - che cosa è accaduto al mio figliolo? - Venite a vedere, - disse Vernat. Rispondere a quel grido d'angoscia con quella frase equivoca, era un modo crudele ma sicuro per ridestare la madre nella vedova. Ella si precipitò infatti, immediatamente, verso la camera che la furibonda collera del bimbo empiva ancora di gridi. La vide, il bimbo e, si slanciò verso di lei con la stessa frenesia con la quale poco prima si era dibattuto contro i tre domestici. Ella lo sollevò da terra, con uguale passione, e, stringendosi a lei, Gianmaria cominciò a calmarsi, rifiutando però di rispondere altrimenti che, con pianti ed abbracci a questa domanda, indefinitamente e teneramente ripetuta: - Ma che hai, piccino mio?..Che hai?.. - Bisogna metterlo a letto mentre è tranquillo, - ordinò il medico. - Aiutate la signora, - soggiunse, rivolgendosi alle due domestiche, - a svestirlo piano piano. E voi, signora, rimanete qui, fino a quando si sarà addormentato, perché non sia ripreso dalla crisi. Si addormenterà prestissimo. Meno di dieci minuti dopo, infatti, la madre ricomparve. - Se sapeste che cosa ha immaginato, il mio povero piccino! - disse ella. Siccome non aveva visto suo padre in tutta la giornata, né me, in tutto il pomeriggio, s'è creduto abbandonato!… E questo, perché ieri gli lessi la favola di Mignolino..Che sensibilità! Avete visto?... - Ho visto che è veramente figlio di suo padre, - rispose Vernat. Poi, dando al suo accento tutta la gravità di un solenne avvertimento: - E appunto questo dovete ripetere a voi stessa, signora, dopo ciò che è avvenuto oggi, in tutte le ore, in tutti i minuti della vostra vita... La vedova si appoggiò con le mani ad una tavola sulla quale erano sparsi dei balocchi, per non cadere sotto il nuovo colpo che le era dato da quella semplice frase, piena per lei d'un significato tanto funesto, e balbettò: - Volete forse dire, dottore... - Che il fanciullo è sotto la minaccia di finire come suo padre?... Sì continuò l'implacabile medico, che ormai si era deciso ad agire. - Seguitemi, signora! - soggiunse con singolare autorità, prendendola per mano e traendola seco verso la biblioteca. - No! non là! - implorò lei; - non là, ve ne supplico! - Sì, signora! - insisté Vernat, costringendola ad entrare - qui, in questa stanza dove vostro marito ha commesso l'atto che voi non avete capito e che, come madre, dovete capire, per il vostro figliolo! Quando sono entrato, questa mattina, dicevate al vostro povero marito: “Perché, perché mi hai fatto questo?”. Poi, quando vi siete trovata ,davanti al ministro, avete accusato lui, e più tardi vi siete accusata voi stessa, in carrozza, ed anche poco fa. Ebbene, signora... Sul mio onore di medico, vi affermo che nessuno è responsabile di questa morte: né il ministro, né voi, né lo stesso Vialis. Ciò che gli ha messo in mano l'arma, in questo ambiente, notate, nel quale aveva davanti agli occhi il vostro ritratto, quello del suo bambino, tutte le ragioni di non uccidersi, è stato un impulso più forte di lui, diverso da lui. Mi avete inteso: ho detto diverso. Infatti, egli non commise una vera e propria colpa... Vi fu un malinteso; il ministro l'ha detto in mia presenza. Ma c'era l'eredità... “L'eredità!” - ripeté il medico, scandendo le sillabe e dando loro un suono di campana funebre. - Sapete, infatti, che un suo zio ed uno, almeno, de' suoi cugini, si uccisero, e precisamente come lui... - Sì, - disse Maria, - ma che c'entra?...Lo zio di cui parlate era un gaudente, un giocatore, mentre Invece il mio Giovanni... - Quello zio era un ereditario come vostro marito, - interruppe Vernat. - Il mondo è pieno - riprese - di gaudenti e di giocatori che non si uccidono, semplicemente perché non hanno nel sangue questo sinistro atavismo della morte volontaria... Ma se cercate nella famiglia dei Vialis... - È vero, - disse ella, scossa da un brivido; - sentii parlare di quel cugino, ed anche di un prozio... - Ne ero sicuro. Non c'è suicidio che non sia ereditario, eccettuato, a quanto pare, il prima... Ma, se si osservasse bene, si vedrebbe che anche il primo suicidio, in una famiglia, non è in realtà che il termine finale di un atavismo emotivo sviluppatosi di generazione in generazione... Che era, vostro marito, se non un “grande emotivo”, straordinariamente impressionabile? Gliela rimproveraste molte volte in mia presenza, al vostro capezzale, quando ogni vostro piccolo male lo rendeva come pazzo... E vostro figlio, anche, non è forse già un emotivo della stessa specie? Davanti a noi, un quarto d'ora fa, quell'istinto di distruggersi per il quale egli si scaglia va contro le pareti, non era forse una prova?.. - Ah! - interruppe la madre, prendendosi il viso fra le mani; - mi fate troppo male! Tacete!... Perché mi dite queste cose?..Volete dunque farmi morire di dolore, qui, davanti a voi? - Voglio - disse il medico - che troviate in questa verità la forza di fare il vostro dovere! - Quale dovere? Se voi avete ragione, non c'è dovere, non c'è né il bene né il male, poiché non siamo responsabili. Sono parole vostre, queste... E Dio? Ma non sarebbe il Dio misericordioso dei credenti, se permettesse che un uomo giusto, delicato, onesto come mio marito fosse condannato a uccidersi, e così suo figlio dopo di, lui, per un germe che avessero nel sangue!... Ah! dottore! il mio peggiore nemico non mi avrebbe parlato come avete parlato voi!... - Mi ringrazierete un giorno, signora... rispose Vernat, triste, ma con fermezza. - Non vi ho detto, né vi dirò mai che l'eredità sia inevitabile. Io la combatto, quando per esempio prescrivo dei rimedi e un'igiene ad un fanciullo nato da genitori tubercolotici. Riflettete. Se vostro marito fosse morto d'una malattia di petto, vi parlerei forse da nemico, se vi dicessi: “vostro figlio è minacciato; portatelo nel Mezzogiorno”? Ora io non faccio altro che denunziarvi una minaccia, indicandovi una temibile predisposizione che si trasmette nella famiglia, e avvertendovi della necessità di combatterla. Sì, signora... c'è in vostro figlio un elemento morboso. Ne avete constatata la virulenza, or ora, in quella crisi di collera. Dipende da voi che tale virulenza s'attenui o s'aggravi; dipende da voi, - insisté dall'educazione che gli darete... Voi dovete compiere quest'opera di salvazione. Essa è possibile. Il fatto che il padre e il nonno di vostro marito non si uccisero, prova che il germe ereditario non sboccia necessariamente. Dico che dovete! La prova che si può nello stesso tempo riconoscere la legge dell'eredità e credere al dovere, è che io credo al dovere, appunto, e cerco di compierlo, in questo momento. Vi ho guardata soffrire, questa mattina e poco fa. Ho capito che stavate per affondare nella disperazione; e allora, che sarebbe avvenuto di vostro figlio? Per lui, e perché egli ha in sé quel germe, la dominerete, la vostra disperazione... Vi ripeto che dovete! ... A questo punto Vernat ebbe un momento d'esitazione. Una delle sue regole più rigorose era quella di non permettersi mai una menzogna d'idee. D'altra parte gli era nota la religiosità della signora Vialis, e le sue osservazioni quotidiane gli avevano dimostrato abbastanza che ogni forza viva comprende una potenzialità di guarigione, perché non giudicasse opportuno lasciare intatta in quell'anima ferita la forza della religione. Quell'ateo era contrariato, ora, perché la sventurata aveva tratto dal suo discorso un argomento contro Dio. Riprese: - D'altronde, signora, voi avete un confessore; consultatelo. Sarei molto stupito se quel sacerdote non vi dicesse, come vi dico io, che l'eredità rimane, in realtà, il mistero dei misteri, mentre è la causa delle cause. Egli la spiegherebbe, certo, con la reversibilità. Io invece la spiego con l'evoluzione delle cellule. Sono soltanto ipotesi. Non si può comprendere tutto, ma un fatto è un fatto. Vi manderò questa sera stessa due o tre volumi di scienza nei quali troverete studiato nella sua crudezza il fatto che c'interessa. Quanto al mezzo di difendere vostro figlio, in questo momento non posso far altro che indicarvene le grandi linee. Bisogna anzitutto che il bimbo non sappia nulla di questa catastrofe. Abbiamo già provveduto in questo senso. Ho redatto un articoletto che il ministro diramerà ai giornali. Si saprà che Giovanni Vialis è morto d'una malattia di cuore. È necessario che il fanciullo non veda la vostra disperazione. Ne sarebbe sensibilizzato oggi, e forse illuminato più tardi. Nessuna scossa! Sia questa la vostra regola verso di lui. Con la calma, potrete guidarlo come vorrete... Ma dovrete farvi tutto un programma. Io sono pronto ad aiutarvi. Se vostro marito potesse parlarvi, ora, sapete che cosa vi direbbe? “Salva il piccino!” E vedendo che in lei non era più traccia della rivolta di poco prima, Vernat concluse: - Giuratemi, signora, in questa stanza nella quale Vialis ha sofferto la suprema agonia, di fare tutto il possibile per costruire la vostra vita avvenire su questa sua volontà: salvare suo figlio! - Cercherò, ve lo giuro! - disse la vedova dopo un silenzio, vinta da quella specie di radioattività che emanava quell'uomo superiore, tutto teso, in quel momento, in uno di quegli atti d'influenza per mezzo dei quali un essere comunica ad un altro l'energia della propria convinzione intima, e gliel'infonde. - Ma, - soggiunse, - sarà arduo, questo compito, e io sono tanto debole! Poi, più piano, rivelando così la diffidenza che aveva di sé stessa, domandò: - Il ministro non verrà, domani al funerale? - È inteso che non verrà - rispose Vernat. E quando, dopo quella conversazione, si ritrovò nella sua carrozza, solo coi suoi pensieri, disse fra sé: “Quella donna è più forte di quanto essa supponga. Claudio Bernard ha ragione: noi possiamo più di quanto possiamo. Ella cercherà di salvare suo figlio, come ha giurato. È un'anima fedele. lo, ho fatto ciò che bisognava fare. Sono stato il Soccorso... ” La sua coscienza non era mai tanto vivamente soddisfatta come nei momenti in cui egli poteva dire così, applicando a sé stesso quella parola che aveva adottata per suo motto. Poi, scuotendo il capo, concluse: “Qualunque cosa ella faccia, d'altronde, è molto probabile che quel figliolo finisca come suo padre. Ha un bel dire, il mio collega Grasset, che l'eredità non è né fatale, né ineluttabile (Prof. GRASSET, Physiopathologie clinique. T. III, p. 1093)! È la prigione. Ma ad un prigioniero in un carcere, perché non si spacchi la testa contro il muro, come voleva fare il piccolo Gianmaria, si può forse dire: Voi potete uscirne. Meritatelo? Ahimè! quando si tratta di quella prigione, non c'è nessuno che abbia qualità per dare l'exeat!”. V Dopo ventisette anni Ventisette lunghi anni erano passati, da quel sinistro giorno dell'ottobre 1877, nel quale il medico della Carità aveva strappato alla vedova di Giovanni Vialis quel giuramento, o piuttosto quel voto di una lotta contro la fatalità sospesa sul figlio del suicida. Oh! contraddizione di un negatore della forza spirituale, che esortava una madre disperata a compiere uno sforzo il quale sottintendeva appunto un appello alla forza spirituale! Più d'un mezzo secolo d'ospedale e di laboratorio non aveva prodotto alcun mutamento nelle teorie del monista Vernat, che continuava a considerarsi come fedele al metodo scientifico, cercando soltanto - attraverso i suoi esperimenti di clinico - delle verificazioni a certe ipotesi metafisiche ammesse una volta per sempre. Ora titolare di una cattedra alla Facoltà di medicina era divenuto uno di quei medici famosi che sono veri gran signori della Parigi moderna, e che vivono fra le magnificenze d'un lusso principesco, attorniati da una corte di discepoli e di clienti, ugualmente fanatici. Una simile esistenza è come un terreno già scavato per ricevere i tre fiumi di fuoco di cui parlava Pascal dopo San Giovanni: la passione di sentire, la passione di sapere e l'orgoglio della vita: “Omne quod est in mundo, concupiscentia carnis est, et concupiscentia oculorum, et superbia vitae (“Tutto ciò che è nel mondo, è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e orgoglio della vita... ”; S. Giovanni. Ep. I, c. II, v. 16)”. E l'apostolo soggiunge subito: “Il mondo passa, e la concupiscenza del mondo passa con lui... ”. Vernat, nel suo trionfo, era già molto vicino a quel trascorrere di tutte le cose periture che faceva dire allo stesso Pascal: “I fiumi di Babilonia scorrono, e si riversano in cascate, e travolgono. O Santa Sion, dove tutto è stabile e nulla cade!”. Alla città mistica di dopo la morte, il gran medico non credeva affatto. Credeva invece nella sicurezza del proprio diagnostico, e si sapeva condannato per una scadenza più o meno lunga, avendo riscontrati in sé tutti i sintomi iniziali del terribile morbo di Bright: cefalea, palpitazioni, vertigini, piccole emorragie; sensazione del dito morto, crampi, pruriti, ecc. Gli accadeva spesso di passarsi la mano sulla fronte per constatarvi la flessuosità in rilievo dell'arteria dilatata. E quando si osservava nello specchio, vedeva una maschera gonfia di sessantenne, il cui sguardo triste non rammentava affatto la luminosità orgogliosa dei suoi occhi d'un tempo. Quantunque s'imponesse l'atteggiamento stoico del suo maestro Trousseau, il pensiero di essere alla mercé di un episodio acuto gli empiva d'ombra la mente. Non varcava mai la soglia del suo palazzo del Parco Monceau, senza che una voce interna gli mormorasse il fatale: “Presto bisognerà lasciare tutte queste cose!” E tutte queste cose non erano soltanto quella bella abitazione con i suoi quadri, i suoi mobili rari, le sue tappezzerie. Comprendevano anche la più devota delle compagne, la donna un tempo deliziosamente bella (e ancora tanto graziosa nella sua vecchiaia incipiente) ch'egli aveva sposata un po' prima del suicidio di Giovanni Vialis; - anche il suo ospedale della Carità, nel quale aveva creato un servizio modello e che amava come Napoleone poteva avere amata la caserma della sua Guardia; - anche i pochi salotti nei quali gli piaceva essere accolto fra gli omaggi, ed infine, e soprattutto, i suoi ammalati. Era rimasto appassionato per l'arte sua come quando, studente giovanissimo, saliva le scale del vecchio Hotel-Dieu per andare a udire lo stesso Trousseau; come quando, il suo cuore batteva forte se gli accadeva di trovarsi, fra gli uditori del maestro, a fianco di quell'altro maestro che si chiamava Duchenne (di Boulogne). Continuava a mettere in pratica, con un fervore esaltato dalla convinzione della sua prossima fine, il suo nobile motto: “Essere il Soccorso!” Non avendo avuto che un figlio, morto nel nascere, aveva dedicato tutto le sue forze affettive ai suoi pazienti, e specialmente a quelli che seguiva fin dal principio della sua carriera. Perciò, nessuna visita eccitava in lui un interesse tanto vivo, come quelle che andava facendo in quella casa in via San Domenico, dove Maria Vialis continuava a vivere. Dopo il suicidio del marito, ella non aveva mai voluto lasciare quell'appartamento, nel quale aveva trascorso tanti anni d'una felicità sì completa, tragicamente ed improvvisamente naufragata in una di quelle catastrofi dalle quali certe anime - quelle che sanno amare - non si risollevano mai. Non aveva permesso che cosa alcuna vi fosse mutata. Il suo culto per la memoria del marito voleva che tutto continuasse ad essere, in quella casa, esattamente come nel giorno in cui il giovane capo gabinetto, accusato dal suo ministro, si era ucciso in un accesso di vertigine emotiva, - purtroppo ereditaria! - Ella aveva anche continuato a tremare all'idea della minaccia. E il medico, come avrebbe potuto non dire a sé stesso che forse aveva commesso un errore provocandola, quella minaccia? Quante volte questo scrupolo aveva tormentata la sua coscienza, e più ancora nel momento in cui questo racconto ricomincia! Ora si comprenderà perché. Volgeva l'ultima settimana del mese d'ottobre 1904; era passato da pochissimi giorni l'anniversario del dramma del 1877, e Vernat scendeva dalla sua carrozza davanti alla casa di via San Domenico, all'ora stessa in cui il domestico di Vialis era andato a chiamarlo, una mattina uguale a quella, velata e triste. Una chiamata troppo uguale gli era giunta, al suo destarsi, sotto la forma di un biglietto scritto dalla vedova, che lo supplicava di passare da lei nel recarsi all'ospedale. Ella diceva di sentirsi un po' sofferente per un'infreddatura, e la sua lettera finiva con questa frase anche troppo significante: “Non devo consultarvi soltanto sulla mia salute. Mi avete compresa. C'è urgenza”. - C'è urgenza, - si ripeteva Vernat, - ed ha sottolineato queste parole. Vorrà parlarmi di suo figlio. Me l'aspettavo. Si fermò un momento sul pianerottolo, come se avesse avuto bisogno di raccogliere tutte le forze del proprio spirito prima di affrontare un colloquio del quale intuiva la pericolosa gravità. Da molto tempo, egli evitava con la signora Vialis le allusioni a ciò che continuava ad essere, nondimeno, il loro comune pensiero. Aveva approfittato, per tranquillizzare completamente la madre, di un fatto che d'altra parte aveva per lui una grande importanza. Giovanni Vialis si era ucciso a ventotto anni. Gianmaria aveva compiuto, appunto, i ventotto anni nel 1900, e quella data era stata oltrepassata senza che nulla di anormale fosse avvenuto. Ora, nell'eredità del suicidio c'è una legge che i psichiatri moderni chiamano omocronismo. In una famiglia di predisposti, la morte volontaria si osserva generalmente alla stessa età e spesso nella medesima stagione. “Il momento, pericoloso è passato”, aveva detto il medico alla vedova; “avete salvato vostro figlio”. Ma, fra sé: “Che cosa sarebbe avvenuto - si era domandato Vernat, - se proprio a quell'età si fosse presentata a Gianmaria una circostanza come quella che ridusse al suicidio suo padre nell'ottobre 1877?” Il terapeutico in voga era troppo informato delle minime dicerie di salotto, per non sapere che una circostanza analoga poteva ormai presentarsi al giovane, da un momento all'altro, e provocare in lui il gesto fatale. Era informata, la madre, di uno stato di cose rimasto segreto, ma non abbastanza perché lui, Vernat, lo ignorasse? Se ella lo avesse interrogato, che cosa le avrebbe risposto? Mentre tirava il cordone che metteva in moto, alla maniera antica, un campanello interno, si sorprese a mormorare la formula dell'antico giuramento ippocratico: - Nec visa, nec audita, nec intellecta... E, ad alta voce, al domestico che gli apriva la porta e che era lo stesso che gliel'aveva aperta tante volte nel 1877, domandò: - La signora sta male, Bourrachot? - Ogni anno in questo mese, - rispose il domestico, - si ripete la stessa cosa, signor dottore... Questa data le ricorda troppo il povero signore... Lo stesso accade a me, in luglio, che è il mese in cui morì mia moglie... La signora se ne sta sola per delle ore, chiusa in quel maledetto studio dove avvenne la tragedia. Signor dottore, ordinatele almeno di stare nel salotto. Certo non soffrirebbe tanto, per niente! Guardate, signor dottore.... Bourrachot aprì un'altra porta, quella della biblioteca, e, con un gesto scoraggiato, indicò la vedova, ancora in gramaglie, che stava assorta nei suoi pensieri, seduta accanto al fuoco, a - due passi dallo scrittoio sul quale era sempre rimasta la cartella dalla quale l'amico traditore aveva rubata la lettera fatale. Ora i capelli della bionda Maria Vialis d'una volta erano tutti bianchi. Della bellezza graziosa dei suoi venticinque anni, le era rimasto soltanto il fine profilo, divenuto sì doloroso, sì amaro... Erano ancora gli stessi lineamenti delicati che si vedevano nel ritratto, ancora appeso alla parete, nel quale ella teneva il suo figliolo stretto a sé, - profetico simbolo di ciò che doveva essere tutta la sua vita! Soltanto, quei lineamenti, ora, sembravano come incisi con una punta, Un costante terrore aveva dato una continua espressione d'ansietà a quel volto, raggiante, un tempo, di tenerezza felice. Esso si illuminò, tuttavia, quando ella vide finalmente il visitatore, d'un vago sorriso che scoprì i suoi bianchissimi denti rimasti intatti, indizio, come i folti capelli, come la flessuosità della persona, come l'agilità delle movenze - di una vitalità molto resistente. Purtroppo, ella l'aveva impiegata soltanto a soffrire, in quell'ambiente della sua felicità d'altri tempi, che le metteva intorno la malinconia della eleganze appassite. L'appartamento era stato arredato all'epoca del suo matrimonio, nel 1872. I mobili coperti di stoffa erano allora “di moda”. In quello studio, c'erano delle poltrone imbottite, la seta delle quali era scolorita. Quella delle tende, anche, si sdruciva e scoloriva. Le rilegature dei volumi ereditati dai nonni di Vialis rivestivano ancora le pareti col loro marocchino avvizzito ed aggiungevano anch'essi qualcosa a quell'aspetto di triste vetustà, tanto più che il pianterreno dava su di uno stretto giardino, nel quale, in quella mattina grigia, due alberi magri lasciavano cadere le loro foglie morte su un tappeto erboso pure ingiallito... Frattanto la reclusa di quell'asilo di rimpianti s'era alzata con una febbrilità che dimostrava come ella avesse atteso Vernat molto impazientemente, dal fondo della sua solitaria fantasticheria. - Avevo tanto timore - disse - che veniste più tardi!… E siccome aspetto Gianmaria per le undici... - Avete voluto parlarmi di lui, prima... - interruppe il medico. - Ma anzitutto dobbiamo parlare di voi. Dunque avete di nuovo preso freddo. Al cimitero, naturalmente!... Suvvia! lasciate ch'io vi ascolti... Parlando, l'aveva obbligata a sedersi, ed ora, applicato l'orecchio prima al petto, poi alle spalle di lei, diceva: - Respirate. Non respirate... Va bene... Nulla di grave. Ma se non sarete un po' più prudente, vi manderò nel Mezzogiorno!... - Sapete bene che non posso andarci! Le mie opere di carità... - Anche per quelle, vi affaticate troppo. - Non vorrete proibirmele!..Dimenticate che mi hanno aiutata a vivere, specialmente dopo il matrimonio di mio figlio? Seguì un breve silenzio, che Vernat interruppe per il primo. . - C'è qualcosa di nuovo, da quella parte? - domandò. - Sì... C'è, anzitutto, che Gianmaria non è felice! - rispose la madre. - Sapevo bene che quella moglie non era la più desiderabile, per lui! E anche voi lo sapevate. Quando venni ad annunziarvi: “Gianmaria è innamorato di Sabina Lancelot: vuole sposarla... ” compresi subito, dalla vostra fisionomia, che quella ragazza non vi andava a genio... - La conoscevo appena - corresse il medico - . Però vi dissi la verità, affermandovi che l'avevo vista piena di abnegazione al letto di morte del suo nonno, presso il quale ero stato chiamato per un ultimo consulto. - Me lo diceste, infatti, - riprese la signora Vialis, - e aggiungeste che era soprattutto necessario agire con molti riguardi, data l'esaltazione di Gianmaria. Mi rammento perfettamente di tutto il vostro discorso, e delle cifre che mi citaste, secondo le quali quindici suicidi su cinquanta hanno per causa delle storie d'amore. Non è un rimprovero, amico mio. Il medico doveva parlarmi come mi parlaste, allora, ed io dovevo agire come agii. Quando cominciai a fare delle obiezioni a Gianmaria, egli mi guardò... E rividi talmente, nei suoi occhi lo sguardo di suo padre!... - Non dovete esser pentita, - disse Vernat - Sono, tutti e due, abbastanza ricchi, hanno due bei bambini sanissimi. Conducono, è vero, una vita un po' troppo mondana... Ma sono giovani... Gianmaria trascura un poco gli studi di storia che iniziò quando uscì dalla Scuola diplomatica?... Vi avevo consigliato di dirigerlo da quella parte, per evitargli una carriera d'ambizione e i suoi pericoli possibili... Quei pericoli sono evitati. Resta da sapere se quell'esistenza di svaghi che oggi è la sua, sia preferibile, per la sua salute, all'abuso di lavoro intellettuale che mi rendeva inquieto, ve lo confesso. Quanto al non essere felice... persuadetevi che la felicità, gli sarà sempre vietata dal suo carattere... - E siete voi, che parlate così, a me... a sua madre?! - interruppe Maria Vialis, guardando il suo interlocutore fissamente e con un fremito delle labbra e delle palpebre. - Voi! - ripeté. Ma se non dite la verità a me, voi, su quale aiuto, su quale, potrò far calcolo? Non dissi mai a nessuno, nemmeno al mio confessore, che mio marito si uccise. E al mio confessore, non voglio chiedere consiglio... Soltanto a voi, dunque, soltanto a voi, posso parlare di quella cosa orribile!... - Calmatevi, signora; calmatevi! - disse il medico. - Desiderate che io vi dia un consiglio?..Sono pronto a darvelo. - Ebbene, riprese la madre, - anzitutto, devo rivolgervi una domanda. - Dite... Vi risponderò. - Voi frequentate molta gente, dottore, e sentite dire molte cose. Quando si parla di mia nuora, in società, che cosa se ne dice? - Che è una donna graziosissima, molto simpatica... - Ah! - esclamò la madre, irritata. - Ancora questa menzogna!... È una menzogna, infatti!... È vero o non è vero, che mia nuora viene giudicata una civetta?... Non mi rispondete! Eppure, mi avete promesso... Non dicono tutti che è leggera?... Non mi rispondete!... Non viene pronunciato, parlando di lei, il nome di un uomo?..Non mi rispondete! Ma cercate di capire, dunque, che se ve le rivolgo, queste domande, non è per me! Io, ho già la mia convinzione. Sabina non è una donna onesta. Ora è necessario che mi aiutiate a difendere mio figlio, perché... Ella indicava li scrivania sulla quale suo marito, prima di uccidersi, le aveva scritta la breve lettera d'addio. E, ad un gesto del medico, che significava: “Ma che cosa posso fare io?” continuò: - Da alcune settimane, mio figlio è atrocemente triste. Si tratta di uno di quegli abbattimenti come gliene vidi tanti, quand'era piccolo, prima di andare a confessarsi, o prima di un esame, ogni volta, insomma, che aveva occasione di manifestare quella tendenza all'ansietà che ho tanto combattuta in lui, appunto per questo, volli che tutta la sua educazione si svolgesse qui. Attualmente, egli attraversa una crisi. È una crisi grave, poiché mi ha scritto annunciandomi la sua visita per questa mattina, in termini molto inquietanti, e pregandomi d'essere sola! ... Amico mio... poiché infatti siete un mio amico, il migliore, il più sicuro, quello che sa tutto... vi prego nuovamente di aiutarmi, in questa circostanza!.... - Dunque, credete ch'egli voglia parlarvi di sua moglie?..Credete che sia geloso? - disse Vernat, senza rispondere direttamente. Mentre Maria Vialis lo tormentava con le sue domande, la fisionomia di lui era divenuta sempre più indecifrabile. Egli non aveva sbagliato, prevedendo un'inquisizione alla quale la sua coscienza non gli permetteva di prestarsi. Il segreto professionale, per un medico scrupoloso, non si riferisce soltanto alle malattie. Si estende perfino ai discorsi uditi in salotti nei quali il medico viene accolto specialmente come tale. Vernat era dunque fermamente deciso a non pronunciare parola alcuna che confermasse i sospetti della suocera relativamente alla nuora; e poiché alla sua domanda sulla gelosia di Gianmaria, la signora Vialis aveva risposto affermativamente, egli volle prevenirla, e le domandò: Temete dunque che vostro figlio pronunci, lui, un nome d'uomo? - Sì. - E potreste dirmelo, questo nome? - Giorgio Saintenois! - disse Maria con voce strozzata. Ella aveva afferrato il braccio di Vernat, come quel giorno lontano, nella carrozza che li portava al ministero, e allentando la stretta esclamò: - Ah! non avete sussultato! Dunque è vero che questo nome non vi dice nulla! - Poi, accasciata: - Ma che cosa prova, questo? Non sareste quel gran medico che siete, se non sapeste tenere tutto qui e qui! - E gli toccava alternativamente il petto e la fronte, gemendo: - Ah! come sono sola! - Ma no, signora! non siete sola! replicò Vernat prendendole a sua volta una mano. E, mettendo in pratica, infatti, quella regola professionale del sapersi dominare, della quale ella lo aveva lodato allora, assunse un tono bonario e indulgente per tranquillizzarla. Pensava: “Povera donna! Ha indovinato!” E riprese ad alta voce: - Suvvia! permettetemi di ragionare con voi... Che cos'avete sperato, interrogandomi? Che vi avrei risposto: sì, ho sentito parlare di Giorgio Saintenois, a proposito di vostra nuora; oppure: no, non ne ho sentito parlare! Ma non proverebbero nulla, i discorsi o il silenzio della gente! Quante relazioni innocentissime vengono calunniate! Quante relazioni colpevoli sono invece ignorate! ... Voi vorreste, in realtà, controllare i vostri sospetti. Checché diciate, infatti non potete avere che dei sospetti! Ma non avete trovato il mezzo più opportuno. - Voi sfuggite sempre! disse la madre, scuotendo il capo con tristezza. - È un vostro diritto, oppure è il vostro dovere... Ma non sfuggirete a quest'altra domanda. Mio figlio sarà qui fra mezz'ora. Supponiamo ch'io non m'inganni, - e su quel punto non m'inganno di certo... Ho osservato troppo bene il suo contegno verso sua moglie in questi ultimi tempi... Supponiamo dunque ch'egli sia geloso ed abbia motivo di esserlo. Supponiamo inoltre ch'egli mi dica un nome e che questo nome sia quello di Giorgio Saintenois. Siete o non siete del parere che io debba condividere la sua idea, e manifestargli la mia opinione? Non credete che, agendo così, io possa provocare uno sfogo salutare, da parte sua? Se il mio povero marito, il giorno in cui constatò il furto di quella lettera che gli era stata affidata dal ministro, me ne avesse parlato, e avessi potuto ragionare con lui delle possibili conseguenze di quel fatto, egli non avrebbe subito l'ossessione della fissazione che gli fu fatale. Ne sono sicura. Poi, nella scena col ministro, l'urto sarebbe stato meno violento per lui, e ciò che avvenne non sarebbe avvenuto. - Il caso non è uguale, - rispose Vernat. - C'era un fatto positivo, allora, e un fatto si circoscrive, si precisa... Nella circostanza presente, non si tratta, vi ripeto, che di sospetti, tanto in voi che in vostro figlio, dato ch'egli sia veramente geloso. I suoi sospetti, li moltiplichereste coi vostri, semplicemente, e così determinereste l'esplosione. Il mio parere, poiché me lo domandate, è che gli teniate celato, invece, tutto ciò che mi avete detto or ora, ma risolutamente, assolutamente! Se egli dirà il nome di Saintenois, come temete, abbiate il coraggio di alzare le spalle, e di scherzare... - Ma, dottore... - interruppe Maria, - calcolate bene ciò che mi consigliate? Dunque, Sabina avrebbe un amante, ed io, madre del marito, dovrei coprire una simile infamia?.. - Procurate di non doverla coprire... - Ma in che modo, se la cosa è vera? - Coll'avere con vostra nuora la conversazione che non dovete avere con vostro figlio. - Non vi capisco... Una conversazione con mia nuora? Su Saintenois? - Sì. - Ma così l'avvertirei. - Appunto; e la fermereste, qualora ella fosse ancora nel periodo delle semplici leggerezze, oppure la decidereste ad una rottura, se si fosse spinta più oltre; Se vostro figlio vi ha pronunciato quel nome, non esitate: ripetetelo, voi, a sua moglie, non già come avendolo saputo da vostro figlio, ma come avendolo scoperto da sola. Vedrete così come vi risponderà, vostra nuora, quando le manifesterete la vostre ragioni di pensare che ella non sia onesta. Io non ve le domando, queste ragioni. Non potrei discuterle. Voi dovete averne, per diffidare particolarmente di quel giovane. - Certo... Ma soprattutto per diffidare di lei, e questo, appunto, rende assai difficile la conversazione che mi proponete. Mi proibii sempre di lagnarmi di mia nuora, anche con voi. C'è voluto il biglietto di mio figlio questa mattina, e il sentimento della gravità probabile del colloquio ch'egli vuole avere con me, perché io mi sia decisa a parlarvi apertamente, come ho fatto. Fra mia nuora e me, fin dal primo giorno, i rapporti furono glaciali. Come avete detto, a lei piace immensamente la vita di società, e questa vita, quando s'è sofferto come ho sofferto io, non è più sopportabile. Ella ha trascinato mio figlio in un turbine nel quale non li ho seguiti. Ai loro pranzi, ai loro ricevimenti, non presi mai parte. La solitudine, qui, col mio passato; fuori, la chiesa e le mie opere di carità: ecco tutta la mia esistenza da quando mio figlio si sposò. Non ho nulla da rimproverare a Sabina dal punto di vista della correttezza. Ella mi dimostrò sempre quella fredda deferenza che significa: vivete e lasciatemi vivere. Oh! ha saputo condursi bene, tanto bene che non potrei formulare contro di lei una lagnanza qualunque. Ora vi par possibile che io abbia a passare ad un tratto da questo silenzio cortese ed armato ad un brusco attacco? Se è colpevole, Sabina rifiuterà di darmela, questa spiegazione... - Però, è sposata, - disse Vernat, - e con un uomo del quale deve conoscere il carattere, poiché la giudicate tanto riflessiva. Lo vide collerico, violento. Dovette subire più d'uno di quegli accessi d'ira che ci spaventarono tanto, nel passato. Se è colpevole, vorrà ad ogni costo evitare che voi la denunziate ad un uomo del quale non può non avere paura. Il mio pronostico è che la troverete docile, tanto da stupirvene, appena sarà stato pronunziato il nome di Saintenois - almeno se non si tratta di un errore da parte vostra. E se siete in, errore, se vostra nuora non ha nessun romanzo nella sua vita, che cosa rischiate?... Se ella mi avesse tenuto per medico, vi risparmierei una conversazione che sembra esservi troppo penosa... Infatti un medico può permettersi molte indiscrezioni. - Ma non vi volle più per medico - rispose la signora Vialis, - e fu in un momento in cui ciò poteva dar da pensare... Era lei, ora, che fissava sul suo interlocutore uno sguardo acutamente scrutatore. Quale altra terribile verità cerca va di scoprire? Vernat l'indovinava anche troppo, e diveniva sempre più impassibile mentre la madre insisteva: - Sì!... Quando ella fu incinta della sua seconda creatura... - Riprese, allora, il medico che aveva avuto da ragazza, - disse egli, - ed io non me ne offesi affatto. Anzitutto, non ero a Parigi, quando cominciò quella gravidanza. Ebbe dei malesseri che resero necessarie delle cure immediate. Si rivolse ad un mio collega che conosceva già. Nulla di più legittimo. Continuò a farsi curare da lui. Giustissimo!... Ma... (Egli si era alzato e consultava l'orologio). Ma non ho molto tempo disponibile. Scusatemi... D'altronde, avete già la mia ricetta, almeno per il morale: a vostro figlio, il cloroformio, l'anestesia; a vostra nuora, il bisturi, se sarà necessario!... Quanto alla vostra infreddatura, ecco... Si sedette allo scrittoio, sulla stessa poltrona che aveva occupata, prima d'uccidersi, il povero Giovanni Vialis. Estrasse di tasca una penna stilografica e un taccuino dal quale staccò un foglietto su cui scrisse rapidamente poche parole. Non aveva voluto adoperare la carta né la penna che la vedova continuava a tenere lì, accanto alla cartella; senza servirsene mai, nemmeno lei, ispirata unicamente dall'ingenua religiosità di un affetto che si concede l'illusione di prolungare una vita profondamente rimpianta. Quella divinazione e quel rispetto d'una sfumatura di sentimento ch'ella stessa riconosceva come quasi puerile, non sfuggirono a Maria Vialis. Ella prese la ricetta, ringraziando commossa. Poi accompagnò verso l'uscita il visitatore, che, giunto alla porta, si voltò per dirle con lo stesso accento imperioso che aveva avuto ventisette anni prima, a quello stesso posto: - Ricordatevi, signora, di ciò che mi giuraste, qui, sulla memoria di vostro marito: tentare tutto il possibile per salvare suo figlio! Le stesse parole di allora, destinate a medicare, la stessa piaga... E quelle che egli disse fra sé, quando fu risalito in carrozza, fecero eco alle formale delle quali il suo determinismo si era accontentato ventisette anni prima: - La crisi s'avvicina. Se il povero Gianmaria saprà che sua moglie ha per amante Saintenois, e se inoltre saprà la verità sulla figlia, si ucciderà certamente, egli pure. Sì, l'eredità è la prigione!… Ma saprà, Gianmaria? Riuscirà, la povera madre, ad illuderlo?..Io le ho indicato l'unico mezzo. Avrà l'energia di agire come le ho detto? E pensare che ella si proponeva di dire tutto a suo figlio! ... , M'interrogava soltanto per aver delle prove da dargli, più complete di quelle che possiede già! Questo pericolo, almeno, è allontanato! VI La minaccia. Il perspicace osservatore non si era ingannato. La povera madre – com’egli la chiamava anche troppo giustamente - aveva soltanto dei sospetti. Quando aveva detto: “Sabina non è una moglie onesta”, aveva affermato ciò che temeva - e che non sapeva, - per togliere ogni scrupolo al suo interlocutore. “Egli parlerà - aveva pensato - se crederà ch'io sappia tutto”. Nello stesso tempo, ella sperava - e con quanta passione! - una risposta negativa, ma francamente, fermamente data, e non già quel rifiuto di rispondere, opposto alla sua inquisizione. Era in giuoco, per lei, tutta l'opera della sua vita, interamente dedicata ad allontanare da suo figlio le emozioni che avrebbero potuto scatenare la funesta eredità. Se sua moglie, della quale era innamorato come nel primo giorno, lo tradiva, e se egli veniva a saperlo, che cosa sarebbe accaduto? La madre fremeva ogni volta che si faceva questa terribile domanda, ed anche in quel momento, rimasta sola dopo la visita del dottor Vernat. Per un attimo, ella aveva visto distintamente in fondo agli occhi di quell'uomo, che volevano essere imperscrutabili, il pensiero vero di quell'amicizia devota, e aveva chiaramente compreso che lo scrupolo del dovere professionale aveva imposto al medico il silenzio, alla rapida allusione alla nascita della seconda creatura. - Egli pure - pensava, mentre Vernat si allontanava - egli pure ha, relativamente a Giulietta, il dubbio che ho io! Egli crede che la piccina non sia di Gianmaria. Appunto da quel dubbio circa la legittimità della bimba, era cominciato il doloroso sospetto. Fino ad allora, fra la nuora e la suocera, non c'erano mai stati altri rapporti che quelli, glaciali ma corretti di cui ella aveva parlato a Vernat. Essi erano spiegati abbastanza da uno dei soliti dissidi fra due generazioni, reso più grave, nel caso particolare, dalla severità assoluta. del lutto della più attempata delle due donne. La sostituzione di un medico ad un altro, all'inizio della seconda gravidanza di Sabina, era stato il primo incidente veramente grave, che aveva suscitata la diffidenza di Maria Vialis. Eppure la spiegazione era semplicissima, e lo stesso Vernat l'aveva data. I primi sintomi di quella gravidanza si erano manifestati quando Sabina era ritornata a Parigi, in settembre, dopo esser stata al mare. Frattanto, suo marito era alle acque di Néris. Ciò che Vernat si era ben guardato dal rammentare, dopo aver giustificato con la propria assenza la scelta di un altro medico, era il fatto che la bambina era nata - così si era detto - un po' in anticipo. Il contegno di Sabina col nuovo dottore aveva dato immediatamente alla suocera l'impressione di una di quelle tacite complicità quali se ne stabiliscono fra un'ammalata e colui che la cura, quando ella sente ch'egli ha indovinato un mistero del quale non parleranno mai. La vedova era troppo profondamente cristiana per non essersi rimproverato quel giudizio temerario come una colpevole mancanza di carità. Ma certi pensieri, quando si siano formati nella nostra mente, sono semi che germinano con una forza irresistibile. Quando la piccina era nata e Sabina aveva voluto nutrirla, mentre aveva rifiutato di nutrire il primogenito, la suocera se ne era stupita, come pure del nome di Giulietta, scelto dalla nuora. Perché, quella scelta? Non aveva potuto saperlo. Giulietta era il nome della madre di Giorgio Saintenois, e l'amante del giovane aveva voluto chiamare così la figlia che aveva avuta da lui. La madre del marito aveva sentito in quel particolare un enigma, come aveva sentito la menzogna nell'accento col quale Sabina aveva insistito sulla pretesa somiglianza della povera creaturina vagente col padre che le veniva attribuito. Quella commedia si era prolungata per qualche tempo. Era cessata ad uno sguardo scambiato un giorno fra le due donne... In quello sguardo si erano affrontate la sfida dell'una e la perspicacia dell'altra. Da allora, la nuora aveva sempre opposto all'osservazione continua della suocera uno sguardo non già sfuggente - poiché anche lo sfuggire dello sguardo è una confessione, - ma muto, inespressivo, come quello di un essere che si sia murato nel proprio segreto. La bambina aveva cominciato a crescere. Su di lei si era fissata, ormai, l'attenzione di Maria, un'attenzione continua, divinatrice, sviluppata in lei dal pensiero che la tormentava incessantemente. La giovane coppia abitava in via Villejust, nella parte confinante col Boulevard del Bosco di Boulogne, dove la bambina era condotta a passeggio nelle belle giornate. Quante volte la vedova aveva percorsa la distanza fra via San Domenico e quei paraggi!... Con quale speranza? Forse con quella di veder fermarsi davanti alla carrozzina spinta dalla nurse di Giulietta un uomo che accarezzasse la piccina, e la cui fisionomia rivelasse la vera somiglianza.. Un giorno, infatti, mentre svoltava, da un viale trasversale, in quello del Bosco di Boulogne, ella aveva scorta quella carrozzina, e aveva visto avvicinarsi ad essa un signore che aveva parlato con la nurse come avrebbe fatto un amico di casa dei padroni. Poi, quel signore aveva baciata la piccina addormentata, piano, per non svegliarla. La signora Vialis aveva ravvisato in lui un compagno di reggimento di suo figlio, che era venuto a trovarlo in casa, parecchie volte nel passato, e del quale le era rimasto un, ricordo un po' penoso, per un motivo che non aveva mai confessato a sé stessa. Era un giovane dai lineamenti irregolari in, una maschera dura che colpiva l'attenzione, con qualche cosa di marziale e di risoluto, nella fisionomia, che lo rendeva simpatico e insieme gli conferiva una specie di autorità. Come avrebbe potuto, la madre di Gianmaria, non provare un'invidia istintiva paragonando quell'aspetto maschio con l'espressione esitante, incerta e come di morbosa sensibilità, che constatava di continuo in suo figlio e che le ispirava un sì profondo timore? Il giovane tanto affettuosamente chino sulla piccola Giulietta era quel Giorgio Saintenois che la vedova aveva nominato al dottor Vernat. Staccandosi dalla bambina, egli era passato davanti a Maria Vialis senza guardarla. Ma tutta la forza d'osservazione di cui ella era capace le si era concentrata negli occhi, per non lasciarsi sfuggire nulla delle linee di quel volto, di quei gesti, di quel portamento, e nella memoria di lei si era fissata una specie di lastra fotografica, sulla quale la sua riflessione aveva meditato indefinitamente. E anzitutto, nelle settimane seguenti, ella era ritornata ogni giorno al Viale del Bosco di Boulogne, nell'ora in cui era quasi sicura d'incontrarvi la nurse con la piccola Giulietta. Soleva sedersi nello stesso viale trasversale dal quale era uscita l'altra volta. Un folto cespuglio le permetteva di nascondersi, e rimaneva lì a spiare, con un po' di segreta vergogna per quell'agguato clandestino. Le sensibilità molto pure hanno rimorsi immaginari di questo genere, quando accade loro di compiere con assoluta innocenza certi atti per solito commessi dai colpevoli. E al principio della seconda settimana, aveva riveduto quello stesso giovane, quel Giorgio Saintenois già appassionatamente sospettato dalla sua intuizione materna. Egli svoltava dall'Avenue Malakoff, insieme con chi?..Con Sabina! La coppia si fermò un momento sul marciapiede, per guardare, lei da una parte, lui dall'altra. Che cercavano? La carrozzina della bambina, verso la quale si diressero subito, insieme. Si sorridevano con la bocca e con gli occhi, sorretti, animati da quella gioia della presenza che rende radioso l'amore felice e che basta a denunziarlo. Giunti presso la carrozzina, Sabina aveva presa in braccio sua figlia, e l’aveva tesa al suo compagno. Il gesto di quest'ultimo per prendere a sua volta la piccina e baciarle la fronte e gli occhi, aveva finito di convincere l'osservatrice, tanto più che in quello stesso momento l'altro bimbo - Renato che somigliava tanto evidentemente a Gianmaria, - era sopraggiunto correndo, per abbracciare sua madre. Ella lo aveva subito rimandato a giocare col cerchio. Saintenois, salutato dal bimbo, gli aveva semplicemente accarezzata una guancia con la punta delle dita, guardandolo appena. Allora la suocera si era avvicinata, sperando di sorprendere nella nuora un turbamento ancor più rivelatore. Aveva visto in quel momento, rabbuiarsi un poco la fisionomia di Sabina, già si aperta e sì lieta. Ma un simile mutamento all'avvicinarsi della suocera, non era affatto insolito, né poteva bastare a rivelare nella moglie di Gianmaria un'impressione particolare. Saintenois, invece non aveva potuto dissimulare un certo imbarazzo, quando, presentato dalla nuora alla suocera, aveva sentito dire da quest'ultima: “Conobbi già questo signore, in altri tempi... ” Ma quell'imbarazzo, non era stato spiegato dalla frase con cui egli aveva risposto: “Siete troppa buona, signora, ravvisando in me un amico di vostro figlio, che accoglieste in casa vostra con tanta cortesia, e che da molto tempo avrebbe dovuto venire ad ossequiarvi... ”. - Non vi scusate, signore, - aveva detto lei, - da molti anni, non sono più di questo mondo. Le donne che non sono più di questo mondo, le solitarie come lei, sviluppano nella loro esistenza. monotona una forza di comprensione veramente singolare. Si pensa che ignorino tutto, delle persone e delle cose, che siano ingenue, facilmente illuse, e si rimane stupiti dalla sagacità penetrante delle loro osservazioni sui caratteri e sulle situazioni. È perché, essendo ridotta al minimo, per loro, la parte degli avvenimenti esterni, quelle solitarie non se ne lasciano sfuggire nulla. Newton, quando gli fu domandato come avesse scoperto la gravitazione, rispose: “Pensandoci sempre”.Le vedove, le zitellone, le donne condannate dalla loro salute a non uscire di casa, offrono incessantemente degli esempi sorprendenti di codesto potere del pensiero costante e riflessivo, che si constata anche nelle monache. Come avrebbe potuto fermarsi, Maria Vialis, nella sua inchiesta, dopo essersi lanciata su quella traccia? Negli ultimi quattro anni, ella non aveva mai guardata la sua pretesa nipotina senza continuare quella paziente e minuziosa analisi d'ogni minimo indizio, che il genio dello scienziato suole praticare per metodo. L'istinto di una innamorata gelosa o di una madre inquieta non procede diversamente. La bambina si muoveva, balbettava, parlava, rideva, guardava;, agitava il capo, e nei suoi gesti, nella costruzione del suo corpicino, nei moti delle sue labbra, nel colore dei suoi occhi, dei suoi capelli, delle sue carni, la vedova cercava e trovava l'animale di un'altra razza, una creatura che non aveva nulla del sangue di suo marito e di suo figlio. Gianmaria era castano come suo padre. Lei, sua madre, era bionda... Quando Sabina, pure bionda, diceva ridendo alla sua figlioletta: “Brutta morettina!” preveniva un'osservazione inevitabile da parte di chiunque vedesse la bimba fra lei e suo marito. Quest'ultimo dava a Giulietta un altro soprannome, più affettuoso, ma che la madre sua non poteva udire senza fremere. La chiamava “La signorina infanta”, ed era vero che quella graziosa creatura somigliava a quelle principessine di tipo sì intensamente spagnolo che dipinse Velasquez. Ma il paese basco è già la Spagna, e per i suoi parenti materni, Giorgio Saintenois era oriundo di una borgata di quella parte dei Bassi Pirenei che fu un tempo la Bassa Navarra: Hasparren, in dialetto Ahazparné. Egli pure, a prima vista, faceva pensare ad un personaggio di Velasquez, per il suo colorito olivastro e per la magrezza ossosa del suo viso un po' lungo. I suoi capelli erano dello stesso nero di quelli della piccina, e così pure i suoi occhi. La giovane coppia era andata, un anno, a passare l'autunno a San Giovanni di Luz, precisamente per consiglio di Saintenois, e Gianmaria, al ritorno, aveva detto alla vedova, dalla quale aveva condotto Giulietta: - Laggiù, sembrava veramente un'infanta fra le sue meninas, quando giocava con altre bimbe della città! Tutti credevano che fosse di quei paesi... . Che parole, queste, per una madre suppliziata dalla cecità del suo figliolo, la quale, nondimeno, sarebbe morta piuttosto che comunicargli i suoi dubbi! Ed ella lo ascoltava soggiungere, vantando la bellezza incantevole di tutta la vallata della Nivelle: - Giorgio ci aveva trovata una deliziosa casa del sedicesimo secolo, nientemeno, ma modernizzata nell'interno. Aveva anche avuto il riguardo gentile di pensare allo studioso di storia. Figurati che nel palazzo municipale di San Giovanni si conserva l'atto del matrimonio di Luigi XIV con Maria Teresa di Spagna, celebrato nel 1660. “È un bel soggetto per te, quel matrimonio!” mi diceva Giorgio. Ma non temere, mamma. Non abbandonerò la mia storia del Duca del Nivernese! Gianmaria infatti, memore d'Imphy e della provincia nativa, aveva cominciato, dopo aver compiuti i suoi studi, un saggio su quel pronipote del Mazarino, che aveva partecipato a tutta la diplomazia della sua epoca, per le sue ambasciate a Roma, a Berlino, in Inghilterra; alla letteratura, per le sue favole e i suoi discorsi accademici; alla vita dei salotti, con la grazia dei suoi modi e quell'eleganza che gli fu riconosciuta dal principe di Ligne; all'arte dei giardini, con Prunevaux e i suoi pergolati; alla grande storia umana per il suo atteggiamento elegantemente stoico nelle prigioni rivoluzionarie. Il giovane studioso si era appassionato per quella figura piena d'una grazia manierata, ma tanto delicata. Ne aveva parlato moltissimo a sua madre. Poi, dopo il matrimonio, le sue sedute alla Biblioteca e negli archivi del Ministero degli Esteri erano divenute sempre più rare. Non significava nulla, quel consiglio di Saintenois al suo collega, circa un mutamento di lavoro. Ma la madre vi aveva visto un nuovo indizio, e aveva pensato che Saintenois non era un vero amico, poiché dimostrava di non comprendere quel carattere sempre incerto ed esitante. Per un'invincibile associazione d'idee, ella si era ricordata del falso amico di suo marito, la cui fellonia aveva avuto, nel passato, conseguenze tanto tragiche. Da allora, non era mai accaduto a Gianmaria di pronunciare il nome di Saintenois, senza ch'ella ripensasse a Marcel Faugières. La vedova di Giovanni Vialis identificava l'impressione d'antipatia che aveva provato, da giovane, per quel traditore, anche prima del suo atto infame, e quella che provocava in lei Saintenois ad ognuna delle brevi visite ch'egli si credeva obbligato a farle attualmente. Che scopo avevano, le sue visite, se non quello d'ingannare sempre più Gianmaria? Ella voleva attribuire quell'antipatia ad un presentimento. Aveva torto? Le stesse cause producono sempre gli stessi effetti. Le relazioni fra i due giovani i cui caratteri sono antitetici, hanno molte probabilità di finire in una lotta segreta, talvolta ignorata dai due combattenti e nella quale la personalità più energica fa del male all'altra. Quando l'immagine di Marcello Faugières risuscitava così nella memoria della vedova, il cui marito si era ucciso per colpa di lui, un altro presentimento s'imponeva. Faugières, infatti, era finito male. Era riuscito ad entrare alla Camera. Anzi, era divenuto sottosegretario di Stato. Sbagliava, Maria Vialis, pensando che esistesse una relazione fra il disastro di quella carriera politica, troncata bruscamente nel 1898, e il delitto commesso da quell'uomo vent'anni prima? Le nostre azioni colpevoli hanno il risultato immediato di diminuire la nostra forza di moralità. Il tradimento verso Giovanni Vialis aveva subito segnato, per Faugières, l'inizio di una decadenza interna. Per stordire il suo rimorso, dopo il suicidio della sua vittima, egli aveva preso delle abitudini d'intemperanza e di vizio. Da ciò, quei bisogni di denaro che fanno di un uomo politico povero ed avido, una preda designata dei pirati della finanza. Compromesso nel fallimento di una banca bacata, Faugières era stato giudicato in Corte d'assise. Assolto, ma dopo dibattimenti che l'avevano demolito, egli aveva dovuto ritirarsi dalla vita politica. Poco tempo dopo, Maria Vialis aveva avuto notizia della sua morte. - Questo sarà punito come l’altro! - pensava, quando considerava come uguali la perfidia di Saintenois e quella di Faugières. Poi ella pensava alla catastrofe che sarebbe stata per suo figlio la rivelazione del tradimento di quell'amico, e davanti a quella prospettiva troppo dolorosa, si sgomentava. Si accaniva allora a distruggere l'edificio di argomenti costruito dalla sua riflessione di tanti giorni, e si ripeteva, talvolta ad alta voce, per suggestionarsi coll'energia della propria affermazione: - Non ho prove sicure! Comunque, fosse o non fosse vero il tradimento, Gianmaria non ne aveva sospetto, e ad ogni modo bisognava che il martirio della gelosia gli fosse risparmiato ad ogni costo. La madre si convinceva sempre più, per aver letto moltissimi libri sul suicidio, che in un essere predisposto alla morte volontaria, una sventura immaginaria può essere funesta quanto una sventura vera. Suo marito non si era ucciso per un disonore che non esisteva? Ella aveva dunque tese tutte le sue forze, per settimane, per mesi, per anni interi poiché ormai la bambina aveva quattro anni - nel tenere nascosta quell'inchiesta che non poteva astenersi dal continuare intorno a Sabina, a Saintenois, a Giulietta, enigmi viventi. Si era tormentata, nel silenzio, tanto più ripiegata su sé stessa, tanto più segreta, quanto più s'avvicinava alla certezza; e, se fosse scesa in fondo alla propria coscienza, avrebbe riconosciuto, come l'aveva gridato al medico in un momento di verità totale, che la sua convinzione era assoluta. Si ostinava in un ultimo resto di dubbio, unicamente per non dover rimproverarsi troppo il suo contegno verso la nuora e verso la bambina. Accarezzava la piccola Giulietta, la cui presenza nella sua camera bastava a farle provare una stretta al cuore, come accarezzava il piccolo, Renato, vero figlio di suo figlio. Quella Sabina la cui impurità, sospettata, indovinata, sentita, faceva orrore alla delicatezza di donna onesta, l'accoglieva con dei sorrisi. Si lasciava chiamare “mamma”. Tendeva la gota a quelle labbra profanate da baci delittuosi. Per non giudicare come una complicità il proprio contegno bisognava che ella non sapesse interamente. Altro motivo imperioso per non confessarsi, nonostante l'evidenza, che sapeva tutto! Quanto tempo sarebbe durata quella strana tempesta interna? Sempre, forse, se colei che la subiva, indugiandovisi per timore di una pena peggiore, non fosse stata colpita da un'altra evidenza, inquietante quanto improvvisa, che aveva rammentato alla vedova certi modi di suo marito nelle due settimane che avevano preceduto il suicidio. Un giorno, essendo entrata, secondo la sua abitudine, all'ora della benedizione, nella basilica di Santa Clotilde, sua parrocchia, le era sembrato di riconoscere suo figlio, appoggiato al muro di una cappella laterale, di quella dove l'aveva condotto tante volte, da bambino, a udire la messa, detta da un vecchio prete ormai morto, che era stato suo confessore e che aveva preparato Gianmaria alla prima comunione. Dopo il matrimonio di suo figlio, la vedova accusava la nuora della negligenza sempre crescente di Gianmaria nel seguire le pratiche religiose. La vita mondana ch'egli conduceva con la moglie non era compatibile con le abitudini di religiosità alquanto rigorose e severe nelle quali sua madre l'aveva cresciuto, anzitutto perché ella stessa era molto devota, e poi perché aveva lette e rilette senza fine le seguenti linee, nel libro del dottor Brierre de Boismont sul suicidio: “Quante volte udimmo degli ammalati che ci esponevano le loro sofferenze, esclamare: “Privi di religione, ci saremmo data la morte!” (BRIERRE DE BOISMONT Du suicide, Cap. VII: “Traitement du suicide”). Nemmeno di quel raffreddamento della sua vita cristiana, ella aveva osato parlargli per terrore di essere trascinata a criticare Sabina in termini che gli avrebbero dato troppo da pensare. Al vederlo così, presso quell'altare, in atto di meditazione, di preghiera poiché, poco dopo, egli s'inginocchiò, - poco mancò che la madre gli si avvicinasse, per inginocchiarsi ella pure a pregare accanto a lui, come una volta. Mentre ella esitava, trattenuta dallo scrupolo di riserbo che provano le sensibilità molto fini davanti alle emozioni intime e segrete di un'altra anima, sia pure la più cara, il giovane si alzò per andarsene. Quasi sfiorò sua madre, senza vederla, ed ella tremò osservando su quel volto, dai lineamenti tanto simili a quelli di Giovanni Vialis, un'espressione d'angoscia. Ne rimase tanto turbata, da non potere astenersi dal recarsi in via Villejust, verso sera, con un pretesto qualunque. E constatò di nuovo nella fisionomia di suo figlio un'alterazione visibilissima, che l'indusse ad interrogarlo anzitutto sulla sua salute. Poi, mentre egli le rispondeva evasivamente, si fermò, sconvolta da questo pensiero: “Forse ha dei sospetti su Sabina, egli pure!” Erano trascorsi tre mesi da quando si era svolto quell'incidente, precisamente alla vigilia d'una partenza estiva per i Pirenei. Al ritorno di Gianmaria, la madre aveva immediatamente osservato in quegli occhi che conosceva sì bene, la stessa malinconia profonda. Da allora, ella non aveva cessato di seguire, su quella fronte corrugata, intorno a quelle labbra che si contraevano, su quelle guance che s'incavavano, gli indizi di un pensiero divorante. Oggi, Gianmaria lottava contro quell'ossessione, e sua madre lo vedeva allegro quasi come una volta, o almeno sforzarsi di essere allegro, con la, febbrilità di chi vuol riaversi ad ogni costo. Ma ella sapeva che domani suo figlio le avrebbe risposto appena, a monosillabi, come estraneo, come assente. Un'altra osservazione aumentava la sua angoscia. Le accadeva di sorprendere un altro sguardo fisso sul giovane con una curiosità indagatrice: lo sguardo di Sabina. E Gianmaria, quando se ne accorgeva, egli pure trasaliva visibilmente. Da bambino, egli aveva avuto quell'espressione di pentimento, ogni volta che si era sentito colpevole. Era pentito? Di che cosa, se non di un pensiero che temeva di vedere indovinato da sua moglie? Perché? Perché era offensivo per lei, quel pensiero... E per scacciarlo, se Giulietta e Renato erano presenti in quel momento, egli baciava l'una e l'altro con passione. Più particolarmente la bambina, la quale dimostrava di avere una preferenza per il suo papà, mentre Sabina - e la vedova se ne stupiva aveva delle parzialità per il maschietto. Almeno, lo vezzeggiava di più, ostensibilmente. Altro enigma, relativamente al quale la suocera doveva proibirsi non solo d'interrogare ma di scandagliare la nuora: quella tenerezza per Renato derivava da un rimorso? Sì, altro enigma ed altro silenzio, dopo tanti silenzi talmente dolorosi da non poter prolungarsi indefinitamente! Maria Vialis lo comprendeva troppo bene, e, benché tormentata fino al martirio dall'incertezza, concepiva un supplizio peggiore: quello di una spiegazione, il cui esito possibile la pietrificava letteralmente dallo spavento. Eppure, ella stava per averla, quella spiegazione. Il biglietto di suo figlio, ricevuto la sera antecedente e del quale aveva parlato al dottor Vernat, gliel'annunciava. Non ne dubitava. Altrimenti, Gianmaria avrebbe forse presa la precauzione di avvertirla della sua visita, pregandola di esser sola? Gianmaria sapeva che la mattina ella soleva uscire per andare in chiesa o dai poveri. Sapeva altresì che ella dava spesso degli appuntamenti a persone che s'occupavano come lei di carità. Aveva quindi fatto in modo che ella avesse tempo di rendersi libera. Che significava, quell'insistenza nell'assicurarsi così un colloquio da solo a sola? La risposta non era stata dubbia, per la madre, nemmeno per un attimo. Gianmaria voleva parlarle del dolore che da tre mesi era causa della sua muta e persistente tristezza, - ed ella era tanto sicura che quel dolore gli veniva da Sabina, da essersi decisa a domandare consiglio a Vernat, a quell'amico superiormente intelligente e buono, che l'aveva aiutata nella crisi più tragica della sua vita. Aveva sperato da lui, che conosceva tanta gente e riceveva tante confidenze, la rivelazione di qualche fatto positivo, forse, che le avrebbe probabilmente permesso - se avesse dovuto parlar a sua nuora, dopo il colloquio con Gianmaria - di tagliare corto a qualsiasi protesta. Non immaginava affatto che quell'arma, domandata a Vernat inutilmente, gliel'avrebbe data lo stesso Gianmaria, né che proprio lui l'avrebbe mandata a parlare a sua moglie... ma in quali condizioni! VII Madre e figlio. Subito, appena Gianmaria fu entrato nella biblioteca, dove la signora Vialis aveva voluto riceverlo, in memoria del dramma che vi si era svolto, e per attingervi forza, ella vide che il giovane era in preda ad un turbamento profondo. Egli le si avvicinò e l'abbracciò con una frenesia nella quale era qualcosa di supplichevole. Quell'abbraccio disperato, diceva: “Salvami! Salvami!” E siccome il buon Bourrachot dopo averlo introdotto ed essersi ritirato, riapriva la porta per domandare alla padrona un ordine, Gianmaria si voltò verso di lui con un gesto furibondo e gli gridò con voce violenta: - Non potresti farne a meno di disturbarci?... Vattene!... Vattene!.... Come le conosceva, la vedova del suicida, quelle collere improvvise che davano al suo figlio dei forti sussulti ed il cui spasimo forsennato rivelava un sì profondo squilibrio emotivo! Un lampo della memoria glielo fece rivedere, bambino, appunto nel pomeriggio che aveva seguito il suicidio del padre, e il delirio che 1'aveva spinto a scagliarsi contro le pareti. Ella udiva ancora distintamente, attraverso gli anni trascorsi, il diagnostico del medico: “E' proprio figlio di suo padre!”. E indulgente, carezzevole, affettuosa come allora, afferrò la mano del suo figliolo, per dirgli: - Povero figlio mio, non irritarti contro il nostro buon Bourrachot! Egli non sa! - Poi, obbligandolo a sedersi: - Nemmeno io, so... Mi ha resa tanto inquieta, la tua lettera!... Calmati, caro! - E accarezzandogli la fronte, i capelli, le guance: - Come hai caldo!... Hai la febbre! ... Sentiamo! Di che cosa vuoi parlarmi? Anticipatamente, e senza ch'egli avesse pronunciata una sola parola, la madre era già sicura che le labbra irritate di Gianmaria stavano per accusare Sabina. Ma perché egli non indovinasse che anche sua madre accusava mentalmente quella donna, continuò: - Si tratta dei bambini? Stanno male? O sei inquieto per la tua salute?... Sii sincero. Hai dei fastidi di denaro? Hai speculato, giuocato in borsa?... Tu non fai di queste cose....Ad ogni modo ricordati che la mia sostanza è tua, anche mentre sono viva... - Come sei buona, mamma! - rispose il giovane. - Come mi ami!... M'hanno fatto bene, le tue parole... No, non si tratta dei bimbi, né della mia salute. Devo parlarti di Sabina. A quell'attacco tanto diretto, la madre oppose a sua volta un viso chiuso come quello del dottor Vernat, poco prima, in quella stessa stanza. Involontariamente, ella si ricordò di quella maschera indecifrabile, e pensò: “A lui, riusciva più facile che a me!” mentre ascoltava, suo figlio, che cominciava la confessione della sua vita coniugale. - Perché tu possa comprendere, mamma diceva egli, dandole del tu, come ella lo aveva abituato a fare per mantenere fra loro una più stretta intimità, devo riprendere le cose di lontano. Ne ho bisogno io stesso, per rimettere un po' d'ordine nel tumulto della mia mente... - E, dopo un silenzio: - Tu sai meglio di chiunque quanto io abbia amato Sabina. Tanto, che non mi curai, non già della tua volontà, ma delle tue idee... - Le mie idee? - interruppe la madre alzando le spalle. - Io non ebbi mai altra idea che quella della tua felicità. - Ebbene: la felicità, Sabina me la diede per tre anni, i tre primi, nei quali mi dolsi soltanto che tu volessi startene lontana dalla nostra vita. Ma, se mi lagnava perché non venivi mai ai nostri pranzi, ai nostri ricevimenti, tu mi dicevi: “Non abbiamo la stessa età, e tu non hai sofferto come ho sofferto io. ” Non potevo rimproverarti di rimpiangere mio padre, come avrei voluto che Sabina rimpiangesse me, se fossi morto come lui... Lo sventurato non pensava di ferire al cuore sua madre con quel “come lui”. La povera donna l'interruppe, per evitare ch'egli insistesse: - Ma l'ami ancora, Sabina! - disse. - Ma sei ancora felice!.... - L'amo ancora; ma non sono più felice! Io non sono mutato. Lei, sì, è mutata! - Come? Perché? Quando? - Per risponderti, mamma, dovrei parlare per delle ore. Sai tu pure che la vita coniugale di tutti i giorni è fatta d'innumerevoli, d'indefinibili impressioni che fanno sentire in casa l'unione affettuosa o il divorzio. Ti riassumerò tutto in poche parole: da quattro anni, mia moglie non è più mia moglie; - da quando nacque la bambina. Dall'accento con cui egli aveva detto la, invece di dire la mia o la nostra bambina, la madre trasalì. Egli continuò: - Perdonami la brutalità di questi particolari fisici, mamma. E' necessario ch'io te li dia. Dopo il parto, ella si staccò da me, col pretesto delle sue condizioni di salute. Mi fece parlare dal suo medico, da quel Monclar, che volle sostituire al nostro amico Vernat. Oggi non lo permetterei più, questo cambiamento di medico! Che sussulto ebbe ancora la madre, constatando che lo spirito di Gianmaria era giunto al sospetto insieme col suo! E, sempre più ansiosa, ma dominandosi, ella riprese: - Con qual diritto, figlio mio, supponi che quel dottor Monclar sia un uomo disonesto? Con qual diritto credi che Sabina non sia sincera verso di te? Il matrimonio, d'altronde, non è soltanto la passione. E' anche l'amicizia, la unione dei cuori, i doveri comuni, la famiglia... - L'amicizia? - ripeté Gianmaria con un'ironia dolorosa. - Ma essere amici vuol dire sentire, pensare allo stesso modo, e basta che io esprima un sentimento, adotti una idea, perché Sabina senta e pensi in un modo assolutamente contrario. Mi dirai che le cose non hanno un solo aspetto, che due punti di vista diversissimi possono essere legittimi entrambi. La prova che si tratta, in questo caso, di un'antipatia da persona a persona, è che io ho ripetuto cento volte l'esperimento di adattarmi alle idee di lei, di condividere i suoi sentimenti... Tanto basta perché ella pensi subito in un altro modo! D'altra parte, i sentimenti, le idee, non sono la vita. La vita sta nei gesti, nel suono della voce, in tutto ciò che fa sì che ognuno di noi non sia un essere diverso da sé stesso. Ebbene: io non piaccio affatto a Sabina. Nulla le piace di ciò che costituisce il mio essere. Lo capisco, lo vedo. Un'inezia: quando camminiamo, non teniamo mai lo stesso passo. Quando io rido, lei s'irrita. Quando parlo ad alta voce... (è un mio difetto, l’eccitarmi nel discorrere, e tu me l'hai rimproverato tante volte, ma tanto affettuosamente!) Sabina si chiude in un silenzio insolentemente ostile! Quando voglio baciarla... (l'amo ancora, te lo ripeto)... come s'irrigidisce! come si contrae! come volge altrove il capo!... Mi dirai ancora: sono piccolezze... Ma ciò che non è una piccolezza, è il distacco di cuore che rivelano. Non solo mia moglie non mi ama più, ma le sono divenuto, fisicamente, moralmente, intellettualmente, insopportabile! - Te l'immagini, figlio mio! - corresse la signora Vialis. - Ricordati. In tutta la tua infanzia, in tutta la tua prima gioventù, ti fabbricasti sempre dei dolori immaginari, prendesti sempre per vero tutto ciò che è illusorio, ti creasti sempre delle “celle in aria”, come diceva Vernat invece di dire “castelli in aria”, per farci ridere. Ora un professore ti era nemico, ora un compagno ti evitava! ... Non avresti mai superato quel tale esame... non saresti mai riuscito a fare quel tal lavoro... stavi per avere una grave malattia, della quale avevi letta la descrizione in un libro di medicina!... E ti fossi almeno accontentato di parlarmi di simili pazzie! ....Ma no: t'imbronciavi, ti chiudevi in te stesso!... Quanto dovevo lottare, per confessarti, per strapparti il segreto dei tuoi bronci, per esorcizzare l'incubo! Una vecchia mamma ha pazienze di questo genere. Una moglie giovane come Sabina, vivace, mondana, non le ha. Se discorressimo, Sabina ed io, scommetto che ella mi direbbe di te, esattamente, ciò che mi dici di lei... La sentirei lagnarsi delle tue suscettibilità, dei tuoi silenzi, del tuo carattere difficile. Ed io, le risponderei con quattro parole che saranno anche la mia risposta a te: Pensate ai vostri figlioli! - Ah! mamma! - disse Gianmaria, alzandosi, - questa è la piaga maggiore! E tu l'hai toccata! - Non m'ingannavo. Ho indovinato anche questo! - pensò la madre. Questa volta, ella non poté impedire che il suo volto si alterasse, mentre il geloso continuava il suo lamento. Di nuovo si manifestava un sorprendente parallelismo fra le osservazioni di lui e quelle di lei, che mettevano capo alla stessa atroce conclusione, davanti alla quale indietreggiavano tutti e due. Gli stessi piccoli fatti li avevano entrambi avvertiti, e Gianmaria li evocava passeggiando per la stanza come suo padre, un tempo, nei momenti di cattivo umore. - Ti ricorderai, mamma, che mi rimproverasti molte volte di viziare troppo Giulietta, e che io ti rispondevo: “E' per compensare....Mia moglie vizia l'altro, ed è troppo severa per la piccina”. Avevo l'impressione che Sabina non le volesse bene abbastanza... - E con un sogghigno amaro, Gianmaria soggiunse: - Ero tanto cieco, da considerare ciò come effetto di un rancore per una maternità che ella non aveva voluta, e per un parto particolarmente doloroso. Tali pensieri miei s'accordavano bene con ciò che ti ho detto poco fa e coi pareri del medico... Ed ecco che un giorno, un po' più di tre mesi fa, mi accadde di ritornare dal Quai d'Orsay, dove ero andato a prendere degli appunti per una ripresa del mio lavoro storico, un po' prima del solito. La bambina era stata piuttosto male, quella mattina... Salgo alla sua camera, cercando di non far rumore sulle scale, per timore di svegliarla..... Apro la porta con precauzioni da ladro...Vedo Giulietta addormentata, infatti, nel suo lettino; e, inginocchiata, intenta a guardarla con un'adorazione che non so descriverti, - con quella stessa adorazione con la quale mi guardavi tu, mamma, quand'ero piccolo, - vedo Sabina, lì accanto! I due visi, quello di Giulietta ed il suo, si riflettevano in uno specchio nel quale potevo studiarli bene, l'uno e l'altro. A quando a quando Sabina si sollevava un poco, e posava le labbra sulla fronte della piccina, sì dolcemente che quel bacio non la destava. E poi, con la punta delle dita, le accarezzava il viso... Renato, seduto in un angolo, stava sfogliando un libro illustrato. Ad un tratto, lo lasciò cadere, quel libro... Il rumore destò la bambina, che si mise a piangere. La madre allora afferrò il colpevole e lo scosse duramente, con uno sguardo che nemmeno posso descriverti:..con lo stesso sguardo che ha per me!... - E vuoi ch'io non dica che tutte queste sono cose che t'immagini? ... - disse la signora Vialis. - Anch'io, lì per lì, pensai che forse avevo dato un significato falso a ciò che avevo visto. Dissi a me stesso: “La bimba è malata. Sua madre ha un rimorso di non essere sempre buona per lei. ” Ma la mia attenzione era desta, ormai... E senti, mamma: le mie osservazioni quotidiane mi hanno condotto alla certezza che Sabina recita una commedia davanti a noi, che ella ama profondamente sua figlia, mentre riesce appena a sopportare suo figlio, e che dissimula questi sentimenti con una terribile padronanza su sé stessa. Perché? . ,..Sì, perché, se nella nascita della bambina non c'è un segreto che mia moglie non vuole lasciar sospettare? Questo pensiero era appena nato in me, quando mi s'impose un'altra evidenza. Giulietta non somiglia a Sabina, né somiglia a me, né a te, mamma... I suoi capelli neri, il suo colorito olivastro, i suoi occhi di fiamma... E cominciai a dirmi: “Non è del mio sangue. Così, tutto si spiega…” - Come se una somiglianza significasse qualche cosa!... disse la madre. Quante volte l'aveva ripetuta a sé stessa, questa frase, senza crederci! Ed ora la ripeteva anche a suo figlio, che l'avrebbe accolta con uguale scetticismo! Che cosa avrebbe potuto dirgli, di diverso? E in tono quasi supplichevole, riprese: - Ma guardati intorno, povero figlio mio! Tutti i giorni, incontri dei bimbi che non somigliano né al padre né alla madre, e le loro mamme sono mogli oneste, delle quali non si può dubitare. Se si conoscessero gli zii, le zie, i nonni, le bisnonne di quei bambini, forse si troverebbe la somiglianza! - Io ho trovato a chi somiglia Giulietta! - disse Gianmaria. - O almeno... Si lasciò cadere di nuovo su una seggiola, come un uomo fermato da un'orribile sensazione: quella di dar corpo, con la propria parola, e quindi una realtà completa, a delle visioni fino a quel momento chiuse in lui, e che gli hanno straziato il cuore, per quanto egli abbia continuato a dubitarne... E rifugiandosi, anche questa volta, in quel dubbio, per sfuggire ad un dolore troppo acuto, il marito geloso soggiungeva: - Almeno, m'è sembrato di aver trovato!... Poi, alzandosi e avvicinandosi a sua madre, fissò lo sguardo negli occhi della povera donna, per leggerle fino in fondo all'anima, e disse: - Mamma! Giulietta somiglia a Giorgio Saintenois... - A... ? - Ed ella non ebbe la forza di pronunciare quel nome, ma ebbe quella di protestare ancora: - Ma sei pazzo, figlio mio! - Non pensavo a lui, da principio... - riprese Gianmaria, ricominciando a passeggiare per la stanza. - L'amicizia è per me un sentimento tanto sacro, che un'azione simile... prendere la moglie di un compagno di gioventù affezionato e fiducioso... mi sembrò sempre una ignominia. E non è facile ammettere che il figlio del generale Saintenois, di un eroe, eroe egli pure, poiché Giorgio fu tale, al Tonchino, - manchi al più elementare onore... Poi, un giorno, durante un gran pranzo, in casa nostra, lo guardai. Fu come se avessi, visto per la prima volta i suoi capelli, il suo colorito, i suoi occhi; la forma allungata del suo viso. Una voce interna mi disse: “Ma è lui, il padre!” Però, quella stessa voce protestò subito: “E' impossibile!” Mia moglie era lì, di fronte a me. Nel lampo di un'allucinazione abominevole, li vidi abbracciati... Le loro bocche si cercavano... La sala da pranzo, la tavola, gl'invitati, tutto era scomparso, per me, e vedevo soltanto l'immonda scena immaginaria, che quasi mi faceva gridare! “Impazzisco!” pensai... E mi destai da quel delirio ch'era durato un minuto, per riprendere una conversazione insignificante con la mia vicina. Sabina non si era accorta di nulla. Ma l'aver potuto avere quella crisi emotiva, da solo, vicino ad un essere che non se n'era accorto, quale prova sicura che ci sono due persone, in ognuno di noi: una che va, che viene, che si conosce, mentre l'altra... ! Perché Saintenois, perché mia moglie non avrebbero avuto essi pure una vita doppia?... Allora cominciò per me un'agonia di gelosia. Lo crederai, mamma? Mi abbassai, io, il tuo Gianmaria, fino a voler servirmi di una di quelle ignobili agenzie di polizia segreta di cui gettiamo nel cestino, con disgusto, le solite circolari! ... Andai fino alla porta della più nota di quelle infami officine. Ma non entrai. Dire a delle spie il nome di mia moglie, quello che porti anche tu! non mi fu possibile!... Un'altra volta, m'accadde di giungere in via Villejust proprio nel momento in cui il portalettere consegnava alla portinaia la corrispondenza. Tu sai, mamma, che seguii sempre la tua saggia massima: fra marito e moglie non si hanno mai troppi riguardi reciproci. - Fin dal principio della nostra unione, considerai come un dovere di cortesia il rispettare la corrispondenza di Sabina. Essa le viene consegnata a parte, e non me ne occupo mai, con alcuna domanda. Quella mattina, riconobbi su una di quelle buste la scrittura di Saintenois. Istintivamente, presi quella lettera insieme con le mie, quantunque fosse indirizzata a mia moglie. Rimasi per un'ora, forse, a guardare quella busta, sul mio tavolo e a dirmi: “Evidentemente, ho diritto di aprirla”, ma senza decidermi a lacerarla. Si trattava di nuovo dello spionaggio e della sua bassezza... Infine, cedetti alla tentazione. Con la vergogna in cuore, aprii la busta, per trovarvi un biglietto che dava un'informazione qualunque e il firmatario del quale chiamava Sabina “Signora”, le dava del voi, e le porgeva i suoi ossequi, come si usa. - Dunque vedi... - disse la signora Vialis. - Ma tutti sanno che gli amanti scaltri si creano un linguaggio loro, che rende inintelligibile la loro corrispondenza per chi non ne ha la chiave... E' un sistema classico. - Sempre supposizioni... - E ciò che ti dirò ora, è una semplice, supposizione? - riprese Gianmaria più vivacemente. - L'altra mattina, ero a cavallo, al Bosco di Boulogne. Incontrai Casal, il vecchio amico di mio padre (ti rammenti?) che è sempre tanto gentile verso di me, per quel ricordo... Egli è, ora, presidente interinale del Circolo di Via Reale. Trottammo insieme. “Nel nostro circolo, mi disse, abbiamo attualmente una faccenda molto fastidiosa... So che non siete ciarliero, mio piccolo Vialis... Ve la racconterò... ” Fra parentesi, mamma, questa confidenza di Casal, punto ciarliero anche lui, significa, e lo capirai, ch'egli pensa che la cosa mi riguarda in qualche modo. Fui subito attentissimo, quando egli riprese: “Come sapete (o come non sapete, dato che non siete giocatore) attualmente il giuoco è molto forte, nelle nostre sale. Avviene spessissimo che un perdente, per cercare di rifarsi, prelevi dalla cassa dei giuochi una somma superiore al credito a cui ciascun socio ha diritto secondo il regolamento. È un abuso, ma, data la qualità delle persone si può chiudere un occhio. D'altronde, non si ebbero mai incidenti. Sabato scorso, il cassiere aveva accettato un assegno bancario di cinquantamila franchi, che gli era stato rilasciato dal nostro amico Saintenois... ”. Come puoi pensare, mamma, mi sentii battere forte il cuore, all'udire quel nome, mentre Casal continuava: “Con quei cinquantamila franchi anticipati dal cassiere, Saintenois tenne un banco. Li perse, e quando il cassiere andò alla Banca sulla quale era stato emesso l'assegno, gli fu risposto che non c'era deposito. Egli venne ad avvertirmi. Io ho chiamato nel mio ufficio Saintenois. Non ha negato. È figlio di un valoroso ufficiale che conobbi, e non ho voluto rovinarlo, immediatamente, come avrei potuto fare, dato che è confesso della sua truffa. Gli ho accordato cinque giorni, fino alla prossima seduta del Consiglio, per trovare quella somma e restituirla alla cassa. Poi, dovrà dimettersi da socio. Se farà così, la cosa non sarà resa pubblica. Se non pagherà, il Consiglio ne sarà informato e deciderà”. Casal, evidentemente mi parlava a quel modo soltanto per esercitare su Saintenois, per mezzo mio, una pressione efficace. Egli continuò, infatti, precisando la forma che si sarebbe data al procedimento contro il socio colpevole. Il Circolo non avrebbe intentato un processo. L'avvocato di Saintenois, infatti, avrebbe certamente fatto entrare quei cinquantamila franchi nella categoria dei debiti di giuoco, per i quali l'articolo 1965 del Codice non accorda azione alcuna. La somma verrebbe rimborsata d'ufficio alla cassa, sui fondi di riserva. Ma le dimissioni di Saintenois non sarebbero accettate. Egli sarebbe stato espulso con una decisione del Consiglio, affissa nelle sale. Lasciato Casal, io rimasi in preda ai sentimenti tormentosi che puoi immaginare. Te l'ho già detto: la narrazione a me di un fatto simile, è un indizio. La pressione efficace di cui ti ho parlato non mi sarebbe stata suggerita da Casal, se egli non avesse pensato che avevo un mezzo per esercitarla... Non io direttamente, ma una persona alla quale avrei raccontato a mia volta quella storia: Sabina... capisci? Su questo punto, potevo sbagliare. Ma certo non potevo dubitare, ormai, dell'immoralità di Saintenois. Uno chèque senza deposito corrispondente, costituisce, come aveva detto giustamente Casal, una vera truffa. E il mio principale argomento, l'unico, contro i miei sospetti, era stato: “Giorgio ha troppo il sentimento dell'onore, per tradire un amico”! L'onore di un truffatore! Ma io, ero stato sinceramente suo amico. Lo ero ancora, poiché, malgrado quei sospetti, ad un tratto ravvivati in modo terribile, la sua degradazione mi accorava profondamente per lui. Allora mi venne un'idea, tale da conciliare quei sentimenti contraddittori: - offrire a Saintenois quei cinquantamila franchi che lo avrebbero salvato, e guardarlo bene in faccia, negli occhi, mentre gli avrei fatta quell'offerta, per riuscire finalmente a sapere. Vi sono sempre, nel carattere d'un uomo che ci abbia inconcepibilmente delusi sul proprio conto, dei tratti essenziali che le peggiori colpe non aboliscono. Che uno di questi tratti, in Saintenois, fosse l'orgoglio, io l'avevo constatato troppo spesso, per non essere certo che il mio passo, se egli mi aveva tradito e in qual modo!- gli avrebbe inflitta un'atroce umiliazione. Appena ebbi concepita quella prova come possibile, mi accinsi a tentarla. Spronai il cavallo, per ricondurlo alla scuderia. Ve lo lasciai, e salii nel primo fiacre che passò. Meno di un'ora dopo aver lasciato Casal, ero in via Fortuny, in casa di quell'uomo che per poco non strangolai con le mie mani, quando, alla mia proposta, lo vidi impallidire, volgere altrove lo sguardo, abbassare il capo... Lui, che è tanto orgoglioso! ... Quando entrai, alle mie prime parole: “Giorgio, ho saputa la faccenda dello chèque... ” egli volle esser forte, e negò. Gli nominai Casal, e allora mi rispose: “Sì, è vero... Avevo perso la testa... La follia del giuoco!” Ma nella sua voce fremeva la passione. Ora, per ringraziarmi della mia offerta, quella voce diveniva debolissima... Mamma, vedevo che si vergognava... Non già del suo falso, ma della mia offerta!..Perché sarebbe stato così, se non ci fosse una donna, fra noi due?... E quella vergogna, come l'avevo vista salire a quel viso arrogante, la vidi svanire, mentre egli mi rispondeva: “Tu sei la bontà personificata, Gianmaria. Non dimenticherò mai questo tuo passo. Ma i cinquantamila franchi, li ho già trovati. Li restituirò oggi stesso”..Mamma, non era vero. Passai dal Circolo l'altra sera, ieri sera. Rividi Casal tutte le volte... Saintenois non ha restituito nulla. - Forse avrà avuto il denaro soltanto questa. mattina, - disse la signora Vialis. - No, - rispose Gianmaria. - Prima di venire qui, sono andato di nuovo da Casal. Nulla ancora. La verità, mamma, è che Saintenois preferisce essere disonorato, piuttosto che doverlo a me, quel denaro... Ah! perché, anche essendo colpevole, non ha accettato la mia offerta, per illudermi, o per cavalleria? Infatti, Sabina, se è sua amante, deve aver capito che sono geloso. Deve averglielo detto... Ma che vigliaccheria! No. Meglio soffrire e sapere! Però, ancora adesso, io non so. Da due giorni mi accanisco a studiare il viso di Sabina, per indovinare se ella sa la storia dello chèque... Non la sa. Ho voluto trovare in questo una prova della sua innocenza. Venti volte ho avuto la tentazione di raccontargliela, e ho pensato: “No; se si vedono, e per timore che Casal mi parli essendomi molto amico, vorrà avvertirla egli stesso”. Come sempre, siamo stati veramente insieme soltanto alle ore dei pasti. Puoi immaginare le mie sensazioni nel mettermi a tavola e nel guardarla. Nessun mutamento, in lei, nessuna traccia di preoccupazione o non si sono visti, o Saintenois continua, a tenerle nascosta la cosa. Ieri, pranzammo fuori. Il nome di Saintenois venne pronunciato, senza che nessuno sembrasse informato della tragedia che quello sciagurato attraversa in questi giorni. Casal, dunque, ne ha parlato soltanto a me. La mia gelosia aumentò, a questa constatazione. Mentre tornavamo a casa in carrozza, Sabina ed io, - e mentre sentivo il suo respiro, il suo profumo - , il mio bisogno di sapere diventò un dolore acutissimo. Sì, di sapere se veramente un altro l'ha posseduta, lei, i suoi piedi, i suoi fianchi, la sua bocca! ,..Mi venne alle labbra la domanda: “Sai che cosa capita a Saintenois?... ” Ma le parole mi si fermarono in gola. Ebbi paura del mio delirio, se, ascoltandomi e rispondendomi, ella avesse detta una frase, o fatto un movimento in cui avessi sentita la confessione! L'avrei uccisa, e poi mi sarei soppresso... E ad un gesto di sua madre, che giungeva le mani supplichevolmente, Gianmaria riprese: - Rimasi muto, mamma, per paura di me stesso. Ah! in certi momenti, il peso della vita è veramente troppo grave! Questa notte, solo nel mio letto, pensavo: “Essere morto, e stare steso così, nel buio, per sempre... Che riposo!” Non dovere alzarsi, come mi sono alzato questa mattina, per soffrire ancora, che bella cosa, infatti!... Mamma! questo stato di cose non può durare! Il mio cervello si smarrisce!... E ho pensato a te, mamma... Io non posso parlare a Sabina, per la ragione che ti ho detto. Non so affatto che cosa farei, se per caso... Ma tu, sei una donna tanto intelligente, tanto fine!... Ciò che ti ho raccontato, dovresti ripeterlo a Sabina... Anzitutto, la faccenda di Saintenois. Capisci? Anzitutto!... La vedrai arrossire, soltanto all’udire quel nome pronunciato da te, e saprai!!! E se non c'è nulla, fra loro... (è ancora possibile! )... se la gelosia mi fa vaneggiare... dille il resto, mamma... dille le mie pene, il mio amore, tutto ciò che non posso più dimostrarle, per la gelosia che mi tormenta!... Accetta, mamma, di far questo, per me. In te sola, ho fede... una fede assoluta, totale, cieca! Tu, non mi mentirai... O tornerai a dirmi: “le tue supposizioni erano anche troppo giustificate”, e allora, noi due, provvederemo. Con te, troverei la forza di regolarmi come devo, verso la madre di mio figlio. Di Renato, almeno, non posso dubitare. E' il mio ritratto e quello di mio padre bambino... Oppure, mi dirai: “Ti sei ingannato”, e certo saprai trovare le parole per ricondurre a me Sabina, per restituirmela! Sono ancora tanto innamorato di lei!... Non dirmi di no, mamma!... Non ho che te, al mondo:... Mamma! se mi vuoi bene, promettimi che andrai da Sabina, che le parlerai, che saprai... - Sì, figlio mio, - rispose la signora Vialis, - le parlerò. - Ma quando? - Lasciami riflettere, meditare sul modo più opportuno di condurre il colloquio. Devi capire che si tratta di cosa delicatissima... - No, no... Non posso aspettare! Ti ripeto che perdo la testa! Impazzisco! Adesso, subito, devi parlare a Sabina!... Ho tenuto la carrozza. Te ne servirai tu. Sabina è in casa. So che ha dato appuntamento per questa mattina al suo gioielliere, per un lavoro da fargli eseguire. Le ho detto, nell'uscire, che avrei fatto colazione con un amico, al ristorante. Quindi, ella non mi aspetta. Farò colazione con, te, mamma, per non lasciarti, se dovrò udire, quando tornerai, le parole di cui ho paura. Ma le preferirò a questa agonia! Vai, mamma? I suoi lineamenti scomposti rivelavano una angoscia tanto intensa! La sua voce assumeva un tono di preghiera tanto straziante!... E quel nome: “mamma!... mamma!... ” ripetuto di continuo. come da un bimbo malato, scendeva a far vibrare la corda più profonda, nel cuore di colei ch'egli implorava così. La madre non seppe resistere, e, alzandosi, disse: - Sì, caro... Vado. VIII Suocera e nuora. Fra via San Domenico, dove abitava la signora Vialis, e via Villejust, la distanza è grande. Ella trovò modo d'impiegare maggior tempo, nel tragitto, facendo fermare la carrozza davanti alla basilica di Santa Clotilde, nella quale era stata celebrata la messa funebre di suo marito, e dove, due giorni prima, ella aveva sorpreso il figlio, appoggiato al muro della cappella della sua prima comunione, e tanto visibilmente infelice. Era troppo religiosa perché il suicidio del marito non le avesse lasciato nel cuore, oltre alla disperazione per quella perdita, un'angoscia che sempre si rinnovava al pensiero delle conseguenze di quella morte volontaria. Era giunta perfino a cercare in un esemplare del catechismo del Concilio di Trento, che aveva trovato fra i libri ereditati dai vecchi Vialis, il commento fatto al quarto precetto del Decalogo, nel quale si osserva che legge non dice: “Non ucciderai un altro uomo”, ma semplicemente: “Non ucciderai”. Il suo maggior conforto contro il terrore circa la dannazione di colui che aveva amato tanto, era una fede profonda e totale nella misericordia divina. La preghiera da cui traeva. la più potente consolazione, era l'atto di fiducia in Dio del venerabile padre Claudio della Colombière: “Mio Dio, sono tanto persuaso che voi proteggete coloro che sperano in voi, e che non si può mancare di nulla quando si aspetta da voi ogni cosa... ”. Ella aggiungeva a quelle parole tranquillizzanti il ricordo dell'affermazione del professare Vernat: “Sul mio onore di medico, vi affermo che Vialis non è responsabile di questa morte!” E meditava su quelle parole: “No, non può esserne responsabile, poiché fu vittima di una eredità fatale! Non sarebbe giusto, e Dio è giusto. ” Mentre quell'idea d'una fatalità ereditaria, calmava la sua inquietudine circa la sorte dell'anima di Giovanni nell'altro mondo, ella vi trovava una ragione di tremare per suo figlio in questo, e di aver paura di una ripetizione dell'atto terribile. Anche quella mattina, inginocchiata in quella chiesa nella quale aveva pianto tanto, implorava da Colui che può tutto e da Colei che fu la Mater Dolorosa, la forza di fare quanto le aveva domandato, o meglio imposto, quel figlio, e di farlo in modo che un secondo sorso del calice fosse evitato a lei stessa. Come sempre, quella sosta in chiesa valse a dare un po' di pace alla sua anima. Ma certo, ella giunse davanti alla casa di via Villejust con una grande tensione di spirito. Prevedeva emozioni penosissime, ma un motivo diverso dal desiderio di far del bene a Gianmaria le dava l'energia di accingersi coraggiosa mente a quella conversazione con la nuora. La sua coscienza non temeva più di essere condannata a delle compiacenze che le avrebbero lasciata l'amarezza di un rimorso. Ormai quel supplizio morale era finito. Con l'infallibile logica della passione, il geloso aveva riassunto la situazione in un dilemma senza scappatoie. Come aveva detto, quel colloquio doveva dargli una di queste due certezze: che le relazioni fra Sabina e Saintenois erano colpevoli soltanto in apparenza (sussisteva questa possibilità), o che essi erano amanti l'una dell'altro. Ma da quel dilemma, la madre traeva una conclusione che non era quella di suo figlio. Nel primo caso, ella avrebbe rassicurato suo figlio; la cosa andava da sé. Nel secondo, avrebbe avuto diritto di tacere, poiché quella relazione sarebbe troncata, anzitutto dal suo passo. “Avvertire, equivale a fermare”... Queste parole di Vernat le tornavano alla memoria. D'altronde, anche senza il passo ch'ella stava per fare, l'obbrobrio di Saintenois avrebbe imposta la rottura. Egli avrebbe lasciato Parigi. Anche se fosse rimasto, Sabina non avrebbe tenuto un amante disonorato. Per la madre, non denunciare a suo figlio dei tradimenti che ormai apparterrebbero soltanto al passato, non significava più proteggerli. Significava risparmiare, a colui che sapeva tanto acutamente sensibile, un dolore troppo pericoloso, ed anche dare alla moglie colpevole una probabilità di riparare alla sua colpa. Davanti all'infamia del suo complice, non si sarebbe infatti giudicata, Sabina? Mettendo a confronto la nobiltà del marito tradito con la bassezza dell'amante preferito a lui, non sarebbe ritornata, Sabina, guarita dal disgusto e dal rimorso, all'uomo di cuore che aveva straziato?... Così Gianmaria avrebbe avuto ancora della felicità, Sabina si sarebbe riabilitata... E le frasi del Vangelo sul peccatore pentito salivano dal cuore alle labbra della madre. Ella era pronta a ripeterle. Entrò nel piccolo palazzo in cui abitava, sua nuora - (edificio la cui decorazione ultramoderna attestava una vita assai diversa dalla sua) sentendosi sorretta dai sentimenti ai quali ho accennato, molto strani per esser provati in quel luogo d'intensa e frivola mondanità. La scala piena di luce e adorna di piante verdi saliva ad una vasta galleria, destinata ai grandi ricevimenti, dalla quale si accedeva ad un salotto che serviva da boudoir a Sabina. Un'altra porta s'apriva in un corridoio che conduceva allo studio di Gianmaria e ad una camera più lontana riservata a Renato e Giulietta. - La signora è in colloquio col suo gioielliere, - disse il domestico che introdusse Maria Vialis. - Vado ad avvertirla. - I bambini sono in casa? - Sì, signora, nella stanza da studio. - Dite alla signora che l'aspetterò in quella stanza, - concluse la vedova. Mentre stava per cominciare quel colloquio che si annunciava quasi come una lotta, non sarebbe stato un conforto, per lei, abbracciare il suo, nipotino, quello di cui ella pure, come Gianmaria, era veramente sicura? Non si preparava ella a lottare anche per lui, affinché gli rimanessero, uniti, i suoi genitori?... Quel nipotino rappresentava per lei il prolungarsi della missione che si era imposta, poiché l'eredità salta talvolta delle generazioni, Era, sopra tutto, una creaturina che ella amava. Le ricordava tanto il suo Gianmaria, quale le aveva sorriso nel passato, nei primissimi anni di quella vedovanza della quale era stato il tormento ed insieme la consolazione! - Quando ella entrò, dal corridoio, nella stanza da studio, Renato era seduto ad una piccola scrivania adatta per lui, sulla quale stava terminando di copiare un compito, mentre sua sorella leggeva il sillabario, aiutata da una governante della quale la signora Vialis aveva moltissime volte scrutato, con attenzione diffidente, la fisionomia evidentemente sorvegliata. Le donne che hanno, come Sabina, un segreto nella loro esistenza intima, temono troppo lo spionaggio dei loro domestici, per non aver cura di scegliersi delle cameriere e delle istitutrici devote soltanto a loro e di una discrezione provata. Quella donna, che rispondeva al nome di Marcellina Tullugowy - un nome dei Pirenei, - veniva infatti dalla regione basca. Era nata a Mauléon. Naturalmente, era stata indicata ai Vialis da Giorgio Saintenois. .. Un altro degli innumerevoli piccoli indizi raccolti, dalla suocera, relativamente all'influenza di quell'uomo nella vita coniugale di Gianmaria. Ed era un indizio anche l’analogia di tipo fra quella mezza spagnola e la piccola Giulietta. È risaputo che in nessun luogo le caratteristiche di razza sono più visibili che in quella popolazione della Bassa Navarra, ultimi resti degl'Iberi antichi. - Quella mattina, mentre Giulietta si slanciava impetuosamente verso colei che credeva sua nonna, quella singolare identità s'impose nuovamente all'osservatrice, come pure le s'imposero le differenze fisiologiche tra il fratello e la sorella. A quattro anni e mezzo, con le sue piccole membra già robuste, con le sue guance pienotte e la sua carnagione fresca sotto il colorito bruno, Giulietta era un piccolo animale tutto ardore e tutta forza, - una vera figlia dell'amore. Renato, invece, esile e gracile, aveva la meschinità di un figlio del dovere. Egli si avvicinava alla nonna con la timidezza un po' esitante che aveva sempre, in tutti i suoi movimenti. Per una simulazione contraria a quella che suo figlio aveva denunziata in Sabina, la madre di Gianmaria aveva sempre ostentato di vezzeggiare maggiormente quella bambina, della quale diceva a sé stessa: “Non è nulla, per me!... ” Questa era stata, come fu già detto, una delle forme quotidiane del suo martirio e quale ne era stato il risultato?... Il sospetto era entrato ugualmente nell'animo di Gianmaria, al quale ella aveva cercato di evitarlo ad ogni costo! - Oh! nonna! - disse Giulietta, - ho già compilato tutte queste parole! Guarda!..Te le ripeterò, se vuoi! La piccina mostrava con una mano il sillabario, mentre con l'altro braccio cingeva il collo della signora Vialis, coprendole di baci le guance. E la vedova s'inteneriva e insieme si vergognava un poco, nell'accettare l'affetto appassionato di quel cuore di bimba illuso da una menzogna. - E tu, - domandò a Renato, - che cosa fai? - Sgridatelo, signora! - disse la governante. E, preso il quaderno sulla scrivania, soggiunse: - Guardate questa pagina! Non fece mai tanti errori d'ortografia quanti ne ha fatti nel suo dettato di questa mattina, e, col vocabolario, non riesce a trovarli! Il povero Renato abbassava il capo. Le lagrime di cui gli s'empirono gli occhi denunciavano l'emotività ereditaria. La signora Vialis lo baciò a sua volta, abbandonandosi ora ad un istintivo impeto di tenerezza, con un calore che stupì il fanciullo, assuefatto a vederla meno espansiva. Egli sentì in quel trasporto una carità per la sua umiliazione e mormorò alla sua nonna un “grazie” sommesso, tanto fremente di gratitudine ch'ella ne fu commossa fino in fondo all'anima. - Ah! mamma! - disse Sabina, entrando appunto in quel momento; - come avete ragione di voler tanto bene al mio Renato! È tanto buono! tanto carino! - E accarezzava intanto le guance del suo figlioletto. - Invece, questa piccola indemoniata... - soggiunse, dando a Giulietta dei leggerissimi scappellotti. Non hai raccontata alla nonna la tua ultima stupidaggine?... Fa vedere il tuo libro! La bimba, tutta rossa in viso, porse il sillabario, le cui figure rappresentavano dei paesaggi, degli animali, ora coi nomi, ora senza. Sabina lo sfogliò, cercandone una, sulla quale era disegnata una stalla. Un enorme maiale vi stava sdraiato sulla paglia. La piccina, sempre più turbata, si nascondeva il viso col grembiule di Marcellina. - Sapete, mamma, - insisté Sabina - che nome dà, la nostra scioccherella, a questo animale? Lo chiama cuscino rosa!.., A San Giovanni di Luz, Marcellina le indicò un giorno un maialino, dicendole: “Guarda che bel cuscinetto rosa!” E, lei, convinta di sapere il nome della specie, chiama cuscino rosa il maiale del suo sillabario, più grosso del cuscinetto che vide!... Non potrebbe essere più grulla! La madre di Gianmaria aveva ancora pieno il capo delle lagnanze di suo figlio contro il contegno ipocrita di Sabina verso i due bimbi. Ella stessa, si era rimproverata, proprio allora, una ipocrisia analoga, scusata da un motivo diverso, ma che era ugualmente, un'ipocrisia... Quella scena le riuscì penosa. L'interruppe bruscamente, dicendo: - Potete dedicarmi alcuni minuti, mia cara Sabina? Sono venuta per parlarvi di cose abbastanza gravi. La nuora guardò la suocera. Un'espressione di diffidenza le contrasse il volto fine, tanto ardito per solito. Era una, donnina esile, non molto alta, bionda con lineamenti delicatissimi e con un colorito pallido illuminato da due occhi ardenti, luminosi e d'una profondità singolare. Le pupille di fuoco, il naso corto e sensuale, le labbra un po' tumide, il vigore del mento segnato da una fossetta, tutto accusava in lei l'energia nervosa, che s'affermava anche nelle movenze, nel busto eretto, nel ritmo preciso col quale i piedi piccini battevano leggermente sul suolo nel camminare. La sua veste di seta turchina, stretta alla vita, lasciava indovinare la muscolatura robusta di un giovane corpo allenato a tutti gli esercizi di sport: equitazione, tennis, golf... La sua voce un po' grave aveva quelle intonazioni da contralto che secondo certi osservatori sono indizio d'intensità nella passione. La sua forza di volontà si manifestava in un modo ancor più certo: ella soleva manovrarla, quella voce, con grande maestria, sospendendone quando voleva la carezza avvincente. La sua parola allora assumeva l'intonazione secca e impersonale che suo marito le rimproverava e con la quale ella rispose all’invito inaspettato della visitatrice: - Volete venire nella galleria, mamma? - Andiamo piuttosto nel vostro salottino. Ciò che devo dirvi è importante, e sarà bene che nessuno possa udirne una parola. - Che mistero! - disse Sabina, ridendo con ostentazione, come se non avesse indovinato il genere del colloquio che si preparava. E, premendo il bottone di un campanello, soggiunse : - Avvertirò i domestici che non sono in casa per nessuno... Poi, quand'ebbe dato l'ordine alla cameriera, e per sapere se la suocera era venuta con un incarico di Gianmaria, soggiunse, ancora ridendo: - Spero che il mio signor marito non capiti ad interromperci. Dev'essere con un amico, col quale ha fatto colazione. Sarebbe di troppo anche lui? - È preferibile ch'egli non ci sia, dato l'argomento che avrà la nostra conversazione, - cominciò la signora Vialis, - sedendosi nella poltrona che l'altra aveva avvicinata per lei cerimoniosamente. - Il mistero s'intensifica... - disse Sabina, che invece di sedersi andò verso il caminetto, dove rosseggiava un fuoco semispento. - Aggiungo un po' di legna, - riprese; fa molto freddo. E, quando sorse la fiamma, prese in una coppa una sigaretta russa, che accese, dopo aver domandato: - Permettete?... Ed ora, - soggiunse, aspirando con gaia avidità una boccata del fumo squisitamente odoroso di quel tabacco che aveva il colore de' suoi capelli, - vi ascolto. La suocera aveva assistito a quel maneggio senza che la sua fisionomia tradisse la minima impazienza per quella frivolezza troppo evidentemente finta. Ella raccoglieva tutte le forze del suo pensiero per trovare le parole necessarie che doveva dire, e per evitare di dirne altre. Cominciò: - Riconoscerete, mia cara Sabina, che non mi occupo mai dei fatti di casa vostra. Pensai forse, nel passato, e desiderai, che mio figlio avesse a condurre, con sua moglie, una vita meno mondana, più calma, più intonata ai gusti ch'egli ebbe nella sua prima gioventù, dedicata principalmente agli studi. Ma non mi riconobbi il diritto d'imporre i miei modi di vedere, né a voi, né a lui. Appartenete tutti e due ad una generazione assai diversa dalla mia. I vecchi devono ammettere che i giovani pensino e sentano in un altro modo... Tutto cambia, cogli anni... Tutto? No. Il dovere non muta, e il primo dovere di una donna maritata, le piaccia o non le piaccia la vita di società, consiste nel non far parlare di sé.... - Ora la cosa diventa più chiara! - disse Sabina, che cessò di ridere e gettò nel fuoco la sigaretta. - Secondo voi, io faccio parlare di me? - Sì, - disse la suocera. - Ah! - replicò Sabina. - E con chi?... Infatti, dire ad una donna che “fa parlare di sé” equivale a dire... (sarò esplicita come voi)... che quella donna ha un amante... - Non così esattamente, ma che ella si presta a delle intimità pericolose, che dovrebbe proibirsi. - Vi ripeto la mia domanda: di chi volete parlare? - Del signor Giorgio Saintenois! disse la suocera guardando fissamente la nuora. Questa non impallidì, non arrossì; si mise a ridere di nuovo, ma più forte di prima, con insolenza e con aria di sfida... Poi, con una voce divenuta mordente: - Del signor Giorgio Saintenois, - ripeté. - Ebbene, sì! è mio amico, il signor Saintenois! Ed, è anche amico di mio marito. Voi, ch'io sappia, non siete una di quelle persone che non ammettono che una donna abbia degli amici... Avete pure, voi, da molti anni, per amico intimo il professor Vernat... Se venissero a dirvi: “Sapete? Si parla di questa amicizia... ” tronchereste forse le vostre relazioni con lui?..No, certo. Direste: “Una calunnia non si discute, si disprezza!” Parli pure chi vuol parlare; io sono amica di Giorgio Saintenois, e continuerò ad esserla... - Non ho più la vostra età, - disse la signora Vialis, - e vi assicuro che trent'anni fa, quand'ero giovane, se qualcuno fosse venuto a dirmi come vi dico io, e coi sentimenti che ho per voi: “Badate. La gente è cattiva. Il nome che portate non è soltanto vostro... ” - Se è mio marito che vi manda... - Interruppe vivacemente Sabina, - vi dirò che avrebbe potuto parlarmi egli stesso... Una conversazione come quella in cui si affrontavano ora le due donne, somiglia ad un duello fra schermidori, ciascuno dei quali cerca anzitutto di comprendere il metodo dell'altro. La suocera aveva avuto subito due sensazioni: quella di non aver stupito affatto la nuora nel dirle il nome di Saintenois, e quella di capire che Sabina avrebbe difesa la sua intimità con quell'uomo, ostinatamente, implacabilmente, sfidando la sua accusatrice a fornire delle prove. Che cosa si poteva concludere da tutto ciò? Che significato poteva avere quella domanda sul marito, che tendeva a sostituirlo alla sua inviata? Se fosse stata innocente, avrebbe avuto, Sabina, un contegno diverso? Quell'inchiesta, della quale il figlio aveva con tanta passione e con tanto dolore incaricata la madre, stava dunque per fallire completamente? La signora Vialis pensò appunto a Gianmaria, in quel momento, e ai suggerimenti avuti, circa il modo d'interrogare Sabina, da quell'uomo che, avendo sofferto molto per colpa di sua moglie, sapeva quale potesse essere il punto debole di lei e come convenisse colpirla: - Prima di tutto, la storia di Saintenois! - aveva detto il marito geloso. E aveva insistito: - Prima di tutto! Quella storia, la storia della truffa, Sabina non la sapeva, evidentemente... E Gianmaria aveva ragione: il raccontargliela brutalmente, senza preparazione, costituiva forse il mezzo più sicuro per strapparle il grido rivelatore. “Con vostra nuora, il bisturi!” aveva detto anche il medico. Ma chi doveva adoperarlo, il bisturi, era una donna... Una donna che aveva amato. E un po' di compassione involontaria nasceva in lei, per Sabina colpevole, al pensiero ch'ella amasse veramente il miserabile del quale stava per conoscere l'ignominia. Riprese: - È naturalissimo che non comprendiate il mio passo... forse non ho cominciato bene. Ma volendo giovarvi, ho dovuto rivolgervi quella domanda a quel modo... Mi è sembrato necessario avvertirvi anzitutto che si parla di Saintenois e di voi, perché abbiate il contegno che dovete avere nelle circostanze assai deplorevoli in cui quell'uomo sta per trovarsi. - Il mistero ricomincia... - disse Sabina. Ora, l'eccesso della sorpresa prevista da Gianmaria le impediva di dominare i propri nervi. Le era nota la riservatezza della suocera, alla quale questa aveva d'altronde accennato fin dal principio del colloquio, e aveva già capito che si trattava di qualcosa di molto grave. Quale poteva essere il motivo della mossa di Maria Vialis, se non un accesso di gelosia da parte di Gianmaria, che mandava a sua moglie quell'ambasciatrice? Istintivamente, ella aveva cominciato a difendersi con energia. Ora, l'accento con cui l'altra aveva pronunciate le parole: assai deplorevoli e quell'uomo, l'avvertiva di un incidente nuovo. Di che genere? - Infatti lo scandalo di cui vi parlerò, - riprese la suocera - non è ancora pubblico. Domani, tutta Parigi se ne occuperà... E allora sarete la prima a riconoscere che una donna, se può, come dite, avere degli amici, dev'essere almeno assai cauta nella scelta... - Uno scandalo?..Uno scandalo intorno a Saintenois?..Che cosa pretendete d'insinuare, mamma? Sabina non si padroneggiava più. Dal principio della settimana, era andata ogni giorno in casa del suo amante, trascurando ogni prudenza. Vi era andata cedendo alle insistenze del giovane, che tuttavia, per solito, si preoccupava assai dei pericoli a cui poteva esporre la sua amante. Quelle visite avevano lasciato nell'animo di Sabina un'impressione strana d’inquietudine vaga, ma tormentosa. Saintenois non le si era mai mostrato più innamorato, più appassionato, e quell'ardore, invece di darle piacere, l'aveva quasi spaventata. I baci dell'amante avevano, in quei giorni, quel non so che di frenetico, di disperato, che caratterizza gli estremi addii... Ella lo aveva sentito, senza comprendere la causa di tanta tristezza nell'esaltazione. Aveva esitato a interrogare Giorgio. Come lui, ella aveva orrore della leziosaggine sentimentale. Pure, già sulla soglia per uscire, alla fine dell'ultima visita, aveva osato dirgli, perché l'aveva visto più preoccupato che mai: - Hai dei fastidi, amore mio? - Quali fastidi vuoi ch'io abbia? - aveva risposto Saintenois, fissando su di lei uno sguardo singolare nel quale s'indovinava una violenta emozione subito dominata. Ed egli l'aveva baciata lungamente, cercando di correggere quello sguardo con un sorriso intensamente affettuoso. - Vuoi sapere quel che ho? - aveva soggiunto. - Ti amo troppo! - Troppo? - aveva detto lei, scherzosamente. - Non basta ancora! - Credi?..aveva concluso. Giorgio, con un tono tanto triste, che Sabina non aveva più potuto dir nulla. Non provava ella pure, alla fine d'ogni convegno, un'angoscia profonda: quella di dover rientrare nella sua vita separata da quella di lui? Aveva interpretato così il sospiro doloroso dell'amante, che la inseguiva fin dal giorno antecedente. Riflettendo però, si domandava se quel “Credi?” non aveva anche qualche altro significato. Ed ora le giungeva la più inaspettata conferma di tutti i timori che non aveva voluto confessarsi. Il suo turbamento cresceva, più forte della sua volontà. I suoi lineamenti si alteravano, le sue palpebre battevano, la sua bocca si schiudeva, ansando quasi per i battiti precipitati del cuore, mentre la suocera riprendeva, fissandola con quelle pupille penetranti, contro l'inquisizione delle quali ella non si difendeva più: - No. Sabina... non insinuo nulla. Vi ripeto soltanto ciò che ho saputo questa mattina, da fonte sicura, sicurissima!...Saintenois è giocatore... Lo sapete certamente. In questi ultimi tempi, aveva perso molto. Ha voluto rifarsi. Ha preso dalla cassa di giuoco del Circolo una somma rilevante: cinquantamila franchi. L'ha giuocata, e l'ha persa. Questo non sarebbe nulla. Ciò che è grave, è che, per avere quei cinquantamila franchi, egli rilasciò al cassiere un assegno bancario dello stesso valore. Il cassiere l'accettò, naturalmente, non potendo pensare che un socio del Circolo fosse un truffatore. Poi, quando quell'uomo andò alla banca per riscuotere con quell'assegno, si constatò che non c'era alcun deposito di Saintenois! Ora bisogna supporre che Saintenois sia considerato da tutti come completamente rovinato, poiché egli non è riuscito è trovare immediatamente, a Parigi, la somma necessaria per pagare un debito che contrasse mediante un falso! Lo troverà, forse, quel denaro, ma è stato denunciato al presidente del Circolo, che è il signor Casal, e questi esige le sue dimissioni. Una prova che la sua vergogna sta per essere resa pubblica, sta nel fatto che io ne sono già informata. Certamente il cassiere parlerà, certamente Casal sarà costretto a spiegare la cosa al Consiglio... Insomma, Giorgio Saintenois è disonorato! Io ho voluto, Sabina, che non abbiate il viso che avete ora, quando una vostra amica, per esempio, vi darà questa notizia... Ah! disgraziata!... Non occorre più, ormai, che mi diciate la verità....La so... La so!... Quale confessione, infatti, l'atteggiamento di Sabina, all'udire quelle terribili parole!... Ella si era lasciata cadere su una sedia, e, con le mani convulsivamente giunte, con viso proteso, guardava... Che cosa? L'abisso che si era improvvisamente spalancato ai suoi piedi. Una sciagura estrema e subitanea ha di queste visioni, assolutamente simili a quelle di chi s'annega, nelle quali. delle lunghe serie di avvenimenti passano rapide nel campo del pensiero. Nel lampo d'un secondo, si accumulano degli anni. Il disonore di Saintenois significava per Sabina la fine della sua relazione con lui. Egli se ne sarebbe andato da Parigi, dato che non facesse di peggio. - Della dolorosa frenesia delle carezze ch'egli le aveva prodigato due giorni prima e il giorno antecedente, Sabina aveva ragione d'avere paura. Egli infatti, nei suoi abbracci deliranti, s'era stretta al cuore la felicità, s'era stretto al cuore l'amore, prima di perdere per sempre l'una e l'altro. E non le aveva detto nulla! Quella rovina, quel bisogno di denaro, che doveva esser tragico... tutto, tutto le aveva nascosto, mentre ella era ricca e lo amava tanto!... Lei, non aveva saputo indovinare nulla! Ed ora (come la suocera prevedeva giustamente), che cosa avrebbe letto negli occhi, che cosa avrebbe sentito nelle parole delle sue amiche, e non soltanto di esse, ma di tutte le persone della società che frequentava? Perché avrebbe mentito, ormai? Per ingannare chi? Ad un tratto, e come avviene in una grande sciagura, una reazione quasi selvaggia - quella dell'animale perseguitato che morde - la fece scattare in piedi, e, fissando a sua volta la madre di suo marito, le disse, cercando le parole più adatte a ferirla profondamente: - Sì, è vero... Sì! Amo Saintenois! L'amo, capite?..L'amo! ... E poi?..Andate pure a dirlo al vostro Gianmaria che vi ha mandata per strapparmi questa confessione! Ah! Questo mezzo è degno di lui... E gli è riuscito!… Ora, non mi tormentate più! In quel momento, era la suocera, che si sentiva battere forte il cuore e fremere tutta alla: minaccia contenuta in quelle frasi della ribelle. Ella non pensò affatto ad adirarsi, come l'altra s'aspettava, contro quell'insolenza, contro l'insulto lanciato dalla moglie indegna al marito tradito. Certo, era venuta per sapere, ma soprattutto perché suo figlio non sapesse... Invece, egli stava ormai per avere una rivelazione completa! ... In che stato l'aveva lasciato, poco prima! E forse, a provocare il gesto ereditario, sarebbe bastata una commozione violenta, come quella che avrebbe provato per l'impudente confessione di Sabina!... Ma questa aveva parlato così, credendosi perduta ed essendo convinta che suo marito le avesse mandata sua madre per strapparle quella confessione e per punirla poi. Comprendesse, invece, che quella madre era pronta a perdonarle, se, liberata da un amante infame, ella fosse ritornata al sentimento del dovere! E, alzatasi, la vedova del suicida, animata dalla volontà di salvare il suo figliolo, disse coll'accento di una martire: - Come mi conoscete poco, Sabina! ... Sì, mi ha mandato Gianmaria... Egli è geloso, è vero... La storia di Giorgio Saintenois l'ho saputa da lui, ed è anche vero che ve l'ho detta per sapere... Ma v'ingannate se supponete che io stia per tornare a casa, dove Gianmaria mi aspetta, per denunziargli ciò che voglio, ad ogni costo - capite? ad ogni costo! - ch'egli ignori completamente! Soffrirebbe troppo, e non voglio che abbia questo dolore, non voglio che... S'interruppe, per un momento. Stava forse per gridare la sinistra verità il cui peso le opprimeva il cuore da anni?... Le mancarono le parole, per rivelare quel crudele, segreto, serbato troppo, lungamente. A che scopo d'altronde, l'avrebbe rivelato? Quella donna, certo, non avrebbe condiviso il suo terrore di vedere il figlio imitare il padre! e continuò: - Ma, mia povera Sabina, già da parecchi anni avevo indovinato che Saintenois è vostro amante! Volete che vi dica da quando data la vostra relazione?... Da quando andaste al mare mentre Gianmaria era a Néris. La bambina non è di mio figlio. Indovinai anche questo, fin dal primo giorno. Diffidaste di Vernat, temeste ch'egli non si prestasse alla vostra versione d'una nascita un po' anticipata. È vero? Ebbene: quella creatura della quale so che non è del mio sangue, mi avete visto baciarla, vezzeggiarla... Voi, vi astenete dall'accarezzarla troppo, perché non volete che si capisca la vostra preferenza. Perché? Perché siete madre. Dunque, la madre, in voi, deve sentire, solo da questo fatto, quanto io ami il mio Gianmaria! Perché egli non sapesse nulla, nulla, nulla, divenni vostra complice col mio silenzio. Continuerò a tacere. Farò anche di più. Addormenterò i suoi sospetti. Vi salverò. Ma il mio silenzio vi crea un debito verso di me. Sì! ho diritto di chiedervi d'aiutarmi nel lavoro che vado facendo per salvare lui, il mio povero caro figliolo, dalla disperazione! Tornando a casa, fra poco, gli dirò che vi ho parlato di Saintenois, della sua bassezza, e che avete accolto le mie rivelazioni con una tranquillità che mi ha dimostrata la vostra innocenza. Sarà la mia peggiore menzogna. Dio me la perdonerà. Ah! sono sicura che per morire non soffrirò di più! Ma voi, Sabina, commetterete un delitto - capite? un delitto! - se mi smentirete quando lo vedrete! E poi, lasciate che una vecchia, che conosce la vita meglio di voi, vi dica che il vero amore, profondo, delicato, appassionato, l'avevate presso di voi! Ora che la catastrofe di colui che non voglio più nominare vi ha illuminata circa il vostro errore, ritornate ai vostri doveri! Mi troverete sempre pronta ad aiutarvi, senza mai un'allusione al passato, senza mai un rimprovero, con riconoscenza, se rivedrò negli occhi di mio figlio una luce che s'è spenta... Non mi rispondete! Ci faremmo troppo male, l'una all'altra, e tutto è già detto... La suocera uscì dal salotto prima che la nuora, ancora accasciata sulla sua sedia, avesse pronunciata una parola, fatto un gesto per trattenerla o semplicemente per salutarla. Attraversò la galleria, e si fermò un momento per ascoltare, attraverso la porta del corridoio, rimasta semiaperta, le risate dei bambini che si trastullavano e correvano insieme, allegramente, senza sospettare che una scena tragica del loro destino si era svolta poco prima, a pochi passi da loro. - Poveri piccini! - pensò la nonna, unendo all'altra la creatura dell'adulterio, nella stessa compassione. E, scendendo le scale, soggiunse fra sé: - Avrò tempo di riavermi abbastanza perché Gianmaria mi veda arrivare sorridente, e perché anche solo il mio ritorno, tanto presto e con quel sorriso, sia per lui una prova... Ah! È stato penoso, questo colloquio! Sarà penoso, il seguito!... Ma la cosa orribile non avverrà! Non è possibile che quella sciagurata non si presti a ciò che le ho chiesto... Ah! mio Dio! Potesse veramente pentirsi, e ritornare a voi!... Ritornerebbe anche a lui!.. La vedova saliva in carrozza mormorando questa preghiera, nella quale la sua religiosità di fervente cristiana e la sua tenerezza materna si confondevano in un voto ardentemente appassionato. Che avrebbe detto se, dieci minuti dopo, fosse stata ancora lì, davanti al palazzo, e avesse visto uscire sua nuora, e poi, seguendola, l'avesse udita dare ad un vetturino l'indirizzo di via Fortuny, dove abitava Giorgio Saintenois? IX Gli amanti. Bisogna pensare che Sabina, solitamente tanto riflessiva e tanto padrona di sé, fosse turbata fin nel profondo dell'essere, per commettere l'imprudenza, la follia, di correre immediatamente dal suo amante, dopo un colloquio simile. Era l'ora della colazione. L'adultera rischiava che suo marito tornasse a casa e trovasse soli a tavola i bambini. Egli l'avrebbe interrogata, poi, su quella strana assenza... Ed ella sapeva, ora, quanto fosse geloso quell'uomo, ripensando all'incarico ch'egli aveva dato a sua madre. Maria Vialis avrebbe mantenuta la parola, certamente. La nuora non ne dubitava, quantunque non comprendesse il brivido di terrore da cui l'aveva vista fremere, al pensiero che suo figlio potesse, un giorno, sapere la verità. Sì, ella avrebbe mantenuta la parola. Ma le avrebbe creduto, il geloso? Se le avesse creduto, non si sarebbe egli precipitato da sua moglie, per chiederle perdono di aver sospettato di lei? E non trovandola in casa, non avrebbe egli avuto un nuovo sussulto di diffidenza? Non sarebbe corso, pure precipitosamente, a casa di Saintenois, per accertarsi che sua moglie non vi fosse? E allora?..Tutte queste possibilità si erano presentate allo spirito di Sabina. Ella non se ne era curata, non già come un'impulsiva che non misura le conseguenze d'un gesto, ma come una creatura energica, ugualmente capace, seconde le circostanze, di contenersi e aspettare, oppure di decidersi all'azione e di precipitarvisi immediatamente. Così sono le anime forti. Sembra paradossale parlar di forza, trattandosi di una parigina, ricca e mondana, impegnata nel più banale dei romanzetti con un giovane che frequentava la sua casa e che era il migliore amico di suo marito, come si usa in una società che non prende più sul serio nient'altro che il piacere, la moda e il denaro. Per solito, si trova di tutto, in simili relazioni: della vanità e dell'accidia, dell'interesse e del falso sentimentalismo, della sensualità, qualche volta, e della depravazione; di tutto, eccettuato l'amore. La passione vera è altrettanto rara, nella società elegante, quanto la vera intelligenza. Vi si trovano tuttavia delle donne, refrattarie a tutto ciò che è fittizio nel loro ambiente, e alle quali rimase un cuore semplice. Queste donne sono come delle primitive conservatesi intatte in una civiltà invecchiata. La parata mondana non significa altro, per loro, che il dover figurare in una scena. La loro vera esistenza è nei loro sentimenti. Con moralità tanto differenti, le due signore Vialis, suocera e nuora, erano due donne di questo tipo. Per la prima, da quando suo marito si era ucciso, non esisteva più che suo figlio; per l'altra, dacché si era data a Saintenois, non esisteva più che questo amante. Il professor Vernat avrebbe trovato in ciò una conferma di quella legge dell'eredità, considerata come causa delle cause, che gli era tanto cara. Tutt'e due erano bretoni: una, la suocera, per un atavismo già lontano. La sua bisavola era nata nel circondario di Plancoet, profondamente celtico, come l'attesta il bel viale coperto di Ville-Genohen, presso Kréhel. Quanto ai Lancelot, sono oriundi del circondario di Carhaix, attraversato dall'Osme, poeticamente chiamato, laggiù, Sainte-Aoun, il fiume profondo. Si sa che in ogni epoca e in ogni paese, per quanto i casi della vita abbiano portati lontano dalla penisola nativa i suoi figli, la razza celtica si distingue sempre per un potere singolare di concentrazione interna. Questa facoltà di un'intensa e coraggiosa sostenutezza caratterizzava ugualmente le due donne. Una era nella virtù ciò che l'altra era nella colpa, conviene aggiungere con molte scuse. Ogni creatura umana è, come ha detto un filosofo, la somma della propria razza, ma si può dire che sia anche quella delle sue impressioni d'infanzia e di gioventù. Ed ecco quali erano state le prime impressioni di Sabina. Suo padre, Tristano Lancelot - l'allegro Tristano, come lo chiamavano alla Borsa, - era uno dei principali agenti di cambio di Parigi. Egli l'aveva avuta dal suo primo matrimonio. Quella nascita era costata la vita alla madre. Meno di un anno dopo, il vedovo si era riammogliato, e dalla seconda moglie aveva avuto parecchi figlioli. Sabina si era subito sentita un'estranea, in quella nuova nidiata. La matrigna l'aveva odiata anzitutto per istinto. E poi, quella bimba d'un altro letto era troppo diversa, troppo impenetrabile, soprattutto, con quei suoi sconcertanti ed irritanti silenzi come ne hanno gli esseri dotati d'una vita interna troppo chiusa. Per la stessa ragione, i fratellastri e le sorellastre non l'avevano amata di più. Erano morti tutti, successivamente, quando ella aveva toccati i quindici anni. L'avversione della loro madre colpita così, si era maggiormente esasperata contro la superstite. E ciò spiegava il matrimonio di Sabina con Gianmaria Vialis. Ella aveva voluto lasciare ad ogni costo la casa paterna, per sottrarsi a quelle ostilità di ogni giorno e di ogni momento. Tutto ciò era stato indovinato perfettamente, con la lucidità infallibile degli affetti appassionati, dall'altra madre, dalla madre di Gianmaria, che aveva pensato: “Costei non ama mio figlio, che l'adora. Costei aspira soltanto alla propria libertà. Perché ha scelto mio figlio, piuttosto che un altro?” Ed ella non aveva trovato risposta a questo punto interrogativo. Ma forse nessuna risposta precisa sarebbe stata possibile. Una ragazza, sia pure la più risoluta nelle sue volontà, conserva in sé dell'indeterminato. Non si conosce interamente. Crede di obbedire a certi motivi, mentre è spinta da altri. Gianmaria Vialis era stato presentato per caso alla signorina Lancelot, in una festa, in casa del padre d'un suo compagno di studi. Subito egli aveva impiegato, per rivederla e spesso, quell'ingegnosità dell'amore nascente, sulla quale una donna che ne è l’oggetto non s'inganna mai. Constatando che il giovane s'innamorava di lei, Sabina si era sentita spinta immediatamente ad incoraggiarlo, soltanto perché la sua matrigna manifestava per lui un'antipatia che si spiegava anch'essa molto semplicemente. Come avrebbe potuto, la matrigna, accettare volentieri, per una figliastra detestata, l'idea di un'unione in cui tutte le probabilità di esistenza felice che una donna dell'alta borghesia può sognare, sembravano riunite? Onorabilità della famiglia, intelligenza, serietà di carattere e grande ricchezza... Sabina, quando suo padre le aveva trasmessa la domanda di matrimonio, aveva esitato, tuttavia, pensando alla signora Vialis e per timore di un'altra schiavitù in quell'altra famiglia. Poi, l'evidenza di un sentimento profondo in Gianmaria, l'aveva indotta a sposare quel giovane, sentendosi sicura di dominarlo e dicendosi: “Farò di lui quel che vorrò”. Ed era riuscita anche troppo nel suo intento. Non si sarà dimenticato con quanta amarezza la madre di Gianmaria avesse parlato, al più sicuro confidente delle sue angosce, del turbine di vita gaia nel quale la giovane coppia si era lasciata trascinare, guidata da Sabina. Si trattava veramente di quell'ebbrezza d'evasione che la reclusa di via San Domenico aveva indovinata dietro al consenso della futura nuora. Ella aveva avuto per un momento l'illusione che questa avrebbe potuto, per gratitudine, affezionarsi a colui che le procurava la gioia della liberazione. Aveva constatato infatti nella giovane sposa una gentilezza verso il marito, la quale sembrava dovesse diventare affetto vera, alla nascita del primo bimbo. Invece, era avvenuto il contrario. Come si è già notato, la meschinità psicologica del piccolo Renato attestava chiaramente ch'egli non era un figlio dell'amore. Nondimeno, il bimbo avrebbe potuta divenire un principio d'unione fra marito e moglie. Ma era stato un'immediata occasione di disaccordo. Gianmaria avrebbe desiderato che sua moglie allattasse. Ella non aveva voluto, poiché le stava a cuore di riprendere prestissimo la sua esistenza mondana, mentre suo marito accarezzava il sogno di una vita di famiglia più ritirata, più raccolta. Allora Sabina aveva constatato, nel corso di quel conflitto, finito per altro con la sua vittoria, che c'erano degli angoli oscuri in quel carattere d'uomo che credeva di conoscere tanto bene. Gli emotivi impongono spesso degli stupori di questo genere. Gianmaria era capace, a volta a volta, di fronte agli altri, di compiacenze che giungevano fino alla debolezza, e di brusche resistenze tese fino all'ostinazione e alla violenza. Presentava così delle sconcertanti alternative di eccitazione e di depressione, irritandosi qualche volta per i più minuti incidenti domestici, e qualche altra volta esitando e tergiversando davanti alle decisioni più facili, più evidentemente necessarie. Oggi, si divertiva, come uno scolaro in vacanza, per un gran pranzo, per una noiosa serata a teatro, per una festa da ballo ufficiale; domani, stava taciturno e triste in una riunione di persone simpatiche, in una sala invasa dal contagio delle più pazze risate, in una festicciola organizzata da lui stesso. Ciò che una donna sopporta meno in un uomo col quale coabita senza amarlo d'amore, è l'indeterminato. Anche gli animali sono così. Un cane non si affeziona mai davvero a un padrone che lo sconcerta con gesti impreveduti. Un cavallo non resta mai tranquillo, se guidato da un cavaliere nervoso. I continui sbalzi d'umore di Gianmaria avevano impedito a Sabina di distinguere le qualità dell'anima di lui, ed ella si era assuefatta a non mostrargli mai nulla della propria anima. Vivevano così, insieme, non infelici, ma nemmeno felici... Quando, al principio del quarto anno di quell'unione senza la fusione dei cuori, aveva conosciuto Giorgio Saintenois, Sabina non aveva trovato in sé elemento alcuno che potesse aiutarla a reprimere l'impressione prodotta nell'animo suo da quell'uomo. La sua indifferenza per il marito fermava in lei lo slancio della maternità per il figlio nel quale lo riconosceva. Dopo il primo stordimento che la libertà le aveva data, e pur continuando a sostenere la sua parte di donna alla moda, ella aveva finito col sentirne la vanità. Non aveva mai avuto molta religione, - poiché reagiva anche in questo contro la seconda signora Lancelot, la cui devozione ostentata non era che un mezzo per insinuarsi in certi ambienti. In nome di che cosa avrebbe ella rinunciato a vivere la sua vita, come si diceva ancora in quegli anni? Infatti, oggi nessuno prende più sul serio quell'espressione, ridicola in realtà quando vuol significare il diritto al capriccio e alla ribellione pretenziosa. Non sarebbe entrata nel linguaggio comune, se non corrispondesse ad un disagio caratteristico delle società molto avanzate. Queste società proteggono la sicurezza degli individui e moltiplicano le facilità del loro benessere. Ma impongono loro, specialmente nelle classi oziose, un tipo di esistenza spesso tanto convenzionale, che le loro potenze più profonde rimangono non impiegate e che essi ne soffrono! Tale era il caso di Sabina. Quella donna, nata per l'amore e che non aveva mai amato, provava una ripugnanza istintiva per la galanteria. Aspettava la passione, e non lo sapeva. Si credeva frigida. I sensi dovevano destarsi, in lei, soltanto insieme col cuore, che non si era ancora interessato di nessuno dei gaudenti che l'attorniavano. Per sua disgrazia, aveva incontrato Saintenois proprio nel momento dell'esistenza loro in cui cercavano, lei un uomo come lui, e lui una donna come lei. Saintenois aveva allora trent'anni. La sua bruttezza tormentata era virile quanto era quasi effeminata la distinzione fine di Gianmaria. Quel figlio di uno dei nostri migliori generali, prematuramente tolto all'esercito e alla Francia, si era distinto a sua volta per le migliori virtù militari, prima in Mauritania, poi nell'Estremo Oriente, d'onde era tornato da poco, deciso a ripartire prestissimo per l'Africa. Soleva parlare dei suoi viaggi come il Centurione di Ernesto Psichari, facendo l'elogio dei lunghi “vagabondaggi nella solitudine” e di “quell'odore di deserto, di quella brezza vivificante che esaltano quel che c'è di migliore in noi”. Sembrava che la generazione di prima della guerra si preparasse al sacrificio supremo mediante quella iniziazione al pericolo, come se gli avvenimenti ancora futuri proiettassero su di essa un'ombra annunciatrice. Ma quel soldato era anch'egli un amante nato che non aveva ancora amato. Subito, i suoi discorsi contro la meschinità della vita avevano trovato un'eco in Sabina. Si era sentito ammirato da quella donna; aveva sentito ch'ella comprendeva la maschia poesia del suo destino di ufficiale. E poi... - o sconcertanti contraddizioni dell'amore! - Sabina aveva fatto di tutto per impedirgli di proseguire su quella strada, tenendolo presso di sé. Ed egli, dopo essersi innamorato di lei perché si associava tanto generosamente, col pensiero, al suo fervore per il mestiere delle armi, aveva rinunciato a questo mestiere per non lasciare l'amante. Sabina era divenuta infatti sua amante, senza difendersi, durante quel soggiorno a Deauville, dal quale era tornata incinta. Egli aveva domandato una lunga licenza, e poi aveva date le dimissioni. Erano passati cinque anni da allora, e continuavano ad amarsi profondamente, ardentemente, come nei primi giorni. Gli innumerevoli ricordi di quella lunga passione condivisa incendiavano il cuore di Sabina, nel fiacre che la portava verso quell'amante improvvisamente accusato, con una precisione tanto brutale, della colpa forse più degradante nell'ambiente in cui vivevano: di una truffa in una vicenda di giuoco! “E' possibile?” si domandava, fuori di sé. “E come ha potuto non dirmene nulla?” Che Giorgio Saintenois fosse un assiduo al baccarà del Circolo, ella lo sapeva da commenti più o meno malevoli, ai quali non aveva mai, dato importanza. Era ricchissima da parte di sua madre, aveva sposato un uomo pure molto ricco, e la questione finanziaria non le si era mai imposta, nella sua implacabile durezza, più che non si imponga a tutte le sue uguali, alle quali l'opulenza sembrava un'atmosfera naturale. Saintenois giuocava? Perché no? Gli piaceva fare ciò che fanno tanti dei suoi compagni di club! Ella non sapeva che il generale, - mal consigliato nei suoi impieghi di denaro, aveva lasciato al figlio un'eredità tutt'altro che cospicua. Il giovane, per poter resistere nell'ambiente elegantissimo in cui viveva la sua amante, non aveva tardato a spendere più delle sue rendite e ad intaccare il capitale. L'esempio del padre non gli aveva giovato. Aveva speculato in Borsa imprudentemente, e così si era completamente rovinato. Il baccarà gli era sembrato, come a tanti altri, un mezzo possibile per rimediare alle perdite subite. Infatti, alcuni banchi tenuti con ardire e favoriti dalla fortuna l'avevano rimesso a galla per un po' di tempo. Il resto s'indovina. Le vicende del giuoco, una vita dispendiosissima sostenuta a forza di paroli e di altre continue audacie, la sensazione del pericolo, che agiva su quel soldato in riposo tanto più fortemente in quanto che ingannava la sua nostalgia dell'avventura, rendendo nello stesso tempo ancor più febbrili le segrete gioie del suo amore, - ed infine il disastro... Oggi una perdita di diecimila franchi, domani un'altra di ventimila, poi un'altra di trentamila, poi tutto il fondo di riserva rischiato su un'ultima carta, e subito svanito... Allora, un colpo disperato, un'ultima posta ottenuta con frode mediante quello chèque senza deposito corrispondente... Cinquantamila franchi messi in banco alle undici... A mezzanotte, erano divenuti duecentomila. Al tocco, trecentomila... Alle due, più nulla! Il crollo totale!...E poi, il resto della notte passato dal giocatore sbancato a domandarsi come avrebbe trovato modo di fare onore alla propria firma, e la mattinata impiegata in tentativi inutili!... Era andato al Circolo ad implorare, da1 cassiere dei giuochi, che l'assegno fosse presentato alla Banca solo ventiquattr'ore dopo... Ma il cassiere l'aveva già presentato, aveva già parlato al presidente. Ad altri, anche?... Tutti questi particolari, Sabina li ignorava ancora. Ella sapeva l'ultimatum di Casal, sapeva ciò che essa significava per il suo disgraziato amante, e correva da lui senza ragionare, come avrebbe preso il treno se le avessero detto che egli fosse moribondo, in un'altra città, rischiando tutto, ma con l'idea di salvarlo, o almeno di soccorrerlo. Prima d'uscire, aveva introdotto nel manicotto il suo vezzo di perle di maggior valore. Ed ora le palpeggiava con la sensazione di avere con sé il necessario per trarre l'amante dall'abisso in cui era caduto, purché egli avesse accettato. Intanto pensava: “Sì, perché non mi ha parlato? Certo perché non pensassi che volesse chiedermi qualche cosa... Ma la mia offerta l'accetterà, se mi ama... E certamente mi ama..” Rivedeva ancora lo strano e triste delirio degli occhi del giovane, come l'aveva visto in quegli ultimi giorni. Si sentiva sulla bocca il doloroso ardore dei baci di lui... Tutto le si spiegava, ora, e la devastazione morale della passione in un cuore di donna colpevolmente innamorata è tale, che ella non pensava affatto a condannare l'atto disonorante commesso dal suo Giorgio. Sentiva ch'egli soffriva, e quanto!... E ciò bastava perché non trovasse in sé la forza di giudicarlo. La casa nella quale abitava Saintenois in via Fortuny, era uno di quei grandi edifici, quali le società di assicurazioni ne vanno costruendo incessantemente, a Parigi, dal principio della terza Repubblica, impersonali e privi di carattere. Il giovane occupava, a pianterreno, un appartamento che era stato di suo padre. La pigione modica, in una costruzione nuova, aveva tentato il generale, negli ultimi due anni della sua vita, quando era già quasi rovinato. Giorgio aveva ereditato quell'alloggio, e dopo aver date le dimissioni da ufficiale lo aveva tenuto. Aveva pensato di trovare una certa sicurezza, per il mistero della sua relazione, in quel quartiere poco frequentato, separato da grandi arterie dal quartiere di Sabina, e abitato da artisti arricchiti o da commercianti danarosi, estranei tutti all'ambiente in cui vivevano i Vialis. Una particolarità l'aveva deciso definitivamente: la porta di quel pianterreno s'apriva nell'androne, prima dello sgabuzzino del portinaio. I visitatori potevano esservi introdotti con molte probabilità di non esser notati. La brevità della via permetteva loro, inoltre, di veder bene se vi fosse qualcuno in osservazione, e di scomparire in fretta, uscendo, nelle profondità dell'Avenue Villiers. D'altronde, una certa mancanza di precauzioni non costituisce, talvolta, una precauzione? Gianmaria, quando aveva pensato di far pedinare sua moglie, come aveva detto alla madre, non aveva giudicata necessaria la sorveglianza dell'abitazione nota di Saintenois. Come non supporre che questi avesse un altro appartamento, uno di quegli anonimi asili nei quali i parigini e le parigine nascondono per solito i loro romanzi segreti? Era anche quella, d'altronde, una manifestazione dell'audacia innata dei due amanti. L'arditezza di quei convegni rispondeva in lui alla spavalderia che hanno comune tutti i temperamenti fatti per l'azione, e Sabina vi trovava una rivincita al ritegno che doveva imporsi in casa sua. Per solito, quando giungeva in via Fortuny, ella guardava a destra ed a sinistra. Quel giorno, ella licenziò la carrozza e non prese alcuna precauzione. Un solo pensiero le dava angoscia, mentre suonava il campanello: “Sarà in casa, Giorgio?...” Quando l'aspettava, egli soleva mandare fuori il suo domestico. Sabina udì avvicinarsi, dietro all'uscio, una persona di cui riconobbe il passo. “Giorgio è uscito!” pensò; e le batté forte il cuore, quando, apertosi l'uscio, le apparve la faccia un po' stupida del cameriere. Quell'uomo era stato ordinanza dell'ufficiale, che lo giudicava molto devoto e molto fidato. Egli conosceva la signora Vialis, per averla vista in qualche villeggiatura dove aveva accompagnato il suo padrone. Certe relazioni segretissime sono già perfettamente note ai servi quando tutta l'altra gente non ne sa ancora nulla... Infatti, quel giovanotto non sembrò affatto stupito, al vedere quella visitatrice, che l'interrogava con voce tremante. - Sì, signora, - le rispose; - il signor Saintenois è in casa, ma è molto occupato. Ha detto che non vuol ricevere nessuno. - Portategli questo, - disse Sabina. Aveva preso, nella sua borsetta, un biglietto da visita e una piccola matita, con la quale scrisse sul cartoncino, in inglese: I want to see you, immediately. Sottolineò quest'ultima parola, poi diede il biglietto al domestico, che obbedì. Dopo un minuto, egli ritornò, dicendo: - Il signore riceverà subito la signora. La prega di scusarlo, per un momento. È nel salotto, con una persona... Se la signora vuol venire nella sala da pranzo... E introdusse Sabina in quella stanza che le ricordava momenti felici d'intimità: quelli in cui un'assenza del marito le aveva reso possibile di far colazione o di prendere il tè, lì, sola col suo Giorgio, coniugalmente. Certe umili gioie del matrimonio sono profondamente desiderate e care, nell'adulterio, quando questo sia determinato da un sentimento vero. Quale lezione per i colpevoli, se sapessero comprenderla! L'innamorata aveva tanto goduto di quelle piccole feste d'amore! Ne guardava ora con viva commozione la scena, che contrastava stranamente con quei ricordi. Saintenois non aveva mutato nulla dell'arredamento di stile Impero che suo padre aveva ereditato a sua volta dal padre suo, ufficiale egli pure nella Grande Armata. Un ritratto di quel personaggio in divisa di gala della Guardia, opera di un buon allievo di David, era l'unico ornamento di quella sala austera. Sabina aveva sempre avuto simpatia per quel quadro, nel quale si notava una sorprendente somiglianza fra l'avo e il nipote. Si mise ad osservarlo, e rimase colpita da un'espressione di quel volto, alla quale non aveva mai badato. Era un volto fine, dalla mascella dura e stretta, dagli occhi pieni d'orgoglio e di sfida: occhi d'un civilizzato vicinissimo a ridiventare selvaggio. Mentre ella s'ipnotizzava davanti a quel dipinto rivelatore, fu improvvisamente scossa da un rumore di voci che s'udiva attraverso il pesante panneggiamento che nascondeva una porta. Vide che quella porta, la quale separava la sala da pranzo dal salotto, non era ben chiusa. Il domestico l'aveva soltanto spinta, nella sua fretta di ritornare con la risposta del padrone. Ella s'avvicinò all'interstizio rimasto, e udì una fine di discussione che la fece sussultare. - Suvvia, signor Altana... - diceva Saintenois, - arriverete almeno a venticinquemila... - No. Ventimila... - rispondeva il famoso antiquario, che Sabina conosceva per aver comprato da lui, come tutte le parigine del suo ceto, qualcuno di quei mobili antichi dei quali è tanto ghiotta l’epoca nostra, priva di uno stile proprio. - Vedete, - continuava quel negoziante, - che sono molto onesto!... Qualunque mio collega avrebbe agito diversamente. Voi non sapevate che i bronzi di questa sedia fossero di Thomyre. Ve l'ho detto io. E c'è solo questo mobile, che abbia un vero valore. Ventimila per tutto ciò che vendete è il prezzo giusto. - Sia pure. Accetto ventimila, ma in contanti. - Vi firmo l'assegno, qui, immediatamente, - disse Altana. - E i mobili, manderete a prenderli domani; è inteso. Vi ho già detto che partirò stasera. Eccovi il mio indirizzo a Londra, e quello del mio notaio a Parigi... A questo punto, una pausa. Il rumore di una poltrona spostata fece capire che i due uomini si erano seduti ad una tavola, uno dopo l'altro, per scrivere. Saintenois riprese: - Il mio domestico resterà qui per alcuni giorni, e vi faciliterà tutto. - Se ne va? - pensava Sabina. - Se ne va?... Senza salutarmi?... E fu presa da una pazza tentazione di spalancare la porta, di comparire bruscamente, e di gridargli: “Non hai diritto di lasciarmi!” Soltanto il timore di umiliare il suo amante davanti all'usuraio la fermò. E, chiudendo gli occhi come per raccogliere tutte le sue forze, disse fra sé: - Ah! lo salverò!... Frattanto, Altana si accomiatava dal suo cliente, che l'accompagnava alla porta. Un minuto dopo, Saintenois entrò nella sala da pranzo. La porta semiaperta non gli lasciò alcun dubbio. La sua conversazione con l'antiquario era stata udita. D'altronde, poiché aveva lasciata la sua amante due giorni prima, senza averle fissato un appuntamento, la presenza di lei, a quell'ora, gl'imponeva una ipotesi unica: che la sua storia cominciasse ad essere nota e che qualche buona amica avesse avvertito Sabina. Egli aveva sperato di poter partire senza rivederla, di confessarsi a lei per lettera, evitando così una scena penosa quanto inutile. Ora quella scena era inevitabile! Egli cominciò, pallidissimo, con la bocca amara; e l'espressione risoluta del suo volto accentuò la sua somiglianza col ritratto dell'avo, appeso alla parete, al disopra del suo capo. - Devono avervi parlato, Sabina, e so che cosa vi avranno detto... Che firmai un assegno per una grossa somma, senza avere alla banca il debito corrispondente... Che feci questo per aver modo di giuocare, che non vinsi, e che dovrò lasciare il Circolo... Siete venuta per sapere se è vero... Ebbene, sì: è vero! Per sola risposta, Sabina estrasse dal manicotto il suo vezzo di perle, e disse porgendoglielo: - Dunque, prendi questo... Va a vendere queste perle, e paga! Poi soggiunse, fremente: - Ma non partire! Non voglio che tu parta! Rimani a Parigi! Rimani con me! - Come mi ami! - esclamò Saintenois. E lasciandosi cadere su una seggiola, ripeté con voce soffocata dalla commozione: - Come mi ami! Poi, respingendo il vezzo di perle che ella continuava a tendergli, riprese: - È questa la ragione per cui non t'ho parlato, mia povera Mia! (Quell'espressione infantile era una delle loro carezze di linguaggio). Sapevo già che mi avresti offerto ciò che non posso accettare, ciò che non accetterò!... - E, ribellandosi, quasi altero, disse ancora: - È già troppa, è già troppa la mia vergogna! Sabina aveva rimesso il vezzo nel manicotto, passivamente, abbassando il capo. Si scosse, e s'avvicinò maggiormente a Giorgio: - È possibile, - implorò, - che tu preferisca andartene, lasciarmi?... - E, indicando la porta: - Ero lì... Ho udito la tua conversazione con Altana. Vendi tutto... Altana ti ha dato uno chèque. L'hai messo nel tuo portafoglio. Ora pagherai, e poi te ne andrai a Londra! Non puoi sopportare l'idea di un affronto possibile, delle dimissioni dal Circolo, di un saluto non reso, di una stretta di mano rifiutata?.. - Vorresti forse che mi adattassi a tutto questo? - E io?..Credi che accetterei di perderti?... No! no! no! Ella lo aveva afferrato per le spalle e lo scuoteva forte. Lo lasciò, per coprirsi il viso con le mani, e continuò singhiozzando: - Parli di vergogna? Ah! come hai potuto commettere quell'azione orribile, quel furto... tu che sei un eroe? Tu che per me eri tanto in alto, in tutto migliore degli altri?... E ho dovuto saperlo da mia suocera, la quale sa ch’io sono la tua amante! ... - E, ad un gesto di Saintenois: - Mia suocera non dirà nulla a Gianmaria. Me l'ha giurato!..Mi ha parlato per indurmi a lasciarti!..Ah! disgraziato!... Non pensasti a me, alla mia disperazione quando tutto fosse scoperto, nel firmare quell'assegno falso?... - Anche troppo, pensai a te! - gemette il giovane. - A me? A me?..- ripeté Sabina; e, col riso convulsivo del dolore che rasenta la crisi nervosa, continuò: - Tu mi ami; sì... ma più di me, ami il giuoco! Confessalo, almeno, e non mentire!... - Sabina! - disse Giorgio, solennemente e coll'accento di chi parla dal fondo del proprio essere: - ascoltami bene! Io giuocai soltanto per te... Non interrompermi! - (Ella protestava. ) - È venuto il momento di dirti ciò che ti nascosi sempre da quando cominciammo ad amarci... Io ritornai dall'Estremo Oriente dopo la morte di mio padre, per raccogliere i rimasugli d'una sostanza che quel pover'uomo aveva gestita malissimo. Non gli rimprovero nulla. Aveva speculato soltanto per aumentare la mia eredità. Si era rovinato. Mi aveva lasciato, tuttavia, quanto avrebbe potuto bastarmi, rimanendo in servizio, per essere più ricco di molti miei colleghi. Ti amai. Nacque Giulietta. Diedi le dimissioni per rimanere dove eri tu, dov'era la piccina, e per vivere come tu vivevi. Comprendimi, anima mia... Nemmeno a te, faccio dei rimproveri... Non rimpiango nulla. Ebbi da te cinque anni di una indicibile ebbrezza interna, e certo non posso lagnarmi, dopo aver gustato gioie tanto complete!... Per essere con te, nel tuo ambiente mi occorreva più denaro di quanto ne avevo... Pensai di lavorare, di entrare negli affari... Ma avrei dovuto impiegare diversamente una parte del tempo che dedicavo a te!... Ti ricordi? Ci vedevamo ogni giorno, spesso due volte, o anche tre. Come avrei potuto conciliare un'esistenza simile con un mestiere? Non era facile. Allora feci anch'io come mio padre. Il suo esempio avrebbe dovuto giovarmi... M'illusi di essere più abile, meglio informato... Speculai, da principio con fortuna. Poi la sorte cambiò. Al Circolo, per caso, avevo gettato qualche volta dei luigi sulla tavola di baccarà, e avevo vinto. Vedevo certi amici miei che riuscivano, a quel modo, a condurre una vita dispendiosa... Finii col dire a me stesso che quello era ancora il mezzo migliore per assicurarmi il denaro di cui avevo bisogno, e giuocai come loro, prudentemente... Ma poi, come accade sempre, mi lasciai trascinare. Volli correre dietro alle mie vincite e alle mie perdite... Negli ultimi quindici mesi, non ebbi mai di mio, nemmeno un giorno, più di trentamila franchi: la metà di ciò che spendo annualmente. Intaccavo quella somma, fissandomi una cifra. Un giorno perdevo; il giorno seguente mi rifacevo... Due settimane fa, a queste intermittenze successe la disdetta assoluta. Rimasi con diecimila franchi, poi con cinquemila, poi con duemila soltanto... , poi con nulla!... Allora decisi di tentare una partita suprema. Me presente, il vecchio Machault aveva vinto trecentomila franchi in due ore. Perché non sarebbe toccato anche a me un banco come il suo?... Fu come se avessi le vertigini!... Tu mi rimproveri di amare il giuoco... È vero; quelle sensazioni mi piacquero, ma solo come sensazioni... E nel firmare quell'assegno, nel riprendere il giuoco con quel denaro non mio, nel maneggiare le carte, provai ciò che avevo provato nell'andare al fuoco: la terribile gioia del pericolo! Intanto pensavo: “Per lei, per lei, per non perderla, mi espongo a questo rischio!” Il resto, lo sai già... Saprai anche, suppongo, che Gianmaria venne qui ieri mattina. Aveva saputa da Casal la mia disgrazia. Mi offrì di prestarmeli, i cinquantamila franchi del mio chèque. Naturalmente, non accettai... Ma che dura umiliazione, per me, vederlo qui e sapere che del mio atto gli era noto soltanto il lato materiale, e sentire che mi disprezzava, e non potermi difendere, né spiegargli, come a te, che trasgredii all'onore soltanto per amore!... Ti dico tutto, tutto!... E penso che è molto strano che io, col mio orrore per la menzogna, abbia potuto mentire a quell'uomo per tanti anni!... E non ne provo rimorso, perché fu per te, che mentii!... Quando lo vidi, tuo marito, tutto turbato egli pure, e venuto per soccorrermi nella mia angoscia, provai per la prima volta un po' di questo rimorso... Ah! Sabina! non domandarmi di rimanere a Parigi, e di continuare a subirvi quest'agonia!..Non posso, nemmeno per te!... Ti amo profondamente, in modo assoluto... Ma, ti ripeto, è già troppo grande la mia vergogna! - (E scuoteva il capo, come per una nausea. ) - Devo, Devo partire! - Per andar dove? - Agli Stati Uniti, semplicemente, come tanti miei amici, che ricominciarono la loro vita laggiù...Infatti, con dell'energia, si può ancora fare qualche cosa, in quei paesi. I ventimila franchi di Altana, non li adopererò per pagare lo chèque; li porterò con me. Si tratta di un capitale troppo piccolo, che non estinguerebbe il mio debito. Me ne servirò più utilmente. Prima, andrò a Londra: mio padre vi fu addetto militare, e vi lasciò degli amici, dai quali otterrò certamente delle lettere di presentazione per New York o per Boston. Forse, mi spingerò fino alle regioni dell'Ovest, per tentarvi l'allevamento dei cavalli. Potrei, poiché me ne intendo. Ma non ho avversione per il commercio, né per gli affari di banca. Prenderò quello che mi capiterà nel Nord, nel Sud, in qualunque luogo... E lavorerò. Oh! sì! lavorerò! Fra due, o tre, o quattro anni, avrò guadagnato abbastanza per poter pagare, con gl'interessi relativi, il debito che lascio qui. Quando sarò partito, la gente dirà quel che vorrà. Una cosa sola mi sta a cuore: ciò che penso, io, di Giorgio Saintenois! In questo momento, ho quasi schifo di me stesso. Ho perduto l'onore! Guarda il mio occhiello: non porto più il nastrino rosso che mi guadagnai al Tonchino. Lo riprenderò quando avrò pagato col frutto del mio lavoro. Allora sentirò di averlo ritrovato, l'onore... E anche tu penserai così, non è vero? - Ciò che penso, - disse Sabina, - è che io sola sono veramente colpevole. Sì, io, che t'ho condotto a questo momento terribile, io che non capii, che non vidi nulla! Ero troppo felice di vederti di continuo, di averti con me dappertutto! Avrei dovuto essere inquieta, per te, cercare di sapere se non ti trascinavo ad un'esistenza che non potevi sostenere. Ma al denaro, non pensai mai, né per me, né per te... Ah! se avessi saputo! Sarebbe stato tanto semplice darti invece il consiglio di “farti una posizione”! Avrei potuto procurartela io stessa, molto facilmente, per mezzo di mio padre... E allora ci saremmo amati lontano dalla vita di società. Avrei trovato modo di vederti nelle tue ore libere. Saresti stato il cantuccio segreto della mia vita, la mia felicità nascosta, il compenso per il resto..Ora, invece!... . E, gettandosi su di lui, abbracciandolo appassionatamente, riprese: - Ma non è ancora troppo tardi!... Hai ragione: devi partire. E io, partirò con te; sì, io, con nostra figlia! Non dirmi di no... - (E gli chiudeva la bocca. con un bacio. ) - Anch'io, ho l'orrore della menzogna, e ho mentito, finora, soltanto per te! Quante volte, già, ebbi la tentazione di gridartelo, ciò che ti grido adesso: Conducimi via con te!... Ma t'avrei preso tutta la tua vita, tutto il tuo avvenire, e non me ne riconobbi il diritto. Ti volli libero e fedele, ma libero di allontanarti da me, se avessi cessato di amarmi... Ora che stai per essere tanto solo, lontano dal tuo paese, dai tuoi amici, da tutto, non voglio più lasciarti! :... Dimmi che mi porti via con te!... Dimmelo! Dimmelo!... - E tuo figlio? - domandò Saintenois con tristezza, svincolandosi dalle braccia di lei. - Avrà suo padre e la sua nonna... E, scuotendo il capo, ella soggiunse, duro lo sguardo, amara la bocca: - Ah! se dovessi rimanere e perderti per causa sua!... Non farmi pensare ad una cosa simile!... Sarebbe mostruoso!... Credo che l'odierei, mio figlio! incalzò, con voce strozzata. - Mi rimprovero già di non amarlo abbastanza, di non avere per lui un vero cuore di madre, perché... Oh! che cosa mi fai dire, ancora?... Perché è figlio di un altro, non tuo, e perché io sono tua moglie capisci? - soltanto tua!... - Amore mio! Amore mio! - ripeté Saintenois. - Mi hai reso felice, in questi cinque anni! Te lo dicevo poco fa... Ma certo non fui mai tanto felice come in questo momento, mentre dovrei abbandonarmi alla disperazione! Egli la strinse, a sua volta, in un abbraccio frenetico. Poi, bruscamente l'allontanò da sé: - Ma non c'è soltanto tuo figlio, fra noi due! - riprese, nuovamente altero. C'è la tua ricchezza! Fu anche per questa, che non ti dissi mai di fuggire con me! Eri ricca, tu, ed io ero povero... E non avevo ancora questo debito da pagare... Pagarlo col tuo denaro? - (E indicò il vezzo di perle. ) - No! Mai!... Vivere del tuo denaro?... Mai! Quando si sono commesse certe colpe, non si patteggia più con la propria coscienza! Oppure, si ruzzola nel fango... nel fango!... Io non voglio saperne! Voglio lavarmi, voglio espiare... Condurti via con me, non è possibile! Non posso obbligarti a condividere la mia miseria, né posso d'altronde accettare nulla dalla tua ricchezza. Non c'è che una via d'uscita: separarci!..Perderti, è una cosa atroce... È il principio dell'espiazione! Mentre Giorgio parlava, il volto di Sabina aveva assunto un'espressione di selvaggia risolutezza. Ella si era seduta, e, slacciandosi il mantello, disse con un accento non meno fermo di quello del suo amante: - Non uscirò di qui. Ecco! Non mi manderai fuori per forza, suppongo! ... Mio marito, non vedendomi tornare a casa, mi cercherà. Penserà di venire qui da te... Allora, dovrai pure tenermi! E, supplichevole, ad un tratto, ella riprese giungendo le mani: - Giorgio mio! non lasciarmi!... Non essere orgoglioso. Non preoccuparti di ciò che dirà o penserà la gente. Tu vuoi, ora, pagare il tuo debito lavorando, e vivere del tuo lavoro. Così farai. Avrai un mestiere, ed io starò nella stessa città, dove vivrò per conto mio, come a Parigi, ma con la differenza che non sarò più obbligata a mentire... Poi, avvicinandosi a lui, buona e carezzevole, continuò: - Ah! Giorgio! Verrà, verrà pure, un giorno in cui, per la forza delle cose, io sarò libera! La mia fuga, con la bambina, darà origine ad un processo, necessariamente, e ne risulterà la separazione, ne risulterà il divorzio. Allora, ti sposerò. Il tuo debito, l'avrai già pagato col tuo lavoro. Avrai vissuto del tuo lavoro. Ci sposeremo, ti dico... Ti saresti forse giudicato spregevole, se fossi diventato marito di una donna più ricca di te, quando l'avessi incontrata, nel passato?..L'hai incontrata ora, e l'ami, ed ella ti ama. Prometti che la sposerai! Nel parlare, Sabina si era liberata completamente dal mantello, ed ora si toglieva il cappello, con l'automatismo delle crisi di esaltazione, nelle quali il pensiero diventa atto, senza che ce ne accorgiamo esattamente. Ella non formulava una vana minaccia. Saintenois lo comprese; comprese che quella donna non sarebbe ritornata a casa sua, se non avesse ottenuto la promessa che domandava. E egli era, d'altronde, tanto appassionatamente desideroso di fargliela, quella promessa!... Sabina gli aveva ormai preso tutto il cuore, con l'evidenza di una devozione totale, e compiangendolo, senza più biasimarlo, per la colpa terribile. Egli aveva tanto temuto di sentirsi condannare anche da lei! ... Invece, Sabina, gli prospettava quell'esilio in due, nel quale i loro interessi sarebbero stati divisi, e divise le loro esistenze, e così gli offriva il mezzo di risolvere la contraddizione che gli straziava l'anima: il bisogno di riabilitarsi e quello di non perdere lei!... Mezzo follemente romanzesco!… Ma tutta la sua vita, da quando aveva incontrata Sabina, non era forse stata un romanzo? Non era egli uscito una volta per sempre dalla via diritta e piana, domandando al giuoco tutto ciò che gli occorreva per sostenere una folle avventura d'amore, di paternità clandestina e di pericolo? Nello stesso tempo, e certo per la prima volta, perché il rimorso della sua tristissima colpa aveva destata in lui la coscienza, egli provava di fronte a quell'amante tanto sincera, tanto innamorata, tanto sua, un sentimento di responsabilità, e si ascoltava rispondere, accettando e rifiutando insieme la proposta di fuga: - Sposarti? Sì, è un bel sogno! E il giorno in cui sarai libera, come dicevi dinanzi, verrò io ad offrirti di realizzarlo. - Ah! grazie! - disse ella, baciandogli umilmente la mano. - Ma oggi, siamo nella realtà. La realtà è che devo partire oggi. La mia storia sta per esser nota a tutti. Tuo marito, tua suocera, la sanno già. Casal ha parlato; cosa naturalissima; e certamente ha parlato anche il cassiere del Circolo, com'è altrettanto naturale. Ti ripeto, che ormai non potrei adattarmi a certi incontri! Dunque parto, e non posso condurti via così. Certe risoluzioni, tali da sconvolgere tutto un destino, non si prendono mentre si è in preda ad una violenta emozione, quale è la nostra attualmente!... Un'ora fa, tu eri la signora Vialis, nel suo palazzo, coi suoi figlioli, con suo marito, rispettata nella migliore società... Adesso parli di sacrificare tutto questo. - Bel sacrificio! - disse Sabina alzando le spalle. - Sì, sarebbe un sacrificio! Non lo senti, in questo momento; ma domani? ma posdomani? ma fra un anno?... E, ad un nuovo cenno di protesta, Giorgio Saintenois continuò, con calma, con fermezza: - Tu dici che ti consideri come mia moglie?..Una moglie deve obbedienza al marito, ed ecco ciò che esigo da te... ciò che esigo, capisci?... Ora tornerai a casa tua, e aspetterai, per fare una prova su te stessa, prendendo tempo per riflettere... Non otto giorni, non quindici, non un mese possono troncare il legame che ci unisce e del quale oggi abbiamo sentito la forza... Io sarò a Londra domani mattina. Avrai il mio indirizzo. lo ti scriverò al nostro solito ufficio postale, alle solite iniziali... Ti scriverò anche dall’America... E poi, se mi raggiungerai, dopo aver considerato bene, ed a lungo, il destino che t'imporrai così, ti ripeto che lo vivremo, il tuo sogno... Se invece non mi raggiungerai, penserò che la madre, in te, avrà vinta l'amante, come ora ti sembra inammissibile, e non te ne serberò rancore. Ma adesso, dimostrami che mi capisci, e che mi ami come voglio essere amato, lasciandomi perché io possa avere la forza di fare ciò che devo fare! Ne ho bisogno, della mia forza, e non ne ho più, affatto! Sabina l'aveva ascoltato senza interromperlo più, guardandolo con una serietà appassionata. Egli la vide rimettersi il cappello, muta, rimettersi il mantello, e introdurre di nuovo nei manicotto il vezzo di perle rimasto sulla tavola. Poi Sabina afferrò ancora per le spalle l'amante, e ancora se lo strinse al seno, lungamente. Infine, senza una lagrima, ma pallidissima, andò verso la porta, si volse, e, fissandogli in viso uno sguardo profondo, disse: - Ti ricorderai?... Hai promesso! - Sì, - rispose Giorgio. - Va. Addio, amore mio!.... - No, non addio... - ella disse, - arrivederci, laggiù. X Verso la catastrofe. Saintenois, quando si ritrovò solo, meditò lungamente. Non aveva mai amato Sabina di un amore tanto violento. Un delirio di pentimenti gli faceva dire, a sé stesso, frasi di orribile tentazione: “Avrei dovuto accettare le perle. Perché no?... Avrei pagato, e a chi per primo m'avesse mancato di rispetto, i padrini!... Nella vita, non c'è di vero che l'amore!... ” Poi una voce protestava in lui: quella dell'uomo di una volta, addormentato per anni dall'ebbrezza della passione, e svegliato, dopo l'errore commesso, da un sussulto di disgusto davanti alla propria bassezza: “No! sono contento di aver rifiutato! No! non c'è soltanto l'amore... C'è l'onore. All'onore, ho trasgredito una volta... A questa vergogna, posso rimediare... All'altra, non avrei potuto”. E poi: “Le rivedrò mai, lei e la bambina?... Ella si ritroverà, ora, nella sua vita, nel suo ambiente... Le parleranno di me. Come? Lo so anche troppo!... Sarà la prova. Se mi amerà abbastanza per passare oltre... allora... ” Chiuse gli occhi per trattenere la visione che gli sorgeva nella mente: un porto lontano, un piroscafo che s'avvicinava, e lui, sulla banchina, che riconosceva dietro al parapetto le due creature tanto care... La voce interna continuava: “Allora... Ma bisognerà che quella risoluzione venga da lei sola. Non dovrò nemmeno scriverle più, se non una volta per dirle addio... Poi, silenzio, per lasciarla assolutamente libera”. E poiché alla pendola suonava il tocco: “Non ho tempo da perdere, se voglio partire stasera!” pensò. E, chiamato il domestico: “Comincia a preparare i bauli”, ordinò. “mentre finisco di mettere in ordine queste carte. ” Si sedette al suo scrittoio, dove l'aveva sorpreso la visita di Altana, per distruggere certe lettere e metterne da parte certe altre. In uno dei cassetti che andava vuotando frettolosamente, trovò una fotografia dimenticata, che lo rappresentava vestito da collegiale, con suo padre in divisa di colonnello. Guardò lungamente quel volto marziale, e, sfiorando con le labbra quell’effigie scolorita, disse ad alta voce, come se rispondesse ad una parola pronunciata da quella bocca venerata: “Sì, padre mio: mi riabiliterò!” Mentre quel discendente d'una famiglia di soldati manifestava così quella forza dell'eredità, della quale la madre di Gianmaria aveva tanto timore per il suo figliolo, da far risultare innocente agli occhi di lui - attraverso quali e quanti scrupoli! - la colpevole nuora, costei ritornava in via Villejust, senz'altro rimorso che quello d'aver lasciato solo il suo amante in momenti sì duri! Ella se ne giustifica va ripetendosi che lasciarlo ora significava obbedirgli, e veramente gli dava, con quell'obbedienza, una prova del suo amore, più commovente forse della sua offerta d'aiuto materiale. Tale sottomissione quasi automatica di un'anima ad un'altra, come se tutt'e due non avessero che una sola volontà - nelle minime come nelle grandissime cose, - è l'indizio più sicuro di quel possesso totale di cui il poeta antico diceva già la demenza, gemendo: Nunc insanus amor... Chi ama così, uomo o donna, non è più padrone di sé. Si tratta di una quasi abolizione delle sue idee, di un ipnotismo, di una fatalità, come pure dicevano gli Antichi. Sabina Vialis era uscita di casa sua, decisa, come si vide, ad evadere dalla sua vita coniugale, ad un cenno di un uomo disonorato ch'ella non avrebbe mai più ricevuto, dopo la brutta storia del Circolo, se non l'avesse amato. Ma l'amava, e l'avrebbe seguito nella sua fuga. Egli esigeva che ritornasse a casa sua, ed ella vi ritornava, camminando veramente come un'ipnotizzata, come un automa. Non era salita in una carrozza, per ritardare un poco il momento in cui avrebbe dovuto riprendere la catena della sua esistenza ufficiale. Due passanti che conosceva la salutarono. Rispose al loro saluto senza identificarli, tanto la sua anima era altrove, totalmente rimasta col povero Saintenois. Ella seguiva il giovane, con uno di quegli sforzi di doppia vista che ingannano la disperazione della separazione, durante i preparativi, e il suo appassionato desiderio di raggiungerlo presto si esaltava maggiormente. Riviveva tutti i particolari del doloroso addio. Rivedeva Giorgio nell'atto di respingere il vezzo di perle; l'udiva rifiutare la ricchezza che gli veniva offerta... E l'ammirava per quei due gesti, ed anche per l'altro, per quello disonorante, poiché egli l'aveva fatto per amore! ... Per amore, ugualmente, Giorgio Saintenois non permetteva ch'ella partisse subito con lui. Ed ella giungeva perfino ad essergli riconoscente di quel ritardo, che le avrebbe dato modo di provargli meglio la sincerità del suo cuore. “Quando arriverò con la bambina - pensava - Giorgio capirà che non si tratterà d'un colpo di testa, ma del dono di tutto il mio essere, ponderato, assoluto... ” Frattanto, fra quel tumulto di pensieri, i suoi piedi la conducevano, lungo l'Avenue Wagram, la Piazza dell'Etoile, il Viale del Bosco di Boulogne, fino a Via Villejust... Ecco il cancello della sua palazzina, la ghiaia del piccolo cortile da vanti alla scalinata, le sculture della facciata... Era arrivata. In una vita doppia, sistematicamente organizzata e prolungata, c'è una forza di dissociazione singolare, la quale finisce col creare nella stessa persona due individualità come divise una dall'altra da una porta chiusa ermeticamente. Bisogna credere che tale dualismo corrisponda, in certe anime, a bisogni profondi. Come si spiegherebbe, diversamente, la loro energia, la loro continuità nel trovarcisi bene, e il coraggio che esse vi manifestano? Talvolta, il principio di quell'adattamento è quello strano amore della menzogna, innato nei caratteri perversi. Talvolta invece, quello sdoppiamento è una difesa dei sentimenti veri del nostro cuore contro l'apparenza sociale a cui la nostra sorte ci costringe. Qualunque sia l'anomalia intima che c'induce a condurre così due esistenze contraddittorie, il passaggio dall'una all'altra è sempre come l'uscita da un sogno. Quante volte Sabina aveva subito la scossa d'un brusco risveglio nel lasciare Saintenois!... Mai, però, come quel giorno. “E' in casa, il signore?” domandò al portinaio, con voce quasi strozzata. - Gianmaria non era rientrato. Che sollievo! e con che passo subitamente più lesto, ella salì le scale!... Incontrò i suoi bambini nella galleria. Dopo la colazione, uscivano a passeggio con l'enigmatica Marcellina Tullugowy. La suocera, che sospettava di complicità quella governante basca, avrebbe indovinato infatti una completa consapevolezza del retroscena vero della famiglia, nello sguardo col quale quella donna seguì Sabina, che baciava con trasporto la sua cara Giulietta, e offriva appena la guancia al bacio di Renato. - Sono stati buoni? - domandò. - Buonissimi, signora, - rispose Marcellina, la cui testimonianza compiacente, destinata a proteggere la bimba preferita dalla padrona, fu subito smentita da Renato. - Giulietta ha macchiato tutto il suo libro! - disse il piccino. - Ci ha rovesciato sopra il calamaio! - E tu sei cattivo perché fai la spia!... - disse Sabina severamente. Aveva notato spesso che Renato nutriva una segreta ostilità contro Giulietta. Cosa naturalissima. Le disuguaglianze dei modi della madre, tanto affettuosa per il bambino, tanto fredda per la sua sorellina, in presenza del padre loro, e assolutamente l'opposto quando il padre non c'era, doveva produrre in Renato, emotivo come Gianmaria, un'irritazione che era anche accresciuta dalla diversità di sangue. L'animalità di quelle due creature era ad un tempo troppo uguale e troppo opposta, come avviene nei figli uterini e nei consanguinei. Questo, appunto, rende tanto pericolosi i secondi matrimoni, dal punto di vista dell'unità dello spirito di famiglia, e tanto funesto l'adulterio. L'antipatia manifestata con quella puerile denuncia s'accordava perfettamente col progetto formato dalla madre di separare i due bimbi conducendo seco la piccina. Alcune ore prima, ella ne avrebbe provato, come per solito, un oscuro rimorso. In quel momento, se ne sentì quasi lieta. Ma era già uscita dalla galleria. Ascoltava i suoi figlioli ridere dietro alla porta richiusa, e suonava il campanello per farsi servire, con una tazza di tè, una leggera colazione. Aveva appena finito di mangiare e si era seduta alla sua scrivania, per scrivete una lettera, quando suo marito entrò nel salottino. Cinque minuti prima, egli avrebbe sorpreso quel pasto, indizio troppo evidente dell'assenza di Sabina dalla tavola della colazione, e quindi della sua uscita dopo la visita della suocera. Certo, se ne sarebbe stupito e le avrebbe rivolte delle domande. Quell'interrogatorio era evitato. Il solo fatto d'esser stata esposta a subirlo, e di sentirlo, irritò la ribelle, che continuava a scrivere con la sua alta calligrafia ardita e robusta, mentre Gianmaria cominciava: - Ho lasciato or ora la mamma, Sabina... Mi ha detto di avervi parlato della terribile storia di Giorgio Saintenois. - Sì, - ella rispose, - ma è proprio vero? - E, fra sé, pensando alla suocera: Ha mantenuto la promessa. Ho un debito verso di lei... Ora lo pagherò! La sua voce non aveva rivelato alcuna commozione. Tutt'al più, esaminando da vicino la scrittura del biglietto che stava per mandare ad un fornitore, si sarebbe notata la nervosità della mano che aveva scritto. - Mia madre aveva ragione... - pensava Gianmaria dal canto suo. - La calma di Sabina a questa notizia, è una prova, che sollievo, mio Dio! Che sollievo!... La gioia di sentir svanire improvvisamente un'ossessione durata tanti giorni, l'inteneriva circa la sorte di colui che ne era stato oggetto, per uno di quei rimbalzi che sono frequenti nella gelosia, specie di mania intermittente. - ed egli diceva ora, senza alcun sospetto della sinistra ironia delle sue parole: - Sapete che lo vidi?... Gli offrii, anzi, i cinquantamila franchi che gli occorrevano per pagare il suo debito... Rifiutò, evidentemente per orgoglio... oppure aveva davvero già trovata altrove quella somma. Ma no; non deve averla trovata... Questa mattina, non aveva ancora pagato, alla cassa del Circolo. L'ho saputo da Casal... Se tornassi ad offrirgli quel denaro? Che ne dici? Forse questa volta... - Ma se vi disse di aver già trovati i cinquantamila franchi, - rispose Sabina chiudendo le sua lettera, - certo li aspetta da qualche usuraio che si fa un po' piegare... Ecco. Lasciate ch'egli aggiusti gli affari suoi a modo suo. Dovete capire che l'avete umiliato... Non è il caso di tornar da capo. - (Aveva scritto l'indirizzo sulla busta, e si era alzata. ) - Avete visto se la carrozza è pronta? L'ho ordinata per il tocco e mezzo. - (E, ad una risposta affermativa): - Vado dalla parte dei Boulevards. Volete che vi deponga in qualche luogo?... - Al Circolo, se non vi dispiace. Così saprò se Saintenois ha pagato, finalmente... Come vorrei che avesse pagato!... Casal mi ha promesso il silenzio... E pochi minuti dopo, quando furono seduti nella carrozza e questa si mise in moto, egli disse: - Confessate che è preferibile un buon motore!... Si sarebbe già arrivati in Via Reale. Coi cavalli, invece... In quegli anni di transizione, l'automobilismo era ancora agl'inizi. Nelle famiglie ricche, l'automobile era argomento di eterne discussioni. Si doveva o non si doveva decidere di trasformare la scuderia in un garage e il cocchiere in uno chauffeur? Si sarebbe venduto l'attacco inglese, che era tanto elegante? Saintenois, uscito dalla Scuola di Saumur, professava il culto del cavallo. Sabina naturalmente pensava come lui. Gianmaria, nella sua qualità d'intellettuale, aveva delle velleità di curiosità scientifica. Era stato un assiduo dell'ultima esposizione delle macchine, e si era fatto spiegare minuziosamente il nuovo mezzo di locomozione, del quale si atteggiava a partigiano tanto più volentieri in quanto che era assai mediocre nell'equitazione e nel guidare. - Ebbene, comprate un'automobile! - rispose Sabina. - Rinunziereste ai vostri cavalli?.. - Perché no? Era la prima volta che ella non rispondeva evasivamente alle insinuazioni del marito su quel mutamento di veicolo. Decisa a partire, perché avrebbe sostenuto, ormai, una delle solite discussioni meschine e noiose?..Era quella, da parte sua, una concessione insignificante, che però riuscì assai grata a Gianmaria, tormentato in quei giorni da un'impressionabilità quasi morbosa. Obbedendo ad un impulso di riconoscenza, che avrebbe dovuto commuovere Sabina e che invece l'irritò, le prese la mano e gliela baciò lungamente. Ella si liberò, dicendo: - Oh! Non siamo in automobile... L'automobile va veloce, e si passa inosservati. Siamo nella nostra carrozza e ai Campi Elisi, dove c'è tanta gente che ci conosce! Non siate ridicolo, e non rendete ridicola anche me! Erano infatti passati, proprio allora, accanto alla carrozza di una loro amica, che li aveva salutati, nel passare, con un sorriso e con un grazioso cenno del capo. - Che c'è di ridicolo, se un marito è innamorato della propria moglie? - disse Gianmaria con accento di affettuoso rimprovero? A quell'umile domanda, Sabina non rispose. Come il figlio aveva confessato alla madre, l'intimità non esisteva più, fra sua moglie e lui, già da anni. Era rarissimo che egli si permettesse con lei una mezza carezza, ch'ella avrebbe potuto interpretare come una timida manifestazione d'un desiderio. Quella pressione della mano del marito sulla sua mano, poi quel bacio sul polso, fra la manica e il guanto, inflissero un brivido di ripulsione a tutta la sua carne. Allora ella si mise a parlare con volubilità delle visite che si proponeva di fare e dei negozi nei quali sarebbe entrata. Ma quando si separarono davanti al Circolo, all'angolo di via Reale, Gianmaria ebbe ancora uno sguardo di quelli che da molto tempo sua moglie non gli vedeva passare negli occhi... Ed ora, andandosene sola verso la Maddalena, ella pensava : - Effetto dei consigli di sua madre! Crede d'essere vicino a riprendermi. Ora capisco... Il vero amore, l'avevate accanto a voi... Ritornate ai vostri doveri... Capisco che cosa voleva dire, sua madre... Ed ebbe una risatina di sfida, nel concludere: - Se mio marito ha di queste idee, partirò prima. Ecco! La carrozza attraversava la piazza, mentre ella diceva a mezza voce quelle parole di ribellione. Attraverso il vetro dello sportello, vedeva aprirsi lì accanto l'ampio Boulevard Malesherbes, che continuava lontano verso Via Fortuny. “Giorgio! Povero Giorgio mio” ripeté a sé stessa, presa da una pazza tentazione di saltare giù da quella carrozza, che le dava l'impressione d'una prigione ambulante, di correre a piedi per quel boulevard, di arrivare laggiù, dall'amante, di gettarglisi fra le braccia come poco prima! Portami via! Portami via!... ” Ma no. Egli aveva ordinato... Gli obbediva. Il caso volle che, dieci minuti dopo, mentre i suoi cavalli dovevano, per un ingombro, procedere pianissimo, ella fosse salutata di nuovo, e questa volta da un signore il quale non era altri che Casal. Ebbe negli occhi un lampo di odio, sul significato del quale il denunciatore di Sabina non s'ingannò. - Suo marito le ha parlato, - pensò. - Il Circolo sarà rimborsato. Sapremo che costei avrà smarriti i suoi brillanti o le sue perle... E sarà tanto carina verso il marito, che questi, per consolarla, le regalerà un vezzo più bello! Questa induzione era esatta, come sappiamo, soltanto per metà. Casal non aveva sbagliato, nell'indovinare che Sabina Vialis, avvertita, avrebbe voluto pagare immediatamente il debito del suo amante. Ma egli giudicava male quest'ultimo, supponendo che avrebbe accettata quell'offerta. Quello stolto aveva potuto, in un accesso d'aberrazione, commettere un atto indegno. Ma quell'atto non gli somigliava, e Casal non sapeva che questa fosse la verità. L'esperienza dei vecchi conoscitori di Parigi spesso non s'accorge di certe cose. Essi videro tollerate dalla gente tante indegnità, nascoste sotto apparenze ingannatrici, che la loro opinione ne rimane ristretta. Sembra paradossale chiamare ingenuo il loro pessimismo, eppure, sono veramente degli ingenui della disillusione, poiché non vedono la complessità delle situazioni che sembrano più chiare e dei caratteri apparentemente classificabili con precisione. Per Casal, Giorgio Saintenois era un gaudente (come egli ne aveva conosciuti molti, per aver molto vissuto), che si sosteneva a forza di espedienti; - uno di quelli che, ruzzolando da una debolezza ad un'altra, finiscono coll'avere, dell'onore, soltanto gli atteggiamenti, e coll'agire da veri lestofanti. Quanto a Sabina Vialis, per quali indizi l'avrebbe egli distinta dalle altre parigine dello stesso “ambiente” che coltivano una relazione illecita? Il ricordo delle proprie avventure, che erano state innumerevoli, gli rievocava nella mente soltanto delle innamorate molto tranquillamente assuefatte ad appartenere nello stesso tempo all'amante e al marito. Egli stesso ammetteva, quasi con ingenuità, che una tal divisione delle loro sensazioni non impedisse loro di essere delle innamorate. L'attrazione esercitata da Saintenois su Sabina, da Sabina su Saintenois, proveniva precisamente dal fatto che né l'uno né l'altra assomigliavano, nel loro essere intimo, a quei parigini e a quelle parigine. Tutti e due appartenevano alla specie rarissima - che però esiste - del frequentatori di salotti la cui anima è rimasta insocievole. La finzione mondana è insomma per loro una gesticolazione alla quale si prestano senza darsi. Poi, nelle ore di crisi, e quando è in giuoco la loro persona vera, essi reagiscono al contrario dei loro simili dei clubs e dei ritrovi eleganti. Così Saintenois, confesso d'improbità, si amputava ad un tratto tutto il suo passato, per strapparsi a quella cancrena. Sabina, ritornata da Deauville incinta di Giulietta, aveva voluto ridarsi a suo marito. Così aveva fatto, e aveva provato un tale orrore di quella prostituzione legale, da dover subito sottrarsi ad essa con selvaggia energia, per non appartenere più che all'amante - attraverso quali e quanti rischi! - ben decisa a troncare ogni legame, se fosse rimasta incinta un'altra volta. Quella segreta tragedia d'un cuore di donna, Casal non la sospettava neppure, come non indovinava il dramma di orgoglio virile nel quale si dibatteva Saintenois. E, come avviene quando la nostra opinione su di un carattere non è che una costruzione, quell'osservatore per solito sì bene informato e tanto furbo doveva, quella sera stessa, essendosi incontrato in società con Vialis, dare a sé stesso delle nuove ragioni per rafforzarsi maggiormente nel suo errore. Fu ad un pranzo in casa della “sempre bella” signora di Miossens - secondo la formula adottata dalle gazzette per gli articoletti sui ricevimenti della contessa Cléme, come la chiamavano i famigliari. Con le sue relazioni molteplici e notorie, per la sua disinvoltura e la sua leggerezza, per il suo egoismo e la sua aridità di cuore, Clementina di Miossens era il vero tipo dell'eroina delle avventure mondane quali le concepiva Casal. Se non avesse avuto prevenzioni, egli si sarebbe accorto, forse, della differenza che esisteva fra Sabina e quella bambola elegante. A quel pranzo, vedendole sedute abbastanza vicine l'una all'altra, vestite quasi allo stesso modo, di fronte ai loro mariti, come avrebbe potuto non vederle molto simili? Una analogia di circostanze l'induceva inoltre a disprezzarle tutt'e due ugualmente. L'ultimo amante della “sempre bella” si era ammogliato tre settimane prima, e sembrava che ella non pensasse a lui più di quanto Sabina mostrava di pensare a Saintenois. La parete della sala da pranzo era ornata, dietro a loro, da un arazzo di Lancret. Le pastorelle e i pastori di quel pittore di feste d'altri tempi evocavano la galanteria del secolo XVIII, intorno a quella tavola con sedici commensali, tutta adorna di fiori, d'argenteria, di cristalli, di vasellame prezioso. Casal, che conosceva tutte le storie di quelle donne imbrillantate e degli uomini in frac che le corteggiavano, si divertiva a rammentarsele, col piacere singolare del misantropo mondano. Non si parlava, quella sera, che del matrimonio di uno dei Sarliève, amico comune, appunto, di Saintenois e di Vialis... Rovinato dal giuoco e dalle donne, quel messere sposava la celebre signora Moraines, ora cinquantenne e divenuta parecchie volte milionaria per l'eredità del barone Desforges, che si diceva l'avesse mantenuta per anni, vivente ancora il più cieco dei mariti. È una bella fine, per Francesco Vittorio! - diceva uno degl'invitati, senza malignità. - Saremo finalmente invitati a delle vere feste! - diceva un altro. - Francesco Vittorio ama il bello. - Ed ha molto buon gusto!... affermava un altro. - E poi, - riprese una signora, - Susanna Moraines dà ricevimenti!... E come sa vestirsi!... - Divinamente! - disse Clementina di Miossens, - e trova modo di essere ancora graziosissima! - Ma che età può avere? domandò qualcuno. Questa domanda, fatta per storditaggine o con cattiveria, - non si sa mai, interruppe la conversazione, che durava da un quarto d'ora senza che nessuno avesse minimamente alluso all'origine vergognosa dei milioni della fidanzata e all'ignominioso calcolo del fidanzato. Casal aveva taciuto perché aveva orrore di somigliare ai filosofi della famosa Orgia Romana di Couture. Era uno di quegli ironisti disillusi che non s'irritano mai e si stupiscono di rado. Rimase sorpreso, nondimeno, all’udire Sabina Vialis, poco lontana da lui; rispondere ad alta voce alla domanda sull'età della signora Moraines. - Che età?... Vent'anni più di quanti ne ha Francesco Vittorio, e altrettanti milioni! Poi, con una brutalità che fece tacere tutti per un momento, Sabina soggiunse: - La cosa è semplicemente ripugnante! - E il vostro bel damo, virtuosa signora? - pensò Casal. - Costei si crede molto abile, fingendo d'indignarsi solo perché si parla di un uomo che riceve denaro da una donna!... Non immaginava, Casal, che l'amante di Giorgio Saintenois s'indignava realmente e in buona fede, constatando la compiacenza con la quale tutti quei farisei della buona società accoglievano la notizia di un matrimonio abominevole. Ella contrapponeva la loro indulgenza alla severità che essi avrebbero manifestata domani, quando fosse divenuto notorio il fallo commesso dal suo Giorgio, tanto scusabile, secondo lei, data la sincerità dell'amore che aveva condotto a commetterlo. Giorgio si riabilitava già, con la sua volontà di una nuova vita che sarebbe dura, ma ch'egli preferiva a questa nuova concessione di coscienza: accettare che la sua amante pagasse il suo debito. Egli era nobile e fiero, quanto Francesco Vittorio era infame ed abbietto! - E costoro andranno tutti a pranzo da lui! - aveva anche pensato, nell'ascoltare le conversazioni dei commensali - mendicheranno degl'inviti alle feste ch'egli darà, mentre invece il mio povero Giorgio... Udiva già le frasi di disprezzo che avrebbero avuto per lui la signora di Miossens e gli altri, non esclusi, certamente, Sarliève e Susanna di Moraines, e la parola che andava ripetendo fra sé, le era sfuggita: “Ripugnante”! Una sola persona, fra i presenti, aveva sentito che Sabina aveva espresso con sincerità il suo pensiero. Suo marito. Ah! se egli avesse indovinata la verità sul sentimento che le ispirava quel grido contro la bassezza e l'ipocrisia della società nella quale vivevano! Ma in quella rinascita di fiducia che lo infiammava di gioia dopo, la lunga crisi di gelosia, poteva egli immaginare ciò che si celava sotto quella ribellione? Essa non era che un sussulto d'amore. Egli la considerò come uno scatto di lealtà, e ne fu commosso profondamente... Lo disse a Sabina, quando furono di nuovo soli nella carrozza che li riportava in via Villejust: - Come sono stato orgoglioso di voi, a tavola! Rimproveravo a me stesso di non protestare contro il matrimonio di Sarliève con la Moraines. Si è indignati, disgustati... Poi si pensa: A che serve? E tacendo, si diventa complici della viltà generale... Ah! le donne sono veramente più coraggiose degli uomini! Parlando, le aveva presa la mano, come aveva già fatto nel pomeriggio. E di nuovo avvicinò alle proprie labbra quelle dita frementi, per baciarle, e chiamandola con un nome affettuoso che non le da va più da molto tempo, sospirò: - Mia piccola Saba, ora è buio... Non pretenderai che qualcuno possa vederci e giudicarci ridicoli!... L'attirava a sé, rammentandole con quell'allusione, fatta in tono di dolce rimprovero, la risposta dura avuta da lei nel pomeriggio. Mentre col braccio tentava di cingerle il busto, la sentì inarcarsi e sottrarsi alla sua stretta, dalla quale si rassegnò a desistere. Ma il gesto di lei, le parole e lo sguardo che l'avevano sottolineato, avevano avuto un significato anche troppo chiaro... - No!... No!... - si ripeteva Sabina, poco dopo, mentre la cameriera l'aiutava a svestirsi. E appena la ragazza fu uscita, corse a chiudere a chiave le due porte della camera; poi, alzando ripetutamente le spalle delicate, soggiunse, con profonda avversione: - Non vede niente! Non capisce niente! ... Venga, ora!... forse capirà! Non era passato un quarto d'ora, quando una lieve pressione e un colpetto alla porta l'avvertirono infatti che suo marito voleva essere ricevuto. Raggomitolata nel letto, dopo aver spente tutte le luci, Sabina non rispose. Un altro colpetto... Un altro ancora... Ella continua va a rimanere muta. Nel gran silenzio del palazzo addormentato, udì un rumore di passi che si allontanava... Per quella sera, era salva! Ma che cosa sarebbe avvenuto il giorno seguente? E, prevedendo una lotta, il pensiero della quale bastava a farle sentire quanto profondamente appartenesse all'altro, disse di nuovo: - Me ne andrò più presto!... Ecco. Che notte, passò, dormendo solo a intervalli e per pochi minuti, subito destata dalla incessante, ossessionante visione di Giorgio Saintenois in viaggio per l'esilio!... Le sembrava di udire l'ansare della locomotiva che lo trascinava verso Calais, e poi il rumore del mare, e i colpi pesanti delle ondate contro i fianchi del piroscafo. Giorgio scendeva sulla banchina di Dover. Un altro treno l'aspettava. Un'alba sinistra illuminava vagamente la campagna bagnata di pioggia... Poi, Londra, fumosa e triste. Giorgio entrava in una banale camera d'albergo, nello stesso momento in cui ella si alzava, in mezzo al lusso della sua casa, in quel mattino, un po' freddo ma luminoso, di un autunno francese! Per ingannare la nostalgia, ella si sforzava d'occuparsi automaticamente dei figlioli e della casa, come ogni giorno; ma la sua anima era assente. - Partì ieri sera alle otto, - pensava. - Ebbe tempo per scrivermi... Ma ci avrà pensato?... Se ci pensò, certo imbucò la lettera prima di salire in treno. L'avrò questa mattina... La prospettiva di aver fra le mani quella prova palpabile della passione del suo amante l'indusse a sbrigarsi col cuoco e col maggiordomo, a rimandare in fretta dalla loro governante Renato e Giulietta, e a vestirsi rapidamente... Si era già messo il cappello, quando vennero ad annunciarle che era venuta sua suocera, la quale domandava di lei. - È mandata da mio marito! - pensò. - Così presto!... Marito e moglie non si erano visti, in quelle prime ore della mattinata, ma Sabina non se ne era stupita. Avveniva spessissimo che si vedessero soltanto alla seconda colazione. Il figlio del suicida, sempre inquieto, ansioso e timido, soleva fuggire davanti alle spiegazioni che s'imponevano, secondo una particolarità di carattere che hanno comune tutti gli esseri sensibili come lui. Bastava ch'egli avesse scambiato con sua moglie, il giorno prima, qualche parola un po' acre, o attraversasse per causa di lei una crisi d'angoscia, perché provasse un'invincibile apprensione al pensiero di rivederla. Questo caso si era ripetuto, per lui, dopo il suo timido e goffo tentativo di riavvicinamento, e dopo aver subita l'umiliazione della porta chiusa. Aveva pensato di andare a piangere da sua madre, ma questa l'aveva prevenuto. Era corsa a trovarlo, appena alzata, dopo aver dormito pochissimo ella pure, preoccupata fino all'angoscia per le sue due mosse del giorno antecedente: il colloquio con la nuora, e poi l'affettuosa e dolorosa menzogna a Gianmaria. L'aveva trovato triste, di una tristezza abbattuta, scoraggiata, quasi più inquietante, per lei (dati i timori di cui subiva l'ossessione), che non le violenze della confessione di ieri. Nel suo furore di gelosia, Gianmaria aveva almeno manifestato una certa vitalità... Ora, invece, ella lo vedeva prostrato, accasciato... Quanti sforzi, per strappargli la narrazione di ciò che era avvenuto nel pomeriggio, nella serata e più tardi!... E, ancora l'eterno lamento, ripetuto indefinitamente: “Sabina non mi ama! Non mi amerà mai!” Dopo quella visita, appunto, e tutta turbata dallo spettacolo di quella depressione, la suocera aveva deciso di andar subito a parlare alla nuora, senza che Gianmaria lo sapesse. La sua fisionomia, quando il domestico l'introdusse presso Sabina, rivelava una preoccupazione vivissima. Sabina fu immediatamente pronta a difendersi: - Siete venuta ancora a farmi dei rimproveri? - disse arditamente. - Sì, Sabina. Ho parlato poco fa con Gianmaria, e... , - Ed egli vi ha mandata da me un'altra volta... - interruppe la nuora. - No. Mi avrebbe supplicata di non dirvi nulla, se avesse pensato che vi avrei vista, dopo averlo lasciato. Non vengo da voi a nome suo, Sabina... Vi parlo come sua madre, rammentandovi ciò che feci per voi... Vi sono dei sacrifici, ve lo dissi già ieri, che danno dei diritti, a chi li compie, su chi li riceve. Sapere che tradite mio figlio, e tacere, e nascondere questo tradimento, è o non è un sacrificio? Rispondete. - Ma io non ve l'ho chiesto, signora! Non più “mamma”: “signora”. Questo mutamento, l'accento della voce nel dare quell'insolente risposta, lo sguardo che sottolineò le parole, tutto dimostrava che Sabina voleva resistere risolutamente. Ella non sapeva da quale terribile ricordo fosse ossessionata la vedova del suicida, il cui contegno, perciò, non le risultava interamente spiegato. Lì per lì, quando la suocera le aveva strappata la confessione, ella non aveva pensato ai motivi di quella promessa di silenzio, spontanea quanto strana. Aveva saputo allora il disonore di Saintenois, e aveva pensato unicamente al pericolo a cui il suo amante era esposto. La suocera non la denunciava. Perché? Questo non le importava... - Ma ora si ribellava istintivamente all'idea che quella donna si valesse del proprio silenzio per imporle condizioni. - Squadrava dunque la sua nemica con un sorriso di sfida, domandandosi chi fosse: - Una madre spinta fino all'aberrazione dal suo amore per il figlio, e che, sapendolo appassionatamente innamorato di sua moglie, voleva ad ogni costo asservirgliela, questa moglie?... Oppure, una borghese - a cui faceva paura lo scandalo, e che voleva servirsi del segreto della nuora per obbligarla a ritornare sulla retta via? Anche questo, che importava? L'innamorata sentiva crescere in sé la volontà di liberazione che le aveva fatto dire a sé stessa, due volte, prima nel pomeriggio e poi nella notte mentre Gianmaria bussava alla sua porta: “Me ne andrò più presto! Ecco!” E, pronta alla battaglia, rimase sconcertata all'udire sua suocera, che le rispondeva con voce subitamente mutata: - Signora? Mi chiamate signora? E con che tono!... Ah! come mi comprendete poco, Sabina, se supponete ch'io sia venuta per minacciarvi!.... Quella donna nobilissima s'interruppe. Durante le sue meditazioni della notte, ella aveva immaginati i sentimenti della nuora secondo quelli che avrebbe provati, lei, se per disgrazia avesse dovuto attraversare una crisi analoga. L'aveva immaginata riconoscente per il silenzio della suocera, che le avrebbe permesso di riparare al passato, e aveva supposto che di quel passato si vergognasse. I particolari ch'ella aveva saputi da suo figlio le avevano fatto pensare che si trattasse di un equivoco, naturalissimo poiché Gianmaria ignorava di qual dolore soffrisse sua moglie... Ora, rimaneva stupita davanti a quel volto ostile e chiuso. Aveva creduto, rievocando la propria immolazione, di svegliare un'eco in quella coscienza, e invece non trovava davanti a sé che una collera orgogliosa. Ma aveva visto infelicissimo il suo figliolo, e doveva ad ogni costo cercare di agire, per evitare almeno una rottura. - Che cosa temete da me? - riprese. - Che io non mantenga la, mia promessa di ieri . ?... È vero: non me la chiedeste... Non la feci a voi, quella promessa, ma a me stessa; ne convengo. Soltanto... - Esitò di nuovo, poi, supplichevole e ad un tempo autoritaria, soggiunse: - Avere avuto una passione, e aver commesso una colpa, non vuol dire aver perso il senso dell'onore... Mio figlio, poco fa, m'ha ripetuto una frase vostra sul matrimonio di Francesco Vittorio Sarliève, la quale dimostra che l'avete, questo senso dell'onore... Non vi parlo più di me, e accetto che stimiate di non dovermi nulla. Soltanto, vi prego di scendere in fondo alla vostra coscienza e di rispondere a questa domanda: quando una donna ha dato a suo marito una creatura che non è di lui, ha o non ha, verso di lui, un debito? - Infatti, sì... - rispose Sabina. - Ed io sono pronta a dire a Gianmaria che la mia Giulietta non è sua figlia, e sono pronta, anche, ad andarmene con lei! - Ah! non farete questo!... - supplicò la madre, con un grido. - Se non volete, cercate di non spingermi, né voi né lui, ad agire così! - disse Sabina. Ed uscì, bruscamente. XI Verso la catastrofe (seguito). Maria Vialis non l'avrebbe saputo dire da quanto tempo sua nuora fosse uscita da quella camera, quando suo figlio vi entrò. La terribile frase: “...e ad andarmene con lei”, echeggiava in tutto il suo essere, come nel passato il suono di campana del funerale di suo marito, ed ella rimaneva immobile in una poltrona, fissando il tappeto con occhi da allucinata. Era un piccolo tappeto di Smirne, quasi dello stesso disegno di quello che ornava il pavimento dello studio di Via San Domenico. L'identità dell'origine spiegava quella somiglianza, ma la povera madre era in uno di quei momenti nei quali i più semplici casi assumono un carattere di avvertimento. Avrebbe potuto sopportare, Gianmaria, il terribile colpo che l'avrebbe scosso se Sabina avesse realizzata la sua minaccia, rivelando al marito la verità sulla nascita di Giulietta e allontanandosi dalla casa di lui? Sembrò alla madre, ad un tratto, di vedere il suo figliolo steso a terra, col capo forato da un proiettile!... Il suo figliolo, suicida come già il padre!... E fu per lei una violenta sorpresa il vederselo accanto, ritto, e l'udire la sua voce: - Ho visto uscire Sabina, e il domestico m'ha detto che tu eri qui. Ho capito che devi averle parlato, ed ho avuto paura. - Di che cosa, figlio mio? - disse la vedova, ritrovando la forza di sorridere. - Ma... della vostra conversazione! ... Quando Sabina ha attraversato il salotto, poco fa, ho riconosciuto il rumore dei suoi passi. Ho aperto subito la porta della mia camera. Lei non se n'è accorta; non m'ha visto. Meglio così. Sembra va tanto irritata!... Eppure, mamma, t'avevo raccomandato di risparmiarla! - Abbiamo parlato appena... Sabina aveva fretta... Doveva uscire. - E dunque perché, mamma, rimanevi qui sola e tanto triste?..Non dirmi che non eri triste! ... - Ma sì, caro... Per, questa situazione! Infatti, mentre scambiavamo poche parole, come t'ho detto, ho sentito che Sabina era nervosissima. Ne ho concluso che tu non sai dimostrarle bene il tuo affetto. Dovresti essere molto buono, molto tenero, con lei, e molto paziente… soprattutto quando nella vita coniugale si è giunti ad una specie di divorzio come il vostro, anche la semplice espressione del desiderio di una ripresa d'intimità dev'essere prudentissima, delicatissima... Una vecchia madre può parlare a suo figlio di simili cose, di cui nessun estraneo potrebbe parlargli... Una donna ha delle suscettibilità, dei pudori, che voialtri uomini non comprendete, qualche volta... - Seguirò il tuo consiglio, mamma, - disse Gianmaria. - Purtroppo, mi dimostra che ho ragione, e che tu sai che ho ragione: Sabina non mi ama... Ma è già una tale felicità, per me, che ella non ami un altro, e che tu abbia trovato la somiglianza di Giulietta nel ritratto della tua vecchia zia!... Era stata una delle astuzie della madre, che il giorno antecedente aveva mostrato a Gianmaria uno di quei dagherrotipi, come se ne facevano agli inizi della fotografia, e sui quali il tempo sfumava i lineamenti a tal segno da farli diventare irriconoscibili, o quasi. Il geloso si era lasciato suggerire che certe particolarità del viso della piccina fossero pure, realmente, su quella oscura lastrina, tanto era forte il suo bisogno di liberarsi dall'ossessione che lo tormentava sempre, e anche in quel momento. - Infatti domandò: - Non ti ha detto, Sabina, perché usciva? - Ridiventi geloso, figlio mio?... - disse la madre. - Oh! no! Te lo prometto!... E con un mezzo sorriso che gli ridiede per un attimo la fisionomia che aveva avuto da: bambino, soggiunse: - Mamma, non lo farò più! Poi disse, serio, quasi con solennità: - Come vuoi ch'io possa diffidare ancora di mia moglie, se tu, mamma, mi dici d'aver fiducia in lei? Egli certo non immaginava che parlando così immergeva un pugnale nel cuore di sua madre, e che ella si domandava, in quello stesso momento, con indicibile angoscia: - Infatti, dove andava Sabina? E' possibile che voglia rivedere quel Saintenois, dopo aver saputo tutto sul conto suo? Eppure, Sabina correva veramente verso “quel Saintenois”, o almeno verso ciò che poteva avere di lui in quel momento: una lettera, febbrilmente desiderata, sperata appena. L'ufficio postale che gli amanti avevano scelto per la loro corrispondenza clandestina, come il più sicuro per la sua distanza dalle case loro, era in via Dufrénoy, fra l'Avenue Victor Hugo e le fortificazioni. La mano di Sabina tremò, nel prendere la lettera che le porse l'impiegato delle “ferme in posta”, quando gli ebbe dette le solite iniziali. La sua commozione fu tale, che dovette appoggiarsi a un muro, appena uscita dall'ufficio e prima di lacerare la busta, che conteneva soltanto poche righe, ma come concepite! “Ti adoro, mio unico amore, e me ne vado. Qualunque cosa ti venga raccontata sul conto mio, - poiché infatti i pettegolezzi saranno molti, ora! ricordati che ti ho detto la verità, tutta la verità! Certo, fui molto colpevole facendo ciò che feci. Ma agii così perché ti amavo appassionatamente, pazzamente. Quel che provo nell'allontanarmi da questa città dove lascio te e la bambina, è inesprimibile. Ma avrò coraggio. Addio, mia cara Mia” - Com'è coraggioso, e come mi ama! - ella pensava, rimettendosi a camminare e sentendosi caldo il sangue, in quel frigido mattino d'autunno, per un'improvvisa e forte sensazione di pienezza interna. Saintenois le aveva scritto precisamente le parole di cui ella aveva bisogno per convincersi sempre più, soprattutto rammentandosi dei discorsi uditi al pranzo del giorno antecedente, che quel disonorato, quel paria, - poiché la sua partenza bastava a renderlo tale, - meritava ancora di essere preferito. Ad un tratto, e per una decisione istintiva, quasi incosciente, tanto fu rapida e senza ragione, pensò di andare dall'uomo d'affari al quale i Vialis affidavano i loro interessi, la gestione dei loro stabili, la amministrazione delle loro terre, la sorveglianza del loro “portafoglio”. Gianmaria, specialmente per punto d'onore, aveva sempre lasciato un conto aperto a sua moglie, presso quell'agente. Ella non ne aveva mai abusato. Come tutte le vere appassionate, era totalmente esente dal difetto della vanità, che è il maggior principio di rovina per le donne della sua classe. Mezz'ora dopo, suonava il campanello dell'appartamento occupato, in via Monte Tabor, dall'agenzia diretta dal signor Margeret. Così si chiamava l'uomo d'affari, il quale aveva esordito come impiegato negli uffici del signor Lancelot, e l'aveva conosciuta bambina. Egli era oggi un vecchietto esile e scarno, i cui modi rivelavano una grande meticolosità. Questa qualità faceva parte del suo carattere, e il mestiere l'aveva esagerata, in lui, fino a renderla un difetto. Aveva ancora per il suo principale d'altri tempi una riconoscenza che si rifletteva su Sabina e che si traduceva, professionalmente, in sapienti consigli su affari di Borsa, accolti per solito con indifferenza da quella donna disinteressata. Oggi, ella li ascoltava con un'attenzione il cui motivo avrebbe meravigliato assai colui che li dava, se egli avesse potuto leggere nel pensiero della sua bella cliente. - Perché Giorgio non mi disse mai nulla? - pensava costei. - Se avessi saputo che speculava, l'avrei mandato da quest'ottimo Margeret, e non si sarebbe rovinato! - Avete una disponibilità di settantasettemila franchi e ottanta centesimi, signora, - diceva il vecchio. - Guardate... E, preso un giornale finanziario che aveva a portata di mano, continuò: - Guardate coi vostri occhi a quanto è salito il titolo che vi raccomandai l'ultima volta che veniste a trovarmi, tre mesi fa... Era a quattrocentodue, ve ne rammentate? Oggi, è a cinquecentoventiquattro... Calcolate come si sarebbero moltiplicati i vostri settantasettemila franchi, se m'aveste lasciato manovrare in quel senso... Per fortuna, il signor Vialis si fida più di voi dei miei pareri. Vi avrà detto, forse, che gli ho parlato di un impiego di denaro ancor più interessante... Sapete se ha intenzione di venire da me oggi o domani?.. Mi aveva fissato uno di questi due giorni. - No, - rispose Sabina. - Passavo per caso da queste parti, e siccome avrei bisogno di un po' di denaro.... - Sono a vostra disposizione, signora. Quanto volete? - Dodicimila franchi, - disse ella. Si sarà già capito che quella visita all'agente d'affari era un principio di preparazione per la sua partenza. Ella era venuta, in realtà, coll'intenzione di prelevare una somma molto più considerevole. Ma Margeret, che nulla sospettava del dramma dei Vialis, avrebbe certamente parlato al marito di quella visita. Una cifra troppo rilevante avrebbe stupita la prudenza di Gianmaria, e avrebbe forse dato motivo ad un interrogatorio penoso quanto inutile. - Basteranno, per la partenza, - pensava Sabina nell'andarsene, col pacchetto di biglietti di banca chiuso nella borsetta insieme alla cara lettera del suo Giorgio. - Poi, avrò i miei gioielli. Il progetto si precisava. Come avviene quando si differisce con rincrescimento, e per ragioni esterne, l'esecuzione di una volontà ben decisa, ogni incidente doveva, - in quella giornata e nelle seguenti, - fornire a Sabina delle ragioni determinanti o meglio dei pretesti per affrettare la sua fuga. La colpì, anzitutto, appena ritornò a casa e durante la colazione, la gentilezza di Gianmaria, che sembrava afflitto e pentito. Quel giorno stesso, nel pomeriggio, egli doveva dire a sua madre: - Ho seguito il tuo consiglio, mamma. Però sento che umiliandomi (poiché un uomo si umilia, domandando perdono a una donna per torti che non ha), l'offendo ancor più che se fossi brutale verso di lei. Il marito innamorato e infelice non s'ingannava. Ritrovandolo tanto mite, tanto rassegnato a subire tutto da lei, Sabina si era irritata. Malgrado i suoi traviamenti, ella aveva un'anima troppo alta per non soffrire di una generosità che non giudicava più semplicemente ridicola. Avrebbe preferito - e Gianmaria l'aveva indovinato - la dura inquisizione della gelosia o la brutalità del desiderio che l'avrebbero giustificata ai propri occhi. E, confrontando l'atteggiamento di quel giorno con quello del giorno antecedente, ella si ripeteva: “E' peggio! è peggio, così!”, sola nella carrozza che la portava in piazza Vendòme dal suo gioielliere. Aveva ancora con sé, nella borsetta, il vezzo di perle rifiutato da Saintenois, al quale aveva aggiunto tutto un finimento di brillanti. Anche dal gioielliere, come all'agenzia Margeret, rischiava che la sua ricerca di denaro venisse a conoscenza del marito e provocasse un'inchiesta. Aveva una spiegazione già pronta, che diede senz'altro al negoziante (il quale era stato da lei il giorno antecedente per un altro motivo): - far stimare le perle e i diamanti, col pretesto di un cambio che si proponeva di fare. - Ho qui, dunque, duecentomila franchi... - diceva fra sé, dopo esser risalita in carrozza. Il gioielliere aveva attribuito quel valore ai gioielli. “Almeno duecentomila franchi”, aveva soggiunto. - E Sabina continuava il suo monologo: - E' quanto basta per aspettare di poter disporre della mia sostanza personale. Gianmaria non vorrà certo oppormi in questo delle difficoltà... Si sorprese così a stimare suo marito per quella delicatezza di cuore che l'aveva irritata, trovando anche in quella stima un pretesto per sopprimere ogni indugio a quella fuga tanto appassionatamente desiderata: “Ragione di più per non recitargli più a lungo una commedia divenuta assurda. Mentivo per Giorgio, mentivo per uno scrupolo: non volevo che egli potesse rimproverarmi, un giorno, di aver presa tutta la sua vita. Dandogli la mia, ora, non gli prenderò nulla, poiché egli non ha più nulla... Sì: avrà me!” Aveva portato con sé, da casa, una lettera preparata per il suo amante. Passando davanti a un ufficio postale, scese di carrozza e andò verso la cassetta. Introdusse la busta nella fessura, ed esitò un momento, prima di lasciarla cadere. “Se la riaprissi, - pensò. - per aggiungere: arriverò domani? Ma no... ” E lasciò cadere la lettera, soggiungendo: “No, poiché vuole ch'io aspetti! A che serve, aspettare?...Ma partirò presto!” L'idea di quella partenza vicinissima la tormentava tanto, che ne continuava i preparativi in un modo quasi automatico. Come era andata, nella mattinata, dall'uomo d'affari, e dal gioielliere dopo colazione, entrò impulsivamente in alcuni negozi per comprare certi piccoli oggetti che le avrebbero servito per il viaggio: un piccolo nécessaire per sua figlia, degli astucci rotondi di cuoio per mettervi le monete d'oro, una minuscola farmacia portatile. Passò dal pellicciaio, ordinò che le pellicce sue e della piccina, che aveva date in deposito, le fossero spedite a Londra, ad un albergo dove si proponeva di scendere. Si munì da un banchiere, di banconote inglesi. Questi diversi atti rappresentavano già la realizzazione del suo desiderio, e ne risultava per lei una calma che non doveva durare. - Uscirò all'ora di pranzo, - disse al cocchiere, quando fu tornata in via Villejust. - La carrozza alle sette e tre quarti. Si proponeva di mettere in ordine le sue carte, come aveva fatto Saintenois il giorno antecedente. Pensò di far dire, a chiunque venisse, che non riceveva. Ma se ne astenne per orgoglio. Era sua abitudine ricevere, quando prendeva il tè in casa, e i suoi famigliari lo sapevano. “Se si parla già della storia di Giorgio - disse fra sé - non voglio che si supponga ch'io abbia paura”. Però non sapeva se si era già divulgata, quella storia... La curiosità di saperlo la rodeva, ma quella sua incertezza non durò molto. Si era appena occupata della merenda dei bimbi, e stava per sedersi, nel suo salottino, davanti al tavolino da tè, quando il domestico introdusse un visitatore, il quale non poteva essere che un messaggero dei “pettegolezzi” annunciati dal biglietto di Saintenois. L'indovinò subito da un mezzo sorriso, che rievocava per lei un ricordo odioso. Il visitatore era Massimo de Portille, altro amico di club di Saintenois e di Gianmaria, noto fra i viveurs eleganti di Parigi d'allora. Portille aveva fatto la corte a Sabina, nel passato. Un giorno, era stato tanto ardito verso di lei, in quella stessa stanza, ch'ella aveva dovuto suonare il campanello per farlo andar via. I loro rapporti, da quel giorno, erano sempre stati soltanto “corretti”. La fisionomia di quell'uomo, noto per le sue avventure fortunate, aveva per solito quell'espressione di arroganza felina che è comune agli uomini della sua specie. In quel momento, essa era freddamente cattiva. Che Portille le serbasse un feroce rancore per lo smacco subìto, Sabina lo sapeva, e sapeva altresì ch'egli odiava in Saintenois un rivale preferito. Era troppo evidente ch'egli era venuto per assaporare la propria vendetta... La padrona di casa gli aveva appena versato il tè, come se nulla fosse, quando entrarono due donne: la giovane signora Machault e la molto meno giovane signora Ethorel, venute esse pure - (Sabina lo comprese immediatamente) - per vederla soffrire. “Ma non vedrete nulla, mie care amiche!” diceva ella fra sé, servendo l'una e l'altra con la sua grazia consueta. - Sapete che cosa si racconta di Saintenois?... - . domandò la signora Ethorel, tendendo la propria tazza, mentre Sabina si accingeva a versarle del latte. - No, grazie. Piuttosto, un po' di limone. - Sì, mia cara Sabina, - insisté la signora Machault, - a quanto pare... Ah! com'è buono, il vostro tè! Dove lo comprate?... A quanto pare, dicevo, è stato colto in flagrante mentre barava! - Non sapete bene come stanno le cose, signore mie...- corresse Portille. - Ero poco fa, con altri consiglieri, dal nostro presidente Casal, che ci ha convocati per consultarci prima della seduta plenaria che avrà luogo domani per decidere sulla condotta che converrà tenere. Quindi, so tutto, nel modo più preciso. Il nostro Saintenois non ha barato, cara Cecilia... (Si rivolgeva alla signora Machault, della quale era stato molto amico, come soleva far risultare, da quel vanesio che era, chiamandola confidenzialmente così). - Ha fatto di meglio, - riprese. - Si è fatto prestare dalla cassa dei giochi cinquantamila franchi, dando a quel babbeo del nostro cassiere, che l'ha accettato, un assegno su una banca presso la quale non aveva più nemmeno un soldo!... Li ha giuocati, quei cinquantamila franchi, e li ha persi. Poi se l'è svignata, scrivendo a Casal una lettera monumentale, nella quale si dà ancora delle grandi arie. Vi parla del suo onore!... Dice che pagherà al Circolo il suo debito, capitale e interessi... quando si sarà riabilitato... mediante il lavoro, naturalmente in America!... È un po' vecchia la storiella... - Ah! se ci fosse ancora suo padre! - disse la signora Ethorel. - Povero generale! Che fortuna, per lui, esser morto prima di questo scandalo! - Ma Gianmaria, che era tanto amico di quello sciagurato, che cosa ne dice, mia cara Sabina? - domandò Cecilia Machault. Un pellerossa legato al palo di guerra non ha un'impassibilità più assoluta di quella che una donna che ama sa mostrare, per difendere il segreto delle sue gioie o delle sue disperazioni contro le curiosità e le ostilità dei salotti. Sabina, che stava bevendo la sua tazza di tè, rispose con semplicità, fra due sorsi: - Non me ne ha ancora parlato... E, mutando bruscamente argomento, soggiunse: - A proposito del Circolo, sapete, Portille, per che data sia fissata definitivamente la grande serata musicale? - È molto forte, non c'è che dire, la nostra bella amica!... - esclamò Cecilia Machault, un quarto d'ora dopo, nell'uscire con la signora Ethorel e con Portille. Le due donne e il giovane avevano tentato, a parecchie riprese, di menzionare nuovamente il nome di Saintenois, ma Sabina non aveva mai cessato di parlar d'altro, con leggerezza, e di sorridere. - Forse ne era già stanca del suo Giorgio! - disse la signora Ethorel. - Oppure, - insinuò Portille, sogghignando, - quei cinquantamila franchi erano forse destinati a lei... . - A lei? esclamò Cecilia Machault. - Ma siete pazzo, Massimo!... - Chi può mai conoscere il vero bilancio di una donna? - riprese Portille. - Ma se Saintenois l'ha giuocata e persa, quella somma... - Avrà forse voluto rifarsene, dopo averla data... - Che lingua sacrilega, il nostro Massimo! .., - diceva la signora Ethorel, rimasta sola con l'amica. La calunnia di Portille era stata abominevole quanto pazzesca. Ma, come dice la frase celebre, di una calunnia rimane sempre qualche cosa... - È veramente cattivo! - rispose Cecilia Machault. - Ma è tanto divertente! Poi, chinando un poco la testa aggraziata: - Povero Saintenois!.. Sabina avrebbe dovuto salvarlo! Non si lascia colare a picco un amante, per cinquantamila franchi, quando si hanno i gioielli che ha lei!.. - Sì, è vero... Avrebbe dovuto salvarlo, - ripeté la signora Ethorel. E soggiunse, sentimentalmente: - Ah! mia cara Cecilia! com'è raro, il buon cuore! ... - Così è la gente! - pensava Sabina, rimasta sola, mentre quei discorsi venivano fatti sul marciapiede della via. - Quel Portille, che non mi perdona di non esser riuscito a mettermi nell'elenco delle sue conquiste... Quella piccola Machault, che mi serba rancore perché fece invano la civetta con Giorgio, che non volle saperne di lei... Quella vecchia Ethorel, che mi detesta perché sono giovane e amata... (Infatti, lo sa, e anche gli altri lo sanno, che Giorgio mi ama! ...) No, non mi hanno vista soffrire, ed erano venuti soltanto per questo!... Che miserabili! ... E gli altri, saranno anche peggiori!... Suvvia! Ora debbo corazzarmi per questa sera. - Pensava al suo pranzo fuori di casa, e ai nuovi tormentatori che vi avrebbe trovati! Soltanto Gianmaria, - riprese fra sé, - si farà uno scrupolo di parlarmi male di Saintenois, perché era suo amico, e perché certo si rimprovera d'esserne stato geloso, ora che sua madre l'ha tranquillizzato. Di nuovo, il pensiero della generosità di suo marito le fece male, più male che non la cattiveria dei suoi visitatori di poco prima. La frase che si era già ripetuta sì spesso, dal giorno antecedente, le tornò alle labbra: “Durerà poco, tutto questo!... Ma intanto che farà, lui?... ” Ora pensava all'assente... “Povero Giorgio mio! ... E' partito da ventiquattro ore... Dov'è, ora? ...Che fa?… Lo saprò domani da una sua lettera”. Ella avrebbe vissuto, per tutta quella sera, durante la quale avrebbe continuamente dovuto subire delle frasi perfide e ambigue, unicamente sorretta da quella speranza: la lettera del giorno seguente. Al grado di passione al quale era salita, l'attesa diventa una specie di anestetico. Le persone con le quali pranzò e quelle che vennero dopo il pranzo, parlavano tutte dell'amante che le stava tanto profondamente a cuore. Ella le ascoltava moltiplicare intorno all'assente i commenti malevoli e gli aneddoti inesatti, fra quell'eccitazione che sempre suscita, nella buona società, il più recente scandalo. Tutti vogliono essere bene informati. Ognuno interpreta e giudica. Sabina, molto guardata, molto presa di mira, rimaneva indifferente quanto può esserlo, fra le mani del chirurgo, un paziente a cui sia stata fatta una iniezione di cocaina. Soltanto la delicatezza di Gianmaria, troppo conforme a ciò che aveva previsto, la commosse fino ad intenerirla. Ella udì suo marito, in un gruppo, difendere il povero Saintenois, affermare la sua buona fede, sostenere che avrebbe certamente pagato, come aveva promesso nella sua lettera a Casal, e che un'ora di traviamento non abolisce un passato di onore e di coraggio, come quello dell'eroico ufficiale d'Africa e d'Indocina. Insomma, per cavalleria, - Sabina lo capiva egli diceva dell'uomo di cui era stato tanto dolorosamente e legittimamente geloso, le parole stesse che ella avrebbe gridate a quei giustizieri da salotto, se ne avesse avuto diritto. - Per la prima volta, la moglie adultera sentiva ciò che vi è di tragico, ma anche di nobile e di alto, nella fiducia di un generoso cuore tradito; e quando, ritornati a casa, lei e suo marito si lasciarono sulla soglia della sua camera da letto, ella ebbe quasi la tentazione di buttarsi in ginocchio per domandargli perdono. Avrebbe potuto, almeno, dirgli delle parole di simpatia. Il ricordo della notte precedente gliele gelò sulle labbra. Ma i suoi sentimenti, quando fu sola, non furono più quelli che aveva avuti ventiquattrore prima. Per uno di quei mutamenti di pensiero che sono tanto frequenti nelle rotture, le buone qualità di quell'uomo dal quale aveva deciso di separarsi per sempre le apparivano nella loro vera luce, mentre prima le aveva disconosciute per anni, vedendo di lui solamente i difetti. Quell'esitante, quel dubbioso, quell'ansioso, aveva, per natura, un modo di sentire nobilissimo. La sua mancanza di affermazione personale corrispondeva ad una delicatezza quasi morbosa, ma tanto fine!…Quel cuore del quale ella non aveva saputo far nulla, le si era dato con tanta verità!... Mentre stava per infliggergli il colpo più crudele ch'egli potesse ricevere, la sofferenza che le dava il suo amore per Giorgio la rendeva pietosa verso la passione che le ispirava quell'essere buono... Per la prima volta, anche, provava il rimorso che aveva già provato Saintenois all'offerta di denaro da parte dell'amico tradito, e lo stesso orrore di mentire ad un uomo tanto leale. Quel rimorso, per un altro fenomeno di sensibilità, la irrigidiva maggiormente nella sua intenzione sempre più energica di non indugiare molto a partire... Ed era soltanto alla fine della prima giornata di separazione! Si era addormentata con un senso di disagio prodotto dal mutamento avvenuto nei suoi sentimenti verso il marito. Quel disagio aumentò, quando ella si svegliò l'indomani, che doveva essere la seconda giornata, con un nuovo sentimento, facilmente prevedibile. Non c'era soltanto suo marito, nella sua vita: c'era anche suo figlio. Saintenois gliel'aveva rammentato, e subito ella si era ribellata, con la sensazione, - che aveva confessata, - di una anomalia nelle sue reazioni di fronte a quel bimbo, giudicata da lei stessa come mostruosa. Ella era semplicemente nella sinistra logica della sua colpa. Da quando aveva dato a Renato una sorella illegittima, nutriva una specie di rancore verso di lui, per il fatto che era stato concepito in amplessi che non erano quelli dell'amante o, piuttosto, rimproverava a sé stessa questo fatto. Ma se l'amante, in lei, aveva contrariata così, incessantemente, e paralizzata la madre, non l'aveva però soppressa. Il suo affetto istintivo rimaneva vivo, attraverso un sì grande turbamento, e quell'affetto stava per commuoversi quasi animalmente nell'occasione di un incidente assai banale. Ma nelle ore che precedono un atto come quello che ella meditava, i minimi avvenimenti assumono un significato profondo, per la luce che proiettano sull'avvenire. Quella mattina, dunque, del secondo giorno, Giulietta e Renato erano venuti come di consueto a dare un bacio alla loro mamma ancora in letto. Ella accarezzava distrattamente i riccioli dei due bimbi, quando prese a pensare, ad un tratto, che una di quelle due testoline frementi stava per rimanere orfana. In un irresistibile slancio, la strinse, quella testa, e la baciò lungamente. Allora il fanciullo guardò la madre, con uno sguardo che era quello di Gianmaria. Qual paura avrebbe provato la madre colpevole, se avesse saputo che quello sguardo era identico allo sguardo del nonno di Renato, e che quel nonno si era ucciso! Per fortuna, o per disgrazia, - poiché quell'avvertimento avrebbe certamente fermato il suo fatale proposito - ella ignorava la minaccia contenuta in quell'indizio della peggiore delle eredità. Eppure, conosceva abbastanza i lati morbosi del carattere di suo marito, per comprendere che anche Renato aveva in sé la stessa disposizione a soffrire, la stessa tendenza alle emorragie della sensibilità, come aveva sentito dire da Vernat, una volta, al capezzale del bimbo. Ora, qual colpo stava ella per dare, coll'abbandonarla, a quella piccola anima indifesa che nulla sospettava del destino che la minacciava! “Ma quel destino sei tu!”, diceva a Sabina la sua coscienza.“Quel destino è la tua volontà!” E il rimprovero della voce interna le fu tanto insopportabile, che si decise ad un tratto a mandare via i due bimbi, per mettere fra sé stessa e quella commozione, in mancanza della presenza dell'amante, un foglio di carta toccato da lui, la sua scrittura, la lettera, insomma, ch'egli doveva averle mandata il giorno prima. Ne aveva bisogno come di un cordiale, per riacquistare tutta la sua energia. - Sì, - diceva fra sé, vestendosi, - Giorgio arrivò a Londra ieri mattina. Appena giunto all'albergo, non potendo telegrafarmi, mi avrà scritto, e certamente a tempo per far partire la lettera in giornata… Sto per sapere, dunque, come viaggiò, che cosa pensa... Ah! se mi chiamasse, se mi dicesse di raggiungerlo, come correrei da lui!... In questa condizione di spirito, ella entrò, prima delle dieci, nell'ufficio postale di via Dufrénoy. L'impiegato la ravvisò, e andò subito al casellario delle “ferme in posta”, con un sorriso di mezza complicità. Poi, tornando a mani vuote, disse: - Questa mattina, nulla, signora.... - Non è arrivata, dunque, la posta d'Inghilterra? - osò domandare Sabina. - Sì, signora, è arrivata, ed è stata smistata regolarmente. Due ore dopo, ella tornò a quello stesso ufficio, per udire ancora la stessa risposta, che le fu ripetuta anche nelle prime ore del pomeriggio e verso sera. - Che avveniva? Quell'amante appassionato che tre giorni prima l'aveva abbracciata con tanta frenesia, non poteva averla dimenticata! Ella lo conosceva troppo, per supporre che non fosse sincero, ed egli troppo conosceva lei per non sapere che non scrivendole la riduceva alla disperazione. Non si trattava più ora, per Sabina, dei rimproveri della sua coscienza di fronte alla bontà del marito, né di rimorsi di fronte alla nervosità del figlio. Il non ricevere lettera durante quella seconda giornata, le dava un’angoscia di continuo crescente, e, frattanto, ella attendeva alle sue solite occupazioni mondane, faceva delle visite, entrava in qualche negozio. La gente le parlava, lei rispondeva, ma era continuamente tormentata da supposizioni di ogni specie... Che Saintenois fosse rimasto vittima d'un disastro ferroviario o marittimo? No; i giornali ne avrebbero parlato. O forse una malattia improvvisa l'aveva colpito, atterrato?...Ma ella lo aveva lasciato tanto energico e pieno di vita!... E voleva costringersi à pensare che si trattasse di un qualche errore nel servizio postale. - Se domani non avrò lettera, gli telegraferò, - disse fra sé. Anche il giorno seguente, nessuna lettera. Sabina telegrafò... Nessuna risposta. Altro telegramma...Uguale silenzio! Era il quarto giorno, ormai, e già Sabina cominciava a non poter più sopportare i suoi doveri mondani. Quel quarto giorno, e poi il quinto, ella li passò interi ad agitarsi, in preda a quella febbre dell'incertezza che produce sullo spirito il morboso effetto di allungare talora, talaltra di abbreviare stranamente la nozione del tempo, Innumerevoli possibilità sorgono nella mente e la popolano di visioni che si sostituiscono l'una all'altra, di continuo, in un turbine tale da farci vivere come in un sogno. La successione troppo rapida delle immagini non può più servire di misura al tempo. Non era ancora trascorsa una settimana intera dal giorno in cui, sulla soglia della sala da pranzo di via Fortuny, Sabina aveva detto a Saintenois: “Arrivederci, laggiù!”. Ma le sembrava che mesi e mesi la separassero da quel saluto, e dopo ogni nuovo tentativo inutile a quell'ufficio postale di via Dufrénoy, dove ormai tutti gl'impiegati la conoscevano di vista e la guardavano, alcuni con pietà, altri con ironia, se ne tornava a casa sempre più incapace di rimanere più a lungo in quella totale ignoranza, in quell'oscurità, in quella morte. C'erano due testimoni, troppo inquieti perché quello stato di morbosa eccitazione nervosa potesse sfuggire alle loro riflessioni: Gianmaria e sua madre. Sabina li aveva così assolutamente dimenticati, dacché s'ipnotizzava su quella mancanza di notizie, e l'idea fissa l'isolava dalla sua vita sì completamente, che rimase assai sorpresa, una mattina, - quella del sesto giorno, - quando, tornata da un'altra delle sue gite inutili all'ufficio postale, trovò nel suo salottino la signora Vialis, che l'aspettava. - Le due donne non avevano più avuto alcuna conversazione intima, da quando si erano affrontate, una atterrita, l'altra minacciosa. Quel giorno, Sabina si era ribellata a qualsiasi intrusione nella sua vita sentimentale, con tutta la forza del suo amore, felice, malgrado l'avversità, per la speranza che lo sosteneva. Ora invece, spossata dal logorio di quella settimana d'impotente attesa, non aveva più che l'energia del mutismo che non discute, che sfugge... Ascoltò dunque la suocera con una triste passività, per la quale ella fu subito inquieta più che per l'irascibile resistenza di prima. Comprese infatti, la madre di Gianmaria, che quel torpore annunciava un domani più temibile e più oscuro. - Sabina... - cominciò con dolcezza, - lasciate ch'io vi ringrazi di non aver detto a Gianmaria nulla che potesse far rinascere in lui il sospetto. Il vostro contegno mi ha provato che avevo ragione di pensare, come vi dicevo l'altro giorno, che in voi è rimasto intatto il senso dell'onore... Perciò appunto, ora, mi rivolgo nuovamente a voi, per scongiurarvi di dominare un poco, possibilmente, un dolore che comprendo. Non sarei donna, se non sentissi quanto sia atroce una delusione come quella che subite... Ma pensate ai vostri figlioli. Gianmaria è di nuovo inquieto. Non può non essere inquieto... Voi soffrite, ed egli se ne accorge. Vi ama. Pensate che è stato geloso, pazzamente geloso. Riflettete che la vostra visibile tristezza coincide col disastro e con l'assenza dell'uomo di cui era geloso... Vi faccio notare che egli non mi ha detto di aver stabilito un rapporto fra i due fatti. Crede ancora che gli serbiate rancore perché... - (Ella esitò, poi soggiunse, coraggiosamente): - Non sarei donna, neppure, se non comprendessi la vostra ribellione di quella sera, per la quale anzi vi stimo. Fu la prova di una sincerità in un passato che peraltro dovete considerare come assolutamente abolito. Infatti lo è. Gianmaria mi ha promesso di essere con voi quale desiderate che sia. Io vi prego soltanto di non ridestare la sua gelosia. La ridesterete, inevitabilmente, se non gli nasconderete una tristezza di cui s'accorgono anche i vostri figlioli. “Perché piange sempre, la mamma, quando è sola?” mi disse Renato proprio ieri. Fortunatamente, suo padre non c'era. Pensate a quel povero piccino; pensate a vostra figlia, Sabina... Se la gelosia di Gianmaria si ridesterà, ne risulteranno il dramma, la separazione... Vostro figlio resterà senza madre, e vostra figlia... so già che non vorrete lasciarvela togliere. E allora..... Nel grido dell'abnegazione materna esaltata fino al martirio, la povera donna soggiunse: - Quando vi sentirete troppo infelice, venite da me... Mi parlerete. Vi compiangerò. Piangerete. Ma non davanti a lui! Davanti a lui, abbiate la forza di sorridere, per pietà....Per i vostri figlioli, per me, per lui! L'angoscia di ventisette anni sempre vissuti nel terrore della spaventosa eredità, fremeva in quelle parole pronunciate con labbra tremanti. Quell'offerta di una simpatia che oltrepassava la semi complicità del silenzio era tanto straordinaria, che Sabina intravide il mistero sepolto nelle profondità di quell'anima. Ella aveva sempre sentito dare, della morte improvvisa del padre di suo marito, la spiegazione immaginata da Vernat, quella che la brutalità dei fenomeni cardiaci suggerisce naturalmente quando si voglia nascondere un suicidio; - la rottura di un aneurisma. Temeva forse, la madre, che un'emozione troppo forte infliggesse a suo figlio una fine come quella? Le condizioni di salute del figlio non autorizzavano in nessun modo un simile pronostico. La signora Vialis, alquanto originale, secondo la nuora, non poteva nutrire un tal timore che per una di quelle fissazioni dell'immaginazione per le quali non si ha carità quando si sanguina, come Sabina in quel momento, da una ferita aperta nella carne viva. - Cercherò di fare ciò mi domandate, - rispose con semplicità la moglie di Gianmaria. E, per tagliare corto a quella scena, soggiunse subito, evitando d'intenerirsi: - Sono stata molto scossa, in questi giorni... Mi dite che comprendete il mio dolore, e vi ringrazio se mi compiangete. Ora dovete pure capire che soffro, a parlarne e a sentirne parlare, e anche solo a pensare che qualcuno se ne occupi... La suocera non insisté. Sabina diceva la verità. Il sentirsi di nuovo guardata, spiata, era stato un supplizio, per lei. Quella sensazione di una sorveglianza in agguato fu ancora accresciuta da una frase che le disse suo marito quando si separarono per la notte, dopo esser tornati da un pranzo al quale erano stati invitati, il quinto, in quella crudele settimana! - e durante il quale, malgrado la sua promessa, era stata assolutamente incapace di conversare coi suoi vicini. Si era accomiatata prestissimo, col pretesto di un'emicrania, e, rincasando, non aveva scambiato nemmeno una parola con Gianmaria, che aveva voluto accompagnarla. Sulla soglia della sua camera, egli le disse, prendendole la mano: - Sabina... mia madre ha parlato con voi, questa mattina. So da lei che desiderate non essere più, per me, altro che un'amica... Ora, non potreste permettermi di essere realmente un amico vero?... Con un amico, si discorre... Gli si dice quel che si pensa... - (Egli cercava le, parole, fissando su di lei uno sguardo la cui inquietudine smentiva la timidezza della sua voce). - Quando si hanno delle pene, gli si confidano, o almeno si lasciano indovinare. - Ma, - interruppe Sabina vivacemente, - chi vi ha detto che ho delle pene?… Ho i nervi un po' in disordine: ecco tutto. È una cosa ridicola, ma passerà. Suvvia, a domani... Per una volta che posso coricarmi presto, non vogliate guastarmi il sonno... Era già guastato, il suo sonno. Il dubbio non le era più possibile; sua suocera aveva indovinato: Gianmaria stava per ridiventare geloso. Egli s'era accorto della disperazione di sua moglie, troppo evidente per non essere rivelatrice del segreto di lei. Sabina aveva visto l'immagine di Saintenois passare in quegli occhi ansiosi. La suocera le aveva annunciato un dramma nella famiglia... Perché aspettarlo? Giorgio, quando aveva voluto che la sua amante ritornasse al tetto coniugale, - poiché l'aveva voluto, infatti, - aveva supposto ch'ella vi avrebbe ritrovato una vita dolorosa, ma possibile. Egli aveva interpretato la visita e l'offerta di Gianmaria come una prova che questi non sapesse nulla. Lei stessa gli aveva detto che la madre del marito non aveva parlato, né parlerebbe... Egli la credeva al sicuro, da quel lato... L'avrebbe forse lasciata senza appoggio, in una lotta che ella avesse dovuto sostenere per causa sua?... E se avesse saputo, non le avrebbe scritto, forse, di andare subito a rifugiarsi da lui?... Non le avrebbe scritto che l'aspettava?… Perché, ella stessa, non gli aveva confessato subito la verità della sua condizione?... Non aveva cessato, in tutta quella settimana, di mandargli una lettera ogni giorno, una lettera che era un lamento senz'ombra di rivolta e che lo supplicava di darle finalmente segno di vita. Del marito, non gli scriveva nulla, poiché non voleva né mentire, né denunciare un tentativo di riavvicinamento che l'aveva turbata nel suo pudore d'innamorata. Ora bisognava ch'egli sapesse tutto, ch'egli sapesse anche perché non poteva sopportare più a lungo il ritardo imposto. Si era coricata. Si alzò, per sedersi al suo piccolo scrittoio, e cominciò a scriverla, quella lettera di una sincerità assoluta, che gli avrebbe annunciato il suo arrivo imminente. Quando l'ebbe finita, la rilesse, e la gettò nel fuoco. - Non risponderebbe nemmeno a questa! - pensò; e, ad alta voce ripeté a sé stessa la frase che Giorgio aveva come rizzata fra loro, durante la loro ultima conversazione: “C'è la tua ricchezza!... ” Fra le molte ipotesi a volta a volta formate e respinte, in quei giorni di tormentosa aspettativa, una sola aveva finito col sembrarle certezza, e quella - come si ricorderà - corrispondeva alla verità. I minimi particolari del colloquio di addio le si agitavano ancora nella memoria. Rivedeva Saintenois e la sua espressione ostile, quando le aveva parlato di denaro.... - È la sua fierezza - disse fra sé, - che gli vieta di scrivermi! Coricatasi di nuovo nel suo letto, e spente tutte le luci, continuò: - Sì, la sua fierezza! Per punto d'onore, Giorgio vuol lasciarmi assolutamente libera. Non vuol fare un gesto per chiamarmi, perché io sono ricca, mentre lui è povero... Eppure l'offerta che gli ho fatto di vivere all'estero esattamente come vivo qui, divisa da lui, che vivrà del suo lavoro, è il miglior mezzo per risolvere tutto. Egli continua a resistere... Per la gente?... E che cosa conta la gente, quando si ama?… Oppure, per uno scrupolo verso di me? Ma se sarò io che avrò voluto... io che l'avrò obbligato ad acconsentire!... Ah! quando sarò dov'è lui, bisognerà pure ch'egli mi tenga! Non ho già più che lui... Qui, la guerra! No: devo partire, e domani, laggiù, avrò la libertà, la felicità, a meno che il suo silenzio non voglia dire che Giorgio è mutato a mio riguardo! ....Ebbene: se è mutato, lo saprò. Soffrirò meno che in questa incertezza!... Ma è assurda, l'incertezza! Giorgio non è mutato!... Era decisa, ormai, e la sua risoluzione era precisa, definitiva. Non più indugi! Avrebbe lasciato Parigi quel giorno stesso! Alle cinque del mattino, dopo un breve ma profondo sonno, di quelli che succedono alle crisi di ansietà, si alzò di nuovo, per prendere nell'armadio del gabinetto da toeletta il suo nécessaire da viaggio, che preparò minuziosamente. Vi ripose i suoi gioielli, empì un'altra valigia piatta, che aveva comprata insieme con la valigetta destinata a sua figlia. Aveva avuto cura, per precauzione, di tenere sotto chiave quegli oggetti rivelatori. Poi passò nella camera dei bambini, per prendere da un cassettone la biancheria e gli altri pochi indumenti indispensabili per l'arrivo. Entrò in quella stanza e ne uscì in punta di piedi, scalza, servendosi di una lanternina elettrica. I piccini, che dormivano, non si svegliarono. Ad un certo momento, ella si avvicinò al letto di Renato, e stette ad ascoltare il respiro del bimbo. Mentre stava per abbandonare quella povera creatura, la madre trasalì ancora, in lei... Un pensiero folle le attraversò la mente: condurre via con sé anche Renato!... Ma subito rifletté: “Non ne ho diritto!” Il considerare la legge naturale è l'unico mezzo, per una coscienza, di giustificarsi nelle aperte ribellioni contro il patto sociale in nome della passione. No; non avrebbe disputato al padre quel fanciullo! E pensando che ormai egli non avrebbe più saputo nulla di lei, se non da quel padre, si sedette di nuovo per scrivere a quell'uomo, che avrebbe potuto chiuderle il cuore di suo figlio, una lunga lettera che poi gettò nel fuoco come l'altra. - Neppure questa servirebbe a qualche cosa! - disse fra sé. La pendola segnava già le sette. Sull'orario delle ferrovie che le aveva servito per seguire il viaggio di Saintenois, Sabina aveva visto che a mezzogiorno partiva un treno, col quale, per la via di Calais, sarebbe arrivata a Londra poco dopo le sette di sera. Avrebbe approfittato di quel treno. Ma come avrebbe fatto? Si trattava anzitutto, per lei, di sapere se Gianmaria sarebbe o non sarebbe rimasto in casa, quella mattina, e specialmente se sarebbe venuto nella sua camera. Non ci venne. Verso le nove e mezza, quando usciva a cavallo, solevano tenergli pronta in mezzo al cortile la cavalcatura già sellata. Sabina, tendendo l'orecchio, e con un gran tumulto nel cuore, riconobbe ad un tratto il rumore degli zoccoli della bestia sul selciato... Corse alla finestra, e poté vedere suo marito, in sella, uscire dal portone in via Villejust. S'intendeva d'equitazione abbastanza per constatare, dall'andatura nervosa del cavallo, che anche la mano che teneva le redini era nervosissima: altro piccolo indizio che le diceva come non si fosse ingannata nelle sue impressioni. Ma che importava, ormai? Poteva agire liberamente. Suonò il campanello. - Ho bisogno di un fiacre, - disse al maggiordomo. E a Marcellina: - Vestite Giulietta, in modo che sia ben coperta. La conduco via con me, per una breve assenza. Poco le importa, anche, dello stupore della governante e di quello della cameriera al vedere le tre valige pronte... Si siede allo scrittoio un'altra volta, per scrivere a suo marito una lettera che non distruggerà... Il fiacre è venuto. Le valige vengono caricate. Ora deve abbracciare suo figlio, - dopo avere evitato di vederlo per tutta la mattinata, - senza che nessuno possa accorgersi della sua commozione. Si avvicina alla porta della stanza da studio, dove - le ha detto Marcellina - Renato sta terminando un compito. Giunta lì, teme di sé stessa, e non entra. Ma, mentre scende le scale, Giulietta - che tiene per mano - le domanda: - Hai freddo, mamma? Come tremi! - E, vedendole delle lagrime sulle guance, la piccina soggiunge : - Ma che hai, mamma? - Niente, cara... - risponde la madre prendendola in braccio e coprendola di baci. Il sentirsi stretto al cuore quel piccolo essere che ormai non ha più che lei al mondo, le ridà forza. - Il portinaio le apre lo sportello della carrozza. Gli consegna la lettera destinata a Gianmaria, dicendo: “Per il signore, quando tornerà.” E al vetturino, ad alta voce: “Alla stazione dell'Avenue HenriMartin. Presto!” Non si proponeva soltanto di evitare d'essere raggiunta, qualora si tentasse un inseguimento immediato, facendosi condurre a quella stazione della ferrovia di circonvallazione. La via Dufrénoy è in quei paraggi. Vi sarebbe passata per l'ultima volta, dopo aver cambiato fiacre alla stazione. Forse avrebbe trovato una lettera di Giorgio, a quell'ufficio postale. - Ma no; nulla ancora... È sicura, però, di sapete la ragione vera di quel silenzio! D'altronde, non può più indietreggiare... Prende uno stampato per telegramma, sul quale, con mano ferma, scrive l'indirizzo inglese di Saintenois, e poi, semplicemente “Saremo Stazione Victoria alle sette. – Sabina”. Ed ora il fiacre nel quale è sola con la sua Giulietta, corre verso la stazione del Nord. L'orologio del suo braccialetto sta per segnare le undici. Ancora sessantacinque minuti, e poi il treno la porterà lontano, con sua figlia... Che cosa troverà, laggiù, come disse nel lasciare il suo amante? La felicità; ne è sicura, lo sente. Ma che lascia, dietro di sé? Un figlio orfano, un marito abbandonato, il proprio nome disonorato, forse una tragedia... Sa anche questo, sente anche questo... e per assopire il rimorso che non vuol provare, si ripete piano, indefinitamente: “Non potevo più... L'amo troppo! L'amo troppo!... ” XII L'esorcismo. Erano appena suonate le undici e mezza. Sabina, dopo aver preso posto con Giulietta in uno scompartimento che per fortuna aveva trovato vuoto, cominciava a scartocciare dei cibi comprati al buffet. Preparava la colazione della piccina. Questa batteva le mani, scoccava baci impetuosi a sua madre, e diceva parole che date le circostanze erano piene di una patetica ironia: - Oh! come sarà divertente!... E come si sta bene, noi due, sole!... In quel momento, la solitaria di via San Domenico si disponeva ella pure a far colazione. Non aveva cambiate le ore dei pasti, dalla gioventù, e stava per passare nella sala da pranzo, dove mai nessuno, dopo il suicidio del marito, si era seduto a tavola di fronte a lei: nemmeno suo figlio. Bourrachot l'aveva appena avvertita che la colazione era servita, ed ella indugiava ancora nel suo salottino, mettendo in ordine certe carte relative ad una delle sue carità, quando udì suonare forte il campanello dell'anticamera. Poco dopo, Gianmaria era davanti a lei. Egli aveva trovato la lettera della fuggitiva, tornando dalla passeggiata, e, vestito com'era, col frustino in mano, era balzato nella prima carrozza vuota che era passata, per correre immediatamente da sua madre. Era livido, e il suo aspetto bastava a rivelare una violenta tempesta interna. La povera donna non ebbe bisogno di spiegazioni. Si era astenuta, quella mattina, dal passare a domandare notizie in via Villejust, poiché era rimasta inquieta per l'accoglienza fatta dalla nuora al suo passo del giorno antecedente. Ormai erano inutili, simili prudenze... Era già avvenuta, la sventura ch'ella aveva tanto appassionatamente cercato di scongiurare! ... E le sfuggì questo grido: - Sabina?!... E’ partita?.... Gianmaria la guardò, prorompendo in una risata che ebbe un significato terribile, in quel momento, e poi, nello spasimo di una collera che lo scuoteva violentemente, esclamò: - Certo!... Lo sapevi!... Lo sapevi!... - ripeté. - Sì, è partita, lasciandomi questa lettera... Ecco!... Ecco!... Prendi!... Aveva estratto dal guanto della sinistra un foglio, introdottovi poco prima rabbiosamente, e lo tendeva con mano convulsa alla vedova, che lo prese tremando e cominciò a leggere questo scritto, ancor più terribile per lei che per suo figlio: “Venerdì mattina, ore 10. - Gianmaria, me ne vado. Raggiungerò Giorgio Saintenois. È infelice, mi devo a lui. L'amo, già da anni. Giulietta è sua figlia. Vostra madre lo sa, ella pure già da anni. Interrogatela. Può ormai non mantenere la sua promessa di silenzio. Mi porto via la piccina, che appartiene a suo padre. Servitevi di questa lettera come crederete meglio, per il nostro divorzio. Accetto tutto anticipatamente, fuorché di ridarvi Giulietta. Ma so che dopo aver parlato con vostra madre, non me la domanderete. Per la sistemazione dei nostri rispettivi interessi, lascio fare a voi, interamente. Infatti, nell'andarmene, mi preme di assicurarvi che vi stimo moltissimo per il vostro carattere, la vostra delicatezza e la vostra lealtà. Quando dovrete scrivermi, fatelo per mezzo del nostro notaio, Métivier, col quale mi metterò in rapporti appena sarò arrivata. Sappiate che se ricomincerete la vostra vita, ne avrò sollievo, poiché sinceramente rimpiango di non aver potuto amarvi, mentre voi mi avete amata molto. Non eravamo fatti l’uno per l’altra. Non vi domando di educare nostro figlio in modo che gli resti intatto nel cuore l'affetto per sua madre. Non sareste voi, se agiste diversamente. Parlando vi così, vi do certamente la massima prova della mia stima, nel momento in cui vi dico addio per sempre. Addio, Gianmaria”. - Dunque, è vero? - riprese il figlio, mentre la madre rimaneva immota, paralizzata dall'orrore, all’udire passare in quella voce, ch'era sempre stata rispettosa e affettuosa per lei, l'ira di un delirio parricida. - Tu sapevi!... Sapevi!... - Gianmaria! - esclamò la povera donna, supplichevolmente. - Sapevi! - egli ripeté, interrompendola. - E l'altro giorno, quando venni da te, agonizzante per inquietudine, ad implorare la verità dall'unico essere di cui potessi fidarmi, tu mentisti!... - (A questo punto, la madre cercò di parlare... ) - Taci! Per anni... è scritto qui, in questa lettera... tu m'hai lasciato badare quella bambina come mia figlia, mentre sapevi che non era mia!... E tu vedevi questo... e lo permettevi!... Tu... tu, mia madre, aiutavi quella donna ad ingannarmi!... Il mio migliore amico, mia moglie, mia madre, tutti traditori! ... Ella fece un passo verso di lui, tendendo le braccia: - Non avvicinarti! - gridò Gianmaria, respingendola con un movimento tanto violento, da farla urtare contro una seria, e cadere... Non aveva ancora potuto alzarsi, la poveretta, e già il demente usciva dalla stanza, dando uno spintone a Bourrachot, che, attirato dagli scoppi di quel furore, accorreva presso la sua padrona. Il brav'uomo la vide, semisvenuta, aggrapparsi penosamente ad un mobile, e mentre l'aiutava a rialzarsi, domandò: - Che aveva, signora, il signor Gianmaria? Mi ha fatto pensare al mio povero padrone defunto... - Hai ragione! - sospirò Maria Vialis, come se quelle parole del domestico che era stata testimone dell'atto insensato del padre ravvivassero in lei il pensiero del pericolo mortale da cui, in quel momento, il suo figliolo era minacciato. - Corrigli dietro, Bourrachot! - ella soggiunse; - riconducilo qui!... Subito! capisci?… Non può esser lontano... Quella scossa che certo poteva mettergli in mano un'arma, e che elle gli aveva evitata di settimana in settimana, di giorno in giorno, d'ora in ora, per tutta l'infanzia, per tutta la gioventù, il figlio del suicida l'aveva avuta! ... Ed ella non si era aggrappata alle sue braccia, alle sue spalle, ai suoi abiti, per impedirgli di allontanarsi!... Ma Bourrachot doveva averlo raggiunto, proprio in quel momento, e certo gli parlava, l'obbligava a tornare... Aveva tanto cuore, Gianmaria! Appena uscito, doveva essersi vergognato, sicuramente, dell'empio suo gesto di poco prima... E sarebbe ritornato! .... La poveretta ebbe un forte sussulto, quando rimasta sulla soglia, rivide il domestico che riattraversava il cortile, solo. - Il signor Gianmaria era venuto in carrozza - disse Bourrachot; - la carrozza svoltava già all'angolo della via... Mi sono messo a correre, ho chiamato, ma il vetturino non ha udito. - Presto! la cameriera!... - disse la signora Vialis; - il mio mantello, un cappello!... Corri a cercarmi un fiacre, Bourrachot!... Presto!... Presto!... Ah! mio Dio!... Non l'ho trattenuto, l'ho lasciato andar via!... Sì. L'aveva lasciato uscire... non l'aveva trattenuto!... Dove, dove sarebbe andato, Gianmaria?... Forse, balzando giù dal fiacre nella via affollata, si sarebbe precipitato sotto le ruote d'un omnibus!... Oppure, giunto alla Senna, vi si sarebbe gettato, dall'alto di un ponte! ... O sarebbe tornato a casa sua, dove... Una frase di Brierre de Boismont, sulla quale aveva meditato tante volte, le tornava in mente, testuale, mentre il fiacre procurato immediatamente da Bourrachot la porta va in via Villejust. Ella aveva dato questo indirizzo al vetturino... Solo in via Villejust, avrebbe potuto sapere qualche cosa, se... “La ripetizione ereditaria - dice Brierre - non si manifesta soltanto con la riproduzione dell'atto, ma spesso, dopo lunghi anni d'intervallo, con la copia più esatta del genere di suicidio” (BRIERRE DE BOISMONT, Du suicide et de la folie suicide, cap. I, pag. 18). La visione di Giovanni Vialis, ritto davanti allo specchio, con la canna della rivoltella puntata sulla frante, le s'imponeva, come un'allucinazione. Giungeva le mani, la poveretta, e ad ogni giro di ruota, pregava: - Mio Dio! Fate ch'io giunga a tempo! Finalmente, ecco l'Avenue Kléber. Come le sembra lunga la breve salita con cui la via Villejust s'apre su quella larga arteria! Ecco la palazzina. - Aspettate, - dice la povera madre al vetturino. Non dovrà in caso di disgrazia, correre subito altrove? Con voce strozzata, domanda al portinaio: È in casa, il signore?... Quella stessa domanda, la rivolse ventisette anni prima, al portinaio di via San Domenico, tornando dalla messa, il giorno in cui Giovanni Vialis si uccise... Se ne ricorda, e come le batte il cuore, all'udire la risposta, che è affermativa! “Pagate il vetturino” dice, senza badare all'espressione singolare della fisionomia di quell'uomo. Egli ha visto partire Sabina con le valige... poi Gianmaria lacerare febbrilmente la busta della lettera lasciata da Sabina... Naturalmente, quei fatti gli suggeriscono un'ipotesi che riassume a modo suo poco dopo, dicendo sua moglie: - Scommetto che la signora ha piantato il padrone, per andarsene con un amante! Guarda un po' come trotta la vecchia! Infatti la madre, fuori di sé, saliva correndo la scalinata d'accesso, poi le scale, coll'angoscioso timore di giungere troppo - tardi anche questa volta! - Il signore è nel suo studio... - le dice il cameriere, accorso, ad una semplice. scampanellata, sul pianerottolo del primo piano. Ella non guarda nemmeno quell'altro testimonio, né vede con quali occhi quell'uomo la osservi. In quegli occhi, c'è tutta la curiosità beffarda che hanno i servi malevoli per i drammi coniugali dei loro padroni. Per lei esiste un solo fatto: il domestico è lì; dunque non ha udito alcuna denotazione. Si slancia nel corridoio che conduce allo studio. La porta è chiusa a doppio giro di chiave. Ella bussa violentemente, con un'indicibile angoscia nel cuore.... Suo figlio le apre... forse obbedendo ad un riflesso meccanico, assolutamente incosciente, proprio nel momento di terminare i preparativi del suicidio!... Oppure, un'ultima e folle illusione gli ha suggerito che Sabina possa essere ritornata, pentita... Egli vede sua madre. Indietreggia... C'è una lettera, sullo scrittoio; una lettera ch'egli stava per chiudere... Lì accanto, la penna, deposta in quel momento... La madre si precipita, legge la soprascritta... La lettera è per lei!... Dalla serratura d'un cassetto rimasto semiaperto, pende un mazzo di chiavi che dondola ancora. La madre tira a sé quel cassetto, lo apre bruscamente... C'è un revolver, del quale s'impadronisce subito... E grida: - Anche tu!... Come lui!... Anche tu vuoi darmi lo stesso strazio!... Ucciderti!... Ucciderti! - ripete, fuori di sé. - E mi scrivevi... Come lui!... Come lui! ... Da quando ella era entrata, Gianmaria rimaneva ritto presso la porta, con le braccia conserte, con la stessa espressione di furore concentrato che aveva avuta mezz'ora prima, in casa di lei. La sua crisi di disperazione continuava. Delle frasi di sua madre, sì stranamente enigmatiche, e che avrebbero dovuto stupirlo, l'aveva colpito una sola parola, che s'accordava con la sua sinistra risoluzione... - Sì! voglio uccidermi! Soffro troppo!...Non posso sopportare ciò che m'ha fatto Sabina, ciò che m'hai fatto tu! Gli stessi dolori si manifestano con gli stessi gridi. Quel “soffro troppo”, quel “non posso”, erano parole d'agonia che la vedova del suicida aveva lette in quella lettera d'addio che aveva rievocata. - Ciò che t'ho fatto?... - gemette. - È vero... Tu non puoi capire!... S'interruppe. Lottò con sé stessa. Il professor Vernat le aveva tanto raccomandato di non parlar mai a Gianmaria del suicidio del padre, perché non ne avesse l'ossessione e non subisse la tentazione d'imitarlo!... Ma quel silenzio risultava inutile. Gianmaria non sapeva nulla di quel suicidio, e l'imitava!... Ella poteva parlare, ora... Poteva raccontare le sue angosce... E parlava... Nel confessare il lungo martirio, la sua voce diveniva tanto patetica! tanto commovente!... Era veramente un sospiro de profundis, era il lamento di un'anima scesa nell'abisso d'una pena senza rimedio, e che piange, e che compiange sé stessa, per tutto ciò che amò, per tutto ciò che ama. Gianmaria non l'aveva mai udita, quella voce di sua madre. E la sorpresa che ne provava cominciava a destarlo dalla sua frenesia… La madre gemeva ancora: - Eppure, mi hai vista vivere, figlio mio... Sai che non ebbi mai alcun pensiero che non fosse per te, alcun sentimento che non fosse per te!... Come hai potuto non pensare, poco fa, che tua madre, della quale certo non puoi dubitare, deve avere avuto una ragione molto, molto forte, per nasconderti ciò che ti nascose! ... Dovevi pensare che ho sofferto molto, sapendo quell'infame segreto e astenendomi dal dirtelo!... Sì! Sì, purtroppo!... La so già da tempo, la colpa di Sabina; so già da tempo la vergogna della nascita di Giulietta... e da tempo agonizzo dal dolore, e ne soffoco, e taccio!... Perché?... Perché, mi domandi?... Non hai dunque udito, or ora, il mio grido?..“Anche tu! Anche tu! come lui!...” Come lui... E non hai capito?... - Come lui?... - ripeté Gianmaria. - Ma di chi si tratta, mamma? Ella gli si era avvicinata, parlando, e dal suo dolore emanava come un fluido, che lo dominava... Dal suo dolore, dal suo volto in lagrime che si protendeva verso di lui, e da quegli occhi pieni d'una febbre d'angoscia, e da quelle mani che gli si contraevano sulle spalle e sulle braccia, e che ad un tratto ricaddero... La povera donna abbassava il capo, come impaurita dalle parole che pronunciava: , - Di tuo padre! Si tratta di tuo padre!... - gli rispondeva. - Di mio padre? - balbettò Gianmaria, in un sussulto di violenta sorpresa. Le braccia, ora, gli pendevano lungo i fianchi. La sua fisionomia era mutata. Egli guardava sua madre con una specie di stupore, simile a quello di chi riacquista i sensi dopo uno svenimento... E andava ripetendo: - Di mio padre?.. Ma dunque si uccise, mio padre?... - Sì, figlio mio!... Si uccise come ti uccideresti anche tu, in questo momento, se Dio non avesse voluto ch'io fossi qui! Ella si fece il segno della croce, chiudendo gli occhi, mentre grosse lagrime le scendevano sulle guance rugose, e continuò: - Ah! ho proprio dovuto dirtela, l'atroce verità!... Anch'io, soffersi troppo, quando fosti tanto crudele verso di me!... Nemmeno a me fu possibile sopportare che tu pensassi di me ciò che t'ho visto pensare!... Ma ora saprai tutto il martirio di tua madre, e saprai quanto ti abbia amato!.. E, ansante, come spaventata dalle proprie parole, soggiunse: - Sì, figliolo mio... tuo padre si uccise! In quali circostanze, lo saprai più tardi... Ciò che devi sapere subito, per conoscermi, per comprendermi, per compiangermi, è ciò che Vernat mi disse allora... Fu Vernat, che mi confortò in quei terribili momenti... Egli fu solo a sapere, insieme coi Bourrachot marito e moglie... Anche uno zio di tuo padre, anche altri tuoi parenti si erano uccisi... Vernat mi disse: “Avete un figliolo; salvatelo da questa eredità!” E da quel giorno la mia vita non ebbe più a1cun'altra mira, figlio mio, che quella di evitarti ogni dolore, di difenderti, di salvarti... Ma che cosa ho ottenuto?... - (Ella indicò il revolver, che aveva posato sullo scrittoio... Poi, riabbracciando Gianmaria, riprese): - Eppure, sì, ti ho salvato, poiché sono qui, poiché tu respiri, e mi odi, e mi baci!... (Gianmaria, infatti, l'aveva baciata) - Oh! grazie! grazie!... Ma ascoltami ancora... Ah! sono troppo commossa!... Mi manca la voce, mi mancano le parole... Ma se non ti spiassi tutto, in questo momento in cui mi ridai il tuo cuore e che forse non si ripeterà, quando quando, mi giustificherei?..“Anzitutto, ch'egli ignori il suicidio di suo padre!” mi aveva detto Vernat; e tu non ne sapesti nulla. “Abbiate ogni premura per lui; evitategli tutte le emozioni!”. Ed io ti tenni sempre presso di me, con infinito amore, e non ti misi in collegio, e ti feci studiare senza destinarti ad alcuna carriera... Se tuo padre non avesse avuto ambizioni, non sarebbe stato capo gabinetto di un ministro, non gli avrebbero rubata una carta affidatagli da un ministro... Si credette disonorato, per quel fatto, e... - (Ella indicò di nuovo l'arma, sul tavolo. ) Ma in questo momento, voglio parlarti soltanto di te... Fu per la stessa ragione, che quando volesti prendere moglie, la tua scelta mi afflisse tanto. Avrei voluto per te una moglie che continuasse l'opera mia. Non feci nulla, tuttavia, per impedire quel matrimonio, perché sentivo che eri profondamente innamorato. Ebbi paura che tu avessi a soffrire... Quando avevi negli occhi una tristezza, figlio mio, rivedevo lo sguardo di tuo padre, alla vigilia del terribile giorno, mentre cominciava a disperarsi! L'aveste quello sguardo appena ti feci qualche piccola obiezione allorché tu mi nominasti Sabina Lancelot... E poi ti sposasti. Mi fosti tolto. lo mi ritirai, tremando. Pensavo: “È felice; soltanto questo ha importanza... ”. Avevi già oltrepassata l'età in cui tuo padre si era ucciso, come già suo zio, Il buon dottor Vernat m'aveva detto che quello era il periodo critico, e che ormai ti considerava come guarito. Ora puoi capire… Mi sembrò d'impazzire, quando cominciai ad avere qualche sospetto dell'ignobile tradimento. Potevi indovinarlo anche tu!... Quanto io abbia sofferto negli ultimi cinque anni, lo sa soltanto il mio crocifisso!... I miei sospetti diventarono subito certezza. Non una volta, ma venti, ma cento, uscii di casa per venire da te con questo pensiero: “Se deve saper tutto, un giorno o l'altro, è preferibile che sia io, a dirgli tutto... ” Ma ti trovavo sempre tanto fiducioso! E dicevo a me stessa: “In realtà, non ho che qualche indizio... mi manca una prova innegabile... non ho visto nulla... ” E non parlavo. Ma venne un giorno in cui tu sospettasti la verità... E allora cominciò la tortura, per me... Tu mi rendevi presente, terribilmente, l'idea fissa che fu il tormento di tutte le mie ore, per venticinque anni!... Conosco sì bene tutte le espressioni del tuo viso! E ti vedevo una ruga in mezzo alla fronte, e vedevo contrarsi le tue labbra, e vedevo il tuo pallore!... Ora ciarlavi per stordirti, ora tacevi troppo. Le tue collere frequenti mi facevano male, e il tuo silenzio mi faceva paura! Ma poteva darsi che tu dubitassi soltanto, e che il tuo dubbio svanisse a poco a poco... Dirti il dubbio che avevo io, sarebbe stato un rischio eccessivo. Non osai... E poi, tu mi scrivesti quel giorno perché volevi parlarmi... Pensai che certo mi avresti interrogata su Sabina, sulla bambina... Che dovevo fare? Consultai Vernat, che mi disse: “A qualunque costo, risparmiategli ogni certezza dolorosa. Negate! Negate! Se è geloso, non può avere che dei sospetti. Se gli farete intravedere i vostri, moltiplicherete i suoi, e determinerete l'esplosione.” Queste furono le sue parole. Gli obbedii. Vernat mi aveva detto anche: “Parlate a vostra nuora. La fermerete, se non ha ancora oltrepassato il periodo delle civetterie.” Tu venisti da me; mi parlasti del disonore di Saintenois, di quel miserabile... Quel fatto, avrebbe determinata la fine subitanea della colpevole relazione! Così pensai, almeno, e mi sentii sicura che Sabina avrebbe avuto orrore di avere amato un truffatore. “Se si pentisse!... - pensai. - Se finalmente comprendesse la superiorità del cuore, dei sentimenti di Gianmaria!... ” Quanto dovetti soffrire, ancora, figlio mio, durante quel colloquio con lei, giungendo perfino a prometterle di difenderla presso di te, purché ti si riavvicinasse!... Sì, tutto... tutto: la menzogna, la vergogna, la complicità... tutto, piuttosto che... Ella aveva toccato l'arma rimasta sullo scrittoio, ed ora la spingeva verso suo figlio, mentre finiva la dolorosa confessione con questo grido straziante: - Adesso, figlio mio, fa ciò che vuoi! Ma prima, uccidi tua madre! Le farai meno male!... . - Mamma! - supplicò Gianmaria. Si era buttato in ginocchio davanti a lei, e, baciandole le mani, contemplandola, le ripeteva : - Mamma! perdonami!... Dimmi che mi perdoni!... Sono stato spregevole, poco fa... Ma, vedi, ero troppo infelice!... Pensare a Sabina, partita con quell'uomo... mentre credevo ancora in loro, malgrado tutto!... E pensare a te, mamma... a te che, m'ispirasti sempre tanto rispetto, tanta venerazione... dopo aver letto, in quella lettera, che sapevi tutto!... Avevo detto a me stesso. “Non è possibile! Se mia madre avesse saputo, mi avrebbe parlato!... ” Ma quando ho compreso, da te, che era vero, che tu sapevi, la mente mi si è oscurata, ho avuto una sensazione di vertigine, di crollo totale, di fine inevitabile, e poi... - (A sua volta indicò il revolver) - Ora, la luce è fatta. Ora capisco quanto fu dolorosa la tua vita e quali prove d'affetto mi desti sempre, ogni giorno, anche ieri!... Ah! mamma! Perdono! Perdono, per le parole che ho pronunciate, per i sentimenti che ho avuti!... Dimmi che mi perdoni, mamma! - Non posso! - disse ella, con un sorriso debolissimo, che però illuminò il suo volto immensamente triste. - Non ti ho mai giudicato colpevole... - E, stringendosi al cuore, appassionatamente la testa del figlio, soggiunse: - Ma tu, figlio mio, figliolo mio caro, giurami.... Gianmaria non le lasciò finire la frase, e, alzandosi, disse: - Che non farò come mio padre?… Te lo giuro, mamma! Aveva messo in quel giuramento una solennità singolare. S'avvicinò allo scrittoio, allontanò da sé il revolver con un gesto brusco, prese la lettera pronta lì accanto, la ridusse in molti piccoli pezzi che gettò tra le fiamme del caminetto. Quale contrasto, fra il suo furore di poco prima e la calma improvvisa delle sue parole e dei suoi gesti in quel momento!... Le grandi scosse morali producono talvolta simili mutamenti istantanei. Così la goccia d'acqua fredda spezza ad un tratto il fumoso getto di vapore. - La signora Vialis, affranta dall'emozione, si era lasciata cadere in una poltrona... Gianmaria le si sedette accanto, su una sedia bassa, e, coi gomiti sul bracciolo della poltrona della madre, con la fronte fra le mani con gli occhi di chi guardi nel più lontano orizzonte del proprio spirito, mormorò: - È strano, mamma... Ti ho sentita soffrire tanto, dianzi, che la mia sofferenza è come sospesa... E poi, questa rivelazione, questa cosa terribile che non avevo mai nemmeno sospettata... ! Mio padre, dunque, si uccise, e prima di lui si uccisero un suo zio, altri parenti!... E da trent'anni povera mamma cara, tu porti sul cuore il peso di questo segreto?... Bisognerà ch'io sappia tutto, di quella morte! Me l'hai promesso... Ma non ora. Sarebbe troppo!... Ecco dunque perché, nella mia vita, tante volte, quand'ebbi dei dolori, piccoli o grandi, pensai di andarmene per sempre! Mi sorgeva dal fondo dell'essere, quel pensiero! Mi attirava, e mi faceva paura... L'avevo dunque nel sangue!... Nell'estate scorsa, quando diventai geloso di quell'infame, come mi tentò, il gran sonno!... Un giorno, straziato, torturato, come stregato, passavo davanti al negozio d'un armaiolo. Eravamo stati a colazione fuori di casa, con Saintenois. Sabina e lui avevano parlato molto, fra loro. Per una specie di punto d'onore, non me ne ero interessato... Ma che crisi, dopo! Si ha una sensazione dolorosa, come di artigli che afferrino dentro, qui sotto al cuore... Mi fermai davanti a quel negozio. Impulsivamente, vi entrai. Comprai quell'arma. - Venni a casa. La caricai... Mi misi davanti a quello specchio e mi puntai la canna sulla tempia... Allora, una voce interna mi disse: “È una vigliaccheria, uccidersi!... È una vigliaccheria!” Gettai il revolver in un cassetto. Mi ero riavuto. Ma la tentazione mi riprese. Non c'è nulla d'analogo a questa vertigine. Dopo, ci si desta come da un delirio... Ora capisco bene. Era un'ossessione!... Mamma! tu mi hai liberato, esorcizzato, istantaneamente... È straordinario!... Quell'attrazione contro la quale dovevo lottare, si manifestava in me in accessi improvvisi, come una febbre. Non me la spiegavo. Non sapevo come combatterla. Tu ora, me ne hai dato il mezzo, mamma, rivelandomi la tua agonia... Basterà ch'io mi ricordi delle tue lagrime, del tuo grido!... Ah! perché non mi parlasti prima?... Il professare Vernat è un gran medico, ma s'è ingannato. Per vincere un'ossessione, bisogna anzitutto prevenirla, e per prevenirla bisogna conoscerla. Egli temette che l'idea di una fatalità potesse privarmi d'ogni forza su me stesso... Forse sarebbe stato così, se non avessi avuto in te, mamma, un punto d'appoggio... Capisci, ora, quanto sarebbe stato meglio se avessi saputo tutto?... Quando volli sposare Sabina, tu non avresti evitato di dissuadermene. L'amavo molto; ma amai sempre te, molto di più. Avrei pensato anche, comprendendo il tuo lungo martirio, che tu avevi diritto ad una nuora per la quale potessi avere dell'affetto... Oppure, se non t'avessi dato retta, e se le cose fossero andate allo stesso modo, tu non avresti dovuto nascondermi i tuoi sospetti, e, avvertito, avrei forse potuto togliere di mezzo il pericolo... Almeno, quando nacque la bambina, avremmo scoperto insieme ciò che indovinammo poi separatamente, soffrendo tanto. Avrei avuto la forza che ho adesso, da quando m'hai parlato. Infatti l'ho, questa forza... L'ho, e non la perderò più. Ti ripeto che mi hai liberato. Lo sento! - Ebbene, figlio mio, - disse la madre, - devi dimostrarmelo. Ella si era alzata, mentre suo figlio si confessava così, a sua volta, con una padronanza di sé, e con una lucidità che per lei, dopo la scena tanto recente di via San Domenico, era quasi miracolosa. - In che modo? - domandò Gianmaria. - Promettendomi, per le mie lagrime, poiché mi dici che t'hanno liberato, di fare per tuo figlio ciò che ho fatto per te. - Di vivere per salvarlo, anche lui?... Sì, vivrò e lo salverò. Ma a lui, appena potrà comprendere, parlerò come tu mi hai parlato ora. Ti ripeto che è necessario sapere, per lottare meglio. - Hai ragione tu, - disse la madre, dopo un silenzio, - e Vernat aveva torto. Lo credo. Lo vedo. Non c'è che la verità, che possa salvare... Sì, sapere come siamo, sapere ciò che abbiamo in noi, ciò che dobbiamo vincere in noi! Il povero piccino è già colpito da una sventura che a te non toccò. - La partenza di sua madre? - disse Gianmaria. Ed ella lo vide chiudere gli occhi. Era ripreso dal sentimento acuto della sua infelicità, rimasto sospeso, come aveva detto egli stesso? Si alzò, ad un tratto, e si passò le mani sugli occhi, come chi voglia scacciare un incubo. - Prendi! Porta via... - disse a sua madre, afferrando il revolver e introducendolo nel manicotto ch'ella aveva deposto su di un mobile. Poi, abbracciandola di nuovo:- Ti supplico ancora di perdonarmi, mamma!... Metteremo fra il mio dolore e me, il mio povero figliolo! ... Per uno di quegli sforzi che formano l'eroismo della vita domestica, un sorriso gli errò sulle labbra, dopo ch'egli ebbe pronunciate quelle parole tanto tragiche; e guardando la pendola, soggiunse: - Mezzogiorno e mezzo! Avevo ordinato che il piccino facesse colazione da solo... Dev'essere tanto triste, senza nessuno! Andiamo a metterei a tavola anche noi, mamma... Tu prenderai il posto di sua madre... - Sì, figlio mio. - E non soltanto oggi! - implorò Gianmaria. - Vorresti che venissi a vivere con te? - domandò la signora Vialis. - Sì, mamma. - Accetto, - disse ella, dopo un altro silenzio. - Anch'io devo liberarmi, devo dimenticare ciò che avvenne laggiù, in via San Domenico, e guarire la mia ferita che non cessò mai di sanguinare... Ti aiuterò, e tu pure, ora che possiamo parlare, aiuterai me. Ma, per finire... - Esitò, poi soggiunse gravemente: - Gianmaria, tu credi in Dio, non è vero? - Sì, - rispose lui, con uguale gravità.- In questi ultimi tempi; ebbi molti dubbi. Ma se Dio non esistesse, donde verrebbero le anime come la tua? Ripeté: - Sì, credo in Dio! - Dunque ringrazialo insieme con me della grande grazia che ci ha fatto, permettendo a tua madre di non giungere troppo tardi. Inginocchiati accanto a me, come facevi da bambino, mattina e sera. Insieme, domanderemo la forza di perseverare. Il figlio obbedì alla madre. Rimasero così per alcuni minuti, pregando in un silenzio di raccoglimento. Quando si alzarono, la signora Vialis disse a suo figlio: - Ho pregato anche per lei... per quella disgraziata... Indicava un ritratto di Sabina, che era sul caminetto. Vide che Gianmaria trasaliva, e appoggiandosi al suo braccio per trascinarlo verso la porta, disse ancora: Pensa alla frase riguardante il nostro Renato, da lei scritta nella sua lettera. Ad ogni modo, è sua madre... - E poi non sappiamo che sarà di lei... non sappiamo qual sorte l'aspetta... Verrà forse un giorno nel quale la compiangerai. XIII Epilogo. Il professor Vernat non lasciava passare giorno senza redigere qualche osservazione, fatta nel suo ospedale o fra la sua clientela. Tutti i grandi lavoratori intellettuali della sua specie hanno procedimenti propri, che rasentano la mania, per raccogliere e classificare le loro documentazioni. Vernat faceva intercalare dei fogli nei volumi della sua biblioteca professionale ai quali attribuiva maggiore importanza. Poi scriveva sulle pagine bianche i suoi appunti clinici, che così servivano di commento al testo stampato. Come si penserà, il dramma intimo che si era svolto sotto i suoi occhi in casa Vialis, l'aveva interessato troppo, perché non cercasse di estrarne il significato psicologico, o, per usare il suo linguaggio, psichiatrico. La nota nella quale compendiò le sue riflessioni figurava nel Trattato di medicina legale pubblicato - circa quarant'anni fa - da Legrand du Saulle, predecessore del giudizioso Paolo Garnier e del geniale Ernesto Dupré all'Infermeria speciale annessa al carcere della prefettura di polizia. L'undecimo capitolo di quell'opera già antica contiene pagine eccellenti, che riassumono i pareri della scienza d'allora sull'etiologia del suicidio. A fianco del paragrafo sull'Influenza dell'eredità, Vernat aveva tracciate le linee seguenti che si giudicò interessante trascrivere, nonostante la loro terminologia un po' astrusa e d'altronde molto arbitraria, come conclusione a questo racconto. Certo il professore teneva particolarmente alla sua formula personale sulle fatalità dell'atavismo, poiché aveva messo due titoli la quella sua nota; il primo, assolutamente tecnico. Terapeutica possibile del suicidio; l'altro, nel quale si ritroverà la sua metafora preferita: La breccia nella Prigione. Ma ecco la nota, alla quale egli aveva aggiunto in margine: “19041914. La guarigione sembra sicura”. Prova che quest'aggiunta è dell'ultimissimo periodo della sua vita. Egli morì nel mese di giugno del 1914. “Osservazioni su G. V. - Il padre si uccise nel 1877. Tentativo di suicidio del figlio, nel 1904. Determinazione improvvisa. Scatto, per effetto di una violenta commozione sentimentale, d'una tendenza certamente ereditaria. Numerosi suicidi nella famiglia: prozio, bisnonno, altri parenti. Nota bene: G., malato d'ansietà per tutta la vita, ignorò sempre il suicidio di suo padre. Dunque, nessuna influenza dell'imitazione per ossessione. Si accinge ad uccidersi come suo padre e suo zio, con un colpo d'arma da fuoco. Altro indizio di eredità: legge d'omoprassi. Shok nel momento stesso del tentativo. Sopraggiunge la madre. Scena fra madre e figlio, nella quale ella gli rivela il suicidio del padre, e gli racconta i ventisette anni di martirio impiegati a cercare di salvarlo dalla stessa fine. Rivoluzione nell'animo di G., dalla quale egli esce guarito (???). “Dati probabili della guarigione: - 1. Shok nel momento della crisi: È il fatto brutale del rovesciamento. Analogia con l'ipotesi di Brown-Sequard sui fenomeni di dinamogenia e d'inibizione per scossa delle regioni centrali. Conferma della mia teoria sull'ictus benefico, quando si sa darlo. “2. Effetto dello shok, prolungato dalla personalità della madre, la quale comunica il suo tonus alla personalità più debole del figlio. Caso d'interpsicologia (pithiatismo di Babinski?). Oscurità del processo, evidenza dell'azione prodotta: elevazione della tensione morale, quindi della resistenza vitale. Identità delle leggi della natura in tutti i campi. Frase di Pasteur: “Diminuite con un mezzo qualunque quella resistenza vitale che, notate, non ha nulla di astratto nei miei discorsi e rappresenta sempre una forma concreta, e vedrete quei microbi prima innocui, prendere possesso dell'organismo. Delle idee ossessionanti ereditarie considerate come bacini psichici.. “3. Guarigione consolidata da una miglior disciplina di lavoro. Guarigione dai pensieri neri per mezzo di uno scopo d'attività. Strano esempio citato da Brierre de Boismant: “Una persona che per un gran dolore era caduta in un'estrema disperazione, ne fu liberata dalla passione per gli autografi che venne destata in lei. ” In questo caso, vecchie ricerche di storia, riprese con successo. “4. Altra disciplina bene applicata: altruismo. Partecipazione di G. alle carità di sua madre. Contatto delle sofferenze fisiche, salutare per gli ammalati morali, che si dominano meglio paragonandosi.- G. arriva a riprendere con sé, dopo la morte della moglie, una figlia della quale seppe, con disperazione, che non era sua. Reazione in senso contraria. Oscillazione sconcertante. “5.Coadiuvante: rinascita di vita religiosa. “6. Singolarità del casa: la rivelazione, da parte della madre, del suicidio del padre, sembra abbia aiutata la guarigione. Fatto contrario all'opinione consueta. Problema: è preferibile far sapere ad un ereditario tutta la sua eredità? Altra analogia pasteuriana: questa nazione dell'eredità, che opera come un vaccino mentale e produce un'immunizzazione. Ricercare se il caso si verificò già, ed in quali condizioni... “Punti interrogativi: - a. Si avrà una ricaduta? Aspettiamo la prova. - b. Quid de filio? R. V. , figlio di G. ha quindici anni. Suo padre e la sua nonna vogliono rivelargli il male di famiglia quando ne avrà diciotto. Che cosa si deve consigliare? Questo angoscioso problema di coscienza medica, l'autore di quella nota senza conclusione non ebbe modo di risolverlo, poiché morì, come si è detto, nel giugno del 1914. In agosto, scoppiò la guerra. Gianmaria Vialis partì immediatamente, come ufficiale della riserva. Fu coraggiosissimo nei cinque anni di lotta, senza mai rimanere ferito. Anche suo figlio Renato volle partire, appena ebbe diciotto anni.- Non occorre dire che né suo padre né la sua nonna prima che partisse, gli gravarono il cuore del peso di un segreto che avrebbe rattristato il suo slancio giovanile. Egli non tornò. Rimase ucciso nel luglio del 1918, presso Reims, durante il terribile assalto dell'armata Berthelot contro l'ala sinistra tedesca. Una di quelle coincidenze commoventi, che esitiamo a considerare come dovute semplicemente al caso, volle che il caporale Renato Vialis e il tenente colonnello Giorgio Saintenois fossero nella stessa armata, senza saperlo. L'amante di Sabina fu ucciso in quello stesso giorno, da una granata, a trecento metri di distanza dal giovane al quale aveva, quattordici anni prima, rapita la madre. Quella morte eroica riabilitò definitivamente quel fuorviato d'un ora. Egli aveva mantenuto la parola data; aveva lavorato virilmente, guadagnando, negli Stati Uniti, tanto da poter pagare il suo debito verso il Circolo. Appena dichiarata la guerra, aveva abbandonato l'impresa d'allevamento, già importante che aveva fondata nell'Ovest. Rientrato nell'esercito col grado di capitano, ferito tre volte, caduto infine sul campo di battaglia, merita certamente che i fedeli del generale Saintenois, suo padre, l'associno, nonostante il suo errore, al pio ricordo che serbano di quell'ammirabile capo. Gianmaria Vialis affrontò, dunque, la prova attesa dal professor Vernat... E quale prova! La morte d'un figlio amatissimo, amorosissimo, nel quale aveva posto le sue più care speranze d'avvenire. Egli sopportò quel terribile colpo, cristianamente. Si sarà notato che in quella nota di un medico che s'impone di parlare dei fatti morali unicamente dal punto di vista clinico, la rinascita di vita religiosa, constatata nell'ereditario guarito, è citata come un coadiuvante nella guarigione. Ma che cos'è un coadiuvante, in terapeutica? È un rimedio ausiliare che favorisce l'azione della medicazione principale. Si è visto in che consistesse, nel caso in questione, per Vernat, la medicazione principale: - anzitutto, nella scossa, da lui chiamata shok per sottolineare la somiglianza che voleva stabilire fra la scossa puramente psicologica e lo shok chirurgico. Ma se la signora Vialis non avesse intimamente, profondamente impregnato suo figlio di quella, vita religiosa qualificata dall'ateo come coadiuvante, avrebbe potuto, quel figlio, ritrovarsi capace, dopo quella scossa inibitoria, di pregare con lo stesso fervore col quale poi si associò a tutte le carità di sua madre? Vernat aveva parlato d'altruismo, per non parlare di carità, perché gli ripugnava quella parola che si definisce: amore del prossimo in considerazione di Dio. Ma, sopprimendo ogni interpretazione mistica del dolore, come si può pretendere che un ammalato morale trovi un sollievo in un contatto con sofferenze tali da provargli maggiormente che la vita è un male e non merita d'esser vissuta? Come mai, anche, un realista come Vernat, che conosceva dall'origine l'intensità passionale del carattere di Gianmaria, aveva potuto annoverare fra le medicazioni principali di quel cuore frenetico la ripresa dei suoi lavori storici? Certamente, questi lavori furono per Gianmaria un rimedio contro la malinconia, tanto più che il suo soggetto primitivo, la modo grafia dell'ultimo duca del Nivernese, si ampliò. Egli si propose di scrivere l'intera storia di quel ducato, in tutte le sue vicissitudini, che ne fecero successivamente una provincia romana, un'appendice del regno d'Aquitania, un appannaggio delle dinastie dei Borboni, di Borgogna e di Fiandra, fino a quando Mazarino lo riscattò infine dai Gonzaga nel 1652. L'associarsi in spirito al destino di quell'angolo di Francia offre evidentemente un interesse diverso da quello che consiste nel riunire degli autografi. I due primi volumi di questa storia, che sarà completa in cinque, furono pubblicati uno nel 1911, l'altro nel 1913. La guerra sospese questa pubblicazione, che è già considerata come autorevole. Ma Vernat non immaginò mai quante volte l'autore interruppe il suo lavoro, posando la penna, chiudendo i documenti nelle cartelle, scoraggiato da uno studio tanto noioso! Per arginare l'onda di amari ricordi che sentiva rifluire dal fondo del suo passato, egli riapriva un libro assolutamente estraneo agli elementi di storia ammucchiati sul suo tavolo. Era semplicemente una Imitazione, avuta in dono da sua madre per la prima comunione. Egli stesso aveva scritto sulla prima pagina di quel libro: “Cristo è il Dolore. Il Dolore è l'Essere, nella verità del suo essere”, e vi rileggeva senza fine il capitolo dodicesimo del secondo libro sulla Via regale della Santa Croce. “Se qualcuno vuol venire con me, rinunci a sé stesso, sollevi la sua croce, e mi segua”.La medicazione principale è questa professor Vernat! Il rimedio ausiliare, il coadiuvante, - è il resto. Questa devozione, sempre più fervida, e rimasta uguale, nelle pratiche, a quella della madre, è la sola cosa che possa spiegare un mutamento che la nota del medico dichiara sconcertante: quello relativo a Giulietta, figlia dell'adulterio, affermata tale nella confessione scritta di Sabina. Si sarà capito, seguendo la nota, che la felicità sognata da quella sciagurata donna non era durata. Sabina aveva lasciato Parigi al principio del mese di novembre del 1904. Fu sepolta nel mese di gennaio del 1907, a Denver, dove Saintenois si era stabilito da principio. Una malattia infettiva l'aveva uccisa in pochi giorni. Contrariamente alle sue previsioni, nessuna domanda di separazione era stata presentata, né alcuna sconfessione di paternità, dal marito abbandonato. Si comprenderà che Gianmaria aveva pensato a suo figlio Renato, come nel passato sua madre aveva pensato a lui, con la ferma volontà di evitargli più tardi delle scosse troppo crudeli e le loro possibili conseguenze. Il ragazzo non aveva dimenticato né sua madre, né sua sorella. Non era preferibile che nessun documento ufficiale gli apprendesse mai, con indiscutibile certezza, ciò che i casi imprevedibili della vita avrebbero forse permesso di tenergli nascosto? Gli avevano detto - e tale era d'altronde la versione adottata per gli estranei - che una crisi di salute rendeva necessario l'isolamento di Sabina in una casa di riposo, all'estero, e che ella aveva condotto con sé sua figlia, e che tutt'e due sarebbero ritornate presto. Era giunta la notizia della morte, e Gianmaria aveva preso una decisione, che infatti era difficile concepire e sostenere, se non ricorrendo ad una di quelle ragioni, delle quali parla Pascal, che non sono comprese dalla ragione. Egli aveva rivendicati i diritti che il Codice gli dava su Giulietta, e il padre vero non vi si era opposto, o perché non avesse voluto un processo che certamente gli sarebbe stato sfavorevole, o perché, essendogli nota la nobiltà di carattere del suo amico d'altri tempi, vedesse in quel ritorno dell'orfana al focolare del padre legale la probabilità di un avvenire migliore. Egli stava dibattendosi, allora, fra tante difficoltà!... Gli era cosa sì dura acclimatarsi all'esilio, e le sue condizioni erano tanto precarie! ... Giulietta, dunque, era ricomparsa nel palazzo di via Villejust. È facile immaginare fra quali commenti, tanto più che l'odio della seconda signora Lancelot, la matrigna, aveva perseguitato Sabina anche nella sua figliola. Il vecchio Lancelot aveva rifiutato di vedere quella creatura, che era del suo sangue e che veniva raccolta da Gianmaria, solo legalmente suo padre. - È ricca, e i Vialis vogliono mettere le mani sulla sua sostanza. Queste ignobili parole, diffuse da tutte le signore Miossens, da tutte le signore Ethorel, e da tutti i Portille, erano state riferite a Gianmaria, che le aveva disprezzate. Ormai, quelle maldicenze sono lontane. Vicinissimo, invece, è il matrimonio di quella fanciulla (divenuta, dopo la morte di suo fratello, per le eredità future dei Lancelot e dei Vialis, un magnifico partito) con Andrea Moreau Janville, futuro erede, dal canto suo, delle Felnere della Rochelle. Alcune frasi scambiate, la sera di questo matrimonio, fra Gianmaria Vialis e sua madre, finiranno di spiegare con quale strumento fu aperta quella “breccia nella Prigione” della quale Vernat si era stupito. - Credi, mamma, - diceva Gianmaria dopo lunghi discorsi sulle probabilità di vita felice della giovane coppia, sulle buone qualità di Giulietta, su quelle di Andrea, tanto laborioso, tanto riflessivo e insieme tanto sensibile, - credi, mamma, che la sua lontananza sarà un gran sollievo, per me!... In quattordici anni, - (e cantava sulle dita) - non m'accadde mai di baciarla senza sentir male qui!. - (e si toccava il cuore. ) - Somigliava troppo a lui!... - Io lo seppi sempre, - rispose la madre, - e nemmeno. a me era cara la sua presenza... Ma abbiamo agito bene. Il nostro povero Renato, almeno, non ebbe mai nessun sospetta. Amava tanto Giulietta!... - Fu appunto per lui, per continuare, quando egli non fu più con noi, ciò che avrei fatto se fosse stata ancora qui, che io, ebbi la forza di non allontanarla... E poi, come è scritta in quella vita di Mollevaut che leggevamo insieme l’altro giorno: “il dolore equivale alla buona preghiera”... e noi abbiamo qualcuno che ha tanto bisogno che si preghi e si meriti per lui!.. Seguì un silenzio. Il “qualcuno” il cui fantasma risorgeva tanto spesso fra Gianmaria e sua madre, era il suicida del 15 ottobre 1877. Si ricorderanno le parole che disse Vernat la sera di quel terribile giorno: “L'eredità rimane il mistero dei misteri, mentre è la causa delle cause. Un prete la spiegherebbe con la reversibilità; io, invece, la spiego con l'evoluzione delle cellule”. Nel dogma della reversibilità, c'è però ben altro che la solidarietà fatale che collega in un organismo o in una specie le energie delle cellule viventi. C'è una solidarietà spirituale e creatrice, che, in questo mondo e nell’altro, consente alle anime di aiutarsi reciprocamente. La signora Vialis aveva vissuto di questa fede, e l'aveva comunicata. a sua figlio. Tutti e due conservavano la speranza che l'atto tragico che li aveva resi, lei vedova, lui orfana, avesse trovato grazia davanti alla Sovrana Giustizia, essendo stato commesso in un eccesso di smarrimento, e che il suo autore potesse essere salvo. L'immagine di quel padre che gli aveva trasmessa il funesto germe era sorta, ora, nella mente di Gianmaria. Egli era seduto presso lo scrittoio nel cassetto del quale, al momento della sua crisi, era stato in procinto di prendere l'arma carica, allorché sua madre era sopraggiunta. Guardò la buona vecchia, che mentre discorreva con lui, lavorava ad una maglia grigia, per un povero... Fu preso da un'inesprimibile commozione, s'impadronì di quelle venerabili mani, le baciò teneramente, religiosamente, e disse, riassumendo in una frase, senza saperlo, tutta la terapeutica del suicidio, della quale Vernat aveva sognato come tanti altri. - Mamma! come posso ringraziarti d'avermi salvato?.. - Io, no, figlio mio... Tu, da solo... - Sì! tu, mamma, insegnandomi col tuo esempio a saper soffrire e a dare un significato al mio dolore! Maggio, 1922 - gennaio 1923. FINE.