Self-portrait Robert Mapplethorpe, Ritratto Il grande scrittore

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Self-portrait Robert Mapplethorpe, Ritratto Il grande scrittore
Self-portrait
Robert Mapplethorpe, Ritratto
Il grande scrittore francese Michel Tournier ha osservato una volta che molto raramente i
maggiori fotografi scattano un ritratto fotografico di se stessi. L’affermazione è smentita
da non pochi esempi in contrario — e anche dall’esistenza di un curioso ritratto fotografico di
Tournier stesso, forse non un grande fotografo, ma certo un appassionato di fotografia e al tempo
stesso un critico attento dell’uso eccessivo e talvolta inquietante che la nostra società fa della
tecnologia fotografica. Quanto alla presunta o reale ritrosia dei grandi fotografi a farsi degli
autoritratti (self-portraits), Tournier ha proposto questa motivazione: «l’atto fotografico si
concentra in una frazione di secondo. È comprensibile che il fotografo esiti a puntare sul proprio
volto quella bocca nera che afferra e che trattiene con una rapidità folgorante». A me pare che si
possa forse trovare un’altra motivazione nel fatto che i fotografi, liberi di puntare quella bocca
nera su varie parti del corpo, hanno sentito il bisogno di differenziarsi dalla tradizione pittorica,
legata almeno a partire dal Quattrocento al rito di rappresentare la testa e la faccia, e al massimo
un po’ del busto, dei loro soggetti (e magari di infilare un proprio ritrattino fra gli spettatori di un
evento storico o religioso o fra i partecipanti a un corteggio signorile). Queste riflessioni mi
hanno fatto affiorare alla memoria un episodio di qualche anno fa. Eravamo a Bologna, in sede
accademica, e il rettore aveva invitato a tenere una lezione un famoso studioso americano
dell’arte del ritratto: la Portraiture. In prima fila c’erano molte signore della Bologna bene,
convenute per l’occasione. L’oratore ha chiesto di avere a disposizione un’aula con due schermi
video da usare contemporaneamente. Poi ha chiesto se il pubblico preferiva che egli parlasse in
inglese o in italiano. Subito tutte le signore in prima fila hanno gridato: «In italiano». «Va bene,
ma dovrete ogni tanto aiutarmi». Il primo ostacolo è stato su come tradurre in italiano il concetto
di selfness che sta alla base dell’espressione self-portrait. Qualcuna delle signore ha proposto,
poco convinta: «la stessità». Poi l’oratore si è lanciato in una lunga discussione su dove vada
collocata, nelle rappresentazioni della figura umana, la selfness del self. Certo, ha aggiunto, c’è
una lunga tradizione che privilegia la testa o il viso della persona ritratta. Ha ricordato, per
esempio, che presso i romani i fabbricanti di sarcofagi per le tombe dei defunti usavano
utilizzare, per il corpo disteso sul sarcofago, dei modelli tutti uguali, a cui di volta in volta
applicavano una testa con le fattezze realisticamente riprodotte del defunto. È seguita tutta una
serie di esempi, da varie tradizioni figurative e culturali e a un certo punto sui due schermi
appaiati sono comparse due immagini: da una parte il bellissimo, eroticissimo sedere di un uomo
fotografato da Robert Mapplethorpe; dall’altra il bitorzoluto organo sessuale di un uomo,
minuscolo e coperto da una selva di peli, fotografato da un poco noto fotografo inglese. In tutti e
due i casi l’immagine portava questo titolo: Self-portrait. Orrore delle signore in prima fila. Con
straordinaria rapidità di reazione uno dei grandi sofi presenti, offrendo una soluzione ai problemi
posti dall’oratore e attingendo al repertorio del linguaggio popolare, ha proposto, sotto voce, le
due didascalie più appropriate: «Faccia di culo» e «Testa di cazzo».