l`amichevole recensione di Aldo Prinzivalli
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l`amichevole recensione di Aldo Prinzivalli
ARABISMI Storie e suggestioni arabistiche di EROS BALDISSERA Cinque anni dopo ORIENTaleggiando e Assalto sul Nilo, mi immergo nella nuova – come la definisce l’Autore – “congiuntura intellettuale” del professore Eros Baldissera. Cinque anni possono essere tanti e pochi. Tanti per rinsaldare, consolidare un’amicizia ormai irreversibile con l’Autore. Pochi se si appartiene, come accade per ambedue, alla categoria degli umani con una innata propensione a centellinare il dialogo a favore del silenzio. A favore della riflessione. E’ un’opinione personale sì, ma avvalorata, se ce ne fosse ancora bisogno, dall’ultimo capitolo – Oriente e Occidente – del suo recente scritto ARABISMI, appena pubblicato e distribuito da Albatros di Roma. Come di consueto, con l’accompagnarsi di una copertina dai colori sempre assai suggestivi per di più impreziosita, questa volta, da un disegno autografato con data e dedica. Ma andiamo per ordine, iniziando dalle “suggestioni” omanite. Immagino che Egli, il narratore, docente di Lingua e Letteratura Araba all’Università “Cà Foscari” di Venezia, già consulente per l’epigrafia presso il ministero del Patrimonio Nazionale nel Sultanato di Omàn, abbia in mente con “suggestione” non tanto il condizionamento psichico verso fatti accadutigli quanto, preferibilmente, l’incanto e la seduzione, il fascino di vivere e rivivere a distanza un’esperienza di vita in Oriente e per l’Oriente, diventatogli ormai familiare quanto la sua amata al Bunduqiyya : la sua struggente ed unica città di Venezia. I cinque capitoli che narrano le suggestioni omanite, attraverso un lungo arco di tempo datato un decennio – Màsqat 1986/1996 –, hanno tuttavia, per il docente e ricercatore, un comune denominatore: lo studio epigrafico di antiche iscrizioni nelle lapidi tombali in zone estese presso i dispersi villaggi montani del Paese Omàn, ai confini dell’Oriente arabo. In queste sue indagini, quelle più remote nel tempo, egli è spesso affiancato da un ricercatore italiano, un consigliere in archeologia del ministro omanita della Cultura e del Patrimonio; in quelle più recenti, da un giovane omanita, studente universitario a Màsqat in Lettere e Archeologia. Non manca poi una collaborazione più o meno attiva della popolazione locale nei vari villaggi conosciuti o semplicemente attraversati dall’Autore, un aiuto reso indispensabile sia per i primi approcci geografici e topografici – gli ampi cimiteri da ispezionare venivano a trovarsi in aree alquanto estese e frammentate – che per la conoscenza dell’onomastica locale. Questo lavoro di ricerca, disagiato assai – e qui basterebbe accennare ai poco umoristici servizi igienici forniti, si fa per dire, da siffatta Nazione –, ci viene descritto, con il massimo della seduzione, narrando il ripetuto andirivieni per centinaia di chilometri con i fuoristrada, dal mare ai monti e viceversa, dai litorali sconfinati della Bàtina in mezzo a pescatori e uccelli marini in volo e dalle propaggini del deserto Wahìba che lambiscono il litorale, alle piste sabbiose e ai wàdi 1 accidentati, ripidi nei versanti montuosi, piste spesso secondarie, ingannevoli e pericolose, pronte a riempirsi d’acqua in seguito agli improvvisi rovesci piovosi, non rari nella giusta stagione in Omàn. Una suggestione anche di colori contrastanti, dall’ocra della terra e dei torrenti in piena, al ventaglio delle tonalità del verde delle coltivazioni e dei palmizi. Una suggestione in grado di trasformarsi all’improvviso in pericolo per gli esseri umani, sia diretto che indiretto tramite i mezzi di locomozione. Ma la costellazione Orione, quel faro, quella cuspide che orienta e protegge nelle nere e avventurose notti omanite, è tuttavia lì a rasserenare, a dare sollievo all’Autore. Fortunato tuttavia il Baldissera, l’aver conosciuto, seguito – e memorizzato nei fotogrammi – nelle sue più recenti trasformazioni, un Paese come il Sultanato d’Omàn, da sempre crocevia di etnie diverse nonché di immigrati, spesso miserrimi, dai vicini Continenti, dal Corno d’Africa all’India più meridionale e al Pakistan. Un Paese in grado di passare, in poco meno di un quarto di secolo, da una capienza di quattordici posti letto d’ospedale [sic!] ad un efficiente servizio di elicotteri, per trasportare i malati urgenti dai più remoti villaggi montani ai grossi centri ospedalieri della capitale Màsqat. E ancora, un Paese in grado di passare da un sistema d’istruzione di stampo ottocentesco – la scuola coranica del kuttàb – ad un piano di scolarizzazione con i criteri più moderni, e con gli immancabili docenti egiziani. Ho vivo ricordo degli anni in cui tanti di questi insegnanti egiziani lasciavano Il Cairo per recarsi appunto nei Paesi del Golfo, impegni forse non sempre accompagnati da gratificazioni professionali, tuttavia la loro lontananza dalle famiglie veniva quanto meno compensata da un trattamento economico assai diverso da quello consentito in Egitto. Incorniciati da questo lirico sfondo, si dispiegano i cinque brevi racconti omaniti del Baldissera: Alì ; al-Khuwayma e dintorni ; Wàdi l-Haymli ; Fuga da alHaymli ; Chicco. Il primo racconto narra che nell’antico Sultanato dell’Omàn, Paese delle contraddizioni, tra donne velate e computer, tra abitazioni in sarùj – costruite con paglia, fango e rami di palmizi – e videodipendenza, c’è ancora spazio per una morte dal sapore shakespeariano. Nel secondo nonché nell’ultimo non mancano gli episodi narrati di crudeltà nei confronti degli animali – le grandi tartarughe verdi rovesciate sul litorale dai pescatori quanto i cani bastonati, spesso a morte – un topos anche nel moderno mondo orientale, e già sottolineato dal sottoscritto in altre occasioni. Infine nei racconti di mezzo, ma anche in quello conclusivo di Oriente e Occidente, al senso della libertà come inteso dagli occidentali viene contrapposto spesso il senso dell’ospitalità del mondo orientale in grado di assumere i connotati, per il narratore, di una “prigionia in una gabbia d’oro”. Una ospitalità non onorata da parte dell’uomo occidentale può compromettere, anche definitivamente, un’amicizia di vecchia data. Ne scaturisce per l’Autore Il decalogo delle (piccole) libertà dell’uomo occidentale. Un decalogo che mette vieppiù a nudo il pensiero del narratore ma altresì, per riflesso, anche quello del mondo orientale. Quanto alla Storia siro-friulana di Delio Clapiz dico, battendo i pugni sul tavolo, che la trovo assai irritante quanto vera. Nella mia mente la avverto poi come un fatto già accaduto in passato – con modalità se non proprio uguali, simili – ad altri operatori di imprese italiane all’estero. Purtroppo! Storie che hanno poi avuto anche 2 degli strascichi pesanti nell’ambiente familiare dell’emigrato o del lavoratore all’estero. Ma qui di autorevole c’è anche il contenente oltreché il contenuto, la forma oltre alla sostanza, un dettagliato quanto realistico racconto non disgiunto da momenti di ironia: […] una chiostra di denti gialli che sembravano di plastica scadente […] il sorriso giallo a trentadue denti finti […]. Sorprendente poi la descrizione fisica del volto del laido direttore del carcere: […]su cui s’appoggiava un naso che sembrava una composizione di piccole patate […]. Un medico che legge fa subito diagnosi di rinofima! Un cenno infine alle altre due storie: Rita e Gorzi (?). Il breve racconto Rita – il più doloroso e amaro tra quelli narrati – potremmo anche definirlo il meno orientale della raccolta. Se sostituiamo il “marito orientale” semplicemente con il “marito”, il racconto Rita potremmo con tutta tranquillità sottotitolarlo (o titolarlo) con il già sperimentato, e con successo in Occidente proprio dal pubblico femminile – ma il motivo più intimo di questo aberrante successo mi sfugge –, “Uomini che odiano le donne”. Entreremmo cosi, di buon diritto, anche nel mondo occidentale di oggi. Di sempre. Nel mondo tout court. Il secondo dei due brevi racconti: Gorzi (?). Un incontro casuale nello scompartimento di un treno, diretto da Venezia a Milano, tra il narratore e la giovane e attraente ragazza nera. Un racconto con un humour decisamente anglosassone. Ma con delle peculiarità italiche e personali. Quelle italiche? E’ presto detto: gli italiani, anche in treno, non sono in grado di rispettare il prossimo sedendosi nel posto assegnato loro dalla prenotazione, per cui ci si siede e ci si alza di continuo, come in una commedia napoletana, in linea retta come in obliquo, come pedine manovrate in un gioco a dama. Più humour di cosi! E le peculiarità personali? Anche qui, è presto detto. Il pronto scatto fotografico del narratore. Ovunque e comunque. Reale o immaginato. Difficile credo per l’Autore separarsi dalle “borse fotografiche”, da sempre, per lui, veri e propri attrezzi del mestiere. Anche nei momenti di maggiore pericolo, mentre guada i wàdi omaniti e trovasi costretto ad abbandonare all’improvviso il fuoristrada. Parafrasando l’Autore Eros Baldissera, “dopo quarant’anni di vita <arabistica> viaggiando nel Mondo arabo”, questo patrimonio fotografico viene ad assumere oltre ad un valore professionale per studenti e docenti, anche un significato storico dal forte impatto emotivo. Le tredici immagini fotografiche scelte dal narratore e inserite a fine testo costituiscono un esempio di questa valida quanto durevole testimonianza. In appendice, credo fare cosa gradita, al Baldissera e a chi mi legge, riportando qui la (parziale) narrazione di una tappa in Omàn di uno tra i più grandi viaggiatori arabi del mondo musulmano classico: il maghrebino Ibn Battùta. Nella sua vita Ibn Battùta totalizzò all’incirca un quarto di secolo in viaggi e l’Omàn fu una tappa compiuta, da giovane trentenne, all’inizio del terzo decennio del XIV secolo. Ibn Battùta raggiunse l’Omàn provenendo dall’Africa orientale e dal “litorale dell’incenso”, il Hadramawt, nello Yemen attuale. Da qui navigò fino all’isola di Masìra, nel Mare arabico, e poi approdò a Sùr, nel Golfo di Omàn. Dopo sei giorni di marcia nel deserto, nel settimo raggiunse, ai piedi dei monti, Nazwà, allora la capitale 3 dell’Omàn. Racconta Ibn Battùta nella sua Rihla comunicata al suo Rustichello andaluso: […]La maggior parte dell’Omàn è posta sotto il governatorato di Hurmuz […]L’Omàn è un paese fertile, irrigato da corsi d’acqua e ricco in alberi, frutteti e palmizi. Cosi pure attorno a Nazwà, la capitale. La città ha bei mercati e moschee superbe e pulite [Per contrapposizione alla sporcizia, di uomini e ambienti, riscontrata nei villaggi marini dello Hadramawt e del Hurmuz: Ibn Battùta fu molto sensibile e attento all’igiene, e pure un antesignano ecologista]. Gli abitanti hanno l’abitudine di mangiare nei cortili delle moschee, e i viaggiatori vi si accomodano. Nella contrada, gli abitanti sono coraggiosi e la guerra è sempre accesa tra di loro. Sono di rito ibadita e celebrano quattro volte la preghiera del venerdi, a mezzogiorno. Nel sermone dell’imam si chiede a Dio di essere soddisfatti di Abù Bakr e di ‘Umar. Non citano ‘Uthmàn né ‘Alì, quest’ultimo viene denominato semplicemente“l’uomo” […] Le loro donne sono prive di vergogna, senza che per questo gli uomini ne abbiano a provare gelosia o a biasimare la loro condotta […]. A questo proposito Ibn Battùta annota il seguente aneddoto. […]Mi trovai un giorno al cospetto di Abù Muhammad ibn Nabhàn, sultano dell’Omàn dalla buona moralità […] una giovane e bella ragazza dal faccino incantevole gli si presentò e gli disse: “Il demonio mi mette la testa in ebollizione”. Rispose il sultano:“ Va e caccialo questo demonio!”. Disse la giovane: “Non posso. Sono sotto la tua protezione, Abù Muhammad”. “Allora, va e fa quello che ti pare meglio”, aggiunse il sultano. […] Mi raccontarono in seguito che questa ragazza, come le altre, erano sotto la diretta protezione del sultano potendo cosi concedersi impunite alla sregolatezza, né i loro padri, né un parente prossimo avrebbero potuto manifestare gelosia del loro onore; se l’avessero ammazzata, sarebbero stati condannati a morte poiché esse erano sotto la tutela del sultano […]. Dopo la tappa in Omàn, Ibn Battùta proseguì per Hurmuz, spostandosi poi nel Fars iraniano e verso l’Oriente estremo. Aldo Prinzivalli 4