Intervista a Gianmartino Durighello

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Intervista a Gianmartino Durighello
COMPOSITORE
aneliamo alla bellezza
Intervista a Gianmartino Durighello
a cura di Manolo Da Rold
versione integrale dell’intervista pubblicata nel numero 45 di Choraliter
Gianmartino Maria Durighello è stato per me, al di là
dell’amicizia ormai ventennale, un modello di riferimento
musicale e umano. Essere stato allievo prima e amico poi,
mi ha permesso di conoscere questo mio conterraneo
sotto molteplici aspetti: in lui si sintetizzano perfettamente
ispirazione musicale, fede, originalità stilistica e amore
per la vita e per il prossimo. Questa intervista mi dà
l’opportunità di approfondire alcuni aspetti legati alla sua
formazione, ma soprattutto al suo pensiero musicale che
forse a qualcuno restano ancora sconosciuti.
Carissimo Gianmartino, il nostro colloquio si divide in due
parti la prima è dedicata alla tua storia di musicista, la
seconda al pensiero filosofico e teologico che si cela nella
tua produzione musicale.
Sei nato in una famiglia di musicisti, tuo padre Martino
è un direttore di coro e organista e appassionato di
etnomusicologia, ovviamente tutto questo ha favorito la
tua precoce crescita artistica. Quali sono state le tue prime
esperienze musicali?
Certo, l’ambiente familiare è stato indubbiamente
importante. Ma contrariamente a quanto si potrebbe
pensare, non ho iniziato presto gli studi musicali. Anzi, agli
inizi non ero additato in famiglia come quello che avrebbe
studiato musica. Ero incostante e, anziché studiare,
componevo canzoncine. Poi le distribuivo a fratelli e
genitori e organizzavo un festival domestico al quale non
so perché vinceva sempre mia mamma. Amo ricordare la
tanta musica d’assieme fatta in famiglia. Con i genitori
e i fratelli cantavamo e suonavamo un po’ di tutto. Il mio
primo strumento fu… un’armonica a bocca (vinsi anche un
concorso del dilettante). E a volte penso che vorrei portarmi
proprio l’armonica in Paradiso. Una sedia a dondolo e
una armonica a bocca. Soltanto con gli anni del liceo
iniziai lo studio del pianoforte. Fu mia mamma a volerlo.
Contemporaneamente suonavo in chiesa e anche in un
complessino per il quale componevo le mie prime canzoni.
Sei stato fondatore e direttore di un coro polifonico per
molti anni, attualmente dirigi il coro del Conservatorio di
Castelfranco Veneto, istituto in cui sei docente. Quanto e
come ha influito l’essere direttore di coro nel tuo cammino
di compositore?
Oh, molto. La musica che ho respirato fin da piccolo era
anche tanta musica per coro. La schola cantorum e il coro
di mio padre, soprattutto. Non ho mai scritto però per il
mio coro, il Nuovo Rinascimento. L’ho fatto per i ragazzi del
Conservatorio, perché mi sono accorto che la cosa piaceva
loro e che entrava positivamente nel nostro rapporto.
CHORALITER n. 45 - settembre-dicembre 2014
Quanto ha influito l’essere direttore con il mio cammino
di compositore? Lo strumento che suoni interagisce con
il tuo pensiero. Faccio un esempio. Se per scrivere una
lettera scelgo la penna stilografica, piuttosto che la biro o il
computer… sarà sempre una lettera diversa, nel contenuto
e nello stile, a seconda del mezzo che uso. Figuriamoci in
musica. Dirigere un coro e lavorare come insegnante di coro
a contatto con centinaia di adolescenti e giovani ha influito
certamente sul mio modo di essere, di sentire e di pensare.
Non credo sia eccessivo dire che, quando penso, spesso
penso in modo… corale. E vorrei poter dire anche che penso…
giovane. Speriamo che sia così, almeno un po’.
Didatta, professore di scuola media prima, insegnante di
conservatorio poi, docente a numerosi corsi di direzione di
composizione e di musica liturgica, anche questo ruolo ha
influito nel tuo linguaggio musicale? Lo ha forse reso più
didascalico o ti ha portato a delle scelte particolari?
Indubbiamente ha influito. Non saprei dire se sul
piano didascalico, oppure no, ma su quello relazionale
certamente sì. Ho cominciato a insegnare all’età di 19
anni. L’insegnamento è stato per me luogo privilegiato di
incontro e di relazione. Molti degli allievi di un tempo sono
diventati i miei amici di oggi. Ho imparato l’entusiasmo
e a cercare di condividere entusiasmo. L’insegnamento
tiene vivo il bisogno di essere entusiasta e di condividere
entusiasmo, cercando sempre l’incontro, la relazione e il
risultato d’assieme.
Ti chiedo tre nomi, tre punti di riferimento nella tua storia
di musicista; tu sei didatta direttore e compositore e
quindi ti chiedo a quali figure ti sei ispirato nei tre diversi
ambiti.
Oh, quanti nomi dovrei fare. Ne scelgo tre di persone non
più in vita…
Per la didattica Roberto Goitre. Devo anche a lui se ho
iniziato gli studi in conservatorio. Frequentavo il liceo a
Piacenza e “scoprii” che lì insegnava Roberto Goitre. Di lui
mi parlava con entusiasmo mio padre, che lo contattò e
gli chiese di aiutarmi a realizzare il mio sogno… E così fu.
Il mio primo vero “libro di solfeggio” e cultura musicale
fu per anni La Cartellina da lui fondata. Morì l’anno in cui
conseguii la maturità liceale e lasciai Piacenza per tornare
al mio paese. L’anno successivo insegnavo Educazione
musicale alle scuole medie, e i suoi scritti furono
fondamentali per me e per il mio lavoro.
Stavo svolgendo il servizio militare a Belluno e mi
preparavo a realizzare un altro sogno, quello di fondare un
coro nel paese dove insegnavo. Era un sogno che qualche
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anno prima avevo condiviso con alcuni ragazzi delle medie.
«Fra qualche anno – dissi loro – verrò a trovarvi e faremo
un coro». Aspettavo il momento giusto e ora quel momento
era giunto. A Belluno avevo chiesto a mons. Sergio Manfroi
il permesso di assistere alle sue prove. In quegli anni il
coro CTG di Belluno era l’unico coro misto in provincia a
praticare musica polifonica. Mi affascinava di don Sergio
una capacità che non trovavo in tutti, ossia quella di saper
differenziare l’interpretazione a seconda della tipologia
del brano, della sua epoca e del suo autore… Alla fine del
servizio militare convocai quei ragazzi e altri del paese, e
vennero davvero in tanti. Cominciammo l’avventura. Una
avventura che continua felicemente ancora oggi sotto la
guida di Gilberto Meneghin.
Per il compositore vado un po’ più indietro fino a Gustav
Mahler. Quando frequentavo le scuole medie trascorrevo
dei periodi d’estate in Val Pusteria. Passeggiavo nei boschi
tra Piandimaia e Dobbiaco con il mio quadernetto in mano
e un flauto dolce, e… componevo. Un giorno mi imbattei
nella capanna dove Mahler scrisse alcuni tra i suoi ultimi
capolavori. Fu un incontro che mi riempì di emozione.
Cercai discografia di Mahler, ma in quegli anni non fu così
facile per me trovarne. Trovai finalmente i Kindertotenlieder
in appendice a un 33 giri di Lieder di Brahms e poi al
liceo registrai dalla radio la sinfonia Il Titano (mi fingevo
ammalato e mi facevo prestare da un compagno la radio,
così passavo l’intera mattina ad ascoltare e registrare
musica). Per anni furono questi i miei ascolti quotidiani. Di
fronte a quella capanna il mio desiderio di scrivere musica
si accese definitivamente. Fu per me un’emozione ancora
più grande qualche anno fa quando Tarcisio Dal Zotto con
il suo coro eseguì il mio Trittico Ungarico alla sala Gustav
Mahler di Dobbiaco.
Che rapporto hai con il canto popolare e con la tradizione
corale alpina?
è parte di me. Ritornando ai canti e alla musica fatti in
famiglia, ricordo tanto canto popolare. Dalla viva voce
dei miei, e in due libriccini, uno del Piglia e un altro dello
Schinelli, che raccoglievano melodie popolari italiane.
Quindi la biblioteca di mio padre, il repertorio del suo
coro, ma anche alcuni altri testi. In particolare un libro di
Paolo Bon Cronache di esperienze corali. E poi i concerti
e le rassegne corali… Anche da insegnante alle medie il
bagaglio primo cui attingevo era questo mondo stupendo. E
più ancora i miei boschi e le mie montagne, teatro dei miei
giochi, che nei solchi delle trincee e nelle grotte portano
inciso il ricordo della guerra e dei suoi canti. Così, anche se
non è esplicitamente molto presente nella mia produzione,
il canto popolare di tradizione alpina si fonde con la mia
infanzia e con la mia terra, e lo sento profondamente parte
di me.
Mi è capitato recentemente di studiare con i ragazzini
del mio coro di voci bianche (che guarda caso è intitolato
a Roberto Goitre) della bellissima musica da te scritta
CHORALITER n. 45 - settembre-dicembre 2014
per questo tipo di organico, l’ho trovata estremamente
gradevole. Qual è il tuo rapporto con il mondo dei bambini
e dei cori voci bianche?
Ho lavorato anche con i bambini, ma soprattutto con
ragazzi e adolescenti, e amo particolarmente il suono
vocale dell’adolescenza. La mia prima attività con bambini
e ragazzi è stata, come per molti, quella ludica in campi
estivi parrocchiali e in colonie marine. Ne ho ricavato un
grande amore per l’esperienza globale e universale che
rimane una mia caratteristica. Globale (nel senso di una
attività che unisca al canto il gioco, la drammatizzazione,
il mimo, dando vita a storie, leggende, fiabe, racconti…) e
universale (nel senso di cercare il coinvolgimento di tutti
i ragazzi, soprattutto quelli con problematiche di vario
tipo). Quando ho iniziato a insegnare alle medie, questo
era il mio modo di essere. E, come accennavo, con alcuni di
quei ragazzi che sono poi diventati miei amici ho condiviso
anche fuori scuola esperienze simili, eravamo guidati dal
motto: «In principio c’era l’entusiasmo». O quest’altro:
«Teniamo viva la fantasia, per rendere fantastica la vita».
Quando sono passato dall’insegnamento alle medie a
quello in conservatorio ho pian piano chiuso un rapporto
diretto con i bambini, salvo qualche piacevole rimpatriata.
Sono stato però invitato a scrivere per cori di voci bianche
o giovanili o ancora per le scuole. Penso ai lavori scritti
per i ragazzi di Amedeo Scutiero, Cinzia Zanon e altri…
E devo dire che uno dei lavori che considero tra i più
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rappresentativi di me e della mia produzione è proprio
un’operina, una leggenda in musica, I monti pallidi.
I ragazzi portano in me anche le prime dolorose ferite.
Frequentavo il ginnasio quando una mia compagna
d’infanzia fu trucidata dal padre. Poi, nei primi quattro anni
di insegnamento alle medie, mi morirono quattro ragazzi, in
eventi tragici. Quasi come un grido disperato scrissi allora I
me mor (Mi muoiono). I ragazzi per me sono anche questo.
Il mio primo drammatico incontro con la morte.
Scrivi solamente musica corale o ti capita di lavorare per
strumenti o ensemble?
No, non solo musica corale. Sai, la maggior parte del lavoro
si fa su commissione, e la maggior parte delle commissioni
mi vengono dal mondo corale. Comunque devo ammettere
che la mia produzione cameristica nasce generalmente
da precedenti lavori corali. è il coro il primo luogo della
mia esperienza compositiva. A volte capita addirittura
che il committente mi chieda esplicitamente un brano
che faccia riferimento a opere corali da lui ascoltate. è
il caso ad esempio di Sèfer Torah, per chitarra, inciso da
Alberto Mesirca in Ikonostas, Disco d’oro al Pittaluga nel
2007; o le Meditazioni per due fisarmoniche scritte per
il duo Dissonance, rivisitazioni di Gaudens Gaudebo e di
Dies irae. L’ultimo mio impegno nel campo della musica
strumentale è un Concerto per saxofono e orchestra
d’archi, Jerushalaim, di prossima esecuzione. Un sogno?
Rivisitare i miei motetti più significativi per un piccolo
organico cameristico.
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Sai come la penso: homo faber fortunae suae. Il successo
non avviene per caso o per coincidenze fortunate,
l’avvenimento importante ha i suoi effetti sul futuro
dell’individuo solamente se quanto viene proposto è
di qualità. Vorrei sapere quindi, oltre ai riconoscimenti
concorsuali, quali sono stati gli eventi che ti hanno portato
a essere così eseguito anche fuori dai confini nazionali?
Importante è indubbiamente la pubblicazione e soprattutto
l’inserimento di una composizione come brano d’obbligo in
concorsi di esecuzione corale o in corsi di formazione. Non
finirò mai di ringraziare Giovanni Acciai per aver creduto
in me e nella mia musica fin dagli inizi, quando ancora
pochi mi conoscevano. Egli ha curato il mio primo volume
di Motetti per la Suvini Zerboni con una prefazione che
conservo sempre nel cuore, e ha inserito diversi miei brani
in vari concorsi corali, come il Festival di Riva del Garda.
Avevo da poco vinto il concorso di Loreto per una Messa in
occasione del VII centenario della traslazione della Santa
Casa. Non ho partecipato a molti concorsi, cinque in tutto
e sempre in circostanze particolari, ma sono stati molto
importanti. In particolare l’esecuzione in diretta RAI della
Messa di Loreto (1995) è stato un evento molto importante.
Molti cori erano esteri e da questi sono venute le mie prime
commissioni. La trasmissione televisiva e/o radiofonica è
chiaramente un’importante occasione di diffusione: tra le
più recenti l’inserimento di un mio brano insieme a quelli
di altri di autori contemporanei italiani in un programma a
cura di Marco Berrini trasmesso dalla Radio Svizzera.
Ci sono poi alcune commissioni per eventi particolari
che hanno un forte impatto sulla diffusione dell’opera o
comunque sul far conoscere un autore. Penso ad esempio
alla Messa Audi filia per coro e banda, scritta in occasione
dei festeggiamenti per il passaggio di millennio per il coro
Gialuth di Lorenzo Benedet, e recentemente riproposta
nella riduzione coro e organo da parte del compianto
Massimo Nosetti.
Penso ancora all’inserimento di un brano in corsi di
formazione per direttori. Qui la composizione passa
direttamente nella mano del direttore. Sono, infatti, i cori
stessi, con le loro esecuzioni, che fanno conoscere un brano.
E il brano comincia la sua vita fuori dal cordone ombelicale
dell’autore. E la musica se deve diffondersi si diffonde. Ne
sei testimone tu stesso, con il tuo coro. Ci sono partiture che
“girano” ancora sulla fotocopia del manoscritto originale, nel
quale risalta la viva scrittura a matita.
Porti su di te una particolare etichetta, quella di
compositore minimalista. Alcune biografie e alcuni critici
ti citano sovente come rappresentante della musica
minimalista in Italia, condividi questa analisi? Se sì, quali
sono le cose che ti accomunano con altri compositori di
questa importante corrente di pensiero?
Ero in conservatorio, in un momento di pausa, e stavo
rileggendo un mio lavoro per organo appena ultimato.
Un allievo entra, ascolta e mi dice: «sei anche tu un
minimalista?». Fu la prima volta che mi sentii così
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etichettato. Poi, come dici, me la sono vista un po’
dappertutto questa etichetta. Devo ammettere che
non sapevo neanche troppo bene cosa significasse il
termine minimalismo. Un termine oggi impiegato come
un ricettacolo molto ampio, e spesso a sproposito. Non
tutta la mia musica può dirsi minimalista in senso stretto,
ma devo dire che questa etichetta mi piace e la trovo
rispondente a una parte di me e della mia produzione.
Sono arrivato a questo per una via diversa da quella che
si può immaginare. Non ascoltavo né leggevo musica
minimalista. Ripeto: sono gli altri ad avermela poi fatta
conoscere. Cercavo un linguaggio che mi fosse proprio,
e mi stava stretto quello dell’avanguardia dal quale
per un certo senso provenivo. Miravo cioè a un modo di
esprimermi che rispondesse a quello che ero, alla mia
fede innanzitutto, e a come cercavo e cerco di viverla.
Anche se in senso diverso da quello che originariamente
il termine voleva significare, mi sento minimalista nella
ricerca della sobrietà e della riduzione del materiale
musicale in funzione espressiva. L’uso della ripetizione
ritmico melodica, soprattutto in cellule modali, mi consente
di muovermi in una ricerca compositiva che risponde al
mio essere «sfociando – come disse un allievo a un corso
– in una stasi dinamica o un movimento statico». Devo
riconoscere che sono io, desideroso di contemplazione e
insieme immerso nell’azione.
Cito testualmente da uno dei tuoi libri Il canto è il mio
sacerdozio, Padova, Armelin Musica, 1997 «se davvero
riuscissi, insegnando a cantare, a predisporre i nostri
cuori all’Amore, così che fede e carità si fondino e la vita si
faccia culto». Queste parole mi hanno fortemente colpito.
Per te, dunque, il “fare musica” è un mezzo, non un fine
ultimo. Puoi spiegare questo tuo pensiero?
Nel canto e nell’amore è difficile separare il mezzo dal fine.
Credo che, nella nostra imperfezione e nei nostri errori,
tutti in fondo cerchiamo questo: amare ed essere amati.
Credo che la spirale della nostra esistenza stia qui. «è
dinamica, sprigiona vita, l’essenza del canto. Strettamente
legato alla vita, il canto spinge ad amare, a concepire la vita
come amore», scrivo ancora in quel libro. Il canto allena ad
amare. Amare ti spinge a cantare, sfocia nel canto. Il fine
di tutto credo sia un grande Silenzio nel quale amore e
canto si fondono, mezzo e fine si identificano. Un Silenzio
frutto melodioso di vite cantate. Guardo con commozione
i grandi santi della carità, Teresa di Calcutta su tutti, ma so
di non essere come loro. Nel mio piccolo, però, mi scopro
insegnante e comprendo che insegnare a cantare in coro è
educare all’amore. Un mondo che canta…
Il tuo cammino spirituale corre a braccetto con la tuo
essere musicista. Giovanni Maria Rossi nella prefazione
al tuo libro che ho appena citato scrive: «Il canto-suono,
che è già dentro la persona umana dove lo spirito grida
con gemiti inesprimibili, deve sfociare in un atto di “fede
vitale”». Secondo te la musica, intesa come anelito alla
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Bellezza Assoluta, è come imprigionata dentro di noi e sta
a noi liberarla per compiere un cammino di fede?
Tu sei il felice papà di Benedetta, una adorabile bambina.
Bene, quando il bambino è nel grembo della mamma è
forse imprigionato? San Paolo paragona la creazione alle
doglie del parto. Credo che la nostra esistenza si svolga
come in un grembo, il grembo di Dio. Ogni nostro canto
esprime lo scalciare del bimbo nel grembo, la sua voglia di
venire alla luce. Ogni nostro canto esprime il vagito, il grido
del neonato che viene alla luce. Diciamo il nostro disagio,
ma anche la nostra volontà di vivere e di essere alimentati
alla vita. Ed è per questo che il nostro canto si placa nel
silenzio, quando siamo abbracciati al petto della mamma.
La musica non è solo anelito, è anche all’origine della
Bellezza. Nel racconto della creazione Dio “disse” e il
mondo prese vita. E Dio vide che era cosa “bella” (questo
il significato letterale). Con il suono della sua voce Dio
dà vita alla Bellezza. La nostra musica è sì anelito alla
Bellezza vera, ma nello stesso tempo facendo musica noi
continuiamo l’opera creatrice di Dio. Aneliamo alla Bellezza
generando bellezza.
Perché il creato porta in sé l’impronta del suo Creatore. E
l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio. Per questo
siamo invitati ad ascoltare il suono che è in noi. Liberarla,
la musica, – come tu dici – significa accettare di vivere il
dinamismo della creazione. Allora, se è vero che il grembo
non è un carcere, è anche vero che grazie alla musica ciò
che appare come un carcere può rivelarsi un grembo.
Spesso nella tua musica si celano dei significati simbolici
che, a quelli che come me amano particolarmente la
teologia, si rivelano con gradualità durante lo studio
dei tuoi brani; è una sorta di cammino escatologico che
prepari volutamente per gli esecutori o il rapporto con il
symbolum è una tua fondamentale dimensione spirituale?
Sì, il simbolo è una dimensione molto importante per me.
Nei miei primi lavori la dimensione simbolica era per lo più
limitata al rapporto testo-musica sulla scia della tradizione
gregoriana e motettistica. Con il tempo tale dimensione
si è fatta molto più presente investendo la composizione
fin dalla sua ideazione e divenendone l’elemento
caratterizzante, dalla architettura generale al più piccolo
tema. Anche se alcuni di questi ultimi lavori possono
risultare più semplici e immediati, in realtà sono il frutto
di una attenta meditazione. Chi entra nel mio studio nella
fase di ideazione si diverte a vedere appesi sui muri fogli
di carta da pacco sui quali appunto tutti i miei schemi… è
innanzitutto una mia esigenza spirituale.
Nella Bibbia è Dio stesso a donare le misure per la
costruzione della città santa e del tempio. Così è per
l’architettura e così è per la musica. La musica abita il
suono che Dio stesso ha donato creandoci a sua immagine
e somiglianza.
Cosa mi dici di coloro che si professano atei e compongono
o, più frequentemente, eseguono musica sacra? È
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possibile che queste persone riescano a comunicare il vero
senso di ciò che la musica e i testi vogliono esprimere?
Alla luce di quanto stiamo dicendo ti confesso di credere
che non esistano atei nel senso stretto del termine. Quello
che ci muove dentro e fuori di noi è uguale per tutti. Il
sacro in senso generale quindi è una categoria che può
appartenere a tutti, al di là della nostra professione di
fede. Ciononostante il rapportarsi con un testo comporta
un diverso atteggiamento in termini di adesione. Fede non
è tanto credere in qualcosa, ma è adesione, e l’adesione
è certamente molto importante ai fini della nostra
espressione artistica. Qui il discorso si fa complesso. Credo
che un musicista che si professa ateo possa giungere ad
alti livelli di comunicazione del testo proprio in forza della
sua umanità e di quanto abbiamo detto prima. Può esserci
anche adesione a mio avviso, perché il testo sacro al di là
di un fatto di fede si identifica sempre con un particolare
aspetto della personalità o della vita di ogni uomo. E qui è
ancora quel suono che abita in noi…
Sul vero senso di ciò che musica e testo vogliono
esprimere il discorso è ancora più complesso, anche
all’interno di persone che professano la stessa fede. Porto
due esempi. Qual è il vero senso di una composizione?
Credo che una composizione abbia una vita propria che
va oltre le intenzioni dell’autore. A un corso, Giorgio
Mazzuccato stava concertando il mio Gaudeamus e faceva
osservare come sul testo diem festum io avessi costruito
lo scampanellìo tipico delle campane venete giocando
sulle note la-sol-fa e chiese al coro laboratorio di rendere
al meglio questo scampanellio con opportuni smorzati.
Si rivolse a me e mi chiese: «Vero, Gianmartino?».
Confesso che non mi ero mai accorto di aver usato le note
delle campane venete e di volere uno scampanellio nel
giorno di festa. Ma sono cosciente che è tutto vero: forse
inconsciamente rivestendo quel testo (giorno di festa)
non potevo che far suonare… le campane che sono in me.
Un altro esempio. A una lezione di musicologia liturgica
in conservatorio ho fatto ascoltare quattro versioni del
Tenebrae factae sunt di Ingegneri. Una di queste versioni
era un adattamento eseguito dalle monache agostiniane
dell’Eremo di Lecceto con le quali da qualche anno
collaboro. Uno studente interviene notando: «Tutte le
esecuzioni cercano di rendere il dramma della croce,
quella delle monache è serena: sembrano felici». In
effetti, cantando a Cristo in croce, una monaca non guarda
tanto all’aspetto drammatico, alla Mel Gibson per capirci,
ma contempla il suo sposo e desidera essere con lui.
Quello che lì è dolore, qui è amore. Non passione, ma
com-passione.
In conclusione, credo che ognuno di noi debba cercare
sempre il testo e lasciare che il testo ci interpelli. Chi
condivide quel testo anche in termini di fede, deve metterci
l’adesione, ognuno secondo la propria spiritualità. Infine,
l’interprete, nel rispetto del testo e delle intenzioni
dell’autore, è stimolato a un atto che è sempre un parto,
una chiamata alla vita.
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Nelle tue composizioni sacre la ricerca della modalità e i
riferimenti al canto gregoriano sono un semplice richiamo
arcaicizzante o hanno una funzione diversa?
No, non vogliono essere un richiamo arcaicizzante.
Piuttosto possono rientrare in quella categoria di Arcaico
tanto cara a Paolo Bon. Devo riagganciarmi a quanto
si diceva riguardo al minimalismo. Come studente di
composizione non potevo riconoscermi negli stilemi
linguistici della post-avanguardia e della musica
contemporanea degli anni ’60. Pur apprezzandola e
studiandola, non era mia e non serviva a esprimere
quello che ero e sentivo. Liberante per me fu quando
un’estate mi recai finalmente ad ascoltare il concorso
corale di Gorizia. Mi colpì come la musica contemporanea
di paesi soprattutto nordici attingesse linfa alla propria
tradizione. Questi non avevano vissuto l’Avanguardia.
Occorre comprendere: oggi nella scuola è diverso, ma
a quei tempi questi erano i percorsi e non si poteva più
scrivere in termini di tonalità o modalità. Non saresti stato…
contemporaneo!? Gorizia fu per me liberante. Qual era la
mia tradizione – mi chiesi - il mio humus musicale? Era il
canto popolare e l’amore per il canto gregoriano. Scrissi
di getto un Popule meus che sarebbe divenuto il primo
quadro della Laudatio Christi.
Del gregoriano non mi interessano tanto i temi, quanto il
suo spirito. Il rapporto con il testo e la purezza della linea
monodica che cerco di realizzare per una fisicità che ha
l’estensione di un coro. Così che il canto che passa tra le
voci non sia più desemantizzazione come poteva essere in
certe esperienze del Novecento, ma al contrario esaltazione
del testo.
Riguardo alla modalità, questa è un mondo che mi viene
spontaneo e bene si sposa con quanto cerco di essere e di
esprimere. Credo che la modalità si sposi con la mia fede e
con come cerco di viverla.
Alcuni tuoi brani sacri vengono eseguiti molto spesso
dai cori polifonici, ne cito solamente alcuni: Gaudens
Gaudebo, Veni Electa mea e il Trittico Ungarico, Exulta
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filia. Perché secondo te queste partiture hanno avuto così
successo? Attualmente a cosa stai lavorando?
Come si diceva poco fa, la fortuna di un brano può essere
legata al suo inserimento in un corso di formazione. Così è
stato per Gaudens Gaudebo. Scritto per il Casal de’ Pazzi di
Ermanno Testi, fu selezionato per tutti e quattro i corsi sulla
musica contemporanea che Feniarco nel 1999 organizzò
all’interno del Progetto Musica 2000, con Gary Graden,
Carl Hogset, Gabor Hollerung e Kurt Suttner come docenti
concertatori.
Veni electa è stata scritta su commissione per il coro
dell’Università cattolica di Piliscaba (Ungheria) che avevo
conosciuto a Loreto in occasione della esecuzione della mia
Messa. Gli altri due brani del Trittico li ho scritti tornando
dall’Ungheria dopo la prima esecuzione del Veni electa. So
che è stato inserito come brano d’obbligo in concorsi, e in
corsi di formazione, oltre che pubblicato nel citato volume
di motetti. Mi ha sorpreso molto la diffusione di questo
brano. Pensa che una ragazza (l’ho saputo dopo, quando
divenne mia allieva) l’aveva inserita come suoneria nel suo
telefonino.
Exsulta Filia Sion è stata scritta in tempo più recente per
l’organico delle monache agostiniane di Lecceto (coro
femminile e piccolo ensemble). Ho mostrato la partitura
ad alcuni amici ed è piaciuta. Sono stato quindi invitato a
trascriverla per diversi organici (coro misto ed ensemble,
coro e organo o a cappella; coro e orchestra; coro e
orchestra d’archi; soprano e organo…).
In questi due ultimi casi credo abbia influito anche la
relativa facilità e la cantabilità: una certa immediatezza di
cui interprete e pubblico hanno bisogno.
Ma forse sotto sotto c’è un altro più importante motivo.
Sono tutte e tre partiture scritte pensando a dei volti
concreti di persone. Quando scrivo cerco sempre di tenere
vivi davanti a me i volti delle persone che dovranno cantare
quel brano. è bello soprattutto poter scrivere per amici.
Ed è bello quando amici, come hai fatto tu, mi chiedono di
scrivere per il loro coro. Scrivere per volti concreti permette
alla musica di essere più vera, e quindi più universale.
Musica e liturgia… non entro nelle solite disquisizioni che
sfociano nelle consuete (e giuste) critiche nei confronti
della musica eseguita all’interno delle nostre chiese
durante le celebrazioni liturgiche, ma ti chiedo: visto che
recentemente sei stato relatore al convegno CEI ULN di
Salerno, vi sono delle prospettive per una rinascita della
musica liturgica?
Il convegno di Salerno è stato a mio avviso molto
illuminante e positivo. Direi per tre motivi principalmente:
innanzitutto per il lavoro che ha visto camminare assieme
due anime del movimento liturgico finora spesso
antagoniste e polemiche tra loro, quali l’Associazione
Santa Cecilia e il gruppo Universa Laus. In secondo luogo
per la presenza di musicisti laici come relatori, oltre al
sottoscritto, Marco Berrini, Mario Lanaro, Daniele Sabaino;
ma soprattutto per l’unanime presa di coscienza che nella
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composizione liturgica è fondamentale partire dal testo
liturgico, quale esso sia. A mezzo secolo soltanto dalla
Riforma del Vaticano II non possiamo pretendere che ci
sia ancora quella assimilazione del testo e delle funzioni
liturgiche che sola può costituire la base per un efficace
produzione a livello di repertorio. Ma occorre partire dal
testo. Pensiamo al canto gregoriano. Esso è un albero i cui
frutti hanno cominciato a maturare dopo alcuni secoli di
preghiera individuale e collettiva e di lettura e ruminatio
della Parola. Più che di rinascita allora parlerei di crescita.
Siamo giovani, anzi bambini, nella Liturgia. I segnali positivi
però ci sono. In particolare sono molte e di qualità le
esperienze di formazione sia a livello nazionale che locale,
che in diversi ordini e congregazioni. Ci sono ancora tante
prassi negative, indubbiamente, e carenze, ma cominciano
a esserci molti germogli e alcuni frutti di cui dobbiamo
davvero rendere grazie.
Un uccellino mi ha detto che hai iniziato a suonare
l’arpa, non sarà forse che nell’iconografica comune è lo
strumento privilegiato dagli angeli e quindi non vuoi farti
trovare impreparato?
Mannaggia. Mi verrebbe da risponderti che…anche gli angeli
mangiano fagioli. Ma questo è un altro film (ma gli uccellini
non potrebbero limitarsi a volare e cinguettare?). Per l’arpa
ho avuto sempre un certo affetto, ed essa è presente, ad
esempio, nelle mie due cantate natalizie: Natalis annuntio,
scritta per Mauro Zuccante, e L’Annunciazione per Pierluigi
Comparin.
Il discorso si ricollega alla domanda precedente. Mi sono
trovato l’arpa in mano in un corso di formazione liturgica
organizzato dalle Figlie della Chiesa di Roma, perché la
ragazza che avrebbe dovuto suonarla è stata costretta
a dare forfait. Da allora l’ho tenuta in mano sempre più
spesso fino ad appassionarmi. Ora studio con Alessandra
Casarin (che fu mia allieva di coro) e nel mio piccolo cerco
di… suonare. Nella lingua ebraica gli strumentisti sono
proprio detti “coloro che tengono in mano”. Devo dire
che per me, che non ho in curriculum un corso di studi in
uno strumento, è molto importante… tenere in mano uno
strumento. Ed è sempre musica d’assieme, con gli amici ed
ex allievi del Gruppo Ashirà con il quale animiamo liturgie e
proponiamo percorsi di Lettura cantata della Parola di Dio,
come ad esempio il Cantico dei Cantici.
Questo mi riporta alla prima domanda che mi hai fatto.
è importante per me far musica pratica, tenere in mano
uno strumento, anche se a livello amatoriale. Amatore
e dilettante. Essere amatori e dilettanti ci ricorda che
la musica è amore. In questo senso i professionisti non
dovrebbero mai smettere di essere amatori e dilettanti. Sì,
adesso ho due arpe celtiche, che si aggiungono alle mie
due zampogne e alle mie armoniche a bocca. Ma, ripeto: in
Paradiso porterò l’armonica a bocca.