Intervista a Gianmartino Durighello
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Intervista a Gianmartino Durighello
COMPOSITORE aneliamo alla bellezza Intervista a Gianmartino Durighello a cura di Manolo Da Rold versione integrale dell’intervista pubblicata nel numero 45 di Choraliter Gianmartino Maria Durighello è stato per me, al di là dell’amicizia ormai ventennale, un modello di riferimento musicale e umano. Essere stato allievo prima e amico poi, mi ha permesso di conoscere questo mio conterraneo sotto molteplici aspetti: in lui si sintetizzano perfettamente ispirazione musicale, fede, originalità stilistica e amore per la vita e per il prossimo. Questa intervista mi dà l’opportunità di approfondire alcuni aspetti legati alla sua formazione, ma soprattutto al suo pensiero musicale che forse a qualcuno restano ancora sconosciuti. Carissimo Gianmartino, il nostro colloquio si divide in due parti la prima è dedicata alla tua storia di musicista, la seconda al pensiero filosofico e teologico che si cela nella tua produzione musicale. Sei nato in una famiglia di musicisti, tuo padre Martino è un direttore di coro e organista e appassionato di etnomusicologia, ovviamente tutto questo ha favorito la tua precoce crescita artistica. Quali sono state le tue prime esperienze musicali? Certo, l’ambiente familiare è stato indubbiamente importante. Ma contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non ho iniziato presto gli studi musicali. Anzi, agli inizi non ero additato in famiglia come quello che avrebbe studiato musica. Ero incostante e, anziché studiare, componevo canzoncine. Poi le distribuivo a fratelli e genitori e organizzavo un festival domestico al quale non so perché vinceva sempre mia mamma. Amo ricordare la tanta musica d’assieme fatta in famiglia. Con i genitori e i fratelli cantavamo e suonavamo un po’ di tutto. Il mio primo strumento fu… un’armonica a bocca (vinsi anche un concorso del dilettante). E a volte penso che vorrei portarmi proprio l’armonica in Paradiso. Una sedia a dondolo e una armonica a bocca. Soltanto con gli anni del liceo iniziai lo studio del pianoforte. Fu mia mamma a volerlo. Contemporaneamente suonavo in chiesa e anche in un complessino per il quale componevo le mie prime canzoni. Sei stato fondatore e direttore di un coro polifonico per molti anni, attualmente dirigi il coro del Conservatorio di Castelfranco Veneto, istituto in cui sei docente. Quanto e come ha influito l’essere direttore di coro nel tuo cammino di compositore? Oh, molto. La musica che ho respirato fin da piccolo era anche tanta musica per coro. La schola cantorum e il coro di mio padre, soprattutto. Non ho mai scritto però per il mio coro, il Nuovo Rinascimento. L’ho fatto per i ragazzi del Conservatorio, perché mi sono accorto che la cosa piaceva loro e che entrava positivamente nel nostro rapporto. CHORALITER n. 45 - settembre-dicembre 2014 Quanto ha influito l’essere direttore con il mio cammino di compositore? Lo strumento che suoni interagisce con il tuo pensiero. Faccio un esempio. Se per scrivere una lettera scelgo la penna stilografica, piuttosto che la biro o il computer… sarà sempre una lettera diversa, nel contenuto e nello stile, a seconda del mezzo che uso. Figuriamoci in musica. Dirigere un coro e lavorare come insegnante di coro a contatto con centinaia di adolescenti e giovani ha influito certamente sul mio modo di essere, di sentire e di pensare. Non credo sia eccessivo dire che, quando penso, spesso penso in modo… corale. E vorrei poter dire anche che penso giovane. Speriamo che sia così, almeno un po’. Didatta, professore di scuola media prima, insegnante di conservatorio poi, docente a numerosi corsi di direzione di composizione e di musica liturgica, anche questo ruolo ha influito nel tuo linguaggio musicale? Lo ha forse reso più didascalico o ti ha portato a delle scelte particolari? Indubbiamente ha influito. Non saprei dire se sul piano didascalico, oppure no, ma su quello relazionale certamente sì. Ho cominciato a insegnare all’età di 19 anni. L’insegnamento è stato per me luogo privilegiato di incontro e di relazione. Molti degli allievi di un tempo sono diventati i miei amici di oggi. Ho imparato l’entusiasmo e a cercare di condividere entusiasmo. L’insegnamento tiene vivo il bisogno di essere entusiasta e di condividere entusiasmo, cercando sempre l’incontro, la relazione e il risultato d’assieme. Ti chiedo tre nomi, tre punti di riferimento nella tua storia di musicista; tu sei didatta direttore e compositore e quindi ti chiedo a quali figure ti sei ispirato nei tre diversi ambiti. Oh, quanti nomi dovrei fare. Ne scelgo tre di persone non più in vita… Per la didattica Roberto Goitre. Devo anche a lui se ho iniziato gli studi in conservatorio. Frequentavo il liceo a Piacenza e “scoprii” che lì insegnava Roberto Goitre. Di lui mi parlava con entusiasmo mio padre, che lo contattò e gli chiese di aiutarmi a realizzare il mio sogno… E così fu. Il mio primo vero “libro di solfeggio” e cultura musicale fu per anni La Cartellina da lui fondata. Morì l’anno in cui conseguii la maturità liceale e lasciai Piacenza per tornare al mio paese. L’anno successivo insegnavo Educazione musicale alle scuole medie, e i suoi scritti furono fondamentali per me e per il mio lavoro. Stavo svolgendo il servizio militare a Belluno e mi preparavo a realizzare un altro sogno, quello di fondare un coro nel paese dove insegnavo. Era un sogno che qualche COMPOSITORE anno prima avevo condiviso con alcuni ragazzi delle medie. «Fra qualche anno – dissi loro – verrò a trovarvi e faremo un coro». Aspettavo il momento giusto e ora quel momento era giunto. A Belluno avevo chiesto a mons. Sergio Manfroi il permesso di assistere alle sue prove. In quegli anni il coro CTG di Belluno era l’unico coro misto in provincia a praticare musica polifonica. Mi affascinava di don Sergio una capacità che non trovavo in tutti, ossia quella di saper differenziare l’interpretazione a seconda della tipologia del brano, della sua epoca e del suo autore… Alla fine del servizio militare convocai quei ragazzi e altri del paese, e vennero davvero in tanti. Cominciammo l’avventura. Una avventura che continua felicemente ancora oggi sotto la guida di Gilberto Meneghin. Per il compositore vado un po’ più indietro fino a Gustav Mahler. Quando frequentavo le scuole medie trascorrevo dei periodi d’estate in Val Pusteria. Passeggiavo nei boschi tra Piandimaia e Dobbiaco con il mio quadernetto in mano e un flauto dolce, e… componevo. Un giorno mi imbattei nella capanna dove Mahler scrisse alcuni tra i suoi ultimi capolavori. Fu un incontro che mi riempì di emozione. Cercai discografia di Mahler, ma in quegli anni non fu così facile per me trovarne. Trovai finalmente i Kindertotenlieder in appendice a un 33 giri di Lieder di Brahms e poi al liceo registrai dalla radio la sinfonia Il Titano (mi fingevo ammalato e mi facevo prestare da un compagno la radio, così passavo l’intera mattina ad ascoltare e registrare musica). Per anni furono questi i miei ascolti quotidiani. Di fronte a quella capanna il mio desiderio di scrivere musica si accese definitivamente. Fu per me un’emozione ancora più grande qualche anno fa quando Tarcisio Dal Zotto con il suo coro eseguì il mio Trittico Ungarico alla sala Gustav Mahler di Dobbiaco. Che rapporto hai con il canto popolare e con la tradizione corale alpina? è parte di me. Ritornando ai canti e alla musica fatti in famiglia, ricordo tanto canto popolare. Dalla viva voce dei miei, e in due libriccini, uno del Piglia e un altro dello Schinelli, che raccoglievano melodie popolari italiane. Quindi la biblioteca di mio padre, il repertorio del suo coro, ma anche alcuni altri testi. In particolare un libro di Paolo Bon Cronache di esperienze corali. E poi i concerti e le rassegne corali… Anche da insegnante alle medie il bagaglio primo cui attingevo era questo mondo stupendo. E più ancora i miei boschi e le mie montagne, teatro dei miei giochi, che nei solchi delle trincee e nelle grotte portano inciso il ricordo della guerra e dei suoi canti. Così, anche se non è esplicitamente molto presente nella mia produzione, il canto popolare di tradizione alpina si fonde con la mia infanzia e con la mia terra, e lo sento profondamente parte di me. Mi è capitato recentemente di studiare con i ragazzini del mio coro di voci bianche (che guarda caso è intitolato a Roberto Goitre) della bellissima musica da te scritta CHORALITER n. 45 - settembre-dicembre 2014 per questo tipo di organico, l’ho trovata estremamente gradevole. Qual è il tuo rapporto con il mondo dei bambini e dei cori voci bianche? Ho lavorato anche con i bambini, ma soprattutto con ragazzi e adolescenti, e amo particolarmente il suono vocale dell’adolescenza. La mia prima attività con bambini e ragazzi è stata, come per molti, quella ludica in campi estivi parrocchiali e in colonie marine. Ne ho ricavato un grande amore per l’esperienza globale e universale che rimane una mia caratteristica. Globale (nel senso di una attività che unisca al canto il gioco, la drammatizzazione, il mimo, dando vita a storie, leggende, fiabe, racconti…) e universale (nel senso di cercare il coinvolgimento di tutti i ragazzi, soprattutto quelli con problematiche di vario tipo). Quando ho iniziato a insegnare alle medie, questo era il mio modo di essere. E, come accennavo, con alcuni di quei ragazzi che sono poi diventati miei amici ho condiviso anche fuori scuola esperienze simili, eravamo guidati dal motto: «In principio c’era l’entusiasmo». O quest’altro: «Teniamo viva la fantasia, per rendere fantastica la vita». Quando sono passato dall’insegnamento alle medie a quello in conservatorio ho pian piano chiuso un rapporto diretto con i bambini, salvo qualche piacevole rimpatriata. Sono stato però invitato a scrivere per cori di voci bianche o giovanili o ancora per le scuole. Penso ai lavori scritti per i ragazzi di Amedeo Scutiero, Cinzia Zanon e altri… E devo dire che uno dei lavori che considero tra i più COMPOSITORE rappresentativi di me e della mia produzione è proprio un’operina, una leggenda in musica, I monti pallidi. I ragazzi portano in me anche le prime dolorose ferite. Frequentavo il ginnasio quando una mia compagna d’infanzia fu trucidata dal padre. Poi, nei primi quattro anni di insegnamento alle medie, mi morirono quattro ragazzi, in eventi tragici. Quasi come un grido disperato scrissi allora I me mor (Mi muoiono). I ragazzi per me sono anche questo. Il mio primo drammatico incontro con la morte. Scrivi solamente musica corale o ti capita di lavorare per strumenti o ensemble? No, non solo musica corale. Sai, la maggior parte del lavoro si fa su commissione, e la maggior parte delle commissioni mi vengono dal mondo corale. Comunque devo ammettere che la mia produzione cameristica nasce generalmente da precedenti lavori corali. è il coro il primo luogo della mia esperienza compositiva. A volte capita addirittura che il committente mi chieda esplicitamente un brano che faccia riferimento a opere corali da lui ascoltate. è il caso ad esempio di Sèfer Torah, per chitarra, inciso da Alberto Mesirca in Ikonostas, Disco d’oro al Pittaluga nel 2007; o le Meditazioni per due fisarmoniche scritte per il duo Dissonance, rivisitazioni di Gaudens Gaudebo e di Dies irae. L’ultimo mio impegno nel campo della musica strumentale è un Concerto per saxofono e orchestra d’archi, Jerushalaim, di prossima esecuzione. Un sogno? Rivisitare i miei motetti più significativi per un piccolo organico cameristico. CHORALITER n. 45 - settembre-dicembre 2014 Sai come la penso: homo faber fortunae suae. Il successo non avviene per caso o per coincidenze fortunate, l’avvenimento importante ha i suoi effetti sul futuro dell’individuo solamente se quanto viene proposto è di qualità. Vorrei sapere quindi, oltre ai riconoscimenti concorsuali, quali sono stati gli eventi che ti hanno portato a essere così eseguito anche fuori dai confini nazionali? Importante è indubbiamente la pubblicazione e soprattutto l’inserimento di una composizione come brano d’obbligo in concorsi di esecuzione corale o in corsi di formazione. Non finirò mai di ringraziare Giovanni Acciai per aver creduto in me e nella mia musica fin dagli inizi, quando ancora pochi mi conoscevano. Egli ha curato il mio primo volume di Motetti per la Suvini Zerboni con una prefazione che conservo sempre nel cuore, e ha inserito diversi miei brani in vari concorsi corali, come il Festival di Riva del Garda. Avevo da poco vinto il concorso di Loreto per una Messa in occasione del VII centenario della traslazione della Santa Casa. Non ho partecipato a molti concorsi, cinque in tutto e sempre in circostanze particolari, ma sono stati molto importanti. In particolare l’esecuzione in diretta RAI della Messa di Loreto (1995) è stato un evento molto importante. Molti cori erano esteri e da questi sono venute le mie prime commissioni. La trasmissione televisiva e/o radiofonica è chiaramente un’importante occasione di diffusione: tra le più recenti l’inserimento di un mio brano insieme a quelli di altri di autori contemporanei italiani in un programma a cura di Marco Berrini trasmesso dalla Radio Svizzera. Ci sono poi alcune commissioni per eventi particolari che hanno un forte impatto sulla diffusione dell’opera o comunque sul far conoscere un autore. Penso ad esempio alla Messa Audi filia per coro e banda, scritta in occasione dei festeggiamenti per il passaggio di millennio per il coro Gialuth di Lorenzo Benedet, e recentemente riproposta nella riduzione coro e organo da parte del compianto Massimo Nosetti. Penso ancora all’inserimento di un brano in corsi di formazione per direttori. Qui la composizione passa direttamente nella mano del direttore. Sono, infatti, i cori stessi, con le loro esecuzioni, che fanno conoscere un brano. E il brano comincia la sua vita fuori dal cordone ombelicale dell’autore. E la musica se deve diffondersi si diffonde. Ne sei testimone tu stesso, con il tuo coro. Ci sono partiture che “girano” ancora sulla fotocopia del manoscritto originale, nel quale risalta la viva scrittura a matita. Porti su di te una particolare etichetta, quella di compositore minimalista. Alcune biografie e alcuni critici ti citano sovente come rappresentante della musica minimalista in Italia, condividi questa analisi? Se sì, quali sono le cose che ti accomunano con altri compositori di questa importante corrente di pensiero? Ero in conservatorio, in un momento di pausa, e stavo rileggendo un mio lavoro per organo appena ultimato. Un allievo entra, ascolta e mi dice: «sei anche tu un minimalista?». Fu la prima volta che mi sentii così COMPOSITORE etichettato. Poi, come dici, me la sono vista un po’ dappertutto questa etichetta. Devo ammettere che non sapevo neanche troppo bene cosa significasse il termine minimalismo. Un termine oggi impiegato come un ricettacolo molto ampio, e spesso a sproposito. Non tutta la mia musica può dirsi minimalista in senso stretto, ma devo dire che questa etichetta mi piace e la trovo rispondente a una parte di me e della mia produzione. Sono arrivato a questo per una via diversa da quella che si può immaginare. Non ascoltavo né leggevo musica minimalista. Ripeto: sono gli altri ad avermela poi fatta conoscere. Cercavo un linguaggio che mi fosse proprio, e mi stava stretto quello dell’avanguardia dal quale per un certo senso provenivo. Miravo cioè a un modo di esprimermi che rispondesse a quello che ero, alla mia fede innanzitutto, e a come cercavo e cerco di viverla. Anche se in senso diverso da quello che originariamente il termine voleva significare, mi sento minimalista nella ricerca della sobrietà e della riduzione del materiale musicale in funzione espressiva. L’uso della ripetizione ritmico melodica, soprattutto in cellule modali, mi consente di muovermi in una ricerca compositiva che risponde al mio essere «sfociando – come disse un allievo a un corso – in una stasi dinamica o un movimento statico». Devo riconoscere che sono io, desideroso di contemplazione e insieme immerso nell’azione. Cito testualmente da uno dei tuoi libri Il canto è il mio sacerdozio, Padova, Armelin Musica, 1997 «se davvero riuscissi, insegnando a cantare, a predisporre i nostri cuori all’Amore, così che fede e carità si fondino e la vita si faccia culto». Queste parole mi hanno fortemente colpito. Per te, dunque, il “fare musica” è un mezzo, non un fine ultimo. Puoi spiegare questo tuo pensiero? Nel canto e nell’amore è difficile separare il mezzo dal fine. Credo che, nella nostra imperfezione e nei nostri errori, tutti in fondo cerchiamo questo: amare ed essere amati. Credo che la spirale della nostra esistenza stia qui. «è dinamica, sprigiona vita, l’essenza del canto. Strettamente legato alla vita, il canto spinge ad amare, a concepire la vita come amore», scrivo ancora in quel libro. Il canto allena ad amare. Amare ti spinge a cantare, sfocia nel canto. Il fine di tutto credo sia un grande Silenzio nel quale amore e canto si fondono, mezzo e fine si identificano. Un Silenzio frutto melodioso di vite cantate. Guardo con commozione i grandi santi della carità, Teresa di Calcutta su tutti, ma so di non essere come loro. Nel mio piccolo, però, mi scopro insegnante e comprendo che insegnare a cantare in coro è educare all’amore. Un mondo che canta… Il tuo cammino spirituale corre a braccetto con la tuo essere musicista. Giovanni Maria Rossi nella prefazione al tuo libro che ho appena citato scrive: «Il canto-suono, che è già dentro la persona umana dove lo spirito grida con gemiti inesprimibili, deve sfociare in un atto di “fede vitale”». Secondo te la musica, intesa come anelito alla CHORALITER n. 45 - settembre-dicembre 2014 Bellezza Assoluta, è come imprigionata dentro di noi e sta a noi liberarla per compiere un cammino di fede? Tu sei il felice papà di Benedetta, una adorabile bambina. Bene, quando il bambino è nel grembo della mamma è forse imprigionato? San Paolo paragona la creazione alle doglie del parto. Credo che la nostra esistenza si svolga come in un grembo, il grembo di Dio. Ogni nostro canto esprime lo scalciare del bimbo nel grembo, la sua voglia di venire alla luce. Ogni nostro canto esprime il vagito, il grido del neonato che viene alla luce. Diciamo il nostro disagio, ma anche la nostra volontà di vivere e di essere alimentati alla vita. Ed è per questo che il nostro canto si placa nel silenzio, quando siamo abbracciati al petto della mamma. La musica non è solo anelito, è anche all’origine della Bellezza. Nel racconto della creazione Dio “disse” e il mondo prese vita. E Dio vide che era cosa “bella” (questo il significato letterale). Con il suono della sua voce Dio dà vita alla Bellezza. La nostra musica è sì anelito alla Bellezza vera, ma nello stesso tempo facendo musica noi continuiamo l’opera creatrice di Dio. Aneliamo alla Bellezza generando bellezza. Perché il creato porta in sé l’impronta del suo Creatore. E l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio. Per questo siamo invitati ad ascoltare il suono che è in noi. Liberarla, la musica, – come tu dici – significa accettare di vivere il dinamismo della creazione. Allora, se è vero che il grembo non è un carcere, è anche vero che grazie alla musica ciò che appare come un carcere può rivelarsi un grembo. Spesso nella tua musica si celano dei significati simbolici che, a quelli che come me amano particolarmente la teologia, si rivelano con gradualità durante lo studio dei tuoi brani; è una sorta di cammino escatologico che prepari volutamente per gli esecutori o il rapporto con il symbolum è una tua fondamentale dimensione spirituale? Sì, il simbolo è una dimensione molto importante per me. Nei miei primi lavori la dimensione simbolica era per lo più limitata al rapporto testo-musica sulla scia della tradizione gregoriana e motettistica. Con il tempo tale dimensione si è fatta molto più presente investendo la composizione fin dalla sua ideazione e divenendone l’elemento caratterizzante, dalla architettura generale al più piccolo tema. Anche se alcuni di questi ultimi lavori possono risultare più semplici e immediati, in realtà sono il frutto di una attenta meditazione. Chi entra nel mio studio nella fase di ideazione si diverte a vedere appesi sui muri fogli di carta da pacco sui quali appunto tutti i miei schemi… è innanzitutto una mia esigenza spirituale. Nella Bibbia è Dio stesso a donare le misure per la costruzione della città santa e del tempio. Così è per l’architettura e così è per la musica. La musica abita il suono che Dio stesso ha donato creandoci a sua immagine e somiglianza. Cosa mi dici di coloro che si professano atei e compongono o, più frequentemente, eseguono musica sacra? È COMPOSITORE possibile che queste persone riescano a comunicare il vero senso di ciò che la musica e i testi vogliono esprimere? Alla luce di quanto stiamo dicendo ti confesso di credere che non esistano atei nel senso stretto del termine. Quello che ci muove dentro e fuori di noi è uguale per tutti. Il sacro in senso generale quindi è una categoria che può appartenere a tutti, al di là della nostra professione di fede. Ciononostante il rapportarsi con un testo comporta un diverso atteggiamento in termini di adesione. Fede non è tanto credere in qualcosa, ma è adesione, e l’adesione è certamente molto importante ai fini della nostra espressione artistica. Qui il discorso si fa complesso. Credo che un musicista che si professa ateo possa giungere ad alti livelli di comunicazione del testo proprio in forza della sua umanità e di quanto abbiamo detto prima. Può esserci anche adesione a mio avviso, perché il testo sacro al di là di un fatto di fede si identifica sempre con un particolare aspetto della personalità o della vita di ogni uomo. E qui è ancora quel suono che abita in noi… Sul vero senso di ciò che musica e testo vogliono esprimere il discorso è ancora più complesso, anche all’interno di persone che professano la stessa fede. Porto due esempi. Qual è il vero senso di una composizione? Credo che una composizione abbia una vita propria che va oltre le intenzioni dell’autore. A un corso, Giorgio Mazzuccato stava concertando il mio Gaudeamus e faceva osservare come sul testo diem festum io avessi costruito lo scampanellìo tipico delle campane venete giocando sulle note la-sol-fa e chiese al coro laboratorio di rendere al meglio questo scampanellio con opportuni smorzati. Si rivolse a me e mi chiese: «Vero, Gianmartino?». Confesso che non mi ero mai accorto di aver usato le note delle campane venete e di volere uno scampanellio nel giorno di festa. Ma sono cosciente che è tutto vero: forse inconsciamente rivestendo quel testo (giorno di festa) non potevo che far suonare… le campane che sono in me. Un altro esempio. A una lezione di musicologia liturgica in conservatorio ho fatto ascoltare quattro versioni del Tenebrae factae sunt di Ingegneri. Una di queste versioni era un adattamento eseguito dalle monache agostiniane dell’Eremo di Lecceto con le quali da qualche anno collaboro. Uno studente interviene notando: «Tutte le esecuzioni cercano di rendere il dramma della croce, quella delle monache è serena: sembrano felici». In effetti, cantando a Cristo in croce, una monaca non guarda tanto all’aspetto drammatico, alla Mel Gibson per capirci, ma contempla il suo sposo e desidera essere con lui. Quello che lì è dolore, qui è amore. Non passione, ma com-passione. In conclusione, credo che ognuno di noi debba cercare sempre il testo e lasciare che il testo ci interpelli. Chi condivide quel testo anche in termini di fede, deve metterci l’adesione, ognuno secondo la propria spiritualità. Infine, l’interprete, nel rispetto del testo e delle intenzioni dell’autore, è stimolato a un atto che è sempre un parto, una chiamata alla vita. CHORALITER n. 45 - settembre-dicembre 2014 Nelle tue composizioni sacre la ricerca della modalità e i riferimenti al canto gregoriano sono un semplice richiamo arcaicizzante o hanno una funzione diversa? No, non vogliono essere un richiamo arcaicizzante. Piuttosto possono rientrare in quella categoria di Arcaico tanto cara a Paolo Bon. Devo riagganciarmi a quanto si diceva riguardo al minimalismo. Come studente di composizione non potevo riconoscermi negli stilemi linguistici della post-avanguardia e della musica contemporanea degli anni ’60. Pur apprezzandola e studiandola, non era mia e non serviva a esprimere quello che ero e sentivo. Liberante per me fu quando un’estate mi recai finalmente ad ascoltare il concorso corale di Gorizia. Mi colpì come la musica contemporanea di paesi soprattutto nordici attingesse linfa alla propria tradizione. Questi non avevano vissuto l’Avanguardia. Occorre comprendere: oggi nella scuola è diverso, ma a quei tempi questi erano i percorsi e non si poteva più scrivere in termini di tonalità o modalità. Non saresti stato… contemporaneo!? Gorizia fu per me liberante. Qual era la mia tradizione – mi chiesi - il mio humus musicale? Era il canto popolare e l’amore per il canto gregoriano. Scrissi di getto un Popule meus che sarebbe divenuto il primo quadro della Laudatio Christi. Del gregoriano non mi interessano tanto i temi, quanto il suo spirito. Il rapporto con il testo e la purezza della linea monodica che cerco di realizzare per una fisicità che ha l’estensione di un coro. Così che il canto che passa tra le voci non sia più desemantizzazione come poteva essere in certe esperienze del Novecento, ma al contrario esaltazione del testo. Riguardo alla modalità, questa è un mondo che mi viene spontaneo e bene si sposa con quanto cerco di essere e di esprimere. Credo che la modalità si sposi con la mia fede e con come cerco di viverla. Alcuni tuoi brani sacri vengono eseguiti molto spesso dai cori polifonici, ne cito solamente alcuni: Gaudens Gaudebo, Veni Electa mea e il Trittico Ungarico, Exulta COMPOSITORE filia. Perché secondo te queste partiture hanno avuto così successo? Attualmente a cosa stai lavorando? Come si diceva poco fa, la fortuna di un brano può essere legata al suo inserimento in un corso di formazione. Così è stato per Gaudens Gaudebo. Scritto per il Casal de’ Pazzi di Ermanno Testi, fu selezionato per tutti e quattro i corsi sulla musica contemporanea che Feniarco nel 1999 organizzò all’interno del Progetto Musica 2000, con Gary Graden, Carl Hogset, Gabor Hollerung e Kurt Suttner come docenti concertatori. Veni electa è stata scritta su commissione per il coro dell’Università cattolica di Piliscaba (Ungheria) che avevo conosciuto a Loreto in occasione della esecuzione della mia Messa. Gli altri due brani del Trittico li ho scritti tornando dall’Ungheria dopo la prima esecuzione del Veni electa. So che è stato inserito come brano d’obbligo in concorsi, e in corsi di formazione, oltre che pubblicato nel citato volume di motetti. Mi ha sorpreso molto la diffusione di questo brano. Pensa che una ragazza (l’ho saputo dopo, quando divenne mia allieva) l’aveva inserita come suoneria nel suo telefonino. Exsulta Filia Sion è stata scritta in tempo più recente per l’organico delle monache agostiniane di Lecceto (coro femminile e piccolo ensemble). Ho mostrato la partitura ad alcuni amici ed è piaciuta. Sono stato quindi invitato a trascriverla per diversi organici (coro misto ed ensemble, coro e organo o a cappella; coro e orchestra; coro e orchestra d’archi; soprano e organo…). In questi due ultimi casi credo abbia influito anche la relativa facilità e la cantabilità: una certa immediatezza di cui interprete e pubblico hanno bisogno. Ma forse sotto sotto c’è un altro più importante motivo. Sono tutte e tre partiture scritte pensando a dei volti concreti di persone. Quando scrivo cerco sempre di tenere vivi davanti a me i volti delle persone che dovranno cantare quel brano. è bello soprattutto poter scrivere per amici. Ed è bello quando amici, come hai fatto tu, mi chiedono di scrivere per il loro coro. Scrivere per volti concreti permette alla musica di essere più vera, e quindi più universale. Musica e liturgia… non entro nelle solite disquisizioni che sfociano nelle consuete (e giuste) critiche nei confronti della musica eseguita all’interno delle nostre chiese durante le celebrazioni liturgiche, ma ti chiedo: visto che recentemente sei stato relatore al convegno CEI ULN di Salerno, vi sono delle prospettive per una rinascita della musica liturgica? Il convegno di Salerno è stato a mio avviso molto illuminante e positivo. Direi per tre motivi principalmente: innanzitutto per il lavoro che ha visto camminare assieme due anime del movimento liturgico finora spesso antagoniste e polemiche tra loro, quali l’Associazione Santa Cecilia e il gruppo Universa Laus. In secondo luogo per la presenza di musicisti laici come relatori, oltre al sottoscritto, Marco Berrini, Mario Lanaro, Daniele Sabaino; ma soprattutto per l’unanime presa di coscienza che nella CHORALITER n. 45 - settembre-dicembre 2014 composizione liturgica è fondamentale partire dal testo liturgico, quale esso sia. A mezzo secolo soltanto dalla Riforma del Vaticano II non possiamo pretendere che ci sia ancora quella assimilazione del testo e delle funzioni liturgiche che sola può costituire la base per un efficace produzione a livello di repertorio. Ma occorre partire dal testo. Pensiamo al canto gregoriano. Esso è un albero i cui frutti hanno cominciato a maturare dopo alcuni secoli di preghiera individuale e collettiva e di lettura e ruminatio della Parola. Più che di rinascita allora parlerei di crescita. Siamo giovani, anzi bambini, nella Liturgia. I segnali positivi però ci sono. In particolare sono molte e di qualità le esperienze di formazione sia a livello nazionale che locale, che in diversi ordini e congregazioni. Ci sono ancora tante prassi negative, indubbiamente, e carenze, ma cominciano a esserci molti germogli e alcuni frutti di cui dobbiamo davvero rendere grazie. Un uccellino mi ha detto che hai iniziato a suonare l’arpa, non sarà forse che nell’iconografica comune è lo strumento privilegiato dagli angeli e quindi non vuoi farti trovare impreparato? Mannaggia. Mi verrebbe da risponderti che anche gli angeli mangiano fagioli. Ma questo è un altro film (ma gli uccellini non potrebbero limitarsi a volare e cinguettare?). Per l’arpa ho avuto sempre un certo affetto, ed essa è presente, ad esempio, nelle mie due cantate natalizie: Natalis annuntio, scritta per Mauro Zuccante, e L’Annunciazione per Pierluigi Comparin. Il discorso si ricollega alla domanda precedente. Mi sono trovato l’arpa in mano in un corso di formazione liturgica organizzato dalle Figlie della Chiesa di Roma, perché la ragazza che avrebbe dovuto suonarla è stata costretta a dare forfait. Da allora l’ho tenuta in mano sempre più spesso fino ad appassionarmi. Ora studio con Alessandra Casarin (che fu mia allieva di coro) e nel mio piccolo cerco di… suonare. Nella lingua ebraica gli strumentisti sono proprio detti “coloro che tengono in mano”. Devo dire che per me, che non ho in curriculum un corso di studi in uno strumento, è molto importante… tenere in mano uno strumento. Ed è sempre musica d’assieme, con gli amici ed ex allievi del Gruppo Ashirà con il quale animiamo liturgie e proponiamo percorsi di Lettura cantata della Parola di Dio, come ad esempio il Cantico dei Cantici. Questo mi riporta alla prima domanda che mi hai fatto. è importante per me far musica pratica, tenere in mano uno strumento, anche se a livello amatoriale. Amatore e dilettante. Essere amatori e dilettanti ci ricorda che la musica è amore. In questo senso i professionisti non dovrebbero mai smettere di essere amatori e dilettanti. Sì, adesso ho due arpe celtiche, che si aggiungono alle mie due zampogne e alle mie armoniche a bocca. Ma, ripeto: in Paradiso porterò l’armonica a bocca.