Discorsi sulla Torà - 2 Noach

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Discorsi sulla Torà - 2 Noach
‫וֹל ֣ד ֹת ֔נ ֹ ַח ֗נ ֹ ַח ִ ֥אישׁ ַצ ִ ֛דּיק‬
‫ֵ ֚א ֶלּה ֽתּ ְ‬
‫ֹלהים‬
‫ת־ה ֱא ִ ֖‬
‫ָתּ ִ ֥מים ָהָי֖ה ְבּ ֽד ֹר ָ ֹ֑תיו ֶא ָ ֽ‬
‫ִ ֽה ְת ַה ֶלְּך־ ֹֽנ ַח׃‬
Jonathan Pacifici
Discorsi sulla Torà
2 - Commenti alla Parashat Noach
Pubblicato da www.torah.it, disponibile nel sito per il download.
© 1998 - 2008 Jonathan Pacifici
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La Torre di Babele
“E [ci] fu [in] tutta la Terra un’unica lingua ed unici propositi” (Genesi
XI,1)
Dopo aver narrato la storia della Creazione la Torà enumera, nella
Parashà di Bereshit, le dieci generazioni che intercorrono tra Adam e
Noah. La Mishnà, nel trattato di Avot, ci dice che queste dieci
generazioni provocarono l’ira del Signore fino a che Egli non distrusse
l’umanità con il diluvio. Per quanto il diluvio occupi la parte principale
della nostra Parashà, ci occuperemo qui di un altro episodio
fondamentale per il genere umano. Si tratta della “dispersione” che
segue la costruzione della Torre costruita nella valle di Shinnar,
narrata in un passo piuttosto oscuro che cercheremo di esaminare
attraverso gli insegnamenti dei Maestri.
Rashì, citando il Midrash Tanchumà, il Targum Jonathan ed il Talmud
Jerushalmì Meghillà (1:9), ci rende subito partecipi del fatto che
l’unica lingua parlata all’epoca era la “lingua sacra”, ossia l’ebraico, la
lingua con la quale era stato creato il mondo. Se esaminano il primo
verso della Torà ci rendiamo conto che esso dice “Bereshit Barà Elokim
ET...”. Potremmo leggere: “In principio D-o creò ET”. L’articolo ET (il),
generalmente riferito al cielo, è formato dalla prima e dall’ultima lettera
dell’alfabeto ebraico. Da qui i Maestri imparano che la prima creazione
di D-o sono state le lettere, attraverso le quali ha poi creato cielo e la
terra. La “lingua sacra” quindi, come parte integrante della Creazione,
come strumento della Creazione. Dire che tutto il mondo la parlava
vuol dire che tutti si trovavano in condizione di partecipare alla
Creazione del mondo attraverso l’ottemperanza al volere Divino
espresso dalle lettere dell’alfabeto ebraico. In che cosa consisteva
questa volontà Divina? Pur tenendo conto che la Torà e le sue leggi
sono precedenti alla Creazione, in questo caso il volere Divino è
espresso nelle “sette leggi dei Benè Noah” (le mizvot che l’intera
umanità deve rispettare) e nel comando di crescere, moltiplicarsi e
soprattutto riempire la terra.
Le condizioni che si erano venute a creare nella Valle di Shinnar erano
apparentemente del tutto favorevoli. Il “Seder Olam” ci offre un quadro
della situazione: ci troviamo nel 1996 dalla Creazione (il conto degli
anni parte secondo i più dalla immissione dell’anima nel corpo del
primo essere umano), 340 anni dopo il diluvio. Noah ed i suoi figli
erano ancora in vita ed Avram, che aveva 48 anni, aveva già
riconosciuto il Signore come Unico Creatore. Dalla discendenza di
Noah si erano formati 70 ceppi, progenitori delle 70 nazioni che
compongono il mondo secondo i Maestri, e tutti risiedevano nel
medesimo luogo, la Valle di Shinnar. Secondo i Maestri (che si
appoggiano su uno dei primi versi della Parashà di “Vezot HaBerachà”,
l’ultima) le 70 nazioni sono in rapporto alle 70 persone che
compongono il nucleo familiare di Jacov che scende in Egitto. È come
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se ogni ebreo fosse Maestro di un intera nazione. In questo senso le 70
nazioni dovevano ascoltare gli insegnamenti dei Grandi della loro
generazione: Noah, Shem ed Avram.
Invece è Nimrod a prendere la guida. Nimrod, nipote di Cham il figlio di
Noah, è ricordato dalla Torà per due motivi:
• è il primo monarca, la prima persona alla quale viene riconosciuta
una autorità politica;
• era un abile cacciatore.
I Maestri spiegano: bisogna intendere l’abilità nel cacciare come
l’abilità nell’ammaliare le persone con il linguaggio. Un cacciatore di
consensi quindi, che convince la massa a sceglierlo come leader.
Ma c’è un altro Midrash che completa il quadro. Nimrod aveva già
sottomesso il mondo animale: egli si era impossessato delle vesti di
pelle con cui D-o vestì Adam dopo la cacciata dall’Eden. Gli animali
riconoscevano in lui il discendente diretto di Adam, perché indossava
questi abiti di pelle (il midrash sottolinea che erano coperti di pelo).
Nimrod deriva quindi la sua capacità persuasiva dalla capacità di
cacciare, la capacità di cacciare dalla sottomissione degli animali e la
sottomissione degli animali dalle vesti di Adam di cui si era
impossessato. Che cosa propone Nimrod? La costruzione di una torre e
specifica che essa deve prevenire la dispersione e la separazione delle
genti. Questa torre arriva, nel progetto di Nimrod, fino al cielo. Sulla
sua cima, poi, posiziona un idolo, per sfidare Idd-o: Egli ha decretato
che l’uomo riempia la Terra, noi invece vogliamo stare tutti qua.
La risposta Divina è forse uno degli atti che cambia più radicalmente
la storia umana: la confusione delle lingue. Ogni popolo parlerà una
lingua propria: in tutto settanta lingue. L’ebraico, la “lingua santa”, la
“lingua distinta” rimarrà prerogativa della discendenza di Avram che si
dissocia apertamente dal tentativo di Nimrod. Ma perché è così
negativo l’approccio di Nimrod? Perché la Torà sottolinea la pericolosità
della omogeneità. Non è così positivo avere intenti comuni ed una
lingua comune se questo crea il non rispetto della diversità.
L’abbattimento delle differenze linguistiche e culturali provoca la
coesione di tutta l’umanità in progetti folli che pretendono di arrivare
al cielo. Crea una idolatria che ha l’uomo e le sue capacità al suo
centro. Una esaltazione delle capacità umane che porta alla messa in
discussione dell’autorità Divina. D-o ha detto “riempite il mondo”, ma
noi vogliamo rimanere qui e dimostriamo che possiamo sconfiggere D-o
con la nostra torre. Questo tipo di umanità non può andare lontano,
proprio a causa della sua stretta visione del mondo. La confusione
delle lingue e la dispersione per tutto il pianeta sono la risposta a chi
pensava che l’umanità potesse sfidare il Creatore.
Nasce così il compito di chi si dissocia: Avram HaIvrì, Avram l’ebreo.
Secondo l’etimologia della parola Ivrì (che ha nella radice il concetto di
“al di là di”) i Maestri spiegano che è così chiamato perché tutto il
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mondo era da una parte e lui era dall’altra. A chi ha sfidato tutta
l’umanità denunciando nella solitudine della diversità l’errore della
massa va l’unica vera lingua “sacra”, “diversa”, “distinta”. La lingua
con cui D-o crea quotidianamente il mondo.
La tunica di Nimrod, simbolo del peccato di Adam, passerà secondo il
Midrash ad Esav, il nostro gemello contrapposto. I discendenti di
invece Avram vestiranno un altra veste storica. La veste che è il premio
di Shem per aver coperto il padre nudo: il Tallit (Talled), la veste che
porta il nome di D-o nei suoi angoli. La veste di chi deve portare il
nome di D-o agli angoli del mondo. La Torà sarà data al mondo in
ebraico ma anche nelle settanta altre lingue. Purtroppo ancora oggi il
Nome del Signore è kiviahol (come se ciò fosse possibile) non unico. La
presenza di settanta lingue fa sì che ognuno traduca il Suo Nome in
modo diverso.
Nimrod vive in una pianura, costruisce una torre e vuole salire, senza
riuscirci al Cielo. Jacov si addormenta su un’altura e sogna una scala
ben piantata in terra che giunge fino in Cielo ed il Signore è sulla cima
della scala. Chi vive una vita piatta spiritualmente come la pianura di
Shinnar costruisce torri di superbia destinate a crollare. Chi vive sul
monte del Signore, un monte basso, alla portata di tutti, sogna una
scala che abbia delle radici in terra nelle nostre buone azioni. Una
scala che attraverso le nostre buone azioni salga fino al Cielo. Ma una
scala del genere è solo un sogno per un giusto che sa sempre di non
essere ancora pronto: persino in sogno Jacov si rifiuta di salire sulla
scala. Quella scala parte dal luogo in cui poggia l’Arca che contiene la
Torà. Quella scala rappresenterà la teshuvà, il ritorno di tutta
l’umanità che parlerà di nuovo l’ebraico, la lingua del Sacro, la lingua
del distinto, la lingua del diverso.
“In quel giorno il Signore sarà unico ed il Suo Nome unico.”
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Cultura ebraica, cultura laica
[1] “Possa il Signore rendere esteso Jefet e risieda nelle tende di Shem”
(Genesi IX, 27)
[2] “Non c’è differenza tra i Libri e Tefillin e le Mezuzot eccetto il fatto che
i Libri possono essere scritti in ogni lingua, ed i Tefillin e le Mezuzot non
vengono scritti altro che in Assiro (cioè in ebraico N.d.T.). Rabban
Shimon ben Gamliel dice: ‘Anche per i Libri [i Saggi] non hanno
permesso che vengano scritti in altra lingua [straniera] che il Grecò. “
(Mishnà, Meghillà I,8)
[3] “Disse Rabbì Abbau a nome di Rabbì Jochanan: ‘L’Halachà segue
[l’opinione] di Rabban Shimon ben Gamliel’. Ed ha detto Rabbì
Jochanan: ‘Qual è la motivazione [dell’opinione] di Rabban Shimon ben
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Gamliel?’ Ha detto il Testo: ‘Possa il Signore rendere esteso Jefet e
risieda nelle tende di Shem’. Le parole di Jefet siano nelle tende di
Shem.” (TB Meghillà 9b)
Il tema centrale della Parashà di questa settimana è senza dubbio il
‘mabbul’, il diluvio con il quale D-o ha sommerso il mondo nell’anno
1656 della Creazione (Seder haOlam). Alla fine della Parashà si parla
poi di un secondo grande evento: la dispersione dell’anno 1996 dalla
Creazione che ha seguito la confusione delle lingue che D-o ha operato
nella valle di Shinnar. Questi due episodi, che sconvolgeranno
drasticamente la storia dell’umanità, non vanno intesi solo come
semplici punizioni che D-o ha scagliato sull’uomo: dovremmo invece
soffermarci sulle grandi opportunità che abbiamo perso.
“Nel seicentesimo anno della vita di Noach nel secondo mese, il
diciassette del mese, in questo giorno, si spaccarono tutte le fonti del
grande abisso e le cateratte del Cielo si aprirono” (Genesi VII, 11)
Lo Zhoar commenta il verso dicendo che il senso del Testo va oltre il
semplice fatto che nel diluvio l’acqua proveniva tanto dal cielo quanto
dalle sorgenti sotterranee. Partendo dall’assunto che la parola “acqua”
indica sempre “Torà”, lo Zhoar sostiene che “le cateratte del Cielo” si
riferisca alla Torà Scritta che viene direttamente dal Cielo ed è
immutabile. Invece “tutte le fonti del grande abisso” rappresentano la
Torà Orale che nella sua pluralità è affidata all’uomo perché attraverso
di essa sviluppi la saggezza della Torà Scritta. In quel momento della
storia, dicono quindi i Maestri della mistica, c’era una grossa
occasione: era un momento molto favorevole, un momento degno della
rivelazione sia dall’Alto che dal basso. Se gli uomini fossero stati
meritevoli avrebbero ricevuto allora la Torà. Invece l’umanità era dedita
ad ogni sorta di immoralità e particolarmente al furto. Iddio, dicono i
Saggi, non può sopportare il furto perché, rubando, l’uomo dichiara
tutto il suo disprezzo verso il prossimo agendo egoisticamente. Quando
gli uomini sono uniti, anche se sbagliano, la sentenza è meno grave.
Eccoci quindi alla seconda occasione mancata della nostra Parashà.
340 anni dopo il diluvio (nell’anno 1996 dalla Creazione) tutti i
discendenti di Noach si erano stanziati nella fertile valle di Shinnar.
Noach era ancora vivo e così pure i suoi figli. Avram aveva 48 anni ed
aveva già riconosciuto il Signore come Unico Creatore. Tutte le
condizioni erano favorevoli: c’erano a disposizione dei grandi Maestri,
la terra era fertile, tutti gli uomini erano assieme e soprattutto
parlavano tutti l’ebraico, la Lingua Sacra con la quale D-o ha creato il
mondo (cfr. Rashì). È invece Nimrod a prendere il potere e ad usare la
comunione di lingua e mezzi come strumento di idolatria (cfr. Tb
Sanedrhin 109a) in una folle impresa.
Il Midrash (Pirkiè deRabbì Eliezer, Targum Jonathan) commenta la
forma plurale che usa il Santo Benedetto Egli Sia annunciando la
discesa (Genesi XI,7) dicendo che Egli si sarebbe rivolto ai settanta
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angeli che circondano il Suo trono, ordinandogli di diventare ognuno
preposto ad una nazione diversa, mentre Israele sarebbe rimasto
dominio privato del Signore. (cfr. Deuteronomio XXXII,9 e commenti in
loco). Rav Josef Bechor Shor commenta in maniera leggermente
diversa: le settanta nazioni avrebbero conosciuto tutte le lingue per poi
dimenticarle (tranne la propria ovviamente) al momento della
dispersione. Tale visione risulta molto interessante: le differenze tra le
nazioni esistevano già, ma loro invece di vivere la ricchezza culturale
che avevano, si appiattivano tutti verso una pericolosa mono-cultura.
Secondo il Bechor Shor, la Lingua Sacra diviene quindi dominio del
solo Ever, progenitore di Avraham. E da lui prende il nome: Ivrìt,
ebraico dalla stessa radice di Ever.
L’episodio della dispersione è particolarmente importante per il fatto
che rappresenta la premessa del mondo così come lo conosciamo oggi.
In effetti è poco dopo la dispersione, con l’avvento del terzo millennio
che inizia con Avraham l’“Epoca della Torà”. La differenziazione delle
lingue, parallela alla diversificazione di storia e sorte crea nel mondo
degli schemi di rapporti che durano ancora oggi.
Le settanta nazioni, parallele al numero degli ebrei che scendono con
Jacov in Egitto, sono divise in tre gruppi secondo i figli di Noach. Don
Izchak Abravanel spiega che ognuno dei figli diviene il progenitore delle
popolazioni di un continente. Shem è padre dell’Asia, Jefet dell’Europa
e Cham dell’Africa. In assoluto Shem viene ricordato come allusivo ad
Israele (che pur non facendo parte del conto dei settanta popoli
discende da Shem) mentre Jefet viene preso a simbolo di uno sei suoi
figli: Yavan, la Grecia.
I Saggi infatti interpretano la benedizione che Noach dà a Shem ed a
Jefet per averlo coperto dopo la profanazione di Cham (secondo il
Talmud, Tb Sanedrhin 70a Cham avrebbe castrato e/o sodomizzato
Noach mentre era ubriaco) come da riferirsi a Israele (quella di Shem)
ed alla Grecia (quella di Jefet). In particolare Shem/Israele viene
benedetto con la spiritualità e i Batè Midrash, le Case di Studio che
fanno sì che il nome del Signore sia benedetto. Jefet/Grecia vengono
premiati con la bellezza, l’arte, la filosofia ed una qualche forma di
condivisione della benedizione di Shem/Israele. Ma di che si tratta ?
Il Talmud (TB Yomà 10a) sostiene che ciò si riferisca al re Ciro,
discendente di Jefet, che ha permesso e favorito la ricostruzione del
Santuario dopo la cattività babilonese.
Diversa è la visione nel trattato di Meghillà (9a). Lì il Talmud legge
l’espressione “yaft Elokim le-Yefet” non come “ Possa il Signore rendere
esteso Jefet” ma come “Possa il Signore concedere bellezza a Jefet”.
Questa diversa interpretazione della parola “yeft”, viene ricondotta ad
uno specifico avvenimento storico.
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Il re egiziano Tolomeo ordinò a settantadue Saggi una traduzione della
Torà in greco. Questi vennero reclusi in coppie e miracolosamente
tutte le 36 versioni erano identiche. La cosa straordinaria è che tutti
avevano modificato il testo negli stessi punti per evitare la
profanazione del nome di D-o (con particolare attenzione
all’eliminazione di alcune forme plurali riferite alla Divinità). Questa
traduzione, meglio conosciuta come “dei Settanta”, introduce una seria
questione che ancora fa discutere al giorno d’oggi: la traducibilità
dell’ebraismo.
La Mishnà [2] insegna che è permesso scrivere i libri della bibbia in
qualsiasi lingua straniera e poi la Ghemarà precisa [3] che ciò è valido
solo per il greco antico per via della sua particolare bellezza (che deriva
dalla benedizione di Jefet).
La bellezza, l’arte e la filosofia possono essere una vera benedizione e,
per Jefet, lo sono. Esse però vanno indirizzate nello spirito della Torà.
Esse devono essere strumento per l’elevazione dell’umanità. Arte,
teatro, filosofia e soprattutto letteratura greca, tutto ciò ovvero che noi
chiameremmo “cultura classica”, sono chiamate dai Maestri con
l’appellativo di “chochmà Yevanit”, “Saggezza Greca”.
La condivisione della benedizione spirituale di Shem da parte di Jefet è
quindi da relegare nella sfera del testo della Torà scritta: è permesso
tradurla in greco (mantenendo la sacralità del testo). Tefillin e Mezuzot
restano però necessariamente in ebraico. Il messaggio è che il mondo
classico e quello occidentale che ne deriva, possono conoscere nella
loro lingua il testo biblico. Diverso è però per il mondo delle mizvot.
Non si può tradurre una Mezuzà o i Tefillin. Le mizvot sono in ebraico.
Sono patrimonio unico del popolo d’Israele. Le mizvot sono legate al
mondo della azione e sono quindi comprensibili solo eseguendole
perché si è precettati. E già hanno ampiamente spiegato i nostri Saggi
che una persona che è obbligata ed esegue un precetto è superiore ad
una che lo esegue volontariamente.
Il senso della benedizione di Jefet dunque, è quello di poter
condividere parte della saggezza d’Israele ma non parte della Torà.
Anche i greci ed il mondo occidentale hanno tanta saggezza ma ciò non
significa che hanno Torà! La Torà è l’immersione nel mondo delle
mizvot, prerogativa del solo popolo d’Israele.
Se la benedizione di Jefet è dunque anche il condividere parte di quella
di Shem, è possibile dire anche il contrario? Dal Testo non
sembrerebbe. La domanda è dunque se sia permissibile per un ebreo
studiare la “Saggezza Greca”. A questo proposito c’è un
interessantissimo passo nel Talmud che vale la pena di chiamare in
causa.
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“Ben Damà, il figlio della sorella di Rabbì Ishmael chiese a Rabbì
Ishmael: ‘Io ad esempio, che ho studiato tutta la Torà intera, mi è
permesso studiare la “Saggezza Greca”? Leggi a proposito questo verso:
‘Non diparta questo libro della Torà dalla tua bocca, e mediterai su di
esso giorno e notte’ (Giosuè I,8), esci e controlla un ora che non sia del
giorno e non sia della notte e studia in essa la “Saggezza Greca”“ (TB
Menachot 99b)
Un primo approccio a questo passo talmudico sembrerebbe negare
qualsiasi forma di interesse ebraico nella cultura classica, e nelle
scienze. Evidentemente non è così. Ho avuto occasione qualche anno
fa di sentire un affascinante lettura di questo passo da pare di Rav
Roberto Della Rocca, Rabbino Capo di Venezia.
In primo luogo, sostiene Rav Roberto Della Rocca, la domanda di Ben
Damà è posta male: come può uno dire di aver studiato tutta la Torà
intera? Abbiamo appena ricordato in occasione di Simchà Torà come il
processo dello studio sia eterno, non si finisce mai di studiare Torà.
Per questo motivo la risposta di Rabbì Ishmael è così dura. Se uno
pensa che la Torà sia come un libro di filosofia, bello ed interessante
ma che una volta finito si passa al prossimo, sbaglia di grosso. Se Ben
Damà pensa di poter passare alla Cultura Greca perché ha esaurito lo
studio della Torà, allora non gli è permesso! Della Torà evidentemente
non ha capito nulla!
Studiare la filosofia e le scienze è evidentemente permesso: si tratta
solo di verificare che cos’è che spinge allo studio. Se lo studio
scientifico o filosofico è finalizzato ad una migliore comprensione della
Torà o alla esecuzione delle mizvot, allora è come se si stesse
studiando Torà. Studiare medicina ad esempio: salvare la vita umana è
una grandissima mizvà. È noto del resto che grandi maestri sono stati
grandi medici (ad es. Rambam). Ma anche l’ingegneria, l’architettura,
la biologia ed ogni altra scienza sono importanti se poste al servizio
della Torà.
L’errore è credere che per un ebreo ci possa essere una forma di
saggezza che possa prescindere o staccarsi dalla Torà. Studiare
filosofia greca come “Torà” sostitutiva è proibito nella maniera più
categorica. Essa può essere uno strumento, mai il fine.
Solo la Torà e le mizvot sono il fine ultimo della vita di un ebreo. Ed
infatti dice il Pirkiè Avot a nome di Rabban Jochanan ben Zakai (II,9):
“Se hai studiato molta Torà non te ne vantare perché è per questo che
sei stato creato”. Le tende di Shem, ossia la Yeshivà di Shem nella
quale studieranno Torà i patriarchi (sic!!!), e tutte le future Yeshivot di
Israele sono i luoghi nei quali si materializza la benedizione di Noach.
Nimrod, costruendo la Torre diceva “facciamoci un nome sicché non ci
si disperda sulla faccia di tutta la Terra” (Genesi XI,4) . Il Talmud
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(Sanedrhin 109a) dice che “un nome” significa “un oggetto di idolatria”.
La generazione della dispersione credeva di poter dare un nome
univoco ad ogni cosa, abbattendo la differenza tra le lingue. C’è un
idolatria del nome, del termine, della parola, nella valle di Shinnar.
Noach ha invece detto: “Baruch A. Elokè Shem” (Genesi IX, 26) che
generalmente traduciamo come “Benedetto sia il Signore Iddio di
Shem”, ma che può essere anche letto come: “Benedetto sia il Signore
Iddio del Nome (o dal Nome)”. Shem significa appunto “nome”.
La Torà ci dice nella nostra Parashà che la differenza culturale è una
grande ricchezza. Tutto sta nel mantenere la propria cultura nel
rispetto di quella del prossimo.
Sottolinea però che non tutte le culture sono degne di rispetto: la
cultura di Nimrod che pretende di sostituire il Nome di D-o con il nome
di un oggetto, la ‘cultura’ dei nazisti che pretendeva di sostituire i nomi
umani con dei numeri, la cultura della Chiesa dell’evangelizzazione
(pensiamo ai conquistadores) e delle conversioni forzate, che
pretendeva di cancellare dei nomi e delle lingue dalla faccia della
Terra; tutte queste ed altre purtroppo non sono degne di alcun
rispetto.
Concludendo la Parashà ci invita a materializzare la benedizione di
Noach: attraverso lo studio della Torà e l’osservanza delle mizvot noi
possiamo far sì che tutta l’umanità torni a chiamare Iddio con un
unico termine, allora sì si potrà dire: “Benedetto sia il Signore Iddio del
Nome”.
“E sarà il Signore come Re su tutta la terra, in quel giorno sarà
il Signore unico ed il Suo Nome unico” (Zecharià XIV,9)
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Il diluvio ed il cambiamento climatico
[1] "Ed uscì Noach ed i suoi figli e sua moglie e le mogli dei suoi figli con
lui. Ogni animale, ogni brulicante ed ogni volatile, ogni cosa che brulica
sulla terra secondo le loro famiglie uscirono dall'arca. E Noach costruì un
altare per il Signore e prese da ogni bestia pura e da ogni volatile puro
ed offrì olocausti sull'altare. Ed odorò il Signore il profumo gradito, e
disse il Signore in cuor Suo: 'Non continuerò a distruggere ancora la
terra per via dell'uomo, poiché l'istinto del cuore dell'uomo è male dalla
sua infanzia e non continuerò ancora a colpire ogni vivente come ho
fatto. Tutti i giorni della Terra saranno ancora semina e mietitura e
freddo e caldo ed estate ed inverno, ed il giorno e la notte non
cesseranno.'" (Genesi VIII, 19-22)
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L'uscita di Noach dall'Arca rappresenta l'ingresso in un nuovo mondo.
Il Midrash (Yalkut Shimonì su Noach) sottolinea come Noach abbia
visto tre mondi diversi: prima, durante e dopo il diluvio. Si tratta di
mondi diversi nel clima e nella natura ma anche e soprattutto nello
spirito e nel mondo delle mizvot e dunque nel rapporto tra l'uomo e
l'Eterno.
Rabbì Ovadià Sforno spiega il senso dello strano verso con il quale
Iddio assicura l'avvicendarsi delle stagioni: "Tutti i giorni della Terra
saranno ancora semina e mietitura e freddo e caldo ed estate ed
inverno, ed il giorno e la notte non cesseranno". Non cesseranno
dal perseverare nello stesso modo innaturale nel quale li ho limitati a
seguito del diluvio e cioè che il percorso del sole devii dalla linea
equinoziale e che questo deviare provochi l'avvicendarsi di tutti questi
tempi; poiché prima del diluvio il sole procedeva sempre sulla linea
equinoziale e perciò era sempre primavera, ed in esso c'era grande
giovamento alle fondamenta, ai vegetali ed ai viventi ed alla durata
delle loro vite. Ed ha detto che ciò sarà 'Tutti i giorni della Terra' fino
a quando non corregga Iddio Benedetto questo danno che vi è stato
fatto con il diluvio come è detto 'La nuova terra che Io faccio' (Isaia
LXVI, 22), poiché allora tornerà il percorso del sole sulla linea
equinoziale come in passato..." (Sforno su Genesi VIII, 22)
Ed è lo stesso Sforno che spiega (Genesi VI, 13) che questo
cambiamento climatico provocò un deterioramento dei frutti e quindi
dell'alimentazione umana che fu causa della drastica riduzione della
vita umana dopo il Diluvio. Fu questo il motivo per il quale fu
permesso alla discendenza di Noach di cibarsi di carne, in modo da
supplire in qualche modo al deterioramento dell'alimentazione umana.
Come dicevamo però, non si tratta di sterili cambiamenti nella natura,
bensì di una profonda rivoluzione nella natura umana e nella natura
dei rapporti con il Creatore. Sforno, in linea con questi suoi commenti,
legge anche la riflessione di D-o sulla natura dell'istinto
dell'uomo: "poiché l'istinto del cuore dell'uomo è male dalla sua
infanzia: poiché deteriorandosi il clima da qui in poi rispetto a quanto
non fosse prima del diluvio, non illuminerà più in essi la forza razionale
dall'infanzia come in principio in modo che si opponga al desiderio che si
rafforza in essi sin dalla loro infanzia." (Sforno su Genesi VIII, 21).
Dunque assieme al cambiamento naturale avviene un cambiamento
spirituale. Mentre prima del diluvio l'uomo nasceva con l'istinto del
bene e quello del male, da dopo il diluvio l'uomo nasce con il solo
istinto del male per poi acquisire l'istinto del bene a poco a poco con la
crescita. (Radak in loco). Bisogna capire cosa ciò voglia dire. È evidente
che non significa che i bambini sono cattivi. Essi non sono
giuridicamente responsabili. Ossia è proprio l'assenza di raziocinio
(istinto del bene) e la totale prevalenza degli istinti materiali (istinto del
male) che rendono il bambino non responsabile delle proprie azioni.
Questo cambiamento provoca la creazione di una classe (tutti gli
umani fino al tredicesimo anno di età, o il dodicesimo per le donne)
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non punibile. Questo periodo deve essere inteso come un periodo di
preparazione, un periodo nel quale acquisire gradualmente l'istinto del
bene attraverso lo studio della Torà. Per questo lo studio della Torà dei
bambini è particolarmente importante, perché, e lo abbiamo visto
parlando dell'ultimo Rashì alla Torà, è fondamentale prepararsi a
ricevere la Torà. I Saggi asseriscono provocatoriamente che quando,
non sia mai, una casa prende fuoco di Shabbat, non c'è tempo di
aprire lo Shulchan Aruch per vedere cosa sia permesso salvare dalle
fiamme e cosa sia proibito. La vita è così. Non si può iniziare a studiare
a tredici anni perché a tredici anni già si dovrebbe sapere cosa fare.
Questo non significa che si debba rinunciare a studiare, Rabbi Akivà
con la sua vita ci insegna che si è sempre in tempo, ma in assoluto è
bene riflettere sull'importanza dell'educazione dei bambini. Questo
studio della Torà è così importante che nei giorni penitenziali noi
invochiamo come ultimo merito, qualora quello dei patriarchi e dei
giusti non potessero difenderci, il merito dei 'bambini che studiano Torà
che non hanno mai peccato'. Ossia punendo gli adulti Iddio deve tener
presente che ci sono degli innocenti completi che si stanno preparando
ad essere dei buoni adulti che potrebbero andarci di mezzo.
Il cambiamento climatico che segue il diluvio va letto nella stessa linea.
Prima una primavera universale e un continuo equinozio: giorno e
notte di identica durata. Poi le stagioni ed il variare della durata del
giorno e della notte. Secondo i Saggi il giorno è un momento di Chesed,
grazia Divina, laddove la notte è un momento di Din, di giudizio. Prima
del diluvio non ha senso parlare di periodi né per quanto riguarda il
corso dell'anno, né per la vita delle persone. Non ci sono momenti
dell'anno nei quali è più forte la misericordia né momenti particolari
per il giudizio, come abbiamo oggi. E così nella vita delle persone. La
scorsa settimana abbiamo detto a proposito dell'offerta di Kain ed Evel
che si trattava del korban Pesach. Prima del diluvio il mondo era
sempre in primavera e quindi in una sorta di Pesach permanente. Ma
Pesach nella sua grandezza non è un momento semplice. Pesach è in
qualche modo il momento dell'anno in cui ci viene richiesta una
consapevolezza particolare. Il mondo prima del diluvio è un mondo nel
quale vige quel livello superiore particolare che chiamiamo 'Leil
Shimurim', la notte dei sorvegliati o di coloro che sorvegliano. Dopo il
diluvio l'umanità non è più ad un livello nel quale questo sia possibile.
E così come dopo il peccato del Vitello le prime tavole non sono più
adatte, allo stesso modo il clima del pre-diluvio non è più adatto al
nuovo mondo. Il mondo che noi conosciamo è un mondo in cui ci sono
momenti di grande consapevolezza come Pesach, ma anche momenti di
profonda gioia come a Purim o di profondo ritorno come il periodo
penitenziale. È un mondo nel quale anche la vita umana conosce
l'epoca della preparazione e quella dell'esecuzione. Ed in questo senso
non dimentichiamo l'importanza che ha Pesach nel quadro
dell'educazione dei figli. I quattro figli non sono che la personificazione
del fatto che a Pesach viene richiesta una consapevolezza collettiva e
che tutti devono partecipare seppur secondo il proprio livello.
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Dunque i bambini vengono creati dopo il diluvio. Si tratta di una
grande sfida anche per gli adulti, quella di saper impostare
correttamente la prossima generazione. La generazione che viene
cancellata dal diluvio discende spiritualmente e biologicamente da
Kain. È una generazione che non conosce il concetto di primizie. Non
conosce il dinamismo. Come può una generazione così vivere in un
epoca che è un Pesach universale? Quello stesso Pesach nel quale
Iddio stesso 'salta sulle colline' secondo l'allegoria del Cantico dei
Cantici praticando Lui una distinzione tra Israele (primizia delle genti)
e l'Egitto. Non dimentichiamo che questa era stata l'intuizione di Evel,
ma Evel è stato assassinato. Ed è Noach che riprende le fila del
discorso di Evel. La prima cosa che Noach fa uscendo dall'Arca, prima
ancora di riprendere i rapporti coniugali come gli era stato ordinato
(durante l'anno di permanenza nell'Arca i rapporti erano proibiti),
presenta delle offerte sull'Altare di Evel.
"Ed è tradizione nota a tutti che il luogo nel quale costruì David e
Shelomò l'Altare nell'aia di Aravnà è il luogo nel quale costruì Avraham
l'Altare e legò su di esso Izchak. Ed è lo stesso luogo nel quale costruì
Noach [l'Altare] quando uscì dall'Arca. Ed è lo stesso Altare sul quale
offrì Kain ed Evel. E su di esso offrì il primo Uomo un offerta quando fu
creato, e da lì fu creato. Hanno detto i Saggi: 'L'Uomo è stato creato dal
luogo della sua espiazione'." (Rambam, Hilchot Bet HaBechirà II,2)
Noach, offrendo animali puri, compie quella selezione tra adatto e non
adatto che è alla base del concetto di primizia. Offrire sull'Altare del
Tempio, sede degli illustri precedenti citati da Maimonide, significa
tornare alla natura stessa dell'uomo e capire che l'uomo è stato creato
proprio perché avesse la capacità di espiare. Noach, in qualche modo,
ridà una direzione al mondo dopo la morte di Evel. Dunque è
necessario avere un Pesach ed un non - Pesach per poter spiegare ad
un bambino la differenza che c'è tra una cosa e l'altra. E noi iniziamo il
Seder insegnando ai bambini la differenza tra questa notte e le altre.
Ciononostante aspiriamo ad un epoca che sia tutta un Pesach e nella
quale la differenza tra bene e male venga ad assopirsi per la totale
assenza di male. L'epoca nella quale secondo i nostri Saggi Iddio
sgozzerà l'istinto del male. L'epoca nella quale la dicotomia tra bene e
male che è in ognuno di noi sarà realmente uno strumento al servizio
di D-o. In questa luce possiamo capire meglio una nota disputa
rabbinica.
Nel trattato di Rosh HaShanà (10b) Rabbì Eliezer e Rabbì Jeoshua
discutono sull'epoca della creazione del mondo e sull'epoca della
redenzione futura. Rabbi Eliezer sostiene che in Tishrì fu creato il
mondo ed averrà la redenzione finale mentre Rabbi Jeoshua dice che
fu in Nissan. Forse è possibile conciliare queste due idee basandosi sul
commento di Sforno secondo il quale il mondo tornerà ad essere una
primavera universale, e quindi un Nissan, con l'avvento messianico.
Forse quindi, dietro alla disputa sul calendario, si cela una più
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profonda certezza. Che il mondo possa tornare ad un epoca di
primavera universale.
Mi pare giusto ricordare in conclusione che il nostro Rabbi David Prato
disse ("Dal Pergamo della Comunità Israelitica di Roma", discorso per
Pesach) che i giovani sono la primavera delle comunità. Si può forse
capire Pesach senza bambini? I bambini non si vergognano di fare
domande, questo è lo spirito della primavera. Non c'è definizione di
Pesach che dia la Torà senza citare la necessità di rispondere ai figli.
Nello stesso spirito direi che per far avanzare la primavera universale
dobbiamo investire sui giovani che sono la primavera delle comunità e
che allo stesso tempo i meno giovani debbano imparare dai giovani
come ci si prepara a ricevere la Torà.
E non è mai troppo tardi.
5763
La sessualità e l’ebraismo
“E venne a lui la colomba sul far della sera, ed ecco un ramo di ulivo
strappato nella sua bocca, e seppe Noach che le acque erano calate
dalla terra.” (Genesi VIII,11)
“Ed ha detto Rabbì Jermiah ben Elazar: Che significa quanto è scritto
‘ed ecco un ramo di ulivo strappato nella sua bocca’? Disse la colomba
dinanzi al Santo Benedetto Egli Sia: ‘Padrone del mondo! Possano
essere i miei alimenti amari come l’ulivo e dipendenti dalla Tua Mano e
che non siano dolci come il miele e dipendenti dalle mani di carne e
sangue.’” (TB Eruvin 18b)
La Parashà di questa settimana è segnata da uno dei più tragici eventi
della storia dell’umanità. Il diluvio. Il diluvio segna in maniera
categorica il fallimento dell’umanità tanto che D-o ne decreta la
distruzione e solo un manipolo di uomini, Noach e la sua famiglia,
vengono traghettati, o meglio vengono chiamati a traghettare il mondo,
verso tempi migliori.
Rav Mordechai Elon shlita affronta in Techelet Mordechai il nocciolo
della questione. Perché l’umanità si porta addosso la distruzione?
Immoralità sessuale. Il Talmud lo espone chiaramente (Sanedrhin 57a,
108b) e Rashì in loco: “La generazione del diluvio furono puniti per i
rapporti proibiti come è scritto: ‘E videro i figli di D-o le figlie dell’uomo
quando esse sono belle e presero per loro donne da tutto ciò che
scelsero. (Genesi VI,2)”
Secondo Rashì si tratta dei giudici, dei principi, dei potenti insomma
che prendevano le donne ‘quando esse sono belle’, ossia nel loro
matrimonio. Si tratta di una sorta di ius primae noctis primordiale. Ed
infatti tanto Rashì che il Ramban sono concordi nel dire che questa è
la violenza di cui parla il testo. L’immoralità sessuale alimenta se
stessa e così intende Rashì ‘da tutto ciò che scelsero’ “persino le
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sposate, persino l’uomo e la bestia”. Si passa dall’adulterio,
all’omosessualità fino ai rapporti con gli animali. Questo atteggiamento
non rimane condotta dei soli leaders della generazione ma si trasmette.
“E vide Iddio la terra ed ecco che era corrotta poiché aveva corrotto ogni
carne la sua via sulla terra.” (Genesi VI,12) che il Talmud intende (TB
Sanedrhin 108): “Ogni carne – ciò insegna che si accoppiarono bestie
con animali ed animali con bestie e tutti con l’uomo e l’uomo con
tutti.”
Il Talmud in Succà 52b insegna che l’organo sessuale umano: ‘se lo si
sazia è affamato e se lo si affama è sazio’ che Ramban (su
Deuteronomio XXIX,18) interpreta come ad insegnare che il mero
desiderio sessuale può solo rafforzarsi e che non solo credendo di
saziarlo lo si affama, ma che anzi così facendo lo si affama anche di ciò
che generalmente non cercherebbe: l’omosessualità. Il Bet HaLevì si
chiede come mai tale condotta deviante affligge anche il mondo
animale e vegetale che sono notoriamente privi di istinto del male e
spiega che la forza della routine nel peccato può cambiare il mondo.
L’uomo che si abitua a peccare diviene insensibile al rimprovero, egli
crea una sorta di seconda natura, natura del peccato. Questa influisce
ovviamente sul prossimo ma anche sul mondo animale e vegetale
giacché questi sono creati come strumenti per l’uomo. L’uomo ha il
potere di innalzare il mondo ma anche di ridurlo in rovina come spiega
il Sefer HaChiuch. È l’influenza che ogni nostra azione ha sul mondo
che decreta la distruzione dell’intero pianeta. Da qui il Bet HaLevì
spiega uno strano passo talmudico (TB Chagghigà 15) in cui si dice
che il giusto merita la propria parte e quella del proprio compagno nel
Mondo Futuro e così anche il malvagio quella propria e quella del
proprio compagno nel Gheinom. Spiega il Bet HaLevì che proprio per
via dell’influenza che si ha sul prossimo si verrà premiati per quella
parte delle buone azioni dei nostri fratelli che sono risultato della
nostra buona influenza e che viceversa verremo puniti per la parte che
abbiamo nella colpa del prossimo.
In un mondo che si avvia alla distruzione per aver rinunciato alla
discriminante Divina instillata in ogni uomo e per aver scelto la
componente bestiale che è in ognuno di noi, nasce un uomo già
circonciso. Noach. Lemech, padre di Noach, capisce che è il segno di
una sorta di redenzione e lo chiama Noach, dalla radice di
consolazione.
Il Techelet Mordechai chiama l’Arca di Noach, l’Arca della ‘Ishiut’, del
rapporto di coppia, del matrimonio, di quel modello che si contrappone
al solo sesso ‘min’ maschile/femminile e che propone la dimensione
‘ish’ uomo/donna. Ebbene gli animali che salgono sull’arca sono
caratterizzati dall’essere ‘hish veishà’, ‘uomo e donna’ (sic!) termine
alquanto insolito per degli animali che invece indica generalmente
l’aspetto legale dell’unione. In TB Sanedrhin 108b ciò viene
interpretato come un riferimento al fatto che Noach fece passare tutti
gli animali dinanzi all’arca e che questa fece entrare solo quelli che
non si erano macchiati di rapporti proibiti. E per quanto concerne
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l’uomo Iddio ordina separatamente l’ingresso nell’Arca a Noach ed ai
suoi figli ed alla moglie di Noach e le sue nuore. Rashì in loco (X,18)
dice in proposito “Gli uomini da soli e le donne da sole, da qui che gli
furono proibiti i rapporti sessuali.”
Attraverso l’astensione dalla vita coniugale nel corso del diluvio i
superstiti vengono chiamati non solo ad avere sensibilità nei confronti
di un mondo che viene cancellato, ma anche ad indicare il fatto che
l’istinto sessuale è alla mercé dell’uomo e non viceversa. Secondo i
Saggi nelle specie animali furono creati separatamente maschi e
femmine. Solo l’uomo fu creato uomo e donna assieme, in una sol
carne poi separata. Per questo solo per l’uomo vale il termine di
‘devekut’, attaccamento. Infatti l’attaccamento alla donna è segnalato
appena dopo la creazione di questa come il corso “naturale” della vita
dell’uomo ‘che lascia suo padre e sua madre e si attacca a sua moglie’.
Solo due rapporti prevedono devekut. Uomo/donna e uomo/D-o. È
infatti detto ‘E voi siete attaccati al Signore vostro D-o’. (Deuteronomio
IV,4) Non si possono scollegare questi due ‘attaccamenti’, ed è
monumentale in proposito Rav Elon shlita in Techelet Mordechai
(Noach pp.19-20): “Quando si crea un diluvio del genere, ogni uomo
deve creare per se stesso un’Arca, un Arca di ‘Ishiut’. ‘Ishiut’ non è
sesso. Il sesso è l’impulso animale semplice che è in ogni creatura –
nell’uomo come nell’asino o nell’albero - di trovare la propria
soddisfazione sessuale. Presso l’uomo, diversamente rispetto alle altre
creature, c’è necessità di un legame spirituale completo che va oltre il
legame sessuale, del quale il legame sessuale è solo una parte (per
quanto importante e santa!). Il rivoltare questa essenza
spirituale/Divina di attaccamento (devekut) tra uomo, donna e D-o,
in soddisfazione, in impulso, è la distruzione dell’immagine Divina che
è nell’uomo. Non troverai impulso più egocentrico dell’impulso
sessuale-naturale, e non troverai rapporto più altruista e nobile
dell’’Ishiut’. Non c’è sfruttamento più rude dello sfruttamento delle
‘figlie dell’uomo’ nella terra solo per via delle tue necessità-impulsi
egocentrici e non c’è cosa più eccelsa della capacità di innalzare
persino le tua necessità più egoistica in un obbligo halachico, non per
la tua soddisfazione e per il riempimento del tuo desiderio ma per
l’obbligo ‘onatà’ [il termine con il quale la Torà indica in Esodo XXI,10
l’obbligo del marito di rispondere alle esigenze sessuali della moglie], e
della ‘sippukà’ [lett. soddisfazione, necessità: Rav Elon ricorda che il
termine ‘sippukaichi’, le tue necessità, nella Ketubà è l’obbligo
halachico di intrattenere rapporti sessuali] di colei verso la quale sei
obbligato al ‘E saranno una sola carne’. Non una sola anima, un sol
cuore, ma persino la carne. La stessa cosa nella quale l’uomo è sempre
egoista in essa, anch’essa può essere uno. È dunque la halachà a
trasformare l’istinto animale in precetto e santità. Non siamo più
animali nel momento in cui mettiamo per iscritto nella Ketubà che la
vita coniugale è un obbligo che esige da noi la Torà con tanto di
responsabilità connesse e non una violenza degli istinti sulla nostra
anima.
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Questi messaggi non provengono da un epoca ancestrale e non sono
validi solo per il mondo distrutto. L’Arca traghetta con Noach il
concetto di ‘Ishiut’, di rapporto legale di coppia. Noach prova ad
affidare il compito di vedetta al corvo, che però non lo accetta non
allontanandosi mai dall’Arca. Rashì ci dice (citando TB Sanedrhin
108b) che era sospettoso della propria compagna. Non si fidava. Non si
fidava a lasciare il proprio partner. Il Midrash dice che essendoci una
sola coppia di corvi (come ogni coppia di animali impuri) non si poteva
rischiare lo sfaldamento di questa, perché saranno i corvi che
porteranno da mangiare al Profeta Elia nella sua fuga nel deserto. Il
corvo con la sua sfiducia nel rapporto di coppia diviene animale solo, e
ricorderà ad Elia che non ci si può isolare. Che ‘non è bene che l’uomo
sia solo’.
Di contro la colomba è per definizione l’animale fedele al proprio
partner. Rashì sul Cantico dei Cantici (IV,1) dice che si tratta di una
fedeltà incondizionata che giunge fino al martirio. E la preoccupazione
della colomba per la qualità del proprio sostentamento sembra tratta
proprio dallo spirito della Ketubbà. Mezoneichi, i tuoi alimenti.
Il Radak sostiene che la colomba è da sempre strumento di
comunicazione a distanza, e che essa conosce la via del ritorno.
Dunque la colomba è anche il prototipo della capacità di saper fare
ritorno, teshuvà. È l’avere un ruolo ed un utilità come messo che salva
la colomba dall’essere mangiata dall’uomo. Spiega così il Radak quanto
detto in Shabbat (49a) che la colomba è protetta dalle proprie ali, ossia
dal proprio ruolo, dal proprio compito.
Straordinarie sono le circostanze di questo insegnamento: “...una volta
decretò il governo [romano] un decreto su Israele, che chiunque
mettesse i Tefillin gli fosse piantato un chiodo in testa. Elishà li
metteva ed usciva al mercato. Lo vide un ispettore e [Elishà] corse via,
e questi gli corse appresso. Avendolo raggiunto [Elishà] se li tolse dal
capo e li tenne in mano. Gli disse: ‘Che hai nella tua mano?’ Disse lui:
‘ali di colomba’, aprì la mano e vi si trovarono ali di colomba, da qui lo
chiamarono Elishà il padrone delle Ali...”
La Ghemarà prosegue e si chiede come mai disse proprio ali di
colomba. Egli ragionò dicendo che la Keneset Israel, l’Assemblea
d’Israele, è paragonata alla colomba e come la colomba è protetta dalle
proprie ali così Israele è protetto dalle mizvot. Le Tosafot ci spiegano
qual’è la differenza tra le ali della colomba e quelle degli altri volatili e
dicono che mentre gli altri volatili quando sono stanchi si fermano su
una roccia, la colomba si riposa con un ala e vola con l’altra. Così
anche Israele non conosce riposo dalle mizvot ma passa di mizvà in
mizvà. Israele è salvato continuamente dal proprio ruolo. I Tefilin sono
dunque simbolo di attaccamento a D-o ma sono anche ricordo del fatto
che è il corpo umano nella sua materialità che va santificato.
Il passo talmudico in questione si apre con l’insegnamento di Rabbì
Jannai che vuole che i Tefillin necessitino un corpo pulito. La pulizia
in senso lato del corpo e della materia in generale è l’unico prerequisito
per l’attaccamento a D-o. Secondo il Midrash la colomba prese il ramo
di ulivo nel Giardino dell’Eden. Si chiede il Ramban come fece Noach a
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stabilire che le acque erano scese se l’ulivo fu preso dall’Eden e non da
questo mondo. Risponde che le porte del Giardino furono chiuse per
tutta la durata del diluvio e solo dopo che le acque furono calate
queste vennero riaperte. Il ramo di ulivo dell’Eden testimonia il fatto
che la distruzione non è altro che il risultato della chiusura delle porte
del Giardino, della separazione e lontananza tra D-o e l’uomo. In un
mondo corretto le porte sono aperte e Noach sa che è veramente finito
il diluvio solo quando capisce che Iddio ha riaperto i propri cancelli,
quei cancelli che noi uomini con il nostro comportamento avevamo
chiuso.
E ricorderemo che i Saggi insegnano che nel Terzo Santuario, possa
essere costruito presto ed ai nostri giorni, la porta del cortile interno si
aprirà da sola vedendo Israele che giunge a festeggiare lo Shabbat ed il
Capomese. Il diluvio è, nella visione dello Zohar, anche il preludio al
mondo della Torà e le fonti dell’abisso e le cataratte del cielo [il diluvio
è sia dall’alto che dal basso] diventano un modo per indicare le acque
superiori e quelle inferiori, il mondo celeste e quello dell’uomo. Il
diluvio è l’incapacità di ricongiungere in maniera sana le due acque.
Nel trattato di Chagghigà troviamo (15a): “Hanno insegnato i Maestri:
‘Accadde che Rabbì Jeoshua ben Channanià si trovasse su uno scalino
del Monte del Tempio [nel Santuario] e lo vide Ben Zomà e non si alzò
dinanzi a lui [in segno di rispetto come dovuto]. Disse lui: ‘Da dove e
per dove Ben Zomà? [A che stai pensando?] Disse lui: ‘Stavo
guardando [lo spazio] che c’è tra le acque superiori e le acque inferiori
e non c’è tra di esse che tre dita solamente come è detto (Genesi I,2) ‘E
lo Spirito di D-o aleggiava sulle acque’, come una colomba che aleggia
sui suoi figli e non li tocca’. Disse Rabbì Jeoshua ai suoi discepoli:
‘Ben Zomà è ancora fuori! Il fatto che ‘E lo Spirito di D-o aleggiava
sulle acque’ quando era? Il primo giorno. E la separazione è stata il
secondo giorno come è scritto (Genesi I, 6-8) ‘...e separi [il firmamento]
tra acque ed acque’. Ed allora quant’è [la distanza tra le acque]? Ha
detto Rav Achà bar Jacov: ‘Come un capello’ ed i Saggi dicono: ‘Come
[lo spazio che c’è] tra due traversine di un ponte’. Mar Zutra e secondo
alcuni Rav Asì dice: ‘come [lo spazio] tra due manti stesi uno sull’altro’
e c’è chi dice come [lo spazio] tra due bicchieri rovesciati messi uno
sull’altro.”
Spiega il Rav Desler (Michtav MeEliau V,474) che ad un esame
profondo non c’è separazione tra acque superiori ed acque inferiori. Le
acque inferiori rappresentano il mondo dell’uomo e la sua materialità,
ossia la ‘contrazione’ di D-o che rende possibile il mondo. Esse
rappresentano il fatto che Iddio si ‘nasconde’ e ci lascia liberi di
scegliere. Ma l’inferiorità e l’essere la dimensione del nascosto di
questo mondo sono funzionali alla rivelazione del mondo celeste. Dal
punto di vista della verità superiore il mondo umano è una discesa in
funzione di una successiva salita e come diceva il Rav Menachem
Mendel Schnersohn z’l, ogni discesa funzionale ad una salita è salita
stessa. Queste tre dita di distanza non ci sono dice Rabbì Jeoshua. C’è
aderenza. La colomba non aleggia sui piccoli, li nutre, li protegge e se
non li tocca, di certo non rimane a tre dita di distanza.
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La distanza tra le acque, tra noi e la nostra Torà e D-o e la sua Torà
può essere quella di un capello, il capello che indica come abbiamo
visto più volte la sconfitta dell’istinto del male della sessualità.
Può essere lo spazio tra due traversine di un ponte se si capisce che la
Torà è l’unico ponte che collega l’uomo al suo Creatore.
Può essere lo spazio tra due manti se si capisce che ammantandosi
con il Talled si fa esattamente quello che ha fatto Iddio quando si è
ammantato con la Luce ed ha creato il mondo.
Può essere lo spazio tra due bicchieri che si rovesciano uno nell’altro
se si capisce che versando assieme il vino della Birkat Hamazon e
quello delle Sheva Berachot come di norma al termine di un pasto
nuziale si afferma che anche il cibo ed il sesso, che sono le attività che
ci accomunano agli animali, possono distinguerci da essi e santificarci
come ricorda sempre il mio Maestro Rav Chajm Della Rocca shlita,.
Noi ebrei non ci limitiamo al sesso degli animali. Noi facciamo i
kidushin. La santificazione. Nella sesta benedizione del matrimonio
viene detto: ‘Che possiate essere abbondantemente rallegrati oh amici
amati come ti ha rallegrato la tua creazione nel Giardino dell’Eden in
antico’.
Dice il Naziv di Volozin: “Sono chiamati amici del Santo Benedetto Egli
Sia perché si occupano della costruzione del mondo divenendo un
uomo completo”. Se questo è il mondo della separazione, tra spirito e
materia, tra D-o e uomo e c’è chi, con i migliori intenti come Ben
Zomà, misura le distanze, ci vuole Rabbì Jeoshua per dirci che la
distanza non c’è. E che le acque separate il secondo giorno possono
ricongiungersi in ogni momento attraverso il nostro attaccamento alla
Torà. Noi possiamo cambiare il corso stesso della Creazione se siamo
veramente amici di D-o. Vale la pena di riflettere. Rabbì Jeoshua
scardina la tesi di Ben Zomà con un voluto errore nella propria. Il
discorso di Rabbì Jeoshua non ha senso. Rabbì Jeoshua parla di un
‘Yom Rishon’ Primo Giorno che non esiste, non c’è mai stato. La Torà
parla di ‘Yom Echad’, Giorno Uno. Non ha senso parlare di cronologie
su quanto dice la Torà del giorno uno: il Tempo ancora non c’era. Ed è
qui il punto di Rabbì Jeoshua, se mi parli del giorno ‘Uno’ ti devi
ricordare che questo trascende. Si è primi quando c’è un secondo, ma
noi possiamo far sì che non ci sia questo giorno secondo di
separazione e se noi impariamo a ricomporre le acque allora sì ‘In quel
giorno sarà il Signore Unico ed il Suo Nome Unico.’ E noi potremo
riportare il mondo all’Unicità di quel giorno uno (che non è primo) che
è poi secondo i Saggi preludio del giorno di Kippur.
Ed ancora Ben Zomà è assorto in pensieri eccelsi nel Santuario, ma è
seduto per terra. Nulla lo esime dal rispetto per il proprio Maestro. Se
si volesse veramente innalzare dovrebbe cominciare con l’alzarsi da
terra e dare il dovuto rispetto alla Torà ed a chi la rappresenta. Se non
capisce che non ci sono neanche tre dita di distanza tra i più alti studi
della Torà e la semplice regola di alzarsi dinanzi al Maestro, Ben Zomà
è ancora fuori dalla comprensione profonda.
L’Attaccamento, la Devekut, sono lo scopo della vita umana. Ma come
ci si attacca a D-o? Facendo le mizvot. E forse ancora di più,
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attaccandosi ai Saggi, ‘Attaccati alla polvere dei loro piedi’ dice il Pirkè
Avot.
Non c’è bisogno di meditazioni trascendentali, basta la polvere dei loro
piedi, basta vedere come si allacciano le scarpe. L’ebreo ha l’occasione
di attaccarsi a D-o in ogni momento attraverso le mizvot.
C’è una mizvà che più delle altre simboleggia questo attaccamento. I
Tefillin. I Tefillin sono le ali di colomba, quelle ali che ci proteggono e ci
insegnano a legare assieme cielo e terra.
Spiega il Gaon di Vilna [Kol Mevasser] che si tratta di due mizvot che
vanno fatte assieme ed infatti non si deve parlare tra l’apposizione dei
due tefillin. Essi simboleggiano cuore ed intelletto, pratica e pensiero,
acque inferiori ed acque superiori e ci consentono ogni giorno di legarci
a D-o. È per questo che il Talmud (TB Berachot 47a) non trova altra
definizione valida per un ‘am haarez’, un uomo della terra, un
ignorante, che un ebreo che non metta i tefillin. Non mettere i Tefillin
la mattina significa aver rinunciato a quella parte di Cielo che è in
ognuno di noi ed aver scelto di essere uomo della terra.
Dice il Baal Shem Tov che quando si mettono i Tefillin l’anima
vorrebbe staccarsi dal corpo ed è per questo che ci leghiamo con essi,
per non volare via. Quanta profondità in queste parole. Mentre si lega
a D-o l’ebreo deve ricordare che il suo posto è qui sulla Terra, è da qui
che può legare cielo e terra con i lacci dei Tefillin.
Come avevamo detto nelle scorse settimane l’esperienza delle feste non
si esaurisce ma anzi ci lancia in un nuovo anno pieno di sfide e di
salite al servizio di D-o. E così anche questa settimana abbiamo
proseguito lo studio dello Shemà che ci ha accompagnato da Rosh
Hashanà. Se Bereshit era ‘veshinnantam’, ‘lo insegnerai-ripeterai ai
tuoi figli’, Noach è ‘Ukshartam’, ‘E le legherai’.
‘E le legherai come segno sul tuo braccio e come frontale tra i tuoi occhi’
(Deuteronomio VI,8)
L’imperativo di legarci a D-o in ogni nostra azione, anche e soprattutto
nella vita sessuale. La sfida di legare anima e corpo, cielo e terra,
acque superiori ed acque inferiori. La promessa di legare assieme i due
pezzi apparentemente separati del secondo giorno della creazione e far
tornare il primo giorno ad essere giorno ‘Unico’, nel giorno in cui il
Signore sarà Unico ed il Suo Nome Unico.
5764
Nimrod e l’idolatria
“E Cush generò Nimrod, egli iniziò ad essere forte nella terra. Egli era
forte nella caccia dinanzi al Signore, per questo verrà detto: ‘Come
Nimrod, forte nella caccia davanti al Signore’.” (Genesi X, 8-9)
“ad essere forte: per far ribellare tutto il mondo contro il Santo
Benedetto Egli Sia con la congiura della generazione della dispersione.”
(Rashì in loco)
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19
Si fa un gran parlare di globalizzazione, di quanto il mondo sia sempre
più un unico grande villaggio globale. La nostra Parashà ci porta in un
mondo lontano (ma poi così tanto?) nel quale tutta l’umanità era
riunita in una grande valle, che ha dato i natali al mondo civilizzato
così come noi lo conosciamo. È il mondo della “generazione della
dispersione”, la generazione di coloro che volevano costruire una Torre
che preservasse la loro unità e che furono invece dispersi ai quattro
angoli della terra, separati ora non solo dalla distanza geografica ma
anche da quella culturale della confusione delle lingue. La storia è
nota, ma troppo spesso la leggiamo di corsa, immersi nei grandiosi
eventi della Creazione e del Diluvio, ed appena prima di iniziare con
Avraham la storia d’Israele. Ed invece è una Parashà fondamentale il
cui approfondimento è imprescindibile per il nostro mondo, così
piccolo e globalizzato ma allo stesso tempo così scisso e frammentato.
Cosa successe effettivamente in quella Valle di Shinnar quattromila
anni fa ?
Il primo fatto degno di nota è la nascita di un personaggio singolare. Si
tratta di uno dei figli di Cush, figlio di Cham, nipote di Noach. Cham
mette su una bella famigliola sulla quale poi torneremo.
“Ed i figli di Cham: Cush e Mizraim e Put e Kenaan. Ed i figli di Cush:
Sevà e Chavilà e Savtà e Raamà e Savtechà; ed i figli di Raamà: Sheva
e Dedan.” (Genesi X,7)
In modo assai sorprendente riprende il Testo: “E Cush generò
Nimrod…”. Tale stranezza non sfugge al Chizkuni: “Il fatto che non ha
contato Nimrod con il resto dei suoi fratelli è per mostrare le sue azioni
isolatamente.”
Nimrod è quello che verrebbe definito un uomo nuovo. Uno che non
viene neppure contato assieme ai propri fratelli giacché rappresenta la
nascita di qualcosa di nuovo. “…egli inizò ad essere forte nella terra.
Egli era forte nella caccia dinanzi al Signore, per questo verrà detto:
‘Come Nimrod, forte nella caccia davanti al Signore’.” (Genesi X, 8-9)
Secondo i Saggi questa forza è da intendere come l’esercizio del
dominio politico ed in modo particolare il fatto che Nimrod diviene il
primo re della storia. “…poiché fino a che sorse lui non ci fu uomo il cui
cuore lo spingesse a dominare il popolo attraverso la propria forza, per
questo ha detto [il verso] : ‘…nella terra’.” (Radak in loco). Ma non è la
forza bruta della violenza, apparentemente, a caratterizzare Nimrod,
quanto la forza della caccia. L’insostituibile Rashì ci dice che egli
“cacciava la mente delle creature con la sua bocca e le portava a
ribellarsi al Luogo.” Nimrod come cacciatore di consensi dotato di una
particolare abilità oratoria è colui che attraverso la sua forza convince
la sua generazione a ribellarsi a D-o, appena dopo il terribile diluvio.
La forza in questione non è dunque una forza coercitiva, almeno non
nel senso comune del termine. Nimrod non forza gli altri. Forza se
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stesso, ed infatti dice Rashì nello spiegare il senso della fine del verso,
“per questo verrà detto: ‘Come Nimrod, forte nella caccia davanti al
Signore’.”: “di ogni uomo che fa del male con forza, che conosce il suo
Creatore e che intende ribellarsi contro di Lui, verrà detto: ‘Come
Nimrod, forte nella caccia’“. Dunque la ghevurà, la forza di Nimrod è
una forza autodistruttiva. La forza di cui si deve armare colui che è
malvagio non per caso, per maleducazione o comunque con
attenuanti. Di colui che conosce il suo Creatore e che intende
ribellarsi contro di Lui.
Ed è monumentale il commento del Marhal di Praga in Gur Ariè su
quanto dice Rashì:
“Il senso semplice del Testo è che era un re risoluto; in ogni modo il fatto
che lo Scritto ricorda la sua risolutezza e la sua forza dinanzi al
Signore, significa che egli faceva ribellare contro il Santo Benedetto Egli
sia, giacchè non è inerente la forza dinanzi al Signore, ed egli
iniziò ad essere forte dinanzi al Signore in luogo della più degna
sottomissione. Questo indica che la sua risolutezza, la risolutezza nella
rivolta è una questione di idolatria, e che per mezzo di ciò egli faceva
ribellare contro il Santo Benedetto Egli Sia, e per questo è chiamato forte
nella caccia, giacché il forte nella caccia è caratterizzato dall’inganno e
dal raggiro e non procede per la via semplice e retta. E questa era
anche la loro fede. E dal fatto che è scritto ‘dinanzi al Signore’
viene a dire che non era solo forte nella caccia come gli altri
forti cacciatori, ma anche raggiratore nelle questioni Divine fino
a che faceva ribellare le creature contro di Lui, benedetto Sia. E così
anche di Esav è detto “uomo di caccia”, contrariamente a Jacov che è
“semplice”; da ciò saprai che il cacciatore è ingannatore e raggiratore
rispetto al retto.”
Nimrord è colui che applica la strategia del raggiro tipica della caccia
nelle questioni teologico-culturali. Ed ecco Ibn Ezra dirci che Nimrod
costruiva altari e vi offriva olocausti al Signore. Ed in effetti il regno di
Nimrod è un regno apparentemente ineccepibile. Non è un regno
apparentemente idolatra ed a prima vista non si capisce da dove tiri
fuori il Marhal l’idea dell’idolatria. Sì, il Midrash ci dice che erano
idolatri, ma l’idolatria non sembra interessare più di tanto se lo stesso
Ibn Ezra ci dice che Nimrod sacrificava al Signore.
Nimrod è un re risoluto, molto più carismatico ed ammaliatore che non
prevaricatore con un chiaro programma politico. “Orsù costruiamo per
noi una città ed una torre e la sua cima in cielo e facciamoci un nome,
affinché non ci si disperda sulla faccia di tutta la terra.” (Genesi XI, 4)
Lavori pubblici, grandi lavori pubblici, grandi opere. E che male c’è?
Non è forse un bene, anzi un precetto l’operosità umana? Non è la Torà
a dirci (Bereshit Rabbà XI,7) “Tutto quanto è stato creato nei sei giorni
dell’operosità richiede operosità”? L’ebraismo fa del lavoro umano uno
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dei pilastri della vita, Nimrod non ne può fare il suo programma di
governo?
Don Izchak Abravanel dice che la questione della costruzione è in
realtà la forma visibile della filosofia che li accompagnava, quella del
lavoro umano, della amministrazione politica della statalizzazione,
della modernizzazione. Chiudiamo gli occhi e cerchiamo di
immaginarli, i nostri progenitori. Perché in quella valle c’era gente che
faceva concorsi per un posto da ingegnere nella costruzione e nei
giornali non si parlava di altro che della costruzione di una torre che
per definizione, come dice Rav Mordechai Elon shlita, non deve finire
mai. Per la prima volta in questi versi l’umanità è chiamata “benè
Adam”, i figli di Adam. Rav Elon spiega che questo ci richiama alla
principale occupazione di Adam: dare nomi agli elementi del creato. Il
nome, lo abbiamo detto più volte, rappresenta l’obiettivo, l’aspirazione.
Adam e noi con lui, è preposto a dare un senso, uno scopo, agli
elementi del creato, a dare i nomi. Nella valle di Shinnar sono tutti ad
adoperarsi per un opera che non può e che non deve finire, perché
essa è ciò che ci consente di farci un nome. L’uomo rinuncia al suo
mandato Divino di dare un senso al mondo attraverso il suo utilizzo
degli elementi del creato nel bene e cerca il proprio senso in quel lavoro
che invece è solo strumento e mai obiettivo.
Ce lo spiega Rabbì Izchak Aramà nel suo Akedat Izchak:
“Gli uomini di quella generazione …decretarono nella loro mente che il
loro obbiettivo specifico era l’unione politica e che questo è il più alto
degli obbiettivi dell’umanità e loro non peccarono nel pensar ciò, quanto
nel sedersi lì e nel vedere questa questione come un obbiettivo a sé e
non lo fecero come percorso per un obbiettivo più grande di questo che è
la questione del successo spirituale.”
In questo mondo dove di globale c’è solo la materialità dell’incapacità
di sapersi definire per ciò che si è piuttosto che per ciò che si fa, viene
stravolta l’immagine Divina che è impressa nell’uomo. E la brutalità
del sistema-torre dove si conta per il piano in cui si ha l’ufficio è
espressa in maniera tremenda dal Midrash (Pirkè DeRabbì Eliezer su
Bereshit XI,1) : “…se cadeva un uomo e moriva non se ne curavano, ma
se cadeva un mattone si sedevano e piangevano e dicevano: ‘Ohi a noi,
quando ne salirà uno al suo posto?’.”
Ed è in questa città dove si erge la torre dell’indifferenza che si aggira
un uomo, Avraham nostro padre, che va predicando che c’è un
“manigh laBirà”, c’è Chi conduce la Capitale, e con buona pace del
mondo intero che è al suo servizio, non si tratta di Nimrod.
Ed è quasi una fotografia della situazione il Midrash in Yalkut Shimonì
che così commenta il verso dei Salmi (XXVI,4) “Non sono stato con le
persone bugiarde….”
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“Parla di Avraham. Non sono stato con le persone bugiarde, questi sono
gli uomini della Torre. Vennero e dissero ad Avraham: ‘Vieni ed aiutaci
giacché tu sei forte e costruiremo una torre che arrivi in Cielo.’ Disse:
‘Avete lasciato: ‘La torre della forza è il Nome del Signore (Proverbi
XVIII,10) e voi dite ‘facciamoci un nome’ ?
Ma pensiamoci un attimo. Sapevano tutti chi era Avraham. Sapevano
tutti che era l’unico che aveva fede nel D-o unico in un epoca che
aveva lasciato il Signore per il culto degli elementi della natura, prima
come strumento (errato) per servire Iddio e poi per idolatria vera e
propria come spiega il Maimonide. Che vogliono da Avraham?
Vogliono il timbro di kasherut. Vogliono avere da Avraham l’avvallo a
quanto stanno facendo. Sanno che Avraham è forte e risoluto se con
ciò intendiamo la consapevolezza del potere enorme interno all’uomo in
quanto tale. Non hanno capito che Avraham ha già intuito che la
potenzialità dell’uomo è mirata a farne un servo di D-o e non un re
degli altri e di se stesso. Quanto è forte la critica di Avraham verso la
società nella quale vive: ‘Avete lasciato: ‘La torre della forza è il Nome
del Signore (Proverbi XVIII,10) e voi dite ‘facciamoci un nome’ ?
Voi costruite una torre per trovare voi stessi attraverso la vostra forza
ma non avete capito che fino a quando ripudiate la verità e cioè che
Iddio ha instillato la forza nell’uomo affinché questi sappia dominare il
proprio istinto e contribuire alla ricomposizione del Nome di D-o, non
avete capito nulla. ‘La torre della forza è il Nome del Signore, in Esso
corre il Giusto ed è fortificato.’
E’ uno scontro tra due mondi.
Il noto midrash ci dipinge Avraham nella sua ricerca del D-o unico,
che giunto alla conclusione che gli idoli di suo padre Terach sono solo
dei pezzi di legno, li brucia per poi lasciarne uno solo con la torcia in
mano. Quando viene Terach e chiede spiegazioni Avraham incolpa
l’idolo, al che Terach dice: ‘Figlio folle, e che questi hanno forza o spirito
vivente che posso fare tutto ciò, non li ho forse fatti io dal legno?’
Disse lui: ‘Ascoltino le tue orecchie quello che dice la tua bocca: e se non
c’è forza in essi perché mi hai detto: il mio dio ha creato il cielo e la
terra’?
Meno noto è il resto del Midrash come viene riportato da Rabbenu
Bechaje su Genesi XV,7. Un Terach confuso dal figlio che scardina il
sistema nel quale il divino è ciò che intaglio io nel legno e con cui
magari decoro la grande torre, conduce il figlio ribelle dal grande re
Nimrod per una ramanzina e magari qualche lezione di filosofia prima
di essere buttato nel fuoco con il quale voleva distruggere il loro mondo
idolatra.
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“Che fece Terach? Andò da Nimrod e gli disse: ‘Mio figlio ha bruciato il
mio dio ed il tuo dio con il fuoco!”
Su Avraham pende ora l’accusa di deicidio. Avraham è scomodo perché
mi sta dicendo che fino a quando faccio dell’uomo D-o (o di D-o l’uomo)
sono fuori strada.
“Mandò Nimrod a cercare Avraham. Disse lui: ‘Perché hai fatto ciò?’
Disse lui: ‘Io non ho fatto ciò, ma il più grande [degli idoli]’. Disse lui
Nimrod: ‘E che hanno spirito vivente che possono fare ciò?’ Disse lui:
‘Ascoltino le tue orecchie quello che tu parli con la bocca: e se non hanno
forza perché lasciate Colui che ha creato il Cielo e la Terra e vi inchinate
al legno?!”
Si ripropone la stessa scenetta, ma Nimrod, il teorico del sistema-torre
non ha da chi fuggire come Terach e si rivela per quello che è. La sua
risposta ad Avraham è la risposta che cova in fondo a tutti coloro che
ripudiano il D-o unico incorporeo, immateriale, Santo nel senso di
distinto, diverso e in nessun modo paragonabile all’uomo. È la risposta
di coloro che fanno le acrobazie filosofiche per dimostrare che Iddio è
in pezzi di legno o pietra o carne.
“Disse lui [Nimrod]: ‘Sono io che ho creato il cielo e la terra con la mia
forza!’“
È lo stesso Nimrod che secondo Ibn Ezrà offriva sull’altare al Signore,
lo stesso che fa del raggiro la sua teologia e che pensa che un bel pezzo
di legno [che io ho intagliato] dinanzi al quale mi inchino, può
permettermi di continuare a pensare ‘Sono io che ho creato il cielo e la
terra con la mia forza!’
Noi pensiamo sempre che la discrepanza dell’idolatria sia prostrarsi ad
una statua nonostante questa sia opera delle mie mani. Non capiamo
che la radice dell’idolatria è piegarsi dinanzi alla statua perché opera
delle mie mani. ‘Mio figlio ha bruciato il mio dio ed il tuo dio con il
fuoco!” Perché mio figlio ha bruciato l’idea che il divino è nel mio pezzo
di legno e nella tua torre. Perché mio figlio sostiene che non è dal
nostro lavoro che troviamo definizione ma piuttosto da quanto siamo
capaci di definire ed indirizzare il mondo al servizio di D-o , e non al
servizio del mio io. Perché mio figlio dice che dovemmo cominciare a
chiamare con dei nomi e non a cercare di farcene uno!
È Avraham che insegna al mondo il concetto di timore di D-o, quello
che Rav Elon shlita definisce come il timore che il mio Io diventi dio.
È lo stesso Avraham che rovescia la torre nel dire che sono più in alto
quanto più mi lego a chi è in basso. È quell’Avraham del quale è detto
“Poichè ho detto: ‘Il mondo si costruirà sul chesed...”. È sulla bontà
dell’assistenza al prossimo di quell’Avraham che sa mettere in attesa il
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Signore quando ha degli ospiti alla porta, che si regge il mondo. E
questa è la chiave del discorso. Che siamo veramente uomini nel senso
pieno e santo del termine quando capiamo che il nostro compito è
quello di servire Iddio, non di divenire noi stessi un dio o di fare di dio
un uomo, o un’opera umana.
Perché lo stesso Avraham ha insegnato al mondo la fiducia nel D-o
unico dando ai viandanti da mangiare, per poi rifiutare il loro
ringraziamento invitandoli a ‘benedire Colui del quale abbiamo
mangiato.’ Purché in quel mondo di filosofi dell’idolatria dell’uomo e di
gente che cercava Iddio nei raggiri della costruzione della Torre, l’unico
che parla veramente con D-o è colui che nello scegliere tra il parlare
con l’Eterno e ricevere degli ospiti, sceglie senza il minimo dubbio di
accogliere lo straniero.
Rav Elon shlita nota:
Quattro figli ha Cham, colui che vuole recidere la radice sacra di
Noach: Cush, Mizraim, Put e Kenaan. Put, secondo il Midrash (
Bereshit Rabbà XXXVII,2) sparisce tra le genti. Con gli altri tre
abbiamo un conto aperto. Mizraim , l’Egitto come regno del male e
della schiavitù, e Kenaan i cui figli profanano la Terra del Signore
bruciando i bambini nel fuoco per servire divinità di legno. Noi
usciamo dall’Egitto ed entriamo in Erez Kenaan, perché dobbiamo
imparare quanto dice la Torà nella Parashà di Acharè Mot (Levitico
XVIII,3) “come le azioni della terra d’Egitto…e come le azioni della Terra
di Kenaan…non farete”.
Ma anche con Cush e suo figlio Nimrod il conto è aperto. Fino a
quando non sapremo ricondurre il mondo al servizio globale, rispettoso
delle differenze, del Signore. Allora Iddio restituirà la lingua sacra
universale, l’ebraico del popolo d’Israele e della Torà, a tutto il mondo
come preannuncia il profeta Zefanià:
“Allora farò voltare ai popoli una lingua chiara nel chiamare tutti nel
Nome del Signore e nel servirlo assieme. Dal di là dei fiumi di Cush...
porteranno la mia offerta.” (III,9-10)
E noi lo vediamo così Avraham nostro padre, aivrì, colui che viene dal
di là del fiume: ad insegnare Torà ad Eliezer figlio di Nimrod (Targum
Jonathan ben Uziel XIV,14) e prima tra le anime fatte da Avraham a
Charan. Ad insegnare al figlio di Nimrod che non posso farmi un
nome, ma chiamando nel Nome di D-o posso creare l’anima di ognuno
al quale ho insegnato una lettera della Torà.
La redenzione di Cush e del mondo intero è iniziata lì.
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I tre mondi di Noah e quelli nostri
Il Midrash (Yalkut Shimonì) afferma che Noach vide tre mondi: il
mondo prima del diluvio, il mondo durante il diluvio ed il mondo dopo
il diluvio. Come in passato abbiamo visto ciò si riferisce in primo luogo
alla diversità climatica di questi tre periodi. Ricorderemo che secondo
il grande maestro italiano Ovadià Sforno, il mondo prima del diluvio
era in uno stato di costante primavera. Lo stesso Sforno ci ricorda che
prima del diluvio i bambini avevano la stessa maturità, nel senso della
stessa presenza di istinto del bene ed istinto del male, degli adulti. È
solo dopo il diluvio che i bambini vengono privati dell’istinto del bene e
lo acquistano gradualmente con la crescita.
A mio modesto avviso è possibile seguire la traccia dei tre mondi di
Noach per capire anche il percorso dell’ebreo nella sua vita.
1. Potremmo dire che il mondo prima del diluvio è comparabile
all’infanzia dell’ebreo. Si tratta di un mondo in cui Noach è
definito “un uomo perfettamente integro”, è un mondo fatto di
buoni, Noach e la sua famiglia, e cattivi, il resto dell’umanità che
viene sterminata dal diluvio. È un mondo di perenne primavera,
in cui il valore energetico del cibo è estremamente superiore a
quello del cibo del nostro mondo. È un mondo sostanzialmente
semplice. È il periodo dell’infanzia dell’ebreo, nel quale non ci
sono doveri, e si è in una condizione di assoluta purità.
2. Al compimento del tredicesimo anno di età (il dodicesimo per le
bambine) si diviene responsabili del proprio comportamento,
tenuti all’osservanza delle mizvot e come tali membri a pieno
titolo della società adulta. Dopo il bar mizvà si è capaci di
intendere e volere, si è responsabili delle proprie azioni dinanzi
agli uomini, giacché il Tribunale Divino non punisce fino al
compimento del ventesimo anno di età. Quella che va dai tredici
ai venti anni è una delle fasi più delicate della vita umana.
Grandi cambiamenti avvengono attorno all’adolescente, un vero
e proprio diluvio. Potremmo paragonare questa fase della vita al
mondo del diluvio. In questo momento l’ebreo è chiamato a
costruirsi la sua arca, a rendersi stagno dai tumulti del mondo
che ci assalgono ed a lasciar fuori l’istinto del male (Og re di
Bashan che si attacca all’arca nel Midrash) ed a farsi provviste
per se e per coloro che gli sono attorno. La delicatezza di questa
fase è apprezzabile in uno dei suoi più dirompenti aspetti: la
sessualità. Noach e tutti coloro che erano con lui nell’arca
vengono comandati dal Santo Benedetto Egli Sia di astenersi dai
rapporti sessuali per tutti i dodici mesi del diluvio. Questa
richiesta è in effetti parallela nella vita dell’adolescente. Il
momento che marca l’inizio della vita adulta, il bar-bat mizvà
coincide in effetti con lo sviluppo sessuale. I Maestri ci
insegnano però che non è questa ancora l’età per contrarre
matrimonio. “a diciotto anni per la Chuppà” è scritto nel tratto di
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Avot, dicendoci anche che è tollerabile un lieve rinvio per
questioni economiche e di studi. Siamo allora prossimi ai venti
anni.
3. A venti anni l’ebreo è pronto per costruire una famiglia, è un
adulto a tutti gli effetti, dinanzi a D. e non solo davanti agli
uomini. È il momento in cui Noach esce dall’arca e viene invitato
a riprendere la coabitazione con sua moglie. E qui la vita si
rivela nella sua complessità. Quello che una volta era un giusto
integro diviene un uomo della terra. Il lavoro e la ricerca degli
alimenti rappresentano la grande sfida dell’uomo adulto che si
deve confrontare anche con le proprie mancanze, i propri difetti
e le proprie sconfitte. Con rapporti a volta conflittuali con i figli e
via dicendo.
Il mondo dopo il diluvio è un mondo di stagioni, e queste stagioni le
troviamo anche nella vita dell’uomo.
Partendo da ciò vorrei provare a definire alcune sfide che mi sembrano
centrali per un ragazzo/a che compie il suo bar/bat mizvà ai giorni
nostri.
La società che ci circonda ha dei seri problemi con la sua sessualità.
La proiezione di valori consumistici nella sfera del rapporto di coppia,
rende le relazioni episodi con data di scadenza. Ciò è particolarmente
vero per gli adolescenti. La Torà crede nel rapporto matrimoniale come
unico veicolo per la realizzazione del progetto Divino per l’umanità e
vede nella vita sessuale della coppia uno dei più grandi precetti della
sua Halachà. Al contempo la Torà chiede rispetto, purità, amore e
tanto altro. Il rapporto sessuale è nella coppia ebraica il coronamento
di un percorso continuo, un percorso che i coniugi devo affrontare
assieme nel rispetto delle leggi della purità familiare. Sono conscio del
fatto che non sono questi discorsi che si facevano una volta ai Bar
Mizvà, per pudore, per non anticipare i tempi e per mille altri motivi.
Ma come insegnano i nostri Maestri, Amalek si infila nelle
intercapedini che noi lasciamo tra una generazione e l’altra e noi non
possiamo permetterci, per pudore, di lasciare il palco agli Amalek di
turno. Ad un Bar Mizvà di oggi che viene bombardato attraverso ogni
media con messaggi che gli presentano una sessualità distorta, noi
abbiamo l’obbligo di spiegare quella che è la via della Torà. Se fuori c’è
il diluvio noi dobbiamo aiutare i nostri Bar Mizvà a costruire la loro
arca, a renderla stagna, ed a sopravvivere ad un mondo che si
autodistrugge, allora come oggi, anche sulla base dell’immoralità
sessuale. Bisogna aiutarli a lasciare fuori quegli Og che rapiscono le
figlie degli uomini e che cercarono di rapire Sarà nostra madre. (cfr.
Midrash).
L’altra grande sfida di un adolescente ebreo oggi è la alyà, la salita
verso Erez Israel.
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Poco sappiamo della collocazione geografica di Noach prima del diluvio,
sappiamo invece che dopo il diluvio egli costì un altare a Jerushalaim
(Rambam) e che Shem suo figlio ne divenne re. (Malkizedek re di
Shallem è Shem figlio di Noach). Usciti dall’arca, finita la scuola, verso
i diciotto, venti anni, i nostri ragazzi hanno oggi un’opportunità che
generazioni di ebrei hanno solo sognato: salire in Israele. Solo in Erez
Israel un ebreo può vivere pienamente la sua vita ed essere parte del
piano di D. per un mondo migliore. Ciò è senz’altro vero per ogni fascia
di età, ma c’è un momento, nella vita dell’uomo di oggi, in cui
determinate scelte sono più facili. È certo più facile per un ragazzo di
venti anni venire a studiare in Israele che non organizzare una
relocation di una famiglia intera, per quanto anche questo andrebbe
fatto.
Sono questi due argomenti, che mi sembrano particolarmente
importanti, ma ce ne sono senz’altro altri. Credo sia arrivato il
momento di capire, a livello familiare e comunitario, che i nostri
ragazzi sono molto diversi da quelli di una volta. Capiscono il mondo di
oggi meglio di quanto non lo facciano persone anziane. È però dalle
generazioni che li hanno preceduti che debbono apprendere quei valori
che non scadono, e che sopravvivono ad ogni cambiamento.
Per fare questo le generazioni si debbono parlare, con onestà, con
rispetto e con tanta tanta pazienza. E forse è a questo che il profeta
pensava dicendo “e farà tornare il cuore dei padri verso i figli ed il cuore
dei figli ai loro padri”.
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Schiavi e schiavitù
“E disse: ‘Maledetto sia Kenaan, schiavo degli schiavi sarà per i suoi
fratelli’” (Genesi IX, 25)
“...tutti gli schiavi vengono chiamati con il nome di Kenaan, dal momento
che è scritto di lui ‘schiavo degli schiavi’.” (Rashì 22b)
Immediatamente dopo il diluvio, nell’episodio dell’ubriacamento di
Noach, la Torà introduce in maniera alquanto singolare il concetto di
schiavitù. Noach maledice Kenaan (che secondo la maggior parte dei
commentatori lo ha evirato) con la maledizione della schiavitù. Ma che
cos’è la schiavitù?
È necessario ricordare che la risposta a questa domanda non è cosa
secondaria per un popolo che nasce in condizione di schiavitù ed è
altresì interessante notare che uno dei primi set di regole che vengono
dati dopo l’uscita dall’Egitto sono le regole degli schiavi.
La halachà conosce fondamentalmene due tipi diversi di schiavo: eved
ivrì ed eved kenaanì. Lo schiavo ebreo e lo schiavo canaaneo.
L’eved ivrì è un ebreo che si vende, o meglio che vende il proprio
lavoro, generalmente per sei anni (ed in alcuni casi fino al giubileo). Le
condizioni dello schiavo ebreo sono molto diverse da quelle dello
schiavo nell’immaginario collettivo. Non può essere utilizzato per lavori
pesanti, degradanti, inutili e/o ben definiti. (Rambam, regole degli
schiavi I,6). Lo schiavo ebreo deve godere delle stesse condizioni del
padrone: mangiare lo stesso cibo, dormire nello stesso tipo di letto,
vestire gli stessi abiti, ed abitare nello stesso tipo di abitazione. Inoltre
egli ha diritto ad una liquidazione e non è cedibile a terzi. In caso di
morte del padrone non passa in eredità (tranne in casi estremi). Nel
Talmud (Kidhushin 16a) i Saggi discutono se il padrone ha su di lui
kinian haguf , proprietà della persona, o se viste le condizioni non
proprio denigratorie, la proprietà del padrone non vada intesa che
simile a quella che si ha su un debito. L’eved ivrì può riscattarsi infatti
in ogni momento pagando al padrone la differenza (ossia il valore del
tempo residuo del suo servizio). D’altra parte egli può decidere di non
terminare il suo rapporto col padrone al termine dei sei anni e, dopo la
cerimonia della foratura dell’orecchio prevista dalla Torà, può restare
al servizio del padrone fino al giubileo. Esistono tre tipi di eved ivrì:
•
•
Un ebreo che ha rubato e non ha di che risarcire può essere
venduto dal tribunale nella misura necessaria a restituire il suo
debito. A questa categoria si applica la liberazione automatica
dopo sei anni. Questa regola vale solo per gli uomini: il tribunale
non ha l’autorità di vendere una donna.
Un ebreo che, in ristrettezze economiche, decide di vendersi (o
meglio, come abbiamo visto, di vendere il proprio lavoro). In
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questo caso la vendita può eccedere i sei anni, non viene
“forato”, e non riceve liquidazione.
• Un ebreo che si vende ad un gentile. In questo caso i parenti
hanno l’obbligo di riscattarlo.
Vediamo quindi che più di vera e propria schiavitù, si tratta qui al
massimo di un prestare servizio. Rav Mordechai Elon shlita spiega che
l’idea che c’è dietro il concetto di eved ivrì è che esistono nella società
delle persone che non sono in grado di gestirsi economicamente.
Queste vanno affiancate da famiglie stabili sia economicamente che
spiritualmente che possono dargli quella stabilità e serenità per
provare a trovare il loro percorso. Le regole dell’eved ivrì vengono
quindi a definire i rapporti tra queste persone e chi li prenderà a
servizio. Va comunque sottolineato che le regole dell’eved ivrì sono in
vigore solo quando lo è il giubileo e che quindi oggi non sono
applicabili.
L’eved kenaanì, lo schiavo canaaneo, è invece un gentile che si vende
(o che viene venduto da un altro gentile che lo possedeva) ad un ebreo.
Il termine schiavo canaaneo, deriva dal nostro verso fonte, che è
appunto il verso che introduce il concetto stesso di schiavitù, come
abbia visto dal commento di Rashì. In questo caso l’ebreo non ha piena
proprietà dello schiavo fintanto che questi è gentile (non c’è kinian
haguf) e non diviene quindi un eved kenaanì, fino a quando non si
converte (ovviamente volontariamente) all’ebraismo, e si circoncide ed
immerge nel mikwè con l’intenzione di divenire eved kenaanì.
Attraverso questo processo, che, ripetiamo, deve essere assolutamente
spontaneo e volontario, lo schiavo divene soggetto alle mizvot come
una donna: è ossia esente dai quei precetti positivi legati ad un tempo
prciso, le cosiddette mizvot asè she hazeman gheraman. In questo caso
l’everd kenaanì è considerato proprietà del padrone e può essere
venduto ed utilizzato per lavori umili per quanto il Rambam codifica
che comunque deve essere trattato con rispetto. E già la Torà ha
stabilito che nel caso in cui lo schiavo venga picchiato duramente,
questi diviene automaticamente libero e che se viene ucciso dal
padrone, questi viene processato come omicida e può essere
condannato a morte se ci sono gli estremi (estremamente rari in ogni
caso).
Possiamo dunque dire che entrambe le categorie hanno in comune il
fondamentale rispetto che la Torà richiede nei confronti di chiunque
indipendentemente dal suo status. Possiamo anche distinguere i due
casi e dire che in realtà il caso dell’eved ivrì è fondamentalmente
l’impalcatura legale che regola l’integrazione nalla società di persone
che si trovano in condizioni precarie. Rimane da capire il senso
dell’eved kenaanì.
Rav Mordechai Elon shlita, spiegando i versi della nostra Parashà
sottolinea come Kenaan sia schiavo delle poprie pulsioni: quelle stesse
pulsioni sessualmente devianti che Iddio ha voluto cancellare con il
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diluvio. Egli minaccia il progetto di santità coniuguale che Noach
traghetta con l’Arca. Egli deve essere sottomesso allora a Shem in
modo da poter educarsi e liberarsi da se stesso in primis. In maniera
straordinaria Israele diviene schiavo in Terra di Cham (l’Egitto) e deve
conquistare ed ereditare la Terra di Kenaan. (Cham è il padre di
Kenaan). Egitto e Kenaan sono proprio quei modelli di immoralità
sessuale dalla quale Iddio ci ordina di separarci nel nostro entrare in
Erez Kenaan, allorquando veniamo chimati a trasformare questa in
Erez Isreael.
Il percorso dell’eved kenaanì, è allora il percorso della sottomissione
dell’istinto alla santità e la sua trasformazione in strumento di mizvà.
La partita aperta che abbiamo con Egitto (Cham) e Kenaan verte
proprio sulla purità sessuale: basti ricordare Josef con la moglie di
Putifar, Josef che mostra il contratto nuziale al padre Jacov, di come il
Faraone vuole sedurre Shifrà e Puà e dei suoi piani per le bimbe ebree
che, al contrario dei maschi, non vuole gettare nel Nilo. Il midrash
sottolinea più volte il lavoro instancabile delle ebree per mantenere la
purità del nucleo familiare in Egitto, ed abbiamo anche visto in
passato che Amram è colui che insegna in Egitto le regole relative al
matrimonio. Così anche in Erez Israel, lo abbiamo visto recentemente,
la grande caduta del re Salomone è proprio nel suo legarsi in
matrimonio con la figlia del Faraone!
Non è quindi un caso che l’eved kenaanì debba fare la milà che
sancisce il ripudio dell’immoralità sessuale e conoscere quella
condizione giuridica della donna ebrea che è alla base della casa
ebraica.
È allora straordinario notare che il Talmud tratta le regole degli schiavi
proprio nel trattato di Kiddushin, il trattato che si occupa del
matrimonio nella sua santità!
Al mondo della lussuria di coloro che sono schiavi dei propri istinti la
Torà contrappone il mondo del rispetto e della santità.
Ed ecco allora Isaia descrivere in maniera sublime nella nostra Haftarà
il rapporto di coppia tra Israele ed il Signore che non ha paragone se
non nella pudicizia, purità e santità della coppia ebraica.