La storiografia più recente sulla finanza italiana della prima età
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La storiografia più recente sulla finanza italiana della prima età
La storiografia più recente sulla finanza italiana della prima età moderna: gli studi sulla fiscalità di LUCIANO PEZZOLO Un oggetto polimorfo In un recente libro sull’istituzione del corpo territoriale padovano fra Quattro e Cinquecento l’autrice si preoccupa di avvertire il lettore che “nonostante tratti soprattutto di tasse, … [il] lavoro non si propone di entrare nel merito del problema della fiscalità e della sua storia, perché questo è tutt’altro argomento”1. In effetti, gran parte delle pagine del volume sono dedicate alla tassazione diretta e ai conflitti che la sua ripartizione accende fra i diversi protagonisti (città e contado, cittadine minori, comunità rurali…). Eppure l’autrice invita subito il lettore a non essere confusa con uno/a studioso/a di storia della fiscalità e, soprattutto, a non porre la sua ricerca nel novero della storia fiscale. Questa palese presa di posizione induce a domandarci che cosa sia allora la storia fiscale, quali specifici strumenti metodologici e concettuali assuma, quali scopi si prefigga, e quali differenze invece sussistano rispetto ad altri settori della ricerca storica. È superfluo affermare che la storia fiscale ha come oggetto la fiscalità: ma questa banale affermazione apre una serie di questioni che forse, pur rapidamente, vale la pena di toccare. La fiscalità concerne svariati aspetti dell’attività statale e locale, caratterizza la sfera del ‘pubblico’ ma si incunea anche in quella del ‘privato’, a ulteriore riprova che nell’antico regime i due ambiti non sono affatto separabili e facilmente riconoscibili. La materia fiscale si offre come campo privilegiato di ricerca sia allo storico economico che a quello politico, e questo crea non poche complicazioni per individuare e determinare con chiarezza un lavoro di storia fiscale. In queste pagine focalizzerò la mia attenzione 1 L. FAVARETTO, L’istituzione informale. Il Territorio padovano dal Quattrocento al Cinquecento, Milano 1998, p. XI. 33 su ricerche che esplicitano sin dall’inizio (direi dal titolo) un interesse specifico per il sistema fiscale (strumenti di accertamento e di prelievo), la finanza statale e locale (bilanci, analisi di politica finanziaria, istituzioni fisco-finanziarie…), mentre non prenderò in considerazione gli ambiti del debito pubblico, della moneta e delle istituzioni creditizie, che sono esaminati in altre pagine di questa rivista. Già questi temi implicano una scelta di carattere metodologico: vale a dire l’analisi e l’impiego anzitutto di dati quantitativi; e, in secondo luogo, l’uso seppur cauto e storicamente collocati di concetti elaborati dalla disciplina tributaria2. Tuttavia tali limiti non soddisfano i requisiti che – a mio vedere – dovrebbero permettere di individuare la storia finanziaria. Come definire dunque questo particolare settore della ricerca storica? Almeno due possono essere le vie da seguire: anzitutto emerge una definizione empirica, che deriva dall’oggetto dello studio (la storia della finanza riguarda tutto ciò che concerne l’attività delle istituzioni pubbliche in ambito fisco-finanziario), che potremmo definire come branca dell’economia pubblica; una seconda via richiede un approccio normativo, che prenda in considerazione un ampio spettro non sempre connesso alla sfera pubblica. La proposta di Jean-Claude Waquet mi sembra degna di considerazione: per lo studioso francese “Les finances réalisent la transformation des ressources publiques en privées et des ressources privées en publiques. Elles se décomposent en un ensemble de processus d’acquisition et de cession qui, mis en œuvre par des sujets eux-même publics et privés, exercent les uns sur les autres une influence réciproque’’3. Quanto agli obiettivi della storia fiscale, credo che debbano essere i più ampi possibile. Se è vero che uno degli scopi principali è “chiarire i rapporti tra entrate pubbliche nel loro complesso e incidenza che le stesse possono avere sul sistema economico di produzione e di consumo e sulla sua evoluzione”4 avremmo bensì raggiunto un importante traguardo, ma che certo non rappresenta il fine ultimo. La ricerca, anche fiscale, dovrebbe sforzarsi di individuare e porre in relazione i molteplici aspetti (economici, politici, sociali…) che interessano la fiscalità per contribuire a porre ulteriori tasselli ad un mosaico assai difficile da ricostruire. Così, per esempio, la problematica tributaria va a toccare questioni 2 Su alcuni fraintendimenti che possono verificarsi nell’adozione di concetti propri della scienza finanziaria contemporanea vedi le osservazioni di O. BRUNNER, Terra e potere. Strutture pre-statuali e pre-moderne nella storia costituzionale dell’Austria medievale, Milano 1983 (Wien 19655), pp. 382 sgg., 408 sgg. 3 J.-C. WAQUET, Le Grand-Duché de Toscane sous les derniers Médicis. Essai sur le système des finances et la stabilité des institutions dans les ancien états italiens, Rome 1990, p. 175. 4 A. GROHMANN, La storiografia economica relativa all’età medievale in Italia, in Due storiografie economiche a confronto: Italia e Spagna dagli anni ’60 agli anni ’90, a cura di A. Grohmann, Milano 1991, p. 114. 34 riguardanti l’antropologia, se consideriamo il pagamento delle imposte come un atto di reciprocità che implica uno scambio fra i contribuenti e il principe5. Termini quali ‘dono’, ‘sussidio’, ‘aiuto’ allora assumono un significato non meramente retorico ma sottendono un rapporto segnato da precisi doveri fra sudditi e sovrano6. L’imposta, inoltre, deve trarre forza da una riconosciuta legittimità sancita dal diritto. Anche se la concezione – diffusa nelle grandi monarchie – che anzitutto il principe debba “vivere del suo” non pare altrettanto presente negli Stati italiani, è altresì vero che qualsiasi imposta abbisogna di una forte legittimità, che solitamente viene fornita dalla necessità della difesa della fede cattolica o del territorio. Il passaggio che avviene tra basso medioevo e prima età moderna della sacralità dello Stato dalla sfera religiosa a quella laica comporta anche nel campo fiscale profondi mutamenti: Christu-fiscus e patria vengono così a costituire, nella costruzione ideologica dell’epoca, un sistema di grande efficacia per legittimare la richiesta tributaria del sovrano e la diffusione di un nuovo concetto di dovere fiscale7. Un panorama In questa sezione cercherò di fornire un resoconto dei recenti lavori di storia fiscale riguardante i singoli Stati8, mentre nella parte successiva proporrò alcune considerazioni a riguardo. 5 A. GUÉRY, Le roi dépensier. Le don, la contrainte, et l’origine du système financier de la monarchie française d’Ancien Régime, in “Annales ESC”, 39, 1984, pp. 1241-69. Per il più vasto contesto medievale G. TODESCHINI, I mercanti e il tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza fra Medioevo ed Età Moderna, Bologna 2002, pp. 187 sgg.; e per quello moderno, N. ZEMON DAVIS, The gift in sixteenth-century France, Maddison 2000 (tr. it., Milano 2002). 6 Interessanti osservazioni sono svolte per il caso inglese da G.L. HARRIS, Aids, loans and benevolences, in “Historical journal”, 6, 1963, pp. 1-19. 7 Di grande fascino rimane la fine analisi condotta da E. KANTOROWICZ, I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino 1989 (Princeton 1957), pp. 141 sgg., 243-49. La riproposta di P. PRODI, Introduzione a Fisco religione Stato nell’età confessionale, a cura di H. Kellenbenz e P. Prodi, Bologna 1989, pp. 7-20, non sembra aver trovato ancora seguito. Ho provato ad applicare il modello nel mio, Il fisco dei veneziani. Finanza pubblica ed economia tra XV e XVII secolo, Verona 2003, pp. 25, 113-19. Alcune indicazioni per la Spagna sono fornite da C.J. JAGO, Taxation and political culture in Castile 1590-1640, in Spain, Europe and the Atlantic world. Essays in honour of John H. Elliott, ed. by R.L. Kagan and G. Parker, Cambridge 1995, pp. 48-72. Per un panorama generale, E. ISENMANN, Medieval and renaissance theories of state finance, in Economic systems and state finance, ed. by R. Bonney, Oxford 1995, pp. 21-52. 8 Per un quadro delle ricerche italiane nei decenni precedenti cfr. A. DI VITTORIO, Financial history in Italy in the writings of the last twenty-five years, in “Journal of European economic history”, 1, 1972, pp. 181-92; ID., La storia economica del mondo moderno, in La storiografia italiana degli ultimi 35 Per quanto riguarda gli Stati minori, la finanza farnesiana, dopo le ricerche di Romani, è stata riconsiderata da Podestà, che ha evidenziato gli importanti nessi fra politica e finanza nel momento della fondazione e del consolidamento del nuovo Stato. Alcuni lavori sono apparsi su altri ducati padani, ma si tratta di aspetti specifici, mancando ancora uno studio complessivo sulle vicende finanziare in età moderna9. Lo studio della finanza piemontese vanta una lunga e consolidata tradizione (si pensi agli esemplari lavori di Einaudi e Prato, e agli studi di Garino Canina), che è stata ripresa e rinnovata da Enrico Stumpo nella sua monografia relativa al Seicento10. La finanza statale esaminata attraverso i bilanci di vertice è vent’anni, a cura di L. De Rosa, II, Roma-Bari 1989, in particolare pp. 272-79; WAQUET, Le Grand-Duché de Toscane, pp. 137-74; G. FELLONI, Temi e problemi nella storia finanziaria degli stati italiani, in “Rivista di storia finanziaria”, 2, 1999, pp. 101-12. Per il periodo medievale, oltre a GROHMANN, La storiografia economica; P. MAINONI, Finanza pubblica e fiscalità nell’Italia centro-settentrionale fra XIII e XV secolo, in “Studi storici”, 40, 1999, pp. 449-70. Si può fare un interessante confronto con la storiografia finanziaria spagnola in base all’ampia e aggiornata rassegna di B. HERNÀNDEZ, Fiscalidad de reinos y deuda pùblica en la Monarquìa hispànica del siglo XVI, Còrdoba 2002, pp. 1-52. 9 G.L. PODESTÀ, Dal delitto politico alla politica del delitto. Finanza pubblica e congiure contro i Farnese nel Ducato di Parma e Piacenza dal 1545 al 1622, Milano 1995; con alcuni dati ulteriori, ID., Il patrimonio del principe: i Farnese, in Tra rendita e investimenti. Formazione e gestione dei grandi patrimoni in Italia in età moderna e contemporanea, Bari 1998, pp. 89-103. Di M.A. ROMANI si vedano, Finanza pubblica e potere politico: il caso dei Farnese (1545-1593), in Le corti farnesiane di Parma e Piacenza (1545-1622), I, a cura di M.A. Romani, Roma 1978, pp. 3-85; ID., “Honesto ocio post laborem ad reparandam virtutem quiete”: corte, finanze e loisir nei ducati padani tra Cinque e Seicento, in Il tempo libero. Economia e società (Loisiris, leisure, Tiempo libre, Freizeit), secc. XIII-XVIII, a cura di S. Cavaciocchi, Firenze 1995, pp. 615-39; ID., Finanze, istituzioni, corti: i Gonzaga da padroni a principi (XIV-XVII sec.), in La corte di Mantova nell’età di Andrea Mantegna, 1450-1550, a cura di C. Mozzarelli, R. Oresko e L. Ventura, Roma 1997, pp. 93-105; ID., e M. CATTINI, Le corti parallele: per una tipologia delle corti padane dal XIII al XVI secolo, in Lo Stato e il potere nel Rinascimento. Per Federico Chabod (1901-1960), in “Annali della Facoltà di Scienze politiche [di Perugia]”, 17, 1980-81, pp. 57-87. Si vedano anche le osservazioni di I. Lazzarini, Prime osservazioni su finanze e fiscalità in una signoria cittadina: i bilanci gonzagheschi tra Tre e Quattrocento, in Politiche finanziarie e fiscali nell’Italia centro settentrionale (secoli XIIIXV), a cura di P. Mainoni, Milano 2001, pp. 87-123. Per gli Estensi qualche cenno in M. CATTINI, Dall’economia della guerra alla guerra “in economia”. Prime indagini sull’organizzazione militare estense nei secoli XV e XVI, in Guerre Stati e città. Mantova e l’Italia padana dal secolo XIII al XIX, a cura di C.M. Belfanti, F. Fantini D’Onofrio e D. Ferrari, Mantova 1988, pp. 31-40; G. GUERZONI, Angustia ducis, divitiae principum. Patrimoni e imprese estensi tra Quattro e Cinquecento, in Tra rendita e investimenti, pp. 57-87; ID., L’oro bianco di Comacchio. Ovvero splendori e miserie delle saline estensi nella prima metà del Cinquecento, in “Cheiron”, 17, 2000, pp. 103-35. 10 E. STUMPO, Finanza e Stato moderno nel Piemonte del Seicento, Roma 1979. Si vedano anche alcuni interventi successivi del medesimo autore: Finanze e ragion di Stato nella prima età moderna. Due modelli diversi: Piemonte e Toscana, Savoia e Medici, in Finanze e ragion di Stato in Italia e in Germania nella prima età moderna, a cura di A. De Maddalena e H. Kellenbenz, Bolo- 36 posta al centro del problema dell’ampliamento delle prerogative ducali sul territorio e della formazione di un apparato istituzionale e militare efficiente. Il modello proposto nel volume sottolinea i vantaggi che di fatto vennero goduti da uno Stato late comer rispetto alle formazioni statali di origine cittadina; vantaggi di carattere istituzionale (stato feudale-monarchico) ed economico (scarsa rilevanza dell’economia urbana) che permisero al piccolo ducato di attraversare una fase positiva proprio lungo il XVII secolo e di svilupparsi nel periodo successivo. Il periodo cinquecentesco non è stato ancora analizzato in profondità11; per il Piemonte settecentesco, la finanza statale non ha visto recenti esami, gran parte dell’interesse si è concentrato sulle vicende e i risultati della perequazione generale di Vittorio Amedeo II, che rappresenta ancora uno dei momenti cruciali della politica riformista sabauda12. Quanto allo Stato di Milano, occorre rilevare che le nostre conoscenze si sono notevolmente ampliate negli anni più recenti. Le accurate pagine che Federico Chabod aveva dedicato ai problemi finanziari nella prima metà del XVI secolo e il quadro delineato da Salvatore Pugliese per il Settecento costituivano ancora alle soglie degli anni settanta pressoché gli unici lavori dedicati alla finanza pubblica lombarda. Alcuni studi a livello locale, comunque, presentavano dati particolarmente interessanti circa le finanze cittadine13; si trattagna 1984, pp. 181-231; e Guerra ed economia. Spese e guadagni militari nel Piemonte del Seicento, in “Studi storici”, 27, 1986, pp. 382-88. Qualche cenno relativo alla finanza locale si trova in alcuni saggi di G. BRACCO, Taglie e gabelle. Studi e ricerche sulle finanze sabaude, Torino 1990. 11 Alcuni elementi sono offerti da P. MERLIN, Il Cinquecento, in P. MERLIN, C. ROSSO, G. SYMCOX, G. RICUPERATI, Il Piemonte sabaudo. Stato e territori in età moderna, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, VIII, 1, Torino 1994, pp. 14-15, 68-69, 112-13, 127-34, 152-59. Per la situazione finanziaria tardomedievale, alcune indicazioni in A. BARBERO, Il ducato di Savoia. Amministrazione e corte di uno stato franco-italiano (1416-1536), Roma-Bari 2002, pp. 88-96, 98-120. 12 Oltre al classico lavoro di G. QUAZZA, Le riforme in Piemonte nella prima metà del Settecento, Modena 1957, si vedano I. RICCI, Perequazione e catasto in Piemonte nel secolo XVIII, in Città e proprietà immobiliare in Italia negli ultimi due secoli, a cura di C. Carozzi e L. Gambi, Milano 1981, pp. 138-152; e D. BORIOLI, M. FERRARIS, A. PREMOLI, La perequazione dei tributi nel Piemonte sabaudo e la realizzazione della riforma fiscale nella prima metà del XVIII secolo, in “Bollettino storico-bibliografico subalpino”, 83, 1985, pp. 131-211. Elementi sintetici si trovano nei vari contributi di MERLIN, ROSSO, SIMCOX, RICUPERATI, Il Piemonte sabaudo. 13 B. CAIZZI, Il Comasco sotto il dominio spagnolo. Saggio di storia economica e sociale, Como 1956 (ho consultato la ristampa edita a Napoli nel 1980); ID., Il Comasco sotto il dominio austriaco fino alla redazione del catasto teresiano, Como 1955; ID., Economia e finanza a Vigevano nel Cinque e Seicento, in “Nuova rivista storica”, 39, 1955, pp. 357-76; I. JACOPETTI, Le finanze del comune di Cremona durante la dominazione spagnuola, Cremona 1961 (“Annali della Biblioteca governativa e libreria civica di Cremona, XIV); U. MERONI, “Cremona fedelissima”. Studi di storia economica e amministrativa di Cremona durante la dominazione spagnola, Cremona 1950 (ivi, III); ID., “Cremona fedelissima”. Popolazione, industria e commercio, imposte camerali, commercio dei grani, moneta e prezzi a Cremona durante la dominazione spagnola, Cremona 1957 (ivi, X). 37 va di studi che, tuttavia, stentavano a collegarsi con il più ampio quadro fiscofinanziario statale. Le successive ricerche di Alberto Cova e di Giovanni Vigo14, così, si collocavano in un panorama storiografico sostanzialmente desolato, che dagli anni Settanta tuttavia ha fatto segnare un notevole ripopolamento. Il funzionamento e i tentativi di riforma delle istituzioni finanziarie sia in età spagnola che in quella austriaca sono stati messi in luce in vari contributi15. Una serie di dati quantitativi sulle finanze statali sono stati offerti ed elaborati in prima approssimazione. Purtroppo i significativi limiti, comuni a tale tipo di documentazione, che registrano in particolare i bilanci lombardi dell’età spagnola hanno sinora impedito una approfondita analisi della finanza di vertice e dei flussi che essa muoveva16. Una spinta a rivedere il ruolo della spesa pubblica, in particolare quella destinata al settore militare, è giunta dal noto lavoro di Sella, che ha rivalutato in senso positivo la funzione della denaro speso per la macchina militare17. Secondo l’autore, infatti, i consistenti sussidi esteri e le rilevanti somme spese dentro i confini dello Stato rappresentarono un elemento di tenuta del sistema economico e sostennero alcuni settori produttivi, in particolare quelli connessi alle forniture militari. La guerra, dunque, gene- 14 A. COVA, Il Banco di S. Ambrogio nell’economia milanese dei secoli XVII e XVIII, Milano 1972; G. VIGO, Fisco e società nella Lombardia del Cinquecento, Bologna 1979; ID., Finanza pubblica e pressione fiscale nello Stato di Milano durante il secolo XVI, Milano 1979 (in parte ripreso in “Rivista milanese di economia”, 33, 34, 1990). 15 Una prima descrizione dell’organizzazione finanziaria dello Stato è stata fornita da R. CELLI e M. PEGRARI, Le istituzioni finanziarie pubbliche del Ducato di Milano, Milano 1979; M. OSTONI, Gestione delle entrate e controllo contabile a Milano: i Magistrati dei redditi e la Tesoreria generale fra Cinque e Seicento, in La Lombardia spagnola. Nuovi indirizzi di ricerca, a cura di E. Brambilla e G. Muto, Milano 1997, pp. 209-23; ID., I conti dello Stato e la Tesoreria generale di Milano: la gestione di Muzio e Francesco Parravicino (1600-1640), in “Storia economica”, 1, 1998, pp. 563-99; ID., Aspetti, dinamiche e protagonisti dell’amministrazione finanziaria dello Stato di Milano: la Tesoreria negli anni di Carlo V, in Sardegna, Spagna e Stati italiani nell’età di Carlo V, a cura di B. Anatra e F. Manconi, Roma 2001, pp. 243-63; ID., Controllori e controllati: i “ragionati” nell’amministrazione finanziaria milanese fra Cinque e Seicento, in ‘Le forze del Principe’. Recursos, instrumentos y lìmites en la pràctica del poder soberano en los territorios de la Monarquìa Hispanica, in corso di stampa; D. MAFFI, L’amministrazione della finanza militare nella Lombardia spagnola: i veedores e i contadores dell’esercito (1536-1700), in “Storia economica”, 5, 2002, pp. 51-106; C. CAPRA, L’amministrazione delle finanze e le prime riforme asburgiche nello Stato di Milano (1737-1753), Milano 1979; ID., Riforme finanziarie e mutamento istituzionale nello Stato di Milano: gli anni sessanta del secolo XVIII, in “Rivista storica italiana”, 91, 1979, pp. 313-68; G. MUTO, Il governo della Hacienda nella Lombardia spagnola, in Lombardia borromaica, Lombardia spagnola 1554-1659, a cura di P. Pissavino e G. Signorotto, I, Roma 1995, pp. 265-302. 16 Oltre a VIGO, Finanza pubblica, cfr. M. RIZZO, Finanza pubblica, impero e amministrazione nella Lombardia spagnola: le “visitas generales”, in Lombardia borromaica, Lombardia spagnola, pp. 303-61. 17 D. SELLA, L’economia lombarda durante la dominazione spagnola, Bologna 1982 (Cambridge, Mass. 1979), in partic. pp. 113 sgg. 38 ralmente vista come un pozzo senza fine che distrugge risorse, è venuta ad assumere una particolare considerazione fra gli storici lombardi, che stanno approfondendo le complesse relazioni fra guerra ed economia18. La fiscalità militare nello Stato di Milano è fra i principali interessi della ricerca di Agnoletto: il periodo tra fine Seicento e inizio Settecento – durante il passaggio dal dominio spagnolo al controllo austriaco – è stato esaminato basandosi in particolare sui bilanci preventivi19. Il volume affronta le questioni finanziarie e il dibattito che si svolge circa le riforme da intraprendere; dibattito che si pone alle origini della politica riformista che prende avvio con la Giunta per il nuovo Censimento del 1718. Emerge un’immagine dello Stato e della società lombarda estremamente complessa, in cui i diversi corpi locali, gli interessi corporativi e la volontà del governo centrale si confrontano sul tavolo della fiscalità in un continuo dialogo i cui risultati non sono sempre prevedibili. La conflittualità fra corpi, città, comuni rurali e governo centrale rappresenta un altro campo particolarmente indagato dalla recente storiografia lombarda. Le vicende legate alla redazione dei due grandi catasti che segnarono un’epoca, il “censimento generale” decretato sotto Carlo V e il catasto teresiano, sono state esaminate con una certa profondità, e collocate nel più ampio contesto dei rapporti fra élites locali e autorità governative20. Se il catasto caro- 18 D. MAFFI, Guerra ed economia: spese belliche e appaltatori militari nella Lombardia spagnola (1635-1660), in “Storia economica”, 3, 2000, pp. 489-527; ID., Milano in guerra. La mobilitazione delle risorse in una provincia della monarchia, 1640-1659, in ‘Le forze del Principe’. Cfr. anche M.C. GIANNINI, Risorse del principe e risorse dei sudditi: fisco, clero e comunità di fronte al problema della difesa comune nello stato di Milano (1618-1660), in “Annali di storia moderna e contemporanea”, 6, 2000, pp. 173-225; ID., Città e contadi dello Stato di Milano nella politica finanziaria del conte di Fuentes, in La Lombardia spagnola, pp. 191-208. 19 S. AGNOLETTO, Lo stato di Milano al principio del Settecento. Finanza pubblica, sistema fiscale e interessi locali, Milano 2000. 20 Per l’estimo mercimoniale il libro di VIGO, Fisco e società, rimane un punto fermo; quanto al catasto fondiario, dopo G. COPPOLA, L’agricoltura di alcune pievi della pianura irrigua milanese nei dati catastali della metà del secolo XVI, in Aspetti di vita agricola lombarda (secoli XVI-XIX), Milano 1973, pp. 185-286, si vedano i contributi di A. ZAPPA, L’avvio dell’estimo generale dello Stato di Milano nell’età di Carlo V, in “Società e storia”, 14, 1991, pp. 545-77; EAD., Le lotte e i contrasti per la realizzazione dell’estimo generale dello Stato di Milano, in Lombardia borromaica, Lombardia spagnola, pp. 383-403. Per il catasto austriaco, oltre a S. ZANINELLI, Il nuovo censo dello Stato di Milano dall’editto del 1718 al 1733, Milano 1963, C. MOZZARELLI, Sovrano, società e amministrazione locale nella Lombardia teresiana (1749-1758), Bologna 1982; D.M. KLANG, Tax reform in eighteenth-century Lombardy, New York 1977; A. COVA, Riforma dell’imposta fondiaria e produzione agricola in Lombardia nella seconda metà del Settecento, in “Annali della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Milano”, 2, 1982, pp. 597-621; F. PINO, La città di Milano e il censimento, in Economia, istituzioni, cultura in Lombardia nell’età di Maria Teresa, III, Bologna 1982, pp. 443-52. Per il travagliato percorso del catasto teresiano si vedano le pagine di C. CAPRA, Il Settecento, in D. SELLA, C. CAPRA, Il 39 lino innescò un’aspra e annosa lotta fra le diversi componenti dello Stato; la riforma censuaria promossa dagli austriaci non incontrò minor opposizione: le lungaggini, i ricorsi e le gherminelle frapposti da chi vedeva messe in pericolo le proprie posizioni di privilegio provocarono così forti ritardi da rinviare per decenni la definitiva pubblicazione del catasto. I due catasti sono segnati da profonde differenze, nonostante alcune analogie, soprattutto di carattere tecnico e di filosofia contributiva. Come il catasto cinquecentesco anche quello settecentesco mantiene il principio della responsabilità solidale delle comunità di fronte al fisco, con conseguenze spesso disastrose per i contribuenti21. Analogamente, già l’estimo generale spagnolo spazza, almeno in parte, una congerie di privilegi fiscali legati alla condizione giuridica dei contribuenti e vengono altresì ridotti i margini di evasione22. Il quadro che emerge al termine della lunga opera di catastazione è quello di un assetto fiscale meno squilibrato rispetto al precedente periodo sforzesco e di un pesante ridimensionamento delle prerogative urbane nei confronti del contado. Il “censimento” teresiano, a sua volta, rappresenta il punto finale di una serie di tentativi, sino allora naufragati23, di rendere il carico fiscale meno squilibrato fra le diverse componenti dello Stato e di limitare in misura significativa gli ampi spazi di manovra ancora goduti dalle élites locali. Sebbene realizzata nel 1760 dopo una lunga interruzione, la riforma censuaria avviata con Carlo VI segna una significativa inversione di tendenza nelle relazioni fra ceti dirigenti locali e governo centrale: si tratta di un episodio che potrebbe collocarsi in quella congiuntura caratterizzata da un maggior “tasso di assolutismo” che interessa alcuni Stati italiani fra Sei e Settecento24. I due catasti si pongono così come momenti esemplari di due differen- Ducato di Milano dal 1535 al 1796, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, XI, Torino 1984, pp. 21329, 310-328, 338-50; e M. TACCOLINI, Riordino dei tributi ed esenzione dei beni ecclesiastici dello stato di Milano nel settecento: primi risultati di una ricerca in corso, in “Annali di storia moderna e contemporanea”, 3, 1997, pp. 87-137. 21 L. FACCINI, La Lombardia fra ’600 e ’700. Riconversione economica e mutamenti sociali, Milano 1988, pp. 93-94. 22 G. VIGO, Alle origini dello stato moderno: fiscalità e classi sociali nella Lombardia di Filippo II, in Studi in memoria di Mario Abrate, II, Torino 1986, p. 771, ha giudicato l’estimo decretato nel 1543 come la “prima imperfetta affermazione di quel principio di generalità e di impersonalità di fronte all’imposta che costituisce il fondamento della finanza moderna”. L’affermazione è ripresa anche in ID., Uno stato nell’impero. La difficile transizione al moderno nella Milano di età spagnola, Milano 1994, p. 129. 23 S. ZANINELLI, Un “Progetto d’un nuovo sistema di taglia da pratticarsi nello Stato di Milano” del 1709, in “Archivio storico lombardo” ser. VIII, 10, 1960, pp. 535-86; ID., Un precedente seicentesco della riforma tributaria nello Stato di Milano: il progetto Bigatti (1654-1679), in Studi in memoria di Mario Abrate, II, pp. 813-29. 24 M. VERGA, Tra Sei e Settecento: un’“età delle pre-riforme”?, in “Storica”, 1, 1995, pp. 89-121. 40 ti modi di governare? Sarebbe troppo semplice rispondere affermativamente: i contesti erano notevolmente diversi, nonostante le pressanti necessità finanziarie di entrambi i governi; il quadro economico e sociale, di conseguenza, aveva registrato mutamenti che si riflettevano sugli equilibri politici; probabilmente le risorse che i gruppi di potere locale disponevano a Madrid erano diverse rispetto a quelle che potevano dispiegare presso la corte austriaca. Un confronto fra le diverse politiche fiscali, pertanto, dovrebbe considerare lo sfondo complessivo; uno sfondo popolato da istituzioni, da congiunture economiche, da rapporti di potere e da uomini con ideali e prospettive piuttosto differenti. Passando alla vicina Repubblica di Venezia, i problemi affrontati dagli studiosi della Lombardia sono per vari aspetti analoghi. Occorre tuttavia rilevare che le fonti finanziarie veneziane sinora pubblicate permettono una miglior conoscenza dei dati quantitativi di base rispetto alla situazione lombarda25, dove la ricostruzione quantitativa dell’attività della finanza di vertice risulta essere “un’impresa quasi disperata”26. Lavori analitici e di sintesi hanno recato una messe notevole di informazioni e di elaborazioni sia sulla finanza di vertice27 che 25 Mi riferisco naturalmente alla serie dei Bilanci generali della Repubblica di Venezia, I, a cura di F. Besta, Venezia 1912; ibid., II e III, Venezia 1903; ibid., IV, a cura di A. Ventura, Padova 1972. Chi scrive ha in preparazione il V vol. con bilanci che vanno da metà Cinque agli inizi del Settecento. Per quanto riguarda lo Stato di Milano, invece, dati quattrocenteschi si possono trovare in F. LEVEROTTI, La crisi finanziaria del ducato di Milano alla fine del Quattrocento, in Milano nell’età di Ludovico il Moro, II, Milano 1983, pp. 585-632; mentre per il periodo spagnolo si vedano F. CHABOD, Storia di Milano nell’epoca di Carlo V, Torino 1971, pp. 248-49, 253-54, 281-82, 291, 315; ID., Lo Stato e la vita religiosa a Milano nell’epoca di Carlo V, Torino 1971, p. 120; COVA, Il Banco di S. Ambrogio, appendice; SELLA, L’economia lombarda, p. 117; VIGO, Finanza pubblica, pp. 12-16, con importanti avvertenze; RIZZO, Finanza pubblica, impero e amministrazione, pp. 342-54; MUTO, Il governo della hacienda, pp. 289-90; e per il Settecento AGNOLETTO, Lo Stato di Milano, pp. 179 sgg.; M. BIANCHI, Le entrate e le spese dell’amministrazione centrale e delle province dello Stato di Milano nella seconda metà del Settecento, in “Archivio storico lombardo”, 104, 1978, p. 174-96. 26 VIGO, Finanza pubblica, p. 12. 27 M. KNAPTON, La dinamica delle finanze pubbliche, in Storia di Venezia, III, Roma 1997, pp. 475-528; ID., Il fisco nello Stato veneziano di Terraferma tra ’300 e ’500: la politica delle entrate, in Il sistema fiscale veneto. Problemi e aspetti, XV-XVIII secolo, a cura di G. Borelli, P. Lanaro, F. Vecchiato, Verona 1982, pp. 15-57; ID., Il sistema fiscale nello Stato di Terraferma, secoli XIV-XVIII. Cenni generali, in Venezia e la terraferma. Economia e società, Bergamo 1989; ID., Guerra e finanza (1381-1508), in G. COZZI e M. KNAPTON, La Repubblica di Venezia nell’età moderna. Dalla guerra di Chioggia al 1517, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, XII,1, Torino 1986, pp. 273-353; L. PEZZOLO, Il fisco dei veneziani; ID., L’oro dello Stato. Società, finanza e fisco nella Repubblica veneta del secondo ’500, Venezia 1990; ID., Sistema di potere e politica finanziaria nella Repubblica di Venezia (secoli XV-XVII), in Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini, A. Molho, P. Schiera, Bologna, 1994, pp. 303-27; ID., Economia e fiscalità nella Terraferma del Settecento, in Veneto, Istria e Dalmazia tra Sette e Ottocento, a 41 su quella municipale28. La dinamica delle entrate è abbastanza chiara: si passa da un volume di entrate pari a circa 46 tonnellate d’argento annue lungo il XV secolo a un livello di 55 ton. verso la fine del Cinquecento, si sfiorano le 100 ton. alla vigilia della peste del 1630, ci si assesta attorno alle 83 ton. a metà Settecento per poi oltrepassare di poco le 100 negli ultimi anni della Repubblica. Come si vede, la capacità finanziaria della Serenissima era già discreta nel Quattrocento e conobbe un incremento nel lungo periodo, in termini di cespiti reali, piuttosto contenuto rispetto ad altri Stati. Non diversamente da altri casi, anche per Venezia la tendenza delle entrate è funzione anzitutto delle spese, e naturalmente delle spese militari. Salvo la congiuntura cinquecentesca, segnata come noto da un secolare rialzo dei prezzi che si riflette anche sui bilanci statali, sono gli impegni politico-militari della Repubblica che segnano il ritmo degli introiti; impegni che si diradano agli inizi del Settecento, quando all’indomani cura di F. Agostini, Venezia, 1999, pp. 29-42; ID., La finanza pubblica veneziana in età moderna, Dipartimento di Scienze economiche, Università Ca’ Foscari di Venezia, Note di Lavoro, ottobre 2003; G. GULLINO, Considerazioni sull’evoluzione del sistema fiscale veneto tra il XVI e il XVIII secolo, in Il sistema fiscale veneto, pp. 61-91; A. ZANNINI, La finanza pubblica: bilanci, fisco, moneta e debito pubblico, in Storia di Venezia, VIII, Roma 1998, pp. 431-77; G. ZALIN, La finanza pubblica e le sue difficoltà nello Stato Veneto tra ancien régime e restaurazione austriaca, in La finanza pubblica in età di crisi, a cura di A. Di Vittorio, Bari 1993, pp. 90-120; G. MAZZUCCATO, La politica finanziaria nella Repubblica di Venezia del Settecento, in “Rivista di storia economica”, 13, 1997, pp. 17396; ID., È il pareggio il principio ispiratore della politica di bilancio della repubblica di Venezia nel XVIII secolo?, ibid., 19, 2003, pp. 7-40. 28 G. BARBIERI, La crisi finanziaria di un comune veronese del secolo XVI: Porto di Legnago, in Studi in memoria di Rodolfo Benini, Bari 1956, pp. 29-48; G.M. VARANINI, Il bilancio d’entrata delle Camere fiscali di Terraferma nel 1475-76, in ID., Comuni cittadini e Stato regionale. Ricerche sulla Terraferma veneta nel Quattrocento, Verona 1992, pp. 73-123; M. KNAPTON, L’organizzazione fiscale di base nello Stato veneziano: estimi e obblighi fiscali a Lisiera fra ’500 e ’600, in Lisiera. Immagini, documenti e problemi per la storia e cultura di una comunità veneta. Strutture, congiunture, episodi, a cura di C. Povolo, I, Vicenza 1981, pp. 377-418; ID., Cenni sulle strutture fiscali nel Bresciano nella prima metà del Settecento, estr. da La società bresciana e l’opera di Giacomo Ceruti, s.n.t.; L. PEZZOLO, Dal contado alla comunità: finanze e prelievo fiscale nel Vicentino (secoli XVI-XVIII), in Dueville. Storia e identificazione di una comunità del passato, a cura di C. Povolo, I, Vicenza 1985, pp. 381-428; ID., Una fonte privilegiata d’indagine: l’estimo comunale, in Bolzano Vicentino. Dimensioni del sociale e vita economica in un villaggio della pianura vicentina (secoli XIV-XIX), a cura di C. Povolo, Vicenza, 1985, pp. 279-305; ID., Istituzioni e amministrazione in Valpolicella nel Cinquecento e primo Seicento, in La Valpolicella nella prima età moderna (1500 c.-1630), a cura di G.M. Varanini, Verona, 1987, pp. 249-316; A. TAGLIAFERRI, Udine nella storia economica, Udine 1983, pp. 149-209; L. MORASSI, Sistema fiscale e diritti giurisdizionali, in I Savorgnan e la Patria del Friuli dal XIII al XVIII secolo, Udine 1984; L. VECCHIATO, La vita politica economica e amministrativa a Verona durante la dominazione veneziana (1405-1797), in L. VECCHIATO e F. VECCHIATO, Verona tra Cinquecento e Settecento, in Verona e il suo territorio, V, 1, Verona 1995, pp. 219-336; G. SILVANO, Padova democratica (1797). Finanza pubblica e rivoluzione, Venezia 1996. 42 della sconfitta nella seconda guerra di Morea il ruolo internazionale di Venezia scade a quello di secondo rango nello scacchiere europeo. Ma oltre alle cifre la ricerca nel Veneto ha cercato di disvelare alcuni problemi, soprattutto di carattere politico e istituzionale, che riguardano la fiscalità. La vivace conflittualità incentrata sulla distribuzione dei carichi fiscali fra centri urbani e contadi si ritrova anche nel Veneto, con dinamiche ed esiti che richiamano l’esperienza lombarda. Se nello Stato di Milano è il catasto carolino a infuocare i rapporti fra città e contadi, nella Terraferma l’introduzione del sussidio ordinario nel 1529 rappresenta uno dei momenti di svolta di un periodo – gli anni successivi alla crisi di Agnadello – che vede come protagonisti cittadini e comitatini impegnati a ripartirsi il nuovo onere e i secondi a cogliere l’occasione per mettere in discussione assetti oramai desueti29. In effetti il prelievo attuato per mezzo del sussidio non risulta particolarmente gravoso (100.000 ducati in un bilancio di oltre un milione di ducati), ma esso si colloca in un contesto in forte movimento, nel quale nuove istanze, da parte dei contadi, si levano e spesso trovano ascolto nella capitale; stanno sorgendo istituzioni rappresentative dei comitatini; élites rurali si stanno formando; e le esigenze finanziarie di Venezia stanno sempre più aumentando. Così come in Lombardia anche nel Veneto il contenzioso fiscale è il terreno sul quale si ingaggia un duro scontro fra i nascenti corpi territoriali e le città; uno scontro che avrà come esito più eclatante un pesante ridimensionamento delle prerogative dei ceti urbano e un significativo riconoscimento delle richieste dei contadi30. Se l’età d’oro dei corpi territoriali è stata esaminata in più occasioni, ancora molto rimane da sapere circa gli esiti di lungo periodo dell’affermazione dei contadi, G. DEL TORRE, Venezia e la terraferma dopo la guerra di Cambrai. Fiscalità e amministrazione (1515-1530), Milano 1986, pp. 77-83; PEZZOLO, L’oro dello Stato, pp. 280-84; A. ROSSINI, Le campagne bresciane nel Cinquecento. Territorio, fisco, società, Milano 1994, pp. 233-42; I. PEDERZANI, Venezia e lo “Stado de Terraferma”. Il governo delle comunità nel territorio bergamasco (secc. XV-XVIII), Milano 1992, pp. 134-35, 147-75; L. PEZZOLO, Finanza e fiscalità nel territorio di Bergamo (1450-1630), in Storia economia e sociale di Bergamo, II, a cura di M. Cattini e M.A. Romani, Bergamo 1998, pp. 59-64. 30 Oltre a S. ZAMPERETTI, “I sinedri dolosi”. La formazione e lo sviluppo dei Corpi territoriali nello Stato regionale veneto tra ’500 e ’600, in “Rivista storica italiana”, 99, 1987, pp. 269-320, cfr. M. KNAPTON, Il Territorio vicentino nello stato veneto del ’500 e primo ’600: nuovi equilibri politici e fiscali, in “Dentro lo Stado italico”. Venezia e la Terraferma fra Quattrocento e Seicento, a cura di G. Cracco e M. Knapton, Trento 1984, pp. 33-115; G.M VARANINI, Il distretto veronese nel Quattrocento. Vicariati del comune di Verona e vicariati privati, Verona 1980; G. MAIFREDA, Rappresentanze rurali e proprietà contadina. Il caso veronese tra Sei e Settecento, Milano 2002; FAVARETTO, L’istituzione informale; ROSSINI, Le campagne bresciane; e il numero monografico di “Studi bresciani”, con studi sulla Lombardia veneta e sullo Stato di Milano; per quest’ultimo cfr. anche G. CHITTOLINI, Città, comunità e feudi negli stati dell’Italia centro-settentrionale (secoli XIV-XVI), Milano 1996. 29 43 delle élites che li dirigevano e dei rapporti informali che intessevano con il gruppo dirigente della capitale e del loro ruolo nell’assecondare – o meno – le richieste tributarie del governo. Passando all’altro grande Stato a carattere cittadino, quello toscano, la sensazione che si prova in Lombardia e in Veneto di muoversi su un terreno – quello fiscale – abbastanza conosciuto svanisce non appena si abbandona la Firenze quattrocentesca. Le ricerche sulla finanza fiorentina nel tardo medioevo sono note, e oramai costituiscono dei classici. Gli studi di Becker e di Molho hanno chiarito importanti aspetti della gestione e della politica finanziaria premedicea, e la ricerca di Conti risulta esemplare quanto a chiarezza e meticolosità31. Già la Firenze laurenziana si presenta con molte ombre32 – anzi, direi strade buie –, ma è con il sorgere del granducato che la finanza pubblica sembra essere un aspetto quasi negletto dalla recente storiografia. Certo, la situazione documentaria non agevola il ricercatore, costretto a perdersi tra i mille rivoli delle magistrature (e quindi delle casse) fiorentine; è altresì vero che la marcata commistione fra patrimonio personale del duca e finanza statale complica ulteriormente il lavoro, tuttavia non può non destare sorpresa che la fiscalità abbia trovato ben pochi cultori nella Toscana della prima età moderna. Poche e incerte sono le cifre sui bilanci cinquecenteschi33, mentre è possibile trovare dati seiM. BECKER, Problemi della finanza pubblica fiorentina della seconda metà del Trecento e dei primi del Quattrocento, in “Archivio storico italiano”, 123, 1965, pp. 433-66; ID., Economic change and the emerging territorial state, in “Studies in the Renaissance”, 30, 1966, pp. 7-39 (tr. it. in La crisi degli ordinamenti comunali e le origini dello stato del Rinascimento, a cura di G. Chittolini, Bologna 1979, pp. 149-86); A. MOLHO, Florentine public finances in the early renaissance Florence, 1400-1433, Cambridge (Mass.) 1971; E. CONTI, L’imposta diretta a Firenze nel Quattrocento (1427-1494), Roma 1984. I tratti interpretativi di questi studi sono stati recentemente ripresi da G. CIAPPELLI, Il cittadino fiorentino e il fisco alla fine del trecento e nel corso del quattrocento, “Società e storia”, 11, 1989, pp. 823-72; ID., La fiscalitat urbana a Toscana i Florència als segles XIV i XV. Fonts i problemes, “Butlletì de la Societat Catalan d’Estudis Hìstorics”, 5, 1994, pp. 43-66; ID., Aspetti della politica fiscale fiorentina fra Tre e Quattrocento, in Istituzioni e società in Toscana in età moderna, Roma 1994, pp. 61-75. Si veda anche il rapido ma stimolante profilo di P. CAMMAROSANO, Il sistema fiscale delle città toscane nel tardo medioevo, in Actes. Col-loqui Corona, municipis i fiscalitat a la baixa Edat Mitjana, cur. M. Sànchez i A. Furiò, Lleida 1997, pp. 79-87; nonché D. HERLIHY, Direct and indirect taxation in Tuscan urban finance, ca. 1200-1400, ora in ID., Cities and society in Medieval Italy, London 1980, primo saggio. 32 Una fievole luce venne gettata da L.F. MARKS, La crisi finanziaria a Firenze dal 1492 al 1502, in “Archivio storico italiano”, 112, 1952, pp. 40-72; ID., The financial oligarchy in Florence under Lorenzo, in Italian Renaissance Studies, ed. by E.F. Jacob, London 1960, pp. 123-47; e recentemente R. GOLDTHWAITE, Lorenzo Morelli, Ufficiale del Monte, 1484-88: interessi privati e cariche pubbliche nella Firenze laurenziana, in “Archivio storico italiano”, 154, 1996, pp. 605-33. 33 Per il primo Cinquecento, F. GUIDI, Lotte, pensiero e istituzioni politiche nella Repubblica fiorentina dal 1494 al 1512, III, Firenze 1992, pp. 900-6. Alcune cifre di metà secolo si trovano in A. D’ADDARIO, Burocrazia, economia e finanze dello Stato fiorentino alla metà del Cinquecento, in “Archivio storico italiano”, 121, 1963, pp. 362-456; E. STUMPO, Problemi di storia dell’Italia spa31 44 centeschi di una certa affidabilità solo grazie a una tesi di dottorato, nella quale è stato ricostruito il sistema fiscale toscano per i decenni centrali del secolo34. Il periodo finale della dinastia è stato esaminato nella monografia di Waquet, che tuttavia non offre molti dati sui bilanci35; analogamente, chi volesse trovare cifre globali nel volume di Dal Pane, che si è occupato della finanza successiva sino al tramonto del granducato, rimarrebbe piuttosto deluso36. Vengono così a mancare alcuni dati quantitativi cruciali non solo per determinare il peso del fisco nello Stato mediceo, ma anche per individuare i flussi finanziari che interessavano l’intero territorio e in particolare la capitale. Si può desumere, ad ogni modo, che la finanza granducale abbia registrato una rimarchevole stabilità circa il livello delle entrate tra la fine del Cinque e lungo il Seicento: poco più di un milione di scudi all’anno. Una cifra non certo elevata, che permette di ritenere che i contribuenti toscani non fossero oltremodo gravati37. È interessante rilevare, inoltre, che le forme del prelievo non mutarono in misura significativa tra la fine del Quattrocento e il primo Cinquecento (che vede l’istituzione e il consolidarsi della decima)38 e l’ultimo quarto del Seicento, quando gnola nell’età di Filippo II, in “Quaderni sardi di storia”, 2, 1981, pp. 113-14; ID., Finanze e ragion di Stato, pp. 216-17; e F. DIAZ, Il Granducato di Toscana. I Medici, in Storia d’Italia, a cura di G. Galasso, XIII, 1, Torino 1976, pp. 160-61. Un riferimento alle entrate ordinarie di fine Cinquecento in E. COCHRANE, Florence in the forgotten centuries 1527-1800, Chicago 1973, p. 173, che riporta una notizia di SIR R. DALLINGTON, Descrizione dello stato del granduca di Toscana. Nell’anno di Nostro Signore 1596, a cura di N. Francovich Onesti e L. Rombai, Firenze 1983, p. 75. L’articolo di A.D. ROLOVA, La politica tributaria dei duchi di Toscana nella seconda metà del ’500 e agli inizi del ’600, in “Srednie Veka”, 41, 1977, pp. 50-77 (in russo) rappresenta una rassegna abbastanza superficiale del sistema fiscale toscano e riporta cifre non sempre attendibili. 34 A. D’ALAIMO, La finanza pubblica del granducato di Toscana al tempo di Ferdinando II (1621-1670), Istituto universitario navale di Napoli, 1995. 35 WAQUET, Le Grand-Duché de Toscane. E il contributo di G. PANSINI, Per una storia del debito pubblico e della fiscalità al tempo di Cosimo III dei Medici (il monte sussidio vacabile e le collette universali), in La Toscana nell’età di Cosimo III, a cura di F. Angiolini, V. Becagli, M. Verga, Firenze 1993, pp. 295-317. 36 L. DAL PANE, La finanza toscana dagli inizi del secolo XVIII alla caduta del Granducato, Milano 1965. Ma si veda ora A. CONTINI, La Reggenza Lorenese fra Firenze e Vienna. Logiche dinastiche, uomini e governo (1737-1766), Firenze 2002, pp. 194 sgg. 37 Un giudizio diverso per il secondo Cinquecento è in ROLOVA, La politica tributaria, p. 71, secondo la quale i sudditi toscani furono colpiti pesantemente dalla tassazione; comunque l’A. rileva che, rispetto al primo Cinquecento, dalla metà del secolo la domanda fiscale si attenuò (p. 52). 38 Rimangono ancora utili, pur con varie imprecisioni, G.F. PAGNINI DEL VENTURa, Della decima e di varie altre gravezze imposte dal comune di Firenze, I, Lisbona-Lucca 1765, pp. 37 sgg.; G. CANESTRINI, La scienza e l’arte di stato, Firenze 1862, pp. 203 sgg. Ma si vedano anche ROLOVA, La politica tributaria, p. 52; CONTI, L’imposta diretta, pp. 281 sgg.; e, per alcuni aspetti particolari, A. MENZIONE, La proprietà fiorentina e la decima: alcuni appunti, in Ricerche di storia moderna, a cura di G. Biagioli, IV, Pisa 1995, pp. 89-134. 45 emersero alcuni tentativi di mutare la natura di alcune imposte39. Tuttavia in caso di necessità il sistema fiscale sembra denunciare qualche problema, dovuto probabilmente a una scarsa elasticità. È sufficiente un impegno relativamente breve come la guerra di Castro per mettere in serie difficoltà le casse granducali40; e le ripetute richieste viennesi di un sussidio in denaro tra Sei e Settecento hanno esiti analoghi41. Sembra quasi che la capacità finanziaria del granducato, sebbene raramente messa alla prova da impegni bellici, non sia in grado di superare un tetto massimo che viene sfiorato già durante i lunghi periodi di pace. Tuttavia è opportuno arrestarci a questa rapida osservazione, auspicando che prossime ricerche chiariscano gli aspetti strutturali della finanza pubblica toscana nella prima età moderna. Se la finanza di vertice lamenta un preoccupante disinteresse, alcune problematiche inerenti ai rapporti fra centro e periferie sono state affrontate invece con una certa attenzione. Mentre nella pianura padana i giochi si svolgevano fra città, istituzioni territoriali e governo centrale, nel granducato, viceversa, pare che le città soggette non abbiano avuto un ruolo significativo nei rapporti fiscali fra capitale e contadini. Si può ritenere che uno dei motivi risieda nell’impostazione originaria delle relazioni fra Dominante e nuovi territori soggetti: Firenze aveva scelto di staccare il contado dalle città conquistate e di impostare un dialogo diretto con le comunità rurali estromettendo così le élites urbane dal ruolo di mediazione e ponendo in seria discussione il controllo cittadino sulle campagne circostanti42. Una prassi, questa, che fu bensì seguita in alcuni casi da ripensamenti e provvedimenti contraddittori. Nel campo fiscale, per esempio, se Pisa oramai appare estranea al suo contado, Pistoia riesce a riguadagnare una posizione di controllo e intermediazione fra le comunità rurali e la capitale43. A livello locale la presenza del fisco fiorentino appare rilevante, ma 39 Sulla trasformazione dell’imposta sulla farina in un testatico cfr. ROLOVA, La politica tributaria, p. 59; A. CONTINI, La riforma della tassa delle farine (1670-1680), in La Toscana nell’età di Cosimo III, pp. 241-74. Per l’ampliamento dell’imposizione su alcuni generi lungo il Seicento, ROLOVA, La politica tributaria, p. 61. 40 Cfr. D’ALAIMO, La finanza pubblica, pp. 257-58. 41 WAQUET, Le Grand-Duché, pp. 88 sgg. 42 Naturalmente il riferimento d’obbligo è a G. CHITTOLINI, La formazione dello stato regionale e le istituzioni del contado. Secoli XIV-XV, Torino 1979, pp. 292-352. Cfr. anche A. ZORZI, Lo Stato territoriale fiorentino (secoli XIV-XV): aspetti giurisdizionali, in “Società e storia”, 13, 1990, pp. 799-825; ID., L’organizzazione del territorio in area fiorentina tra XIII e XIV secolo, in L’organizzazione del territorio in Italia e Germania: secoli XIII-XIV, a cura di G. Chittolini e D. Willoweit, Bologna 1994, specie pp. 348-49. 43 G. PETRALIA, Imposizione diretta e dominio territoriale nella repubblica fiorentina del Quattrocento, in Società, istituzioni, spiritualità. Scritti in onore di Cinzio Violante, Spoleto 1994, pp. 63952; e ID., Fiscality, politics and dominion in Florentine Tuscany at the end of the Middle Ages, in Flo- 46 pur sempre meno ingombrante rispetto ad altre situazioni. Se nei primi decenni del Quattrocento – al culmine dello sforzo militare – la domanda governativa sulle comunità soggette è pressante44, lungo la prima età moderna i bilanci comunali lasciano intendere che vi è un notevole spazio per la gestione di fondi che non prendono la via di Firenze45. Anche in questo caso però siamo costretti ad avanzare ipotesi che non hanno ancora trovato una solida verifica: nel fiorire di storie di comunità lo spazio per le questioni fiscali è risultato assai ridotto, a conferma di una scarsa attenzione verso tali problemi. Mentre la finanza locale toscana sembra meno oscura rispetto a quella di vertice, l’immagine che offre la ricerca in Liguria è esattamente all’opposto. Grazie soprattutto ai lavori di Giorgio Felloni siamo in grado di delineare con buona approssimazione l’andamento di lungo periodo della finanza statale genovese, almeno per quanto riguarda i dati di base46. Fra metà Cinque e metà Settecento le entrate statali crebbero in termini nominali di quattro volte, grazie soprattutto all’aumento del gettito dell’imposizione diretta, sia nella capitale che nel dominio, e in minor misura dei dazi sul consumo. Considerando alcuni parametri, comunque, si nota che l’incremento degli introiti viene notevolmente ridimensionato: il valore (in moneta corrente) del commercio portuale genovese, ad esempio, nel medesimo arco di tempo cresce meno di due volte; il prezzo del grano di quasi cinque47; mentre il corrispettivo dei cespiti in argento passa da 9,4 quintali a una tonnellata. Le performances della finanza pubblica rentine Tuscany. Structures and practices of power, ed. by W.J. Connell and A. Zorzi, Cambridge 2000, pp. 65-89. 44 Si veda il caso di Pescia esaminato da J. BROWN, In the shadow of Florence. Provincial society in renaissance Pescia, Oxford 1982, pp. 126-76. 45 E. STUMPO, Le forme del governo cittadino, in Prato. Storia di una città, II, a cura di E. Fasano Guarini, Firenze 1986, p. 299; P. BENIGNI, Oligarchia cittadina e pressione fiscale: il caso di Arezzo nei secoli XVI e XVII, in La fiscalité et ses implications sociales en Italie et en France aux XVIIe et XVIIIe siècles, Rome 1980, pp. 55-56. W.J. CONNELL, Clientelismo e Stato territoriale. Il potere fioerentino a Pistoia nel XV secolo, in “Società e storia”, 14, 1991, pp. 529-30. Ma L. CARBONE, Economia e fiscalità ad Arezzo in epoca moderna. Conflitti e complicità tra centro e periferia nella Toscana dei Medici 1530-1737, Roma 1999, sottolinea la crescente pressione esercitata dal governo centrale a partire da metà Cinquecento. 46 Mi riferisco in particolare a G. FELLONI, Distribuzione territoriale della ricchezza e dei carichi fiscali nella repubblica di Genova, e Stato genovese, finanza pubblica e ricchezza privata: un profilo storico, ora in ID., Scritti di storia economica, I, Genova 1999, pp. 199-234, 275-95. Rimane ancora importante H. SIEVEKING, Studio sulle finanze genovesi nel Medioevo e in particolare sulla casa di S. Giorgio, (“Atti della Società ligure di storia patria”, 35, 1905-06); mentre offrono numerose informazioni G. GIACCHERO, Il seicento e le compere di San Giorgio, Genova 1979; e ID., Storia economica del Settecento genovese, Genova 1951, pp. 198 sgg. Dati circa gli impegni ordinari in M. BUONGIORNO, Il bilancio di uno Stato medievale. Genova 1340-1529, Genova 1973. 47 FELLONI, Stato genovese, pp. 288, 292. 47 genovese – diversamente da quella privata – non appaiono certo rilevanti. Di fronte al mutare del quadro internazionale e alle crescenti necessità della spesa statale la Repubblica si mostra incapace di espandere il bilancio a causa dei limiti strutturali del sistema di potere ligure. Un sistema di potere che s’incentra sull’egemonia del patriziato e sulla preminenza della capitale sul resto del territorio, secondo i moduli classici dello Stato cittadino. I vincoli posti dalle comunità soggette all’azione del governo centrale si dimostrano piuttosto forti e impediscono, così, un efficace rastrellamento di risorse; risorse che risulta giocoforza trovare fra i contribuenti della capitale, che tuttavia non sono in grado di fornire in misura adeguata alle necessità. Così, il “compromesso pragmatico tra volontà di potenza e tenace individualismo”48 impedisce a Genova di svolgere un ruolo di qualche peso nel teatro europeo d’ancien régime. Lo studio della finanza pontificia vanta una lunga tradizione, che continua sino agli anni più vicini. Un interesse, quello per la finanza statale, che si giustifica da un lato per il ruolo internazionale della Santa Sede (finanza spirituale) e dall’altro per i legami con il processo di formazione dello Stato territoriale (finanza temporale). Naturalmente anche la finanza ha rappresentato – e per certi versi continua a esserlo – un terreno di confronto ideologico, ora fra studiosi protestanti e cattolici, ora fra assertori della modernità o dell’arretratezza dell’istituzione statale pontificia49. Essendo a disposizione eccellenti rassegne e studi di sintesi50, mi limiterò a toccare alcuni problemi emersi recentemente. Anzitutto occorre rilevare che l’andamento della finanza pontificia fra basso medioevo ed età moderna conosce un tragitto piuttosto accidentato; l’immagine insomma non è certo quella di una crescita progressiva dei bilanci. Il periodo avignonese è contrassegnato da un volume di attività assai elevato, con entrate della Camera apostolica che nel periodo 1316- 77 si aggiravano attorno ai 200.000 fiorini d’oro con punte sino a oltrepassare il mezzo milione sotto il pontificato di Gregorio XI (1370-77); la maggior parte degli introiti proviene da diritti di natura religiosa51. Con il ritorno del pontefice in Italia e la riorga- ID., La fiscalità nel dominio genovese tra Quattro e Cinquecento, ora in ID., Scritti, I, p. 250. Alcune osservazioni sulla tradizione storiografica sono svolte da M. ROSA, La “scarsella di Nostro Signore”: aspetti della fiscalità spirituale pontificia nell’età moderna, in “Società e storia”, 10, 1987, pp. 817-23. 50 A. GARDI, La fiscalità pontificia tra medioevo ed età moderna, in “Società e storia”, 9, 1986, pp. 509-57; W. REINHARD, Finanza pontificia e Stato della Chiesa nel XVI e XVII secolo, in Finanze e ragion di Stato, pp. 353-87; ID., Finanza pontificia, sistema beneficiale e finanza statale nell’età confessionale, in Fisco religione Stato, pp. 459-504; P. PARTNER, The Papacy and the Papal states, in The rise of the fiscal state in Europe, c. 1200-1815, ed. by R. Bonney, Oxford 1999, pp. 359-80. 51 F. PIOLA CASELLI, L’espansione delle fonti finanziarie della Chiesa nel XIV secolo, in “Archivio della Società romana di storia patria”, 110, 1987, pp. 63-97. Cfr. anche L. PALERMO, La 48 49 48 nizzazione dello Stato anche i tributi temporali iniziano ad assumere una certa rilevanza, sebbene sarà solo a seguito della crisi della Riforma – con la conseguente diminuzione dei cespiti spirituali – che la fiscalità propriamente statale fornirà quote sempre più consistenti al bilancio pontificio. Fra Quattro e Cinquecento avviene dunque un profondo mutamento nella struttura delle entrate papali: i territori italiani costituiscono la vera e propria base fiscale per il papato, mentre i flussi – un tempo cruciali – dalle diocesi rimaste sotto il controllo cattolico diminuiscono sensibilmente, pur assicurando una quota consistente di risorse almeno sino alla metà del Seicento52. Un ulteriore effetto del declino delle rendite spirituali può essere visto nel massiccio ricorso all’indebitamento che, a partire pressappoco dal secondo quarto del XVI secolo, caratterizza la politica finanziaria pontificia e che ha attirato un largo interesse fra gli studiosi53. Analogamente alla finanza di vertice, anche quella locale ha trovato vari ricercatori che, pur non potendo basarsi su una solida tradizione54, hanno recato importanti contributi alla conoscenza della finanza periferica55. L’interesse si finanza pontificia e il banchiere “depositario” nel primo Quattrocento, in Studi in onore di Ciro Manca, a cura di D. Strangio, Padova 2000, pp. 349-78. 52 P. PARTNER, Papal financial policy in the renaissance and counter-reformation, in “Past and present”, 88, 1980, pp. 17-62; E. STUMPO, Il capitale finanziario a Roma fra Cinque e Seicento. Contributo alla storia della fiscalità pontificia in età moderna, 1570-1660, Milano 1985. Sul declino delle entrate spirituali fra Sei e Settecento, Rosa, La “scarsella di Nostro Signore”, pp. 842-43; e H. GROSS, Roma nel Settecento, Roma-Bari 1990 (Cambridge 1990), pp. 148-50. 53 Mi limito a segnalare, oltre al già cit. lavoro di STUMPO, Il capitale finanziario, le ricerche di F. PIOLA CASELLI, Aspetti del debito pubblico nello Stato Pontificio: gli uffici vacabili, in “Annali della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Perugia”, 9, 1973, pp. 1-74; ID., La diffusione dei luoghi di monte della Camera apostolica alla fine del XVI secolo. Capitali investiti e rendimenti, in Credito e sviluppo economico in Italia dal Medio evo all’età contemporanea, Verona 1988, pp. 191-216; ID., Innovazione e finanza pubblica. Lo Stato pontificio nel Seicento, in Innovazione e sviluppo fra teoria economica e ricerca storica (secoli XVI-XX), Bologna 1996, pp. 449-63; ID., Debito pubblico pontificio e imposte sui consumi romani nel Seicento, in Studi in onore di Ciro Manca, pp. 379-95; F. COLZI, Il debito pubblico del Campidoglio. Finanza comunale e circolazione dei titoli a Roma fra Cinque e Seicento, Roma 1999; il saggio introduttivo di R. MASINI a Il bilancio pontificio del 1657, a cura di G.V. Parigino, Napoli 1999, pp. 5-27; M. MONACO, Le finanze pontificie al tempo di Paolo V, 1605-1621, Lecce 1974; nonché alcuni contributi editi in Ämterhandel im Spätmittelalter und im 16. Jahrhundert, hrsg. von I. Mieck, Berlin 1984. 54 Ma si veda il saggio di R. ROIA, L’amministrazione finanziaria del comune d’Ancona nel secolo XV, in “Atti e memorie della R. Deputazione di storia patria per le Marche”, ser. IV, 1, 1924, pp. 141-246. 55 Un sintetico quadro è proposto da M. CARBONI, Camere delle città e Camera apostolica: l’evoluzione dei rapporti finanziari fra centro e periferia nello Stato della Chiesa in età moderna, in “Studi storici Luigi Simeoni”, 50, 2000, pp. 9-22. Alcuni studi particolari: R. PACI, Politica ed economia in un comune del ducato di Urbino: Gubbio tra ’500 e ’600, Urbino 1966; C. ROTELLI, La finanza locale pontificia nel Cinquecento: il caso di Imola, in “Studi storici”, 9, 1968, pp. 109-44; 49 è indirizzato più sui rapporti finanziari nei confronti della capitale piuttosto che sulle dinamiche conflittuali circa la distribuzione dell’onere fra le diverse componenti della società locale. Non che mancassero questioni e problematiche simili a quelle che venivano discusse nelle aree settentrionali: anche in Romagna, ad esempio, i contadini dovevano fronteggiare sia la progressiva acquisizione di terre da parte di cittadini che il mancato aggiornamento della ripartizione degli oneri fiscali56. Tuttavia la pressione urbana non sembra aver condotto a reazioni – in termini politico-istituzionali – paragonabili agli sviluppi settentrionali. Mentre a nord del Po sorgevano e si affermavano i corpi territoriali, nelle aree al di sotto di tale linea le istanze rurali non trovavano un organo rappresentativo che si ponesse sullo stesso piano delle città. Non è certo questa la sede per analizzare i motivi di queste differenze, tuttavia è opportuno sottolineare che i risvolti sul settore tributario probabilmente non furono insignificanti. Allo stato attuale delle conoscenze, comunque, sembra ancora prematuro proporre un quadro generale delle relazioni fiscali tra centro e periferie; l’impressione è che lo Stato pontificio accolga un sistema piuttosto complesso di M. CARAVALE, La finanza pontificia del Cinquecento: le province del Lazio, Napoli 1974; R. CHIACCHELLA, Economia e amministrazione a Perugia nel Seicento, Reggio Calabria 1974; A.M. GIRELLI, Lo stato finanziario della comunità nelle carte della Congregazione del buon governo, in Assisi in età barocca, a cura di A. Grohmann, Assisi 1992, pp. 157-222; EAD., La finanza comunale nello Stato pontificio del Seicento. Il caso di Assisi, Padova 1992; M. CARBONI, Il debito della città. Credito, fisco e società a Bologna fra Cinque e Seicento, Bologna 1995; COLZI, Il debito pubblico del Campidoglio; ID., A proposito della fiscalità pontificia in età moderna. La gabella della carne di Roma tra XVI e XVII secolo, in Studi in onore di Ciro Manca, pp. 123-45; A.M. GIRELLI e S. MASI, In tema di finanza locale: un progetto di ricerca per la storia dello Stato pontificio. Il caso di Corneto, in “Annali del Dipartimento di studi geoeconomici, statistici, storici per l’analisi regionale”, 2000; P. BELLETTINI, Finanze e riforme. Ravenna nel secondo Settecento, Ravenna 1983; ID., Autonomia impositiva delle comunità e tributi camerali nello stato pontificio: il caso della legazione di Romagna nel Settecento, in Persistenze feudali e autonomie comunitative in stati padani tra Cinque e Settecento, a cura di G. Tocci, Bologna 1988, pp. 283-306; C. PENUTI, Finanza locale, pressione fiscale e società a Cesena nei secoli XVI e XVII, in Storia di Cesena, III, a cura di A. Prosperi, Rimini 1989, pp. 265-339; P. BELLETTINI, La lenta trasformazione: finanze e società a Cesena nel Settecento, ibid., pp. 341-99; M. CARBONI, La Gabella Grossa di Bologna. La formazione di una grande azienda fiscale, in “Il Carrobbio”, 16, 1990, pp. 114-22; ID., La Gabella Grossa di Bologna. Crisi di una grande azienda daziaria, ibid., 17, 1991, pp. 101-9; ID., La finanza locale nello Stato della Chiesa: il caso della Legazione bolognese fra Cinque e Seicento, Tesi di dottorato, Istituto universitario navale di Napoli; F. PIRO, Sistema fiscale, struttura e congiuntura in una economia preindustriale. Il caso di Bologna, 1564-1666, in “Annali dell’Istituto italo-germanico in Trento”, 2, 1976, pp. 117-81 (ma da leggere tenendo presente la tesi di Carboni); C.F. BLACK, Perugia and Papal absolutism in the sixteenth century, in “English historical review”, 141, 1981, pp. 509-39. 56 Per Cesena, PENUTI, Finanza locale, pp. 324-27; e per l’area romagnola, C. CASANOVA, Le mediazioni del privilegio. Economie e poteri nelle legazioni pontificie del Settecento, Bologna 1984, pp. 24-32 e passim. 50 istituzioni locali, economie e gruppi sociali collocati in un contesto di consuetudini e pratiche di governo tali da rendere estremamente arduo una sintesi efficace. Insomma, tra Bologna, seconda città dello Stato ed esempio di accentuata autonomia – anche finanziaria – rispetto alla capitale57, e le altre comunità, costrette a inviare ogni anno alla Congregazione del buon governo un bilancio previsionale, il giudizio sulla reale capacità di controllo e di intervento di Roma rimane ancora sospeso. Un ulteriore aspetto da rilevare riguarda il ruolo della capitale nel sistema finanziario pontificio. Una recente analisi ha mostrato che Roma, pur essendo esente dall’imposizione diretta, contribuisce in rilevante misura al bilancio statale; e quel che più interessa è che il gettito fiscale destinato ai pagamenti degli interessi del debito proviene in parte cospicua dai contribuenti romani58. Forse è un aspetto che marca una differenza – fra altre – tra la struttura di potere pontificia e quella degli Stati territoriali di matrice urbana. Anche la finanza del regno di Napoli può vantare un nutrito numero di ricerche, che si sono intensificate negli anni recenti. Dopo gli studi di Coniglio, De Rosa, Villani, Galasso, Di Vittorio e Villari, che hanno aperto nuovi filoni di ricerca, quelli successivi hanno consentito di chiarire e approfondire diversi aspetti della fiscalità del Mezzogiorno continentale. La finanza, così, è stata esaminata in funzione della costruzione dell’apparato statale e delle relazioni con il sistema imperiale asburgico59. Tali studi hanno contribuito a ridimensionare la tradizionale immagine della rapacità del fisco spagnolo: o meglio, hanno specificato i tempi e i modi dell’innegabile incremento della domanda fiscale lungo il Cinque e Seicento. Calabria, nella sua monografia sul Regno nel Cinque e primo Seicento, ha ribadito che la fiscalità spagnola assunse un peso negativo nella struttura economica e sociale del paese solo a partire dalla fine del XVI secolo e in misura ancora maggiore durante la guerra dei Trent’anni; la pressio- Il caso bolognese è stato particolarmente esaminato negli ultimi anni: cfr. i lavori, le cui divergenti impostazione e conclusioni emergono sin dal titolo, di A. GARDI, Lo Stato in provincia. L’amministrazione della Legazione di Bologna durante il regno di Sisto V (1585-1590), Bologna 1994; e di A. DE BENEDICTIS, Repubblica per contratto. Bologna: una città europea nello Stato della Chiesa, Bologna 1995. 58 PIOLA CASELLI, Debito pubblico pontificio e imposte, pp. 393-94. 59 G. MUTO, Le finanze pubbliche napoletane tra riforme e restaurazione (1520-1634), Napoli 1980; R. MANTELLI, Burocrazia e finanze pubbliche nel Regno di Napoli, Napoli 1981; e del medesimo, Il pubblico impiego nell’economia del Regno di Napoli: retribuzioni, reclutamento e ricambio sociale nell’epoca spagnuola (secc. XVI-XVII), Napoli 1986; A. CALABRIA, The cost of empire. The finances of the kingdom of Naples in the time of Spanish rule, Cambridge 1991. Assai lucido il quadro tracciato da G. GALASSO, Economia e finanze nel Mezzogiorno tra XVI e XVII secolo, in Finanze e ragion di Stato, pp. 45-88 (ripubblicato anche in ID., Alla periferia dell’impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo, Torino 1994). 57 51 ne si accentuò proprio quando i segni delle difficoltà economica stavano drammaticamente emergendo. In effetti, l’espansione delle entrate non riuscì a seguire la crescita dei prezzi lungo il Cinquecento, e solo dagli inizi del secolo successivo si aprì una ampia forbice tra entrate statali – in continua crescita – e prezzi cerealicoli, in frenata. Del resto, se si considera il volume di entrate raggiunto verso la fase finale del trentennale conflitto (circa 235 tonnellate d’argento contro un’ottantina nel primo Seicento e meno di settanta nel 1740-42) ricaviamo la netta immagine dell’enorme sforzo cui venne chiamato il Regno60. La traiettoria finanziaria sembra assecondare, curiosamente, anche la dinamica amministrativa e istituzionale: l’apparato statale di gestione e controllo della finanza nel Cinquecento, infatti, è stato considerato per certi versi più efficiente di coevi organismi di altri Stati e caratterizzato da un ceto di funzionari capaci e slegati dal rapporto personale con il sovrano61. Par di capire che il processo di degenerazione del sistema si avviò dal secondo decennio del XVII secolo, quando l’esplodere della crisi finanziaria e la disarticolazione sociale ed economica si riflessero anche sull’organizzazione statale. Entrando nel XVIII secolo si respira un’aria meno tesa, pur rimanendo seri problemi finanziari62. I tentativi di riforme non raggiunsero certo gli obiettivi prefissati, nondimeno vennero attuati miglioramenti importanti. Anzitutto la realizzazione del catasto conciario, sebbene possa essere considerato come la risultante di una lunga tradizione63, mise in discussione la pletora di privilegi ecclesiastici che caratterizzava il regime fiscale. Certo, le élites locali riuscirono a impedirne la piena realizzazione, tuttavia l’impresa rappresentò una svolta nella politica fiscale governativa. Inoltre, il governo fu in grado di ricomprare in parte le rendite alienate durante il periodo spagnolo; tale operazione aveva uno scopo finanziario evidente: rivendere a un prezzo più favorevole i diritti di esa- 60 I dati, che ho elaborato in termini di argento, sono tratti da GALASSO, Economia e finanza, p. 63; CALABRIA, The cost of empire, pp. 134-35; e I. ZILLI, Carlo di Borbone e la rinascita del regno di Napoli, Napoli 1990, p. 72. 61 MUTO, Le finanze pubbliche, pp. 125 sgg., che si rifà ovviamente al classico caso milanese esemplificato da Chabod. Un giudizio diverso, comunque, emerge da MANTELLI, Il pubblico impiego. 62 ZILLI, Carlo di Borbone; EAD., Imposta diretta e debito pubblico nel Regno di Napoli: 16691737. La Terra di Lavoro, Napoli 1990, pp. 41-94. Una rassegna sulla finanza napoletana dalla metà del Sei al Settecento si trova in L. DE ROSA, L’azienda e le finanze, in Spagna e Mezzogiorno d’Italia nell’età della transizione. Stato, finanza ed economia (1650-1760), a cura di L. De Rosa e L.M. Enciso Recio, Napoli 1997, pp. 127-48 (ripreso anche in ID., Immobility and change in public finance in the kingdom of Naples, 1694-1806, in “Journal of European economic history”, 27, 1998, pp. 9-28). Per alcuni problemi metodologici, A. CALABRIA, Per la storia della dominazione austriaca a Napoli, 1707-1734, in “Archivio storico italiano”, 139, 1981, pp. 459-77. 63 A. BULGARELLI LUKACS, L’imposta diretta nel Regno di Napoli in età moderna, Milano 1993, pp. 312-14. 52 zione appena riacquisiti64. Al di là del carattere speculativo, comunque, la ricompra attuata dal governo riaffermò la sovranità statale su un settore che aveva visto una grave crisi delle prerogative del governo. Attraversiamo lo stretto e passiamo in Sicilia. Recenti lavori hanno recato nuovi e importanti apporti, soprattutto per quanto riguarda il XVI secolo65. L’analisi dei bilanci ha permesso di delineare un sensibile aumento del gettito lungo il XVI secolo e una certa stabilità nel secondo Seicento: da 4-5 q. d’argento d’inizio Cinquecento si passa a 21-24 q. a fine secolo, per superare i 26 q. nel 1622 e fluttuare attorno ai 21 q. durante la seconda metà del Seicento. Uno degli elementi più importanti del bilancio siciliano è rappresentato dal gettito derivante dall’imposta sull’esportazione del grano, che giustamente è stata paragonata per importanza al ruolo svolto nelle finanze inglesi dalla tassazione sulla lana esportata66. In effetti, lungo il XVI secolo le entrate del Portulano risultano superiori al gettito del donativo, la principale imposta ‘diretta’ pagata dai contribuenti siciliani67. Ed è proprio sul donativo che s’incentra l’analisi di Rossella Cancila, che esamina sia le questioni fiscali che, soprattutto, il tessuto economico-sociale in cui cade l’imposta, tramite i riveli, censimenti che dovrebbero illustrare le facoltà nette dei soggetti sottoposti a contribuzione. Risulta così che il secondo Cinquecento vede una diminuzione della ricchezza reale imponibile pro capite68, proprio mentre cresce la domanda fiscale da parte del governo. Si consideri che fra 1505 e 1583 il donativo aumentò di oltre cinque volte, mentre il patrimonio imponibile pro capite si limitò a raddoppiare69. Anche per 64 Cfr. A. DI VITTORIO, Gli Austriaci ed il Regno di Napoli 1707-1734. Le finanze pubbliche, Napoli 1969, pp. 75-79; N. AJELLO, Il Banco di San Carlo: organi di governo ed opinione pubblica nel Regno di Napoli di fronte al problema della ricompra dei diritti fiscali, in “Rivista storica italiana”, 81, 1969, pp. 812-81. 65 Mi riferisco ad A. GIUFFRIDA, La finanza pubblica nella Sicilia del ’500, Caltanisetta-Roma 1999; e a R. CANCILA, Fisco ricchezza comunità nella Sicilia del Cinquecento, Roma 2001. Per il Seicento, D. LIGRESTI, I bilanci seicenteschi del Regno di Sicilia, in “Rivista storica italiana”, 99, 1997, pp. 894-937; G. MARRONE, L’economia siciliana e le finanze spagnole nel Seicento, Caltanisetta-Roma 1976; e L.A. RIBOT GARCIA, La Hacienda real de Sicilia en la segunda mitad del siglo XVII (Notas para un estudio de los balances del Archivo historico nacional de Madrid), in “Cuadernos de investigaciòn historica”, 2, 1978, pp. 401-42 (tr.. it. ridotta in La rivolta di Messina (1674-78) e il mondo mediterraneo nella seconda metà del Seicento, a cura di S. Di Bella, Cosenza 1979, pp. 123-60); ID., La Monarquìa de España y la guerra de Mesina (1674-1678), Madrid 2002, pp. 323-410. 66 S.R. EPSTEIN, Potere e mercati in Sicilia. Secoli XIII-XVI, Torino 1996 (Cambridge 1992), p. 86. 67 GIUFFRIDA, La finanza pubblica, p. 61. 68 CANCILA, Fisco ricchezza, pp. 104 sgg. 69 Traggo i dati finanziari da GIUFFRIDA, La finanza pubblica, p. 112, che tuttavia non esamina il prelievo in termini pro capite; e da CANCILA, Fisco ricchezza, p. 106, per la ricchezza stimata, con qualche modifica. 53 quanto riguarda la Sicilia si ricava l’impressione che in realtà il Cinquecento, nonostante l’espansione – pur contenuta – dell’indebitamento e l’aumento della pressione fiscale, non sia stato un secolo particolarmente gravoso per i contribuenti. I problemi tuttavia non mancavano: la pubblica amministrazione si rivelava piuttosto inefficiente e causa di forti ammanchi nei conti70; il ruolo del capitale straniero – soprattutto genovese – iniziava a emergere prepotentemente; e il ridimensionamento della funzione strategica dell’isola dopo Lepanto aveva provocato la diminuzione degli effetti benefici della spesa militare sul sistema economico; anzi, con lo spostamento dell’attenzione degli Asburgo verso il teatro settentrionale considerevoli flussi finanziari presero la via del continente, in direzione di Genova, Milano e le Fiandre71. Il secolo successivo presenta una importante serie di bilanci statali che però attende ancora di essere collocata nel più ampio quadro dell’economia e della società siciliana. Non mancano scorci a riguardo, ma mi sembra che la pur notevole messe di dati non sia stata adeguatamente sfruttata. Del resto anche la disponibilità di dati di base sulle strutture economiche non è particolarmente ampia, e questo probabilmente limita una maggior elaborazione dei dati finanziari. Chiudiamo questa veloce carrellata con la Sardegna. La produzione di studi specifici di storia fiscale appare piuttosto scarsa: la questione dei donativi risulta al centro dell’attenzione72, mentre poco o nulla è stato compiuto nel settore della finanza locale73. Le tematiche fiscali generali sono state ricollegate al più ampio contesto della politica finanziaria asburgica e al ruolo svolto dall’isola. La Sardegna si trova così a partecipare attivamente allo sforzo bellico imperiale contribuendo con uomini e risorse finanziarie. L’incremento della domanda fiscale fra il terzo e quarto decennio del Seicento non condusse a una effettiva redistribuzione del carico fiscale fra i diversi Corpi e, anzi, le città e i comuni rurali furono costretti a sopperire alla diminuzione dell’apporto tributario dei magnati e dei personaggi eminenti74. La situazione che si presenta a metà secolo non sembra molto diversa da quella riscontrabile negli altri regni: l’economia isolana “è sostanzialmente nelle mani dei titolari degli asientos, degli appaltatori della riscos- CANCILA, Fisco ricchezza, pp. 365-81; GIUFFRIDA, La finanza pubblica, pp. 440-501. M. AYMARD, Bilancio di una lunga crisi finanziaria, in “Rivista storica italiana”, 84, 1972, pp. 988-1021. 72 G. SERRI, I donativi sardi nel XVI secolo, in Problemi di storia della Sardegna spagnola, Cagliari 1975, pp. 181-230; ID., Il prelievo fiscale in una periferia povera. I donativi sardi in età spagnola, in “Annali della Facoltà di Magistero [di Cagliari]”, 1983, pp. 45-52. 73 L. CODA, Il ceto dirigente sardo e la leva fiscale nel Settecento, in I ceti dirigenti in Italia in età moderna e contemporanea, a cura di A. Tagliaferri, Udine 1984, pp. 397-411. 74 G. TORE, Il regno di Sardegna nell’età di Filippo IV. Centralismo monarchico, guerra e consenso sociale (1621-30), Milano 1996, pp. 115-24, 135-66. 70 71 54 sione dei tributi e delle rendite pubbliche, concessi in cambio di adeguate anticipazioni monetarie al fisco regio”75. La peste del 1652 colpirà una regione oramai “stanca e depressa”76. Le informazioni disponibili sulla finanza sarda tuttavia sono ancora troppo scarse per tentare di delineare la dinamica dei bilanci e le ripercussioni sul sistema economico e sul tessuto sociale77. Negli anni più recenti non si sono svolti ampi dibattiti su questioni di storia fiscale, a eccezione di un contenzioso – che ha raggiunto toni inusualmente aspri – circa la finanza locale nel Mezzogiorno continentale nella prima età moderna. La discussione ha preso avvio da un volume di Francesco Caracciolo che, tra l’altro, indicava nel passaggio dal sistema di finanziamento ad apprezzo a quello basato sulle gabelle un momento cruciale della fiscalità comunale fra Cinque e Seicento. La scelta di raccogliere denaro tramite l’imposizione sui consumi stava a significare – secondo l’Autore – che i gruppi dirigenti locali trasferivano sugli strati inferiori della popolazione il peso della tassazione e nello stesso tempo salvaguardavano la propria base imponibile, rappresentata dalla terra78. Alcuni interventi di Bulgarelli Lukacs e Mantelli, tuttavia, criticavano tale interpretazione e, anzi, proponevano un quadro assai diverso: le comunità del Regno avrebbero continuato nella gran parte a finanziarsi tramite l’imposizione sui beni immobili mentre il sistema per gabella era piuttosto limitato79. Le questioni sollevate dai due studiosi riguardavano problemi che andavano al di là del mero disaccordo con Caracciolo: si trattava di chiarire termini quali imposizione ‘diretta’ e ‘indiretta’; problemi circa le relazioni fra ambiente geo-economico e forme impositive; i rapporti fra centro e periferia; la rappresentatività dei dati per suffragare tesi generali. Per quanto riguarda la geografia dei sistemi di prelievo locale, Alessandra Bulgarelli ha offerto un ampio ed esauriente panorama per il primo Settecento, dimostrando come in genere la F. MANCONI, Castigo de Dios. La grande peste barocca nella Sardegna di Filippo IV, Roma 1994, p. 372. 76 A. MATTONE, Le istituzioni militari, in Storia dei sardi e della Sardegna, III, a cura di M. Guidetti, Milano 1989, p. 85. 77 Qualche indicazione su bilanci dell’isola nel primo decennio del Seicento fornita da B. ANATRA, Dall’unificazione aragonese ai Savoia, in J. DAY, B. ANATRA, L. SCARAFFIA, La Sardegna medioevale e moderna, in Storia d’Italia, X, Torino 1984, pp. 519-20, mostrerebbe una fase piuttosto positiva della finanza pubblica. Sulla situazione di fine Seicento, ibid., pp. 644-47. 78 F. CARACCIOLO, Sud, debiti e gabelle. Gravami, potere e società nel Mezzogiorno in età moderna, Napoli 1983. Tale interpretazione era già stata ribadita in almeno due interventi precedenti: ID., Fisco e contribuenti in Calabria nel secolo XVI, in “Nuova rivista storica”, 47, 1963, pp. 504-38; e ID., Finanze e gravami cittadini in Calabria e nel Regno di Napoli al tempo di Filippo II, ivi, 56, 1982, pp. 37-58. 79 Vedi il dibattito in “Nuova rivista storica”, 70, 1986, pp. 646-70. 75 55 prevalenza di una forma di prelievo piuttosto che l’altra dipenda dal tasso di commercializzazione dell’economia, dalla struttura dell’insediamento e dai metodi di sfruttamento della terra80, nonché, aggiungerei, dalla struttura della proprietà e dai rapporti interni di potere. È stato notato, però, che anche il quadro tracciato dalla Bulgarelli può non essere valido per altri periodi e che sarebbe necessario approfondire ulteriormente l’analisi le pratiche tributarie in ambito locale81. La scelta tra un finanziamento prevalentemente fondato sull’apprezzo che sulle gabelle, ad esempio, emerge già a fine Quattrocento in alcune comunità pugliesi82. Questo dibattito, proprio per i problemi generali di storia fiscale che sono stati affrontati meriterebbe di essere continuato e, possibilmente, riferito ad altri ambiti territoriali. Alcune evidenze, infatti, fanno ritenere che analoghi processi si svolgano in altri Stati. Il passaggio da un sistema di imposte immobiliari a una tassazione prevalentemente indiretta, infatti, non è certo un fenomeno circoscritto ai comuni del Regno napoletano. Maurice Aymard ha notato che le comunità siciliane – salvo quelle del nord-est – si basano sempre più sulle gabelle, e tale tendenza si accentuerà dal Seicento in conseguenza del sorgere di villaggi di nuova colonizzazione, dove si sceglierà il finanziamento per gabelle83. A Imola si verifica il medesimo fenomeno lungo il Cinquecento, con il sensibile passaggio dal prelievo indiretto a quello diretto84. I bilanci di Cremona fra Cinque e Seicento indicano che le entrate dalla fiscalità indiretta crescono di importanza rispetto agli introiti diretti85. Analoghe scelte vengono attuate dal BULGARELLI LUKACS, L’imposta diretta, pp. 146-209. G. SABATINI, Proprietà e proprietari a L’Aquila e nel contado. Le rilevazioni catastali in età spagnola, Napoli 1995, pp. 286 sgg. 82 M.A. VISCEGLIA, Territorio, feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età Moderna, Napoli 1988, p. 218. 83 M. AYMARD, Il sistema delle gabelle nelle città siciliane fra Cinquecento e Settecento, in Città e feudo nella Sicilia moderna, a cura di F. Benigno e C. Torrisi, Caltanisetta-Roma 1995, pp. 15-25. D. VENTURA, Randazzo e il suo territorio tra medioevo e prima età moderna, CaltanisettaRoma 1991, pp. 135-36, afferma che la tassazione indiretta prevaleva nel secondo Quattrocento a Randazzo, ma purtroppo non adduce prove a riguardo. 84 ROTELLI, La finanza locale, pp. 17-23, 32-38. 85 IACOPETTI, Le finanze del comune, pp. 101-3. Un’analisi delle vertenze circa la tassazione sul personale e sul reale nel comune di Maleo in C. STEFANINI, Fiscalità e tensione sociale in una comunità lombarda del ‘600: il caso di Maleo, in “Studi bresciani”, 4, 1983, pp. 7-31. Anche a Valladolid la tassazione sui consumi costituisce il cardine della finanza locale: F. RUIZ MARTÌN, Credit procedures for the collection of taxes in the cities of Castile during the sixteenth and seventeenth centuries: the case of Valladolid, in The Castilian crisis of the seventeenth century. New perspectives on the economic and social history of seventeenth-century Spain, ed. by I.A.A. Thompson and B. Yun Casalilla, Cambridge 1994, p. 178. E cfr. anche il quadro tracciato da A.J. MIRA JÒDAR, Las finanzas del municipio. Gestiòn economica y poder local. Sueca (S. XV-XVI), Valencia 1997. 80 81 56 municipio di Torino lungo il XVII secolo86. Il caso di Assisi nel secondo Seicento, poi, mostra interessanti aspetti. Qui il comune cittadino sembra optare per una decisa espansione dell’imposizione sui consumi, soprattutto a seguito dell’introduzione dell’onere sul macinato nel 1659; ma in seguito l’imposta sulla terra riguadagna le posizioni perse in precedenza e contribuisce per oltre la metà del gettito fiscale del comune nel primo Settecento87. Si tratta pertanto di mutamenti che si verificano nel giro di pochi anni e che non sempre assumono un carattere definitivo. La finanza locale, insomma, mostra in alcuni casi una notevole elasticità in relazione alla congiuntura economica e politica. Quid novi? Nell’ultimo ventennio la storia della fiscalità ha registrato una forte continuità e, di converso, alcuni mutamenti. Anzitutto si sono diradati, sebbene non siano scomparsi, gli studi che si occupavano di estimi e catasti. Occorre dire che l’Italia vanta una delle migliori storiografie a riguardo. Lo studio dello strumento fondamentale per la determinazione dell’imponibile immobiliare rappresentava una via imprescindibile per affrontare un nodo meramente politico e sociale: la distribuzione della proprietà fondiaria (il mezzo di produzione per antonomasia nell’antico regime) e l’evoluzione dei rapporti di classe verso un sistema capitalista88. Una preoccupazione, questa, fortemente sentita fra gli anni ’50 e ’60, e che si è progressivamente attenuata per vari motivi. Provo a proporne alcuni: lo smorzamento della spinta ideologica; il diffuso convincimento che i risultati conseguiti non potessero essere ulteriormente migliorati; la messa in discussione di concetti quali ‘proprietà’ e mercato della terra, feudalesimo e capitalismo; nonché l’emergere di nuovi oggetti di ricerca che tendono a sfumare le separazioni fra ordini e ceti. Occorre poi rilevare che la vasta ricerca avviata dalla scuola di Mario Romani sul catasto teresiano aveva come obiettivo – più o meno esplicito – il catasto come strumento emblematico dell’affermazione dello stato in Lombardia. Un approccio completamente diverso, invece, si registra negli ultimi anni, a partire dalla pubblicazione della grande ricerca di Klapisch-Zuber e Herlihy sul catasto fiorentino del 142789. Qui lo studio cata- C. ROSSO, Uomini e poteri nella Torino barocca (1630-1675), estr. da Storia di Torino, s.n.t., pp. 113-14. 87 GIRELLI, La finanza comunale, pp. 57-58. 88 Si veda ancora l’importante rassegna critica di R. ZANGHERI, Il catasto come fonte per la storia della proprietà terriera, in ID., Catasti e storia della proprietà terriera, Torino 1980, pp. 3-70. 89 D. HERLIHY e CH. KLAPISCH-ZUBER, Les Toscans et leur familles. Une étude du catasto florentin de 1427, Paris 1978 (tr. it., Bologna 1988). 86 57 stale ha oltrepassato i confini dell’analisi della struttura economica e sociale per divenire soprattutto un lavoro di storia sociale. Se l’interesse verso i documenti catastali sembra diminuito non significa tuttavia che sia stato completamente abbandonato. Mi sembra, piuttosto, che i recenti lavori pongano questo tipo di documento in un più ampio contesto, affrontando sia gli aspetti economicosociali sia quelli più specificamente fiscali90. Catasti e liste fiscali attendono però ancora una adeguata analisi interna, per quanto concerne cioè l’origine e le nozioni sociali e ideologiche che stanno alla base di tale produzione. La classificazione fiscale rappresenta l’immagine della società che i governanti hanno o vogliono proporre; nello stesso tempo, i mutamenti che la documentazione registra nel corso del tempo testimoniano dei cambiamenti a livello di proiezione sociale e gerarchica, nonché delle diverse ottiche assunte dalla pubblica amministrazione91. Per ciò che concerne l’analisi della finanza pubblica, mi sembra che grosso modo i recenti studi non si siano discostati dal percorso tracciato in precedenza. Le monografie si presentano strutturate secondo l’impianto classico: organizzazione istituzionale, entrate, spese, debito. L’endiadi Stato e finanza pubblica continua a rappresentare il punto focale delle ricerche. Si tratta di un argomento che, per quanto concerne gli storici economici, ha mantenuto quasi inalterato l’interesse, mentre, paradossalmente, gli storici politico-istituzionali, salvo qualche caso, hanno bensì toccato l’argomento, ma non si sono addentrati in profondità. In effetti, La crisi dello Stato weberiano aveva condotto al ridimensionamento della funzione finanziaria dello Stato come oggetto privilegiato d’indagine. È interessante comunque rilevare che in Inghilterra, proprio in un ambiente dove Weber non aveva trovato grande accoglienza fra gli studiosi dello Stato, di recente è emersa una tendenza a sottolineare con vigore il ruolo e l’efficienza dello Stato centrale individuando nella burocrazia e nel prodotto fiscale i pilastri che sostennero la forza militare e, in definitiva, l’espansione britannica nel mondo92. Se volgiamo lo sguardo altrove il nesso finanza-Stato sta Cfr. ad esempio, SABATINI, Proprietà e proprietari. Cfr. ad esempio, A. GUÉRY, Etat, classification sociale et compromis sous Louis XIV: la capitation de 1695, in “Annales ESC”, 41, 1986, pp. 1041-60; e P. BURKE, Classificando il popolo: il censimento come rappresentazione collettiva, in ID., Scene di vita quotidiana nell’Italia moderna, Roma-Bari 1988 (Cambridge 1987), pp. 35-50. 92 J. BREWER, The sinews of power. War, money and the English state 1688-1783, New York 1989, che rappresenta un imprescindibile punto di partenza. Per recenti sviluppi mi limito a citare P.K. O’BRIEN, The political economy of British taxation, 1660-1815, in “Economic history review”, 41, 1988, pp. 1-32; ID., Fiscal exceptionalism: Great Britain and its European rivals. From civil war to triumph at Trafalgar and Waterloo, Working Paper, Economic History Department, London School of Economics; ID. e P.A. HUNT, The rise of the fiscal state in England, 1485-1815, in “Historical research”, 66, 1993, pp. 129-76; IDD., Excises and the rise of a fiscal state in England, 1586-1688, in 90 91 58 godendo di un rinnovato interesse, soprattutto nell’ambito della sociologia dello Stato. Alcuni studiosi hanno preso a prestito pesantemente dalla storia finanziaria93. Dati finanziari, vagliati più o meno criticamente, hanno offerto la base per considerazioni sull’evoluzione degli stati dell’età moderna e per attuare interessanti comparazioni (prodotto fiscale, incremento del gettito nel tempo…). In Italia la vivace discussione negli anni ’70 e primi ’80 sugli Stati regionali non aveva condotto – a mio vedere – a significativi risultati per quanto riguarda la fiscalità. Certo, la questione fiscale offriva abbondante materiale per analizzare la conflittualità fra i corpi, ma quasi mai veniva affrontata nella sua interezza. Insomma, essa costituiva un ricco cesto da cui gli studiosi politici traevano esempi per illustrare le relazioni interne agli Stati territoriali fra tardo medioevo e prima età moderna, ma non riusciva ad assurgere a campo specifico d’indagine. Paradossalmente, erano cultori della storia economica che offrivano importanti opere sulla formazione dello Stato in età moderna focalizzandosi proprio su questioni fiscali94. Recentemente, ad ogni modo, vi sono segnali di risveglio anche per quanto concerne la ricerca in Italia. Mi sembra significativo che un volume che si proponeva di presentare un’ampia sintesi del dibattito sullo Stato territoriale in Italia fra tardo medioevo e prima età moderna presenti una sezione dedicata specificamente alle politiche finanziarie, e inoltre si dedichino alcune pagine alla finanza anche a livello manualistico95. Quanto alla metodologia, si è continuato sulla linea tracciata negli anni precedenti; linea beninteso chiara e marcata, che tuttavia per certi versi ha instradato la ricerca secondo modelli ben definiti e tradizionali. Nondimeno Crises, revolutions and self-sustained growth. Essays in European fiscal history, ed. by M. Ormrod, M. and R. Bonney, Stamford 1999, pp. 198-223; IDD., England, 1485-1815, in The rise of the fiscal, pp. 53-100. Recentemente J.S. WHEELER, The making of a world power. War and military revolution in seventeenth-century England, Phoenix Mill 1999, ha anticipato a metà Seicento alcuni elementi relativi all’efficienza dell’apparato politico-militare inglese. Per un quadro d’assieme del sistema fiscale inglese, M.J. BRADDICK, The nerves of state. Taxation and the financing of the English state, 15581714, Manchester 1996. 93 S. CLARK, State and status. The rise of the State and aristocratic power in Western Europe, Montreal 1995; T. ERTMAN, Birth of the leviathan. Building states and regimes in medieval and early modern Europe, Cambridge 1997; M. MANN, State, war and capitalism. Studies in political sociology, Oxford 1988; R. LACHMANN, Capitalists in spite of themselves. Elites conflict and economic transitions in early modern Europe, Oxford 2000. Si veda anche il modello proposto da C. TILLY, Coercion, capital, and European states, 990-1990, Cambridge (Mass.)-Oxford 1990 (tr. it., Firenze 1993). 94 Si pensi, ad esempio, al volume di VIGO, Fisco e società. 95 Origini dello Stato, pp. 225-330; C. CASANOVA, L’Italia moderna. Temi e orientamenti storiografici, Roma 2001, pp. 195-210; un rapido cenno in M. VERGA, Le istituzioni politiche, in Storia degli antichi stati italiani, a cura di G. Greco e M. Rosa, Roma-Bari 1996, pp. 32-35. Ma si veda anche G. ASTUTI, La formazione dello Stato moderno in Italia. Lezioni di storia del diritto italiano, Torino 1967, pp. 102-10, 280-88. 59 pare di poter cogliere qualche novità, o meglio, qualche ampliamento del campo d’indagine. Mi sembra che un aspetto rilevante emerso in questi ultimi anni sia l’interesse verso le comunità locali, la cosiddetta periferia. Gli anni ’80 in effetti hanno visto una forte spinta verso l’analisi delle realtà locali96. I motivi di tale tendenza sono diversi: mi limito a citare il successo della cosiddetta “history from below”; il crescente interesse verso realtà che stanno scomparendo (cultura contadina, tradizioni popolari…) di fronte al processo di modernizzazione della società industriale e post-industriale; la propensione da parte di giovani a svolgere ricerche sul campo sfruttando in particolare la documentazione parrocchiale e comunale; e – last but not least – la disponibilità delle amministrazioni locali a finanziare ricerche di carattere storico. Non mi pare invece che i lavori che potremmo collocare sotto l’etichetta della “microstoria” abbiano dato significativi impulsi agli studi fiscali, anzi: è piuttosto arduo trovare nelle opere più note del filone microstorico più di qualche fuggevole cenno a questioni fisco-finanziarie97. Ed è una carenza che risulta piuttosto strana. Se è comprensibile laddove si enfatizzi la coppia stato-fisco, essa non è giustificata allorché si voglia privilegiare il nesso fisco-società (locale). I meccanismi di riscossione e il controllo della finanza comunale rappresentano in realtà settori privilegiati per individuare la gestione del potere da parte delle élites locali. La fiscalità crea risorse non solo finanziarie ma anche politiche e clientelari che non possono essere affatto sottovalutate. Non solo il fisco risulta assai importante per comprendere le strategie di potere all’interno della comunità, ma rappresenta la cartina di tornasole dei rapporti fra governo centrale e realtà locali. Che si tratti di un campo di ricerca privilegiato è dimostrato da un recente volume che raccoglie vari saggi dedicati alle relazioni fra comunità e poteri centrali negli stati italiani in età moderna98. Quasi ad ogni pagina ci si imbatte in problemi relativi alla determinazione Cfr. il numero di “Annali veneti”, 1, 1984, a cura di C. Povolo e S. Zamperetti, dedicato a “Comunità del passato”; G. TOCCI, Le comunità in età moderna. Problemi storiografici e prospettive di ricerca, Roma 1997, pp. 15 sgg.; E. GRENDI, Storia di una storia locale. L’esperienza ligure 1792-1992, Venezia 1996, pp. 167 sgg., con osservazioni interessanti anche per altre aree. 97 Cfr. E. GRENDI, Il Cervo e la repubblica. Il modello ligure di antico regime, Torino 1993, pp. 4-6, 8-10; O. RAGGIO, Faide e parentele. Lo stato genovese visto dalla Fontanabuona, Torino 1990, pp. 6, 34 (con una azzardata analogia con Venezia), 45 sgg.. 98 Comunità e poteri centrali negli antichi Stati italiani. Alle origini dei controlli amministrativi, a cura di L. Mannori, Napoli 1997; lo stesso Mannori ha analizzato il caso toscano nel suo Il sovrano tutore. Pluralismo istituzionale e accentramento amministrativo nel principato dei Medici (secc. XVI-XVIII), Milano 1994. Con un’impostazione diversa, invece, il volume curato da G. TOCCI, Le comunità negli Stati italiani d’antico regime, Bologna 1989. Si veda anche, per il tema specifico qui trattato, L. CODA, Il problema fiscale degli Stati italiani al tramonto dell’ancien régime, in “Economia e storia”, 2a ser, 2, 1981, pp. 333-64. 96 60 del carico tributario, al controllo dell’amministrazione finanziaria, alla conflittualità fra centro e periferie e così via. Passando ai lavori veri e propri di storia fiscale, la dimensione locale affiora molto più che in precedenza. Il recente volume di Cancila, ad esempio, prende in considerazione sia la finanza di vertice che quella locale; e analoghi approcci erano stati assunti in monografie sul regno di Napoli e sulla Repubblica di Venezia99. Rimanendo nell’ambito centro-periferie mi sembra che non sia ancora del tutto scomparsa un’ottica che, più o meno esplicitamente, pone in marcata contrapposizione le due realtà. Lo storico della finanza, insomma, tende a riproporre ciò che le fonti fanno emergere con vigore: la vivace conflittualità fra un governo centrale che tenta di imporre una politica di controllo fiscale e le comunità che si sforzano di resistere e di salvaguardare i propri spazi di autonomia. Si tratta di una vicenda direi classica, che rispecchia – mi sembra – una determinata concezione dello stato (accentratore, razionale, addirittura ‘moderno’) la cui funzione viene ostacolata dalla periferia (arretrata, tradizionalista, riottosa alla modernità). Ora, credo sarebbe quanto mai opportuno tentare di rivedere i termini del problema alla luce di recenti interpretazioni che altrove, proprio dalle problematiche fisco-finanziarie, sono emerse. La ricerca di Beik sulla Linguadoca, per esempio, ha posto in luce le connivenze e i rilevanti interessi che le élites provinciali vantavano nell’ambito della struttura fisco-finanziaria statale a livello locale100. Intendo dire che se alla categoria contrapposizione sostituiamo il concetto di partecipazione allora certe apparenti contraddizioni potrebbero sfumare. D’altro canto, un’analoga impostazione sta emergendo sempre più chiaramente nei recenti studi sullo Stato territoriale in Italia101. La medesima proposta potrebbe applicarsi al plurisecolare conflitto fra contribuenti laici ed ecclesiastici. La documentazione nasconde, dietro le aspre vertenze che vedono da una parte i rappresentanti dei corpi laici, spesso spalleggiati dalle autorità centrali, decisi a coinvolgere in ogni modo i beni della Chiesa nella tassazione statale, e dall’altra il corpo ecclesiastico occupato a impedirlo, una consonanza di interessi che lega strettamente le élites di potere. La mar- CANCILA, Fisco ricchezza comunità; BULGARELLI LUCAKS, L’imposta diretta; G. SABATINI, Il controllo fiscale sul territorio nel Mezzogiorno spagnolo e il caso delle province abruzzesi, Napoli 1997; PEZZOLO, L’oro dello Stato. 100 W.H. BEIK, Absolutism and society in seventeenth-century France. State power and provincial aristocracy in Languedoc, Cambridge 1985. Per la Castiglia, qualche indicazione generale si trova in F. RUIZ MARTÌN, La hacienda y los grupos de presiòn en el siglo XVII, in Estado, hacienda y sociedad en la historia de España, Valladolid 1989, pp. 97-122. 101 Cfr. E. FASANO GUARINI, Centro e periferia, accentramento e particolarismi: dicotomia o sostanza degli Stati in età moderna?, in Origini dello Stato, pp. 147-76. Per un caso specifico, CARBONE, Economia e fiscalità ad Arezzo. 99 61 cata differenza fra laico ed ecclesiastico, così, sfuma nel momento in cui si analizza un gruppo dirigente nel suo complesso, costituito sia da laici che da prelati102. Come già si è accennato in precedenza, il sistema fisco-finanziario mette a disposizione una straordinaria quantità di risorse, sia materiali che immateriali. “Il sistema tributario ideato dagli Spagnoli nel Mezzogiorno – è stato osservato – fu anche una colossale struttura di occupazione e di redistribuzione delle risorse: dal vertice alla base del sistema, ceti, gruppi, interessi economici diversi parteciparono alla gestione dell’apparato”103. Questo giudizio può essere applicato a qualsiasi altro Stato territoriale, fatte le necessarie distinzioni. Il sistema degli appalti della riscossione tributaria moltiplica il tasso di coinvolgimento di soggetti più o meno eminenti nella gestione del denaro ‘pubblico’. L’alienazione di diritti di riscossione (specie nel Mezzogiorno, in Lombardia e nel Piemonte, ma anche nel Veneto) senza dubbio rafforza il potere di personaggi locali, siano essi feudatari, grandi proprietari fondiari, o borghesi, che lo acquisiscono104; il percettore si pone al centro di una rete costituita da clientele e relazioni informali che gli conferiscono ulteriore potere. In secondo luogo, si pensi alla libertà di manovra della finanza locale da parte dei gruppi di potere locali; libertà che di fatto viene mantenuta dal governo centrale in cambio di un crescente flusso di denaro verso il centro sotto forma di imposte e/o di finan- 102 Cfr. R. BIZZOCCHI, Politica fiscale e immunità ecclesiastica nella Toscana medicea fra Repubblica e Granducato (secoli XV-XVIII), in Fisco religione Stato, pp. 355-85; nonché E. BRAMBILLA, Per una storia materiale delle istituzioni ecclesiastiche, in “Società e storia”, 7, 1984, pp. 395-450. Tende a ridimensionare il ruolo privilegiato del clero E. STUMPO, Un mito da sfatare? Immunità ed esenzioni fiscali della proprietà ecclesiastica negli stati italiani fra ’500 e ’600, in Studi in onore di Gino Barbieri, III, Pisa 1983, pp. 1419-66. 103 A. MUSI, Mezzogiorno spagnolo. La via napoletana allo Stato moderno, Napoli 1991, p. 21. 104 Per il Napoletano, T. ASTARITA, The continuity of feudal power. The Caracciolo di Brienza in Spanish Naples, Cambridge 1992, p. 222; V. FERRANDINO, Una comunità molisana in età moderna. Economia, finanza e società ad Agnone, Napoli 1994, pp. 59, 71, 87; V. DEL VASTO, Baroni nel tempo. I Tocco di Montemiletto dal XVI al XVIII secolo, Napoli 1995, p. 90. Per lo Stato di Milano, G. DE LUCA, L’alienazione delle entrate dello Stato di Milano durante l’età spagnola: debito pubblico, sistema fiscale ed economia reale, in ‘Le forze del principe’; i dazi nuovi sulla vendita del vino e del pane ad Angera vengono acquistati nel 1652 dai Borromeo, feudatari del luogo (L. BESOZZI, Il mercato, le fiere, le esenzioni, i dazi e le tasse. 1497-1796, in La città di Angera feudo dei Borromeo, sec. XV-XVIII, Gavirate (Va) 1995, pp. 216-17); analogo comportamento per i Monti nella Valsassina (A. DATTERO, La famiglia Manzoni e la Valsassina. Politica, economia e società nello Stato di Milano durante l’Antico Regime, Milano 1997, p. 39). Casi di acquisizioni di diritti di riscossione tributaria da parte di feudatari piemontesi sono riportati da S.J. WOOLF, Studi sulla nobiltà piemontese nell’epoca dell’assolutismo, Torino 1963, pp. 51, 102-3. Sull’alienazione di entrate fiscali nella Repubblica di Venezia nel Cinquecento, DEL TORRE, Venezia e la terraferma, pp. 43-46, 54-57; PEZZOLO, L’oro dello Stato, pp. 187-89. 62 ziamento del debito statale105. Ne risulta che, paradossalmente, i governi a forte tendenza accentratrice (come a Firenze tra fine Trecento e primo Quattrocento) dimostrerebbero una minor capacità di prelievo tributario rispetto a governi che lasciano ampi spazi di manovra alle élites locali (come Venezia sino agli inizi del Cinquecento secolo). Il diverso tasso di ‘libertà’ che caratterizza i rapporti fra centri e periferie negli Stati territoriali della prima età moderna si riflette – e non poteva essere altrimenti – soprattutto nel campo fiscale in termini di capacità di prelievo e di tensione politico-sociale. A tal proposito, non si può non far riferimento al modello proposto da Hoffman e Norberg: gli stati ‘assolutisti’ (Francia, Spagna) lamentano una minor efficienza fiscale (in termini di riscossione centrale pro capite) rispetto agli stati con un minor tasso di assolutismo e con forti istituzioni rappresentative (Inghilterra e Olanda)106. La tesi di Hoffman e Norberg apre un ampio spazio per quanto riguarda la ricerca in Italia dove, pur non essendoci importanti organismi rappresentativi, la differente dialettica far élites di governo e gruppi di potere locali determina la risultante delle risorse finanziarie a disposizione dei governi. I due studiosi statunitensi, inoltre, pongono l’accento su almeno tre questioni, che risultano basilari per la storia fiscale: la determinazione del carico fiscale, le relazioni fra sistema fisco-finanziario e istituzioni, nel senso più ampio del termine, e l’analisi comparativa. La valutazione del peso tributario ovviamente non è di facile soluzione, anzi, si potrebbe affermare che è un problema destinato a non essere risolto. Tuttavia credo sia necessario allo storico affrontare la questione. Naturalmente il limite è costituito dalle fonti. Partendo dalla documentazione di vertice (bilanci statali) possiamo stimare il contributo pro capite giunto alla tesoreria centrale, ma così ci sfugge la somma effettivamente sborsata dal contribuente, che in misura più o meno consistente si disperde lungo il percorso che dal singolo soggetto porta alla cassa centrale; inoltre non si riescono a determinare quegli oneri extra-bilancio che, in particolare nelle campagne, sono dovuti per il mantenimento delle truppe (alloggi, materiali, vitto), la manutenzione del territorio (argini, strade), la costruzione di fortificazioni (manodopera, materiali, carreggi) e la fornitura soldati ausiliari e guastatori107. Una via per risolvere il Esemplare il caso di Bologna, analizzato da CARBONI, Il debito della città. Fiscal crises, liberty, and representative government, 1450-1789, ed. by P.T. Hoffman and K. Norberg, Stanford 1994, particolarmente p. 306. Ma si vedano anche le osservazioni critiche di R. BONNEY, What’s new about the new French fiscal history?, in “Journal of modern history”, 70, 1998, specie pp. 657-58. 107 Su tali obblighi, M.N. COVINI, “Alle spese di Zoan Villano”: gli alloggiamenti militari nel dominio visconteo-sforzesco, in “Nuova rivista storica”, 76, 1992, pp. 1-56; M. RIZZO, Militari e civili nello Stato di Milano durante la seconda metà del Cinquecento. In tema di alloggiamenti militari, in “Clio”, 23, 1987, pp. 563-96; M. MALLETT e J.R. HALE, The military organization of a 105 106 63 problema consiste nell’analisi della documentazione finanziaria comunale: attraverso questo tipo di fonte si determina con una certa efficacia la quota pagata a vario titolo dai contribuenti della comunità; inoltre si riesce a distinguere, generalmente, il prelievo attuato a nome del fisco statale e quello operato dalle istituzioni locali. Ovviamente il limite sta nel fatto che non si coglie tutta la parte concernente la tassazione indiretta. Una volta determinata la somma corrisposta, ad ogni modo, occorre porla in relazione con altri parametri, altrimenti si rischia di dare ben poco significato alle cifre. Credo che sia necessario avere a disposizione dati relativi all’economia reale: popolazione, prezzi e salari, anzitutto, mentre ritengo altresì importante stimare un livello medio di consumo pro capite. Un ulteriore passo consiste nel tentare di determinare il carico fiscale in relazione alla struttura economico-sociale, alle diverse componenti che pagano le imposte e alla congiuntura economica108. Un discorso a parte merita la questione della valutazione del reddito nazionale. Recentemente l’argomento è stato affrontato con una certa dose di decisione per alcuni paesi, oltre che per l’Italia centro-settentrionale109. Sebbene i renaissance state. Venice c. 1400 to 1617, Cambridge 1984, pp. 131 sgg.; C. DE FREDE, Gli alloggiamenti di truppe nel Mezzogiorno d’Italia durante il Cinquecento, in “Studi storici meridionali”, 2, 1982, pp. 15-24; qualche elemento anche in PENUTI, Finanza locale, pp. 287-88, 291; KNAPTON, L’organizzazione fiscale di base, pp. 398-405; L. PEZZOLO, Milizie e contadini nelle campagne vicentine (Lisiera nel ’500 e ’600), in Lisiera, I, pp. 427-34. Si può confrontare il caso francese illustrato da J.A. LYNN, How war fed war: the tax of violence and contributions during the Grand Siècle, in “Journal of modern history”, 65, 1993, pp. 286-310. 108 Utili spunti in VIGO, Finanza pubblica. Purtroppo non ha trovato molto seguito la ricerca di M. CATTINI, Congiuntura economica e pressione fiscale in una comunità del basso modenese (Finale 1560-1660). Verifica di un modello interpretativo, in Prodotto lordo e finanza pubblica. Secoli XIII-XIX, a cura di A. Guarducci, Firenze 1988, pp. 169-214. DI CATTINI, si veda anche la sua monografia su I contadini di San Felice. Metamorfosi di un mondo rurale nell’Emilia dell’età moderna, Torino 1984, pp. 143-45, 156-59, 198 sgg. Un tentativo con interessanti considerazioni metodologiche è quello di L.M. BILBAO, Ensayo de recontrucciòn històrica de la presiòn fiscal en Castilla durante el siglo XVI, in Hacienda forales y hacienda real. Homenaje a D. Miguel Artola y D. Felipe Ruiz Martìn, cur. E.F. de Pinedo, Bilbao, s.d., pp. 37-61. 109 Oltre al pionieristico saggio di P. MATHIAS e P.K. O’BRIEN, Taxation in Britain and France, 1715-1810. A comparison of the social and economic Incidence of taxes collected for the central governments, in “Journal of European economic history”, 5, 1976, pp. 601-50; O’BRIEN e HUNT, The rise of the fiscal state; J.C. RILEY, The Seven Years War and the old regime France. The economic and financial toll, Princeton 1986; le osservazioni metodologiche di M. MORINEAU, Produit brut et finances publiques: analyse factorielle et analyse sectorielle de leurs relations, ora in ID., Pour une histoire économique vraie, Lille 1985, pp. 327-47; J. DE VRIES, A. VAN DER WOUDE, The first modern economy. Success, failure, and perseverance of the Dutch economy, 1500-1815, Cambridge 1997, pp. 701 sgg.; J.L. VAN ZANDEN, Taking the measure of the early modern economy: historical national accounts for Holland in 1510/14, in “European review of economic history”, 6, 2002, pp. 131-63; S. PAMUK, The evolution of fiscal institutions in the Ottoman empire, paper pre- 64 dati possano essere estremamente discutibili, ritengo che possano essere accettati come indicatori di una tendenza. È stato stimato, ad esempio, che le entrate fiscali centrali turche aumentarono rispetto al PIL di 3-4 volte tra gli del inizi Cinquecento e i primi del ’900; mentre l’Inghilterra presenta un incremento assai più significativo (tra il 2 e 4% nel Cinquecento contro il 14-18% nel 1800). Non si tratta in effetti di dati sorprendenti, nondimeno costituiscono già un primo passo verso confronti e analisi più approfonditi in chiave comparativa. Ricordo che già Prato ed Einaudi compirono interessanti tentativi per stimare il PIL piemontese; tentativi che purtroppo non hanno trovato ampio seguito nella storiografia italiana più recente – ad eccezione di Malanima – e che forse varrebbe la pena di riprendere in considerazione. Quanto alla relazione fra fisco e istituzioni, le sollecitazioni della storia economica neo-istituzionale non hanno ricevuto una vasta accoglienza nella modernistica italiana110; i lavori che assumono esplicitamente tale approccio sono piuttosto rari111, e lo sono ancor meno nel settore fiscale. Eppure, uno dei saggi più citati nella letteratura internazionale riguarda proprio le istituzioni finanziarie in antico regime e la loro influenza sullo sviluppo economico112. Il problema concerne l’influenza che la struttura politico-istituzionale esercita sulla sfera economica, in quale misura essa sviluppi incentivi verso la crescita e la maggior efficienza del sistema (integrazione dei mercati, equilibrata distribuzione del carico fiscale, efficienza dell’azione tributaria…). Interessanti spunti a riguardo sono stati offerti da Margaret Levi, che ha delineato una teoria dello sviluppo dei sistemi fiscali in base all’assunto che i governanti tendono a massimizzare le entrate fiscali, ma devono confrontarsi con vincoli dettati dalla necessità di negoziare l’onere con le élites politiche; dai costi di transazione (costi di determinazione dell’imponibile, di consentato al convegno “The formation and efficiency of fiscal states in Europe and Asia, 15001914”, Madrid, 21-23 giugno 2001; P. MALANIMA, La fine del primato. Crisi e riconversione nell’Italia del Seicento, Milano 1998; ID., L’economia italiana. Dalla crescita medievale alla crescita contemporanea, Bologna 2002. 110 Naturalmente il classico riferimento è a D.C. NORTH, Structure and change in economic history, New York-London 1981; e ID., Institutions, institutional change and economic performance, Cambridge 1990 (tr. it., Bologna 1994). Cfr. anche Potere, mercati, gerarchie, a cura di M. Magatti, Bologna 1995. Per le questioni prettamente finanziarie, E. AMES e R.T. RAPP, The birth and death of taxes: a hypothesis, in “Journal of economic history”, 37, 1977, pp. 161-78. 111 Spicca, comunque, per quanto riguarda l’età moderna, il libro di R. AGO, Economia barocca. Mercato e istituzioni nella Roma del Seicento, Roma 1998. 112 D.C. NORTH, B.R. WEINGAST, Constitutions and commitment: the evolution of institutions governing public choice in seventeenth-century England, in “Journal of economic history”, 49, 1989, pp. 803-32. Le tesi dei due autori sono state sottoposte a varie critiche (cfr. ad esempio G. CLARK, The political foundations of modern economic growth: England 1540-1800, in “Journal of interdisciplinary history”, 26, 1996, pp. 563-88), ma l’impostazione teorica rimane, a mio vedere, ancora valida. 65 trattazione e di esecuzione); e dalle aspettative future, che la studiosa americana definisce come fattori di sconto. Questi fattori sono collocati in un ambiente in cui gli attori, in particolare quelli che detengono le leve del comando, agiscono razionalmente per la realizzazione dei propri interessi113. Il quadro comparativo di lungo periodo che così Levi propone permette di verificare le ipotesi di partenza e di valutare le performances dei vari sistemi fisco-finanziari privilegiando l’approccio istituzionalista. Le istituzioni come angolo privilegiato per analizzare i sistemi economici sono considerate anche da Stephan Epstein, che ha recentemente confrontato alcuni Stati territoriali italiani fra il tardo medioevo e la prima età moderna114. Se tassazione e struttura politica sono in stretta connessione, i risultati di questo legame dipendono dalla qualità delle relazioni fra governo e istituzioni locali (città, feudatari, contadi…). Pur presentando una struttura delle entrate simile, lo Stato di Milano e la Sicilia rinascimentali provano come la tradizione tributaria e i rapporti politici e clientelari all’interno dello Stato conducono a differenti esiti. Gli Aragonesi furono costretti a trattare con le città – in concorrenza fra loro – e a cercare consenso alla loro politica fiscale; gli Sforza, dal canto loro, si trovarono ad agire in un quadro da lungo tempo assestato, provocando risentimenti e resistenze da parte dei corpi locali contro l’introduzione di nuove tasse. Vediamo ora alcune questioni concernenti la comparazione. Ritengo che un’analisi comparativa dei sistemi fisco-finanziari in Italia sia oramai urgente. Già nell’oramai lontano 1965 una delle sessioni del III congresso di storia economica a Monaco si chiudeva con una mozione che auspicava “que dans les prochaines années une étude comparative sur les finances des Etats italiens, depuis le XVIe jusqu’au XVIIIe siècle, soit faite”115. Poco dopo appariva il libro di Basini, che affrontava per la prima volta la finanza pubblica degli stati italiani in età moderna in un’ottica generale116. Basini si basava su lavori editi che, in 113 M. LEVI, Of rule and revenue, Berkeley 1988 (tr. it., Milano 1997). Cfr. Anche alcune osservazioni di A. GREIF, Théorie des jeux et analyse historique des institutions. Les institutions économiques du Moyen Age, in “Annales HSS”, 53, 1998, pp. 598-600, 607. Una applicazione del modello della Levi è stata proposta da C.H. LYTTKENS, A predatory democracy? An essay on taxation in classical Athens, in “Explorations in economic history”, 31, 1994, pp. 62-90. 114 S.R. EPSTEIN, Taxation and political representation in Italian territorial states, in Finances publiques et finances privées au bas moyen âge, éd. par M. Boone et W. Prevenier, Leuven 1996, pp. 101-15. Si veda anche ID., Freedom and growth. The rise of states and markets in Europe, 1300-1750, London 2000; e per il caso siciliano, ID., Potere e mercati, pp. 371 sgg. 115 La dichiarazione è riportata in A. DE MADDALENA, Fiscalité et économie: expériences et rapports dans l’histoire, ora in ID., La ricchezza dell’Europa. Indagini sull’antico regime e sulla modernità, Milano 1992, p. 201. 116 G.L. BASINI, Finanza pubblica ed aspetti economici negli Stati italiani del Cinque e del Seicento, Parma 1966. Un successivo saggio di P.L. SPAGGIARI, Le finanze degli Stati italiani, in Storia d’Italia, a cura di R. Romano e C. Vivanti, V, 1, Torino 1973, pp. 809-37, recava scarse novità; 66 realtà, non permettevano un’analisi approfondita dei vari Stati. Inoltre il libro è carente proprio per quanto riguarda la metodologia comparativa, limitandosi di fatto ad esaminare alcuni casi senza tentare di spingersi più in là, verso un confronto che sarebbe risultato assai utile. Le conclusioni della ricerca riprendevano i giudizi correnti, che indicavano nell’eccessivo fiscalismo una delle cause principali della decadenza economica dell’Italia barocca. Certo, come ho già detto, la bibliografia disponibile a metà degli anni Sessanta non era certo ampia; mentre ora le ricerche sono aumentate considerevolmente. Ed è grazie a quest’incremento della produzione storiografica che ritengo sia possibile impostare un lavoro che esamini i vari sistemi fisco-finanziari nella Penisola della prima età moderna. Un lavoro che non proponga una mera tassonomia di casi, ma che impieghi la finanza come spettro per illuminare i caratteri originali delle varie entità statali. Il tentativo già accennato di Epstein è assai promettente117; ad anche il denso saggio di Maria Ginatempo sugli Stati tardo-medievali dell’Italia centro-settentrionale risulta interessante in tal senso118. Insomma, credo che i tempi siano maturi per provare a sfruttare l’ampia letteratura proponendo la Penisola come laboratorio privilegiato per l’analisi dei sistemi fisco-finanziari d’antico regime. Il panorama che emerge da questa rassegna mostra che la ricerca sulla fiscalità gode di un momento particolarmente fervido e fruttuoso119. Se i lavori di storia fiscale italiana possono essere affiancati senza complessi d’inferiorità ad analoghe ricerche straniere, è anche vero che la storiografia della Penisola si mostra per certi versi carente quanto a concettualizzazione sia delle problematiche da indagare sia della metodologia. La storia finanziaria offre uno straordinario materiale ma mi sembra che possa essere meglio sfruttato. È raro trovare in Italia lavori che dialoghino con la più avanzata storiografia straniera. Non mi mentre più stimolanti risultano E. STUMPO, Economia naturale ed economia monetaria: l’imposta, ibid., Annali, VI, a cura di R. Romano e U. Tucci, Torino 1983, pp. 523-62; e G. FELLONI, Il principe ed il credito in Italia tra medioevo ed età moderna, ora in ID., Scritti, I, pp. 253-73. Recenti sintesi sono state fornite da C. CAPRA, Le finanze degli Stati italiani nel secolo XVIII, in L’Italia alla vigilia della rivoluzione francese, Roma 1990, pp. 141-72; ID., The Italian states in the early modern period, in The rise of the fiscal state, pp. 417-42; L. PEZZOLO, Fiscal system and finance in northern Italy in the early modern age, Dipartimento di Scienze economiche, Università Ca’ Foscari di Venezia, Note di Lavoro, ottobre 2003. 117 EPSTEIN, Taxation and political representation. 118 M. GINATEMPO, Spunti comparativi sulle trasformazioni della fiscalità nell’Italia post-comunale, in Politiche finanziarie e fiscali nell’Italia centro settentrionale (secoli XIII-XV), a cura di P. Mainoni, Milano 2001, pp. 125-220. Da vedere anche, della medesima, Prima del debito. Finanziamento della spesa pubblica e gestione del deficit nelle grandi città toscane (1200-1350 ca.), Firenze 2000. 119 Nel suo esame, tuttavia, FELLONI, Temi e problemi, p. 103, rilevava una certa stanchezza. 67 sembra che gli stimoli di Eugene White120, o di David Weir121, o addirittura di Mathias e O’Brien siano stati discussi a sufficienza e accolti, pur con le dovute cautele. Anzi, un confronto azzardato fra struttura del bilancio siciliano nel Cinquecento e bilancio dello Stato unitario italiano – e il discutibile giudizio che se ne trae – fa emergere l’inconsistenza del quadro concettuale in cui talvolta viene posta la vicenda finanziaria. Occorre notare che, per quanto concerne il dialogo con storiografie straniere, la situazione non presenta uno scambio serrato. È comunque vero che recentemente Piola Caselli ha pubblicato un testo di storia della finanza europea nell’età moderna122. Si tratta di un evento assai raro nel panorama italiano che merita di essere sottolineato123. Gli studiosi italiani che si occupano specificamente di storia fiscale straniera in effetti costituiscono uno sparuto gruppetto. Certo, gli storici dei territori controllati dalla Spagna sono obbligati a occuparsi della storia finanziaria castigliana per meglio collocare le vicende locali e analizzare le relazioni fra domini e centro imperiale; la fiscalità castigliana, pertanto, rimane nello sfondo. Analogamente, un pregevole libro sul sistema fiscale trentino-tirolese nel Cinquecento presenta un quadro molto ampio che tocca questioni relative alla fiscalità imperiale; e non potrebbe essere altrimenti, data la collocazione della regione nell’ambito del sistema territoriale dell’Impero124. Per quanto riguarda la Francia, alcune ricerche sono state svolte da Manuela Albertone, che ha focalizzato la propria attenzione sulla finanza settecentesca125, e da Antonella Alimento, che si è occupata in particolare di alcuni aspetti della politica fiscale nei decenni precedenti la Rivoluzione126. Della repubblica di E.N. WHITE, Was there a solution to the Ancien Régime’s financial dilemma?, in “Journal of economic history”, 49, 1989, pp. 545-68. 121 D.R. WEIR, Tontines, Public Finance and Revolution in France and England, 1688-1789, in “Journal of economic history”, 49, 1989, pp. 95-124. 122 F. PIOLA CASELLI, Il buon governo. Storia della finanza pubblica nell’Europa preindustriale, Torino 1997. 123 Mi sembra degno di segnalazione il volume di G. FELLONI, Gli investimenti finanziari in Europa tra il Seicento e la Restaurazione, Milano 1971, che dedica parecchie pagine ai sistemi finanziari in Europa. 124 M. BONAZZA, Il fisco in una statualità divisa. Impero, principi e ceti in area trentino-tirolese nella prima età moderna, Bologna 2001. 125 M. ALBERTONE, Moneta e politica in Francia. Dalla Cassa di sconto agli assegnati (17761792), Bologna 1992. 126 A. ALIMENTO, Riforme fiscali e crisi politiche nella Francia di Luigi XVI. Dalla “taille tariffée” al catasto generale, Firenze 1995. La medesima studiosa aveva già analizzato alcuni temi in precedenti occasioni: Un paradosso storico: Forbonnais ed i fisiocrati di fronte alla riforma del sistema impositivo, in “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, 21, 1987, pp. 115-37; La querelle intorno alla Richesse de l’état: imposta unica e lotta politica in Francia attorno alla metà del Sette120 68 Ragusa, poi, si è interessato in particolare Antonio Di Vittorio, che ha recentemente raccolto alcuni suoi saggi in un volume127. E del medesimo autore conviene ricordare un saggio sulle connessioni fra guerra, finanza ed economia nell’impero asburgico settecentesco128: un tema, quello alle relazioni fra conflitto militare, finanza ed economia, che purtroppo non ha ancora attirato la storiografia italiana come meriterebbe129. Vale la pena di rilevare, ad esempio, che il modello proposto da Lane, che sottolinea le connessioni fra costi di protezione, aumento del peso dello stato e crescita economica, non ha trovato applicazione in Italia, e solo recentemente esso ha costituito lo schema teorico per una riconsiderazione delle relazioni fra stato e guerra nell’Europa della prima età moderna130. Considerando la specificità e la complessità del campo di ricerca nonché il quadro generale – vale a dire una scarsa attenzione della ricerca italiana verso altri paesi – si può ritenere che gli studiosi italiani di storia finanziaria di altri Stati costituiscano un manipolo piuttosto agguerrito. Una confortante impressione emerge dalla lettura dei recenti lavori di storia fiscale: una maggior attenzione è stata rivolta verso la storiografia estera. È vero che nelle note a piè pagina compaiono sempre più riferimento a casi stranieri, ma è altrettanto vero che ci si limita, in genere, a rilevare più le analogie cento, ibid., 18, 1984, pp. 273-323. Cfr. anche M. TOUZERY, L’invention de l’impôt sur le revenu: La taille tarifée 1715-1789, Paris 1994. 127 A. DI VITTORIO, Tra mare e terra. Aspetti economici e finanziari della Repubblica di Ragusa in Età Moderna, Bari 2001. 128 A. DI VITTORIO, Un caso di correlazione tra guerre, spese militari e cambiamenti economici: le guerre asburgiche della metà del XVIII secolo e le loro ripercussioni sulla finanza e l’economia dell’impero, in “Nuova rivista storica”, 56, 1982, pp. 59-81. 129 Cfr., comunque, STUMPO, Guerra ed economia; R. MANTELLI, Guerra, inflazione e recessione nella seconda metà del Cinquecento. Filippo II e le finanze dello Stato napoletano, in La finanza pubblica in età di crisi, pp. 213-44; MAFFI, Guerra ed economia; ID., Milano in guerra. Materiale eterogeneo si trova negli atti della 16a Settimana Datini del 1984 dedicata a Gli aspetti economici della guerra, secoli XIV-XVIII, disponibili in cd-rom. Un eccellente punto di riferimento è offerto da I.A.A. THOMPSON, Taxation, military spending and the domestic economy in Castile in the later sixteenth century, in ID., War and society in Habsburg Spain, Aldershot 1992. Da tenere presente anche gli importanti saggi di F.C. LANE raccolti in Profits from power. Readings in protection rent and violence-controlling enterprises, Albany 1979; ed AMES e RAPP, The birth and death. Interessanti osservazioni per il caso inglese in J.G. WILLIAMSON, Did British capitalism breed inequality?, Boston 1985. Utile la voce di J.S. GOLDSTEIN, War and economic history, in Oxford encyclopedia of economic history, ed. by J. Mokyr, V, Oxford 2003, pp. 215-18. I più importanti lavori sulle relazioni fra guerra e finanza dall’antichità al Novecento sono stati raccolti da L. NEAL, War finance, Aldershot 1994, 3 voll. 130 J. GLETE, Warfare at sea, 1500-1650. Maritime conflicts and the transformation of Europe, London 2000; ID., War and the state in early modern Europe. Spain, the Dutch republic and Sweden as fiscal-military states, 1500-1660, London 2002. 69 che le differenze e – soprattutto – si evita una discussione sui motivi che stanno alla base di ciò. Certo, è importante – direi cruciale – collocare le vicende fiscali locali in una quadro più ampio, evitando così il rischio di scoprire ‘origini’ e unicità che non sono affatto tali; tuttavia il problema più scottante – direi – riguarda le alternative che un determinato governo aveva di fronte e i motivi per i quali ha seguito una via piuttosto che un’altra. Solo un confronto tra casi diversi e coevi può aiutare a individuare le possibilità che le élites di governo avevano di fronte e comprenderne gli effetti e i limiti. A tal riguardo mi sembra che, così come il caso inglese ha perso grande attrazione come paradigma per lo sviluppo economico131, allo stesso modo il sistema fiscale francese non sia più elevato a unico modello di confronto per misurare l’efficienza del fisco statale. Sottoposto ai colpi della recente ricerca, la fiscalità francese ha mostrato i limiti tipici di un meccanismo d’antico regime, fortemente vincolato e controllato dai poteri locali132. Se da un lato è venuto meno un forte modello di riferimento, dall’altro è stato possibile liberarsi da un paradigma ideologico che ha pesantemente guidato i giudizi che si potevano dare sulla ‘modernità’ di altri sistemi fiscali ma, come conseguenza, sembra che la scomparsa di un tale paradigma abbia provocato una minor tensione interpretativa. Per ciò che concerne l’interesse che la storiografia straniera ha manifestato nei confronti di quella italiana, è degno di nota che negli ultimi anni importanti lavori di équipe abbiano coinvolto studiosi italiani. Il fenomeno è assai recente: il colloquio di Fontevraud del 1984, che può essere considerato come la prima tappa delle ricerche fiscali nell’ambito del progetto sulle origini dello Stato in Europa133, annoverava un solo contributo dedicato alla Penisola, peraltro di uno studioso francese134. Pochi anni dopo, la pubblicazione del volume conclusivo del progetto e di un suo spin-off contava la presenza di alcuni autori italiani e vari capitoli dedicati a casi italiani135. Analogamente, una sessione del recente congresso internazionale di storia economica svoltosi a Buenos Aires, incentrata sulla comparazione fra sistemi fiscali a livello mondiale, annoverava 131 Cfr. P. BEVILACQUA, La “storia economica” e l’economia, in Storia economica d’Italia, a cura di P .Ciocca e G. Toniolo, I, Roma-Bari 1998, pp. 159-69. 132 J.B. COLLINS, Fiscal limits of absolutism. Direct taxation in early seventeenth-century France, Berkeley 1988; D. HICKEY, The coming of French absolutism: the struggle for tax reform in the province of Dauphiné 1540-1640, Toronto 1986; ID., Taille, clientèle et absolutisme: le Dauphiné aux XVIe et XVIIe siècles, in “Revue d’histoire moderne et contemporaine”, 39, 1992, pp. 263-81. 133 Genèse de l’état moderne. Prélèvement et redistribution, éd. par J.-Ph. Genet et M. Le Mené, Paris 1987. 134 J.C. WAQUET, Notes sur les caractères originaux du système financier Toscan sous les Médicis, ibid, pp. 111-14. 135 State finance and economic systems; The rise of the fiscal state. 70 un contributo italiano. Si tratta di segnali importanti, che riflettono una notevole attenzione della comunità scientifica internazionale verso la storia fiscale della Penisola; ed è paradossale che tale interesse sia aumentato proprio quando sembra siano diminuiti sensibilmente i ricercatori stranieri che si interessano di questioni finanziarie nella storia d’Italia. La grande stagione dei rinascimentisti anglo-americani sembra avviata verso il viale del tramonto136 e l’onda francese è passata. I lavori di Calabria e di Waquet sembrano più dei punti d’arrivo di una grande tradizione piuttosto che le avanguardie di una nuova stagione. D’altro canto, i prevalenti interessi di storia economico-sociale che hanno caratterizzato gran parte della ricerca straniera in Italia sino agli anni ’80 hanno lasciato spazio ad altre ricerche, indirizzate per lo più verso una storia sociale con forti influenze antropologiche e di genere. Una agenda per la storia fiscale Sfogliando le pagine di recenti pubblicazioni sulla finanza europea emergono, di converso, alcune lacune che riguardano la ricerca in Italia. In questa sezione conclusiva propongo rapidamente alcuni temi che mi sembra richiedano maggior attenzione di quanto ne abbiano ricevuta sinora. Un aspetto non particolarmente approfondito – in verità anche in ambito internazionale – riguarda la spesa pubblica, sia a livello di vertice che locale. Le uscite dello Stato non sono certo terra incognita, tuttavia l’accento è posto, generalmente, sulle entrate, in quanto indicatore quantitativo della capacità di prelievo e di controllo del governo centrale137. Nondimeno le spese statali rappresentano una chiara cartina di tornasole delle aree d’intervento pubblico che nel lungo periodo sono aumentate138. Così, per esempio, rimane ancora nell’ombra il momento 136 Per la storiografia anglo-americana su Firenze cfr. S. BERTELLI, Ceti dirigenti e dinamica del potere nel dibattito contemporaneo, in I ceti dirigenti nella Toscana del Quattrocento, Firenze 1987, specie pp. 20-47; e A. MOLHO, Gli storici americani e il Rinascimento italiano, in “Cheiron”, 8, 1991, pp. 9-26. Per la venezianistica, N.S. DAVIDSON, ‘In dialogue with the past’: Venetian research from the 1960s to the 1990s, in “Bulletin of the Society for renaissance studies”, 15, 1997, pp. 13-24; e J. MARTIN e D. ROMANO, Reconsidering Venice, in Venice reconsidered. The history and civilization of an Italian city-state, 1297-1797, ed. by J. Martin and D. Romano, BaltimoreLondon 2000, pp. 1-35. 137 Un evidente esempio è fornito da P. CHAUNU, L’état, in Histoire économique et sociale de la France, éd. par. F. Braudel et E. Labrousse, I, 1, Paris 1977, pp. 9-228. 138 MANN, States, war, and capitalism, pp. 100-04. Qualche spunto si può trarre anche da J.A. MARAVALL, Stato moderno e mentalità sociale, Bologna 1991 (Madrid 1972). Da segnalare, inoltre, l’accento posto da ZILLI, Carlo di Borbone, pp. 127-229, sul versante delle uscite. Cfr. anche EAD., La finanza pubblica come strumento di politica economica nel Regno di Napoli, in La finanza pubblica in età di crisi, pp. 255-79. 71 in cui la tesoreria centrale si fa carico di costi precedentemente sostenuti dalle comunità locali (istruzione, una parte dei lavori pubblici, ecc.). Si tratta, insomma, di individuare il progressivo passaggio dal warfare state al welfare state139. La spesa militare, inoltre, in taluni casi assume una importanza relativa, mentre sono altri settori – debito pubblico e lavori pubblici – che rivestono un ruolo significativo. La politica di spesa del governo pontificio post-rinascimentale, per esempio, appare più concentrata sui grandi progetti urbanistici e infrastrutturali che sul finanziamento della macchina bellica140. E, analogamente, nello Stato mediceo i duchi si preoccupano – diversamente da Venezia – di costituire una rete normativa che sottenda l’attuazione di lavori pubblici in tutto il dominio141. Una tendenza, questa, che emerge ancor più chiaramente analizzando le voci di spesa per lavori pubblici e istruzione nei bilanci toscani fra Sette e Ottocento142. Un ulteriore settore che meriterebbe maggior attenzione concerne gli operatori, ‘pubblici’ e ‘privati’ che sono coinvolti nella macchina fiscale. Oltre agli officiali e ai responsabili dell’apparato statale è importante dare un volto ai numerosi personaggi che, in veste di riscossori e appaltatori, gestiscono di fatto i meccanismi di esazione. Occorre rilevare che, salvo alcuni casi particolari, sappiamo ancora troppo poco di tali figure: poco della loro estrazione sociale, poco del loro entourage e della loro rete di relazioni, pochissimo dei risultati economici delle loro imprese. Conosciamo abbastanza bene le modalità di assegnazione degli appalti143, ma poco è stato fatto per condurre un’attenta analisi nell’ottica della divisione dei rischi fra i contraenti144. Quanto alle biografie, non siamo certo in grado di presentare nulla di analogo ai grandi lavori svolti da Bayard e Dessert sui finanzieri francesi del Seicento145. Qualche elemento emer- 139 The development of welfare states in Europe and America, ed. by P. Flora and A.J. Heideheimer, London 1981; P.H. LINDERT, The rise of social spending, 1880-1930, in “Explorations in economic history”, 28, 1991, pp. 1-35. 140 Si vedano i dati presentati da REINHARD, Finanza pontificia. 141 MANNORI, Il sovrano tutore, pp. 277 sgg. 142 Cfr. la documentazione riportata in Appendice a DAL PANE, La finanza toscana. 143 Cfr. ad esempio A. SAGUATTI, L’esazione dei tributi a Parma nel XVIII secolo, Parma 1987; nonché A. TIRONE, Finanza pubblica e intervento privato in Lombardia durante la Guerra di successione austriaca. Precedenti e cause dell’istituzione della Ferma generale, in “Annali di storia moderna e contemporanea”, 2, 1996, pp. 131-46. 144 Come ha proposto, invece, E.N. WHITE, L’efficacité de l’affermage de l’impôt: la ferme générale au XVIII siécle, in L’administration des finances sous l’Ancien Régime, Paris 1997, pp. 103-20. 145 F. BAYARD, Le monde des financiers au XVIIe siècle, Paris 1988; D. DESSERT, Argent, pouvoir et société au Grand Siècle, Paris 1984. La ricerca in tal senso era stata avviata già da J. DENT, Crisis in finance: crown, financiers and society in seventeenth-century France, Newton Abbot 1973. Si veda anche, della BAYARD, Le strategie professionali di alcuni finanzieri francesi all’inizio del 72 ge da più o meno recenti ricerche: così, alla base dell’ascesa sociale ed economica di Gianangelo Belloni sta un forte interesse nell’appalto del dazio del tabacco nello Stato pontificio146. La gestione dell’esazione fiscale appare uno dei grandi settori d’interesse sia di famiglie agiate che di personaggi che vedono in tale investimento una ghiotta opportunità per salire la scala sociale e godere di eccellenti profitti147. Profitti che, in genere, sembrano cospicui, come stanno a dimostrare i lauti guadagni (oltre il 20 %) ottenuti dai conduttori delle dogane di Roma durante il secondo quarto del Cinquecento148; mentre rendimenti inferiori (generalmente al di sotto del 10 %) erano garantiti da alcuni appalti nella Piacenza tra fine Cinque e inizi Seicento149. La figura dell’appaltatore d’imposte risulta centrale anche per le questioni connesse alle forme di resistenza/rivolta fiscale. Tumulti e sommosse spesso trovano motivazione – più o meno profonda – nelle tasse. Alcuni episodi sono conosciuti: Volterra – seguita da altri centri del distretto – rifiuta l’imposizione del catasto fiorentino nel 1428-29150; ad Arezzo si segnalano ribellioni nel 1409, 1431, 1502 e 1529151. A Perugia – così come a Rimini e Senigallia - scoppia nel 1540 una rivolta causata da un inasprimento dell’imposta sul sale152; e nel medesimo torno di anni Imola manifesta seri problemi di ordine pubblico153. Nei primi anni ’30 del XVI secolo anche a Cremona si accendono gli animi contro le tasse154. La rivolta di Masaniello è evento assai noto e studiato. È comunque significativo che la notizia della sommossa a Napoli giunga a Cosenza assieme a XVII secolo, in “Cheiron”, 12, 1996, pp. 13-36: il fascicolo è interamente dedicato a “Transazioni, strategie e razionalità fiscali nell’Europa medievale e moderna”. 146 A. CARACCIOLO, L’albero dei Belloni. Una dinastia di mercanti del Settecento, Bologna 1982, pp. 34 sgg. 147 Stumpo ha fornito un po’ di materiale a riguardo, elencando personaggi che ha incontrato nel corso delle sue ricerche: cfr. l’Appendice n. 3 di Finanza e Stato moderno; e l’Appendice VII di Il capitale finanziario a Roma. 148 F. GUIDI BRUSCOLI, Benvenuto Olivieri. I mercatores fiorentini e la Camera apostolica nella Roma di Paolo III Farnese (1534-1549), Firenze 2000, pp. 139 sgg. 149 P. SUBBACHI, La ruota della fortuna. Arricchimento e promozione sociale in una città padana in età moderna, Milano 1996, pp. 90-93. 150 HERLIHY e KLAPISCH-ZUBER, I toscani, pp. 122-28 151 BENIGNI, Oligarchia cittadina e pressione fiscale, p. 55. 152 R. CHIACCHELLA, Per una reinterpretazione della ‘guerra del sale’ e della costruzione della Rocca Paolina in Perugia, in “Archivio storico italiano”, 145, 1987, pp. 3-60; M. CARAVALE, Lo stato pontificio da Martino V a Gregorio XIII, in M. CARAVALE e A. CARACCIOLO, Lo Stato pontificio da Martino V a Pio IX, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, XIV, Torino 1978, pp. 250-54. 153 ROTELLI, La finanza locale, p. 19 154 G. POLITI, Un tumulto e una città. Cremona “al tempo di la macina” (1531-1532), in Per Marino Berengo. Studi degli allievi, Milano 2000, pp. 137-58. 73 un dispaccio che abroga tutte le nuove imposte155. “Guerre del fisco” – come è stato detto156 – esplodono nel Monregalese tra Seicento e Settecento157. Nel 1647 al grido di “Viva il re di Spagna e fora gabelle” si accendono tumulti in vari centri della Sicilia158. Si tratta di episodi clamorosi – ma forse lo sono meno di quanto s’immagini tenendo conto di una sorta di moral economy fiscale – che fanno emergere tensioni latenti e rabbie sopite contro il fisco. Ma sono anche momenti in cui affiorano elementi connessi alla potestà impositiva, al dovere fiscale, al “giusto” onere da distribuire fra tutte le componenti socio-economiche, all’immagine dello Stato e dei suoi ministri, al ruolo dei percettori locali e degli speculatori, alle relazioni fra innovazione fiscale e diritto consuetudinario. Anche il fenomeno del contrabbando può essere visto come una precisa forma di resistenza nei confronti del fisco governativo e in particolare verso le imprese degli appaltatori, come nella Carnia di fine Settecento, dove intere comunità tutelano i contrabbandieri dalle minacce degli “spadaccini” della ferma del tabacco159. Che immagine hanno i sudditi della fiscalità statale? La loro rabbia s’indirizza solamente verso quelli che potremmo definire intermediari – percettori locali, “ministri”, appaltatori – o invece esiste una chiara coscienza del ruolo svolto dal governo centrale? Che idea era diffusa della fiscalità nelle città e nelle campagne d’antico regime160? P.L. ROVITO, La rivolta dei notabili. Ordinamenti municipali e dialettica dei ceti in Calabria Citra 1647-1650, Napoli 1988, p. 57. 156 G. BRACCO, Guerra del sale o guerre delle taglie? La pressione fiscale nel Monregalese fra XVI e XVIII secolo, in Studi in memoria di Mario Abrate, II, pp. 867-86, poi in ID., Taglie e gabelle, pp. 71-94. 157 La guerra del sale. Rivolte e frontiere del Piemonte barocco, a cura di G. Lombardini, 3 voll., Milano 1986; S. LOMBARDINI, Le premesse ecologiche di una rivolta contadina: agricoltura e demografia nel Monregalese all’epoca della Guerra del sale, in “Bollettino della Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della provincia di Cuneo”, 89, 1983, pp. 107-91; ID., Equilibrio demografico e comunità in rivolta nel Piemonte del Seicento, in “Miscellanea storica ligure”, 8, 1976, pp. 213-31. 158 G. GIARRIZZO, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità d’Italia, in V. D’ALESSANDRO e G. GIARRIZZO, La Sicilia dal Vespro all’Unità d’Italia, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, XVI, Torino 1989, pp. 311 sgg. 159 F. BIANCO, Contadini, sbirri e contrabbandieri nel Friuli del Settecento. La comunità di villaggio tra conservazione e rivolta (Valcellina e Valcovera), Pordenone 1990. Cfr. anche J.-C. WAQUET, Aux marges de l’impôt: fraudeurs et contrebandiers dans la Toscane du XVIIIe siècle, in La fiscalité et ses implications, pp. 75-94. 160 Degne di maggiori approfondimenti risultano le annotazioni di Y.M. BERCÉ, Pour une étude institutionelle et psychologique de l’impôt moderne, in Genèse de l’état moderne, pp. 16168 ; e di L. ACCATI, ‘Vive le roi sans taille et sans gabelle’: una discussione sulle rivolte contadine, 7, 1972, pp. 1071-103. L’assenza di seri sommovimenti antifiscali in Inghilterra è dovuta, secondo M.J. BRADDICK, Parliamentary taxation in seventeenth-century England. Local administration and response, Woodbridge 1994, pp. 276-88, a una diffusa e forte legittimazione del governo centrale nell’intero paese. 155 74 Una questione collegata a queste domande concerne altresì il rapporto fra la fiscalità e i principi della giustizia distributiva e commutativa, che regolavano le relazioni nella società d’antico regime (e forse anche addentro nell’età contemporanea) recentemente focalizzati. Se è vero che nel caso del mercato cerealicolo della Roma papale il ‘giusto’ prezzo era funzione della posizione sociale dell’acquirente161, così come l’azione giudiziaria è modulata considerando lo status e l’appartenenza sociale degli imputati162, allora sarebbe opportuno considerare l’eventuale riflesso di tali concezioni sulle politiche fiscali governative. Il concetto di esenzione fiscale parrebbe così legarsi più allo status che a una mera (in)capacità contributiva; e l’apparente disuguaglianza dei contribuenti potrebbe, almeno in parte, trovare una legittimazione giuridica163. Le stesse scelte dei gruppi dirigenti potrebbero aver trovare un vincolo nei principi di giustizia distributiva. Si pensi, tanto per dare un esempio, al caso inglese del primo Settecento: qui, nonostante il Parlamento sia infarcito di grandi proprietari terrieri, ci si rifiuta di decretare un’imposta generale sui beni di consumo e si preferisce colpire la terra164. Un aspetto che apparentemente risulta ben esplorato concerne le politiche di controllo che i governi centrali attuarono nei confronti delle finanze comunali165. Un po’ ovunque, tra metà Cinquecento e metà Seicento, si riscontra un accentuato interesse verso la gestione della finanza locale; tuttavia mi sembra che la gran parte delle iniziative governative si collochi nel primo quarto del XVII secolo. È forse un caso? Ne dubito. Il controllo centrale sembra provocato dal crescente indebitamento delle comunità e dalla cattiva amministrazione dei 161 M. MARTINAT, Le blé du pape. Système annonaire et logiques économiques à Rome à l’époque moderne, in “Annale HSS”, 54, 1999, pp. 219-44. 162 Un cenno in B. LENMAN, G. PARKER, The state, the community and the criminal law in early modern Europe, in Crime and the law. The social history of crime in Western Europe since 1500, London 1980, pp. 27-28. Un caso italiano ampiamente analizzato è quello della repubblica di Venezia, sulla quale si vedano almeno G. COZZI, Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982; e ID., La società veneta e il suo diritto, Venezia 2000. 163 Cfr. ad esempio, M. KWASS, Privilege and the politics of taxation in eighteenth-century France. Liberté, égalité, fiscalité, Cambridge 2000, pp. 129 sgg. Si trovano scarse indicazioni a riguardo in A. DOMÌNGUEZ ORTIZ, La desigualidad contributiva en Castilla durante el siglo XVII, ora in ID., Instituciones y sociedad en la España de los Austrias, Barcelona 1985, pp. 97-145. 164 J.V. BECKETT, Land tax or excise: the levying of taxation in seventeenth- and eighteenthcentury England, in “English historical review”, 100, 1985, specie pp. 297-308. Si veda anche W. KENNEDY, English taxation 1640-1799. An essay on policy and opinion, New York 1964 (1a ed. 1913), pp. 67 sgg. 165 Cfr. i vari saggi in Comunità e poteri centrali; nonché S. TABACCHI, Il controllo sulle finanze delle comunità negli antichi Stati italiani, in “Storia amministrazione costituzione. Annale ISAP”, 4, 1996, pp. 81-115, con bibliografia relativa. 75 dirigenti locali. La crisi, che appare strutturale, sarebbe da attribuirsi anzitutto alla disastrosa gestione e alla corruzione dei comuni166. Ma non è chiarito perché il fenomeno esploda proprio nel primo Seicento. Vi è un collegamento con la grave congiuntura agraria di fine Cinquecento? Marzio Romani vede uno stretto legame tra le difficoltà annonarie di quel periodo e la grave situazione finanziaria di alcune comunità padane (Mantova, Parma, Modena)167. Analogamente, Gigi Corazzol fa capire che anche nel Veneto la crisi di fine Cinquecento avviò un processo degenerativo delle finanze comunali168. Il legame, seppur probabile, tuttavia non spiega le difficoltà che i comuni incontrarono nel medesimo periodo in aree dove la serie di carestie del tardo Cinquecento non ebbe così pesanti ripercussioni come nell’area mediterranea. Il fenomeno, infatti, è di portata non solo italiana ma europea: in Francia e nelle terre dell’Impero lungo il XVII secolo si intrapresero iniziative per tutelare la capacità fiscale delle comunità rurali, a testimonianza delle difficoltà finanziarie che i municipi stavano vivendo169. Da una parte, dunque, un indubbio malessere delle campagne, che forse manifesta i primi segni verso la fine del Cinquecento, e dall’altra uno Stato che, proprio fra Cinquecento e Seicento necessita di maggiori risorse finanziarie e preme sulla leva fiscale, provocando un grave indebitamento e forti ritardi nei pagamenti delle imposte170. Il problema sta nel capire quali sono È quanto sembra emergere da CARACCIOLO, Sud, debiti e gabelle; e, per il Veneto, più esplicitamente in A. TAGLIAFERRI, Per una storia sociale della Repubblica veneta: la rivolta di Arzignano del 1655, Udine 1978, pp. 36 sgg. 167 M.A. ROMANI, La finanza pubblica dei ducati padani in tempo di carestia (1590-1630), in La finanza pubblica in età di crisi, pp. 127-40. Per un periodo successivo, cfr. G. TOCCI, Le terre traverse. Poteri e territori nei ducati di Parma e Piacenza tra Sei e Settecento, Bologna 1985, pp. 117-19, 204 sgg., 228, 442 sgg. 168 G. CORAZZOL, Livelli stipulati a Venezia nel 1591. Studio storico, Pisa 1986, p. 9. 169 Qualche cenno generale in J. DE VRIES, The economy of Europe in an age of crisis, 1600-1750, Cambridge 1976, pp. 61-62; per l’Impero, K. GERTEIS, Fiscalité, représentation et soulèvements urbains en Allemagne aux XVIIe et XVIIIe siècle, in Genèse de l’état moderne, pp. 153-60; per la Francia, H.L. ROOT, Peasants and king in Burgundy. Agrarian foundations of French absolutism, Berkeley 1987, pp. 34 sgg.; J. JACQUART, La crise rurale en Ile-de-France 1550-1670, Paris 1974, pp. 220-23, 275-79, 579-81, 630-36; BEIK, Absolutism and society, p. 271-77; CH. BLANQUIE, La vérification colbertienne des dettes des communautés agenaises, in Endettement paysan et crédit rural dans l’Europe médiévale et moderne, Toulouse 1998, pp. 299-315; A. FOLLAIN, Les communautés rurales en Normandie sous l’Ancien Régime. Identité communautaire, institutions du gouvernement local et solidarités, in “Revue d’histoire moderne et contemporaine”, 45, 1998, specie pp. 710-12. 170 Qualche dato tratto da un’ampia casistica: nella comunità ligure del Cervo il distaglio (il coefficiente applicato ai valori catastali dell’avaria) passa da 3-10 lire a fine Cinquecento a 18-40 negli anni quaranta del Seicento (GRENDI, Il Cervo, pp. 164, 193). In alcuni centri lombardi la domanda sui contribuenti iscritti nell’estimo lievita di 3-4 volte fra metà Cinque e metà Seicento (JACOPETTI, Le finanze del comune di Cremona, pp. 94-95; VIGO, Finanza pubblica, pp. 84-85). Analoghi incrementi nel Mezzogiorno, su cui CARACCIOLO, Sud, debiti, passim. 166 76 effettivamente i motivi che stanno alla base del crescente controllo centrale sulle comunità a seguito della crisi finanziaria del primo Seicento. Questi proposti sono solamente alcuni temi di un settore che attende ancora approfondimenti e ulteriori analisi: molto tuttavia è stato fatto. La ricerca sulla fiscalità mostra importanti segni di vivacità e qualche timido tentativo di rinnovamento, che dovrà assumere maggior consistenza soprattutto nel dialogo con altre voci sia della disciplina storica nazionale che internazionale. Inoltre sembra evidente che la storia finanziaria stia assumendo una forte identità che deve trovare espressione a livello istituzionale. 77