Partecipazione e conflitto come tecniche di regolazione delle

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Partecipazione e conflitto come tecniche di regolazione delle
Partecipazione e conflitto come tecniche di regolazione delle relazioni
industriali: precetti costituzionali, nessi reciproci e finalità
SOMMARIO*: 1. Introduzione. 2. Le diverse “forme” di partecipazione: questioni definitorie
e aspetti sostanziali. 3. Il paradigma costituzionale “partecipativo”, anzi, “collaborativo”: l’art. 46 e
la sua (in)attuazione. 4. Il conflitto sindacale nell’ordinamento costituzionale: lo sciopero come
fatto giuridico 5. Il significato del riconoscimento del diritto di sciopero in un sistema che
promuove anche forme partecipative dei lavoratori 6. Conclusioni.
1. Introduzione
Il rapporto fra partecipazione e conflitto sindacale rappresenta da tempo uno dei problemi più
delicati del diritto del lavoro, non solo in ambito nazionale.
Rimasta lungamente sottotraccia a causa del sopravvento, specie sul piano storico-culturale, di
una visione quasi esclusivamente conflittuale delle relazioni sindacali, la questione pare oggi
tornare prepotentemente alla ribalta nel contesto di rinnovate aspirazioni solidaristiche – e, perciò,
lato sensu “partecipative” – generate dalla manifestazione dell’attuale crisi economica e dal suo
inasprimento.
Dopo una breve, ma necessaria, premessa metodologica sull’ampiezza dei significati
astrattamente attribuibili alle nozioni di “partecipazione” e di “conflitto”, si procederà alla
delimitazione dell’alveo concettuale di queste ultime ai fini della presente analisi, partendo dalle
disposizioni costituzionali di riferimento (gli artt. 46 e 40 Cost.)
La ricostruzione dell’origine e dell’evoluzione storica dei fenomeni della partecipazione e del
conflitto, condotta principalmente sul piano nazionale, costituisce la base per le riflessioni finali,
dedicate ad individuare le funzioni dei due strumenti. Ci si domanda in particolare se essi
rappresentino strumenti diretti a realizzare finalità antitetiche, o, al contrario, se costituiscano mezzi
rivolti – o, quanto meno, opportunamente indirizzabili – verso obiettivi condivisi.
2. Le diverse “forme” di partecipazione: questioni definitorie e aspetti sostanziali
Come anticipato, dopo lunghi periodi di silenzio, il tema della partecipazione dei lavoratori
pare ritornato, nuovamente in un momento di crisi1, al centro del dibattito sulle relazioni industriali
in Italia2.
Del resto, è fin troppo noto come, nonostante il tema abbia attratto l’attenzione degli studiosi
*
I paragrafi 1 e 6 sono stati elaborati da entrambi gli autori, i paragrafi 2 e 3 da Marco Biasi, i paragrafi 4 e 5 da
Maurizio Falsone.
1
P. OLIVELLI, La partecipazione dei lavoratori tra diritto comunitario e ordinamento italiano, DRI, 2010, 1, 37.
2
M. CORTI, La partecipazione dei lavoratori. La cornice europea e l’esperienza comparata, Milano, 2012, 11 e già V.
SIMI, Una ricerca in ordine alla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, LPO, 1977, 1.
1
italiani per molto tempo, non si sia mai giunti in ambito nazionale ad un intervento legislativo
convinto3, o comunque alla cristallizzazione di fatto di forme o prassi stabili, tali da costituire
l’estrinsecazione fattuale di quello che pare essere ancora un ideale o, più semplicemente,
un’aspirazione.
In mancanza di un riferimento certo e concreto, tanto nel diritto positivo, quanto nella prassi,
una preliminare fatica non può che riguardare l’individuazione del campo, semantico e concettuale,
del termine “partecipazione”, ove riferito al ruolo dei lavoratori all’interno dell’impresa4: il che, a
nostro avviso, richiede un lavoro maggiormente orientato alla diversificazione, fondata sul dato
storico, più che all’assimilazione, basata sul carattere aperto dell’espressione in parola.
Del resto, a conferma della natura “polisensa e tecnicamente indeterminata”5 del termine in
esame, basti ricordare che, in ambito giuslavoristico italiano, allo stesso sono state nel tempo
ricondotte modalità di coinvolgimento dei lavoratori o dei loro rappresentanti del tutto eterogenee:
dai Consigli di gestione, diffusisi nel Norditalia a cavallo del secondo Dopoguerra 6, al
coinvolgimento del sindacato nella c.d. “stagione dei Protocolli 7, sino, più di recente, all’accesso dei
lavoratori al capitale dell’impresa8.
A nostro avviso, un buon punto di partenza, che, come si vedrà, ha precise radici storiche, può
essere la distinzione9 tra la “partecipazione alle decisioni”10 (o “partecipazione strategica”11) e la
3
Già G. GIUGNI, La dottrina giuslavoristica nel 1983, DLRI, 1984, 898; più di recente, M. CORTI, Il caso della società
europea. La via italiana alla partecipazione di fronte alle sfide europee. Commentario al d.lgs. 19 agosto 2005, n. 188 ,
NLCC, 2006, 6, 1399; L. ZOPPOLI, Rappresentanza collettiva dei lavoratori e diritti di partecipazione alla gestione delle
imprese, DLRI, 2005, 3, 374.
4
F. CARINCI, La partecipazione dei lavoratori alla gestione: la via italiana, C. ASSANTI (a cura di), Dallo statuto dei
diritti dei lavoratori alla dimensione sociale europea, Milano, 1991, 203.
5
M. D’ANTONA, voce Partecipazione dei lavoratori alla gestione delle Imprese, Enc.Giur.Treccani, XXII, 1990, 3;
similmente, L. ZOPPOLI, voce Partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’azienda, Enc.Dir., Annali, IV, 2011, 909;
G. LEOTTA, voce Partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, DDPSC, Aggiornamento, 2007, 573.
6
Se un primo espresso riconoscimento dei Consigli di Gestione si ebbe già nel Decreto sulla Socializzazione della
Repubblica Sociale Italiana del 2.2.1944, n. 375 [G. GHEZZI, sub Art. 46, G. Branca (a cura di), Commentario della
Costituzione, Tomo III, Rapporti Economici, Bologna, 1980, 79], fu in seguito che, nonostante l’abrogazione dei
Decreti sulla Socializzazione della sedicente Repubblica Sociale, il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia,
scegliendo di non cancellare le norme aventi ad oggetto i compiti e le funzioni dei consigli di gestione, di fatto favorì la
spontanea diffusione dei Consigli. Tali organismi, sorgendo in un momento di incertezza sul piano politico e sociale (A.
BALDASSARRE, Il lavoro tra conflitto e partecipazione. Dai Consigli di Gestione a nuove collaborazioni, DLM, 2008, 3,
474) si svilupparono in forma “convulsa ed effimera” (P. CRAVERI, Sindacato e istituzioni nel dopoguerra, Bologna,
1977, 152) e, operando prevalentemente in composizione paritetica (capitale e lavoro) e risultando assegnatari di “un
ampio e variabile spettro di attribuzioni”, normalmente di controllo, promozione e iniziativa, con la finalità di
migliorare la produttività e l’organizzazione del lavoro (G. GHEZZI, op.ult.cit., 83).
7
Si fa qui riferimento alle forme di coinvolgimento dei lavoratori nelle scelte di impresa, divenute, a partire dalla metà
degli anni ’80, oggetto di specifiche regolamentazioni in contratti collettivi aziendali (o di gruppo) sottoscritti
nell’ambito di grosse realtà industriali italiane, controllate dallo Stato (IRI), ma anche private (Electrolux-Zanussi;
TIM): per un riepilogo, M. ROCCELLA, Una nuova fase delle relazioni industriali in Italia: la stagione dei protocolli, LD,
1990, 485.
8
P. BELLOCCHI, sub Art. 46, G. AMOROSO - V. DI CERBO - A. MARESCA (a cura di), Diritto del lavoro, Vol. I, La
Costituzione, il Codice civile e le leggi speciali, III ed., Milano, 2009, 436.
2
“partecipazione economica” o “finanziaria”, nelle duplice versione dell’azionariato dei lavoratori12
e delle varie forme di retribuzione variabile in base ai risultati dell’impresa13.
In assenza, nel nostro Paese, tanto di forme di azionariato collettivo in grado di consentire ai
lavoratori di far sentire la propria voce nelle scelte aziendali, quanto di meccanismi realmente
condivisi di controllo e di gestione dei “premi di produttività” 14, le due macro-categorie sono infatti
state tradizionalmente tenute distinte15, in quanto espressione di diversi obiettivi: la prima, di
democrazia industriale16, la seconda, di incentivazione economica della performance o, al massimo,
di fidelizzazione dei dipendenti, quest'ultima dubitativamente afferente al concetto, a sua volta
sfuggente, di democrazia economica o azionaria17.
Nell'ambito della partecipazione decisionale, il diritto di influire sulle decisioni dell’impresa
si può esercitare però in due modi, secondo un grado di intensità ben diverso: da un lato, vi è una
partecipazione “forte”, qualora l’epilogo di essa sia una decisione presa di comune accordo ed
attribuibile ad entrambe le parti (pur distinte)18, dall’altro lato, una partecipazione “debole”, quando
9
M. D’ANTONA, Partecipazione, codeterminazione, contrattazione (temi per un diritto sindacale possibile), RGL, 1992,
1, 139.
10
F. LEARDINI, Diritti di partecipazione, in C. ZOLI (a cura di), Le fonti. Il Diritto sindacale, in F. CARINCI (diretto da),
Diritto del lavoro. Commentario, I, Torino, 2007, 274; A. MINERVINI, Dall’informazione alla partecipazione, Milano,
2002, 128 ss.
11
A. PIZZOFERRATO, Partecipazione dei lavoratori, nuovi modelli di Governance e democrazia economica, RIDL, 2005, I,
243.
12
R. SANTAGATA, Il lavoratore azionista, Milano, 2008; L. GUAGLIANONE, Individuale e collettivo nell’azionariato dei
dipendenti, Torino, 2003; A. ALAIMO, La partecipazione azionaria dei lavoratori. Retribuzione, rischio e controllo,
Milano, 1998.
13
E. GRAGNOLI, M. CORTI, La retribuzione, M. MARAZZA (a cura di), Contratto di lavoro e organizzazione, IV, M. PERSIANI,
F. CARINCi (diretto da), Trattato di Diritto del Lavoro, Padova, 2012, 2, 1375 ss.; M. VITALETTI, Retribuzione variabile,
M. PEDRAZZOLI (ordinato da), Lessico Giuslavoristico, vol. 1, Lavoro, Bologna, 2010, 111 ss.
14
T. TREU, Le forme retributive incentivanti, RIDL, 2010, I, 637 ss.
15
Su tutti, M. PEDRAZZOLI, Partecipazione, costituzione economica e art. 46 della Costituzione, RIDL, 2005, I, 434.
16
Lo stesso concetto di “democrazia industriale” (M. PEDRAZZOLI, voce Democrazia Industriale, DDPSC, IV, 1989,
242), al centro di un vivace dibattito in Italia a partire dalla seconda metà degli anni ’70 [ G. GIUGNI, Appunti per un
dibattito sulla democrazia industriale, Mondoperaio, 1974, 2, 49 ss.; S. SCIARRA (a cura di), Democrazia politica e
democrazia industriale, Bari, 1978; P. MONTALENTI, Democrazia Industriale e Diritto dell’Impresa, Milano, 1981], pur
comparso nella letteratura inglese già dalla fine dell’800’ (per indicare le modalità e gli scopi dell’azione sindacale: S. E
B. WEBB, Industrial Democracy, London, 1902), può dirsi del pari “ambiguo” (G. GHEZZI, sub Art. 46, cit., 133) ed
“incapable of definition” (O. KAHN-FREUND, Industrial Democracy, ILJ, 1977, 6, 65).
17
T. TREU, La partecipazione dei lavoratori all’economia delle imprese, GComm., 1988, I, 785. Peraltro, a proposito
della democrazia economica, è importante non confondere la partecipazione dei lavoratori al capitale o ai risultati
dell’impresa con l’idea di partecipazione dei lavoratori all’economia, intesa nel suo complesso ed attuata con diverse
modalità, dal ruolo istituzionale cui aspiravano le organizzazioni dei lavoratori nel periodo weimariano (legato all’idea
di “Wirtschaftdemokratie”: F. NAPHTALI, Wirtschaftdemokratie. Ihr Wesen, Weg und Ziel (1928), Köln-Frankfurt, 1977),
all’attuale forma della concertazione [F. CARINCI, La concertazione, F. CARINCI, M. PERSIANI (a cura di), Trattato di diritto
del lavoro, vol. III, F. LUNARDON (a cura di), Conflitto, Concertazione e Partecipazione, Padova, 2011, 911 ss.], senza
dimenticare le numerose funzioni pubbliche svolte dal sindacato [M. MARTONE, Governo dell’economia e azione
sindacale, F. GALGANO (diretto da), Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, XVII, Padova,
2006].
18
Sarebbe questa la partecipazione tout court, secondo la nota tesi di M. PEDRAZZOLI, Democrazia industriale e
subordinazione. Poteri e fattispecie nel sistema giuridico del lavoro, Milano, 1985, passim.
3
i lavoratori, per mezzo dei propri rappresentanti, godono del diritto di informazione e consultazione
nel corso del processo decisionale dell’impresa, il che sortisce al più l’effetto di
“procedimentalizzare” un potere che rimane in toto in capo al datore di lavoro ed estraneo ad un
esercizio congiunto19.
Ciò che va sin d‘ora tenuto ben presente è che, per quanto distinte, entrambe le descritte
“forme” di partecipazione non risultano in alcun modo assimilabili ad un’idea di autogestione 20: la
partecipazione, infatti, implica la necessaria alterità tra lavoratori e impresa, anche in ipotesi di
esercizio congiunto del potere decisionale.
Del resto, si è da sempre distinto tra un modello di sindacato “antagonista” (al sistema),
orientato verso forme di collettivizzazione21 o, appunto, di autogestione22, ed un modello di
sindacato conflittuale, interno al “sistema” – come quello italiano (specie attualmente) 23 – rispetto al
quale, ad avviso di chi scrive, non può essere esclusa una futura “svolta” partecipativa, pur al
momento ancora lontana a venire.
In ogni caso, è proprio la distinzione tra partecipazione “forte” e “debole” ad assumere, nella
nostra prospettiva, una fondamentale rilevanza.
Ciò sembra emergere dall’evoluzione della disciplina a livello europeo: dal tentativo, risalente
ai primi anni ’70, di estendere la partecipazione “forte” (“alla tedesca” 24) a tutti i Paesi membri, si è
progressivamente passati alla “costituzionalizzazione”25 di una forma di partecipazione, non solo
“debole”, ma addirittura “negoziabile”, al fine di contemperare i diversi punti di vista degli Stati
19
C. ZOLI, Le clausole di procedimentalizzazione, M. D’ANTONA (a cura di), Letture di Diritto Sindacale, Napoli, 1990,
391.
20
F. SANTORO-PASSARELLI, Pluralismo e partecipazione, MGL, 1983, 2-3, 182.
21
Si pensi, tanto ai consigli di fabbrica sovietici, quanto a quella parte del movimento consigliare weimariano agli stessi
ispirata (K. KORSCH, Jus belli ac pacis nel diritto del lavoro (1923), DD, 1977, 372 ss.), critica nei confronti dell’idea
Sinzheimeriana [H. SINZHEIMER, Relazione all’assemblea costituente (1919), G. VARDARO (a cura di), Laboratorio
Weimar. Conflitti e Diritto del Lavoro nella Germania Prenazista, cit., 45 ss.] di attribuire ai consigli d’azienda il
compito di “valorizzare l’interesse comune alla produzione, cui sono coinvolti datori di lavoro e lavoratori” e non
compiti di lotta per l’emancipazione della classe proletaria nei confronti del capitale.
22
Si pensi all’esperienza jugoslava, su cui O. ŜIK, voce Autogestione, Enc.Sc.Soc. Treccani, I, 1991, 409 ss.
23
G. Giugni, voce Sindacato, Enc.Sc.Soc. Treccani, VII, 1997, 796.
24
Sul punto, volendo prendere come modello il sistema partecipativo tedesco, si ricorda come la “partecipazione forte”
si realizzi, in tale contesto, tanto a livello di unità produttiva, con il diritto del consiglio d’azienda di co-determinare
alcune decisioni (c.d. “Betriebliche Mitbestimmung”), quanto a livello di organi societari (c.d.
“Unternehmensmitbestimmung”, o anche solo “Mitbestimmung”), con il riconoscimento del diritto dei lavoratori di
eleggere una parte dei membri del consiglio di sorveglianza della imprese tedesche, ovvero dell’organo di controllo
(anche se non esclusivamente) del sistema dualistico di governance: in tema, sia consentito il rinvio a M. BIASI, Il nodo
della partecipazione dei lavoratori in Italia: evoluzione e prospettive nel confronto con il livello tedesco ed europeo ,
Tesi di dottorato, 2013, Dattiloscritto, anche per gli opportuni riferimenti bibliografici.
25
M. DELFINO, Spunti di riflessione sulla costituzionalizzazione a livello europeo del diritto all’informazione e alla
consultazione, AA.VV., Rappresentanza collettiva dei lavoratori e diritti di partecipazione alla gestione delle imprese,
Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro. Aidlass, Lecce 27-28 maggio 2005, Milano, 2006, 341 ss.
4
membri sulla tematica in esame26.
Il passaggio descritto si può nuovamente apprezzare su un piano linguistico: proprio come in
tedesco si distingue nettamente tra “mit-bestimmen” (“codecidere”), e “mitwirken” (“collaborare” o
“prendere parte”27), nelle Carte europee, una volta scartata l’idea iniziale di estendere il modello
partecipativo “forte” in tutto lo spazio giuridico europeo, ci si è infatti ben guardati dal sancire il
diritto dei lavoratori di “partecipare”, peraltro riconosciuto dallo stesso “Legislatore” europeo nella
Direttiva sul coinvolgimento dei lavoratori nella Società Europea (2001/86/CE) 28, in funzione,
tuttavia, sostanzialmente difensiva e non acquisitiva29.
Ebbene, sempre nella materia de qua, una modifica semantica, impercettibile agli occhi di un
osservatore superficiale, ha caratterizzato, in altri tempi, l’iter di discussione dell’art. 46 della
Costituzione e, forse ancor di più, la sua successiva, imperfetta evoluzione, fornendo interessanti
argomenti per la discussione odierna.
3. Il paradigma costituzionale “partecipativo”, anzi, “collaborativo”: l’art. 46 e la sua
(in)attuazione
Come noto, nella nostra Carta costituzionale da sempre campeggia una disposizione, l’articolo
46, che riconosce “il diritto” dei lavoratori di “collaborare…alla gestione delle imprese”.
Va sin da subito ricordato che tale norma, frutto di un “laborioso”30 compromesso tra le
componenti politiche dell’Assemblea costituente31, ebbe come base di partenza la coeva esperienza
dei menzionati consigli di gestione32.
Ed infatti, al termine dei lavori della III Sottocommissione della Costituente, nonostante la
diversità di vedute in tema tra i partiti rappresentati 33, si era giunti alla formulazione di una
26
A. ALAIMO, Il coinvolgimento dei lavoratori nell’impresa: informazione, consultazione e partecipazione, G. AJANI,
G.A. BENACCHIO (diretto da), Trattato di Diritto Privato dell’Unione Europea, vol. 5, B. CARUSO, S. SCIARRA (a cura di), Il
Lavoro subordinato, Torino, 2009, 641 ss.
27
M. PEDRAZZOLI, La <vera> partecipazione e l’art. 46 Cost., in AA.VV., Rappresentanza collettiva dei lavoratori e
diritti di partecipazione alla gestione delle imprese, cit., 251-253.
28
Cfr. art. 2, lett. k) Dir. 2001/86/CE.
29
La disciplina europea sul coinvolgimento dei lavoratori nella SE sembra avere scopo di evitare la possibile “fuga” da
parte di imprese sottoposte ad obblighi di partecipazione “forte” (negli organi societari) in base al diritto nazionale,
mediante una negoziazione “al ribasso” al momento della costituzione della SE, e non già di promuovere la diffusione
della partecipazione dei lavoratori agli organi societari nell’ambito del nuovo soggetto societario: M. CORTI, Il caso
della società europea. La via italiana alla partecipazione di fronte alle sfide europee. Commentario al d.lgs. 19 agosto
2005, n. 188, NLCC, 2006, 6, 1393 ss.; A. PIZZOFERRATO, La fine annunciata del modello partecipativo nello statuto della
società europea, RIDL, 2004, I, 35 ss.
30
G. DAVOLI, Problemi attuativi dell’art. 46 della Costituzione, Milano, 1990, 35.
31
G. BAGLIONI, Economia, lavoro e partecipazione. Introduzione, IPL, 1999, 3-4, 111-112.
32
E. PAPARELLA, sub Art. 46, in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino,
2006, I, 932; M.J. BONELL, voce Partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese (Diritto Commerciale), EGT,
XXII, 1990, 2.
33
A. ROBBIATI, Il dibattito costituzionale dai Consigli di Gestione all’art. 46, IPL, 1999, 3-4, 183 e 186.
5
disposizione che garantiva “il diritto dei lavoratori di partecipare alla gestione delle aziende ove
prestano la loro opera”: per quanto sbrigativa34, tale formula rendeva tuttavia evidente come
l’aspetto relativo al ruolo dei lavoratori nella gestione, proprio degli esperimenti del tempo, avesse
fortemente influito nella stesura di un testo che contemplava proprio il diritto dei lavoratori di
“partecipare”, si ribadisce, alla “gestione” dell’impresa. E non altrimenti.
Non a caso, la tematica della partecipazione agli utili, come pure alla proprietà, evocata nel
corso del dibattito dalla componente democristiana 35, venne allora espressamente giudicata “non
rientrante nell’ordine del giorno” nell’ambito della discussione sull’art. 46, proprio perché estranea
a quelle forme di “partecipazione” che avevano indotto il Costituente ad occuparsi del tema36.
Altrettanto rilevante è il fatto che, stante la varietà delle forme partecipative (alla “gestione”),
già nel primo testo dell’art. 46 Cost. il diritto dei lavoratori fosse stato sottoposto ad una riserva di
legge, sulla scorta di un emendamento che, nel dare atto dell’impossibilità di “prevedere gli sviluppi
futuri della vita delle aziende”37, ha anticipato (e, forse, condizionato) i futuri esiti della norma.
Una volta giunto all’esame dell’Assemblea plenaria, ove i rapporti tra i partiti nel mentre si
erano esacerbati a seguito della rottura della c.d. “coalizione tripartita”, il testo dell’art. 46 ha
subìto, per effetto di un emendamento democristiano38, la decisiva modifica (rectius, metamorfosi),
che ha trasformato il “diritto dei lavoratori di partecipare…” nel “diritto di collaborare alla
gestione dell’impresa”.
Il passaggio al termine “collaborazione”39, implicando l’adozione di una versione più “ampia
ed indeterminata”40 di “partecipazione”, ha relegato la disposizione ad un – più innocuo – ruolo di
generale auspicio, tendente ad “un’economia non incentrata sull’impresa come teatro di scontro tra
capitale e lavoro”41, nel cui ambito il – latamente inteso – coinvolgimento della forza lavoro nella
34
G. GHEZZI, op.ult.cit., 99.
Discorso on. Fanfani 4.10.1946, in Confederazione Generale dell’Industria Italiana, I consigli di gestione. Esperienze
e documenti sulla partecipazione dei lavoratori alla vita delle aziende nell’ultimo trentennio, Roma, 1946, I, 254-257.
36
Discorso on. Corbi 4.10.1946 in Confederazione Generale dell’Industria Italiana, I consigli di gestione…, cit., 258-9.
37
Relazione on. Pesenti, seduta dell’11.10.1946, in Confederazione Generale dell’Industria Italiana, I consigli di
gestione…, cit., 264-5.
38
AA.VV., La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Roma, 1970, 1743.
39
Si tratterebbe non a caso, secondo E. PAPARELLA, op.cit., 935, dello stesso termine che designa ciò che per il lavoratore,
individualmente inteso, è oggetto di un obbligo (2094 c.c.).
40
T. TREU, La partecipazione dei lavoratori alla economia delle imprese, cit., 787; similmente, A. VIMERCATI, B.
VENEZIANI, La partecipazione in Europa tra Costituzione, Legge e Contrattazione Collettiva, IPL, 1999, 3-4, 285-286.
41
L. ZOPPOLI, Rappresentanza dei lavoratori.., cit., 386; similmente, già L. MENGONI, Introduzione al Titolo I, U.
PROSPERETTI (diretto da), Commentario allo Statuto dei Lavoratori, I, Milano, 1975, 30.
35
6
gestione si sarebbe dovuto svolgere in “armonia con le esigenze della produzione”42, senza alcuna
alterazione della gerarchia, basata sull’unità di comando43, già tracciata dal legislatore corporativo44.
Tale agognata “armonia” non durò tuttavia molto, se si pensa che, già nel periodo
immediatamente successivo all’entrata in vigore della Costituzione, la rottura dell’equilibrio tra le
forze politiche e sociali segnò l’inizio dell’arroccamento del sindacato su posizioni di
conflittualità45, orientate ad ottenere migliori condizioni di lavoro per mezzo di strumenti
rivendicativi finalizzati alla contrattazione collettiva46, e non più, dunque, a sviluppare meccanismi
di collaborazione congiunti.
La medesima volontà di escludere quest’ultima prospettiva caratterizzò, specularmente, la
controparte industriale47, che mostrò sin da allora, pur con qualche significativa eccezione48, una
forte contrarietà, per alcuni versi mai sopita, all’idea di una partecipazione dei lavoratori (e,
soprattutto, dei sindacati), non tanto e non solo alla vita economica e politica del Paese 49, quanto
all’interno della singola impresa.
In ogni caso, a prescindere dall’individuazione del “colpevole” della prematura fine del
paradigma cooperativo, la conseguenza di queste vicende fu l’emersione di un modello,
successivamente consacrato nello Statuto dei Lavoratori, efficacemente definito di “partecipazione
conflittuale”50.
Per mezzo della contrattazione collettiva, indirettamente sostenuta dallo Statuto e rafforzata
dal diritto costituzionale di sciopero si sarebbe così trovata una “via italiana” alla democrazia
industriale51, ovvero alla partecipazione alla gestione 52, in grado di consentire, in modo alternativo
42
Di uno “status activae civitatis” del lavoratore, per effetto del suo ruolo di “collaboratore” nell’attività di gestione
dell’impresa nell’ottica dell’art. 46 Cost., parla R. FERRUCCI, voce Consiglio di gestione, ED, IX, 1961, 222-223; rispetto
al ruolo sociale dei lavoratori come cittadini, A. VALLEBONA, Considerazioni generali in tema di partecipazione dei
lavoratori alla gestione delle imprese, DL, 1977, I, 206.
43
A. ROBBIATI, op.cit., 189.
44
G. GHEZZI, La partecipazione…, cit., 123-4; F. CARINCI, La partecipazione dei lavoratori alla gestione: la via italiana,
cit., 204.
45
S. MUSSO, Storia del lavoro in Italia dall’Unità a oggi, 2a ed., Venezia, 2011, 202-203.
46
V. FERRANTE, Postfazione. Dal d.lgs. n. 25/07 alla riforma del lavoro del 28 giugno 2012, M. NAPOLI (a cura di),
Informazione e consultazione dei lavoratori: dal d.lgs. n. 25/2007 alla riforma "Fornero" del giugno 2012, Padova,
2012, 222.
47
M. MAGNANI, La partecipazione cinquanta anni dopo: un commento alla Costituzione, IPL, 2002, 9, 379.
48
Si pensi, ad esempio, alla vicenda del Consiglio di Gestione della Olivetti di Ivrea (S. MUSSO, La partecipazione
nell’impresa responsabile. Storia del Consiglio di gestione Olivetti, Bologna, 2009), rimasto attivo sino al 1971.
49
Allora, anche a fronte delle nuove prospettive del piano Marshall: R. COMINOTTI, L’esperienza dei Consigli di
Gestione, G. LA GANGA (a cura di), Socialismo e democrazia economica. Il ruolo dell’impresa e del sindacato, Milano,
1977, 83-84.
50
L. MENGONI, I limiti al potere dell’imprenditore: confronto tra il modello dello Statuto dei lavoratori ed il modello
dell’art. 46 cost., AA.VV., La posizione dei lavoratori nell’impresa, Milano, 1977, 145 ss.
51
G. LEOTTA, voce Partecipazione…, cit., 578.
52
F. CARINCI, La partecipazione dei lavoratori alla gestione: la via italiana, cit., 206.
7
e, secondo alcuni, addirittura più “appagante”53, una “co-determinazione” delle scelte – anche –
all’interno dell’impresa54.
In sostanza, ciò che altrove sarebbe stato realizzato mediante l’introduzione di forme di
regolazione concordata del potere imprenditoriale sulla base di un preciso schema legale, sarebbe
stato invece affidato al “controllo sindacale”, mediante un “continuum negoziale-rivendicativo”55
che per lungo tempo ha caratterizzato ogni livello delle relazioni industriali (e politiche56) italiane.
Con tale modello e, soprattutto, con la sua origine storica, ci si deve tutt’ora confrontare, a
nostro avviso, nel valutare ogni prospettiva partecipativa de iure condendo: ma ciò non è possibile
senza un riferimento al conflitto e alla particolare regolamentazione, o assenza di regolamentazione,
dello stesso nel sistema nazionale.
4. Il conflitto sindacale nell’ordinamento costituzionale: lo sciopero come fatto giuridico
L'art. 40 Cost. riconosce il diritto di sciopero e ne ammette l'esercizio nell'ambito delle leggi
che lo regolano.
Anche il testo dell'art. 40 Cost. ha una genesi piuttosto complessa. Se la sottocommissione I
dell'Assemblea costituente propose di non dedicare alcuna disposizione allo sciopero, la
sottocommissione III propose, invece, un testo ampio in cui il diritto di sciopero era riconosciuto a
tutti i lavoratori e in cui si poneva una riserva di legge rinforzata per contenuto. La commissione dei
settantacinque adottò la proposta della sottocommissione III e la sottopose al dibattito
dell'Assemblea plenaria. In tale sede, sempre a causa dei rapporti sempre più tesi fra le forze
politiche, il testo proposto venne letteralmente “bombardato” da emendamenti di ogni tipo. Per
uscire dall'impasse si propose il testo ellittico oggi in vigore, che riprende esattamente quello
previsto nel preambolo della Costituzione francese del 1946 (e presente con la stessa formulazione
nella Costituzione francese attuale, promulgata nel 1958)57.
La presenza di una riserva di legge aveva indotto in passato alcuni giuristi, un po' reticenti
rispetto alle radicali novità che la Carta costituzionale stabiliva, a concedere solo un valore
53
G. GIUGNI, Impresa e Sindacato, G. LA GANGA (a cura di), Socialismo e democrazia economica…, cit., 17. È stato,
infatti, messo in luce dallo stesso A. che, se nella cogestione “il sindacato ha acquisito il controllo dell’area sociale, ma
ha lasciato mano libera alla controparte in tutti gli altri campi di azione”, nel momento in cui il sindacato italiano
“chiede ed ottiene i diritti di informazione sugli investimenti, è già oltre questa Yalta dell’industria” chiamata
“cogestione” (G. GIUGNI, Ancora una nota sulla democrazia industriale, Pol.Dir., 1976, II, 153).
54
G. GHEZZI, sub Art. 46…, cit., 120 ss.; nello stesso senso, M. D’ANTONA voce Partecipazione…, cit., 16; U. ROMAGNOLI,
Il lavoro in Italia. Un giurista racconta, Bologna, 1995, 244, in termini di “escalation nei diritti del sindacato, non solo
nell’impresa, ma anche sull’impresa”.
55
M. PEDRAZZOLI, voce Democrazia Industriale, cit., 252.
56
S. SCIARRA, Il caso italiano, Ead. (a cura di), Democrazia politica e democrazia industriale, cit., 58.
57
Sulle vicende della fase costituente relative allo sciopero, cfr. le insuperate pagine di G. PERA, Problemi costituzionali
del diritto sindacale italiano, Milano, Feltrinelli, 1960, 155 ss.
8
programmatico all'art. 40 Cost.58, alla stregua di norma ad applicazione differita59. Si diceva, in
sostanza, che, per una effettiva attuazione del diritto e dunque per un esercizio legittimo, era
necessaria l'emanazione della legge cui il Costituente rinviava. Queste teorie, tese chiaramente a
minimizzare i riconoscimenti più innovativi e “democratici” della Costituzione del 1948, sono state
superate da quanti riconobbero che “la mancanza di leggi limitatrici vuol dire soltanto che i limiti
non ci sono e che quindi il diritto può come tale esercitarsi senza limiti per tutti i rapporti di lavoro
e per tutte le categorie di lavoratori”60.
Oggi, l'orientamento secondo cui i diritti previsti dalla Costituzione esplicano subito il loro
valore giuridico e la loro efficacia normativa, anche in termini di principio, senza alcun differimento
al momento dell'attuazione eventualmente prevista 61, non è solo un orientamento relativo al diritto
di sciopero, ma a tutti i diritti costituzionali, anche quando essi implicano un'attività di attuazione
del programma costituzionale per così dire “positiva” – cioè fondativa degli istituti attuativi – e non
solo “negativa” – cioè limitativa di un fenomeno reale riconosciuto.
Il conflitto sindacale ancora oggi, come fu a ridosso dell'emanazione della Costituzione, è
oggetto di svalutazione sul piano giuridico, perché ne vengono drammatizzati ed esaltati i tratti
conflittuali e gli effetti sul piano della realtà62.
Solo una lettura riduttiva di tale disposizione e, più in generale, una svalutazione del
significato delle regole e dei principi costituzionali, come fattori di interpretazione di istituti e
categorie dell'intero ordinamento giuridico63, possono indurre a disconoscere il ruolo che assume la
costituzionalizzazione del diritto di sciopero in un discorso interpretativo relativo al rapporto fra
conflitto e partecipazione.
In effetti la svalutazione si manifesta, oggi, laddove si consideri lo sciopero prima che come
valore
giuridico
quale
moneta
di
scambio
58
in
un'ottica
che
potremmo
definire
Sull'antico dibattito vedi il sunto di L. GAETA, Lo sciopero come diritto, M. D'ANTONA, (a cura di), Letture di diritto
sindacale, Napoli, 1990, 406.
59
V. SICA, Il diritto di sciopero nell'ordinamento costituzionale italiano, RDP, 1950.
60
P. CALAMANDREI, Significato costituzionale del diritto di sciopero, RGL, 1952, 221.
61
Sulla artificiosa e superata distinzione fra norme costituzionali precettive e programmatiche, C. SMURAGLIA, Il lavoro
nella Costituzione, RGL, 2007, I, 425.
62
Nonostante il ricorso allo sciopero sia da qualche decennio in costante declino: alcune statistiche relative agli anni dal
1970 al 2002 si trovano in B. BRANDL, S. TRAXLER, Differenze e analogie nelle cause dei conflitti di lavoro, QRS, 2010,
18, altre in L. BORDOGNA, G. P. CELLA, Decline or Transformation? Change in Industrial Conflict and Its Challenge,
Transfer, 2002, 585.
63
Il presupposto metodologico dell’interpretazione alla luce dei principi costituzionali è spesso presente nei contributi
di NOGLER, fra cui L. NOGLER, La disciplina dei licenziamenti individuali nell’epoca del bilanciamento tra i «principi»
costituzionali, DLRI, 2007, 593 oppure ID., Rilettura giuslavoristica di problema e sistema nella controversia sul
metodo giuridico, Jus, 2012, 59.
9
contrattualista/efficientista64. Cioè quale variabile da valutare in quanto risorsa utile ad una
contrattazione collettiva che soddisfi meglio gli interessi dei lavoratori.
5. Il significato del riconoscimento del diritto di sciopero in un sistema che promuove
anche forme partecipative dei lavoratori
La suddetta visione riduttiva è criticabile perché esclude dai canali giuridici relativi ai
rapporti economico-produttivi, tutto ciò che non rientra nell'alternativa contratto/conflitto, che viene
intesa come alternativa reciprocamente esclusiva. Una lettura complessiva del sistema valoriale
relativo al rapporto capitale/lavoro nella Costituzione, invece, implica la necessità di fare convivere
con essa anche altri istituti alternativi esistenti: la partecipazione, ancorché sia poco sviluppata nel
nostro sistema, rappresenta quindi un principio che l'ordinamento non può respingere e che
l'interprete non può ignorare. Il suo riconoscimento produce conseguenze anche sull'interpretazione
della funzione del conflitto sindacale e del contratto collettivo.
In breve, il fatto che il Costituente non abbia accolto solo un canale di emancipazione dei
lavoratori può (o deve) produrre i suoi effetti sotto il profilo esegetico; questo è il nodo che può
essere sciolto solo con l'opera degli interpreti del diritto.
Il riconoscimento costituzionale del diritto di sciopero è, in prima istanza, un privilegio
riconosciuto ai singoli lavoratori subordinati e un'eccezione alle regole tradizionali del diritto
comune. Infatti, lo sciopero non è altro che l'astensione concertata dalla prestazione di lavoro per la
tutela dell'interesse collettivo che provoca, eccezionalmente appunto, non un inadempimento
contrattuale, ma una sospensione legittima del rapporto di lavoro individuale.
Tale definizione, però, non basta a cogliere tutti i significati del riconoscimento costituzionale
e tutte le conseguenze che esso comporta nel sistema giuridico statale e nella comprensione di altri
istituti e fenomeni riconosciuti a livello costituzionale – come la partecipazione (in senso lato), il
contratto collettivo (e la contrattazione collettiva) e il loro rapporto col conflitto sindacale65.
Possiamo affermare, sostenuti da autorevole ed eterogenea dottrina66, che lo sciopero è un
fenomeno sociale complesso, di natura individuale e collettiva insieme 67, che va colto non solo alla
64
Da ultimo L. CORAZZA, Il nuovo conflitto collettivo, Milano, 2012, passim, spec. 90. Per una critica all'atteggiamento
dei giuslavoristi poco inclini a ragionare secondo le logiche delle scienze economiche, R. DEL PUNTA, Escatologia breve
del diritto del lavoro, in LD, 2013, 37; per un esempio di esegesi attenta a considerare le conseguenze (criticabili) di una
prospettiva economico-efficientista nel diritto del lavoro, T. SACHS, La raison économique en droit du travail, Paris,
2013.
65
Una sintesi delle funzioni assegnabili al riconoscimento del diritto di sciopero si trova in U. ROMAGNOLI, Commento
all'art. 40, Comm B, 289.
66
Ex plurimis M. LUCIANI, Diritto di sciopero, forma di Stato e forma di governo, ADL, 1, 2009, O. ROSELLI, La
dimensione costituzionale dello sciopero: lo sciopero come indicatore delle trasformazioni costituzionali, Torino, 2005.
67
Per una ricognizione aggiornata del dibattito cfr. F. CARINCI, Il diritto di sciopero: la nouvelle vague all'assalto della
titolarità individuale, DLRI, 2009, 464.
10
luce dei rapporti interprivati, rispetto ai quali il suo ruolo è pacificamente derogatorio dei principi
comuni, ma anche con riguardo al sistema complessivo delle relazioni sindacali e della democrazia
industriale68, alla stessa forma di stato e di governo e al rapporto con altri diritti costituzionali
(compreso l'art. 46 Cost.). Non a caso, per rimarcare la centralità di tale riconoscimento si è detto
che “lo sciopero è il metro della democrazia”69 e che rappresenta “un canale alternativo di
espressione della volontà popolare”70 in una Repubblica fondata sul lavoro.
Per cogliere l'essenza del riconoscimento costituzionale dello sciopero è necessario darne una
lettura complessiva, sistematica. Anche su questo piano, come in tema di titolarità e di
qualificazione giuridica del diritto di sciopero, non v'è accordo in dottrina. Secondo l'orientamento
riduttivo, che abbiamo definito contrattualista/efficientista, lo sciopero si esercita in funzione della
stipula del contratto collettivo: sarebbe quindi uno strumento dell'attività contrattuale 71, più che
dell'attività sindacale tout court. In quest'ottica, l'unico nesso sistematico sarebbe fra l'art. 40 Cost. e
l'art. 39 Cost., inteso, quest'ultimo, quale riconoscimento della competenza dei sindacati (in senso
ampio) a regolare i rapporti di lavoro tramite contratti collettivi di diritto comune (art. 39, comma 1
Cost.) e contratti collettivi erga omnes (art. 39, seconda parte Cost.). Secondo un'altra teorica,
quella non riduttiva e oggi ancora maggioritaria72, il diritto di sciopero sarebbe invece in funzione
(anche) dell'art. 3 Cost., comma 2, cioè finalizzato a rendere effettiva l'eguaglianza fra i cittadini
essendo, esso, uno strumento di rimozione degli ostacoli che impediscono “l'effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica, sociale del Paese”73.
In base a questa seconda impostazione, che non esclude affatto il nesso fra l'art. 39 Cost. e
l'art. 40 Cost., ma che anzi ne precisa e orienta il significato 74, l'ordinamento riconoscerebbe in sé il
fenomeno sociologico del conflitto di interessi fra lavoratori subordinati e datori di lavoro, facendo
proprio lo strumento individuato, per prassi e consuetudine, dai lavoratori per conquistare migliori
condizioni di trattamento e intervenire sul conflitto di interessi 75, attraverso la pressione nei
68
M. PEDRAZZOLI, Democrazia industriale e subordinazione: poteri e fattispecie nel sistema giuridico del lavoro,
Milano, 1985.
69
L. PALADIN, Per una storia costituzionale dell'Italia repubblicana, Bologna, 2004.
70
G. GIUGNI, Diritto sindacale, Bari, 2010.
71
Ex plurimis P. TOSI, Contrattazione collettiva e controllo del conflitto, DLRI, 1988, 3, 450 e, meno recentemente, per
tutti, G. ARDAU, Sanzionabilità disciplinare dello sciopero illegittimo per violazione di patto espresso di pace sindacale,
RDL, 1964, I, 22, SCOTTO, Tregua sindacale e diritto di sciopero, MGL, 1971, 248.
72
G. GHEZZI, La responsabilità contrattuale delle associazioni sindacali, Milano, 1963, 115 e, più recentemente, M. V.
BALLESTRERO, G. DE SIMONE, Diritto del lavoro, Torino, 2012, 308.
73
Da ciò, in fondo, deriva la legittimità degli scioperi con finalità non strettamente contrattuali come lo sciopero di
solidarietà, politico-economico e politico in senso stretto (purché non eversivo).
74
Nel senso che se lo sciopero non è solo una funzione del contratto collettivo allora anche la funzione e la natura del
contratto collettivo ne può risentire, perché in tal caso si può escludere la funzione pacificatrice del contratto collettivo.
75
Gli stessi strumenti non sono garantiti, invece, ai datori di lavoro, proprio per limitare lo squilibrio di potere
contrattuale fra le parti.
11
confronti dei datori lavoro e di tutti gli altri agenti del mercato e delle istituzioni. Lo Stato, in questo
senso, rinuncerebbe al ruolo pacificatorio dei propri organi76, permettendo, entro i limiti previsti
dalla legge, ad un ente collettivo espressione di un interesse particolare ancorché non individuale, di
“farsi ragione da sé” attraverso la condotta di astensione dal lavoro dei suoi componenti, valutata
come benefica per il sistema, nonostante gli effetti pregiudizievoli sull'attività di impresa. Questi
ultimi, infatti, sono negativi nel breve termine e in via diretta, ma vengono compensati, nell'ottica
del costituente, sul medio-lungo termine da un beneficio per (e da un’efficacia indiretta sul) la
generalità degli attori del mercato produttivo77.
In un tale contesto, lo strumento dello sciopero, in funzione di reazione ad una condizione di
subalternità insita nel sistema economico, diventa strumento di interesse generale, funzionale ad
indirizzare i rapporti socio-economici (fra datori di lavoro e lavoratori) verso l'equilibrio ottimale
alla luce dei valori costituzionali. Un equilibrio sempre provvisorio a causa dei numerosi fattori
interni ed esterni, che incidono su di esso e che inducono le forze del lavoro a riprendere la lotta per
i propri diritti e/o interessi ove ne sia sentita l'esigenza e a prescindere dagli accordi stipulati in
condizioni che vengono liberamente ritenute superate78.
E' nei tentativi di lettura sistematica che può cogliersi non solo un significato completo del
diritto di sciopero ma anche dei suoi rapporti con il principio costituzionale della collaborazione dei
lavoratori alla gestione dell’impresa.
Lo sciopero, quindi, come fenomeno sociale in funzione dell'interesse collettivo dei
lavoratori, riconosciuto a livello costituzionale perché funzionale (anche) all'interesse generale e
agli scopi dell'ordinamento, induce a rileggere quest’ultimo e ad indagarne la natura come elemento
strutturale di qualcosa di più ampio, che, in qualche modo, lo comprende e che assume rilievo
costituzionale, anche per il suo tramite. Tale entità comprensiva, che possiamo chiamare
“ordinamento intersindacale” o, prescindendo da prospettive pluriordinamentali, “fattispecie
sindacale”, si dispiega anche nel (e tramite il) fenomeno reale dello sciopero.
A riprova di ciò stanno le dottrine che affrontano lo studio del fenomeno sindacale nella sua
interezza, le quali hanno sempre focalizzato l'attenzione, in maniera più o meno ampia ed esplicita,
sul ruolo e sul significato dello sciopero e sul suo riconoscimento in Costituzione79.
76
G. VARDARO, Contrattazione collettiva e sistema giuridico, Napoli, 1984, 34.
Non a caso la giurisprudenza ha individuato nel danno alla “produttività” dell'impresa, un limite di legittimità dello
sciopero (cfr. la nota Cass. 30 gennaio 1980, n. 711).
78
R. SCOGNAMIGLIO, La disciplina negoziale del diritto di sciopero, RIDL, 1972, 363.
79
Fra gli altri G. VARDARO, Contrattazione collettiva e sistema giuridico, cit., S. LIEBMAN, Contributo allo studio della
contrattazione collettiva nell'ordinamento giuridico italiano, Milano, 1986, F. SCARPELLI, Lavoratore subordinato e
autotutela collettiva, Milano, 1993, R. FLAMMIA, Contributo all'analisi dei sindacati di fatto, Milano, 1963, M.
PEDRAZZOLI, Democrazia industriale e subordinazione: poteri e fattispecie nel sistema giuridico del lavoro, cit.
77
12
Emerge una generalizzata considerazione dello sciopero quale elemento strutturalmente
(GIUGNI) e/o funzionalmente (FLAMMIA-SCARPELLI) essenziale del fenomeno sindacale tout court e, più
in generale, dell'assetto giuridico-statale dei rapporti economico-sociali. E il riconoscimento
previsto dall'art. 40 Cost. implicherebbe un assorbimento di questa realtà nell'ordinamento giuridico
ovvero, per dirla con VARDARO, una specie di “razionalizzazione formale” di un processo dinamico
reale non esattamente integrabile nel sistema statale secondo le tradizionali categorie giuridiche (in
particolare del diritto privato)80.
In sintesi, la nostra Costituzione “del lavoro” (o economica), tramite il riconoscimento del
diritto di sciopero accoglierebbe, non solo il contratto collettivo (art. 39, comma 1 Cost.) come
momento e forma di accordo fra le parti in conflitto di interessi (il c.d. voluto della ricostruzione di
VARDARO), ma soprattutto l'espressione della lotta sindacale nelle forme individuate liberamente
dalle forze del lavoro (il c.d. volere di VARDARO). Lo Stato prevede l'intervento razionalizzatore (cioè
di giuridificazione del reale), non tanto sul piano della disciplina della fase programmatoria del
procedimento contrattuale (l'art. 39, seconda parte Cost., infatti, non è nemmeno stato attuato),
quanto su quello della disciplina della fase gestionale-sanzionatoria, cioè della regolazione della c.d.
autotutela.
In questa ottica, lo sciopero è dunque un fenomeno elevato a diritto costituzionale, perché è
ritenuto essenziale allo svolgimento della libertà sindacale, la quale necessita di non essere
imbrigliata in meccanismi restrittivi ma di svolgersi in libertà (principio di effettività), e perché
rappresenta un cardine centrale dei rapporti socio-economici. Per questo esso si esercita
nell'interesse individuale, collettivo ma anche, seppur indirettamente, nell'interesse generale.
La prospettiva conflittuale finalizzata all'emancipazione dei lavoratori, come visto sopra, non
è l'unica accolta dal Costituente. Anche l'art. 46 Cost., infatti, è sempre stato interpretato come una
norma fondata sull'art. 3 comma 2 Cost. 81, rappresentando una species della libertà sindacale82
proprio come quest'ultima rappresenta l'involucro entro cui si sviluppa lo sciopero.
Il conflitto, dunque, in posizione paritaria con la contrattazione collettiva, e con cui realizza
uno dei canali di comunicazione delle relazioni industriali, può essere inteso come strumento della
libertà sindacale affine in quanto a finalità, funzioni e ruolo costituzionale al principio e agli istituti
della partecipazione (intesa come partecipazione effettiva alle decisioni dell’impresa e non come
mero diritto all’informazione e consultazione). Non a caso è stato detto che “i sistemi più
conflittuali o, per meglio dire più generosi verso la possibilità di indire azioni di astensione
80
G. VARDARO, Contrattazione collettiva e sistema giuridico, cit., 1 ss.
G. GHEZZI, Art. 46 Cost., Com. B, 1980, cit.; M. D'ANTONA, Partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese,
EGT, vol. XXII, 1990, 2.
82
M. PEDRAZZOLI, voce Democrazia industriale, Dig. IV ed. - sez. comm., 1989, 241.
81
13
collettiva dal lavoro, sono anche quelli in cui sono assenti meccanismi partecipativi (…) sono
evidentemente sistemi in cui il lavoratore recupera, attraverso lo sciopero, margini di
partecipazione che sarebbero altrimenti inesistenti perché non sono sostenuti dal legislatore o dalle
parti sociali”83.
Ebbene, se è vero che con lo sciopero il lavoratore soddisfa una esigenza di partecipazione
(in senso lato), de jure condendo possiamo legittimamente supporre che promuovendo meglio e con
più decisione gli istituti della partecipazione ex art. 46 Cost., le stesse dinamiche del conflitto
sindacale e dell'esercizio del diritto di sciopero potranno assumere caratteristiche e intensità diverse
e, per così dire, più equilibrate. L'attuazione dell'art. 46 Cost., quindi, oltre a rappresentare la
(dovuta) realizzazione di un principio costituzionale, può produrre effetti benefici ad un sistema
sbilanciato sul versante del conflitto. Da ciò deriva una maggior convenienza ed opportunità ad
operare sul piano degli strumenti collaborativi, piuttosto che su quello della limitazione
dell'esercizio del diritto di sciopero. Le recenti ipotesi, non realizzate, di intervento limitativo del
conflitto attraverso la legge, i nuovi casi di stipulazione di clausole di tregua sindacale, la
reviviscenza di teorie sulla titolarità collettiva del diritto di sciopero (anche nella versione della
titolarità c.d. congiunta), implicano tutte una tensione con i valori costituzionali su cui intervengono
e dunque aprono ad un dibattito spesso polemico e ideologicamente orientato. Ben altre sarebbero le
reazioni della dottrina e delle parti sociali se si tentasse di risolvere il problema della conflittualità e
del rispetto dei patti (nella nuova versione della esigibilità), non imbrigliando un fenomeno
garantito nella sua effettiva espressione, ma realizzando gli altri strumenti appositamente previsti
per favorire una dinamica di democrazia industriale democratica e matura.
6. Conclusioni
Sulla base di quanto si è detto sopra possiamo ritenere che l'art. 40 e l'art. 46 Cost. siano parte
integrante ed essenziale della nostra “Costituzione economica”, in posizione di pari dignità
giuridica. Si tratta in entrambi i casi di diritti, i quali hanno ad oggetto fenomeni che si realizzano
sempre in una dimensione collettiva che è però, in un caso, necessariamente congiunta (art. 46
Cost.), nell'altro, solo unilaterale (art. 40 Cost.) 84. Ciò implica che il loro grado di “inveramento” nel
sistema giuridico non sia o possa non essere analogo.
83
L. NOGLER, La titolarità congiunta del diritto di sciopero, L. CORAZZA, R. ROMEI (a cura di), Diritto del lavoro in
trasformazione, Bologna, 2013, in corso di pubblicazione.
84
Allo sciopero, infatti, corrisponde una diversa forma di reazione conflittuale datoriale che è la serrata, la quale è stata
consapevolmente espunta dal novero dei diritti costituzionali.
14
Il conflitto, infatti, è un fenomeno ontologicamente libero in quanto consiste in una condotta
individuale e collettiva di parte nel contesto delle relazioni industriali in quanto, sotto il profilo
escatologico, rappresenta il riconoscimento di un fenomeno reale.
E' per questa forte inerenza alla realtà che l'art. 40 Cost. è stato considerato, ben prima di altri,
una disposizione immediatamente precettiva, nonostante la mancanza di una legge attuativa della
riserva di legge (salvo, come è noto, che per la l. n. 146/1990), mentre l'art. 46 Cost. è ancor oggi
considerato una norma programmatica e mai pienamente realizzata.
Il conflitto è “soltanto” riconosciuto dall'ordinamento, e attraverso il riconoscimento è
automaticamente limitato in funzione dell'interesse generale (attraverso il bilanciamento con gli altri
principi costituzionali85) e può essere oggetto di un intervento legislativo di contenuto negativo86; la
partecipazione, o collaborazione, è stata invece una precisa opzione politica del costituente lasciata
– volutamente – “aperta”, da realizzare e promuovere attraverso un'azione del legislatore di
contenuto “positivo”, affinché la prassi delle relazioni industriali ne assorba la filosofia rendendola
un fenomeno – in primis culturalmente – accettato.
A nostro avviso, sia la partecipazione sia il conflitto possono costituire strumenti idonei alla
democratizzazione delle decisioni all’interno dell’impresa ed allo sviluppo di relazioni industriali
mature, tanto in una prospettiva di valorizzazione dell’interesse della produzione e/o della
produttività aziendale, quanto degli interessi dei lavoratori ad un lavoro dignitoso e stabile. Che a
tale esigenza sia stata storicamente orientata la partecipazione emerge dalla celebre decisione della
Corte costituzionale tedesca del 1.3.197987, vero e proprio manifesto “universale” della
partecipazione, ove questa sembra porsi come una scelta, in primis, politica e sociale88:
“l’ordinamento e la pacificazione del mondo del lavoro previsto dall’art. 9, par. 3 GG possono
essere perseguiti, non solo attraverso quelle forme che, come la contrattazione collettiva, sono
caratterizzate dalla contrapposizione degli interessi, dalla lotta e dal conflitto, ma anche mediante
quelle che pongono in primo piano la volontà comune di collaborazione, pur non escludendo i
conflitti e le loro conseguenze”.
Per svolgere una funzione comune, però, è necessario che sciopero e partecipazione
convivano in un equilibrio armonioso.
Il conflitto sindacale non può trasformarsi in un fenomeno di disordine, perché entrerebbe in
85
Cfr. la nota Cass. 711/1980 sul limite posto allo sciopero attraverso la nozione di danno alla produttività.
G. PROIA, La partecipazione dei lavoratori tra realtà e prospettive. Analisi della normativa interna, DRI, 2010, 64.
87
BVerfG 1.3.1979, Betriebs-Berater, 1979, 2: per un commento, M. PEDRAZZOLI, Codeterminazione nell’impresa e
costituzione economica nella Repubblica federale tedesca, Foro It., 1981, IV, 70, con ampi e puntuali riferimenti ai
commenti della dottrina tedesca alla sentenza in parola.
88
S.L. WILLBORN, Industrial Democracy and the National Labor Relations Act: A preliminary Inquiry, B.C.L. Rev.,
1984, 25, 727.
86
15
tensione con lo stesso articolo 41 Cost.; la partecipazione, d'altra parte, non può risolversi né in
procedure che solo fittiziamente avvicinino i lavoratori ad un’effettiva voice sulle decisioni inerenti
le attività e la vita delle imprese, né, tantomeno, in forme di autogestione o collettivizzazione
estranee ai valori dell’impresa privata nel contesto attuale, nazionale ed europeo.
A nostro avviso, la partecipazione ed il conflitto, in quanto strumenti volti ad una maggiore
democratizzazione delle decisioni all’interno dell’impresa, non sono fra loro incompatibili, e ciò si
può ben comprendere dall’esame dello stesso sistema tedesco, dai più – e non senza fondamento –
considerato l’esempio partecipativo “per eccellenza”.
In Germania, infatti, la partecipazione è bilanciata da una viva dialettica, interna all’impresa
ed agli organi societari, che può assumere i caratteri del conflitto aperto, limitato ma mai assente, e
che, anzi, è attualmente acuita dal processo di adattamento dovuto al periodo di crisi economica
globale89.
Allo stesso modo, nel nostro sistema la tendenza al conflitto può essere bilanciata attraverso
nuovi e più pregnanti strumenti partecipativi.
Allora è solo la negazione del conflitto, sul piano culturale e giuridico, ad essere
incompatibile con i principi costituzionali. Proprio a partire dal riconoscimento del conflitto, infatti,
il nostro ordinamento giunge a tutelare e promuovere gli strumenti più idonei a risolverne e
superarne gli effetti patologici, lasciando al legislatore ordinario di scegliere l'equilibrio ottimale
nell'utilizzo di questi ultimi.
La pace (sociale) insomma è un’aspirazione nobile solo se costruita attraverso il
riconoscimento dei conflitti che permeano i rapporti umani e la predisposizione degli strumenti
(giuridici) adeguati ad attenuarne gli effetti negativi. Ove invece si pensi di cedere alla – solo
apparentemente – più facile strada della negazione dei conflitti sociali e dell'utilizzo di strumenti
(giuridici) che li inibiscono, si finirebbe solo per fare come i Romani che, secondo Calcago, capo
dei Caledoni, desertum fecerunt et pacem appellaverunt90.
89
Sul punto, T. HAIPETER, Comitati aziendali come agenti contrattuali. Le deroghe e lo sviluppo della codeterminazione
nell’industria chimica e metalmeccanica in Germania, DRI, 2012, 2, 336, che rileva come spesso le direzioni aziendali
propongano alle rappresentanze dei lavoratori accordi derogatori a livello aziendale “accompagnata da minacce
concrete, cariche di valenza simbolica”, come avvenuto durante un incontro con i lavoratori durante il quale i dirigenti
aziendali hanno mostrato le fotografie di un nuovo stabilimento in Polonia, per rendere la minaccia di delocalizzazione
ancor più realistica.
90
P. C. Tacito, De Agricola.
16