Divina Commedia. Paradiso
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Divina Commedia. Paradiso
LECTURA DANTIS dedicata a Mons. Giovanni Mesini “il prete di Dante” Divina Commedia. Paradiso letto e commentato da Padre ALBERTO CASALBONI dei Frati Minori Cappuccini di Ravenna Canto I Protasi e invocazione. Dante e Beatrice ascendono dal paradiso terrestre al Cielo. “Trasumanar”. I dubbi di Dante. L’ordine dell’universo. Questo primo canto è un compendio della filosofia e della teologia della Scolastica: l’incipit, “la gloria di colui che tutto move”; dice dello splendore della perfezione di Dio in quanto si esplica fuori di Sé, e si manifesta nell’universo creato, effetto di una Causa movente, motore immobile: tutto il creato, reale o possibile, nella sua varia perfezione, è un diverso riflesso della perfezione divina. Dio è l’essere necessario, mentre l’universo, spiriti celesti compresi, sono il contingente, ossia che possono esserci come non esserci, come i futuribili, tanto in passato, quanto al presente o in futuro. A comprendere tutto questo concorrono tre forme di conoscenza. L’umano intelletto non può concepire l’Ente Necessario; lo affermiamo solo perché il contingente, gli esseri di cui abbiamo esperienza e conoscenza, rimanda al Necessario: è postulato dal nostro modo di conoscere, dall’effetto risalire alla causa, per causas, dicono gli scolastici, ossia per ragionamento. In questo canto Dante ci presenta anche gli altri due modi del conoscere: per rivelazione, tramite le Sacre scritture: prerogativa dei credenti su questa terra; infine la visio, prerogativa di chi abita il Paradiso: e questo è l’oggetto della cantica: “nel ciel che più de la sua luce prende/ fu’io”, e dunque Dante è stato lassù, nell’Empireo, ricettacolo e sede della più elevata perfezione: Dio Uno e Trino, Dio Incarnato, la Vergine, gli angeli e i beati; “vidi cose che ridire/ né sa né può chi di là sù discende”; la ragione dell’indicibile sta nel fatto che “appressando sé al suo disire,/ nostro intelletto si profonda tanto,/ che dietro la memoria non può ire”, la sola memoria, non è più in grado di ritenere e ripetere quello che la visio, unicamente per grazia, ha contemplato. E tuttavia “quant’io del regno santo/ ne la mia mente potei far tesoro,/ sarà ora materia del mio canto”, ma anche solo per ridire quel tanto che può ricordare occorre che Dio lo ispiri; e, secondo i canoni della tradizione poetica, invoca Apollo, per consenso unanime, dio della poesia: “O buono Appollo, a l’ultimo lavoro/ fammi sì fatto vaso, come dimandi a dar l’amato alloro”. In sintesi, ci dice che per cantare dei due primi regni è stato sufficiente l’aiuto delle Muse, tradizionalmente abitatrici de “l’un giogo di Parnaso”, l’Elicona, ma ora ha bisogno dell’ispirazione dello stesso Apollo, abitatore dell’altro giogo, il Cirra; di quell’Apollo che accolse e vinse la sfida del satiro Marsia che, per aver perso, si trovò scuoiato da cima a fondo. Ebbene, anche se solo “l’ombra del beato regno/ segnata nel mio capo io manifesti” certamente coglierà l’alloro poetico, quello che arride solo a pochi “colpa e vergogna de l’umane voglie”: “sì rade volte, padre, se ne coglie/ per trïunfare o cesare o poeta”. Tempi infami per i poeti, ma anche per gli imperatori; ma chissà che il suo esempio non sproni e invogli anche altri alla serietà della poesia, sì da rendere lieta la “delfica deïtà”: talvolta “poca favilla gran fiamma seconda”. Dopo la protasi e l’invocazione, come di consuetudine, ecco la ripresa della trama donde l’aveva lasciata, là, in cima al paradiso terrestre, al termine della seconda cantica. Il momento dell’anno è dei più propizi, primavera, quando i tre cerchi, coluro equinoziale, equatore celeste ed eclittica, incontrandosi con il cerchio dell’orizzonte, formano tre croci; l’ora è quella mattutina “fatto avea di là mane e di qua sera”, “quando Beatrice in sul sinistro fianco/ vidi rivolta e riguardar nel sole” come aquila capace di fissare il sole. Dante, a sua volta, solo guardando negli occhi di Beatrice, sente rinvigorita la propria forza visiva, “e fissi li occhi al sole oltre nostr’uso”. Per rendere l’idea del suo sguardo ricorre all’idea del raggio riflesso e all’immagine del “falco pellegrino” che si cala sulla preda, o, secondo altri, al desiderio forte del pellegrino di ritornare in patria. E, comunque, la capacità di fissare il sole gli deriva “mercé del loco/ fatto per proprio de l’umana spece”; il luogo dove si trova Dante è appunto è il paradiso terrestre che sembra restituirgli le originarie doti umane. Tuttavia, precisa ancora il Poeta, “io nol soffersi molto, né sì poco,/ ch’io nol vedessi sfavillar dintorno/ com’ ferro che bogliente esce del foco”. Il fulgore celeste è tale che lì appare come “giorno a giorno/ esser aggiunto”, come se a risplendere ci fossero due soli. Beatrice fissa “l’etterne rote” e “io in lei/ le luci fissi, di là sù rimote”. Questo intenso e prolungato sguardo genera in Dante un “trasumanar”, uno stato che “significar per verba/ non si porìa”, e solo a chi per grazia sarà riservata tale esperienza potrà intenderla appieno; se ne può solo dare un’immagine, quella del mitico Glauco, il pastore della Beozia che, avendo anch’egli gustato di quell’erba che ridava vita ai pesci, divenne “consorto in mar de li altri dèi”, divinità del mare. “S’i’ era sol di me quel che creasti/ novellamente, amor che ‘l ciel governi,/ tu ‘l sai, che col tuo lume mi levasti”, esclama il Poeta, rifacendosi all’esperienza di S. Paolo, rapito al terzo cielo, e non sa dire se anch’egli sia stato rapito con il corpo o solo con l’anima che viene creata novellamente, dopo che il corpo compaginato è adatto ad accoglierla. Bene, così trasformato, Dante osserva come il ruotare dei cieli generi un’armonia divina in un lago di luce: come di passaggio, annota “la rota che tu sempiterni/ desiderato” a significare che il perenne ruotare dei cieli altro non è che l’effetto dello straordinario desiderio di queste sfere di ricongiungersi alla Causa del loro stesso moto. Di fronte a tale immensità nasce il desiderio di comprendere, “la novità del suono e ‘l grande lume/ di lor cagion m’accesero un disio/ mai non sentito di cotanto acume”. Prima che egli domandi, Beatrice lo previene: Dante non può comprendere perché ragiona come se ancora si trovasse sulla terra; qui ormai siamo nella sfera dei cieli, “folgore, fuggendo il proprio sito,/ non corse mai come tu ch’ad esso riedi”, insomma mai fulmine scese in terra partendosi dalla sfera del fuoco con velocità così elevata come quella che ci sta elevando alla patria celeste. Contento della risposta, un dubbio però sorge nella mente di Dante “ora ammiro/ com’io trascenda questi corpi levi”, sembra che Dante faccia apposta a non capire, “ond’ella, appresso d’un pïo sospiro,/ li occhi drizzò ver’me con quel sembiante/ che madre fa sovra figlio deliro”; in realtà la domanda e la conseguente risposta nulla hanno a che fare con un figlio deliro; danno occasione per esporre le teorie della filosofia scolastica: “Le cose tutte quante/ hanno ordine tra loro, e questo è forma/ che l’universo a Dio fa simigliante”. Il tema concerne l’ordine dell’Universo, secondo Tommaso una delle vie per risalire all’esistenza di Dio, ordinatore, causa dell’ordine dell’universo, a Dio simigliante: in questo ordine, “qui veggion l’alte creature l’orma/ de l’etterno valore, il quale è fine/ al quale è fatta la toccata norma”; se l’ordinatore è Dio, a valutarne “l’orma dell’alto valore” della perfezione divina, sono “l’alte creature”, gli angeli e gli uomini, dotati di intelligenza, per renderGli gloria. Precisa ancora Beatrice, “ne l’ordine ch’io dico sono accline/ tutte nature, per diverse sorti, più al principio loro e men vicine”, questo ordine, questa perfezione è di tutti gli esseri, ma non è allo stesso modo, c’è una scala di esseri, diversi in perfezione, dal più al meno complesso, “onde si muovono a diversi porti/ per lo gran mar de l’essere, e ciascuna/ con istinto a lei dato che la porti”. All’inizio si era detto di Dio Causa agente, ora Dante dice che Dio è anche Fine, causa finale cui tende ogni essere: proprio perché tale, ogni essere tende naturalmente a Dio, a suo modo “a diversi porti” in rapporto al “gran mar de l’essere”, mare come metafora dell’universo; ed esemplifica questo tendere a Dio proprio come il fuoco tende verso l’alto “inver’ la luna”; si tratta insomma della dottrina delle quattro cause, due esterne, Dio, agente e fine; due interne, materia e forma, il sinolo o causa materiale e causa formale, come dicono gli scolastici. Se dunque anche gli esseri inanimati tendono costantemente a Dio, e tutto tende verso l’immobile Empireo, nel quale si muove ogni altro cielo, e “lì, come a sito decreto, cen porta la virtù” divina, ben diversa deve essere la consapevolezza di questo tendere da parte degli esseri dotati di “intelletto e amore”; e tuttavia, angeli e uomini, essendo dotati di libero arbitrio, come spesso accade alla materia sorda alla virtù dell’artista, così essi hanno “podere/ di piegar... in altra parte”, “torto da falso piacere”; come del resto accade anche che il fulmine scenda anziché salire. Allora dunque “non dei più ammirar... lo tuo salir”, naturale ormai il salire, come naturale è che l’acqua d’un rivo “d’alto monte scende giuso ad imo”. Al contrario, ormai “maraviglia sarebbe in te se, privo/ d’mpedimento, giù ti fossi assiso,/ com’ a terra quïete in foco vivo”. Ecco il primo effetto del “trasumanar”, salire naturalmente, anziché scendere per forza di gravità. “Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso”, a significare che volgere lo sguardo verso il cielo è la forza motrice, veicolo per salire, per entrambi: lei con sguardo diretto, lui di riflesso.