I vecchi mestieri
Transcript
I vecchi mestieri
In collaborazione con laRegione 17a edizione NUMERI DEL PROGETTO 2015 76 istituti scolastici 2’698 studenti 122 insegnanti il Quotidiano in classe I vincitori del concorso di scrittura Allievi che negli ultimi 17 anni si sono confrontati con l’attività 35’000 Tornano voci e volti delle professioni del passato nei lavori dei giovani studenti I vecchi mestieri Nell’ambito del progetto didattico “il Quotidiano in classe”, giunto quest’anno alla diciassettesima edizione, è stato promosso un concorso di scrittura. Tema per le scuole medie del Ticino e le terze Secondarie del Grigioni di lingua italiana, “I vecchi mestieri”, alcuni scomparsi a causa del progresso tecnologico o cambiati radicalmente, altri praticati ancora oggi da bravi artigiani. Fra i tanti lavori inviati alla giuria composta dai professori Claudio Rossi, Giovanna Lepori e Clio Rossi ne sono stati scelti e premiati venti. La premiazione è avvenuta il 27 maggio, presso il ristorante Prisma a Bellinzona. La settimana scorsa ne abbiamo pubblicati sei. Di seguito altri cinque, i successivi nelle prossime settimane. “laRegione” e gli organizzatori ringraziano tutti i partecipanti e si complimentano con loro per la validità dei lavori presentati. L’appuntamento per una nuova edizione de “il Quotidiano in classe” è già fissato per la prossima primavera, con nuove schede di lavoro e un originale concorso a premi. dia dell’Arte, addestrati alla mimica, alla vocalità, alle acrobazie e soprattutto nelle battute, per lo più improvvisate. In questa fase anche la donna appare sul palcoscenico e si formano le prime compagnie vagabonde sui loro carri. Le attrici talvolta recitano le parti di ragazzi e bambini. La parte di Peter Pan, ad esempio, era tradizionalmente recitata da una donna. Gli attori impiegavano, come al giorno d’oggi, molto tempo con la preparazione e l’esperienza, ad esempio l’uso accurato della voce per comunicare le caratteristiche del personaggio ed esprimerne le emozioni. Questo risultato si ottiene con l’attenzione alla dizione e all’intonazione mediante una corretta respirazione e articolazione. L’assunzione di un aspetto coerente con il personaggio per renderlo credibile agli spettatori e per utilizzare in modo corretto e appropriato lo spazio scenico è molto importante; interagire con gli altri attori e enfatizzare le parole o dare loro significati simbolici, la creatività e l’aspirazione dell’attore possono essere stimolate da adeguati esercizi di rilassamento e di visualizzazione. La funzione di questi esercizi è principalmente quella di focalizzare l’attenzione cosciente sul lavoro creativo, disperdendo le frequenti tensioni legate a preoccupazioni di carattere personale o ad una più generale paura del pubblico e della prova in sé, cosa che secondo me dovremmo imparare a fare... Il contrabbando e la sua storia di Elisabeth Sterli, Scuola superiore, Poschiavo Vi siete mai chiesti come, e dove potessero recitare gli attori dell’antica Roma? Ebbene essi non erano chiamati proprio attori ma ludii o histriones e venivano reclutati tra gli schiavi e socialmente equivalevano agli infames. Già a quei tempi, il pubblico poteva dimostrare la sua disapprovazione per la recitazione, fischiando, e l’attore, in questo caso, era costretto ad umiliarsi al punto di togliersi la maschera. Nella tarda romanità, alcuni attori riuscirono a far parte dei liberti e ad ottenere un buon prestigio sociale. Gli attori più popolari furono Esopo e Roscio. Durante il Medioevo l’attore fu, per lo più, il sacerdote, che indossava abiti sacri parzialmente sciupati per consentirgli di calarsi nel personaggio. In questo periodo, durante le processioni e le feste, partecipavano anche cittadini nel ruolo di attori-dilettanti e talvolta queste persone cercarono fortuna con l’attività di comico professionista, che si esibiva, non in uno studio specializzato con palcoscenico e altro ma bensì nelle bettole o nelle piazze. Se si pensa agli abiti che indossano oggi gli attori sono studiati nei minimi dettagli, mentre gli attori dell’antica Roma indossavano solamente una maschera. Essa era solitamente terrificante, bianca o scura. Verso la metà del Cinquecento apparvero i comici della Comme- Fabbro sopravvissuto all’invasione tecnologica di Davide Casella, Sm Bellinzona 1 No. Minimamente. La uso ma poco. Uso Internet quando è indispensabile, ma non sono un appassionato. Si ricorda la sua prima opera? Sì, era un personaggio di ferro battuto. Era un personaggio di storie, favole o cartoni animati? No, no. Era un personaggio di fantasia, ma una persona comunque. La conserva ancora? Sì. Ho fatto due statue lo stesso periodo ed erano tra le prime. Poi una serie di statue in ferro e legno. E dopo ho cominciato con le fusioni. Ci sono tante persone che vogliono acquistare le sue opere? Tante non direi, però ci sono delle persone che le apprezzano. Dunque, riassumendo, disinteressato dalla tecnologia, adora il suo lavoro e lavora molto volentieri... Sì, esatto... diciamo che ce n’è troppa di tecnologia, la tecnologia non ti permette di fare tutto, anzi; un lavoro artigianale secondo me è molto più soddisfacente perché ti permette di essere creativo e non dà limiti alla fantasia. La tecnologia non permette di sbizzarrirsi. nell’Associazione d’Artigiani del Ticino. Durante l’inverno, nel soggiorno scaldato dalla stufa a legna, si elabora il raccolto annuale. I capelli tosati, suddivisi per colore, vengono lavati, cardati, pettinati, filati, roccati e trasformati in morbidi filati. Una parte di essi, Verena la lavora a maglia, creando gilet, poncho, scaldapolsi e altro. La lana preparata alla vendita viene consegnata all’Associazione Artigiani bleniesi che si occupa del commercio. I loro prodotti si possono trovare anche ai mercatini di Natale a Biasca e Bellinzona. Verena e Felix hanno acquistato una macchina per la cardatura, assieme al lavaggio, soddisfano le persone interessate. Questo processo avviene ad Acquarossa durante il periodo invernale. Un’esperienza indimenticabile, con due sorrisi e grande calore mi hanno accolto e mostrato con passione il processo di lavorazione in una zona stupenda. Il chéifar Le Ande bleniesi Intervista a uno dei pochi fabbri superstiti a Bellinzona. Attori dell’antica Roma di Chiara Solari, Sm Acquarossa era molto più sicura per quanto riguardava i controlli, ma nascondeva tuttavia dei pericoli naturali non indifferenti e poteva essere percorsa una sola volta. Ogni bricolla portata al sicuro oltre il confine assicurava un guadagno di circa 7’000 lire, mentre ogni sacco perso lungo il tragitto equivaleva alla perdita di ben 35’000 lire… Il contrabbando, dopo aver vissuto il suo apice negli anni ’60, a causa della sempre minor convenienza creatasi con il cambio del franco sempre più forte nei confronti della lira, a metà degli anni ’70 è andato sempre più sciamando, ma la sua storia è ancora nelle menti delle popolazioni di confine... Quando si parla di contrabbando, vengono subito alla mente i sacchi di sigarette e di caffè che gli spalloni portavano dalla Svizzera in Italia, passando per i sentieri di confine. Questo “lavoro”, invece, inizia molto prima, nel dopoguerra, quando dall’Italia erano importati illegalmente copertoni di camion, uova, farina e riso verso la Svizzera. In queste righe rievoco la testimonianza di com’era il contrabbando in Valtellina, raccontata da un ex spallone. I giovani iniziavano la loro “carriera” a 18 anni, quando per la prima volta partivano assieme agli “spalloni” più esperti e portavano la loro prima bricolla oltre il confine. Un buon spallone, oltre ad essere scaltro, doveva essere robusto, così da riuscire a portare i pesanti sacchi che, a dipendenza del contenuto, potevano pesare dai 28 ai 50 chili! Le donne, da parte loro, portavano una bricolla del peso standard di 25 chili. Durante il tragitto era pure necessaria la massima vigilanza, così da essere sempre pronti a un possibile agguato (controllo) da parte dei finanzieri! Per non farsi scoprire nei punti più “caldi”, gli spalloni coprivano le scarpe con sacchi di iuta appositamente preparati. Passando per la località di Roncaiola si riuscivano a fare anche tre “viaggi” al giorno, tuttavia questo percorso nascondeva molte più insidie da parte degli agenti di controllo. La via di Lovero di Fosca Lombardi, Sm Ambrì Il signor Zurmühle Romeo è cresciuto a Daro, frazione di Bellinzona, dove abita tutt’ora e dove ha la sua originale, curiosa e affascinante officina. Spesso recandomi a scuola lo intravvedo chino e serio sul suo lavoro, malgrado la sua serietà non manca mai di sorridermi. La sua professione antica mi ha sempre incuriosito, in questo mondo tecnologico lui continua a battere il ferro come i maniscalchi del Medioevo, per questo mi decido a porgli alcune domande. Signor Zurmühle, come descriverebbe il suo mestiere? Il mio mestiere? Molto variato, faccio un po’ di tutto: dall’artigiano al fabbro, fusioni in bronzo, fusioni in alluminio, sculture, lavori in ferro. Ha fatto tanti sacrifici per poter intraprendere questo lavoro? Tantissimi. Mi sono dovuto spostare molto in giro per la Svizzera. Che scuole ha frequentato prima di fare questo mestiere? Allora... Ho fatto il Ginnasio, la scuola d’Arti e Mestieri come elettromeccanico, la scuola d’ingegneria a Bienne e dopo 12 anni che lavoravo come ingegnere, ho smesso e ho cambiato mestiere, quindi ho lasciato l’ingegneria per diventare fabbro. È stato obbligato? No, è stata una scelta perché ero stanco. Come si sente a fare un lavoro manuale e antico, quando nel mondo ci sono tantissime attrazioni tecnologiche? Molto bene! Gli oggetti tecnologici alla fine non ti fanno vivere meglio. La tecnologia serve solo se la usi bene, se la utilizzi malamente ti complica la vita, ti fa vivere peggio. Come mai ha scelto di diventare fabbro? Mi è sempre piaciuto il lavoro manuale. Lei non è per niente attratto dalla tecnologia? Il modellatore di vasellame in legno di Diego Maspoli-Duartes, Sm Bellinzona 1 Negrentino-Prugiasco Il lanaiolo, una professione antica diventata artigianale ancora viva nelle nostre valli. Un nuvoloso sabato mattina, sono partito in treno da Bellinzona verso Biasca, e in bus da Acquarossa fino a Leontica. Ho attraversato il paese e lungo la vecchia mulattiera del Nara, passando per la passerella pedonale, sono giunto ai piedi della chiesa romanica. Non lontano dalla chiesetta San Carlo di Negrentino, vivono Verena e Felix Kohler, una coppia pensionata che dedica tutto il suo tempo a 40 pecore e l’allevamento di 17 alpaca di razze Hucaya e Vicugna. I piccoli alpaca vengono venduti soprattutto in Ticino. Possiedono 16 ettari, sui ripidi pendii, fanno fieno a mano, aggiustano i recinti, tengono in ordine le stalle e badano alla salute degli animali che brucano e concimano i campi. L’alpaca è un mammifero della famiglia dei camelidi, che assomiglia ad una pecora con il collo lungo e in natura lo s’incontra di 25 colori diversi, offre un ampio assortimento senza dover colorare la lana artificialmente. In primavera, si procede alla tosatura. Gli alpaca vengono spazzolati per togliere polvere e paglia, e tosati sulla schiena, la pancia e le zampe. Bisogna far molta attenzione a non mescolare quella di prima scelta e quella da buttar via. La tosatura del collo è da buttare. Per poter rasare per bene anche sotto la pancia, vengono sdraiati. Dalla pecora tosata si ricava la lana, invece dall’alpaca i capelli che sono più morbidi, pregiati ma privi di lanolina. La lana di pecora ormai non ha più nessun valore commerciale, la sua lavorazione è troppo impegnativa e viene regalata a chi lavora a maglia Per svolgere questo tema su “i vecchi mestieri” ho voluto sceglierne uno che veniva praticato nella zona in cui abito, ossia nel comprensorio di Airolo, e che tutt’oggi non esiste più, in quanto scomparso a causa del progresso tecnologico. Mi sono quindi rivolta a mio nonno, che ha sempre avuto uno stretto legame e una forte passione per il mondo agricolo, e la mia scelta è caduta sul mestiere del “chéifar”, ossia il modellatore di utensili in legno, destinati al mondo agricolo e alle economie domestiche sino alla prima metà del 900. In alta Leventina veniva soprattutto praticato nella frazione di Fontana, primo paese della Valle Bedretto, dove questo importante artigianato era stato tramandato fra generazioni, con un insegnamento quasi privo di parole ma da apprendere guardando come facevano padri e nonni. Lo stesso veniva esercitato nella propria abitazione, e meglio nella “stala” (ossia il pianterreno della casa leventinese, spesso usato come legnaia). Fra gli attrezzi indispensabili vi erano la pialla e lo scalpello (“sgórbia”) di misure e forme diverse, a lama piatta o concava. La materia prima era naturalmente il legno che poteva essere raccolto in abbondanza nei boschi circostanti. Quello preferito era il pino perché il più malleabile. La principale tecnica usata per la fabbricazione degli utensili era l’incastro (senza l’uso di colle e chiodi) e l’immersione di alcune parti nell’acqua per ottenere la forma desiderata (soprattutto se arrotondata e di grandi dimensioni). Fra i molti oggetti richiesti elenco: mestoli e piatti, scodelle e ciotole di varie dimensioni (ne esistevano poche in porcellana), stampi per burro e spampezie, pannarole, secchi e imbuti per il latte. Spesso venivano acquistati direttamente a casa dell’artigiano e pagati, siccome il denaro scarseggiava, con lo scambio di altri beni materiali. Questo mestiere è purtroppo scomparso e con esso tutta la bella terminologia dialettale a esso legata!