Cecilia - Gruppo Carige
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Cecilia - Gruppo Carige
RITRATTO Ricordo di Cecilia Ravera Oneto Rossana Bossaglia Quando Cecilia ci ha lasciato, non soltanto la notizia ci ha pervasi di desolazione, per la fervida simpatia che la sua persona emanava e comunicava e per la permanente freschezza del suo tratto pittorico, ma ci ha in qualche modo sorpresi, abituati come eravamo a vederla e ascoltarla quale un essere ricco di vitalità. C ecilia Ravera Oneto era entrata nel mondo dell’arte fin dagli anni Trenta; nel 1954 aveva tenuto la sua prima mostra personale; e da lungo tempo era sulla cresta dell’onda, se si pensa che aveva esposto in varie città, in Italia e all’estero, e che gruppi di queste opere erano state via via inserite in collezioni pubbliche: è specialmente opportuno menzionare qui il grande dipinto (cm.115x200) con S. Francesco e il lebbroso conservato a Genova nella sede centrale della Banca Carige. Il personaggio, lo si ripete, era di una vitalità sorprendente; con una comunicativa, nell’espressione artistica, intensa e brillante, che corrispondeva al suo modo di essere come persona. Ma a questa vitalità istintiva si accompagnava una sostanziosa consapevolezza culturale. Nata a Camogli, aveva frequentato il Politecnico di Torino e nella medesima città si era diplomata al liceo artistico: mostrando dunque subito interesse per le cognizioni tecnico/scientifiche che non contraddicevano, anzi nutrivano il suo istinto creativo. Aveva anche insegnato, mettendo così al servizio della comunità il frutto della sua esperienza e del suo sentimento dell’arte. Aveva sempre coltivato vari generi espressivi, dal ritratto - e fra le sue opere giovanili va subito menzionato l’affascinante Autoritratto del 1946 - ai temi floreali, non tanto vasi di fiori quanto piuttosto vividi cespugli nei giardini, glicini e ginestre, al paesaggio, sempre vissuto - e si tornerà sull’argomento - in modo non convenzionale. Per non dire di alcune tematiche speciali, testimoni del suo essere sempre attenta agli sviluppi della cultura, della scienza, della tecnologia: per esempio la serie di dipinti dedicati alle ricerche e alle istituzioni mediche; e quelli, particolarmente significativi per originalità e varietà sia nell’argomento sia nella formula espressiva, che trattano la cosiddetta “archeologia industriale”. Vale la pena a questo proposito di sottolineare subito il precoce interesse dimostrato dall’artista per il tema, se si pensa che la definizione “archeologia industriale” si diffuse in Italia solo negli anni Settanta, né molto prima negli altri paesi: la Ravera fin dal 1957 estrapolava dal contesto paesaggistico vedute di fabbriche e di complessi architettonici ad esse collega63 RITRATTO te, soprattutto identificati nel territorio ligure, ma non soltanto. L’argomento sarebbe stato in seguito sviluppato in una stupefacente varietà di effetti; nel 1999, commentando queste mirabili e appassionanti sequenze, presentate in una mostra specifica, avevo sottolineato che “il paesaggio industriale, visto attraverso gli occhi dell’artista, insieme intenso e pittoresco, prepotente e suggestivo, ci offre una chiave di lettura positiva, ci racconta che il mondo cambia, ma non è certo la macchina, per seguire l’idea futurista a inaridire la fantasia.” Quanto allo stile, è sempre vibrante, supportato da una pennellata corposa e calda, con effetti cromatici pastosi; sempre riconoscibile, dunque, ma non senza evoluzioni interne che riflettono la sensibilità dell’artista nei confronti delle nuove formule espressive. La produzione giovanile, specie i primi ritratti, sembra ispirata al cosiddetto “neoimpres- L’abitazione-studio della pittrice. 64 sionismo”, o, per essere più precisi, al gusto “neo-fauve” che si afferma in Europa appunto negli anni Trenta. Poi la pennellata si fa più compatta, sempre intensa ma più asciutta; e vi è un periodo, nell’attività di Ravera, dove la schematismo delle strutture rivela tracce dell’arte astratta. Ma nell’ultima fase del suo percorso creativo - e parliamo degli anni Novanta, vivissimi nell’intensità produttiva all’insegna di un particolare rigore espressivo - se pure talora vi si può rilevare, ancora una volta, una concisione formale di tipo astratto, il colore è di nuovo fervido e vibrante; e le vedute riprese dall’alto, in momenti notturni, paiono esplodere come fuochi d’artificio. Ma, sia chiaro, la Oneto interpreta l’ambiente come luogo di vita e le persone come testimoni della medesima con intensità dinamica: nulla per lei è statico e tanto meno inerte. In questo fervore noi leggiamo un’intensa gioia creativa ma contemporaneamente un’interpretazione drammatica dell’esistere, dell’evolvere e dell’esplodere di ogni situazione e realtà. In altre parole, quella che noi definiamo gioia è un impulso vitale di altissima tensione, ma è tutt’altro che la testimonianza di un’idea ottimistica della vita. E tuttavia la gioia traspare da queste opere ricche di rutilanti colori. E infatti l’artista si è anche, e volutamente, rappresentata nel suo studio, attorniata dai suoi dipinti a tema floreale, con un festoso radioso sorriso. Ma tra le opere più recenti, a chiusura e commento di questa sintetica ricapitolazione, desidero citare l’autoritratto a mezzobusto del 1997 intitolato “Nella bufera”: Cecilia procede di corsa verso di noi, scompigliata dal vento, non allegra, questa volta, ma sempre energica; sempre lei, forte, anche nella solitudine dell’addio; anzi con il viso percorso da un trasalimento interiore. RITRATTO Nella bufera, olio del 1996. Meditazione, autoritratto del 1986. 65