Criminalità, crime fiction e manipolazione mediatica1

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Criminalità, crime fiction e manipolazione mediatica1
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Alessandra Calanchi (Università degli Studi di Urbino; ACISF)
Criminalità, crime fiction e manipolazione mediatica1
“Chi semina audience raccoglie panico”
(Fred Vargas, Parti presto e non tornare, Einaudi, 2004).
Premessa
Se vogliamo parlare di crime fiction italiana non è possibile prescindere né dalla criminalità reale,
né dalle modalità con cui questa viene rappresentata nei media. Riguardo al primo punto, tutti
sappiamo che l’Italia ha un alto tasso di criminalità e che questo non è un fenomeno recente ma
storico, come ha ricordato lo scrittore Giancarlo De Cataldo durante un’intervista inserita nel
documentario Italian Noir (di cui parleremo più avanti). E’ opportuno poi tenere a mente che: 1,
l’Italia è il paese dove è nata l’antropologia criminale (Cesare Lombroso, 1835-1909); 2, in Italia
coesistono due forze dell’ordine, una civile (la Polizia) e una militare (l’Arma dei Carabinieri), le
quali a volte collaborano, ma a volte sono in competizione; e 3, in Italia scrivere e leggere romanzi
polizieschi fu proibito per legge dal regime fascista dal 1941 al 1947. Credo che tutti questi fatti
debbano essere tenuti in considerazione quando si parla di crime fiction italiana.
Criminalità e crime fiction
Si parla molto della criminalità italiana, e spesso anche sui quotidiani stranieri l’Italia è associata
alle stragi di Mafia e ai delitti della Camorra. Eppure un alto numero di omicidi avviene all’interno
di famiglie o di coppie normali. Le donne, poi, costituiscono il 25 % del totale delle vittime (63%
delle quali all’interno, appunto, della famiglia). Nel suo libro Uomini che uccidono le donne (scritto
insieme a Paul Russell e Andrea Vogt, 2011) Luciano Garofano dichiara che nel nostro paese 5
milioni di donne hanno subito violenza sessuale e quasi 4 milioni sono state vittime di violenza
fisica. La criminologa Diana Russell definì tale fenomeno “femicide” (femminicidio) fin dal 1976,
ma curiosamente il termine equivalente in italiano non ha avuto grande diffusione.
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Questo articolo è una versione ridotta e tradotta in italiano di una relazione presentata nel corso del Seminario su The Politics of
Crime Writing in France and Italy organizzato dal Crime Studies Network (di cui faccio parte) presso l’Institute of Applied Ethics
dell’Università di Hull, UK) il 18 aprile 2012, e in seguito arricchita con alcune conferme emerse durante l’incontro Criminologia e
scienze forensi tra spettacolarizzazione mediatica e rapporto con le istituzioni tenutosi presso la Questura di Roma l’8 giugno 2012.
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Nel corso di un convegno tenutosi a Urbino nel dicembre 2011, Garofano ha riportato che
ogni tre giorni una donna viene uccisa in Italia; tuttavia, in un incontro successivo svoltosi a
Modena il 24 marzo 2012, ha detto che nei primi tre mesi del 2012 il numero è cresciuto a due
donne uccise ogni tre giorni (= 37 vittime da gennaio a marzo) – e tali delitti non si sono fermati nei
mesi successivi, come ben sappiamo.
Data l’alta percentuale di crimini nel nostro Paese, ci si potrebbe aspettare che esista una
altrettanto nutrita tradizione “criminale” in ambito letterario. In realtà, nonostante una tradizione di
questo genere sia esistita (e anzi si fosse sviluppata molto presto, quasi contemporaneamente alla
tradizione anglosassone), solo di recente tale tradizione si è strutturata in modo realmente
consapevole. Uno dei problemi di questo ritardo – dovuto anche all’arretratezza di un certo pensiero
accademico – va ricercato nel fenomeno eccezionale che coinvolse la letteratura “gialla” poco dopo
il suo periodo di massima fioritura, vale a dire la censura fascista.
Ma partiamo dagli inizi. Nello stesso anno in cui Arthur Conan Doyle stava serializzando il
suo primo romanzo con protagonista Sherlock Holmes sulla rivista “The Beeton’s” (1887), Carolina
Invernizio pubblicava in Italia come volume autonomo Il delitto della contessa ed Emilio de Marchi
pubblicava a puntate Il cappello del prete su “Il Mattino di Napoli”. Due anni dopo anche in Italia si
iniziarono a serializzare le avventure di Sherlock Holmes su varie riviste, fra cui “La Domenica del
Corriere”. Questi racconti ebbero un grande successo, tanto che nel 1915, quando l’Italia entrò nella
prima Guerra Mondiale, l’espressione “essere uno Sherlock” era un modo comune per indicare una
persona che possedesse qualità analitiche e atteggiamento razionale. Nel 1929 la casa editrice
Mondadori pubblicò il primo “giallo” italiano (dal colore della copertina)2 e nel 1931 pubblicò il
primo “giallo” scritto da un autore italiano. Nello stesso decennio Mondadori lanciò un nuovo
settimanale, “Il Cerchio Verde” (1935-1937), che pubblicava racconti polizieschi.3
Poi, nel 1937, la storia ( e la politica) iniziarono inaspettatamente a mescolarsi alla letteratura.
Il Ministero della Cultura Popolare dichiarò infatti che nei romanzi “l’assassino non deve
assolutamente essere italiano e non può sfuggire in alcun modo alla giustizia”, e sui libri stranieri
apparvero fascette che dicevano: “Gli usi e i costumi della polizia descritti in quest’opera non sono
italiani. In Italia, Giustizia e Pubblica Sicurezza sono cose serie” (Comastri Montanari: 52).
2
Il primo volume è una traduzione dall’americano (S.S.Van Dine, La strana morte del signor Benson); il primo “giallo” italiano è Il
sette bello di Alessandro Varaldo (1931).
3
Carolina Invernizio, Il bacio di una morta (1889) e La sepolta viva (1896); Enrico Ferri (I delinquenti nell’arte, 1896); Alfredo
Niceforo (“Il detective scientifico nella letteratura romanzesca”, ne “Il Piccolo della sera”, Trieste, 3 June 1906); Salvatore Farina, Il
segreto del nevaio (1909); Ventura Almanzi, Le avventure del poliziotto americano Ben Wilson (Bietti, 1914-1920); Alessandro
Varaldo, Il sette bello (1931), Le scarpette rosse, Tre catene d’argento, La gatta persiana, La scomparsa di Rigel (1933), Circolo
chiuso (1935), Casco d’oro, Il segreto della statua (1936), La trentunesima perla, Il tesoro dei Borboni (1938), Le avventure di Gino
Arrighi (1939), Il signor ladro (1944), Alla ricerca di un tesoro (post. 1989).
3
Nel 1941 fu ordinata la chiusura della collana Mondadori, in seguito a una rapina con scasso che
si ipotizzò potesse essere stata istigata dalla narrativa “gialla”. Questo il commento riportato da un
giornale: “Il Minculpop ha disposto, per ragioni di carattere morale, che la pubblicazione dei libri
gialli sia sotto forma di periodici, sia di dispense, venga sottoposta alla sua preventiva
autorizzazione. […] Il provvedimento è saggio e intelligente. Era ora di finirla con questo genere di
bassa letteratura improntata sull’apologia del delitto” (Cremante e Rambelli: 115).
Due anni dopo (1943) Mussolini ordinò che entro il 31 luglio venissero confiscati “tutti i
romanzi gialli in qualunque tempo stampati e ovunque esistenti in vendita” (Ibid.) e la collana
Gialli Mondadori riaprì solo nel 1947, con un’avventura di Perry Mason4. Nicoletta di Ciolla nel
suo libro intitolato Uncertain Justice (2010) tratta questo argomento pur liquidandolo in fretta, nello
spazio di un paragrafo, limitandosi a dire che il regime cambiò atteggiamento passando da un
iniziale protezionismo culturale a una censura pesante. Ma l’ultima frase del paragrafo la dice
lunga: “these books were destroyed, and the monopoly on violence fully reclaimed by the regime”
(“questi libri furono distrutti, e il monopolio sulla violenza reclamato in toto dal regime”, di Ciolla:
4).
Dopo la fine del fascismo, la crime fiction riprese lentamente le forze grazie ad autori come
Scerbanenco, Gadda e Sciascia, che pur non scrivendo gialli classici avevano mantenuto accese le
braci del genere, e la cui importanza come padri fondatori della crime fiction italiana è stata
ampiamente riconosciuta quasi più all’estero che in Italia (Giuliana Pieri, Italian Crime Fiction,
2011). Seguendo i loro passi, i migliori autori di crime fiction italiana hanno sviluppato una
tendenza a riflettere sulle problematiche sociali, a investigare gli scandali pubblici, a trarre
ispirazione dai crimini veri e/o dalla psicologia dell’assassino o della vittima. Per questa ragione la
facile ricerca del brivido (thrill) o la suspense non sono tipiche della migliore produzione italiana,
che privilegia invece il ragionamento, le idee, il dubbio. Fra questi autori troviamo – giusto per
citarne qualcuno – Alessandro Berselli, Andrea Camilleri, Gianrico Carofiglio, Carlo Lucarelli,
Loriano Macchiavelli e Valerio Varesi, ma ve ne sono molti altri. Alcune delle loro storie toccano
scandali noti, altre trattano il terrorismo, altre ancora sono di pura immaginazione. Nel mare
magnum di questa produzione vorrei citare un caso interessante, l’antologia Menti criminali (2011)
il cui titolo è intrigante di per sé, essendo la traduzione italiana di Criminal Minds, una serie TV
americana che ruota intorno a un gruppo di criminologi dell’FBI (serie nata nel 2005). Questo libro
in realtà non ha nulla a che fare con il Federal Bureau of Investigation, ma è curato da Corrado
Augias, noto giornalista e presentatore del programma Telefono Giallo dal 1987 al 1992, il che
significa che è probabile che chi acquista questo libro sia guidato dal suo nome in copertina. Non
4
Ho più volte parlato nei miei saggi di questo capitolo della storia italiana (per esempio Calanchi 2003; Calanchi e
Monari 2012).
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solo: le storie qui raccolte non sono italiane, come ci si potrebbe aspettare, bensì americane, come
se i lettori dovessero essere rassicurati che le “criminal minds” esistono solo di là dall’Atlantico. Il
che naturalmente non è vero, come si può vedere in un’altra antologia pubblicata dalla stessa casa
(Einaudi): Crimini italiani (2008), che raccoglie racconti di scrittori italiani fra cui Carlotto,
Lucarelli e i Wu Ming, con una bella Introduzione di De Cataldo, che dichiara senza mezzi termini
che “L’Italia è un paese ‘noir’ ” (p. VII) e si spinge a un tributo molto personale all’anniversario
dell’Unità d’Italia: “Se c’è una forza che appare in grado, oggi più che mai, di realizzare quel sogno
unitario che fu di Cavour, Mazzini, Garibaldi e che ha attraversato tutti gli ultimi
centocinquant’anni della nostra Storia, quella forza è il crimine. L’unità criminale d’Italia, per la
verità, è un dato di fatto” (p. VI).
Non è un caso che molti romanzieri italiani (senza arrivare alle palesi denounce di Gomorra,
che va oltre la crime fiction) riflettano nei loro scritti un forte senso di responsabilità verso la nostra
Storia, i nostri ricordi e il nostro presente, e i loro investigatori di carta condividono alcune delle
nostre perplessità sulle istituzioni italiane, sulla giustizia e sui conflitti di classe. Alcuni di questi
autori sono stati intervistati nel citato documentario Italian Noir che è stato trasmesso sulla rete
BBC 4 sabato 27 dicembre 2011 in prima serata (e, incredibilmente, mai in Italia). In questo film si
alternano immagini della storia criminale italiana con interviste a docenti dell’Università di Bristol,
giornalisti e scrittori. Curiosamente, nello stesso anno è uscita un’altra antologia di racconti
(italiani) che ha lo stesso titolo del film, Italian Noir (a cura di Gisella Calabrese e Giuseppe
Mallozzi, 2011).
A parte i sopra citati, mi sembra opportuno ricordare altre tre categorie di libri molto presenti
sul mercato:
1 – i libri che ritraggono la storia gloriosa della criminalità in modo sensazionale, come per esempio
Cronaca nera 1. Grandi delitti italiani di Massimo Polidoro (2005, n.e. 2007), una storia dei
“grandi” crimini da Girolimoni (1924) a Cogne (2002) – quest’ultimo una vera pietra miliare in
Italia in quanto fu il primo ad avere una copertura mediatica eccezionale.
2 – I libri che, al contrario, celebrano le imprese della Polizia e dei Carabinieri. Il più noto è Delitti
imperfetti (voll. 1 and 2) di Luciano Garofano, al tempo capo del RIS di Parma (2004 e 2005). Gli
stessi casi presentati sono poi stati usati più volte nel corso di programmi televisivi. Un altro libro
interessante è L’investigatore criminologo di Biagio Fabrizio Carillo, capitano dell’Arma dei
Carabinieri (2009). Sul versante della Polizia cito invece Ustica, confessione di un angelo caduto di
Carmelo Pecora (2012) e Catturandi di I.M.D. (uno pseudonimo usato per ragioni di sicurezza,
2012).
5
3 – libri che, sul fronte opposto, si esprimono contro le forze dell’ordine, come Malapolizia di
Adriano Chiarelli (2011), o che denunciano stragi di stato e corruzione politica, come IH870. Il volo
spezzato. Strage di Ustica: le storie, i misteri, i depistaggi, il processo di Erminio Amelio e
Alessandro Benedetti (2005). Un capitolo di Malapolizia è dedicato al G 8 di Genova e gli stessi
fatti tragici sono narrati nel molto discusso film Diaz di Daniele Vicari (2012). Un altro recente film
che denuncia i metodi della polizia Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana (2012),
dedicato alla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli nel 1969.
Le quattro categorie di libri qui presentate testimoniano tutte l’importanza della TV nel
costruire l’immaginario collettivo italiano. Alla fine del suo libro, Polidoro riporta le parole
illuminanti del giornalista Giorgio Bocca: ciò a cui è interessata la gente non è il crimine in sé, ma
l’esibizione dei buoni sentimenti, la pietà per le famiglie distrutte, “e il caldo conforto, davanti alla
televisione, di essere per questa volta scampati agli orrori del mondo” (cit. in Polidoro: 431).
La manipolazione mediatica
Mi pare che, relativamente all’ambito di cui ci occupiamo, due fenomeni principali stiano
interessando i media in questi anni: uno è la crescente attenzione (che talvolta rasenta l’ossessione)
riservata alle prove scientifiche, l’altro è il melodramma che i media creano intorno ai crimini di cui
danno rappresentazione sugli schermi. Iniziamo con il primo. Sull’onda delle varie serie americane
da CSI in poi, le scienze forensi alimentano un’immaginazione fertile seppure razionale, stimolando
la gente a sognare le forme più sofisticate di estrazione del DNA o a costruire castelli in aria sulle
dinamiche della BPA. Questa vera e propria mania si riscontra ovunque e a qualsiasi livello: nella
stessa Università dove lavoro, che non è un grande Ateneo e ha solo un piccolo Dipartimento di
Scienze Biomolecolari, c’è un gruppo di ricercatori che ha inventato un nuovo algoritmo per
l’estrazione del DNA5.
A livello più divulgativo, si può vedere Sherlock Holmes che parla di metodo scientifico con
Luciano Garofano in un DVD allegato a una recente edizione de Il mastino dei Baskerville per i
ragazzi della scuola media e secondaria (a cura di Stefano Gianni, 2011); e la centralità della
scienza è stata rinforzata attraverso la pubblicazione di riviste come “Crime & Scienza”
(interessante sottolineare che la parola “crime” è in inglese e la parola “scienza” è in italiano!) o la
diffusione di programmi televisivi come “Science of Crime”. E le scienze forensi conquistano pure i
teatri: recentemente Luciano Garofano e Andrea Vogt hanno scelto un teatro e non una libreria o
una sala conferenze per lanciare il loro ultimo libro (il titolo dell’evento era, argutamente, “Sulla
5
La squadra di ricercatori in questione è formata dai professori Marco Rocchi e Viliberto Stocchi e dai dottori Michele
Guescini, Davide Sisti e Laura Stocchi. Recentemente è stato firmato un protocollo d’intesa tra l’Università di Urbino e
la Polizia di Pesaro per l’utilizzazione di questo metodo, chiamato “Cy0”. Per ulteriori informazioni si rimanda alla
rivista internazionale “NAR – Nucleic Acid Research” (ottobre 2010) e al sito <http://www.cy0method.org/>.
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scena del crimine” (Modena, 24 marzo 2012) dove “scena” era naturalmente usato nel suo doppio
senso.
Il secondo punto è più cruciale e riguarda la costruzione di un sentimento pubblico attraverso i
mass media in particolar modo la televisione. La manipolazione mediatica è un problema serio in
Italia e non è certamente confinato alla criminalità. Notizie di ogni tipo sono frequentemente
soggette a strategie manipolatorie che rendono difficile individuare le informazioni genuine.
Tuttavia la cronaca nera è forse il campo più sottoposto a manipolazione in quanto le notizie
relative a crimini si prestano a essere affabulate, modificate. Inoltre molti programmi discutono solo
i cosiddetti “cold cases”, considerati più attraenti dei casi risolti. Accade così che se da un lato gli
spettatori si sentono rassicurati dalle scienze forensi, dall’altro lato sono portati a partecipare
emotivamente alla storia infinita dei delitti irrisolti. Talk show come Chi l’ha visto o Quarto grado
sfruttano al massimo questa partecipazione emotiva. In primo luogo, ogni puntata non si concentra
su un solo caso ma ne affronta diversi, il che significa un ritmo veloce, una sensazione di attesa
condivisa e un’elevata superficialità.
Settimana dopo settimana, si chiede ai telespettatori di
aspettare con trepidazione nuove notizie riguardanti Amanda Knox o Yara Gambirasio, come se si
trattasse di personaggi immaginari e non di persone vere. La serializzazione, un tempo strategia
letteraria appartenente ai domìni della letteratura e del cinema, viene ora applicata alla realtà: e più
a lungo un mistero rimane tale, meglio è.
Prendiamo Quarto Grado, un programma molto popolare; il suo target è ampio,
comprendendo casalinghe, professionisti, studenti e anziani. E’ diverso da altri programmi
precedenti, come Telefono giallo (RAI 3 1987-1992) o Mistero in blu (RAI 3 1998, poi Blu notte,
poi Blu Notte. Misteri italiani, e infine Lucarelli racconta, 2010), perché è più interessato a
rivelazioni shock che a una seria indagine sociale o politica. Un programma più approfondito è stato
L’altra metà del crimine (LA 7), presentato nel 2011 da Garofano e focalizzato sui metodi
dell’investigazione scientifica, ma sfortunatamente non è andato oltre la prima stagione.
Anche i giornali, soprattutto quelli locali, partecipano a creare e alimentare un atteggiamento
di attesa e di suspense tra la popolazione, e spesso prediligono nei crimini ciò che può essere
correlato ai due grandi pilastri nazionali: la famiglia e la religione. Prendiamo un giorno qualsiasi,
nell’ottobre 2011, e apriamo “Il Resto del Carlino”, un giornale di Bologna con grande tiratura in
tutto il Nord. Vi troviamo una pagina dedicata al caso Meredith, un’altra a Salvatore Parolisi e
un’altra ancora al caso di Novi Ligure. Non solo. In questo numero vengono evidenziate due frasi
che si riferiscono rispettivamente al fatto che Parolisi può sentire la figlioletta al telefono solo una
volta alla settimana e
che “la psicoanalisi non può raggiungere l’anima” (quest’ultima frase
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pronunciata da Don Mazzi relativamente a Erika, in procinto di lasciare la comunità dove fu
ospitata dopo aver brutalmente assassinato i genitori e il fratellino).
Esattamente una settimana più tardi, un’intera puntata di Chi l’ha visto è stata dedicata a
Salvatore Parolisi e alla moglie (e vittima) Melania Rea. Fra parentesi, Parolisi in TV è sempre
chiamato col cognome mentre Melania Rea è quasi sempre chiamata Melania (di solito, mentre
scorrono le sue fotografie, con colonna sonora melodrammatica). Questo crea una sorta di intimità
fra le vittime e i membri del pubblico. “Lo zio Michele” (raramente chiamato Michele Misseri)
potrebbe sembrare un’eccezione, dal momento che ha pur confessato (e in diretta) di aver ucciso la
nipote Sara, ma gli spettatori non hanno mai creduto fino in fondo che fosse lui l’assassino e sono
stati indotti a simpatizzare con lui fin dall’inizio. Quindi, Parolisi è rimasto Parolisi mentre Misseri
è presto diventato lo zio Michele, e questo è uno dei modi in cui i media celebrano i processi in TV
ancor prima che in tribunale.
Senza dubbio in Italia a partire dagli anni ‘80 abbiamo vissuto una progressiva
spettacolarizzazione della politica così come delle vite private (Tonelli: 1). Sentimenti, emozioni e
sensazioni sono stati “consumati” dai media, specialmente dalla televisione, e restituiti agli
spettatori sotto forma di favole adatte a una visione voyeuristica domestica. Per quanto cinico possa
sembrare, perfino la cronaca nera ha iniziato a essere percepita come una forma di reality show.
Lungi dall’informarci sui fatti o dall’offrirci contenuti, la TV italiana ha adottato il linguaggio delle
emozioni, vuole “stupire, sedurre, rassicurare”, e per meglio raggiungere il suo obiettivo ha preso in
prestito le strategie della pubblicità (Tonelli: 118). Gregorio Scalise sintetizza tale situazione con
parole che suonano come un triste slogan della nostra deresponsabilizzazione di cittadini: “Smarrire
il filo, non connettere i fatti, meravigliarsi sempre” (Scalise: 69).
Un altro aspetto cruciale è che mentre la maggior parte dei film per la televisione viene
dall’estero (soprattutto dagli USA), questi talk show parlano quasi sempre di crimini italiani; se
non lo facessero, la audience perderebbe di certo interesse in quanto è condizionata a provare una
forte empatia sia con i personaggi sia con la geografia dei luoghi. Se analizziamo una puntata di
Quarto Grado, possiamo vedere che lo standard degli argomenti è generalmente basso e lo stile
sensazionale, anche se c’è in studio un certo numero di esperti (alcuni dei quali ospiti fissi).
Purtroppo questi ultimi hanno poco tempo per rispondere alle domande: è evidente che la
microsociologia della famiglia italiana richiede che una molto maggiore quantità di tempo sia
assegnato ai parenti delle vittime, ai testimoni occasionali, agli amici degli amici, al prete della
parrocchia, all’insegnante – meglio se piangono o confessano in diretta. Gli italiani, come si sa,
amano le lacrime (lo si è ben visto in tre episodi recenti: Parolisi che piange in diretta, il ministro
Fornero che piange in Parlamento, e la forte enfasi data il 13 gennaio 2012 dal quotidiano “La
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Repubblica” alle tracce di lacrime rinvenute nelle lettere scritte da Moro quando fu prigioniero delle
Brigate Rosse nel 1978 (Larcan).
Avendo avuto l’opportunità di essere presente in studio alla puntata di Quarto Grado il 18
novembre 2011 intendo parlare brevemente di questa esperienza. Come ogni altra puntata, è
cominciata alle 21.15 e si è conclusa a mezzanotte. E’ durata pertanto 2 ore e 45 minuti, compresi 6
stacchi pubblicitari di 5 minuti l’uno per un totale di 30 minuti di pubblicità.
Salvo Sottile, il presentatore, ha parlato con vari giornalisti e inviati. Il suo metodo consiste
nell’introdurre una storia e poco dopo passare a un’altra, dicendo “ne parleremo dopo”, il che non
sempre avviene. In questo modo tiene alta la tensione e non scende troppo in profondità. La sua
collega, Sabrina Scampini, riassume i fatti e dà la parola agli ospiti, senza esprimere la propria
opinione. Il ritmo è rapido, quasi come in un videoclip; i racconti sono melodrammatici e corredati
di una colonna sonora; si dà molta visibilità alla sofferenza (con primi piani e musica a effetto).
Come dicevo, gli esperti hanno pochi minuti a testa; la giornalista Barbara Palombelli ha più del
doppio del tempo di un esperto.
Durata totale: 2h, 45
Pubblicità: 30 minuti (6 stacchi di 5 minuti)
Interventi di esperti:
3 – Luciano Garofano, generale (5 minuti in totale)
3 – Alessandro Meluzzi, psicologo (5 minuti in totale)
3 – Massimo Picozzi, criminologo (5 minuti in totale)
3 – Matteo Borrini, antropologo (5 minuti in totale)
6 – Barbara Palombelli, giornalista (12 minuti in totale)
Casi discussi: 9 (Elisa Claps, Cristina Volinucci, Yara Gambirasio, Eddy Castillo, Melania Rea, Chiara Poggi, Sara
Scazzi, Don Luigi Baget Bozzo, Lucia Manca); 7 su 9 sono giovani donne (scomparse o uccise). La famiglia gioca un
ruolo cruciale: sono state intervistate tre madri, una zia e una cugina.
Conclusione
Se devo trarre una qualche conclusione da quanto sopra esposto, credo che i media e soprattutto la
televisione abbiano una seria responsabilità nel “mediare” il crimine in modo spettacolare ed
emotivo. Questo avviene anche negli altri Paesi, naturalmente: Jennifer Petersen, scrivendo degli
omicidi di Matthew Shepard e James Bird Jr. in USA, riporta non solo che tali delitti hanno avuto
un’eccezionale copertura mediatica a livello nazionale ma anche che tale copertura si è servita a
piene mani di espressioni di shock, indignazione e dolore (Petersen: 1-2) – qualcosa di molto
simile a quanto avviene guardando un programma come Quarto grado. Nel caso di quei delitti
americani, tuttavia, erano implicati il razzismo e l’omofobia, mentre nella maggior parte dei crimini
italiani c’è una famiglia normale al centro della storia.
Tuttavia amanti, mariti, figlie, madri e padre appaiono in TV sì come assassini o come
vittime, ma senza che sorga una vera discussione sociale; essi incarnano semplicemente quella che
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Petersen chiamerebbe una “politica culturale dell’emozione” (Petersen: 5, trad. mia). Ciò che fa la
TV è semplicemente offrire una “mediazione emotiva di questi omicidi” (Ibid.). Inoltre, come negli
USA, la comunicazione viene costruita in termini di genere sessuale (Petersen: 12), ma la situazione
è più grave in Italia dove sia il linguaggio sia l’immaginario collettivo sono fortemente sessisti.
Altri elementi implicati sono i valori sociali dei personaggi (per esempio il matrimonio o
l’appartenenza a un credo), la localizzazione di un omicidio entro una specifica geografia (in Italia
potrebbero essere i boschi di Ripe di Civitella dove è stato rinvenuto il corpo di Melania Rea) e la
rappresentazione di maschilità o devianti o stereotipiche (un esempio italiano potrebbe essere lo zio
Michele, percepito come una vittima della moglie, contro Parolisi che è sempre stato visto come un
“macho”).
Petersen fa anche riferimento a “legami di sangue, di prossimità e di amicizia”, a una “politica
dei sentimenti” e a una “politica di mediazione emotiva” (Petersen: 57, 63, trad. mia): tali legami e
tali politiche vengono incoraggiate dai media, e questo è ancor più vero in Italia in quanto i nostri
talk show di solito soddisfano il nostro voyeurismo e il nostro gusto per il sensazionale senza
scendere in un’analisi sociale dettagliata. Mi sembra che nel far ciò trascurino (o scelgano di
ignorare) l’opportunità di riflettere davvero sui crimini commessi. Credo che sarebbe opportuno
rafforzare (se non introdurre del tutto) un’etica della mediazione nel mio Paese, e che in questi
programmi si dovrebbe dedicare maggior tempo a una discussione su ciò che circonda i crimini, in
particolar modo la famiglia, i valori tradizionali e le ragioni del conflitto sociale.
Ho avuto conferma delle mie idee quando, tornata in Italia dopo la presentazione del mio
intervento all’Università di Hull (UK), ho assistito a una conferenza a Roma su un argomento
analogo (nota 1 di questo scritto). Tutti i relatori hanno concordato sui rischi della manipolazione
dell’informazione nei media e specialmente nei talk show. E’ stato da loro riconosciuto
esplicitamente che “il crime show fa audience” e che questi programmi si basano in genere su una
sorta di “intrattenimento del crimine” (Francesco Bruno, psichiatra) e sono frequentemente affollati
di “opinionisti che trasudano incompetenza (Massimo Zito, criminologist). Non solo: si è detto che
sempre più spesso vengono invitati negli studi televisivi dei criminologi allo scopo di criticare il
lavoro d’indagine della polizia (Valter Mazzetti); inoltre è stato suggerito che la “mitologia del
profiling” ereditata dai serial TV americani abbia influenzato le aspettative degli spettatori facendo
sfumare sempre più i confini tra vita vera e finzione (Francesco Bruno). Nel suo intervento,
intitolato “Etica, deontologia professionale e comunicazione mass-mediatica: un confronto
internazionale”, la psicologa giuridica Laura Volpini ha informato sulle linee guida europee e
americane relativamente all’uso dei media, ma poiché queste riguardano quasi esclusivamente
l’ambito psicologico è chiaro che molto deve essere ancora fatto nel nostro Paese.
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Credo che Carlotto abbia ragione quando dice in Italian Noir che, data l’assenza di un vero
giornalismo d’inchiesta in Italia, gli scrittori sono stati costretti ad assumersi questa responsabilità.
Giuliana Pieri conferma questo punto di vista quando scrive: “Nell’età postmoderna, la crime fiction
è stata trasformata dagli scrittori italiani in un veicolo potente per esprimere i motivi di scontento
della nazione […] Uno dei messaggi più forti […] è il bisogno di rinnovare l’onorevole tradizione
storica dell’impegno” (Pieri: 4). Auspico che questa grande responsabilità della crime fiction
italiana sarà condivisa dai media in un prossimo futuro, anche se al riguardo non sono, al momento,
molto ottimista.
Bibliografia (testi citati e letture di approfondimento)
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processo, Editori Riuniti, Roma 2005.
Ascari, Maurizio, A Counter-History of Crime Fiction. Supernatural, Gothic, Sensational, Palgrave McMillan 2007.
Augias, “Il giallo e il nero”, Introduzione a Menti criminali, Einaudi, Torino 2011, pp. V-XIV.
Bell, Ian A. & Graham Daldry (eds), Watching the Detectives. Essays on Crime Fiction, Macmillan, London 1990.
Calanchi, Alessandra, “Italian P.I.s: A Survey of Female Detective Fiction” (1892-2002), in “Linguae & Rivista di
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-- -- and Marco Monari, “Indagini radiestesiche e romanzo poliziesco: il caso dell’ing. Pietro Zampa”, in “Linguae &
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Comastri Montanari, Danila, Catalogo Mystfest XXI, 2000.
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