Untitled - narrativAracne

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Marco Pozza
Il pomeriggio della luna
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Copyright © MMXVI
Gioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale
via Sotto le mura, 54
00020 Canterano (RM)
(06) 93781065
isbn 978-88-548-9586-7
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di
riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il
permesso scritto dell’editore.
I edizione italiana: ottobre 2016
A chi mi ama
così come sono:
rotto.
Luna di pomeriggio
«Cosa gli hai detto quella sera?»
«Adesso me lo dici».
«Che cosa vuoi che ti dica?»
«La verità».
«Sì».
«Cioè?»
«Nient’altro che la verità».
«Gli ho detto di noi due».
«E poi?»
«Dimmelo!»
«Della luna».
«E poi?»
«Ti prego, dimmelo».
«Gli ho detto di Luna».
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prima parte
Il paese delle gatte-morte
«Qualunque cosa tu dica o faccia
c’è un grido dentro:
Non è per questo, non è per questo!»
Clemente Rebora, Sacchi a terra per gli occhi
uno
Lo amo.
Sei felice? Sono felice: ridiamo.
Ti amo.
Vorrei che per la vita noi due fossimo vicini.
Anzi no. Lo odio.
Dimmi: dove sei fuggito? Il mio cuore ancora chiede di te.
Che cosa gli dico? Ti odio.
Lo amo.
Anzi no: lo odio.
Lo amo o lo odio?
Mi sono decisa: lo-amo-e-lo-odio.
È sempre stato intricato questo mio cuore-labirinto. Sarà
mai possibile amare e odiare una persona nel medesimo istante?
Chiedo l’aiuto del pubblico: Catullo, aiutami tu se ne sei
capace!
Odi-et-amo.
Che voce rauca: da dove può giungere uno con una voce
così? È una delle mie litigate più furiose col latino, quelle che
poi non si scorderanno più: penultimo banco a destra, liceo
classico Valerio Catullo. La mia compagna di banco è Maria Giulia, granpetto, proprio un gran-petto d’oca. In queste
aule scolastiche la sovranità non appartiene affatto al popolo:
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è saldamente nelle mani gonfie del baffo Bevilacqua, il signorpreside, come costringe tutti a chiamarlo. Meno male che c’è
Olga-bidella: i water da lavare sono ancora quelli di quando è
stata inaugurata la scuola, nell’anno dei mondiali del ‘94. Del
rigore di Roberto Baggio, tanto per intenderci.
Quello sbagliato: uno dei pochi che gli sia riuscito di
sbagliare.
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri
sentio et excrucior.
Sto pensando che se avessi qui vicino Catullo Valerio nato
a Verona, stamattina gli ficcherei le dita negli occhi per poi
passare a tirargli un po’ le orecchie. Di tutto un po’, insomma: “Carnefice che non sei altro, lamentati se hai il coraggio”. Non penso di esagerare: anche se fosse, ha iniziato lui
a provocare. Prova tu a tradurre queste tre parole Odi et amo
senza andarti a impasticciare in uno strafalcione logico, uno
di quelli che, nel registro, fanno della bic della professoressa
una calibro-24.
Eppure una traduzione la devi tentare: errata, è meglio di
nulla.
«Vi ricordo, ragazzi, di mettere la brutta-copia nel foglio-protocollo, altrimenti il compito non verrà considerato valido».
Mancava solo la sua voce, dopo quella di Valerio: l’esercito avversario è al gran completo. Tra i due, comunque, scelgo lei: la mia professoressa di latino. È una che sa fare molto
bene il suo mestiere: passionale, brillante, c’è un grossissimo
margine di seduzione nel suo insegnamento. Nonostante
ciò, quello che ha appena detto non mi convince affatto:
l’obbligo di inserire la brutta-copia. Qualcuno mi dovrebbe
spiegare, a rigore di logica, perché senza la brutta-copia un
compito non è considerato valido.
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«Scusi, professoressa. La brutta-copia, dentro questo
stabile, è un controsenso. Anzi, non ha nessun senso. Se la
scuola è nata per insegnare a vivere e la vita non ha due copie ma una sola, che senso ha che lei ci obblighi a fare la
brutta-copia? In nome della proprietà transitiva, io dico alla
brutta-copia: vattene via, sei un peso inutile per la società
studentesca!»
Avevo quasi alzato la mano. Volevo ripetere questo ragionamento a voce alta quando, Anita Mangiatore, mi ha
strattonato così forte la felpa che quasi me l’ha strappata.
Così decido di starmene zitta e penso che Anita sia la sosia
ringiovanita di mia nonna. Ogni mattina, sempre la solita
tiritera: “Guarda che la professoressa ha il coltello dalla parte
del manico”. L’equazione è servita: a scuola, anche quando
sai di avere perfettamente ragione, è sempre meglio tacere,
non si sa mai. D’altronde esistono professoresse che fanno
voto di venire a scuola per vendicarsi di tutto quello che in
nessun altro luogo al mondo sarebbe loro concesso di fare.
Mia nonna, un piede e tre quarti nella tomba, posso giustificarla, sulla facciata della sua casa-anni-quaranta, la scritta
è ancora ben leggibile: Credere. Obbedire. Combattere. Certe
prof, invece, prego il Dio del catechismo di non rendermele
mai comprensibili: sempre che esista quel Dio. Mi metto il
cuore in pace: abbasso la mano, ammutolisco. Però –­ in ogni
storia è nascosto un però – quando avrò io il coltello dalla
parte del manico, vedrete che strage farò. Altro che quella
tra Montecchi e Capuleti: vedrete cose che nessun mortale
osa credere possibili. È una promessa solenne che faccio con
largo anticipo, in modo tale che quando s’avvererà nessuno
potrà dire di non essere stato avvisato per tempo. Proprio
nessuno, tanto meno lui. Ho parecchi conti in sospeso con
la brutta-copia.
Rileggo tutto con attenzione.
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Piego a metà il foglio, annoto le generalità: ricopio tutto
in bella.
Ti odio e ti amo. Forse ti chiedi come possa fare ciò. Non lo so,
ma sento che così accade e me ne tormento.
Mi vedo costretta a inserire la brutta-copia nella bella-copia, altrimenti il mio compito non sarà considerato valido.
Poi, sistemato tutto, consegno.
«Ha messo dentro la brutta-copia, signorina Mielantoni?»
«Certo, professoressa».
«Buona giornata, allora».
Nutro un dubbio esistenziale: senza la brutta-copia, quale saluto mi avrebbe riservato questa mia professoressa? Forse
“Cattivissima giornata, Mielantoni?”.
È mistero della scuola. Più incasinato ancora di quello della
fede.
Qualunque destino il fato riservi alla mia traduzione, a me
questa idea della brutta-copia non convince per nessuna ragione al mondo. Quando vieni al mondo, la vita ti fa trovare
solo una chance: quella devi giocarti, senza possibilità di simulazione. Che il Ministero emetta al più presto una circolare
che dichiari eretica la dottrina della brutta-copia: altrimenti la
scuola t’insegna a vincere, non a vivere. È tutta un’altra storia:
ditecelo prima, allora.
Forse a scuola hanno paura che in bella-copia le correzioni facciano fare brutta figura a professori e alunni? Stesse
a me il potere di decidere, firmerei un’ordinanza scolastica da capogiro: che tutti gli strafalcioni possibili rimangano fissi in bella-copia, in bella mostra. Osservando quanto
sono belli quegli sgorbi, potrei intuire con più precisione
che razza di guerra cruenta lo studente ha ingaggiato prima
di scegliere quella parola invece che un’altra, potrei scoprire
il suo dubbio sui tempi da scegliere per i verbi, scoprirei il
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prezzo della consecutio temporum. Il tutto per rispetto della
storia che è stata, di quella che sarà: certe opere sono diventate famose per essere rimaste abbozzate, magari corrette, di
certo non perfette. Per fare ordine è prima necessario fare
disordine.
Chi nasconde un errore ne fa due: lasciateli in bella-copia.
Mi dichiaro: sto dalla parte del disordine.
Faccio il tifo per lui, finché bocciatura non ci separi.
Una rosa sboccia:
un temporale
le toglie i petali.
Una mano stringe
e poi molla la presa.
Cose che succedono.
Da tempo mi sono messa in testa di partecipare a un concorso
di poesia. Sento di correre il rischio d’apparire assurda per questa mia ambizione: le mie poesie le stracceranno dopo qualche
verso, magari prima. L’immagino l’esaminatore-panciuto che,
fogli alla mano, sbufferà tra sé: “Chi è che ha il coraggio di
spedire righe simili? Magari è pure convinta d’aver riscritto la
Divina Commedia”.
Non m’importa quello che gli altri possono pensare di me.
Io sono felice e ritrovo me stessa in quello che scrivo: non scrivo per vivere, vivo per poi scrivere. Fare poesia, nel mio caso,
è come ingabbiare la vita dentro una rete di parole: strappare
una briciola allo scorrere del tempo, rendere eterno un battito
d’ali. Delle teste imbecilli non mi curo affatto: la luna non cura
l’abbaiar dei cani.
Alcuni giorni, poi, sono proprio convinta d’essere una
poetessa in erba. Mi spiego: non mi ritrovo nell’ermetismo
di Montale o nell’intimismo di Pascoli. La scapigliatura di
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Puccini, poi, non fa per me: di scapigliati ho solo capelli e
pensieri, soprattutto quando penso a lui. Diciamo che, qualora dovessi sposare qualcosa di già espresso, opterei per il
verismo. Anche se, a onore del vero, la nostra non è una
corrente letteraria vera e propria. È più un atteggiamento
assunto da un gruppo di donne amiche, una sorta di ottimismo drammatico.
Uso il plurale, siamo quattro: la sottoscritta, Rebecca
Gonzaga, Anita Mangiatore, Martina Nolantola. Quattro
studentesse qualunque diventate amiche-di-penna in occasione della fondazione di questo hobby culturale. Il nostro
motto è la frase che ci ha fatte incontrare: «Tutto quello che
ho per difendermi è l’alfabeto; è quanto mi hanno dato al
posto di un fucile». I diritti d’autore sono di Philip Roth,
romanziere inglese di lingua ebraica che la professoressa d’italiano, la mitica Lucia Amendola, ha citato una mattina di
sfuggita. È bastato udirla per sentirci tutte e quattro simili:
con gli sguardi ci siamo date appuntamento, da compagne
di classe siamo diventate le fondatrici di un nuovo atteggiamento letterario.
Amiche di penna, di cuore, nella buona e nella cattiva sorte. Certi attimi sono scintille, somigliano a delle farfalle. A
proposito delle farfalle: riusciranno un giorno a trovare un
posto dove ballare anche quando fuori sta per piovere? Nel
frattempo, l’unica cosa di cui sono a conoscenza è che scrivere
poesie può diventare pericolosissimo: le parole dei poeti sono
trappole, agguati, i loro silenzi sono tempeste che scagliano
immagini di fuoco, il non-detto è un grido di battaglia. In una
poesia, sistemare la punteggiatura è come giocare un incontro di scherma: è importante sentire la lama. Le sillabe sono
sciabole, la lama può essere fatale, ma giocare si deve. Anche
amare: un amore che non sia pericoloso non è amore.
È calcolo, previsione. Chiamatelo come volete: non amore.
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Cento schegge,
cento tuoni,
cento canzoni.
Tutto tornerà alla pace di prima.
Ogni volta che mi capita d’incrociarlo, mi appare sempre anche Catullo, come fosse un uccello del malaugurio. Ti-odio-eti-amo: come possa fare ciò, non lo capisco. Sento, però, che
così mi capita con lui. E me ne assillo, proprio come Valerio.
Lui è la perfezione. A scuola io sto seduta nel penultimo
banco: lui nel primo, appena sotto la cattedra. La sua posizione è una netta dichiarazione d’intenti: uno come lui ha tutte
le carte in regola per dimostrare quotidianamente che sa già
tutte le cose che la scuola ha da insegnarci. Sembra nato per
andare a scuola: per questo alza la mano prima ancora che
abbiano finito di formulare le domande.
Per casi così, val bene che andare a scuola non serve a niente.
Siamo in presenza di uno per il quale la bella-copia è tutto.
Un elaborato, al momento della consegna, dev’essere perfetto,
l’immagine di chi lo firma: capelli pettinatissimi, camicia-emaglioncino, jeans rigorosamente di marca. Un piccolo lord,
per discendenza di padre. Non parliamo delle scarpe, quasi
una forma di culto: la sua scarpiera ha dichiarato lo stato d’emergenza, per esubero.
Lo amo. Lo odio.
Lo amo e lo odio. E lui?
Non mi cura. Da quando m’ha fissato quella prima volta
davanti ai bagni pubblici, ogni volta che lo incrocio faccio
sforzi sovrumani per non fargli intuire il mio subbuglio: s’accorgesse, ingrasserebbe la sua boria. È che quando penso a
lui, porca-miseria, il mio cuore sbrindella: dovrei chiedere a
Catullo se è in grado di mettere in rima anche questa mia
baraonda. Lo sogno e lo maledico, m’avvicino e mi nascondo,
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lo bestemmio e m’affascina. Non mi bada, neanche di striscio.
Mi piacerebbe ogni tanto poter dire: «E chi se ne frega!».
A esserne capaci.
Il fuoco d’amore
che provo
per te
mi sta consumando.
Tremo.
Le oche e le papere del Catullo se lo contendono a suon di
beccate e di starnazzi. Il mio liceo, certe mattine, è un immenso acquitrino: sono in tante a decidere di svernare e curarsi
gli ormoni nella mia stessa scuola. Forse pensano che se una
nasce oca e si iscrive al liceo classico diventerà un cigno. Non
funziona, donne-racchie: se un’oca frequenta il liceo, rimane
un’oca che frequenta il liceo. Sto pensando a Federica, tanto
per non fare dei nomi a caso: una di quelle che per lui sono
una benedizione dal cielo.
Nulla da eccepire sulla sua intelligenza: è un vero peccato,
però, che di tutto quel bendidio se ne ricordi solo quand’è a
scuola. D’altronde a casa sua il trucco è facile da smascherare: tu
pensa a andare bene a scuola e potrai tutto. Dico tutto e significa
tutto, anche ciò che da me sta sempre a un passo dal possibile.
Quando fa così, la sua arroganza mi irrita: è insopportabile.
Pensare quanto m’intriga quelle rarissime volte che l’ho beccato andare a spasso spettinato, con la tuta da ginnastica addosso, le Converse slacciate ai piedi: ha un’aria da simpaticissima
canaglia. Gli salterei dritta addosso quando lo vedo passarsi le
mani tra i capelli, con la felpa aperta, quando si stravacca sui
gradini come tutti i ragazzi della sua età. Quand’è così, il mio
cuore bombarda battiti d’amore, di sacro tremore. L’unica volta
che mi ha sorriso, nei suoi occhi ho intravisto frammenti di
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meteoriti: è bello come un angelo. Oppure come un diavolo.
Sono pazza di lui.
Lo odio quando non è così.
Lo-amo-e-lo-odio. Poi mi tormento: temo d’avere una particolare predisposizione al colore nero.
È irrefrenabile.
Nostalgia di un istante,
malinconia di un incontro fuggito.
Desiderio incompreso
mentre la mano si tendeva
verso la tua non risposta.
Occhi smarriti
che non osano pensare,
che non osano credere
che un’ora possa
cancellare una (valida) storia.
La mia prima battaglia contro le oche fu un fiasco completo.
Lui le dà appuntamento nella piazzetta del centro, di fronte al
palazzo dove abita. L’avevo scoperto intercettando un biglietto
che le ha passato al cambio d’ora: almeno facessero attenzione al
traffico prima di fare manovra in mezzo ai banchi. Ho tenuto a
memoria l’ora, il luogo e mi sono appostata dietro un cipresso,
per assistere alla scena. Non immaginavo che avrei fatto così
tanto male a me stessa: tra le altre cose, poi, mi sono vergognata
come una ladra a vederli in quelle pose. A effusioni finite, se
ne sono sgattaiolati via alla rinfusa. Con loro se n’è andata in
fumo anche tutta la galanteria che mi contraddistingue, anche
per provenienza materna: “Ti avrei dato il tutto. Hai preferito
il niente. Stammi bene”. Proprio così ho scritto nel biglietto
che gli ho infilato dentro la cassetta della posta. In poche parole
volevo fargli capire che eravamo solo alla fine del primo tempo:
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che non s’illudesse che aver vinto una battaglia significasse aver
vinto una guerra. È un errore di gioventù che si fa spesso.
Accanto al portone c’è una libreria. Nella lavagna che invita il passante a entrare, hanno scritto: “Sognate anche voi
un amore come quello di Romeo e Giulietta? Ricordatevi che
è durato tre giorni, con sei morti. La lettura rinfresca la memoria”. Proprio lì davanti si sono baciati quei due: almeno
avessero prima letto le istruzioni per l’uso.
È un tipetto genialoide: solo a scuola, però. Chissà come
mai nella testa di certi uomini ci sono sempre molte più ombre che luci. Quando lo capirà?
A corrergli dietro, sono quasi sempre tornata a casa col cuore
che cincischiava: strozzavo nel cuscino la rabbia nel non riuscire a spodestare quell’esercito di oche-papere-racchie che stava
nel mezzo tra lui e me. Erano le sere nelle quali, appena dopo
l’imbrunire, mi tiravo il piumone fin sopra i capelli: non per
questo posso dire d’aver dormito bene in quelle notti insonni.
Ho memoria di parecchi greggi di pecore annotati sul soffitto.
«Ti ho visto piangere dietro il cipresso. Che succede?»
Pensavo d’essere sola. Adesso mi accorgo che qualcuno mi
stava spiando, mentre io osservavo loro. Che la vita sia tutta
un’eterna fase di spionaggio? Ero nel mirino di Rebecca: il
messaggio che mi ha appena scritto me lo fa capire in maniera
esplicita, seppur implicita.
«Come stai?»
Come sto? Sto. Non so bene come sto. Ma sto.
I miei pensieri fanno bisboccia, la mia testa è un flipper:
basta un nonnulla per mandarmi in singhiozzo. Mi faccio
troppe domande, come i bambini piccoli.
Quella sera è stata una. Una di troppe sere.
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All’inizio della quarta superiore mi sono decisa: d’ora in poi
basta! Sentivo di voler cambiare tante cose: ho cominciato a
volermi più bene, a credere di più in me stessa, a non svilirmi
continuamente. Ho ancora impressa una mattina d’autunno
di quell’anno. Ho aperto il balcone della camera e sono stata
inondata da una malinconia infinita: il cielo era sconsolato,
c’era aria di tempesta. Sono corsa allo specchio incazzatissima
e, specchiandomi, ho fatto una promessa a me stessa: “Questa
che si è alzata è una donna nuova. Una che non si farà più
bistrattare da nessuno”. Non reggevo più quei tira-e-molla: sapevo di valere molto di più di ciò che lui voleva farmi credere
con il suo menefreghismo di facciata. Un fatto solo mi spaventava: non avrei mai voluto diventare una ragazza cattiva,
insensibile.
Ho sempre amato la mia povertà.
Sono tornata alla finestra. Ho guardato il pesco piantato
lungo la strada: da quando sono nata, è lui a darmi la buonagiornata. Ha delle radici che sprofondano nella terra, senza
chiedere permesso ad alcuno. Nemmeno io chiederò più il
permesso per essere felice. Per amare. Nessun veleno potrà avvelenare queste mie radici. Nessuna mano potrà strapparle.
Davanti allo specchio ho scelto da che parte stare: dalla
parte del mio nome, il più bel nome.
L’unico che, di pomeriggio, non sfiguri alla luce del sole.
Ce la farò: rinascerò donna. Amerò ancora.
Dopo cinque anni, cinque giorni fa ho concluso il liceo classico. Cinque anni nascosti in una riga:
“Mielantoni L. - Esito Positivo sessantatré/100esimi”.
La memoria guiderà i ribelli.
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