lover mine un amore selvaggio

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lover mine un amore selvaggio
J. R. WARD
LOVER MINE
UN AMORE SELVAGGIO
UN ROMANZO DELLA CONFRATERNITA DEL PUGNALE NERO
Titolo dell'opera originale:
Black Dagger Brotherhood: Lover Mine Traduzione dall'americano di Paola Pianalto
Questo romanzo è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell'immaginazione dell'Autrice o
usati in modo fittizio. Qualunque rassomiglianza con fatti, località, organizzazioni o persone, vive o defunte, è del tutto casuale.
Copyright © Jessica Bird, 2010 Ali rights reserved including the right of reproduction in whole or in part in any form.
Proprietà letteraria riservata © 2012 Mondadori Direct S.pA. per Mondolibri, Milano This edition published by arrangement with NAL
Signet, a member of Penguin Group (USA) Inc.
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Dedicato a Te:
Non riesco a credere che tu e io abbiamo fatto tanta strada insieme, il tuo libro, però, non è un addio... solo un altro
inizio. Ma ci sei abituato...
Ringraziamenti
Con immensa gratitudine ai lettori della Confraternita del Pugnale Nero e in particolare alle ragazze!
Grazie infinite per tutto il supporto e la guida: Steven Axelrod, Kara Welsh, Claire Zion e Leslie Gelbman.
Grazie anche a tutti quelli della New American Library - questi libri sono davvero uno sforzo di squadra.
Grazie, Lu, Opal e tutti i nostri Mods, per tutto ciò che fate spinti dalla vostra bontà d'animo!
Come sempre con molta riconoscenza al mio Comitato Esecutivo: Sue Grafton, Dott.ssa Jessica Andersen e Betsey
Vaughan.
E con grande stima all'incomparabile Suzanne Brockmann e alla sempre favolosa Christine Feehan (e famiglia) e a tutti
gli autori della mia vita che sono una tale fonte di conforto e consigli (Christina, Linda e Lisa!).
Grazie anche a Kara Cesare, che resta sempre vicinissima al mio cuore.
A D.L.B. - sono una della tue più grandi fan, continua a scrivere, per favore! Ti voglio bene. Baci. Mamma.
A N.T.M. - grazie di essere rimasto sempre al mio fianco, nel bene e nel male.
A Jac (e alla sua Gabe!) - con tanti ringraziamenti per Plastic Fantastic e per la ridefinizione del romanticismo.
A LeElla Scott - a cui voglio un mare di bene, e non solo perché si prende splendidamente cura del mio adorato
cucciolotto.
A Katie, alla nostra piccola Kaylie e alla loro mamma - che inserirò subito nelle chiamate rapide del cellulare.
A Lee per avermi spianato la strada e a Margaret e Walker per essere una tale fonte di gioia.
Niente di tutto ciò sarebbe possibile senza: il mio affettuoso marito, che è il mio consigliere, assistente e visionario; la mia
meravigliosa madre, che non potrò mai ripagare per tutto l'amore che mi ha dato; i miei familiari (sia di sangue che di
adozione) e i miei più cari amici.
Oh, e con affetto alla dolce metà di WriterDog, come sempre.
Certe cose è destino che accadano... Per arrivarci, ci occorrono solo un paio di tentativi.
Prologo
CAMPO MILITARE DEL CARNEFICE, VECCHIO CONTINENTE, 1644
Avrebbe voluto avere più tempo.
Anche se, in verità, cosa sarebbe cambiato? Il tempo conta solo se ci si fa qualcosa, e lui, lì, aveva già fatto ciò che
poteva.
Darius, figlio di Tehrror; figlio abbandonato di Marklon, sedeva su un pavimento in terra battuta col suo diario aperto
sulle ginocchia e una candela di cera d'api davanti a sé. La sua illuminazione era la fiammella che fluttuava nella
corrente, la sua stanza l'angolo estremo di una grotta. I suoi abiti erano di cuoio grezzo, e così pure gli stivali.
Nelle narici, l'afrore di sudore maschile e l'odore pungente di terriccio si mescolavano al lezzo dolciastro di mortedecomposizione del sangue di lesser.
Ogni suo respiro sembrava moltiplicare il tanfo.
Sfogliando le pagine di pergamena, risalì indietro nel tempo, un giorno dopo l'altro, fino all'epoca in cui non era lì, al
campo di addestramento militare.
La nostalgia di "casa" gli procurava un malessere fisico, il soggiorno in quel campo era un'amputazione, più che un
trasferimento.
lira cresciuto in un castello dove eleganza e grazia erano la trama stessa della vita. Entro le solide mura che avevano
protetto la sua famiglia tanto dagli umani quanto dai lesser, ogni notte era calda e profumata di rose come a luglio, i
mesi e gli anni scorrevano sereni tra agi e ozi. Le cinquanta stanze che tanto spesso aveva attraversato erano
tappezzate con seta e raso, arredate con mobili intagliati in legni preziosi, ricchi tappeti e passatoie in tessuto, non
povere stuoie di giunco. Adorno di dipinti a olio in cornici dorate e statue
di marmo in pose solenni, era uno scenario di platino a cui ancorare un'esistenza di diamante.
Sarebbe stato dunque inconcepibile, allora, che lui potesse mai finire dove si trovava adesso. C'era, tuttavia, una
debolezza cruciale nelle fondamenta di quella sua vita.
Il cuore palpitante di sua madre gli aveva conferito il diritto di abitare sotto quel tetto, in quel focolare privilegiato.
Quando tuttavia quell'organo vitale e colmo d'amore aveva cessato di battere nel suo petto, Darius aveva perso non
solo la sua mahmen, ma anche la sola dimora che avesse mai conosciuto.
Il suo patrigno lo aveva cacciato di casa, relegandolo lì, in virtù di una ostilità a lungo celata.
Non c'era stato il tempo di piangere la dipartita di sua madre, di interrogarsi sull'odio repentino del vampiro che lo
aveva cresciuto, seppur non generato, di struggersi per la sua passata identità di rampollo di buona famiglia, membro
della glymera.
Era stato scaricato all'ingresso di quella grotta come un umano colpito dalla peste. E le battaglie erano cominciate
ancor prima di vedere un lesser o di iniziare l'addestramento volto a combattere i non morti. La prima notte e il primo
giorno all'interno del campo era stato attaccato dai compagni, i quali vedevano nei suoi begli abiti, l'unico bene che
Darius aveva potuto recare con sé, la prova evidente della sua debolezza fisica.
In quelle ore buie egli aveva sorpreso se stesso, oltre che i suoi aggressori.
Proprio allora, infatti, aveva scoperto insieme a loro che, pur essendo stato allevato da un aristocratico, aveva nel
sangue le doti di un guerriero. Non di un semplice soldato, no: di un fratello. Senza che gli fosse stato insegnato nulla, il
suo corpo aveva saputo cosa fare, reagendo all'aggressione fisica con prontezza stupefacente. La mente non si
capacitava della brutalità dei suoi gesti, ma mani, piedi e zanne avevano agito d'istinto, con perizia e precisione.
In lui albergava un lato ignoto, inconsapevole... che in qualche modo lo rifletteva meglio dell'immagine tanto a lungo
contemplata allo specchio.
Col tempo la sua maestria nel combattere era vieppiù migliorata... e l'orrore che provava per se stesso era diminuito.
Non c'era altra via da percorrere, in verità: il seme del suo vero padre, del padre di suo padre e del padre di suo nonno
aveva determinato la sua natura - pelle, ossa e muscoli; la stirpe di guerrieri purosangue da cui discendeva lo aveva
trasformato in una forza indomabile.
E in un avversario feroce e letale.
Darius trovava oltremodo inquietante quest'altra identità. Era come proiettare due ombre, come se, ovunque andasse, il
suo corpo fosse illuminato da due fonti luminose distinte. Pur tuttavia, sebbene una condotta tanto abominevole e
violenta offendesse la sensibilità che gli era stata insegnata, egli la riconosceva come parte della causa superiore che era destinato a servire. E lo
aveva salvato in più di un'occasione... da coloro che cercavano di fargli del male li al campo, e da colui che sembrava
augurarsi la morte di tutti quanti loro. Il Carnefice avrebbe dovuto essere il loro whard, ma si comportava più come un
nemico, pur istruendoli nell'arte della guerra.
O forse il punto era proprio quello: la guerra era orribile in ogni sua sfaccettatura, sia che ci si preparasse a combatterla
sia che la si combattesse.
Il metodo di insegnamento del Carnefice era brutale e i suoi dettami sadici imponevano azioni che Darius si rifiutava di
eseguire. Negli scontri tra reclute egli era sempre il vincitore, in verità... ma non prendeva parte agli stupri, il castigo
inflitto ai vinti. Il suo riliuto era l'unico a essere onorato. Una volta il Carnefice lo aveva sfidato per tale
insubordinazione, ma allorché Darius lo aveva quasi battuto, non aveva più osato avvicinarlo.
Gli sconfitti per mano di Darius, tra cui figuravano tutti gli ospiti dell'accampamento, venivano puniti da altri, ed era
in tali occasioni, quando il resto del campo era occupato dallo spettacolo, che più di frequente egli trovava conforto nel
suo diario. Come al momento presente: non osava volgere lo sguardo verso la conca principale dove si accendeva il
fuoco, poiché lì era in corso una delle sessioni.
Detestava essere nuovamente la causa di tanta brutale violenza... tua non aveva altra scelta. Doveva allenarsi, doveva
combattere e doveva vincere. E la somma risultante da tale equazione era determinata dalla legge del Carnefice.
Dall'arena si levarono grugniti e sguaiate grida di derisione.
Col cuore gonfio di dolore, Darius chiuse gli occhi. Il compagno t he stava infliggendo la punizione in vece sua era un
giovane crudele, della stessa pasta del Carnefice. Si offriva di frequente come volontario al posto di Darius, poiché
dispensare dolore e umiliazione lo faceva godere quanto ingollare idromele.
Forse però quella sarebbe stata l'ultima volta. Almeno per Darius.
Quella notte doveva affrontare la sua prova sul campo. Dopo un anno di addestramento sarebbe uscito a combattere
non con dei semplici guerrieri, ma con i fratelli. Era un onore raro... e il segno che la guerra contro la Lessening Society
era, come sempre, spaventosa. I innata abilità di Darius non era passata inosservata e Wrath, il Re Giusto, aveva dato
ordine di portarlo fuori dal campo affinché potesse perfezionarsi sotto la guida dei migliori guerrieri di cui disponeva la
razza dei vampiri.
La Confraternita del Pugnale Nero.
Tutto poteva risolversi in nulla, tuttavia. Se quella notte non si fosse dimostrato all'altezza del compito, Darius
sarebbe stato ributtato nella grotta per riprendere con i suoi pari il genere di "insegnamento" impartito dal Carnefice.
I fratelli non lo avrebbero mai più messo alla prova; sarebbe stato relegato per sempre al ruolo di soldato.
Con la confraternita si aveva una sola possibilità, e la prova, in quella notte di luna, non verteva sugli stili di
combattimento o sui diversi tipi di armi. Era una prova di coraggio. Darius era in grado di guardare il nemico negli
occhi, di fiutare il suo odore dolciastro mantenendo la calma, mentre si scatenava contro quegli assassini?
Darius alzò gli occhi dalle parole che aveva affidato alla pergamena tanto tempo prima. Sulla soglia della grotta
c'erano quattro guerrieri, alti, robusti e armati fino ai denti.
Membri della confraternita.
Li conosceva per nome tutti e quattro: Ahgony, Throe, Muhrder, Tohrture.
Darius chiuse il diario, lo infilò dentro una fessura della roccia e si leccò il taglio al polso che si era fatto per procurarsi
l'"inchiostro". Il calamo, ricavato da una penna della coda di un fagiano, si stava consumando in fretta, e non sapeva se
sarebbe mai tornato lì per usarlo di nuovo, ma lo mise via comunque.
Prendendo la candela per avvicinarla alla bocca, rimase colpito dalla qualità burrosa della luce. Quante ore aveva
trascorso a scrivere con quella illuminazione fioca e soffusa... quello sembrava l'unico legame tra la sua vita di un
tempo e quella presente.
Gli bastò un soffio per spegnere l'esile fiammella.
Alzandosi in piedi, raccolse le sue armi: un pugnale d'acciaio che gli avevano dato dopo averlo sfilato dal cadavere
ancora caldo di un'altra recluta, e una spada proveniente dall'arsenale comune del campo. Né l'uno né l'altra aveva
un'impugnatura adatta al suo palmo, ma la mano con cui le brandiva non se ne curava.
I fratelli lo guardavano senza il minimo cenno di saluto o di congedo. Darius rimpiangeva che tra loro non vi fosse il
suo vero padre. Come tutto sarebbe stato diverso se al suo fianco avesse avuto qualcuno interessato al buon esito della
sua prova: non cercava clemenza né una dispensa speciale, ma ora si sentiva più che mai solo, diverso da chi gli stava
intorno, separato da uno spartiacque che egli poteva oltrepassare con lo sguardo, ma mai cancellare.
Non avere una famiglia è una prigione strana, invisibile; le sbarre di solitudine e sradicamento, che si fanno vieppiù
robuste con l'accumularsi degli anni e dell'esperienza, isolano l'orfano da tutto e da tutti.
Senza guardarsi indietro, Darius avanzò verso il quartetto recatosi lì per lui. Il Carnefice sapeva che Darius doveva
scendere in campo, e non gli importava che tornasse o meno. E così pure i suoi compagni.
Sperava di avere più tempo per prepararsi a quella prova di volontà, forza e coraggio. Ma così non era: doveva
affrontarla lì e ora.
Il tempo corre e vola, invero, anche quando si vorrebbe rallentarlo fino a farlo strisciare.
Darius si fermò di fronte ai fratelli, bramando una parola di incoraggiamento, un augurio o una promessa di lealtà. In
assenza di tutto ciò, rivolse una breve preghiera alla sacra madre della razza:
Vergine Scriba, ti prego, aiutami a non fallire.
Capitolo 1
Un'altra cazzo di farfalla.
Nel vedere chi stava entrando nel suo negozio di tatuaggi, RIP già sapeva che sarebbe finito a fare un'altra cazzo di
farfalla. O addirittura due.
Già. Data la coppia di biondine spumeggianti che si avvicinavano ridacchiando alla cassiera, non aveva nessuna
speranza di disegnare sulla loro pelle un bel teschio-e-tibie-incrociate.
Le due Paris Hiìton, con la loro euforia da quanto-siamo-fiche, lo spinsero a guardare l'orologio... e a desiderare di
chiudere subito, invece che all'una.
Dio... le porcherie che faceva per soldi. Il più delle volte era accomodante con le mezzeseghe che entravano per farsi
marchiare, ma quella sera le brillanti idee delle bamboline-carine gli davano un gran fastidio. Difficile entusiasmarsi
per il classico campionario alla Hello Kitty quando avevi passato le ultime tre ore a fare un ritratto commemorativo
per un motociclista che aveva perso sulla strada il suo migliore amico. Uno era vita vera, l'altro un cartone animato.
Mar, la cassiera, gli andò vicino. «Hai tempo per una sveltina?» Le sopracciglia con i piercing si sollevarono, quando
alzò gli occhi al cielo. «Non dovrebbe volerci molto.»
«Sì», fece lui con un cenno del capo in direzione della poltroncina imbottita. «Porta qui la prima.»
«Vogliono farlo insieme.»
Naturale. «Okay. Vai nel retro a prendere lo sgabello.»
Mar sparì dietro una tenda e lui si preparò a cominciare, mentre le ragazzine vicino alla cassa si tenevano per mano
cinguettando sui moduli di consenso che dovevano firmare. Ogni tanto tutte e due gli scoccavano occhiate sbalordite,
come se, con tutti quei tatuaggi e quei piercing, fosse una tigre esotica che erano andate ad ammirare allo zoo... e che
approvavano senza riserve.
Uh-huh. Già. Si sarebbe tagliato le palle piuttosto che gratificarle anche solo con una scopata pietosa.
Dopo aver incassato i soldi, Mar le accompagnò da lui presentandole come Keri e Sarah. Meglio di quanto pensasse.
Era già pronto per Tiffany e Brittney.
«Io voglio una carpa arcobaleno», esordì Keri, accomodandosi sulla poltroncina con quella che chiaramente voleva
essere una contorsione seducente. «Proprio qui.»
Così dicendo tirò su la camicetta attillata, tirò giù la cerniera dei jeans e abbassò il bordo del tanga rosa. All'ombelico
aveva un anellino con appeso un cuoricino rosa di strass ed era chiaro che aveva un debole per l'elettrocoagulazione.
«Bene», fece RIP. «Grande quanto?»
Keri la Seduttrice si sgonfiò un filino... forse il successone riscosso con i giocatori di football del college l'aveva
convinta che RIP avrebbe sbavato di fronte a tutto quel ben di dio messo generosamente in mostra.
«Uhm... non troppo grande. I miei mi uccidono se scoprono che mi sono fatta fare un tatuaggio... per cui non deve
spuntare fuori dalla mutandina del bikini.»
Certo che no. «Cinque centimetri?» RIP alzò la mano tatuata per darle un'idea delle dimensioni.
«Magari... un po' più piccola.»
Con una penna nera RIP le fece uno schizzo sulla pelle e, dopo che lei gli ebbe raccomandato di mantenersi
all'interno dei contorni, si infilò i guanti neri, tirò fuori un ago nuovo e regolò la macchinetta elettrica.
In meno di un secondo, Keri aveva già le lacrime agli occhi e si teneva aggrappata alla mano di Sarah neanche stesse
partorendo senza epidurale. Ma il punto era proprio quello, no? C'è una bella differenza tra essere uno coi
controcazzi e un aspirante tale. Farfalline, carpe e graziosi cuoricini non sono...
La porta del negozio si spalancò... e RIP si raddrizzò leggermente sullo sgabello girevole.
I tre uomini che entrarono non erano in uniforme militare, ma di sicuro non erano dei civili. Vestiti da capo a piedi di
pelle nera, dai giubbotti ai calzoni, agli stivali, erano dei colossi; bastava la loro presenza a risucchiare tutto lo spazio
del suo studio, rimpicciolendolo come se le pareti si fossero ristrette e avvicinate tra loro e il soffitto si fosse
abbassato sul pavimento. E sotto quei giubbotti c'erano un mucchio di rigonfiamenti. Del tipo dovuto a pistole e,
forse, coltelli.
Senza farsi notare, RIP si spostò verso il banco, dove c'era il bottone per l'allarme di emergenza.
Il tizio sulla sinistra aveva gli occhi di due colori diversi, dei piercing grigio piombo e uno sguardo gelido da killer.
Quello a destra sembrava un po' più nella norma, coi suoi capelli rossi e la faccia da bravo ragazzo... a parte il fatto
che si muoveva come un reduce di guerra.
Quello in mezzo, però, prometteva guai. Leggermente più grosso dei suoi compari, aveva i capelli castano scuro
tagliati corti e un viso dalla bellezza classica... ma gli occhi azzurri erano senza vita: come l'asfalto consumato delle
strade, non riflettevano la luce.
Un cadavere ambulante. Senza niente da perdere.
«Ehilà», fece RIP a mo' di saluto. «Volete farvi dei tatuaggi, ragazzi?»
«Lui sì», disse quello con i piercing, annuendo in direzione del suo amico con gli occhi azzurri. «Ha già il disegno. Lo
vuole sulle spalle.»
RIP si affidò all'istinto. Gli uomini non guardavano Mar in modo lascivo, non puntavano al registratore di cassa e
non avevano estratto armi. Aspettavano cortesemente... ma con una certa impazienza. Come a dire che, o lui li
accontentava o si sarebbero cercati qualcun altro.
RIP si rilassò, pensando che quelli facevano proprio al caso suo. «Perfetto. Qui ho quasi finito.»
«Ma dovevamo chiudere tra neanche un'ora...» protestò Mar da dietro al bancone.
«Te lo faccio lo stesso», disse RIP rivolto a quello al centro. «Non preoccuparti per l'orario.»
«Allora credo che mi fermerò anch'io», disse Mar, adocchiando quello con i tatuaggi.
Il tipo con gli occhi azzurri sollevò le mani e cominciò a muoverle con gesti marcati. Quando si fermò, quello con i
piercing tradusse, «Dice che la ringrazia. E ha portato anche l'inchiostro, se non è un problema.»
Non era proprio normale e andava contro i regolamenti sanitari, ma con il cliente giusto RIP era sempre pronto a
mostrarsi flessibile. «Nessun problema, amico.»
RIP tornò a concentrarsi sulla carpa e Keri ricominciò a mordersi il labbro e a frignare come una bambinetta. Alla
fine non fu per nulla sorpreso che Sarah, dopo aver assistito alle "atroci sofferenze" dell'amica, decidesse di
riprendersi i soldi, invece di farsi fare anche lei un grazioso tatuaggio coi colori dell'arcobaleno.
Ottima notizia. Significava che poteva mettersi subito al lavoro sul tizio dagli occhi spenti.
Si tolse i guanti neri e pulì bene tutto, chiedendosi che razza di disegno gli avrebbe chiesto. E quanto ci avrebbe
messo Mar a infilarsi nei calzoni del tipo coi piercing.
Il primo non doveva essere male.
Quanto alla seconda domanda... una decina di minuti potevano Listare, perché Mar aveva già intercettato il suo
sguardo bicolore ed era una sveglia, una che non perdeva tempo... e non solo alla cassa.
Dall'altra parte della città, lontano dai bar e dai negozi di tatuaggi su Trade Streed, in una enclave di palazzi signorili
in arenaria e viuzze lastricate di ciottoli, Xhex, ritta davanti a un bovindo, guardava fuori dagli antichi vetri ondulati.
Era nuda, infreddolita e coperta di lividi.
Ma non era debole.
Giù di sotto, sul marciapiede, un'umana col cellulare attaccato all'orecchio portava a passeggio un cagnolino che
abbaiava in continuazione. Sull'altro lato della strada, in altri eleganti edifici senza ascensore, c'era gente che beveva,
mangiava e leggeva. Le auto procedevano adagio, sia per rispetto verso i vicini sia per timore che l'acciottolato
rovinasse le sospensioni.
L'homo sapiens non poteva vederla né sentirla. E non solo perchè le capacità della razza umana erano così ridotte,
rispetto a quelle dei vampiri.
O dei vampiri per metà symphath, come nel suo caso.
Poteva accendere il lampadario e urlare fino a mettere fuori uso la laringe, poteva slogarsi le braccia a furia di
agitarle, ma gli uomini e le donne tutt'intorno avrebbero continuato a fare quello che stavano facendo, ignari che lei
era prigioniera in quella camera da letto, proprio lì, in mezzo a loro. E non poteva neanche sollevare il cassettone o il
comodino e rompere il vetro. Così come non poteva sfondare la porta a calci o strisciare fuori attraverso il condotto
d'aerazione del bagno.
Le aveva già provate tutte.
La killer in lei era sinceramente impressionata dalla natura pervasiva di quella cella invisibile: non c'era modo di
uscirne, nel vero senso della parola.
Diede le spalle alla finestra, girò intorno all'enorme letto matrimoniale con le sue lenzuola di seta e i suoi ricordi
orribili... passo davanti al bagno di marmo... e proseguì fino alla porta che dava sul corridoio. Per come andavano le
cose col suo aguzzino, non aveva nessun bisogno di ulteriore esercizio fisico, ma non riusciva a stare ferma per la
tensione nervosa.
Già un'altra volta le era capitato di trovarsi in trappola e sapeva che la mente, come un corpo affamato, può
cannibalizzare se stessa dopo troppo tempo, se non la si nutre con qualcosa.
La sua distrazione preferita? Miscelare gli alcolici. Dopo aver lavorato per anni nei club conosceva un'infinità di
cocktail e intrugli vari e li ripassava mentalmente, figurandosi le bottiglie, i bicchieri, l'atto di versarli, il ghiaccio e
tutto il resto.
Quella specie di "Barista-pedia" le aveva impedito di impazzire.
Fino a quel momento aveva confidato in un errore, una svista, un'opportunità di fuga. Non ce n'erano state e la
speranza cominciava a svanire, lasciando un enorme buco nero pronto a inghiottirla. Così continuava a preparare
drink nella sua testa e a cercare una possibile via d'uscita.
La sua precedente esperienza le tornava stranamente utile. Qualunque cosa accadesse lì, in quella casa, per quanto si
mettesse male, per quanto fosse doloroso sul piano fisico, non era niente se paragonato a quello che aveva già
passato.
Quello era il campionato di serie B.
O almeno... era quello che lei si ripeteva. A volte sembrava peg-gio.
Continuò a camminare: davanti ai due bovindi, accanto al comò e poi di nuovo intorno al letto. Questa volta entrò nel
bagno. Non c'erano rasoi, spazzole o pettini, solo alcuni asciugamani leggermente umidi e un paio di saponette.
Quando Lash l'aveva rapita, usando lo stesso tipo di magia che adesso la teneva prigioniera lì dentro, l'aveva portata
in quella sua tana elegante e la loro prima nottata e giornata insieme era stata indicativa di come sarebbe andata in
seguito.
Xhex si guardò nello specchio sopra i lavandini gemelli e procedette a uno spassionato esame del suo corpo. Aveva
ematomi dappertutto. .. e anche tagli e graffi. Lash era brutale e lei reagiva con altrettanta violenza perché per nulla al
mondo si sarebbe fatta ammazzare. .. quindi era difficile dire quali segni le aveva fatto lui e quali invece erano la
conseguenza accidentale di ciò che gli aveva fatto lei.
Se si fosse messo nudo davanti a uno specchio, quel bastardo non avrebbe avuto un aspetto migliore del suo, era
pronta a scommetterci.
Occhio per occhio.
Il malaugurato corollario, tuttavia, era che Lash godeva nel vederla rispondere colpo su colpo. Più se le davano di
santa ragione, )iù lui andava su di giri, sorpreso dalle sue stesse emozioni, Xhex o sentiva. Per il primo paio di giorni,
Lash era entrato in moda-ità castigo, tentando di fargliela pagare per quello che lei aveva fatto alla sua ultima
fidanzata... evidentemente le pallottole che aveva ficcato nel petto di quella troia lo avevano fatto incavolare di
brutto. Poi, però, le cose erano cambiate. Lash aveva cominciato a parlare meno della sua ex e più di parti anatomiche
e fantasie su un futuro in cui lei, Xhex, avrebbe portato in grembo suo figlio.
Confidenze intime per sociopatici.
Adesso quando andava a trovarla gli brillavano gli occhi per un motivo ben diverso e, se la metteva ko, di solito
quando rinveniva se lo trovava avvinghiato addosso.
Xhex diede le spalle al proprio riflesso e, prima di fare un altro passo, si bloccò.
Al piano di sotto c'era qualcuno.
Uscita dal bagno, andò alla porta che dava sul corridoio. Inspirò a fondo, lentamente, e quando le narici si riempirono
di un dolciastro fetore di carogna, capì che l'essere al pianterreno era un lesser... ma non era Lash.
No. Era il suo tirapiedi, quello che ogni sera, prima dell'arrivo del suo aguzzino, passava a preparargli qualcosa da
mangiare. Il che significava che Lash stava per rincasare.
La sua solita fortuna: era stata catturata dall'unico membro della Lessening Society in grado di mangiare e scopare.
Tutti gli altri lesser erano impotenti come vecchietti novantenni e campavano d'aria. Lash invece? Quello stronzo
funzionava a pieno ritmo.
Xhex tornò alla finestra e tese una mano verso il vetro. Il confine che delimitava la sua prigione era un campo
d'energia che al minimo contatto si manifestava in una sorta di caldo formicolio. Era come uno steccato invisibile per
qualunque cosa più grande di un cane... col vantaggio aggiuntivo di non richiedere collari o guinzagli.
Notò un piccolo cedimento... premendo il palmo davanti a sé sentì un accenno di flessibilità, ma solo fino a un certo
punto. Poi le molecole agitate si ricompattarono e il bruciore divenne così acuto che dovette scuotere la mano con
forza, camminando fino a far passare il dolore.
Nell'attesa che Lash si rifacesse vivo, la sua mente tornò al vampiro a cui tentava di non pensare mai.
Specie se Lash era in circolazione. Non era chiaro fino a che punto il suo rapitore potesse insinuarsi nella sua testa,
ma lei non voleva correre rischi. Se il bastardo subodorava che quel soldato muto era il suo "pozzo dell'anima", come
lo chiamava la sua gente, lo avrebbe usato contro di lei... e contro John Matthew.
Le tornò in mente una sua immagine, i suoi occhi azzurri così vividi, nel ricordo, che riusciva a scorgere le pagliuzze
blu scuro dell'iride. Dio, quei bellissimi occhi azzurri.
Ricordava la prima volta che lo aveva visto, prima della transizione. L'aveva guardata con un tale misto di soggezione
e meraviglia, come se fosse straordinaria, una rivelazione. All'epoca, naturalmente, Xhex sapeva solo che lui aveva
introdotto una pistola allo ZeroSum e, in qualità di responsabile della sicurezza del club, era fermamente decisa a
disarmarlo e a sbatterlo fuori. Poi, però, aveva scoperto che il Re cieco era il suo whard. e questo aveva cambiato tutto.
In seguito a quella simpatica notiziola sul suo padrino d'eccezione, John non solo poteva girare armato per il locale,
ma insieme ai suoi due amici era una specie di ospite d'onore. Dopo, John era tornato regolarmente e non aveva mai
smesso di guardarla, quegli occhi azzurri non la mollavano un secondo. Poi aveva superato la transizione. Porca
miseria se era diventato grosso, e tutt'a un tratto alla dolce timidezza dello sguardo si era aggiunto qualcosa di molto
sexy.
Ce n'era voluto, per uccidere quella dolcezza. Ma, fedele alla sua natura di assassina, alla fine Xhex era riuscita a
strangolarla, eliminando tutto il calore dal... modo in cui John la guardava.
Concentrandosi sulla strada sottostante, ripensò a quella volta che erano stati insieme, nel suo appartamento al
seminterrato. Dopo il sesso, quando John aveva provato a baciarla, quando i suoi occhi avevano cominciato a brillare
con la tipica vulnerabilità e compassione che aveva imparato ad associare a lui, lei si era scostata, respingendolo.
Si era spazientita. Proprio non ce la faceva a reggere la pressione di tutto quell'idillio in stile "cuore e amore"... o la
responsabilità derivante dallo stare con qualcuno che provava quei sentimenti per lei... o la consapevolezza che lei
aveva la capacità di ricambiare il suo amore.
Era stata punita: il risultato era stata la morte di quello sguardo tutto speciale.
L'unica consolazione era che, tra tutti quelli che con ogni probabilità si sarebbero messi a cercarla - Rehvenge, iAm e
Trez... i fratelli - John non si sarebbe imbarcato in una crociata. Se la stava cercando era perché rientrava tra i suoi
doveri di soldato, non perché si sentiva in obbligo di farlo come parte di una sua personale missione suicida.
No, John Matthew non sarebbe sceso sul sentiero di guerra per quello che provava per lei.
Avendo già visto un vampiro di valore distruggersi nel tentativo di salvarla, almeno non era costretta a ripetere
quell'esperienza.
Mentre l'odore di carne alla griglia si diffondeva per tutta la casa, scacciò quei pensieri e si avvolse nella forza di
volontà come ci si chiude in un'armatura.
Il suo "amante" era in arrivo da un momento all'altro, perciò doveva correre ai ripari, corazzarsi mentalmente e
prepararsi alla battaglia di quella notte. Si sentiva schiacciata dallo sfinimento, ma con un supremo sforzo di volontà
scalciò via quella zavorra. Doveva nutrirsi, aveva bisogno di sangue molto più che di una bella dormita, ma chissà
per quanto ancora avrebbe dovuto rinunciare a entrambe le cose.
Doveva solo resistere, andare avanti, mettere un piede davanti all'altro finché non si rompeva qualcosa.
Questo, e far fuori il bastardo che osava trattenerla lì contro la sua volontà.
Capitolo 2
Dal punto di vista cronologico, Blaylock figlio di Rocke conosceva John Matthew da poco più di un anno. Ma quella
non era una rappresentazione veritiera della loro profonda amicizia. Esistono due linee temporali nella vita delle
persone: quella assoluta e quella percepita. Quella assoluta è il ciclo universale del giorno e della notte, che nel loro
caso ammontava a qualcosa come trecentosessantacinque. Poi c'è il modo in cui quel periodo di tempo è trascorso, gli
eventi, le morti, la distruzione, l'addestramento, i combattimenti.
Nel complesso per loro due il totale equivaleva pressappoco a quattrocentomila anni.
Come minimo, pensò, guardando il suo amico.
John Matthew osservava i disegni a china sulle pareti dello studio, facendo scorrere lo sguardo su teschi e pugnali,
bandiere americane e ideogrammi cinesi. Con la sua stazza, faceva apparire minuscolo il negozio di tre stanze... tanto
da sembrare un alieno piovuto da un altro pianeta. In netto contrasto col suo fisico pre-transizione, adesso aveva la
massa muscolare di un professionista del wrestling; essendo molto alto, tuttavia, il peso era distribuito su ossa molto
lunghe che gli conferivano un aspetto più elegante rispetto a quegli umani in calzamaglia gonfi di muscoli e steroidi.
Aveva preso l'abitudine di rasarsi la testa, cosa che gli induriva i lineamenti, facendoli apparire spigolosi piuttosto
che belli... e i cerchi scuri sotto gli occhi rafforzavano ancor di più l'aspetto da duro.
La vita lo aveva strapazzato di brutto ma, invece di piegarlo, ogni colpo, ogni batosta lo aveva forgiato rendendolo
più tosto, più forte e più resistente. Adesso era d'acciaio dalla testa ai piedi, senza più l'ombra del ragazzino di un
tempo.
Crescere è così, d'altronde. Non è solo il corpo a cambiare, ma anche la testa.
Guardando il suo amico, Blay si disse che quella perdita dell'innocenza sembrava un crimine.
Sull'onda di quel pensiero, la sua attenzione venne attratta dalla cassiera dietro al banco. Se ne stava appoggiata alla
vetrinetta dov'erano esposti i piercing, con le tette che traboccavano dal reggiseno nero e dalla canotta attillata nera.
Aveva due maniche di tatuaggi, una in nero e bianco e una in nero e rosso, e anellini grigio piombo al naso, alle
sopracciglia e a entrambe le orecchie. In mezzo a tutti i disegni alle pareti, era un esempio vivente del lavoro che,
volendo, potevi farti fare. Un esempio molto sexy e hard... con labbra rosse come il vino e capelli neri come la notte.
In lei tutto si combinava alla perfezione con Qhuinn. Sembrava la sua versione femminile.
E, come da copione, Qhuinn le aveva già messo gli occhi addosso, col suo tipico sorriso da marpione.
Blay infilò la mano nel giubbotto di cuoio, cercando a tastoni il pacchetto di Dunhill rosse. Niente gli faceva venir
voglia di fumare come la vita amorosa di Qhuinn.
E, chiaramente, quella sera, una sigaretta dopo l'altra, avrebbe piantato un altro paio di chiodi nella bara: Qhuinn si
avvicinò lento alla cassiera e se la bevve neanche lei fosse un bel boccale di birra appena spillata e lui avesse
sgobbato per ore sotto il sole. Con gli occhi fissi sui suoi seni, si presentò e le chiese come si chiamava, mentre lei lo
aiutava a farsi un quadro più preciso della sua mercanzia sporgendosi in avanti sugli avambracci.
Meno male che i vampiri non si beccano il cancro, pensò Blay.
Dando le spalle al canale porno vicino alla cassa, andò a piazzarsi vicino a John Matthew.
«Questo qui è forte», disse, indicando lo schizzo di un pugnale.
Pensi di farti un tatuaggio, prima o poi? chiese John nella lingua dei segni.
«Non saprei.»
Dio, quanto gli piacevano, sulla pelle...
Riportò lo sguardo su Qhuinn. Il suo enorme corpo si stava inarcando contro l'umana; le spalle larghe, i fianchi stretti
e le gambe lunghe e muscolose le garantivano una cavalcata della miseria.
Era incredibile, a letto.
Non che Blay lo sapesse per esperienza. Lo aveva visto in azione e l'aveva sentito... e aveva immaginato come doveva
essere. Ma quando si era presentata l'occasione, era stato relegato in una piccola classe speciale: respinto.
Più che una classe era una categoria, in realtà... perché era l'unico con cui Qhuinn si rifiutava di fare sesso.
«Uhm... farà sempre così male?» chiese una voce femminile.
Le rispose un profondo borbottio maschile; Blay lanciò un'occhiata alla poltroncina. La biondina si stava infilando
con cautela la camicetta dentro i jeans, sopra la pellicola protettiva di cellofan, gli occhi fissi sull'uomo che l'aveva
appena tatuata neanche fosse un medico che le stava illustrando le probabilità di sopravvivenza alla rabbia.
La coppia di ragazze poi si avviò alla cassa, dove quella senza tatuaggi che aveva cambiato idea si fece rimborsare, e
tutte e due diedero una bella lumata a Qhuinn.
Era sempre così, ovunque andasse, ed era anche ciò che un tempo spingeva Blay a venerare il suo migliore amico.
Adesso, invece, era un rifiuto infinito: ogni volta che Qhuinn diceva di sì, quell'unico no detto a lui risuonava ancora
più forte.
«Io sono pronto, se per voi va bene, ragazzi», disse il tatuatore.
John e Blay si avviarono verso il retro del negozio e Qhuinn li seguì, abbandonando la cassiera come una brutta
abitudine. Un suo pregio era la serietà con cui prendeva il suo ruolo di ahstrux nohstrum di John. Era tenuto a stargli
accanto ventiquattr'ore su ventiquattro, sette giorni su sette, ed era una responsabilità che prendeva ancora più
seriamente del sesso.
Seduto sulla poltroncina al centro dello studio, John tirò fuori un pezzo di carta, aprendolo sul banco del tatuatore.
L'uomo si accigliò, guardando lo schizzo che John aveva abbozzato. «Allora vuoi questi quattro simboli in cima alle
spalle?»
John annuì dicendo, Può abbellirli come vuole, ma devono essere ben chiari.
Dopo che Qhuinn ebbe tradotto, il tatuatore annuì. «Ottimo.» Prese una penna nera e cominciò a tracciare un'elegante
cornice di svolazzi intorno al disegno nudo e crudo. «Cosa sono, a proposito?»
«Sono solo simboli», rispose Qhuinn.
Il tatuatore annuì di nuovo, continuando a disegnare. «Così vi piace?»
Tutti e tre si piegarono in avanti.
«Cribbio», mormorò Qhuinn. «Che libidine.»
Aveva ragione. Era assolutamente perfetto, il genere di tatuaggio che John poteva sfoggiare con orgoglio - non che
qualcuno avrebbe visto i caratteri nell'Antico Idioma o quello spettacolare intrico di segni. Non ci teneva a far sapere
in giro cosa c'era scritto, ma il bello dei tatuaggi è proprio questo: non devono per forza essere pubblici, e a lui le Tshirt con cui coprirlo non mancavano.
Quando John annuì, il tatuatore si alzò in piedi. «Vado a prendere la carta di trasferimento. Non ci vorrà molto a
copiarlo sulla pelle, così poi ci mettiamo al lavoro.»
John posò sul bancone una boccetta di cristallo piena d'inchiostro e cominciò a sfilarsi il giubbotto; Blay allora si
sedette sullo sgabello e tese le braccia. Con tutte le armi che il suo amico aveva in tasca non era il caso di appenderlo
a un gancio.
A torso nudo, John si piegò in avanti, con le braccia appoggiate a una sbarra imbottita. Dopo aver trasferito
l'immagine su carta, il tatuatore appiattì bene il foglio sulla parte superiore della schiena di John, facendolo aderire
alla pelle prima di staccarlo.
Il disegno formava un arco perfetto sopra la distesa di muscoli, coprendo le spalle in tutta la loro ragguardevole
ampiezza.
L'Antico Idioma era proprio bello, pensò Blay.
Fissando quei simboli, per un attimo fugace quanto ridicolo, immaginò il proprio nome sulle spalle di Qhuinn,
inciso su quella pelle liscia secondo il rito nuziale.
Impossibile. Loro due erano destinati a restare migliori amici... il che, paragonato a essere due sconosciuti, era una
cosa enorme. Paragonato a essere due amanti? Era il lato freddo di una porta chiusa a chiave.
Guardò Qhuinn. Teneva un occhio su John e uno sulla cassiera... che, chiusa a chiave la porta d'ingresso, si era
piazzata al suo fianco.
Dietro la patta dei calzoni di pelle c'era una protuberanza anche troppo evidente.
Blay abbassò lo sguardo sul mucchio di vestiti che aveva sulle ginocchia. Uno dopo l'altro, piegò con cura la
maglietta, la T-shirt a maniche lunghe e infine il giubbotto di John. Quando alzò gli occhi, Qhuinn stava facendo
scorrere lentamente l'indice lungo il braccio della donna.
Avrebbero finito per infilarsi dietro la tenda in fondo a sinistra. La porta d'ingresso del negozio era ben chiusa, la
tenda era abbastanza leggera e Qhuinn si sarebbe fatto l'umana senza neanche togliersi le armi. Così John non
avrebbe corso rischi... e lui si sarebbe tolto quella certa voglia.
Il che significava che Blay doveva solo sentirli.
Sempre meglio che sorbirsi tutto lo spettacolo. Specie perché Qhuinn era bellissimo da vedere, quando faceva sesso.
Proprio... bellissimo.
In passato, quando Blay aveva provato ad avere rapporti etero, loro due si erano scopati in coppia una quantità di
umane... non che Blay si ricordasse le facce, i corpi o i nomi di quelle donne.
Lui aveva occhi solo per Qhuinn. Da sempre.
Il dolore sottile procurato dall'ago era un piacere.
John chiuse gli occhi con un respiro lento e profondo, pensando all'intersezione tra metallo e pelle; l'appuntito
penetrava nel morbido, il sangue sgorgava... e tu sapevi esattamente dove avveniva la penetrazione.
Come adesso: il tatuatore stava lavorando proprio in cima alla spina dorsale.
John aveva molta esperienza in materia di taglia-e-affetta, solo su una scala molto più vasta, e più come donatore che
come ricevente. Era stato affettato sul campo un paio di volte, certo, ma aveva lasciato la sua bella quota di buchi
dietro di sé. E, come il tatuatore, si portava sempre dietro tutta l'attrezzatura: dentro il giubbotto aveva ogni sorta di
pugnali e coltelli a serramanico, persino una catena. Oltre a un paio di pistole, per la serie "non si sa mai".
Be'... e anche un paio di cilici.
Non che li usasse mai sul nemico.
No, quelli non erano armi. E anche se da quasi quattro settimane non venivano agganciati alle cosce di nessuno, non
erano inutili. Al momento, erano una specie di perversa coperta di Li-nus. Senza di loro si sentiva nudo.
Quei brutali strumenti di tortura erano l'unica cosa che lo legava alla persona amata. Il che, considerato come si erano
lasciati, aveva un significato importantissimo.
A lui però ancora non bastavano. I cilici che Xhex si era stretta intorno alle gambe per domare il suo lato symphath
non gli offrivano il tipo di permanenza che cercava, ecco cosa l'aveva spinto verso quell'operazione metallo-su-pelle.
Una volta terminato il tatuaggio, Xhex sarebbe stata sempre con lui. Sulla sua pelle oltre che nel suo cuore. Sulle sue
spalle oltre che nella sua mente.
Sperando che quell'umano facesse un bel lavoro.
Quando ai fratelli servivano dei tatuaggi, per un qualunque motivo, era Vishous a maneggiare l'ago da vero
professionista... cavolo, la lacrima rossa sulla faccia di Qhuinn e la data nera dietro il suo collo erano una ficata
pazzesca. Il guaio era che, se andavi da V a farti fare un lavoro come quello, di botto cominciavano le domande... non
solo da parte sua, ma anche da parte di tutti gli altri.
Nella confraternita non c'erano molti segreti, e John preferiva tenere per sé i suoi sentimenti per Xhex.
La verità era... che era innamorato di lei. Perdutamente, follemente, irrimediabilmente, eternamente innamorato di
lei, roba che neanche morto l'avrebbe lasciata. E anche se il suo amore romantico non era corrisposto, non importava.
Sapeva che l'oggetto del suo desiderio non lo ricambiava e si era messo il cuore in pace.
Ciò che non riusciva ad accettare era che venisse torturata o andasse incontro a una morte lenta e atroce.
O di non riuscire a darle degna sepoltura.
Era ossessionato dalla sua scomparsa. Determinato al punto di rasentare l'autodistruzione. Sarebbe stato brutale e
spietato verso chi l'aveva catturata. Ma questi erano affari suoi e di nessun altro.
L'unico lato positivo della faccenda era che anche la confraternita era impegnata a capire cosa diavolo le era successo.
I fratelli non abbandonavano mai nessuno nel corso di una missione e, quando erano andati in quella colonia di
symphath a liberare Rehvenge, Xhex era a tutti gli effetti un membro della squadra. Quando le acque si erano calmate
e non l'avevano più vista, avevano dedotto che era stata rapita e le alternative erano due: o erano stati i symphath
oppure i lesser.
Un po' come dire: preferisci che si becchi la polio oppure Eboia?
Tutti, compresi John, Qhuinn e Blay, erano impegnati a risolvere il caso. Risultato? In apparenza, trovarla faceva
parte dei suoi doveri di soldato in guerra.
Il ronzio dell'ago cessò e il tatuatore gli passò un panno sulla schiena.
«Sta venendo bene», disse l'umano, rimettendosi a lavorare. «Preferisci farlo in due sessioni oppure tutto adesso?»
John guardò Blay e rispose a gesti.
«Dice che vuole finirlo stasera, se lei ha tempo», tradusse Blay.
«Sì, si può fare. Mar? Chiama Rick e avvertilo che farò tardi.»
«Subito», disse la cassiera.
No, John non avrebbe mostrato ai fratelli quel tatuaggio... anche se veniva da dio.
Per come la vedeva lui, era nato in una stazione degli autobus ed era stato abbandonato lì, dato per morto; sbattuto
negli orfanotrofi del sistema per l'assistenza all'infanzia degli umani; raccolto da Tohr e dalla sua compagna, solo per
vedere lei assassinata e lui volatilizzato. E adesso Z, che aveva avuto il compito di seguirlo, era comprensibilmente
occupato con la sua shellan e la loro figlioletta appena nata.
Persino Xhex lo aveva tagliato fuori, prima della tragedia.
Così, amen, aveva capito l'antifona. E poi era curiosamente liberatorio fregarsene dell'opinione altrui. In questo
modo era libero di alimentare la sua ossessione violenta: braccare il rapitore di Xhex e farlo a pezzettini.
«Ti spiace dirmi cosa rappresenta?» chiese il tatuatore.
John alzò gli occhi, pensando che non c'era motivo di mentire all'umano. E poi, Blay e Qhuinn conoscevano già la
verità.
Blay parve un po' sorpreso, ma tradusse lo stesso. «Dice che è il nome della sua ragazza.»
«Ah. Sì, l'avevo immaginato. Dovete sposarvi?»
John rispose e Blay tradusse, «E' un tatuaggio alla memoria.»
Ci fu una pausa, poi il tatuatore posò la macchinetta sul tavolino girevole dove c'era l'inchiostro. Si tirò su la manica
della camicia nera e piazzò l'avambraccio davanti a John. Sopra c'era il ritratto di una donna magnifica, col vento tra i
capelli, sciolti sulle spalle, e gli occhi puntati su chi la guardava.
«Questa era la mia ragazza. Anche lei adesso non c'è più.» Dando uno strattone alla manica, l'uomo coprì il tatuaggio.
«Quindi ti capisco.»
Quando l'ago tornò al lavoro, John faticò a respirare. L'idea che Xhex ormai fosse morta, con ogni probabilità, lo
faceva impazzire... ma il peggio era immaginare come poteva essere morta.
John sapeva chi l'aveva presa. C'era un'unica spiegazione logica: quando Xhex era entrata nel labirinto per aiutare a
liberare Rehvenge, era comparso Lash, e quando lui era sparito era sparita anche lei. Non era una coincidenza.
Nessuno aveva visto niente, ma nella grotta dov'era imprigionato Rehv c'erano almeno un centinaio di symphath e
stava succedendo di tutto... e Lash non era un lesser qualunque.
Eh, no... a quanto pareva era il figlio dell'Omega. Il figlio del Male. Il che significava che quel figlio di puttana
conosceva un mucchio di trucchetti strabilianti.
John ne aveva visti alcuni da molto vicino, durante lo scontro alla colonia: se quel bastardo riusciva a lanciare bombe
di energia e ad affrontare faccia a faccia la bestia di Rhage, poteva benissimo trascinare via qualcuno sotto il naso di
tutti. Se Xhex fosse rimasta uccisa quella notte, avrebbero trovato il suo cadavere. Se fosse stata ferita, ma viva,
sarebbe entrata in contatto telepatico con Reh-venge, da symphath a symphath. E se era viva ma bisognosa di una
piccola vacanza, se ne sarebbe andata solo dopo essersi assicurata che tutti gli altri erano tornati sani e salvi all'ovile.
I fratelli stavano lavorando sulla base di quelle stesse supposizioni logiche, quindi erano tutti fuori a caccia di lesser.
Dopo i raid dell'estate precedente, la maggior parte dei vampiri aveva lasciato Caldwell per rifugiarsi nelle case
sicure oltreconfine; la Lessening Society, sotto la guida di Lash, per far quadrare i conti si era data al traffico di droga,
e lo spaccio si concentrava principalmente intorno ai club lì in città, lungo Trade Street. La parola d'ordine era battere
i vicoli più malfamati in cerca di non morti con addosso un tanfo a metà tra una puzzola dissanguata e un Giade
assorbiodori.
Quattro settimane e non avevano trovato niente, a parte svariati indizi che i lesser spacciavano droga agli umani per
le strade.
John stava impazzendo, soprattutto per la paura e perché ignorava che fine avesse fatto Xhex, ma in parte anche
perché era costretto a tenersi dentro tutta quella violenza. Per quanto, è stupefacente quello che si riesce a fare
quando non si ha scelta... doveva apparire normale ed equilibrato se non voleva essere estromesso dalle ricerche,
quindi era così che si presentava.
E quel tatuaggio? Era un paletto piantato nel territorio in cui si trovava. Una dichiarazione che, anche se lei non lo
voleva, Xhex era la sua compagna e lui l'avrebbe onorata, viva o morta che fosse.
Ecco il punto: uno si sentiva come si sentiva e non era colpa sua, non era colpa di nessuno se era un rapporto a senso
unico. Era così... e basta.
Dio, quanto avrebbe voluto trattarla con meno freddezza, quando avevano fatto sesso per la seconda volta.
Per l'ultima volta.
Scacciò via brusco quelle emozioni, richiudendo nella lampada quel genio fatto di tristezza, rimpianto e amore non
corrisposto. Non poteva permettersi di crollare. Doveva continuare a resistere, continuare a cercare, continuare a
mettere un piede davanti all'altro. Il tempo non si fermava, anche se lui voleva rallentarlo per avere più possibilità di
trovarla viva.
Ma all'orologio non interessavano le sue opinioni.
Dio del cielo, pensò. Ti prego, aiutami a non fallire.
Capitolo 3
« Cosa? Affiliazione? Tipo come in un club?»
Le parole rimbalzarono dentro la Mercedes e Lash strinse le mani sul volante, mentre guardava fuori dal parabrezza.
Aveva un coltello a serramanico nella tasca interna del completo Canali e la tentazione di estrarlo e sgozzare
quell'umano era fortissima.
Certo, poi si sarebbe ritrovato con un cadavere da far sparire e sangue su tutti gli interni in pelle dell'auto.
Due seccature.
Guardò il ragazzino seduto accanto a lui. L'aveva selezionato tra altre centinaia ed era il classico figlio di buona
donna opportunista che spacciava droga e muoveva gli occhi frenetico. La storia delle violenze subite da bambino era
scritta nella cicatrice circolare sulla faccia - perfettamente tonda e grande come la brace incandescente di una sigaretta
- e la sua dura vita di strada era negli occhi svegli e in perenne movimento. La sua avidità era nel modo in cui si
guardava intorno, dentro l'auto, quasi cercasse il modo di impossessarsene, e la sua intraprendenza risultava evidente
dalla rapidità con cui si era fatto un nome come pusher.
«È più di un club», disse a bassa voce Lash. «Molto di più. Avrai un futuro in questo settore e te lo sto offrendo su un
piatto d'argento. Ti faccio venire a prendere dai miei uomini, qui, domani sera.»
«E se non mi presento?»
«Sta a te scegliere.» Naturalmente lo stronzo si sarebbe svegliato morto, la mattina dopo, ma quello era un dettaglio...
Il ragazzino guardò Lash negli occhi. Non aveva il fisico del lottatore, ma piuttosto quello di uno a cui hanno
attaccato le chiappe con lo scotch nello spogliatoio della scuola. Ormai però era chiaro
che adesso alla Lessening Society servivano due tipi di membri: gente capace di fare soldi e soldati. Lash aveva
ordinato a Mr D di battere a tappeto l'Xtreme Park per vedere chi piazzava più roba e quello stronzetto dallo sguardo
di rettile era in cima alla classifica.
«Sei finocchio?» chiese il ragazzino.
Lash concesse a una delle mani di lasciare il volante per infilarsi nella giacca. «Perché me lo chiedi?»
«Puzzi come uno di loro. E ti vesti come uno di loro, anche.»
Lash si mosse così in fretta che il suo bersaglio non ebbe neanche il tempo di piegarsi all'indietro sul sedile. Con un
balzo fulmineo estrasse il coltello e spinse la lama affilata contro la vena che palpitava, vitale, sul lato di quel collo
bianco.
«L'unica cosa che faccio ai maschi è ucciderli», disse. «Vuoi che ti fotta così? Perché io sono pronto, se ti va.»
Il ragazzino sgranò gli occhi come nei cartoni animati, tutto tremante sotto i vestiti lerci. «No... non ho nessun
problema con i finocchi.»
Quell'idiota del cazzo non aveva capito niente, ma pazienza. «Allora, affare fatto?» chiese Lash, aumentando la
pressione sulla punta del coltello. Il sangue sgorgò in una bolla e rimase così per una frazione di secondo, quasi
stesse cercando di decidere se colare lungo il metallo lucente della lama o lungo la pelle liscia del collo.
Scelse la lama, serpeggiando in un rivolo rosso rubino.
«Ti prego... non uccidermi.»
«Qual è la tua risposta?»
«Okay. Ci sto.»
Lash premette più forte, guardando scorrere il sangue, momentaneamente stregato dal fatto che, se premeva ancora di
più, quell'umano avrebbe cessato di esistere, come un filo d'aria che svanisce in una notte gelida.
Gli piaceva sentirsi come un dio.
Quando dalle labbra screpolate del ragazzo uscì un lamento, Lash allentò la pressione, scostandosi. Pulì la lama con
una leccata veloce e chiuse il coltello di scatto. «Ti troverai bene, vedrai.
V'
E una promessa.»
Diede al ragazzino il tempo di riprendersi; sapeva che non ci avrebbe messo molto a rialzare la cresta. Gli stronzi
come quello hanno un ego grande come una mongolfiera. La pressione, in particolare quella dovuta a un coltello alla
gola, li fa afflosciare, ma passato lo stress si gonfiano di nuovo.
Il ragazzino si raddrizzò con uno strattone il sudicio giubbotto di pelle. «Mi trovo già bene dove sto adesso.»
Tombola. «Allora perché guardi la mia macchina come se la volessi nel tuo garage?»
«Io ne ho una più bella di questa.»
«Ah, davvero?» Lash lo squadrò da capo a piedi. «Vieni qui ogni sera su una bici da cross. Hai i jeans strappati, e non
perché sono di un famoso stilista. Quanti giubbotti hai nell'armadio? Oh, aspetta, tieni la tua roba in una scatolone
sotto il ponte.» Lash fece roteare gli occhi come se dal sedile del passeggero fosse spuntata una sorpresa strabiliante.
«Credevi che non ti avremmo controllato? Ci hai preso per scemi?»
Lash puntò un dito verso l'Xtreme Park, dove i patiti dello skateboard scivolavano sulle rampe con la precisione di
metronomi, su e giù, su e giù. «Tu sei il boss di questo parco giochi. Benissimo. Congratulazioni. Ma noi vogliamo
farti fare carriera. Se entri nella nostra squadra avrai alle spalle i muscoli dei miei uomini... avrai grana, roba,
protezione. Se ti metti con noi non sarai più solo un delinquentello da strapazzo che se lo mena in giro per un
parcheggio di cemento. Noi possiamo darti un futuro.»
Lo sguardo calcolatore del ragazzino si spostò sulla sua fettina di territorio, lì a Caldwell, e poi si allargò, spingendosi
lontano, all'orizzonte, dove si stagliavano i grattacieli. Quella era ambizione, ecco perché era stato scelto. Quel
bastardello aveva bisogno di un ascensore sociale e di una via d'uscita.
Il fatto che dovesse vendere l'anima per ottenerli gli sarebbe stato chiaro solo quando ormai era troppo tardi. Con la
Società funzionava così. Da quanto gli avevano detto i lesser che adesso erano sotto il suo comando, nessuno aveva
mai saputo tutta la verità prima di venire iniziato... ed era comprensibile. Chi avrebbe creduto che, al di là della porta
a cui stavano bussando, li aspettava il Male? Chi si sarebbe offerto volontario per compiere quel passo?
Sorpresa, coglione. Questa non è Disney World, e una volta salito sulla giostra non potrai mai più scendere.
Lash, comunque, non aveva problemi a ingannare la gente.
«Sono pronto per roba più grossa», mormorò il ragazzo.
«Bene. Adesso scendi dalla mia macchina. Il mio socio passerà a prenderti domani sera alle sette.»
«Okay.»
Ora che l'affare era concluso, Lash era impaziente di levarselo di torno. Quel piccolo bastardo puzzava come una
fogna; più che di una doccia aveva urgente bisogno di essere annaffiato a canna, come un tratto lurido di
marciapiede.
Appena la portiera si richiuse, Lash uscì in retromarcia dal parcheggio e imboccò la strada che correva parallela al
fiume Hudson, puntando verso casa, le mani strette sul volante per un motivo diverso dalla smania di uccidere.
La smania di scopare era una motivazione altrettanto forte, per lui.
Abitava nella parte vecchia di Caldwell, in un viale alberato di bei palazzi in arenaria di epoca vittoriana del valore
immobiliare non inferiore al milione di dollari. I vicini portavano a passeggio il cane, non facevano mai rumore e
mettevano l'immondizia solo nei vicoli sul retro e solo nei giorni giusti. Passò davanti a casa sua e fece il giro
dell'isolato, diretto al garage; c'era da sganasciarsi dalle risate al pensiero che tutti quei bacchettoni alto borghesi
avevano un vicino come lui: poteva anche sembrare uno di loro e vestire come loro, ma nelle sue vene scorreva
sangue nero ed era senz'anima come una statua di cera.
Prese il telecomando del garage, sorridendo, e le zanne, un regalino per parte di madre, si allungarono: non vedeva
l'ora di rincasare dalla sua bella.
Era sempre un piacere. Tornare a casa da Xhex era sempre un piacere.
Dopo aver parcheggiato la AMG, scese e dovette sgranchirsi un po'. Lei lo strapazzava di brutto, altro che storie, e lui
andava pazzo per come lo lasciava tutto rigido... e non solo nell'uccello.
Non c'è come un ottimo avversario per tirarsi su di morale.
Tagliando per il giardino sul retro, entrò dalla cucina e subito sentì un profumino di lombata alla griglia e pane
fresco.
Al momento, però, non gli andava di mangiare. Grazie alla chiacchieratina al parco, quel piccolo spacciatore sarebbe
stata la sua prima affiliazione, la prima offerta che recava a suo padre, l'Omega. Il che gli faceva venire una gran
voglia di sesso.
«Mangia subito?» chiese Mr D dai fornelli, rivoltando la fetta di carne. Il piccolo texano si era rivelato utile non solo
come iniziale guida turistica attraverso la Lessening Society, ma anche come killer e cuoco piuttosto decente.
«No, adesso salgo di sopra.» Lash buttò le chiavi e il cellulare sul piano di granito della cucina. «Lasciami da
mangiare nel frigo e chiudi la porta a chiave quando esci.»
«Signorsì.»
«L'appuntamento è per domani sera. Vai a prelevare l'obiettivo alle sette. Sai già dove.»
«Signorsì.»
Il trisillabo era la risposta preferita di quel figlio di puttana... altro motivo per cui era ancora vivo e suo vice.
Attraversata la dispensa e la sala da pranzo, Lash prese a destra verso lo scalone intagliato. La prima volta che l'aveva
vista, la casa era vuota, restavano solo le vestigia di una vita agiata: tappezzeria di seta, tendaggi damascati e una
poltrona. Adesso si stava riempiendo di pezzi d'antiquariato, statue e splendidi tappeti. Ci avrebbe messo più del
previsto ad arredarla come si deve, ma mica si può fare tutto dall'oggi al domani.
Salì le scale di corsa, tutto fremente, sbottonandosi il soprabito e poi la giacca.
Quella che per lui era partita come una vendetta, si era trasformata in una dipendenza, ne era ben consapevole: ciò
che lo attendeva oltre la porta della camera da letto era molto più di quanto avesse messo in conto.
Era stato così semplice, all'inizio: lui l'aveva presa per quello che lei aveva preso a lui. In quella grotta, su alla
colonia, Xhex aveva puntato la pistola e premuto il grilletto, pompando una vagonata di piombo nel petto della sua
puttana. Inaccettabile. Gli aveva portato via il suo giocattolo preferito e lui credeva fermamente nella legge del
taglione.
Quando l'aveva portata lì e rinchiusa in quella stanza, il suo obiettivo era di spolparla a poco a poco, un pezzetto
dopo l'altro - della sua mente, dalle sue emozioni e del suo corpo - sottoporla a torture e angherie tali da piegarla fino
a spezzarla.
Poi, come un qualsiasi altro rottame, l'avrebbe buttata via.
Almeno quello era il piano iniziale. Stava diventando sempre più chiaro, però, che lei non si lasciava ammorbidire.
Eh, no, era fatta di titanio, quella. Le sue riserve di forza si stavano rivelando inesauribili, prova ne erano i lividi di
cui era pieno.
Davanti alla porta si fermò un attimo per spogliarsi completamente. In linea generale, se i vestiti che aveva addosso
gli piacevano, doveva levarseli prima di entrare, perché appena le andava vicino, lei lo aggrediva selvaggiamente.
Sfilò dai calzoni la camicia di seta button-down e, prima di toglierla, si sganciò i gemelli e li lasciò sul tavolo in
corridoio.
Aveva segni su tutto il corpo. Dei pugni di Xhex. Delle sue unghie. Delle sue zanne.
Guardando l'ampia varietà di ferite ed escoriazioni, sentì un fremito di eccitazione. Guariva in fretta, grazie al sangue
di suo padre, ma a volte i danni che lei gli procurava duravano a lungo, e questo lo rendeva euforico.
Se eri il figlio del Male c'era ben poco che non potessi fare, possedere o uccidere, e tuttavia la natura mortale di Xhex
era un trofeo sfuggente che poteva toccare, ma non esporre su uno scaffale.
Questo la rendeva rara. Questo la rendeva preziosa.
Questo... lo aveva fatto innamorare di lei.
Tastando con delicatezza una contusione violacea all'interno dell'avambraccio, sorrise. Quella sera doveva andare da
suo padre a confermargli l'affiliazione, ma prima avrebbe passato un po' di tempo con la sua femmina, arricchendo la
sua collezione di graffi. E prima di uscire le avrebbe lasciato qualcosa da mangiare.
Come tutti gli animali di pregio, andava sfamata.
Allungò la mano verso la maniglia, accigliandosi. Il nutrimento, in senso più generale, era un bel problema. Xhex era
solo per metà symphath e il suo lato vampiresco lo preoccupava. Prima o poi avrebbe avuto bisogno di qualcosa che
non si può comprare al supermercato di quartiere... qualcosa che lui non poteva darle.
I vampiri avevano bisogno di attaccarsi alla vena del sesso opposto. Era un bisogno immutabile perché legato alla
biologia. Se non mettevi a buon uso l'hardware che avevi in bocca e non succhiavi sangue fresco, morivi. E Xhex non
poteva bere da Lash: tutto quello che scorreva dentro il suo organismo era nero. Di conseguenza i suoi uomini - quei
pochi che gli erano rimasti - stavano cercando un vampiro dell'età giusta, ma finora non avevano trovato niente di
niente. Caldwell era un mezzo deserto, quando si trattava di vampiri civili.
Anche se... in effetti, lui ne aveva uno nel surgelatore.
II guaio era che, nella sua vecchia vita, Lash conosceva quello stronzo, e l'idea che Xhex si attaccasse alla vena di uno
che era stato suo amico lo faceva incazzare come una iena.
Oltre tutto, quel bastardo era il fratello di Qhuinn... per cui no, neanche a parlarne: non voleva che Xhex avesse a che
fare con quella stirpe.
Pazienza. Presto o tardi i suoi uomini avrebbero rimediato qualcuno... per forza. Perché non aveva nessuna
intenzione di rinunciare tanto presto al suo nuovo giocattolino.
Aprì la porta col sorriso sulle labbra. «Ciao, dolcezza. Sono a casa.»
All'altro capo della città, nel negozio di tatuaggi, Blay era concentrato soprattutto sulla schiena di John. C'era
qualcosa di ipnotico in quell'ago che ripassava i contorni azzurri del disegno. Ogni tanto il tatuatore si fermava per
pulire la pelle con un asciugamano di carta bianco, prima di rimettersi al lavoro, e il ronzio della macchinetta
riempiva di nuovo il silenzio.
Purtroppo, per quanto tutto ciò fosse affascinante, gli restava abbastanza capacità di concentrazione per notare
quando Qhuinn decise di sbattersi quell'umana. Dopo aver chiacchierato un po' sottovoce ed essersi scambiati con
nonchalance una quantità di carezze sulle braccia e sulle spalle, quegli stupefacenti occhi di due colori diversi si
posarono sulla porta d'ingresso.
Un istante dopo, Qhuinn attraversò il negozio per accertarsi che fosse chiusa a chiave.
Tornando verso la postazione del tatuatore, il suo sguardo verde e azzurro non incrociò quello di Blay.
«Tutto bene?» chiese a John.
Quando John guardò in su, annuendo, Qhuinn in fretta disse, nella lingua dei segni, Ti spiace se faccio un po' di
ginnastica dietro quella tenda?
Ti prego dì di sì, dì che ti dispiace, pensò Blay. Ti prego, digli che deve stare qui.
Per niente, rispose John. Divertiti.
Arrivo subito, se hai bisogno, a costo di uscire con l'uccello di fuori.
Ecco, apprezzerei molto se potessimo evitarlo.
Qhuinn ridacchiò. «Mi pare giusto.» Una pausa quasi impercettibile e si voltò, sempre senza guardare Blay.
La donna andò nell'altra stanza per prima e, da come sculettava, era pronta quanto Qhuinn per quello che stava per
succedere. Poi anche le spalle larghe di Qhuinn uscirono dalla sua visuale e la tenda ricadde al suo posto.
Il lampadario sul soffitto e le fibre anoressiche della tenda offrivano un'immagine molto chiara della scena, così Blay
ebbe una visione distillata di Qhuinn che allungava le braccia e attirava per il collo l'umana contro di sé.
Blay deviò lo sguardo sul tatuaggio di John, ma quel cambio di direzione non durò a lungo. Due secondi dopo aveva
gli occhi fissi su quel peep-show, non tanto per guardarlo, quanto per metabolizzarne i dettagli. Com'era tipico di
Qhuinn, la donna adesso era in ginocchio e lui le infilava le mani tra i capelli. Le accarezzava la testa, flettendo e
rilassando i fianchi, mentre le trapanava la bocca.
I mugolii soffocati erano incredibili quanto l'effetto visivo, tanto che Blay dovette cambiare posizione sulla sedia,
eccitato. Voleva essere lì dentro, in ginocchio, guidato dalle mani di Qhuinn. Voleva essere lui a prenderlo in bocca.
Voleva essere lui a farlo gemere e ansimare.
Ma non era destino.
Che cavolo, Qhuinn si era scopato cani e porci nei club, nei gabinetti, in macchina, nei vicoli bui e ogni tanto anche a
letto. Si era fatto almeno diecimila sconosciuti, uomini e donne, vampiri e vampire, indifferentemente... era un
Casanova con le zanne. Venire respinti da lui era come essere chiusi fuori da un parco pubblico.
Blay fece un altro tentativo di distogliere lo sguardo, ma l'eco di un gemito gutturale attrasse un'altra volta i suoi
occhi verso...
Qhuinn aveva voltato la testa in modo da guardare fuori dalla tenda. Quando i loro occhi si incontrarono, il suo
sguardo bicolore brillò... quasi fosse eccitato più da chi lo stava guardando che da chi si stava trombando.
Blay ebbe un tuffo al cuore. Specie quando Qhuinn tirò su la donna e, voltandola, la fece chinare sopra la scrivania.
Uno strattone e le aveva abbassato i jeans all'altezza delle ginocchia. E poi...
Dannazione. Possibile che il suo migliore amico stesse pensando la stessa cosa che stava pensando lui?
Poi però Qhuinn la fece raddrizzare, premendola contro il petto. Le sussurrò qualcosa all'orecchio e lei rise, voltando
la testa per farsi baciare. Cosa che lui fece.
Brutto scemo, pensò Blay rivolto a se stesso. Brutto scimunito.
Quello sa benissimo chi si sta sbattendo... e chi no.
Scuotendo la testa, disse, «John, ti spiace se esco a fumarmi una sigaretta?»
Quando John scosse la testa, Blay si alzò e mise i vestiti sulla sedia. «Basta far scattare la serratura?» chiese al
tatuatore.
«Sì, e se resti fuori dalla porta puoi anche lasciarla aperta.»
«Grazie, amico.»
«Non c'è di che.»
Allontanandosi dal ronzio della macchinetta e dalla sinfonia di gemiti dietro la tenda, Blay uscì dal negozio e si
appoggiò contro il palazzo, proprio accanto all'ingresso. Prese un pacchetto di Dunhill rosse, tirò fuori una sigaretta,
se la infilò tra le labbra e l'accese con un accendino nero.
Il primo tiro fu celestiale. Sempre il migliore di tutti quelli che sarebbero seguiti.
Soffiò fuori il fumo. Detestava la sua mania di leggere tra le righe, di scorgere connessioni inesistenti, di equivocare
azioni, sguardi e carezze del tutto casuali.
Patetico, davvero.
Qhuinn non aveva alzato la testa durante il pompino per incrociare il suo sguardo. Stava controllando John Matthew.
E aveva voltato la donna per prenderla da dietro perché a lui piaceva farlo così.
Accidenti... si dice che la speranza è l'ultima a morire, ma più che altro uccide il buon senso e l'istinto di
conservazione.
Aspirò a fondo, talmente assorto nei suoi pensieri da non notare l'ombra all'imbocco del vicolo dall'altra parte della
strada. Ignaro di essere osservato, continuò a fumare; la gelida notte primaverile inghiottì le boccate di fumo che gli
uscivano dalle labbra.
La consapevolezza che non poteva più andare avanti così gli penetrò fin dentro le ossa, come una doccia fredda.
Capitolo 4
«Okay, credo che abbiamo finito.»
John sentì un ultimo strattone alla spalla, poi la macchinetta si zittì. Raddrizzandosi dal sostegno contro cui era
rimasto piegato nelle ultime due ore, si sgranchì le braccia, alzandole sopra la testa, e rimise in sesto la schiena.
«Un secondo che ti pulisco.»
Mentre l'umano spruzzava un disinfettante su alcune salviettine di carta, John si rimise in piedi, lasciando
riverberare in tutto il corpo il formicolio dovuto al lavoro dell'ago.
In quell'attimo di tregua fu assalito da uno strano ricordo, una cosa a cui non pensava da anni. Risaliva all'epoca in
cui viveva nell'orfanotrofio di Nostra Signora, quando ancora non sapeva chi era veramente.
Tra i benefattori della chiesa c'era un riccone proprietario di una grande casa sulle rive del Saranac Lake. Ogni estate
gli orfani venivano invitati a trascorrervi una giornata, giocando sul prato grande come un campo da football,
solcando il lago sulla sua bellissima barca di legno e mangiando panini imbottiti e anguria.
John si scottava sempre. Per quanto lo ungessero di crema solare, la sua pelle, immancabilmente, si ustionava...
finché lo relegarono all'ombra, sulla veranda. Costretto a starsene in disparte, aveva guardato giocare gli altri
bambini, ascoltando le loro risate riecheggiare sull'erba verde smeraldo, aspettando che gli portassero da mangiare e
consumando i pasti da solo, spettatore invece che protagonista.
Buffo, adesso sentiva sulla schiena la stessa sensazione di allora: la pelle tirava e prudeva, specialmente quando il
tatuatore passava il panno umido sulle ferite, muovendolo in senso circolare sull'inchiostro fresco.
Dio, ricordava ancora il terrore che gli ispirava quello strazio annuale al lago. Quanto avrebbe voluto stare insieme
agli altri... anche se, a essere onesti, più che condividere quello che facevano, moriva dalla voglia di far parte del
gruppo. Quelli avrebbero potuto decidere di masticare cocci di vetro sanguinando sulle magliette, e lui avrebbe
comunque gridato: okay, ci sto.
Le sei ore passate su quella veranda, con un misero giornalino a fumetti o magari il nido di un uccello caduto
dall'albero da guardare e riguardare, gli erano sembrate mesi. Troppo tempo per pensare e struggersi. Aveva sempre
sperato di essere adottato e, in momenti solitari come quello, il desiderio lo aveva consumato: ancor più che stare in
mezzo agli altri bambini, lui voleva una famiglia, una vera madre e un vero padre, non dei semplici guardiani pagati
per crescerlo.
Voleva appartenere a qualcuno. Voleva che qualcuno gli dicesse, Sei mio.
Naturalmente, ora che sapeva chi era... ora che viveva da vampiro tra i vampiri, capiva con molta più chiarezza quella
smania di "appartenenza". Anche gli umani avevano un concetto di famiglia, di matrimonio eccetera, certo, ma la sua
razza assomigliava più alle bestie da soma: i vincoli di sangue e le unioni tra maschi e femmine erano molto più
viscerali e totalizzanti.
Pensando al suo Io più giovane e più triste sentì una fitta al cuore... non per la voglia di tornare indietro nel tempo e
dire a quel bambino che i suoi genitori stavano per arrivare, no; soffriva perché proprio la cosa che più desiderava lo
aveva quasi distrutto. L'adozione era arrivata, in effetti, ma l"appartenenza" non era durata. Wellsie e Tohr erano
entrati allegramente nella sua vita, gli avevano svelato la sua vera natura e per un attimo gli avevano fatto intravedere
cos'era un focolare domestico... e poi erano spariti.
Dunque poteva affermare senza tema di smentita che aver avuto dei genitori e poi averli persi era molto peggio che
non averli avuti affatto.
Sì, certo, tecnicamente Tohr era tornato, ma per John continuava a essere lontano; anche se adesso diceva le cose
giuste, partenze e abbandoni erano stati troppi: ora che finalmente poteva esserci un ritorno, un ricongiungimento,
era troppo tardi.
John aveva chiuso definitivamente con Tohr.
«Ecco uno specchio. Vai a darti un'occhiata, amico.»
John annuì a mo' di ringraziamento e si avviò verso uno specchio a figura intera, nell'angolo; mentre Blay rientrava
dalla lunga pausa sigaretta e Qhuinn riemergeva da dietro la tenda della stanzetta laterale, si voltò per guardare il
tatuaggio sulla schiena.
Oh, Dio. Era proprio quello che voleva. E la decorazione, con tutti quei ricci, era uno sballo.
Annuì, muovendo lo specchio che aveva in mano per controllare ogni particolare. Dio, peccato che nessun altro, a
parte i suoi due amici, potessero ammirarlo. Era spettacolare.
Ma soprattutto, qualunque cosa succedesse, che la ritrovasse viva o morta, Xhex sarebbe sempre stata con lui.
Le ultime quattro settimane, da quando l'avevano rapita, erano state le più lunghe della sua vita, maledizione. E sì
che gliene erano già capitate di giornate lunghe da far spavento. Non sapere dov'era, non sapere cosa le era successo,
averla perduta... Era come essere ferito a morte, anche se la pelle era illesa, braccia e gambe non erano rotte e il petto
non era stato trafitto da lame o proiettili.
D'altronde, in fondo al cuore, lei era sua. L'avrebbe salvata solo per permetterle di vivere una vita da cui lui era
escluso? Okay, benissimo, nessun problema. Voleva solo saperla viva e al sicuro.
John guardò il tatuatore, si mise la mano sul cuore e si piegò in un profondo inchino per manifestargli la propria
gratitudine. Quando si raddrizzò, l'uomo gli tese la mano.
«Non c'è di che, amico. Il tuo apprezzamento significa molto per me. Adesso però fammelo coprire con un velo di
pomata e una benda.»
Si strinsero la mano; poi John disse qualcosa e Blay tradusse, «Non è necessario. Il mio amico guarisce in un lampo.»
«Ma ci vorrà del tempo per...» Il tatuatore si protese in avanti per ispezionare il suo lavoro e si accigliò.
Prima che cominciasse a fare domande, John si scostò e prese la maglietta dalle mani di Blay. L'inchiostro che
avevano portato era stato trafugato dalla scorta di V - il che significava che conteneva del sale. Quel nome e quelle
favolose volute erano permanenti... e la sua pelle era già guarita.
Uno dei vantaggi di essere un vampiro quasi purosangue.
«Quel tatuaggio è grandioso», disse Qhuinn. «Puro sesso.»
Neanche a farlo apposta, proprio in quel momento la donna che si era appena ingroppato uscì da dietro la tenda.
Difficile non notare l'espressione addolorata di Blay, specie quando lei infilò un foglietto nella tasca posteriore dei
calzoni di Qhuinn. Con sopra il suo numero, garantito; ma non doveva farsi troppe illusioni. Dopo che si era fatto
qualcuno, per Qhuinn era finita... come se i suoi partner sessuali fossero un pasto che non si poteva mangiare una
seconda volta e che non lasciava mai avanzi. Purtroppo per lei, la sosia di Kat von D aveva gli occhi che brillavano
d'amore.
«Chiamami», gli sussurrò con una fiducia destinata a svanire col passare dei giorni.
Qhuinn abbozzò un sorriso. «Stammi bene.»
Nel sentire quelle due parole, Blay si rilassò e raddrizzò le spalle. A Qhuinn-landia stammi bene era sinonimo di non
ti rivedrò, non ti chiamerò e non ti scoperò mai più.
John tirò fuori il portafoglio, traboccante di banconote ma senza il minimo indizio sulla sua identità, e sfilò
quattrocento bigliettoni. Il doppio di quanto costava il tatuaggio. Mentre il tatuatore cominciava a scuotere la testa
dicendo che era troppo, John rivolse un cenno del capo a Qhuinn.
Insieme alzarono il palmo destro verso gli umani e si insinuarono nelle loro menti per coprire i ricordi dell'ultimo
paio d'ore. Né il tatuatore né la cassiera avrebbero rammentato con precisione quanto era successo. Tutt'al più
potevano fare dei sogni indistinti, ma forse gli sarebbe toccato solo un po' di mal di testa.
Mentre la coppia di umani entrava in trance, John, Blay e Qhuinn uscirono dal negozio sparendo nell'ombra.
Attesero solo che il tatuatore si riscuotesse e andasse a chiudere a chiave la porta... era tempo di darsi da fare.
«Si va da Sai?» chiese Qhuinn, la voce più bassa del solito grazie alla soddisfazione postcoitale.
Blay si accese un'altra Dunhill mentre John annuiva dicendo, Ci stanno aspettando.
Uno dopo l'altro, i suoi amici svanirono nella notte. Prima di sparire a sua volta, John sostò un istante, messo in
allarme dall'istinto.
Guardò a destra e a sinistra, penetrando l'oscurità con gli occhi acuti come laser. Trade Street era piena di luci al neon
e c'erano ancora auto in circolazione perché erano appena le due del mattino, ma a lui non interessavano le zone
illuminate.
I vicoli bui, ecco su cosa era concentrato il suo interesse.
Qualcuno li stava spiando.
Infilò la mano dentro il giubbotto di pelle e strinse il palmo intorno al manico del pugnale. Non aveva nessun
problema a uccidere il nemico, specie ora che sapeva con certezza chi teneva in pugno la sua femmina... sperava
proprio di veder sbucare un essere che puzzava come un cervo morto da una settimana.
Niente da fare. Invece, dal suo cellulare partì un fischio. Qhuinn e/o Blay si stavano chiedendo dove cavolo era,
garantito.
Attese un altro minuto, poi decise che le informazioni che sperava di ottenere da Trez e iAm erano più importanti che
massacrare di botte il lesser eventualmente acquattato nell'ombra.
Con una rinnovata sete di vendetta, John si smaterializzò nel nulla riprendendo forma nel parcheggio del ristorante
Da Sai. Non c'erano macchine e le luci solitamente accese all'esterno dell'edificio in mattoni erano spente.
II portone a due battenti si aprì subito e Qhuinn mise fuori la testa. «Perché cavolo ci hai messo tanto?»
Paranoia, pensò John.
Ho ricontrollato le armi, rispose avvicinandosi.
«Avresti potuto chiedermi di aspettare. Oppure potevi farlo qui.»
Sì, mamma.
L'interno del ristorante era vecchio stile, l'arredamento ricordava i locali frequentati da Frank Sinatra e compagni, il
famoso Rat Pack: carta da parati rossa con motivi in rilievo e morbida moquette a perdita d'occhio. Tutto, dalle
poltrone di cuoio imbottito ai tavoli con le tovaglie di lino, dai piatti all'argenteria, era una riproduzione di quello
che andava di moda negli anni Sessanta e l'atmosfera era Dean Martin redivivo: raffinata, lussuosa e di classe come
all'Hotel-Casinò Sands.
Il buon vecchio The Voice stava anche cantando "Fly Me to the Moon. "
Gli altoparlanti incassati nel soffitto probabilmente avrebbero rifiutato qualunque altro tipo di musica.
I tre amici oltrepassarono la postazione della direttrice di sala, diretti alla sala bar dove, in barba alla normativa
antifumo di New York, aleggiava un pungente aroma di sigaro. Blay girò dietro al bancone di tek per versarsi una
Coca, John invece si fece un giretto - mani sui fianchi, occhi sul pavimento di marmo - lungo un percorso delineato
dai séparé di cuoio tutt'intorno.
Qhuinn si accomodò in uno di essi. «Hanno detto di bere qualcosa. Arrivano tra un secondo...»
In quel mentre, dalla stanza riservava al personale, sul retro, un tump-tump e un gemito giunsero a interrompere i
vocalizzi di Sinatra. Con un'imprecazione, John seguì l'esempio di Qhuinn, andando a sedersi di fronte a lui. Se le
Ombre si stavano lavorando qualche pezzo di merda, era probabile che ci mettessero più di un secondo.
Qhuinn allungò le gambe sotto il tavolo nero, facendo scrocchiare la schiena; era ancora raggiante, le guance arrossate
per lo sforzo, le labbra gonfie di baci. Per un attimo, John fu tentato di chiedergli perché insisteva a scoparsi la gente
davanti a Blay ma, alla vista della lacrima rossa tatuata sulla guancia dell'amico, cassò la domanda.
In che altro modo avrebbe potuto farsi una scopata? In pratica, lui e John erano uniti come due gemelli siamesi ed
erano sempre fuori a combattere... e della squadra faceva parte anche Blay.
Blay si avvicinò con la sua Coca, si sedette accanto a John e rimase in silenzio.
Quando si dice l'imbarazzo, pensò John, mentre nessuno dei tre apriva bocca.
Dieci minuti dopo, la porta sul retro con su scritto RISERVATO AL PERSONALE si spalancò e ne uscì Trez. «Scusate
l'attesa.» Prese uno strofinaccio da dietro il bancone e si pulì il sangue dalle nocche. «iAm sta buttando la spazzatura
nel vicolo. Arriva subito.»
Si sa niente? chiese John nella lingua dei segni.
Dopo che Qhuinn ebbe tradotto, Trez aggrottò le sopracciglia; gli occhi dell'Ombra si fecero calcolatori. «A che
proposito?»
«Xhex», rispose Qhuinn.
Trez fece gran mostra di piegare lo strofinaccio, che adesso era macchiato di rosso. «Mi risulta che Rehv adesso vive
al quartier generale insieme a voi.»
«È così, infatti.»
L'Ombra piantò i palmi sul bancone di tek e si piegò in avanti, gonfiando i muscoli delle spalle. «Allora perché
venite a chiedere a me a che punto sono le ricerche?»
Tu la conosci molto bene, spiegò John.
Dopo la traduzione, negli occhi scuri di Trez si accese un lampo verde brillante. «E vero. Xhex è come una sorella,
anche se non abbiamo lo stesso sangue.»
Allora che problema c'è?, chiese John.
Vedendo che Qhuinn esitava, quasi ad assicurarsi che l'amico volesse davvero esprimersi in quei termini con
un'Ombra, John gli fece segno di tradurre.
Qhuinn scosse leggermente la testa. «Dice che capisce. Vuole solo essere sicuro che si stiano battendo tutte le piste.»
«Ma va?! Non credo che abbia detto questo.» Il sorriso di Trez era gelido. «Vuoi sapere qual è il mio problema? Ti
accontento subito. Se venite qui in cerca di notizie ne deduco che voi e il vostro re non vi fidate di Rehv, forse
pensate che non vi tenga aggiornati... o magari siete convinti che non si stia sbattendo abbastanza per trovarla. E,
sapete... questa cosa proprio non mi va giù.»
iAm uscì dalla porta riservata al personale e, raggiungendo suo fratello, li salutò con un cenno del capo... che era più
o meno il suo massimo in fatto di benvenuto. Risparmiava sulle parole, ma non sui pugni, a giudicare da tutto il
sangue che gli macchiava la T-shirt grigia. E non chiese un riassunto della conversazione. Sembrava aggiornatissimo:
o aveva visto la scena da una telecamera di sicurezza nel retro o aveva interpretato correttamente la tensione che
irrigidiva il possente fisico di suo fratello.
Non siamo venuti qui per litigare o per offendere, disse John. Vogliamo solo trovarla.
Dopo che Qhuinn ebbe fatto la sua parte ci fu una pausa. Poi Trez sparò la domanda da un milione di dollari. «Il
vostro re sa che siete qui?»
Quando John scosse la testa, Trez socchiuse ancora di più gli occhi. «E cosa vi aspettate di ottenere da noi, di
preciso?»
Qualunque cosa sappiate o riteniate attendibile su dove si trova Xhex. E qualunque informazione sul traffico di droga
qui a Caldwell. John attese che Qhuinn traducesse, prima di continuare. Ammesso che Rehv abbia ragione, e che sia
stato Lash a far fuori quegli spacciatori, in città, allora è ovvio che lui e la Lessening Society riempiranno il vuoto che
hanno creato. Un'altra pausa per Qhuinn. Allora la gente dove va a comprarsi la roba, a parte i club sulla Trade? C'è un
centro di spaccio di crack? E chi sono i grossi fornitori con cui lavorava Rhev? Se Lash sta cercando di spacciare, deve
pur prendere la roba da qualcuno. Un ultimo attimo di respiro per permettere a Qhuinn di tradurre. Noi abbiamo
battuto i vicoli, ma finora non siamo approdati a nulla. Solo umani che spacciano ad altri umani.
Trez staccò le mani dal bancone e si raddrizzò; stava facendo lavorare il cervello, si poteva quasi sentire il rumore
degli ingranaggi. «Posso chiederti una cosa?»
Sicuro, disse John.
Trez si guardò intorno, poi lo fissò ancora negli occhi. «In privato.»
Capitolo 5
Quando l'Ombra buttò lì la sua richiesta, John vide Qhuinn e Blay irrigidirsi e capì subito cosa stavano pensando.
Trez era un alleato, ma era anche pericoloso per definizione. Le Ombre seguivano un codice tutto loro, indifferenti a
qualunque altra regola, ed erano capaci di cose che avrebbero fatto accapponare la pelle anche a un symphath.
Ma, trattandosi di Xhex, era pronto anche a gettarsi nel fuoco.
Per me possiamo andare, mi servono solo un blocco e una penna, disse. Vedendo che né Blay né Qhuinn
traducevano, si accigliò, dando una gomitata a tutti e due.
Qhuinn si schiarì la gola e guardò Trez, dietro al bancone del bar. «Sono il suo ahstrux nohstrum, quindi dove va lui
vado anch'io.»
«Non in casa mia. O in quella di mio fratello.»
Qhuinn si alzò in piedi, quasi fosse pronto ad affrontare l'Ombra, se necessario. «E così che funziona.»
John scivolò fuori dal séparé e gli si piantò davanti, prima che quello scemo partisse all'attacco. Con un cenno del
capo verso il retro del locale, dove immaginava che volesse portarlo Trez, attese che l'Ombra facesse strada.
Naturalmente Qhuinn non riuscì a tenere a freno la lingua. «Cazzo, John.»
John si voltò di scatto e disse, Devo darti un fottutissimo ordine? Adesso io vado con lui e tu resti qua fuori. Punto.
Discorso chiuso.
Quanto sei stronzo, ribatté Qhuinn nella lingua dei segni. Mica mi diverto a farti da balia...
Il trillo di un campanello interruppe l'alterco; entrambi guardarono le Ombre. iAm lanciò un'occhiata al monitor di
sicurezza sotto il bancone e disse, «È arrivato il nostro appuntamento delle due e mezzo.»
Mentre suo fratello girava intorno al bancone diretto alla porta d'ingresso, Trez fissò Qhuinn per un lungo momento,
poi rivolto a John disse, «Dì al tuo amico che è dura proteggere qualcuno da morto.»
Qhuinn rispose con una voce dura come un pugno. «Sarei pronto a morire per lui.»
«Continua così e non sarà più un'ipotesi.»
Qhuinn scoprì le zanne ringhiando, trasformandosi nella belva letale che aveva ispirato agli umani una ricchissima
quanto orripilante mitologia. Mentre guardava in cagnesco Trez, era chiaro che nella sua mente stava già scavalcando
il bancone per avventarsi alla gola dell'Ombra.
Trez sorrise gelido, senza arretrare di un millimetro. «Tipo tosto, il ragazzo, eh? O sei tutta scena?»
Difficile decidere su chi puntare, tra i due. L'Ombra aveva un sacco di assi nella manica, e tuttavia Qhuinn sembrava
un bulldozer pronto a buttare giù un palazzo. Ma quella era Caldwell, non Las Vegas, e John non era un allibratore
pronto ad accettare scommesse.
Bisognava impedire che la forza inarrestabile si scontrasse con l'oggetto irremovibile.
John picchiò il pugno sul tavolo. Il colpo risuonò così forte che tutti voltarono la testa e Blay dovette afferrare al volo
la Coca che era rimbalzata per aria.
Adesso che l'attenzione dei due contendenti era tutta concentrata su di lui, John alzò il medio di entrambe le mani e
glielo mostrò. Essendo muto, era il modo migliore per dire vedete di stare un po' calmini.
Qhuinn riportò il suo sguardo bicolore sull'Ombra. «Faresti lo stesso per Rehv. Non puoi farmene una colpa.»
Ci fu una pausa... poi l'Ombra si rilassò leggermente. «Verissimo.» Mentre l'ondata di testosterone si placava in un
rombo sommesso, Trez annuì. «Sì... verissimo. Non gli farò del male. Se si comporta da gentiluomo, lo farò anch'io.
Ti do la mia parola.»
Resta qui con Blay, disse John, prima di voltarsi verso l'Ombra.
Trez fece strada verso un ampio corridoio pieno di casse di birra e alcolici. La cucina era in fondo, separata da un paio
di porte a vento che si aprivano senza il minimo rumore.
Illuminato a giorno e col pavimento piastrellato di rosso, il cuore del ristorante era lucido come uno specchio e
grande come una casa, con una sfilza di fornelli, una cella frigorifera e chilometri di piani di lavoro in acciaio
inossidabile. In alto e in basso erano appesi tegami e padelle, e qualcosa di squisito stava cuocendo a fuoco lento su
un fornello lì davanti.
Trez andò a sollevare il coperchio, inspirò a fondo e si voltò verso John con un sorriso. «Mio fratello è un cuoco coi
fiocchi.»
Senza il minimo dubbio, pensò John. Anche se, con le Ombre, bisognava sempre chiedersi quale fosse la fonte
proteica. Girava voce che amassero mangiare i loro nemici.
Trez rimise a posto il coperchio e allungò la mano verso una pila di blocchi per appunti. Ne prese uno, lo fece
scivolare sul bancone verso John e tirò fuori una penna da una tazza.
«Eccoti servito.» Trez incrociò le braccia sul petto enorme appoggiandosi all'indietro, contro la cucina a gas. «Quando
hai chiamato per chiedere di vederci, sono rimasto sorpreso. Come ho già detto, Rehv abita sotto il vostro stesso tetto,
quindi non potete non sapere cosa sta facendo su al nord, alla colonia. Quindi saprete, come lo sanno i vostri capi,
che questa settimana passerà al setaccio il settore più settentrionale del labirinto... e saprete anche che non ha trovato
niente di niente che induca a pensare che Xhex è stata catturata da un symphath.»
John non batté ciglio, senza confermare o smentire niente.
«E trovo anche curioso che tu voglia chiedermi dei traffici di droga, dato che Rehv sa tutto dello spaccio, qui a
Caldwell.»
A quel punto iAm entrò in cucina. Diede una mescolata anche lui alla pentola sul fuoco, poi si piazzò vicino a suo
fratello, assumendo la stessa posa. A John non risultava che fossero gemelli ma, accidenti, veniva proprio da
pensarlo.
«Allora, cosa bolle in pentola, John?» mormorò Trez. «Perché il tuo re non sa cosa stai combinando e perché non vuoi
parlare col mio amico Rehvenge?»
John li guardò entrambi, poi prese la penna e scrisse per qualche secondo. Quando allungò il foglio, le Ombre si
protesero in avanti.
Sai benissimo cosa bolle in pentola. Piantala di sprecare il nostro tempo.
Trez rise e iAm addirittura sorrise. «Già, possiamo leggere le tue emozioni. Pensavo solo che magari volessi
spiegarti.» Quando John scosse la testa, Trez annuì. «Okay, mi sta bene. E condivido la tua politica del "niente giri di
parole". Chi altri sa che è una faccenda personale?»
John ricominciò a scrivere sul blocco. Rehv, molto probabilmente, dato che è un symphath. Qhuinn e Blay. Ma nessuno
dei fratelli.
iAm prese la parola. «Allora quel tatuaggio che ti sei appena fatto fare... c'entra con lei?»
John rimase momentaneamente sorpreso, ma poi pensò che potevano aver fiutato l'inchiostro fresco o percepito gli
echi del dolore, ormai quasi del tutto scomparso.
Con tutta calma scribacchiò, Non sono affari vostri.
«Okay, posso capirlo», disse Trez. «Senti... senza offesa, ma perché non puoi parlarne con i fratelli? E perché lei è una
symphath e ti preoccupa come la prenderebbero? Perché sono pappa e ciccia con Rehv?»
Usa la testa. Metti che parto in quarta, gli racconto tutto e poi la troviamo. Tutti in quella casa si aspetteranno una
cerimonia nuziale, appena rientrati alla base. Credi che lei apprezzerebbe? E se invece è morta? Non voglio sedermi a
tavola ogni mattina con davanti un mucchio di persone che aspettano di vedere se mi impicco nel bagno.
Trez scoppiò in una risata fragorosa. «Be'... non posso darti torto. Niente da dire, non fa una grinza.»
Quindi mi serve il vostro aiuto. Aiutatemi ad aiutarla.
Le due Ombre si scambiarono un'occhiata e ci fu un lungo silenzio, che John interpretò nel senso che stavano facendo
una conversazione da materia grigia a materia grigia.
Qualche minuto dopo lo guardarono e, come al solito, fu Trez a prendere la parola. «Be', allora... visto che ci hai fatto
la cortesia di andare dritto al sodo, faremo altrettanto. Parlare con te così ci mette in una posizione difficile. Il nostro
rapporto con Rehv è molto stretto, come sai, e lui è coinvolto personalmente quanto te in questa faccenda.» John stava
già cercando un modo per aggirare l'ostacolo, quando Trez mormorò, «Ma te lo diciamo lo stesso... nessuno di noi due
ha percepito la minima traccia di Xhex. Da nessuna parte.»
John deglutì a fatica. Non era una bella notizia.
«No, non lo è. O è morta... oppure la stanno trattenendo da qualche parte con un blocco.» Trez imprecò. «Anch'io
penso che sia nelle grinfie di Lash. E mi convince l'idea che Lash stia spacciando per strada per tirare su un po' di
grana, e che questo sia l'unico sistema per trovarlo. Se dovessi tirare a indovinare, direi che sta mettendo alla prova
gli spacciatori umani prima di farli entrare nella Lessening Society... e, fidati, comincerà appena possibile ad
affiliarli. Vorrà avere un controllo assoluto sulla sua squadra di pusher, e l'unico modo per ottenerlo è trasformarli in
lesser. Quanto ai maggiori centri di spaccio, i centri commerciali vanno sempre forte. E così pure la scuola superiore,
anche se per te sarà dura, visti i tuoi problemi con la luce del sole. I cantieri edilizi, anche... i tizi in quei camion che
vendono da mangiare e da bere a manovali e muratori si servivano sempre da noi. E anche quel posto dove fanno
skateboard, l'Xtreme Park. Lì gira parecchia roba. E sotto i ponti... anche se lì sono quasi tutti barboni, rifiuti della
società, una clientela troppo miserabile per la fame di soldi di Lash.»
John annuì, quelle erano proprio le informazioni che sperava di ottenere. Cosa mi dici dei fornitori?, scrisse. Se Lash
ha preso il posto di Rehv, non deve avere rapporti con loro?
«Sì, il pesce più grosso in città, Ricardo Benloise, è piuttosto ben protetto, però.» Trez lanciò un'occhiata al fratello, e
ci fu un altro silenzio. Quando iAm annuì, Trez si voltò verso John. «Okay. Vedremo di riuscire a trovarti qualcosa su
Benloise... almeno abbastanza da permetterti di seguire le sue tracce, nel caso si incontri con Lash.»
Soprappensiero, John usò la lingua dei segni. Grazie infinite.
I due fratelli annuirono, poi Trez disse, «Due avvertimenti.»
Con le mani John lo incitò a continuare.
«Primo, mio fratello e io non abbiamo segreti con Rehv. Quindi gli diremo che sei venuto a trovarci.» John si accigliò,
ma Trez scosse la testa. «Spiacente, ma funziona così.»
«Per noi va bene se scavi a fondo», intervenne iAm. «Non che i fratelli non lo stiano facendo, solo che più mani ci
sono a scavare, più possibilità ha Xhex di uscirne viva.»
John era d'accordo, ma preferiva comunque mantenere riservato il suo coinvolgimento. Prima che avesse il tempo di
scrivere, Trez riprese a parlare.
«Secondo, devi passarci assolutamente tutte le informazioni che raccogli. Rehvenge ci ha ordinato di starne fuori,
maledetto bastardo maniaco del controllo. Ma se sei tu a venire qui? Be', quale modo migliore per farci rientrare in
gioco?»
Mentre John si chiedeva perché diavolo Rehv voleva tagliare fuori i due guerrieri, iAm spiegò, «Ha paura che ci
facciamo ammazzare.»
«E per via del nostro...» Trez fece una pausa, quasi stesse cercando il termine giusto. «... "rapporto" con lui, abbiamo
le mani legate.»
«Tanto valeva che ci incatenasse al muro.»
Trez si strinse nelle spalle. «Ecco perché abbiamo accettato di vederti. Appena abbiamo ricevuto il tuo SMS abbiamo
capito...»
«... che era lo spiraglio che...»
«... cercavamo.»
Mentre le Ombre si completavano le frasi a vicenda, John fece un gran sospiro. Almeno capivano il suo punto di
vista.
«Assolutamente», confermò Trez. Poi tese il pugno e, quando John ci batté contro il suo, annuì. «E, mi raccomando,
teniamo per noi questa chiacchieratina a quattr'occhi.»
John si chinò sul bloc notes. Ma non dovevi dire a Rehv che sono stato qui?
Trez lesse quello che aveva scritto e rise di nuovo. «Oh, gli diremo che sei venuto a trovarci e a mangiare.»
iAm sorrise, misterioso. «Non c'è bisogno che sappia proprio tutto.»
Quando Trez e John si appartarono nel retro del ristorante, Blay finì la sua Coca, seguendo con la coda dell'occhio
Qhuinn che camminava su e giù per la sala bar, come se gli avessero tarpato le ali e lui non gradisse affatto.
Proprio non gli andava giù di essere tagliato fuori. Che fosse una cena, una riunione o uno scontro, preferiva un
lasciapassare senza limitazioni alla vita.
Il suo silenzio cinetico era peggio di una sfilza di parolacce, francamente.
Blay si alzò e andò dietro al banco del bar col bicchiere vuoto per versarsi un'altra Coca. Guardando la cascata scura e
schiumosa colpire i cubetti di ghiaccio, si chiese perché mai fosse tanto attratto da Qhuinn. Lui era un bravo ragazzo
tutto "per favore e grazie", mentre Qhuinn era più un tipo alla "vaffanculo e crepa".
Forse era proprio vero che gli opposti si attraggono. Almeno da parte sua...
iAm tornò dall'ingresso con quella che si poteva descrivere solo come un persona distinta: vestito in modo
impeccabile, dal taglio del soprabito grigio scuro alle lucidissime scarpe stringate e con un foulard al posto della
cravatta. I folti capelli biondi erano corti sulla nuca e lunghi sul davanti e gli occhi erano color perla.
«Gesù Cristo santissimo, cosa cazzo ci fai tu qui?» tuonò la voce di Qhuinn quando iAm scomparve nel retro. «Brutto
bastardo!»
La prima reazione di Blay fu di irrigidirsi tutto. Non aveva nessuna voglia di farsi un altro giro sulla giostra degli
spettatori, ammesso che Qhuinn fosse attratto da quel tizio.
Però poi si accigliò. Possibile che fosse...
Il tizio appena entrato rise e abbracciò Qhuinn. «Certo che ci sai proprio fare con le parole, cugino. Un incrocio tra un
camionista e uno scaricatore di porto, direi... con un pizzico di dodicenne.»
Saxton. Era Saxton, figlio di Tyhm. Blay ricordava di averlo già visto una o due volte, in passato.
Qhuinn si scostò leggermente. «Cazzo è una specie di virgola, in realtà. Non te l'hanno insegnato a Harvard?»
«Erano più interessati al Diritto contrattuale. Proprietà. Illeciti civili... che comprendono gli illeciti contro terzi
perseguibili legalmente, a proposito. Mi sorprende non averti visto all'esame finale.»
Qhuinn sorrise di gusto, mostrando per un attimo le zanne bianchissime. «Quella è la legge degli umani e loro non
possono toccarmi.»
«Perché, c'è forse qualcuno in grado di farlo?»
«Allora, cosa fai da queste parti?»
«Transazioni immobiliari per i fratelli Ombra. O credi che abbia studiato tutta quella giurisprudenza umana per
divertimento?»
Saxton incrociò lo sguardo di Blay e subito cambiò espressione, facendosi serio e meditabondo. «Be', ciao.»
Dando le spalle a Qhuinn, si avvicinò a Blay con un interesse che spinse quest'ultimo a voltarsi per controllare se per
caso c'era qualcuno alle sue spalle.
«Blaylock, giusto?» Il biondo tese il braccio elegante sopra il bancone. «Sono anni che non ci vediamo.»
Blay si era sempre sentito un po' impacciato in presenza di Saxton, perché il "brutto bastardo" aveva sempre la battuta
pronta. E dava l'idea di uno che non solo sa le risposte a tutte le domande, ma che può anche scegliere di non dirtele,
se non ti trovava alla sua altezza.
«Piacere» disse Blay, quando i loro palmi si incontrarono.
Saxton aveva proprio un buon profumo e una stretta di mano ferma e decisa. «Sei cresciuto parecchio.»
Ritirando la mano, Blay si scoprì ad arrossire. «Tu invece sei sempre lo stesso.»
«Davvero?» Quegli occhi di perla brillarono. «E un bene o un male?»
«Oh... un bene. Non intendevo...»
«Allora, dimmi, come stai? Sei sposato con qualche bella fanciulla? I tuoi genitori ti hanno appioppato qualcuno?»
Blay reagì con una risata aspra, dura. «Dio, no. Non c'è nessuno per uno come me.»
Qhuinn si inserì nella conversazione, quasi infilandosi fisicamente tra i due. «E tu come stai, Saxton?»
«Abbastanza bene.» Nel rispondere, Saxton non degnò neanche di uno sguardo Qhuinn, concentrato com'era su Blay.
«Anche se i miei vogliono che me ne vada via da Caldwell. Io però non sono dell'idea.»
Ansioso di guardare da un'altra parte, Blay si diede un gran da fare a bere la sua bibita e a contare i cubetti di
ghiaccio che ci galleggiavano dentro.
«E tu cosa ci fai qui?» chiese Saxton.
Ci fu una lunga pausa; alla fine Blay alzò gli occhi, chiedendosi perché Qhuinn non avesse risposto.
Ah. Ecco. Saxton non si stava rivolgendo a suo cugino.
«Perché non parli, Blay?», lo incitò Qhuinn, accigliato.
Per la prima volta da... Dio, una vita, o almeno così gli pareva... Blay fece per guardare dritto negli occhi il suo
migliore amico. Anche se stavolta non aveva bisogno di farsi forza. Come sempre, quegli occhi spaiati erano puntati
su qualcun altro: Saxton stava subendo un esame che avrebbe messo in imbarazzo maschi meno coraggiosi di lui. Ma
non se n'era accorto, o forse se ne sbatteva.
«Sì, rispondimi, Blaylock», mormorò il cugino di Qhuinn.
Blay si schiarì la gola. «Siamo qui per aiutare un amico.»
«Ammirevole.» Saxton sorrise, mostrando un paio di zanne scintillanti. «Sai, penso che dovremmo uscire insieme,
qualche volta.»
La voce di Qhuinn suonò tesa. «Sicuro. Ottima idea. Ecco il mio numero.»
Proprio mentre lo snocciolava, John, Trez e iAm tornarono. Seguirono le presentazioni e uno scambio di battute, a cui
Blay però non prese parte; si scolò la Coca e mise il bicchiere nella lavastoviglie.
Quando girò intorno al banco passando davanti a Saxton, questi tese la mano. «E stato bello rivederti.»
Istintivamente, Blay strinse il palmo proteso... e dopo la stretta di mano si accorse che tra le dita gli era rimasto un
biglietto da visita. Nel vederlo nascondere la propria sorpresa, Saxton sorrise.
Blay si infilò il cartoncino in tasca e Saxton voltò la testa verso Qhuinn. «Ti farò uno squillo, cugino.»
«Sì. Certo.»
I saluti di congedo furono notevolmente meno cordiali da parte di Qhuinn ma, di nuovo, Saxton sembrava
infischiarsene, o forse non ci aveva fatto caso... anche se era difficile credere a questa seconda ipotesi.
«Se volete scusarmi», disse Blay, senza rivolgersi a nessuno in particolare.
Uscì dal ristorante solo, e sotto il portone si accese una sigaretta e si appoggiò alla fresca parete di mattoni,
sollevando la suola di un anfibio contro l'edificio.
Fumando, tirò fuori il biglietto da visita. Cartoncino spesso, color panna. Stampato, ma non in rilievo... naturalmente.
Caratteri neri, vecchio stile. Avvicinandolo alle narici sentì quella fragranza di colonia.
Buona. Molto buona. Qhuinn non credeva nell'acqua di colonia. .. per cui il più delle volte odorava di cuoio e di
sesso.
Infilandosi il biglietto nel giubbotto, Blay diede un altro tiro e buttò fuori il fumo in uno sbuffo lungo e lento. Non
era abituato a essere guardato. O abbordato. Era sempre lui a puntare lo sguardo e, per quel che ricordava, il bersaglio
era sempre stato Qhuinn.
La porta si spalancò di colpo e i suoi amici uscirono.
«Dio, quanto odio il fumo di sigaretta», borbottò Qhuinn, agitando la mano per dissipare la nuvola appena esalata.
Blay spense la Dunhill contro il tacco dell'anfibio, infilandosi in tasca la metà rimasta. «Dove andiamo?»
All'Xtreme Park, rispose John. Quello vicino al fiume. E ci hanno dato anche un'altra pista, ci vorranno un paio di
giorni per verificarla.
«Non è quel posto nel territorio delle bande?» chiese Blay. «Non c'è un mucchio di polizia che bazzica lì intorno?»
«Perché preoccuparsi degli sbirri?» Qhuinn scoppiò in una risata secca e dura. «Se ci mettiamo nei guai con la polizia,
Saxton può sempre tirarci fuori pagando la cauzione. Giusto?»
Blay lo guardò, e stavolta avrebbe dovuto farsi forza. Lo sguardo verde e azzurro di Qhuinn lo stava trafiggendo e,
quando se ne accorse, nel petto sentì il vecchio brivido familiare.
Dio... era quello il suo amore, pensò. E lo sarebbe sempre stato.
Era il profilo marcato di quella mascella volitiva, le sopracciglia scure e nette come due tagli, e quei piercing, su tutto
il lobo dell'orecchio e nel carnoso labbro inferiore. Erano quei folti capelli neri e lucidi, la carnagione dorata e quel
fisico così muscoloso. Era il modo in cui rideva e il fatto che non piangeva mai e poi mai. Erano le cicatrici che aveva
dentro e che nessuno conosceva e la certezza che sarebbe sempre stato il primo a gettarsi dentro un palazzo in
fiamme, in una rissa sanguinosa o sul luogo di un incidente stradale.
Erano tutte le cose che Qhuinn era stato e sarebbe sempre stato.
Ma le cose non sarebbero mai cambiate.
«Cos'è che non cambierà?» chiese Qhuinn, accigliato.
Oh, merda. Aveva parlato ad alta voce. «Niente. Andiamo, John?»
John guardò prima uno e poi l'altro. Quindi annuì. Ci restano solo tre ore prima dell'alba. Sbrighiamoci.
Capitolo 6
«Mi piace come mi guardi.»
Dall'angolo opposto della camera da letto, Xhex non rispose alle parole di Lash. Dal modo in cui era steso davanti al
comò, con una spalla più alta dell'altra, era possibilissimo che gli avesse slogato il braccio. E non era l'unico danno.
Un rivolo di sangue nero gli colava sul mento dal labbro spaccato e, dopo il morso che gli aveva dato alla coscia,
avrebbe camminato zoppicando.
Sentiva i suoi occhi su di sé e non si curò di coprirsi con le mani. Se era pronto per il secondo round, le serviva ogni
briciolo di energia rimastole. E poi, il pudore conta solo se ci tieni al tuo corpo, e lei quell'interesse l'aveva perso da
un pezzo.
«Credi nell'amore a prima vista?» chiese Lash. Con un grugnito si tirò su da terra e dovette appoggiarsi al bordo del
cassettone mentre provava a muovere il braccio.
«Allora?» la incalzò.
«No.»
«Cinica.» Lash zoppicò fino all'arco che portava al bagno. Ritto sulla soglia, appoggiò una mano contro il muro, voltò
la faccia verso sinistra e inspirò a fondo.
Poi, con uno strappo deciso, rimise a posto la clavicola; si sentì un crac e una sonora imprecazione. Quando si accasciò
in avanti, respirando a fatica, i tagli sulla faccia lasciarono macchie nere di sangue di lesser sul montante bianco.
Voltandosi verso di lei, sorrise.
«Ti andrebbe di fare una doccia con me?» di fronte al silenzio di Xhex, scosse la testa. «No? Peccato.»
Sparì dentro la distesa di marmo del bagno e, un istante dopo, si sentì scorrere l'acqua.
Solo quando sentì che si stava lavando e fiutò la fragranza del sapone finissimo che usava sempre, Xhex spostò con
cautela braccia e gambe.
Nessuna debolezza. Non gli aveva mostrato nessuna debolezza. Non era solo questione di apparire forte per indurlo
a pensarci due volte prima di tornare all'attacco. La sua natura si rifiutava di cedere davanti a lui come davanti a
chiunque altro. Sarebbe morta lottando.
Era fatta così e basta: era invincibile... e non era il suo ego a parlare. Il succo della sua esperienza era che, qualunque
cosa le facessero, lei lo avrebbe sopportato.
Però, Cristo santissimo, odiava lottare con Lash. Odiava tutta quella maledetta storia.
Quando lui uscì dal bagno, poco dopo, era pulito e già quasi guarito, i lividi quasi del tutto scomparsi, i graffi svaniti,
le ossa rinsaldate come per magia.
La mia solita fortuna, pensò amaramente Xhex. Il fottuto coniglietto della Duraceli.
«Vado a trovare mio padre.» Quando le andò vicino, lei scoprì le zanne e per un attimo lui parve lusingato. «Adoro il
tuo sorriso.»
«Non è un sorriso, stronzo.»
«Comunque tu voglia chiamarlo, mi piace. E un giorno ti presenterò al caro vecchio paparino. Ho dei progetti, per noi
due.»
Lash fece per chinarsi, senza dubbio per tentare di baciarla, ma nel sentirla ringhiare si fermò e cambiò idea.
«Torno presto», sussurrò. «Amore mio.»
Lo faceva apposta, sapendo che lei odiava tutte quelle smancerie, quindi Xhex si trattenne dal ribattere. Soffocò
anche l'impulso di provocarlo, quando lui si voltò e uscì.
Più lei si rifiutava di stare al gioco, più lui sembrava coinvolto e più le si schiarivano le idee.
Ascoltandolo mentre si muoveva nella stanza accanto, se lo figurò mentre si vestiva. Teneva gli indumenti nell'altra
stanza, li aveva spostati quando ormai era stato chiaro come sarebbero andate le cose tra loro: odiava il disordine e ci
teneva al suo guardaroba.
Quando i rumori si smorzarono e lo sentì scendere le scale, con un gran sospiro si tirò su da terra. Il bagno era ancora
pieno di vapore e torrido per la doccia che aveva fatto Lash; detestava usare il suo stesso sapone, ma detestava ancora
di più quello che aveva sulla pelle.
Appena s'infilò sotto il getto bollente, il marmo ai suoi piedi si colorò di rosso e di nero via via che i due tipi di
sangue, scivolando via dal corpo, venivano inghiottiti dallo scarico. Si insaponò e si sciacquò in fretta, perché Lash se
n'era andato da qualche minuto, ma con lui non si poteva mai sapere. A volte tornava subito, altre volte spariva per
un giorno intero.
La fragranza di quel cavolo di sapone francese con cui Lash insisteva a riempire il bagno la faceva vomitare, anche se
la maggior parte delle femmine avrebbero adorato quella miscela di lavanda e gelsomino, c'era da scommetterci. Dio,
quanto le mancava il buon vecchio Dial di Rehv. Il bruciore sui tagli sarebbe stato atroce, ma soffrire non la
spaventava, e l'idea di sfregarsi la pelle fino a levarsela era allettante.
Ogni passata su per il braccio o giù per la gamba era accompagnata da fitte di dolore, quando si piegava di lato o si
chinava in avanti; ripensò ai cilici che aveva sempre portato per tenere sotto controllo la sua natura di symphath.
Tutte le botte che si erano dati in quella camera da letto erano bastate a placare le sue inclinazioni malvagie... non che
avesse importanza, in realtà. Non aveva a che fare con persone "normali", e quella parte oscura di lei l'aiutava ad
affrontare la situazione.
E tuttavia, dopo vent'anni che li portava, era strano non averli con sé. Li aveva lasciati nella grande casa della
confraternita... sul comò della stanza in cui aveva dormito il giorno prima della spedizione alla colonia, con
l'intenzione di tornare alla fine della nottata, farsi una doccia e rimetterseli... ma adesso di sicuro si stavano
impolverando in attesa del suo ritorno.
Oramai stava perdendo le speranze in un'allegra rimpatriata con quella coppia di bande chiodate.
Buffo come la vita può interrompersi: uscivi di casa pensando di tornare, ma poi la strada che avevi imboccato ti
portava a sinistra invece che di nuovo a destra.
Per quanto tempo i fratelli avrebbero conservato i suoi effetti personali? Quanto tempo sarebbe passato prima che le
sue poche cose - che fossero al quartier generale della confraternita, nel suo capanno di caccia o nell'appartamento al
seminterrato - venissero relegate tra le cianfrusaglie? Due settimane erano più o meno il limite massimo,
probabilmente... per quanto, visto che nessuno, a parte John, sapeva del suo rifugio sotterraneo, la roba che c'era là
dentro avrebbe resistito molto più a lungo.
Dopo un paio di settimane le sue cose sarebbero finite in qualche ripostiglio. Poi dentro una scatola in solaio.
O forse, semplicemente, buttate in pattumiera.
E quello che succede quando la gente muore. Quello che è stato un oggetto personale diventa immondizia... a meno
che non venga adottato da qualcun altro.
E non è che ci fosse tutta questa richiesta di cilici.
Chiuse il rubinetto, uscì dalla doccia, si asciugò e tornò in camera da letto. Si era appena seduta vicino alla finestra
quando la porta si aprì e il piccolo lesser che si occupava della cucina entrò con un vassoio pieno di roba da mangiare.
Sembrava sempre confuso, quando posava sul cassettone quello che aveva preparato e si guardava intorno... come se,
dopo tutto quel tempo, ancora non capisse perché diavolo doveva lasciare dei pasti caldi in una stanza vuota.
Ispezionava anche le pareti, facendo scorrere le dita sui buchi più recenti e sulle scie di sangue nero. Dato il suo
aspetto così lindo e ordinato, di sicuro era tentato di lanciarsi in un po' di "fai da te": la prima volta che Xhex era
entrata lì dentro, la tappezzeria di seta era in perfetto stato; adesso sembrava che l'avessero passata nell'asciugatrice.
Il lesser si avvicinò al letto per sistemare il piumone tutto spiegazzato e i guanciali sparpagliati in giro per la stanza,
lasciando la porta spalancata; Xhex spinse lo sguardo fino in corridoio e giù per le scale.
Inutile correre verso l'uscita. Neanche placcare il piccoletto aveva funzionato. Così come non era servito imboccare la
via tipica dei symphath, perché era bloccata mentalmente, oltre che fisicamente.
Poteva solo osservarlo, sperando di riuscire in qualche modo a stabilire un contatto con lui. Dio, quell'impulso
impotente di uccidere doveva essere lo stesso dei leoni allo zoo, quando gli inservienti entrano nella gabbia con le
ramazze e i pasti: quelli potevano andare e venire e modificare l'ambiente in cui vivevi, mentre tu eri bloccato.
Roba da prendere a morsi qualcuno.
Dopo che il lesser se ne fu andato, Xhex si avvicinò al vassoio. Prendersela con la bistecca non sarebbe servito a
niente, e per lottare aveva bisogno di calorie, quindi mangiò tutto quello che c'era. Tutto quello che metteva in bocca
sapeva di cartone; chissà se un giorno avrebbe ricominciato a mangiare di gusto, perché ne aveva voglia.
Tutta la storia del cibo come carburante era molto logica, ma per nulla esaltante, all'ora di pranzo.
Finito di mangiare tornò alla finestra, si sedette in poltrona, raccolse le ginocchia contro il petto e ricominciò a
guardare giù in strada. Era immobile, ma la sua mente non era a riposo.
Dopo tutte quelle settimane cercava ancora una via di fuga... e l'avrebbe fatto fino al suo ultimo respiro.
Di nuovo, come l'impulso di ribellarsi a Lash, non era un bisogno dettato dalle circostanze, ma insito nella sua stessa
natura; quella consapevolezza la fece pensare a John.
Era stata così determinata nell'allontanarsi da lui.
Ripensò a quando erano stati insieme... non l'ultima volta, quando lui gliel'aveva fatta pagare per come lo aveva
respinto, ma l'altra, nel suo appartamento al seminterrato. Dopo il sesso, lui aveva tentato di baciarla... chiaramente
voleva qualcosa di più che una scopata veloce e scatenata. E lei come aveva reagito? Si era scostata ed era andata in
bagno, dove si era lavata da capo a piedi come se lui l'avesse insozzata. Poi se n'era andata.
Quindi non lo biasimava per com'era andato il loro ultimo addio.
Si guardò intorno, nella sua prigione verde scuro. Probabilmente sarebbe morta lì dentro. E presto, anche, visto che
da un pezzo non si attaccava a una vena ed era sottoposta a uno stress fisico ed emotivo enorme.
La concreta prospettiva della sua dipartita la fece pensare ai tanti volti che aveva guardato mentre la vita, a poco a
poco, lasciava i loro corpi e l'anima si librava, finalmente libera. In quanto killer, la morte era il suo mestiere. In
quanto symphath, era un sorta di vocazione.
Quel processo l'aveva sempre affascinata. Ognuna delle persone che aveva ucciso aveva lottato contro l'inevitabile,
anche se tutte sapevano, mentre lei incombeva su di loro con in mano una o l'altra delle armi a sua disposizione, che
quand'anche fossero riuscite a sfuggire alla sua presa, lei le avrebbe colpite di nuovo. Ma sembravano non curarsene.
L'orrore e il dolore avevano agito come una fonte d'energia, cibo per la loro lotta, e lei sapeva come ci si sentiva.
Lottavi per respirare anche se non riuscivi a far entrare l'aria in gola, sulla pelle surriscaldata ti si formava un velo di
sudore gelato, i muscoli si indebolivano, ma tu li imploravi comunque muovetevi, muovetevi, muovetevi, maledizione.
In passato, quelli che l'avevano catturata l'avevano spinta più volte fin sull'orlo del rigor mortis.
I vampiri credevano nella Vergine Scriba, mentre i symphath non concepivano un aldilà. Per loro la morte era una
bretella d'uscita, non verso un'altra autostrada, ma verso un muro di mattoni contro cui andavi a schiantarti. Dopo di
che non c'era niente.
Personalmente, lei non si era mai bevuta tutte le stronzate sulla santa divinità; che ci fosse arrivata per via
dell'educazione ricevuta o col semplice ragionamento, il risultato era lo stesso. Con la morte si spegne tutto, fine della
storia. L'aveva vista da vicino tante di quelle volte, per l'amor del cielo; dopo tutto quel lottare c'era... il nulla. Le sue
vittime avevano smesso di muoversi, semplicemente, erano rimaste fissate nella posizione in cui erano quando i loro
cuori si erano fermati. Forse certi muoiono col sorriso sulle labbra, ma in base alla sua esperienza si trattava di una
smorfia, non di un sorriso.
Se stavano per entrare nel regno dei cieli, con la sua vagonata di luce bianca e compagnia bella, avrebbero dovuto
essere raggianti come se avessero vinto alla lotteria.
Forse però erano così afflitti non tanto per dove stavano andando, ma per dov'erano stati.
I rimpianti... in quei momenti estremi pensavi ai tuoi rimpianti.
A parte il fatto che avrebbe voluto nascere in circostanze diverse, tra le sue tante trasgressioni ce n'erano due che le
pesavano più di tutte le altre.
Avrebbe voluto confessare a Muhrder, tanti anni prima, che lei era per metà symphath. Così, quando l'avevano
portata alla colonia, non si sarebbe scomodato a salvarla. Avrebbe visto come inevitabile che l'altro ramo della sua
famiglia la reclamasse, e non avrebbe fatto la fine che aveva fatto.
Avrebbe voluto poter tornare indietro anche per dire a John Matthew che le dispiaceva. Lo avrebbe respinto
comunque, perché era l'unico modo per impedirgli di ripetere gli errori dell'altro suo amante. Ma gli avrebbe
spiegato che non era per lui. Era per lei.
Per lo meno non avrebbe corso rischi. Aveva i fratelli e il re della razza che si prendevano cura di lui e, grazie alla
brutalità con cui lei lo aveva tagliato fuori dalla sua vita, non avrebbe commesso stupidaggini.
Lei era da sola, in quella vicenda, e sarebbe andata come doveva andare.
Avendo condotto una vita violenta, era del tutto prevedibile che andasse incontro a una fine violenta... ma, tanto per
non smentirsi, prima di uscire di scena avrebbe lottato fino all'ultimo e si sarebbe levata anche qualche
soddisfazione, senza nessuna pietà.
Capitolo 7
Merda, stava già facendo chiaro.
John guardò l'orologio, ma era tutta fatica sprecata. Il bruciore agli occhi gli diceva tutto quello che c'era da sapere: la
notte era agli sgoccioli.
La sola promessa del giorno bastava a fargli battere le palpebre in modo frenetico.
D'altra parte, il movimento all'Xtreme Park stava comunque scemando, per quella sera, gli ultimi tossici ritardatari si
sdraiavano sulle panchine o si infilavano nei gabinetti pubblici per un'ultima pera. A differenza degli altri parchi di
Caldwell, quello era sempre aperto, e alti pali della luce illuminavano la distesa di cemento. Difficile dire cosa
avessero in mente gli urbanisti con quell'apertura ininterrotta, perché il risultato era che lì si facevano "affari"
ventiquattr'ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Con tutte le droghe che passavano di mano, quel posto era come
un bar lontano dai bar sulla Trade.
Niente tesser, però. Solo umani che spacciavano ad altri umani, che poi si facevano nell'ombra.
Tuttavia era una pista promettente. Se Lash non si era ancora infiltrato in quella zona, prima o poi l'avrebbe fatto.
Malgrado gli sbirri di pattuglia, c'era molta privacy, ma anche ottime possibilità di avvistamento. Il parco era
strutturato come una immensa terrazza, con una pista per lo skateboard in cui si alternavano conche, rampe e salti.
Morale della favola: vedevi subito quando arrivava la polizia e potevi correre dietro o dentro nascondigli di ogni
sorta.
E Cristo se erano bene allenati, i frequentatori abituali. Dal loro punto di osservazione privilegiato, dietro il capanno
degli attrezzi, John e i suoi amici avevano assistito in continuazione al ripetersi
di quella scena. Veniva da chiedersi come mai la polizia non girasse su auto civetta o non infiltrasse agenti in
borghese.
O forse lo facevano già. Forse c'erano altri che, come loro tre, erano invisibili alla folla. Be', non proprio come loro tre.
Impossibile per un membro del Dipartimento di polizia di Caldwell, per quanto bene addestrato e decorato,
annullarsi completamente... come da tre ore stavano facendo John e i suoi amici. Ogni volta che passava qualcuno,
loro gli ripulivano la memoria.
Era abbastanza strano trovarsi in un posto, ma non esserci esattamente... venire avvertiti, ma non visti.
«Leviamo le tende?» chiese Qhuinn.
John guardò il cielo che rischiarava; nel giro di tredici ore, grosso modo, il sole, quella dannata lampada con
riscaldamento incorporato, sarebbe tornato a nanna e loro avrebbero potuto appostarsi di nuovo in quell'angolino
nascosto e ricominciare ad aspettare.
Maledizione.
«John? Andiamo.»
Per una frazione di secondo fu quasi sul punto di mangiarsi vivo il suo amico, le mani già pronte a stramaledirlo con
ogni sorta di "vaffanculo, non sei la mia babysitter".
Ciò che lo fermò fu il pensiero che, proprio come prolungare l'attesa non avrebbe fatto comparire Lash, neanche
strapazzare Qhuinn sarebbe servito ad avvistarlo.
Annuì, prima di dare un'ultima occhiata in giro. C'era un unico spacciatore che sembrava mandare avanti la baracca e,
a quanto pareva, il ragazzino era intenzionato a fermarsi fino all'ultimo. Di solito se ne stava appoggiato contro la
rampa centrale; mossa astuta, perché da lì godeva di una visuale privilegiata su tutto il parco, dagli angoli più estremi
alla strada da cui andava e veniva la polizia.
Sembrava sui diciassette-diciott'anni, i vestiti gli pendevano addosso, larghi come nello stile degli skater, ma
probabilmente anche in conseguenza del fatto che consumava quello che spacciava. Aveva un gran bisogno di una
bella lavata e strigliata , ma era sveglio e furbo. E all'apparenza lavorava da solo. Il che era interessante. Per
controllare un territorio, di solito lo spacciatore si serve di qualche scagnozzo pronto a farsi rispettare con la forza...
altrimenti è esposto alle aggressioni di chi vuole fregargli la merce o la grana. Quel ragazzino invece... era sempre per
conto suo.
O aveva qualche tirapiedi nascosto nell'ombra, oppure rischiava di farsi ammazzare.
John si raddrizzò dal fianco del capanno a cui era rimasto appoggiato e annuì ai suoi amici. Andiamo.
Quando riprese forma, sentì scricchiolare la ghiaia sotto le suole degli stivali e una brezza tesa lo investì in pieno
viso. Il cortile della grande casa della confraternita era delimitato dalla facciata della magione e dal muro di cinta alto
oltre sei metri che correva intorno a tutta la proprietà. La fontana di marmo bianco al centro non era ancora stata
riempita e rimessa in funzione per i mesi più caldi e anche la mezza dozzina di auto parcheggiate in fila aspettava di
entrare in azione.
Un ronzio sommesso di ingranaggi ben oliati gli fece alzare la testa. In una discesa coordinata, le tapparelle di acciaio
si stavano abbassando sulle finestre, i pannelli si srotolavano a coprire i vetri piombati come le palpebre di tanti
occhi che si chiudono per dormire.
Temeva di entrare. Dovevano esserci più di cinquanta stanze in quella casa, eppure il fatto di essere bloccato lì
dentro fino al tramonto la faceva assomigliare a una scatola da scarpe.
Quando Qhuinn e Blay si materializzarono al suo fianco, salì i gradini fino all'enorme portone a due battenti ed entrò
nel vestibolo.
All'interno, mostrò la faccia alla telecamera di sicurezza. Subito la serratura scattò e lui entrò in un atrio uscito dritto
dritto dalla Russia degli zar. Colonne di malachite e marmo rosso scuro sostenevano un soffitto affrescato alto tre
piani. Lampadari e specchi dorati generavano e riflettevano una luce calda che arricchiva ulteriormente i colori. E
quello scalone... era come una pista d'atterraggio coperta da una passatoia che si stendeva fino al cielo; in cima, la
balaustra dorata si dipartiva in due tronconi, a formare la balconata al primo piano.
Suo padre non aveva badato a spese, e chiaramente aveva uno spiccato senso teatrale. Con l'accompagnamento
musicale di un'orchestra, si poteva facilmente immaginare un sovrano che scendeva solenne, ammantato nella sua
lunga veste...
In cima alla scalinata comparve Wrath, l'enorme corpo fasciato di cuoio nero, i lunghi capelli neri sciolti sulle spalle
poderose. Come sempre, portava gli occhiali da sole avvolgenti e, pur trovandosi in cima a una vasta distesa di
gradini da cui era facile ruzzolare, non guardava in giù. Non ce n'era motivo. I suoi occhi ormai erano completamente
ciechi.
Ma non si poteva dire che fosse privo della vista. Al suo fianco, George aveva tutto sotto controllo. Uniti
dall'imbragatura agganciata al petto del golden retriever, il cane guida e il re formavano una rivisitazione
estremizzata di Mutt and Jeff, la "strana coppia" dei fumetti. Un buon samaritano canino degno di partecipare a un
concorso di bellezza e un feroce guerriero capacissimo di sgozzarti per il solo gusto di farlo. Insieme lavoravano
bene, tuttavia, e Wrath era innamorato pazzo del suo cane; l'animale era il cocco del re e come tale veniva trattato...
altro che banali crocchette Iams, George mangiava tutto quello che mangiava il suo padrone, ovvero tagli di manzo e
di agnello di primissima qualità. Girava addirittura voce che il retriever dormisse nel lettone insieme a Beth e Wrath anche se la notizia non era stata confermata da nessuna fonte indipendente, e nessuno era autorizzato a entrare negli
appartamenti della Prima Famiglia.
Wrath cominciò a scendere verso l'atrio; zoppicava leggermente, risultato di qualcosa che aveva fatto dall'Altra Parte,
nel regno della Vergine Scriba. Nessuno sapeva chi vedesse, al Santuario, o perché tornasse regolarmente con un
occhio nero o un labbro spaccato, ma tutti, persino John, erano lieti di quegli incontri. Lo aiutavano a mantenere
l'equilibrio mentale e lo tenevano lontano dal campo di battaglia.
Col re che scendeva e qualche fratello che varcava il portone da cui era appena entrato lui, John doveva svignarsela
alla svelta. Come le Ombre avevano fiutato il tatuaggio fresco, quelli che si stavano radunando per l'ultimo pasto se
ne sarebbero accorti in un baleno, se li lasciava avvicinare troppo.
Per fortuna in biblioteca c'era un mobile bar, e fu lì che John andò a versarsi un Jack Daniel's. Il primo di una lunga
serie.
Appoggiato contro il piano di marmo, cominciò a versare depositi sul suo "conto alcolici". Quanto avrebbe voluto
disporre di una macchina del tempo... anche se era difficile decidere se usarla per tornare indietro o per andare
avanti.
«Ti va di mangiare qualcosa?» chiese Qhuinn dalla soglia.
Senza guardarlo, John scosse la testa versandosi un altro goccio di sollievo liquido.
«Okay, ti porto un panino.»
Con un'imprecazione, John si voltò di scatto. Ho detto di no.
«Al roast beef? Va bene. E anche una bella fetta di torta di carote. Ti lascio il vassoio in camera tua.» Qhuinn si voltò.
«Se aspetti altri cinque minuti qui dentro, tutti saranno seduti a tavola, così avrai via libera su per le scale.»
Ciò detto, Qhuinn se ne andò; a parte spaccargli la testa tirandogli addosso il bicchiere, non c'era modo di fargli
capire che lui non aveva bisogno di niente e di nessuno.
Ma sarebbe stato un inutile spreco di ottimo whisky... Qhuinn aveva la testa così dura che potevi prenderlo a
sprangate sul lobo frontale senza ottenere il minimo risultato.
Per fortuna l'alcol cominciò a fare effetto, stendendogli addosso la sua coperta di torpore, prima sulle spalle e poi su
tutto il resto del. corpo. Non servì a placargli la mente, ma ossa e muscoli si rilassarono.
Dopo i cinque minuti di attesa suggeritigli da Qhuinn, John afferrò bicchiere e bottiglia e salì i gradini due per volta.
Le voci ovattate provenienti dalla sala da pranzo lo seguirono durante la salita, ma nulla di più. Ultimamente non
c'era stato molto da ridere, a tavola.
Giunto davanti alla sua stanza, aprì la porta ed entrò in una specie di giungla. C'erano indumenti sparsi su ogni
superficie possibile e immaginabile: comò, poltrona, letto, televisore al plasma. Come se l'armadio avesse vomitato
sul resto della mobilia. I due comodini ai lati del letto erano ingombri di bottiglie vuote di Jack Daniels come tanti
soldati morti; da lì, la distesa di cadaveri arrivava fino al pavimento, annidandosi anche tra il piumone e le lenzuola
aggrovigliate.
Erano due settimane che non lasciava entrare Fritz e la sua squadra di domestici a fare i mestieri; al ritmo attuale,
quando finalmente si fosse deciso ad aprire loro la porta, avrebbero avuto bisogno di una ruspa.
John si svestì, lasciando per terra calzoni e maglietta, ma fece attenzione al giubbotto. Almeno finché non tirò fuori le
armi. Poi lo buttò sull'angolo del letto. In bagno controllò con cura i due coltelli, poi in fretta pulì le pistole col kit
che aveva poggiato accanto al secondo lavandino.
Già, i suoi standard di ordine e pulizia erano precipitati al di sotto di quelli - già infimi - degli universitari, ma con le
armi era diverso. Lì, la manutenzione era cruciale.
Fece una doccia veloce. Insaponandosi petto e addominali, ripensò a quando il semplice contatto con l'acqua calda
bastava a farglielo venire duro. Ora non più. Non aveva un'erezione... dall'ultima volta che era stato con Xhex.
Aveva perso interesse, tutto qua... perfino in sogno, il che era una novità. Che cavolo, prima della transizione, quando
in teoria non doveva avere la minima consapevolezza della propria sessualità, il suo subconscio aveva tirato fuori
tutto un campionario di fantasie a luci rosse. Orge e ammucchiate così realistiche, così dettagliate, che
assomigliavano più a ricordi che a prodotti della fase REM.
Adesso, invece, sul suo schermo onirico venivano proiettate solo scene di inseguimenti in stile Blair Witch Project, in
cui lui correva a perdifiato in preda al panico, senza sapere chi o che cosa lo stesse inseguendo... o se sarebbe mai
riuscito a mettersi in salvo.
Uscito dal bagno, trovò un vassoio con un panino al roast beef e una fettona gigantesca di torta di carote. Da bere
niente: Qhuinn sapeva che, per i beveraggi, lui si serviva solo da Mister Daniel.
John mangiò in piedi davanti al comò, nudo come un verme, e, quando il cibo gli arrivò nello stomaco, gli risucchiò
tutta l'energia che aveva in corpo, prosciugandogli il cervello. Pulendosi la bocca col tovagliolo di lino, mise il
vassoio fuori in corridoio e andò al gabinetto, dove si lavò i denti solo per abitudine.
Spense le luci in bagno. Spense le luci in camera da letto.
Lui e il Jack seduti sul letto.
Per quanto fosse esausto, non era ansioso di sdraiarsi. C'era un rapporto inversamente proporzionale tra il suo livello
di energia e la distanza tra le sue orecchie e il pavimento: anche se era stanco morto, appena posava la testa sul
cuscino i pensieri cominciavano a vorticare e si ritrovava sveglio come un grillo a fissare il soffitto, contando le ore e i
dolori.
Scolò il whisky rimasto nel bicchiere e poggiò i gomiti sulle ginocchia. Nel giro di pochi istanti aveva la testa
ciondoloni e non riusciva a tenere gli occhi aperti. Quando cominciò a inclinarsi di lato si lasciò andare, anche se non
sapeva bene da che parte stava cadendo, verso i cuscini o verso il piumone imbottito?
I cuscini.
Sollevando i piedi sul letto, si tirò le coperte sui fianchi ed ebbe un momento di crollo estatico. Forse quella notte il
ciclo si sarebbe spezzato. Forse quel meraviglioso senso di sollievo lo avrebbe risucchiato nel buco nero in cui
sperava di sprofondare. Forse...
Spalancò gli occhi e rimase a fissare la fitta oscurità della stanza.
No, era stremato al punto da essere in fibrillazione, non solo sveglio come un grillo... ma in stato di massima allerta,
neanche gli avessero ficcato un dito nel culo. Stropicciandosi la faccia, pensò che quella contraddizione paradossale
era l'equivalente cognitivo della capacità di volare dei bombi: i fisici sostengono che è impossibile, eppure succede di
continuo.
Rotolò sulla schiena, incrociando le braccia sul petto e sbadigliando fin quasi a slogarsi la mascella. Difficile
decidere se accendere la lampada. Il buio amplificava il turbinio dentro il suo cranio, ma la luce gli faceva bruciare
gli occhi, dandogli l'impressione di piangere sabbia. Di solito alternava le due cose, tenendo la lampada un po' accesa
e un po' spenta.
Fuori, nella galleria delle statue, sentì Zsadist, Bella e Nalla dirigersi verso la loro stanza. La coppia parlava della
cena, mentre la piccola faceva i versetti tipici dei neonati quando hanno la pancia piena e sono tranquilli e beati, coi
loro genitori.
Poi fu la volta di Blay. A parte V, lui era l'unica altra persona della casa a fumare, ecco da cosa l'aveva riconosciuto. E
con lui c'era Qhuinn. Per forza. Altrimenti Blay non si sarebbe acceso una sigaretta davanti alla sua stanza.
Voleva fargliela pagare per quella cassiera al negozio di tatuaggi, e chi poteva biasimarlo?
Seguì un lungo silenzio. Poi ecco un ultimo paio di stivali.
Tohr stava andando a letto.
Si capiva che era lui più dal silenzio che dal rumore... i passi erano lenti e relativamente leggeri per un fratello: Tohr
ce la stava mettendo tutta per rimettersi in forma fisicamente, ma non era ancora autorizzato a scendere sul campo di
battaglia. Logico. Doveva mettere su minimo altri venti chili di muscoli prima di poter affrontare il nemico in un
corpo a corpo.
Non sarebbe passato nessun altro. Lassiter, ovvero l'ombra dorata di Tohr, non dormiva; l'angelo, di solito, se ne
stava giù nella sala del biliardo a guardare in TV programmi intellettuali tipo il Maury Show, coi suoi test di
paternità, Forum, con la giudice Mi-lian, e maratone di Real Housewives, un reality sulle casalinghe.
Silenzio... silenzio... silenzio.
Quando il battito del suo cuore cominciò a infastidirlo, John si tirò su con un'imprecazione e accese la luce. Poi si
appoggiò contro i cuscini, lasciando ricadere le braccia. Non condivideva la passione di Lassiter per la tele, ma
qualunque cosa era meglio del silenzio. Rovistando tra le bottiglie vuote trovò il telecomando; quando premette il
tasto on ci fu un attimo di pausa, come se quel coso si fosse scordato a cosa serviva... poi, però, comparve
un'immagine.
Linda Hamilton correva, il fisico che trasudava potenza. In fondo al corridoio un ascensore si aprì... mostrando un
bambino bruno coi capelli corti e Arnold Schwarzenegger.
John spense il televisore.
L'ultima volta che aveva visto quel film era in compagnia di Tohr... subito dopo che il fratello lo aveva tirato fuori da
un'esistenza triste e pietosa, svelandogli la sua vera identità... prima che le loro vite venissero sconvolte.
All'orfanotrofio, nel mondo umano, John aveva sempre saputo ili essere diverso... e quella sera il fratello gli aveva
spiegato il "perché". Gli era bastato mostrargli per un attimo le zanne.
Naturalmente, la scoperta di non essere quello che aveva sempre pensato di essere era stata accompagnata da una
vagonata d'ansia. Ma Thor era rimasto al suo fianco a guardare la TV, calmo e rilassato, anche se era di turno sul
campo e per di più aveva una shellan incinta a cui badare.
Era il gesto più gentile che avessero mai fatto per lui.
Tornando alla realtà, John gettò il telecomando sul comodino; l'oggetto rimbalzò, facendo cadere una delle bottiglie
vuote. L'ul-limo dito di bourbon si rovesciò e lui si allungò a prendere una maglietta per asciugare quel pasticcio.
Considerato il casino in cui era il resto della stanza, era come ordinare un Big Mac con con-lorno di patatine fritte e
poi berci insieme una Diet Coke.
Amen, poco importava.
Asciugò il piano del comodino, alzando le bottiglie una a una, poi aprì il cassettino per pulire anche...
Gettò la T-shirt per terra, infilò dentro la mano e prese un libro antico rilegato in pelle.
Il diario era in suo possesso più o meno da sei mesi, ma non l'aveva ancora letto.
Era l'unica cosa che gli restava di suo padre.
Non avendo altro da fare e nessun posto dove andare, lo aprì.
Le pagine erano di pergamena e odoravano di vecchio, ma l'inchiostro era ancora perfettamente leggibile.
John ripensò alle frasi che aveva scritto per Trez e iAm, da Sai; chissà se la sua calligrafia assomigliava a quella di suo
padre. Impossibile saperlo, visto che il diario era scritto nell'Antico Idioma.
Sforzando gli occhi stanchi, all'inizio si limitò a esaminare la forma dei caratteri, i simboli tracciati a inchiostro,
notando l'assenza di errori e di cancellature e la precisione della scrittura, ordinarissima malgrado l'assenza di righe
da seguire. Si figurò Darius chino sopra le pagine, al lume di candela, che intingeva una penna d'oca nel...
Fu pervaso da una strana sensazione, quasi stesse per sentirsi male... ma la nausea passò quando fu assalito da
un'immagine.
Una enorme casa di pietra, non molto diversa da quella in cui abitavano adesso. Una stanza ammobiliata con grande
gusto, piena di cose bellissime. Frasi buttate giù in fretta su quelle pagine, a uno scrittoio, prima di un sontuoso ballo.
La luce delle candele, calda e soffusa.
John si riscosse e riprese a voltare le pagine. A un certo punto cominciò a leggere, invece di limitarsi a contemplare le
file di caratteri. ..
Il colore dell'inchiostro passò dal nero al marrone quando suo padre scrisse della prima notte trascorsa al campo di
addestramento militare. Che freddo faceva. Com'era spaventato. Quanto gli mancava casa sua.
Quanto si sentiva solo.
John si immedesimò al punto da annullare quasi la separazione tra padre e figlio: malgrado tutti quegli anni e un
intero continente di distanza, gli sembrava di essere nei panni di suo padre.
Bella forza. Era nella stessa identica situazione: una realtà ostile con una quantità di angoli oscuri... e nessun genitore
a spalleggiarlo, ora che Wellsie era morta e Tohr era imo spettro ambulante.
Difficile dire quando le sue palpebre si abbassarono e restarono chiuse.
Ma a un certo punto si addormentò, con quel poco che gli restava di suo padre stretto con reverenza tra le mani.
Capitolo 8
1671, PRIMAVERA, VECCHIO CONTINENTE
Darius si materializzò nel folto della foresta, riprendendo forma accanto all'ingresso di una grotta. Aguzzando la vista
nella notte, si pose in ascolto di rumori degni di nota... Cervi si aggiravano silenziosi lungo il ruscello che scorreva
tranquillo, la brezza fischiava tra gli aghi di pino e sentiva il proprio respiro. Ma non avvertiva la presenza di umani né
di lesser.
Un istante ancora... e, infilatosi sotto la sporgenza rocciosa, entrò in una cavità naturale creata millenni prima.
Addentrandosi nella caverna, l'aria era vieppiù satura di un lezzo stantio che detestava: l'odore di muffa e di terra e la
fredda umidità gli rammentavano il campo di addestramento. Malgrado i ventisette anni trascorsi da quando aveva
abbandonato quel luogo infernale, i ricordi del tempo passato col Carnefice bastavano tuttora a farlo rabbrividire.
Giunto davanti alla parete di fondo, fece scorrere la mano sulla roccia bagnata e irregolare, fino a trovare la leva di
ferro che sbloccava il meccanismo di chiusura della porta segreta. I cardini ruotarono con un cigolio sommesso e una
sezione della parete scivolò verso destra; senza attendere che rientrasse del tutto, Darius sgattaiolò all'interno appena
riuscì a infilare di sghembo il robusto petto. Dall'altro lato, abbassò un'altra leva e attese che il lastrone tornasse a
posto.
Il lungo percorso verso il sancta sanctorum della confraternita era illuminato da torce che ardevano feroci; ombre dai
contorni nitidi sì agitavano tremolanti sul fondo e sul soffitto della caverna. Più o meno a metà strada gli giunsero
all'orecchio le voci dei suoi fratelli.
Dovevano essere in tanti, alla riunione, a giudicare dalla sinfonia di toni bassi e virili che si accavallavano, facendo a
gara per imporsi.
Lui era l'ultimo ad arrivare, probabilmente.
Giunto al cancello di ferro, prese una pesante chiave dalla tasca interna e la infilò nella serratura. Aprirsi un varco
richiedeva uno sforzo notevole anche per lui; l'enorme cancellata si schiudeva solo se chi cercava di entrare riusciva a
spalancarla a forza.
Nell'ampio salone scavato nelle viscere della terra vide la confraternita al gran completo; con la sua comparsa, la
riunione ebbe inizio.
Appena Darius andò ad affiancarsi ad Ahgony, tutti ammutolirono e Wrath il Giusto guardò i presenti. I fratelli
rispettavano il condottiero della razza, anche se non era un guerriero come loro, poiché era un sovrano di valore i cui
saggi consigli e la cui prudente moderazione erano di grande pregio nella guerra contro la Lessening Society.
«Miei prodi», esordì il re. «In questa circostanza vi reco notizie gravi e una richiesta. Un doggen mi ha raggiunto nella
mia residenza privata in pieno giorno, in qualità di messaggero, chiedendomi udienza. Dopo essersi rifiutato di rivelare
al mio segretario il motivo della sua visita, è scoppiato in lacrime.»
Mentre il monarca posava gli occhi verde chiaro sui volti dei convenuti, raccolti in circolo intorno a lui, Darius si chiese
a cosa preludesse tale preambolo. Nulla di buono, pensò.
«Fu allora che acconsentii a riceverlo.» Il re abbassò brevemente le palpebre. «Il suo padrone lo aveva inviato da me con
la più ferale delle notizie. La sua giovane figliola è scomparsa. Si era ritirata presto nei suoi appartamenti e tutto
sembrava normale fino a quando, a mezzodì, la cameriera non le ha recato il pasto, in caso gradisse desinare. La stanza
era vuota.»
Ahgony, il capo laico della confraternita, prese la parola. «Quando è stata vista per l'ultima volta?»
«Prima dell'Ultimo Pasto. Si era recata dai genitori dicendo che non aveva appetito e che sentiva il bisogno di
stendersi.» Il re continuava a far scorrere lo sguardo sui presenti. «Suo padre è una brava persona. Mi ha reso dei favori
personali. Di maggior rilievo, tuttavia, è il servigio che ha reso alla razza nel suo complesso in qualità di leahdyre del
Consiglio.»
Nella grotta riecheggiarono alcune imprecazioni e il sovrano annuì. «Si tratta invero della figlia di Sampsone.»
Darius incrociò le braccia al petto. Era una notizia terribile. All'interno della glymera, le figlie erano come gioielli
preziosi per i loro padri... fino al momento in cui venivano affidate alle cure di un altro maschio facoltoso che si
impegnava a trattarle di conseguenza. Tali femmine conducevano un'esistenza protetta e ritirata... Non sparivano
semplicemente dalla dimora di famiglia.
Potevano essere rapite, tuttavia.
Come ogni oggetto raro, le femmine di buona famiglia avevano un altissimo valore... e come sempre, nel caso della
glymera, l'individuo era meno importante della famiglia: i riscatti venivano pagati non per salvare la vita della
sventurata, ma la reputazione della sua stirpe. Non era insolito che tali vergini venissero rapite e trattenute per
estorcere denaro, facendo leva unicamente sul terrore sociale.
La Lessening Society non era l'unica fonte di malvagità al mondo. Era risaputo che anche alcuni vampiri aggredivano i
loro simili.
La voce del re risuonò in tutta la caverna, profonda e autorevole. «In qualità di mie guardie del corpo, vi affido il
compito di porre rimedio a tale stato di cose.» Gli occhi regali si appuntarono su Darius. «E a uno in particolare tra voi
chiedo di riparare tale torto.»
Darius si piegò in un profondo inchino, prima ancora che la richiesta venisse esplicitata. Come sempre, era pronto a
compiere qualunque missione per il suo re.
«Grazie, mio prode. La tua abilità di statista sarà di grande aiuto sotto il tetto di quella casa afflitta dal dolore, così
come il tuo senso del protocollo. E quando scoprirai il malfattore, confido nelle tue capacità per garantire un adeguato...
esito alla vicenda. Puoi avvalerti dell'aiuto di chi sta spalla a spalla con te e, soprattutto, trova quella sventurata.
Nessun padre dovrebbe mai patire un tale orrore.»
Darius non poteva essere più d'accordo.
Era una scelta saggia compiuta da un re saggio. Darius era un autentico statista, vero, ma dopo aver perso sua madre
aveva anche sviluppato una sensibilità particolare verso il gentil sesso. Non che gli altri fratelli non vi si sarebbero
applicati con la medesima dedizione - fatta eccezione per Hharm, forse, che non teneva in gran conto il valore
femminile. Darius più di chiunque altro, tuttavia, avrebbe avvertito tale responsabilità, e un buon re ne era ben
consapevole.
Ciò detto, egli avrebbe avuto bisogno d'aiuto; dunque si guardò intorno per decidere chi scegliere tra i fratelli, passando
in rassegna quei volti arcigni quanto familiari. S'interruppe alla vista di un viso sconosciuto.
Di fronte all'altare, il fratello Hharm era ritto accanto a una versione più giovane e snella di se stesso. Il ragazzo aveva
gli stessi capelli scuri e gli occhi azzurri del padre e con lui condivideva anche le spalle larghe e l'ampio petto. Ma le
somiglianze finivano lì. Hharm era appoggiato contro la parete della grotta in una posa insolente... il che non era una
sorpresa. Il fratello preferiva i combattimenti alle conversazioni, avendo poco tempo o poca capacità di concentrazione
da dedicare a queste ultime. Il giovane, al contrario, appariva profondamente assorto, gli occhi intelligenti fissi sul re
con timore reverenziale.
Teneva le mani dietro la schiena.
A dispetto dell'apparente calma esteriore, si torceva le dita di nascosto, un gesto nervoso tradito dall'incessante
movimento delle braccia all'altezza dei gomiti.
Darius capiva come doveva sentirsi. Dopo il discorso del re, tutti sarebbero scesi in campo a combattere e il figlio di
Hharm si sarebbe cimentato per la prima volta contro il nemico.
Non era armato in modo consono.
Fresco di campo di addestramento, le sue armi non erano migliori di quelle che un tempo aveva avuto Darius... altri
scarti del Carnefice. Il che era deplorevole. Darius all'epoca non aveva un padre che provvedesse ai suoi bisogni, ma
Hharm avrebbe dovuto prendersi cura di suo figlio, fornendogli strumenti adeguati, validi quanto i suoi.
Il re alzò le braccia levando gli occhi al soffitto. «Voglia la Vergine Scriba vegliare sui valorosi soldati qui riuniti con
tutta la sua grazia e benedizione allorché essi scenderanno sul campo di battaglia.»
I fratelli esplosero in un grido di guerra e Darius si unì agli altri con tutto il fiato che aveva in gola; il ruggito riecheggiò
contro le pareti della grotta, prolungandosi anche dopo che venne intonato un canto rituale. Mentre la tonante melodia
si alzava sempre più, il re tese il palmo all'infuori. Dalle tenebre della grotta emerse il giovane erede al trono,
l'espressione di gran lunga più vecchia dei suoi sette anni. Wrath, figlio di Wrath era, al pari di Tohrment, il ritratto dì
suo padre, ma lì finivano i punti di contatto tra le due coppie. Il principe era sacro, non solo per i suoi genitori, ma per
la razza.
Quel piccolo era il futuro, il condottiero di domani... la dimostrazione che, malgrado le nefandezze perpetrate dalla
Lessening Society, i vampiri sarebbero sopravvissuti.
Ed era impavido. Molti suoi coetanei si erano nascosti impauriti dietro il padre o la madre, trovandosi di fronte a uno
solo dei fratelli; il giovane Wrath, al contrario, non arretrò di un passo mentre li guardava, quasi sapesse, malgrado la
tenera età, che un giorno avrebbe comandato le poderose schiene e le braccia armate dei guerrieri che gli stavano di
fronte.
«Andate, miei prodi», disse il re. «Andate e brandite i pugnali con intento letale.»
Parole sanguinarie da pronunciare davanti a orecchie tanto tenere, ma nel bel mezzo della guerra non era d'uopo tenere
all'oscuro la futura generazione della casa reale. Wrath, figlio di Wrath, non sarebbe mai sceso in campo a combattere essendo troppo importante per la razza - ma la sua formazione gli avrebbe consentito di apprezzare ciò che i guerrieri
sottoposti alla sua autorità dovevano affrontare.
II re abbassò lo sguardo sul suo virgulto, e i suoi occhi si velarono di orgoglio, gioia, speranza e amore.
Quant'erano diversi, Hharm e suo figlio. Anche quel giovane era accanto al suo genitore, ma, per l'attenzione che ne
riceveva, avrebbe potuto trovarsi vicino a uno sconosciuto.
Ahgony si chinò verso Darius. «Qualcuno deve vegliare su quel ragazzo.»
Darius annuì. «Già.»
«L'ho condotto qui dal campo, stanotte.»
Darius guardò il fratello. «Veramente? E suo padre dov'era?»
«Tra le gambe di una fanciulla.»
Darius imprecò sottovoce. In verità, malgrado le sue origini, il fratello Hharm era un barbaro e, a causa dei suoi bassi
istinti, aveva figli a frotte, cosa che forse poteva spiegare, anche se non certo giustificare, la sua noncuranza. Gli altri
suoi rampolli, naturalmente, non potevano candidarsi a entrare nella confraternita poiché le loro madri non erano
Elette.
Hharm, tuttavia, sembrava del tutto indifferente.
La vista di quel povero giovane così isolato risvegliò in Darius un vivido ricordo della sua prima notte sul campo di
battaglia: rammentò la sua mancanza di legami con chiunque... rammentò come fosse spaventato all'idea di affrontare
il nemico col solo ausilio della propria astuzia e del poco addestramento ricevuto a sostegno del suo coraggio. Non che i
fratelli non si curassero di lui, ma dovevano badare a difendersi e lui doveva dimostrare di cavarsela da solo.
Quel giovane, palesemente, viveva la sua stessa difficoltà... ma aveva un padre che avrebbe dovuto spianargli la strada
e recargli conforto.
«Abbi cura di te, Darius», disse Ahgony mentre i reali si mescolavano ai fratelli, stringendo mani e preparandosi a
congedarsi. «Devo scortare il re e il principe.»
«Abbi cura di te, fratello.» I due si scambiarono un rapido abbraccio, poi Ahgony raggiunse i due Wrath e uscì dalla
grotta insieme a loro.
Mentre Tohrture assegnava i territori da presidiare per quella notte, cominciarono a formarsi le coppie e Darius, tra le
teste dei compagni, guardò il figlio di Hharm. Il ragazzo se ne stava rigido in disparte, a ridosso della parete, le mani
sempre dietro la schiena. Hharm sembrava interessato solo a scambiare fanfaronate con gli altri.
Tohrture si infilò due dita in bocca e fischiò. «Fratelli! Attenzione!» Sulla grotta scese un silenzio di tomba. «Grazie.
Siamo intesi sui territori?»
Dopo un "sì" collettivo, i fratelli cominciarono a uscire... compreso Hharm che, senza neanche volgersi a guardare suo
figlio, puntò dritto verso l'uscita.
A quel punto il ragazzo spostò le mani davanti a sé, sfregandole nervosamente. Facendosi avanti, chiamò suo padre per
nome una... due volte.
Il fratello si volse con l'espressione di chi deve affrontare un obbligo sgradito. «Su, forza, dai...»
«Se posso permettermi», disse Darius, infilandosi tra i due. «Sarei lieto di averlo come assistente nella mia missione. Se
non hai nulla in contrario.»
In verità non gli importava nulla se Hharm era d'accordo o meno. A quel giovane serviva molto più di quanto suo padre
fosse disposto a offrirgli, e Darius non era tipo da assistere a un'ingiustizia senza reagire.
«Credi forse che non sappia badare al sangue del mio sangue?» sbottò Hharm.
Darius si volse verso di lui e gli andò sotto a muso duro. Preferiva negoziati pacifici, in presenza di un conflitto... ma
con Hharm era impossibile ragionare. E Darius era perfettamente in grado di rispondere alla forza con la forza.
Gli altri membri della confraternita rimasero impietriti; Darius abbassò la voce, anche se tutti avrebbero sentito ogni
parola. «Dammi il ragazzo e te le lo riconsegnerò tutto intero prima dell'alba.»
Hharm emise un ringhio simile a quello di un lupo davanti al sangue fresco. «Proprio come farei io, fratello.»
Darius si fece ancora più vicino. «Se lo conduci fuori a combattere ed egli soccombe, sul tuo lignaggio peserà in eterno
l'onta della sua morte.» Anche se in verità era difficile sapere se la coscienza di Hharm ne sarebbe rimasta turbata.
«Affidalo a me e ti risparmierò un tale fardello.»
«Non mi sei mai piaciuto, Darius.»
«Eppure al campo di addestramento eri sempre pronto a usare violenza a chi perdeva negli scontri con me.» Darius
scoprì le zanne. «Visto quanto te la godevi, dovresti mostrarmi più rispetto. Ti avverto... se non mi permetterai di
seguire il ragazzo, ti abbatterò al suolo e ti percuoterò finché non cederai.»
Hharm distolse lo sguardo, alzando gli occhi sopra la spalla di Darius, risucchiato dal passato. Darius sapeva quale
momento era emerso dalle brume della sua memoria: la notte in cui Darius lo aveva battuto, al campo... quando Darius
si era rifiutato di umiliarlo, punendolo per la sua debolezza, l'aveva fatto il Carnefice. Brutale era una pallida
descrizione di quanto era accaduto e, sebbene Darius fosse restio a rivangare tale episodio, la sicurezza del ragazzo era
un fine sufficientemente degno a giustificare l'uso di mezzi indegni.
Hharm sapeva chi avrebbe vinto, se fossero venuti alle mani.
«Prendilo», disse in tono piatto. «E facci quello che ti pare. Lo rinnego come figlio.»
Ciò detto, si volse e uscì a grandi passi...
Risucchiando tutta l'aria della caverna.
I guerrieri lo guardarono allontanarsi in un silenzio più assordante del grido di guerra di poco prima. Ripudiare la
propria discendenza era contrario alla razza, come la luce del giorno per un pasto in famiglia: era la catastrofe.
Darius si avvicinò al giovane. Quel volto... Beata Vergine Scriba, quel volto cereo e raggelato non era mesto né affranto,
non era neppure vergognoso.
Era un'autentica maschera mortuaria.
Darius gli tese il palmo, dicendo, «Salve, figliolo. Io sono Darius, e ti farò da whard.»
II giovane batté le palpebre una volta.
«Figliolo? Dobbiamo partire senza indugio.»
D'un tratto, Darius venne investito da uno sguardo penetrante; il ragazzo stava palesemente cercando indizi di obbligo
e commiserazione. Ma non ne avrebbe trovati. Darius sapeva con esattezza quant'era arido e duro il terreno su cui si
trovava quel giovane, dunque era ben consapevole che ogni forma di mollezza sarebbe sfociata solo in ulteriore
ignominia.
«Perché?», fu la domanda che si sentì rivolgere con voce roca.
«Dobbiamo recarci senza indugio alle scogliere a cercare quella fanciulla», rispose Darius con calma. «Ecco perché.»
Il ragazzo puntò gli occhi in quelli di Darius. Poi si portò una mano al petto e, con un inchino, disse, «Mi adopererò per
essere d'aiuto invece che di peso.»
È arduo scoprirsi indesiderati. Ancora più arduo camminare a testa alta dopo un simile affronto.
«Come ti chiami?», chiese Darius.
«Tohrment. Sono Tohrment, figlio di...» Si schiarì la gola. «Sono Tohrment.»
Darius andò a mettersi al suo fianco e posò la mano su una spalla che ancora doveva svilupparsi in tutto il suo
potenziale.
«Vieni con me.»
Il ragazzo lo seguì con passo deciso... fuori dalla portata degli altri fratelli... fuori dal santuario della confraternita...
fuori dalla grotta... nella notte.
Il cambiamento nel petto di Darius ebbe luogo a un certo punto, tra quell'iniziale passo in avanti e il momento in cui di
smaterializzarono insieme.
Per la prima volta gli parve invero di avere una famiglia tutta sua... poiché sebbene quel giovane non fosse sangue del
suo sangue, si era assunto l'impegno di accudirlo.
Pertanto era pronto a offrire il petto a una lama destinata a lui, se necessario, sacrificandosi al suo posto. Tale era il
codice d'onore della confraternita... ma solo verso i propri fratelli. Tohrment non rientrava ancora in quel novero; era
solo un iniziato in virtù della sua stirpe, cosa che gli era valsa l'accesso alla Tomba, ma nulla di più. Se non si
dimostrava all'altezza, sarebbe stato bandito per sempre da quel luogo.
In realtà, in base al codice della confraternita, il ragazzo poteva perdere la vita sul campo di battaglia.
Ma Darius non lo avrebbe consentito.
Aveva sempre desiderato un figlio suo.
Capitolo 9
TRENTA CHILOMETRI FUORI CHARLESTON, CAROLINA DEL SUD.
«Porca... miseria. Certo che hanno dei gran begli alberi, da queste parti.»
Be', sì, in sintesi si poteva dire così. Mentre il furgone per il collegamento via satellite degli Investigatori del
Paranormale lasciava la Provinciale SC 124, Greg Winn frenò, chinandosi sul volante.
Assolutamente... perfetto.
L'ingresso della dimora storica tipica delle piantagioni del sud degli Stati Uniti era fiancheggiato su entrambi i lati da
querce grosse come camper; appesa ai loro rami massicci, la tillandsia ondeggiava nella brezza leggera. In fondo al
viale d'accesso, a setteottocento metri di distanza, la villa con colonne se ne stava placida come una gentildonna in
poltrona, col sole di mezzogiorno che le tingeva il volto di una luce giallo limone.
Dal sedile di dietro, Holly Fleet, la "conduttrice" del programma, si sporse in avanti. «Sei sicuro?»
«È un Bed and Breakfast, giusto?» Gregg pigiò sull'acceleratore. «Aperto al pubblico.»
«Hai telefonato quattro volte.»
«Non hanno detto di no.»
«Ma non ti hanno richiamato.»
«Pazienza.» Doveva assolutamente entrare lì dentro. Gli speciali in prima serata di IP erano sul punto di fare un salto
di qualità, in termini di introiti pubblicitari sul network. Non erano allo stesso livello di American Idol, vero, ma con
l'ultimo episodio dal titolo La magia smascherata avevano fatto il picco di ascolti e se quel trend continuava, i soldi
avrebbero cominciato a scorrere a fiumi.
Il lungo viale d'accesso era come una pista che consentiva non solo di addentrarsi nella tenuta, ma di tornare indietro
nel tempo. Guardando i terreni erbosi tutt'intorno, Gregg si aspettava di veder passeggiare sotto gli alberi ammantati
di tillandsia dei soldati della Guerra Civile e delle Vivien Leigh d'anteguerra.
Il viottolo coperto di ghiaia conduceva i visitatori direttamente all'elegante ingresso anteriore; Gregg parcheggiò lì
accanto, nel caso qualche altra macchina dovesse passare.
«Voi due state qui. Io entro.»
Scendendo dal posto di guida, coprì la maglietta Ed Hardy con una leggera giacca a vento nera e abbassò il polsino
sopra il Ro-lex d'oro. Il furgone col logo del programma - una lente d'ingrandimento sopra un indistinto fantasma
nero - era già abbastanza vistoso, e la casa di sicuro apparteneva a gente del posto. Lo stile hollywoodiano non è
necessariamente un valore aggiunto, fuori da Los Angeles, questo è il fatto... e un luogo tanto signorile non poteva
essere più lontano dalla chirurgia plastica e dalle abbronzature artificiali.
Gregg si avviò verso l'entrata, calpestando coi mocassini Prada i coriandoli di pietra del viale. L'edificio era una
semplice scatola bianca su tre piani, con verande al pianterreno e al primo piano e un tetto a padiglione con abbaini,
ma erano l'armonia delle proporzioni e la mole stessa a collocarlo a pieno titolo nella categoria delle dimore di gran
pregio. A coronamento dell'aspetto da gran dama, tutte le finestre erano incorniciate da tendaggi a tinte vivaci e,
attraverso i vetri piombati, si vedevano i lampadari a bracci appesi agli alti soffitti.
Alla faccia del "bed and breakfast".
Il portone d'ingresso avrebbe potuto appartenere a una cattedrale, tanto era grande, e il pesante batacchio d'ottone a
forma di testa di leone sembrava quasi a grandezza naturale. Gregg lo sollevò e lo lasciò ricadere.
Mentre aspettava, controllò che Holly e Stan fossero dove li aveva lasciati. Non aveva nessun bisogno di rinforzi
quando era impegnato nell'equivalente di una promozione vendite... specie quando la sua presenza non giungeva
gradita. Venivano da un incarico a Charleston, questa era la verità; se non fosse stato per quello, forse non avrebbe
azzardato un faccia a faccia, ma quel posto era di strada, per cui valeva la pena di allungare il viaggio di una
mezz'oretta. Le riprese per lo speciale di Atlanta non sarebbero cominciate prima di un paio di giorni, quindi
avevano tutto il tempo. Ma soprattutto lui era pronto a fare carte false pur di...
Il portone si spalancò e Gregg non potè fare a meno di sorridere. Cavolo... di bene in meglio. Il tizio sulla soglia
aveva stampato in fronte maggiordomo inglese, bastava guardarlo: dalle scarpe tirate a lucido alla giacca nera con
panciotto.
«Buon pomeriggio, signore.» E aveva anche un accento. Non proprio britannico, e neanche francese... un raffinato
accento europeo. «Desidera?»
«Gregg Winn», disse lui, tendendo la mano. «L'ho chiamata un paio di volte, ricorda? Non sono sicuro che abbia
ricevuto i miei messaggi.»
«Capisco», disse il maggiordomo con una frettolosa stretta di mano.
Gregg attese che continuasse. Davanti al suo silenzio, si schiarì la voce. «Ehm... speravo di ottenere il suo permesso
per svolgere qualche indagine sulla vostra incantevole proprietà. La leggenda di Eliahu Rathboone è davvero
notevole, voglio dire... i racconti dei vostri ospiti sono sorprendenti. La mia squadra e io...»
«Mi permetta di interromperla. All'interno dell'edificio, filmati e registrazioni sono vietati...»
«Siamo disposti a pagare.»
«... senza eccezioni.» Il maggiordomo gli rivolse un sorriso stiracchiato. «Preferiamo tutelare la nostra privacy, sono
certo che comprenderà.»
«In tutta franchezza no, non capisco. Che male c'è se diamo un'occhiatina in giro?» Gregg abbassò la voce e si sporse
in avanti. «A meno che, naturalmente... non sia lei ad aggirarsi per casa nel cuore della notte. O ad appendere una
candela a una lenza nella camera da letto all'ultimo piano.»
Il maggiordomo non cambiò espressione, pur trasudando sdegno da tutti i pori. «Abbiamo terminato, mi pare.»
Non era un commento né un suggerimento. Era una richiesta. Ma che cazzo, si disse Gregg, aveva avuto a che fare con
gente ben più tosta di quella specie di finocchio vestito da pinguino.
«Quelle storie sulla casa infestata dai fantasmi devono portarvi un sacco di clienti.» Gregg abbassò ancora di più la
voce. «Noi abbiamo una grandissima audience. Se già adesso avete molti visitatori, si immagini quanto ne
guadagnerebbero i vostri affari con un passaggio televisivo su scala nazionale. E se anche è stato lei a montare tutta la
messinscena su Rathboone, possiamo lavorare con lei, invece che contro di lei. Se capisce cosa intendo.»
Il maggiordomo arretrò di un passo e fece per chiudere il portone. «Buona giornata, signore...»
Gregg si infilò nella porta. All'inizio non moriva dalla voglia di controllare quegli strani racconti, ma non era tipo da
accettare un no come risposta. E, come al solito, essere respinto aumentava come non mai il suo interesse.
«Allora vorremmo fermarci per la notte. Stiamo facendo dei sopralluoghi in alcuni siti della Guerra Civile, qui in
zona, e ci serve un posto dove dormire.»
«Temo che siamo al completo.»
Proprio in quel momento, come un dono del cielo, una coppia scese il lussuoso scalone con le valigie in mano. Gregg
sorrise, allungando lo sguardo sopra la spalla del maggiordomo.
«Adesso un po' meno.» Dal suo mazzo di carte della personalità tirò fuori la sua migliore espressione della serie "non
le darò nessun fastidio". «Un no è un no, l'ho capito. Quindi non registreremo niente, né in audio né in video. Lo
giuro sulla testa di mia nonna.» Alzando la mano in segno di saluto, gridò, «Ehi, gente... piaciuta la permanenza?»
«Oh, mio Dio, è stato incredibile!» esclamò la fidanzata, moglie, scopata occasionale o quello che era. «Eliahu esiste
per davvero!»
Il fidanzato, marito, aspirante stallone annuì. «Io non le credevo. Cioè, insomma, fantasmi... dai, figuriamoci. Ma
invece sì... l'ho proprio sentito.»
«Abbiamo visto anche la luce. Ha sentito della luce?»
Gregg si mise una mano sul petto, scioccato. «No, che luce? Ditemi tutto...»
Mentre quei due si lanciavano in un resoconto dettagliato di tutte le "cose incredibilmente straordinarie" che erano
così "incredibili e straordinarie da vedere" durante il loro "incredibile...", gli occhi del maggiordomo si ridussero a
due fessure. Chiaramente le sue buone maniere ebbero la meglio sull'impulso omicida, spingendolo a farsi da parte
per permettere a Gregg di avvicinarsi alla coppia in partenza, ma la temperatura nell'atrio era precipitata sottozero.
«Un momento... ma quello non sarà mica...» L'uomo si accigliò, sporgendosi di lato. «Porco cane, lei lavora per quel
programma...»
«Investigatori del paranormale», suggerì Gregg. «Sono il produttore.»
«E la presentatrice...» Il tipo lanciò un'occhiata alla sua amica. «E qui anche lei?»
«Sicuro. Vuole che le presenti Holly?»
Quello mise giù la valigia per infilarsi meglio la polo nei calzoni. «Magari, davvero posso?»
«Ma ce ne stavamo andando», intervenne la sua dolce metà. «Vero, Dan?»
«Ma se io... se noi... abbiamo la possibilità di...»
«Se ci mettiamo in strada subito saremo a casa prima che faccia buio», fece lei, voltandosi verso il maggiordomo.
«Grazie di tutto, Mr Griffin. Siamo stati benissimo.»
Il maggiordomo le rivolse un inchino impeccabile. «Tornate pure quando volete, signora.»
«Oh, stia tranquillo... è l'ideale per le nostre nozze, a settembre. È un posto incredibile.»
«Proprio straordinario», confermò il fidanzato, apparentemente ansioso di rientrare nelle sue grazie.
La coppia uscì dal portone e Gregg non insistette per l'incontro con Holly - anche se l'uomo esitò un attimo e rimase a
guardarlo, quasi sperasse che li avrebbe seguiti.
«Allora vado a prendere le borse», disse Gregg al maggiordomo. «Intanto lei può far preparare la stanza, Mr Griffin.»
L'aria intorno al domestico parve subire una deformazione. «Abbiamo due camere.»
«Ottimo. E siccome vedo che lei è un uomo di sani principi, io e Stan dormiremo nella stessa stanza. Per senso del
decoro.»
Il maggiordomo inarcò le sopracciglia. «Capisco. Se lei e i suoi amici volete avere la cortesia di attendere nel salotto
alla sua destra, darò disposizione alle cameriere di preparare le vostre camere.»
«Fantastico.» Gregg gli diede una pacca sulla spalla. «Non si accorgerà neanche della nostra presenza.»
Il maggiordomo si scostò di un passo in modo plateale. «Un avvertimento, se posso.»
«Spari.»
«Non salite all'ultimo piano.»
Be', se non era un invito quello... oltre che una battuta uscita il ritta dritta da un film horror tipo Scream.
«Assolutamente no. Glielo giuro.»
Il maggiordomo si avviò lungo il corridoio e Gregg si sporse fuori dal portone per fare cenno alla sua troupe di
avvicinarsi. Holly scese facendo ballonzolare le maxitette quinta misura sotto la T-shirt nera e offrendo una fugace
visione del pancino piatto e abbronzato grazie ai jeans Seven a vita bassissima. Gregg non l'aveva assunta per il suo
cervello, ma per le misure da Barbie, eppure si era rivelata meno peggio del previsto. Come molte oche giulive non
era completamente stupida, solo un bel po', e aveva l'inquietante capacità di occupare sempre la posizione più
vantaggiosa per la sua carriera.
Stan fece scorrere il portello laterale del furgone e scese, battendo freneticamente le palpebre e scostando i lunghi
capelli arruffati. Perennemente "fatto", era la persona perfetta per quel genere di lavoro: tecnicamente esperto, ma
docile al punto di ubbidire senza tante storie.
L'ultima cosa che Gregg voleva era un artista dietro la telecamera.
«Prendete i bagagli», gridò loro Gregg. Era un messaggio in codice che stava per Oltre alle borse da viaggio prendete
anche l'attrezzatura portatile.
Non era il primo posto in cui riusciva a intrufolarsi grazie alla sua parlantina.
Nel tornare dentro, vide passare la coppia in partenza a bordo di una Sebring decappottabile; invece di guardare
dove stava andando, l'uomo aveva gli occhi fissi su Holly, china dentro il furgone.
Holly tendeva a fare quell'effetto sugli uomini. Un altro motivo per tenerla.
Be', quello, e il fatto che non si faceva problemi a darla via.
Gregg entrò nel salotto e fece lentamente un giro panoramico. I dipinti a olio erano degni di un museo, i tappeti
erano persiani e le pareti erano dipinte a mano con una scena pastorale. C'erano candelabri d'argento su ogni
superficie e neanche uno dei mobili era stato fabbricato nel ventunesimo o nel ventesimo - e forse neanche nel
diciannovesimo - secolo.
Il giornalista in lui rizzò subito le antenne. I Bed and Breakfast, anche quelli di prima categoria, mica si presentano
così. Qui gatta ci cova, pensò.
O altrimenti voleva dire che la leggenda di Eliahu attirava una quantità spropositata di ospiti.
Gregg si avvicinò a uno dei ritratti più piccoli. Raffigurava un giovane sui venticinque anni, dipinto in un altro
tempo e in un altro luogo. Il soggetto, seduto su una sedia dallo schienale rigido, aveva le gambe accavallate mentre
le belle mani, posate sulle ginocchia, pendevano elegantemente di lato. I capelli scuri, pettinati all'indietro e legati
con un nastro, rivelavano un volto che lasciava a bocca aperta. Gli abiti erano... Be', chi cavolo lo sapeva, Gregg non
era uno storico, ma di sicuro assomigliavano a quelli indossati da George Washington e dai suoi contemporanei.
Quello era Eliahu Rathboone, pensò Gregg. L'abolizionista che in segreto lasciava sempre una luce accesa per
incoraggiare i fuggitivi a trovare riparo in casa sua... l'uomo che era morto per difendere una causa prima ancora che
essa prendesse piede su al Nord... l'eroe che aveva salvato tante vite, solo per perdere la sua nel fiore degli anni.
Quello era il loro fantasma.
Gregg piegò una mano davanti agli occhi e, fingendo che fosse l'obiettivo di una telecamera, fece una panoramica
della stanza prima di stringere su quel volto.
«È lui?» chiese Holly, da dietro. «È proprio lui?»
Gregg le sorrise raggiante da sopra la spalla; fremeva, letteralmente. «E io che credevo che le immagini su Internet
fossero buone.»
«È, tipo... stupendo.»
E lo erano anche la sua storia, la sua casa e tutta quella gente che usciva da lì parlando di spettri.
Al diavolo il viaggio in quel manicomio di Atlanta. Quello era il loro prossimo speciale in diretta.
«Voglio che ti lavori il maggiordomo», disse piano Gregg. «Sai cosa intendo. Voglio avere accesso a tutto quanto.»
«Mi rifiuto di andare a letto con lui. Va bene tutto, ma la necrofilia no e poi no. Quello è più vecchio di
Matusalemme.»
«Ti ho forse chiesto di metterti in orizzontale? Esistono altri metodi. E hai a disposizione stanotte e domani. Lo
speciale voglio girarlo qui.»
«Vuoi dire...»
«Che tra dieci giorni andiamo in onda in diretta da qui.» Gregg andò alle finestre affacciate sul viale alberato; a ogni
passo le assi del pavimento scricchiolavano.
Emmy Award aspettateci che arriviamo, pensò Gregg.
Assolutamente perfetto.
Capitolo 10
John Matthew si svegliò con la mano sull'uccello, O meglio, si
svegliò solo a metà.
Ciò su cui aveva il palmo era prontissimo a entrare in azione, però.
Nella sua mente annebbiata, immagini di se stesso e Xhex lo stavano infiammando dal profondo... Vedeva loro due
sul letto di Xhex, in quel suo appartamento al seminterrato, e c'erano un sacco di scene di nudo; lei seduta a
cavalcioni sopra il suo inguine, lui che si protendeva a toccarle i seni. Era bello sentirla sopra di sé, la vulva calda e
bagnata contro la sua erezione, il corpo poderoso che si inarcava e si rilassava, strofinandosi sul membro che
smaniava per penetrarla.
Sentiva il bisogno di entrare dentro di lei. Di lasciarle dentro qualcosa di se stesso.
Di marchiarla.
Era un istinto incontenibile, quasi compulsivo... eppure gli rimordeva la coscienza quando si rizzò a sedere per
prendere in bocca uno dei capezzoli. Mentre prendeva la sua carne tra le labbra, succhiandola, leccandola,
mordicchiandola con estrema delicatezza, una parte di lui sapeva che non stava succedendo davvero... e che, anche se
era solo una fantasia erotica, era sbagliato. Non era giusto verso di lei, verso il suo ricordo, ma quelle immagini erano
troppo potenti, la mano con cui si stava masturbando troppo salda... e il momento troppo irresistibile ed elettrizzante
per censurarlo bruscamente.
Impossibile tornare indietro.
John immaginò di rovesciarla sulla schiena torreggiando sopra di lei, guardando quei suoi occhi grigio piombo. Xhex
aveva le cosce spalancate, pronta a ricevere quello che lui voleva darle; il suo odore gli penetrò nelle narici finché a
un certo punto non capì più niente, sentiva solo lei, vedeva solo lei. Facendo scorrere le mani sui suoi seni e sul
ventre, si meravigliò di quanto fossero simili i loro due corpi. Lei era più bassa e più minuta, ma i loro muscoli erano
identici, sodi e tonici, pronti all'uso, duri come l'acciaio quando erano all'opera. Gli piaceva da morire sentirla così
solida sotto la pelle morbida e liscia, così forte, così granitica...
La desiderava da impazzire.
Solo che all'improvviso non riuscì ad andare avanti.
Era come se la fantasia si fosse bloccata, il nastro rotto, il DVD graffiato, il file digitale corrotto. L'unica cosa che gli
restava era quell'attrazione e quell'estasi straziante, appena accennata, che lo avrebbe mandato al manicomio...
Xhex gli prese il volto tra le mani e, con quel contatto delicato, d'un tratto lo dominò completamente, testa, anima e
corpo: lo possedeva, e con lui possedeva tutto ciò che lui era, dagli occhi alle cosce. Lui era suo.
«Vieni da me», gli disse, piegando la testa di lato.
Le lacrime gli annebbiavano la vista. Finalmente si sarebbero baciati. Finalmente. Quello che lei gli aveva negato si
sarebbe avverato...
Quando si chinò... lei gli guidò di nuovo la bocca verso il capezzolo.
Lui provò una momentanea fitta di delusione, ma poi fu sopraffatto da una strana esaltazione. Il modo in cui lo aveva
deviato era così fedele all'originale che forse non era un sogno. Forse stava succedendo veramente. Mettendo da parte
la tristezza, si concentrò su quello che lei era disposta a dargli.
«Marchiami», disse Xhex con voce profonda.
Scoprendo le zanne, John fece scorrere la punta bianca e affilata intorno all'areola, girando in tondo, accarezzando.
Voleva chiederle se era sicura, ma non ce ne fu bisogno: con mossa repentina, Xhex si sollevò dal materasso
premendogli la testa contro la pelle per costringerlo a trafiggerla, per fare sgorgare il sangue.
John si ritrasse bruscamente, timoroso di averle fatto male... ma non era così e, quando lei si inarcò in modo erotico,
la sua scintillante sorgente di vita lo spinse all'orgasmo.
«Succhiami», ordinò lei mentre il suo uccello eiaculava, inondandole le cosce di spruzzi roventi. «Fallo, John. Subito.»
Non se lo fece ripetere due volte. Stregato da quel rivolo rosso scuro che colava lungo il seno pallido, con lenta grazia
si chinò a catturarlo con la lingua, leccandolo su, su, fino al capezzolo...
Nel sentire il suo sapore venne un'altra volta, scosso da spasmi violenti, marchiandole di nuovo la pelle. Il sangue di
Xhex era incredibile e inebriante in bocca, come una droga che dà dipendenza sin dal primo assaggio, una meta che
non voleva più lasciare, ora che l'aveva raggiunta. Mentre lo assaporava, gli parve di sentirla ridere soddisfatta, ma
poi si smarrì in quello che lei gli stava dando.
Fece scorrere la lingua sull'areola e sul taglio, poi chiuse le labbra intorno al capezzolo e succhiò, facendo scendere in
gola e nelle viscere quel gusto intenso. Quella comunione con Xhex era ciò che aveva sempre voluto, e adesso che si
stava nutrendo da lei venne sopraffatto dalla gioia, oltre che dall'energia nucleare procuratagli dal suo sangue.
Desideroso di darle qualcosa in cambio, abbassò il braccio e fece scorrere la mano sul suo fianco e tra le sue cosce.
Seguendo i muscoli tesi, trovò il suo sesso... Oh, Dio, era liscia, bagnata e caldissima, pronta e smaniosa di
accoglierlo. Non ne sapeva molto di anatomia femminile, ma lasciò che fossero i suoi mugolìi e i suoi movimenti
scomposti a guidarlo, a dirgli dove dovevano andare le dita e cosa dovevano fare.
La mano con cui la toccava, ben presto si coprì di umori, bagnandosi come l'oggetto delle sue carezze; fu allora che
affondò il medio dentro di lei. Col pollice massaggiò la sommità del suo sesso, allo stesso ritmo con cui le succhiava
il seno.
La stava spingendo verso il limite, portandola con sé, restituendole ciò che lei gli stava dando, quando capì che non
gli bastava. Aveva bisogno di qualcosa di più. Voleva stare dentro di lei al momento del suo orgasmo. Allora si
sarebbe sentito completo in un modo etereo, intero, appagato.
Era l'istinto e la necessità di ogni vampiro innamorato. Ciò che gli serviva per sentirsi in pace.
Sollevando le labbra dal suo seno, tolse la mano dalla vulva e cambiò posizione, in modo che il pene stillante fosse
sospeso sopra le sue gambe aperte. Guardandola negli occhi in quel momento incendiario, accarezzò i capelli corti
che le incorniciavano il viso. Lentamente abbassò la bocca...
«No», fece lei. «No, questo non c'entra.»
John Matthew balzò su di colpo, la fantasia onirica in frantumi, il petto stretto da gelide funi di dolore.
Disgustato, lasciò andare l'erezione... non che fosse ancora duro. Il suo uccello si era rattrappito letteralmente,
malgrado l'orgasmo già in arrivo.
No, questo non c'entra.
A differenza del sogno, che era tutto su un piano ipotetico, quelle erano le parole che Xhex gli aveva effettivamente
detto... e proprio nello stesso contesto.
John abbassò gli occhi sul proprio corpo nudo: il ventre e le lenzuola erano imbrattate del suo seme, quello che aveva
immaginato di riversare sopra di lei.
Non c'era immagine più potente per esemplificare la solitudine.
Lanciando un'occhiata alla sveglia, vide che non l'aveva sentita suonare. O più probabilmente non si era preso la
briga di puntarla. Uno dei vantaggi dell'insonnia è che non devi ricaricare in continuazione il cellulare perché sei
sempre lì a premere il tasto che interrompe la suoneria della sveglia.
Nella doccia si lavò in fretta, a cominciare dall'uccello. Detestava quello che aveva fatto in quello strano dormiveglia.
Gli sembrava assolutamente sbagliato farsi le seghe, date le circostanze; d'ora in avanti avrebbe dormito coi jeans
addosso, se necessario.
Per quanto, conoscendo la sua mano, quella maledetta si sarebbe infilata comunque dentro la patta.
'Fanculo, si sarebbe incatenato i polsi alla testiera del letto.
Dopo essersi fatto la barba - cosa che, come lavarsi i denti, faceva più per abitudine che per interesse verso il proprio
aspetto - appoggiò i palmi contro la parete di marmo della doccia, piegandosi verso il soffione principale e
lasciandosi scorrere l'acqua addosso.
I lesser sono impotenti. I lesser... sono impotenti.
Abbandonando la testa sul petto, sentì il getto bollente sulla
nuca.
II sesso faceva scattare nella sua mente ricordi terribili, rievocando ogni sorta di porcheria; quando l'immagine di una
squallida rampa di scale si allargò a macchia d'olio nel suo cervello, John spalancò le palpebre costringendosi a
tornare al presente. Non che fosse un miglioramento.
Era pronto a rivivere un migliaio di volte quello che gli era capitato pur di risparmiare a Xhex lo strazio di subire
anche solo una volta le stesse molestie. Oh... Dio...
I lesser... erano impotenti. Lo erano sempre stati.
Muovendosi come uno zombie, uscì dalla doccia, si asciugò e andò in camera da letto a vestirsi. Si stava infilando i
calzoni di pelle, quando gli squillò il cellulare; allungò la mano verso il giubbotto per tirarlo fuori.
Lo aprì e... trovò un SMS di Trez.
Diceva solo: 189 st. francis ave 10 stanotte.
Chiuse il telefono col cuore che batteva a mille. Una crepa qualunque nelle fondamenta... cercava solo una piccola
crepa nel inondo di Lash, una fessura, qualcosa dentro cui potersi incuneare per far crollare l'intero edificio del cazzo.
Xhex poteva benissimo essere morta, e quella nuova realtà senza ili lei poteva essere la sua realtà per il resto della
vita, ma non significava che non potesse vendicarla.
In bagno si agganciò il fodero al petto, prese le armi e, dopo aver afferrato il giubbotto, uscì in corridoio. Si fermò un
attimo a pensare a tutte le persone che si stavano radunando al piano di sotto... e all'ora. Le tapparelle erano ancora
abbassate.
Invece di andare a sinistra, verso lo scalone e l'atrio, prese a destra... camminando senza fare rumore malgrado i
pesanti stivali.
Blaylock uscì dalla sua stanza un po' prima delle sei perché voleva passare a vedere come stava John. Di solito il suo
amico bussava intorno all'ora di pranzo, ma quella volta non l'aveva fatto. Il che significava che era morto oppure
ubriaco fradicio.
Davanti alla stanza di John si fermò un attimo, accostando l'orecchio alla porta. Niente, nessun rumore.
Bussò piano e, non ottenendo risposta, aprì imprecando tra sé. Dio, la stanza sembrava reduce da un saccheggio:
c'erano vestiti dappertutto e il letto sembrava una di quelle piste automobilistiche in cui tutti cercano di sfasciare le
macchine degli avversari.
«È lì dentro?»
Nel sentire la voce di Qhuinn, Blay si irrigidì e dovette trattenersi dal voltarsi. Non ce n'era motivo. Sapeva già che
l'amico indossava una T-shirt con sopra Sid Vicious, i Nine Inch Nails o gli Slipknot infilata nei calzoni neri di pelle,
che aveva il viso liscio e ben rasato e che i capelli neri con gli spike da punk erano ancora umidi per la doccia.
Quindi entrò e si diresse verso il gabinetto, pensando che bastasse quello come risposta. «J? Dove sei, J?»
Si fece strada in mezzo a tutto quel marmo; l'aria era satura di umidità e del profumo di Ivory, il sapone che usava
John. Sul piano del lavandino c'era un asciugamano bagnato.
Voltandosi per uscire, andò a sbattere contro il petto di Qhuinn.
Fu come essere investiti da una macchina e il suo miglior amico allungò le braccia per sorreggerlo.
Oh, no. Non voleva essere toccato.
Blay arretrò in fretta, puntando lo sguardo sulla camera da letto. «Scusa.» Seguì una pausa imbarazzata. «Qui non
c'è.»
Ma va?
Qhuinn si piegò di lato e mise la faccia, quella faccia bellissima, sulla linea visiva di Blay. Quando si raddrizzò, gli
occhi di Blay lo seguono di riflesso.
«Non mi guardi più.»
No, era vero. «Sì, invece.»
Ansioso di sfuggire a quello sguardo verde e azzurro, cercò di ricomporsi andando a prendere l'asciugamano. Lo
appallottolò e lo infilò nello scivolo per la biancheria sporca, e la cosa lo aiutò un pochino.
Specie quando si immaginò di infilarci la testa, dentro quel buco.
Quando si voltò, era più calmo. Riuscì addirittura a sostenere quello sguardo. «Scendo a cenare.»
Poi fece per allontanarsi, tutto fiero di se stesso...
La mano di Qhuinn scattò in fuori e lo afferrò per il braccio, bloccandolo. «Abbiamo un problema. Noi due.»
«Davvero.» Non era una domanda. Perché quella era una conversazione che non voleva incoraggiare.
«Si può sapere cosa cavolo ti prende?»
Blay batté le palpebre, incredulo. Cosa aveva lui? Mica era lui quello che si scopava qualunque cosa avesse un buco.
No, lui era il povero scemo che si struggeva per il suo migliore amico. Il patetico idiota che frignava fino a Casina,
come un femminuccia; ancora un po' e doveva infilarsi un Kleenex nella manica per asciugarsi le lacrime.
Purtroppo quell'impeto di rabbia di sgonfiò subito, lasciandolo come svuotato. «Niente. Non ho niente.»
«Cazzate.»
Okay. Be'. Non era giusto. Avevano già affrontato l'argomento e Qhuinn poteva anche essere un puttaniere, ma la sua
memoria funzionava benissimo.
«Qhuinn...» Blay si passò una mano tra i capelli.
Neanche a farlo apposta, gli esplose nel cervello quella maledetta canzone di Bonnie Raitt, la sua voce piena che
cantava... Non posso costringerti ad amarmi se non mi ami... Non puoi costringere il tuo cuore a provare qualcosa che
non vuole provare...
Gli venne da ridere.
«Cosa c'è di tanto buffo?»
«È possibile venire castrati senza accorgersene?»
Adesso fu Qhuinn a battere le palpebre, perplesso. «No, a meno ili essere sbronzo marcio.»
«Be', io sono sobrio. Sobrio da far schifo. Come al solito.» Forse doveva seguire l'esempio di John e cominciare a bere
per dimenticare. «Però mi sa che cambierò andazzo. Fammi passare, per piacere...»
«Blay...»
«No. Non cominciare, non te lo permetto.» E puntò il dito in I accia al suo migliore amico. «Fai le tue cose, in questo
sei imbattibile, e lasciami in pace.»
Ciò detto uscì, la testa incasinata, ma i piedi per fortuna no.
Imboccò la galleria delle statue fino allo scalone; passando davanti ai capolavori greco-romani, fece scorrere gli occhi
su quei corpi maschili. Naturalmente in cima a tutti, neanche li avesse ritoccati con Photoshop, c'era la testa di
Qhuinn...
«Non devi cambiare niente», disse Qhuinn a bassa voce, standogli alle calcagna.
Giunto in cima alle scale, Blay guardò giù. Lo splendido atrio sotto di lui era come un dono che aprivi col tuo corpo, a
ogni passo entravi in un abbraccio visivo d'oro e colori.
Lo scenario perfetto per una cerimonia nuziale, pensò, senza un motivo particolare.
«Blay. Dai. Non è cambiato niente.»
Blay si voltò a guardarlo da sopra la spalla. Le sopracciglia col piercing di Qhuinn erano aggrottate, i suoi occhi duri.
Era chiaro che aveva voglia di parlare, ma Blay ne aveva abbastanza.
Cominciò a scendere in fretta le scale.
E non fu affatto sorpreso quando Qhuinn non mollò... né lui né quel discorso. «Cosa accidenti vorresti dire?»
Ah, benone, ci mancava solo questa: una bella scenata davanti ai commensali riuniti in sala da pranzo. Qhuinn non
aveva problemi a esibirsi in pubblico per qualunque cosa, ma Blay non trovava per niente utili le platee gremite di
spettatori.
Tornò indietro due gradini a passo di carica, finché furono faccia a faccia. «Come si chiamava?»
Qhuinn trasalì. «Come, scusa?»
«La cassiera, come si chiamava?»
«Quale cassiera?»
«Quella di ieri sera. Al negozio di tatuaggi.»
Qhuinn alzò gli occhi al cielo. «Oh, ma dai...»
«Come si chiamava.»
«Dio, non ne ho la più pallida idea.» Qhuinn alzò le mani col palmo all'insù, il gesto universale per dire embè? «Che
importanza ha?»
Blay aprì la bocca, sul punto di dire chiaro e tondo che se per Qhuinn quello non significava niente, per lui starlo a
guardare era stato un inferno. Ma sarebbe suonato possessivo e stupido, lo sapeva.
Invece di parlare, infilò la mano in tasca, tirò fuori le Dunhill e ne sfilò una dal pacchetto. Se la mise in bocca e
l'accese, fissando quegli occhi di due colori diversi.
«Non mi piace che fumi», bofonchiò Qhuinn.
«Be', rassegnati», ribatté Blay, voltandosi per finire di scendere le scale.
Capitolo 11
« Dove stai andando, John?»
Nella stanza di servizio sul retro della casa della confraternita, John si bloccò con la mano su una delle porte che
davano sul garage. Porca miseria... in una casa così grande, uno pensava di poter uscire senza incrociare nessuno. E
invece no... occhi dappertutto. Opinioni... dappertutto.
Era come l'orfanotrofio, sotto quel punto di vista.
Si voltò verso Zsadist. Il fratello aveva un pannolino in una mano e un biberon nell'altra, evidentemente si era
appena alzato dal tavolo in sala da pranzo ed era entrato passando dalla cucina. E, roba da non crederci... subito dopo
dalla stessa porta spuntò Qhuinn, con in mano una coscia di tacchino mezzo rosicchiata, neanche fosse la sua ultima
speranza di mangiare per, tipo, le dieci ore successive.
L'arrivo di Blay trasformò la cosa in un cazzo di raduno.
Z accennò con la testa alla mano di John, stretta intorno alla maniglia, e chissà come, malgrado tutto l'armamentario
per neonati, riuscì a sembrare un serial killer. Per via della cicatrice che aveva in faccia, forse. O più probabilmente
per gli occhi neri che mandavano lampi minacciosi.
«Ti ho fatto una domanda, ragazzo.»
Porto fuori la spazzatura.
«Allora dove hai lasciato la pattumiera?»
Qhuinn spazzolò la sua cena, poi, deliberatamente, andò ai bilioni dell'immondizia a buttare l'osso spolpato con
cura. «Su, da bravo, John, rispondi.»
Neanche morto.
Io esco, rispose nella lingua dei segni.
Z si chinò in avanti, piantando un palmo sui pannelli della porta,
col pannolino che penzolava floscio come una bandiera senza vento. «E da un po' che anticipi sempre più l'orario di
uscita, la sera; adesso basta, però, sei arrivato al limite. Non ti lascio andare fuori così presto. Finirai carbonizzato. E ti
dirò di più: se mai ti venisse in mente di filartela di nuovo senza la tua guardia del corpo, Wrath userà la tua faccia
come un martello, mi sono spiegato?»
«Cristo santissimo, John», sbottò Qhuinn in un ringhio disgustato, con la faccia di uno a cui hanno fregato le
lenzuola per pulirci il cesso. «Io non ti ho mai fermato. Mai. E tu mi freghi così?»
John fissava un punto sopra l'orecchio sinistro di Z. Era tentato di ribattere che aveva sentito di quando il fratello
cercava Bella: era andato fuori di testa e aveva fatto pazzie di ogni tipo. Ma tirare in ballo il rapimento della sua
shellan era come agitare un drappo rosso davanti a un toro e John aveva già un diavolo per capello. Se un vampiro
infuriato per la sua femmina era pericoloso, figurarsi due. Meglio non esagerare.
«Cosa ti succede, John?» chiese Z, abbassando la voce.
Lui rimase in silenzio.
«John.» Z si protese ancora di più verso di lui. «Ti costringerò a rispondere a furia di botte, se necessario.»
Ho solo sbagliato a leggere l'ora. Era una bugia pietosa, perché se fosse stato vero sarebbe uscito dalla porta
principale invece di coprire le sue tracce con la storia dell'immondizia. Ma onestamente se ne infischiava se il secchio
con dentro le sue cazzate faceva acqua da tutte le parti.
«Non me la bevo.» Z si raddrizzò e controllò l'orologio. «E non uscirai per altri dieci minuti.»
John incrociò le braccia sul petto per trattenersi dal fare commenti su quel confinamento forzato, ma gli sembrava di
esplodere.
Lo sguardo duro di Z di sicuro non era d'aiuto.
Dieci minuti dopo, il rumore delle tapparelle che si alzavano in tutta la casa ruppe il momento di stallo e Z annuì in
direzione della porta. «Okay, adesso vai pure, se vuoi. Almeno non ti arrostirai al sole.» John si voltò. «Se ti becco
un'altra volta senza il tuo ahstrux nohstrum, ti denuncio.»
Qhuinn imprecò. «Ah, benone, così poi mi licenziano in tronco. Il che significa che V mi infilzerà il culo con bel un
pugnale.»
John afferrò la maniglia e spalancò la porta con uno strattone, coi nervi a fior di pelle. Non voleva guai con Z perché
lo rispettava, ma era troppo teso e tutto lasciava presagire che sarebbe andata sempre peggio.
In garage svoltò a sinistra, puntando verso la porta in fondo. Camminando, si rifiutò di guardare le bare accatastate
sull'altro lato. No, meglio evitare di imprimersi nella mente quell'immagine, al momento. Non voleva vederne
neanche una. Sedici, poi, figurarsi.
Aprì la porta d'acciaio e uscì sul lungo prato ondulato che si stendeva intorno alla piscina, adesso vuota, fino al
limitare dei boschi e al muro di cinta. Sapeva di avere Qhuinn attaccato al sedere perché l'odore di disapprovazione
contaminava l'aria fresca come la muffa in un seminterrato. E c'era anche Blay, a giudicare dalla fragranza di acqua di
colonia.
Stava per smaterializzarsi quando venne afferrato con forza per il braccio. Si voltò per dire a Qhuinn di andare a farsi
fottere, ma dovette bloccarsi.
Era Blay a trattenerlo, e i suoi occhi azzurri fiammeggiavano.
Invece di parlare, Blay usò la lingua dei segni, forse per costringerlo a fare attenzione.
Se vuoi farti ammazzare benissimo. A questo punto mi sono rassegnato a questa eventualità. Ma non devi mettere in
pericolo gli altri. Questo non lo tollero. Non uscire più senza avvertire Qhuinn.
Al di sopra della spalla di Blay, John guardò Qhuinn, che aveva l'aria di voler menare le mani, tanto era frustrato. Ah,
ecco perché Blay aveva scelto di comunicare a gesti. Non voleva che il terzo elemento, in quel triumvirato
disfunzionale, vedesse cosa stava dicendo.
Siamo intesi? Lo incalzò Blay.
Era raro che Blay si impuntasse per far valere la sua opinione. E questo spinse John a spiegarsi.
Non posso prometterti che non dovrò schizzare via all'improvviso, disse a gesti. Proprio non posso. Ma ti giuro che
glielo dirò. Almeno così potrà uscire di casa.
John...
Lui scosse la testa stringendo con forza il braccio di Blay. Non posso prometterlo a nessuno, con quello che mi ronza
per la testa. Ma non uscirò senza dirgli dove sto andando o quando penso di tornare.
Blay contraeva e rilassava la mascella. Non era uno stupido, però. Sapeva quando sul tavolo c'era un'opzione non
negoziabile. Okay. Così può andare.
«Vi spiace dirmi cosa state confabulando, voi due?» chiese Qhuinn.
John fece un passo indietro e disse, Andiamo all'Xtreme Park lino alle dieci. Poi ci spostiamo in St. Francis Avenue.
Trez mi ha mandato un SMS.
Si smaterializzò in direzione sud-ovest, riprendendo forma dietro il capanno dove si erano appostati la sera prima.
Quando la sua squadra comparve dietro di lui, ignorò la tensione che appesantiva l'atmosfera.
Puntando lo sguardo al di là dello spiazzo di cemento, localizzò i vari attori in campo. Quel ragazzino sicuro di sé con
le tasche piene di roba era ancora al centro del parco; appoggiato contro una delle rampe, giocherellava con
l'accendino, facendolo scattare a vuoto. Una mezza dozzina di skater faceva su e giù per la pista, mentre un'altra
dozzina chiacchierava, facendo girare le ruote degli skateboard. Nel parcheggio c'erano sette auto qualunque;
vedendo la macchina della polizia passare lentamente senza fermarsi, John ebbe la sensazione che quella fosse una
colossale perdita di tempo.
Forse, se si addentravano ancora di più nel centro città e passavano al setaccio i vicoli, avrebbero avuto più...
La Lexus che entrò nel parcheggio, invece di infilarsi in uno degli appositi spazi, si fermò perpendicolare ai sette
paraurti posteriori delle altre macchine... e il tipo che scese dal posto di guida, tra i jeans larghi e il cappello da
cowboy, sembrava un ragazzino delle superiori.
Ma la brezza che soffiò il suo odore fino alle narici di John puzzava come un obitorio senza aria condizionata.
E anche di... dopobarba Old Spice?
John si raddrizzò, col cuore che batteva a mille per la serie "ehi guarda un po' chi si rivede". Il suo primo pensiero fu
di scagliarsi in avanti e placcare quel bastardo, ma Qhuinn lo trattenne con una leva al gomito.
«Aspetta», lo ammonì. «Meglio scoprire perché è qui.»
John sapeva che l'amico aveva ragione, quindi tirò il freno a mano memorizzando la targa della LS 600h coi cerchioni
cromati.
Le altre portiere della berlina si aprirono e scesero tre tizi. Non erano sbiaditi come i lesser di vecchia data, ma quanto
a pallore non scherzavano neanche loro, e puzzavano di borotalco lontano un chilometro.
Dio che schifo di odore.
Uno dei non morti restò indietro a controllare la macchina, mentre gli altri due seguirono il piccolo cowboy,
tenendosi leggermente alle sue spalle. Attraversarono la spianata d'asfalto con tutti gli occhi nel parco puntati su di
loro.
Il ragazzino vicino alla rampa centrale si raddrizzò, infilandosi in tasca l'accendino.
«Merda, vorrei tanto aver preso la macchina», bisbigliò Qhuinn.
Verissimo. A meno che nelle vicinanze non ci fosse un grattacielo da cui si potesse godere di una veduta panoramica,
non c'era modo di seguire le tracce della Lexus.
Il pusher non si mosse, nel vederli avvicinare, e non parve sorpreso dalla visita, quindi era probabile che si trattasse
di un incontro combinato. Guarda guarda... dopo uno scambio di battute, i non morti lo circondarono e insieme
tornarono verso la berlina.
Salirono tutti tranne un lesser.
Era tempo di prendere una decisione. Dovevano rubare una macchina e lanciarsi all'inseguimento? Oppure
materializzarsi sul cofano della Lexus e poi giù botte da orbi? Entrambe le soluzioni correvano il rischio di procurare
un grave disturbo della quiete pubblica, questo era il guaio... e loro non potevano ripulire più ili tanto la mente di
una ventina di umani.
«Mi sa che uno resta indietro», mormorò Qhuinn.
Eh già. Quando la Lexus fece inversione, dirigendosi verso l'uscita, l'amico rimase nel parcheggio.
Lasciare andare quell'auto fu l'impresa più ardua che John avesse mai affrontato. Ma quel branco di bastardi aveva
appena prelevato uno dei più grossi spacciatori della zona... per cui sarebbero tornati. E poi si erano lasciati dietro un
lesser.
Quindi, lui e i suoi amici avevano di che tenersi occupati.
John seguì con gli occhi il non morto che entrava nel parco. A differenza del tipo che aveva rimpiazzato, quello era
un camminatore; misurava il perimetro del parco, incrociando tutti gli sguardi puntati su di lui. Chiaramente
innervosiva gli skater, e un paio di loro, che la sera prima aveva fatto acquisti, se ne andò. Ma non tutti erano cauti...
o lucidi abbastanza da preoccuparsi.
Sentendo salire un sommesso ticchettio, John guardò in basso. Il suo piede batteva sullo sterrato, su e giù, veloce
come la zampetta di un coniglio.
Ma non aveva nessuna intenzione di mandare tutto all'aria. Attese dietro il capanno... e attese... e attese.
Passò quasi un'ora prima che quello stronzo, cammina e cammina, arrivasse dalle loro parti, ma, quando finalmente
capitò a tiro, tutto quel battere di piede venne ampiamente ripagato.
Con la forza del pensiero, John spense il lampione più vicino per garantirsi un po' di privacy. E quando il bastardo
guardò in su, John sbucò fuori da dietro il capanno.
Il lesser voltò la testa di scatto e subito capì che la guerra aveva appena bussato alla sua porta: quel figlio di puttana
sorrise, infilandosi la mano nella giacca.
Mai più John avrebbe pensato di vederlo estrarre una rivoltella, l'unica regola di ingaggio era che non bisognava mai
sparare in presenza di uman...
Un'automatica comparve e fece fuoco; lo sparo riecheggiò in tutto il parco, sonoro come una bestemmia.
John si chinò con prontezza per schivare il colpo, l'incredulità gli aveva messo le ali ai piedi. Poi volarono altre
pallottole; il piombo rimbalzava sul cemento mentre gli umani scappavano da tutte le parti, strillando.
Dietro il capanno, John sbatté la schiena contro la parete di legno ed estrasse la pistola. Blay e Qhuinn lo raggiunsero
e, in una frazione di secondo che coincise con una pausa nella pioggia di proiettili, controllarono che nessuno fosse
rimasto ferito.
Cosa cazzo gli salta in mente? disse Qhuinn nella lingua dei segni. Non vede quanta gente c'è in giro?
Pesanti passi in avvicinamento, poi il clic di un caricatore che veniva sostituito. John guardò la porta del capanno. Il
robusto lucchetto attaccato alla catena era un dono del cielo: alzando il palmo, lo aprì con la forza del pensiero
lasciandolo penzolare dalle maglie metalliche.
Girate dietro l'angolo, ordinò ai suoi amici. E fingete di essere feriti.
Oh, cavolo, no...
John puntò la pistola in faccia a Qhuinn.
Questi si ritrasse di scatto e John lo guardò dritto negli occhi azzurri e verdi. Stava andando tutto per il verso giusto:
sarebbe stato lui ad affrontare il lesser. Fine della discussione.
Vaffanculo, sillabò Qhuinn prima di smaterializzarsi insieme a Blay.
Con un sonoro gemito, John si lasciò cadere pesantemente su un fianco, toccando terra come un grosso sacco di
cemento. Steso a pancia in giù, tenne la SIG sotto il petto, togliendo la sicura.
I passi erano sempre più vicini. E così pure una sommessa risata, come se il lesser si stesse divertendo un mondo.
Quando Lash tornò dall'incontro con suo padre, riprese forma nella camera da letto accanto a quella in cui aveva
segregato Xhex. Per quanto desiderasse vederla, si tenne alla larga. Ogni volta che tornava dal Dhunhd, per una buona
mezz'ora era completamente fuori uso, e non era tanto stupido da offrirle l'opportunità di ucciderlo.
Perché lei lo avrebbe fatto. Non era commovente?
Si sdraiò sul letto a occhi chiusi. Il suo corpo era lento e freddo; inspirò a fondo, con la sensazione di scongelare come
una bistecca di manzo. Non che dall'Altra Parte si gelasse. In realtà la tana di suo padre era calda, comoda e bene
arredata... sempre che a uno piacesse lo stile alla Liberace.
II paparino, in pratica, non aveva mobili, ma una quantità esagerata di candelabri.
I brividi sembravano dovuti al balzo per rientrare nella realtà terrena, e ogni volta che tornava da questa parte faceva
sempre più fatica a riprendersi. La buona notizia era che non prevedeva di dover più andare tanto spesso di là. Ora
che aveva esplorato a fondo i trucchi del mestiere e li padroneggiava appieno, non ce n'era nessun bisogno e, a dire il
vero, l'Omega non era esattamente una compagnia stimolante.
Era un caso di inguaribile narcisismo della serie "ma adesso basta parlare di me cosa ne pensi di me", e anche se la
suddetta richiesta di masturbazione dell'ego era avanzata da uno stronzo malefico e notoriamente potente, che
guarda caso era anche il tuo papà, ben presto veniva a noia.
Senza contare che la vita amorosa di suo padre era inquietante da morire.
Lash non sapeva neanche cosa fossero gli esseri su quel letto. Creature nere, okay, ma il loro sesso era un mistero,
così come la loro specie, e il modo in cui si muovevano, avviluppandosi tra loro, faceva venire la pelle d'oca. In più,
erano sempre in cerca di una scopata, anche in presenza di estranei.
E suo padre non diceva mai di no.
Sentendo un bip, infilò la mano nella giacca del completo per prendere il cellulare. Era un SMS di Mr D: Arrivo. Ho il
ragazzo.
Lash guardò l'orologio e si raddrizzò di colpo. Impossibile, doveva esserci un errore. Erano passate già due ore dal
suo ritorno... come aveva fatto a perdere la cognizione del tempo fino a quel punto?
Tirarsi su gli diede il voltastomaco e alzare le mani per stropicciarsi la faccia gli costò uno sforzo sovrumano. Il peso
morto del suo corpo, insieme all'indolenzimento generale, gli rammentò il tempo in cui si beccava raffreddori e
influenze. Stessa sensazione. Possibile che si stesse ammalando?
Chissà se avevano inventato un farmaco antinfluenzale per i morti come lui, qualcosa tipo il Tachifudec, invece del
Tachifludec, tanto per dire.
Probabilmente no.
Lasciò ricadere le braccia in grembo e si voltò verso il bagno. La doccia sembrava lontana chilometri, non valeva la
pena di sforzarsi a raggiungerla.
Gli ci vollero altri dieci minuti prima di riuscire a scuotersi di dosso la letargia; quando si alzò in piedi, si sgranchì
energicamente per rimettere in circolo il sangue nero. Invece che lontano chilometri, il bagno si rivelò essere a pochi
metri di distanza, e a ogni passo Lash si sentiva più forte. Prima di aprire il rubinetto dell'acqua calda si ammirò
nello specchio, controllando la sua collezione di lividi. Quasi tutti quelli della notte precedente erano spariti, ma
sapeva che se ne sarebbero aggiunti altri...
Accigliandosi, alzò il braccio. La piaga all'interno dell'avambraccio era diventata più grande, invece di rimpicciolire.
La tastò col dito; non faceva male, ma era brutta come il peccato: una ferita aperta, piatta, grigia al centro e contornata
di nero.
Il suo primo pensiero fu che doveva farsi visitare da Havers... ma era ridicolo, un retaggio della sua vecchia vita. Mica
poteva presentarsi alla clinica dicendo: Ehi, mi fate entrare?
Oltre tutto, non sapeva neanche dove si erano trasferiti. Che poi era il problema dei raid portati a termine con
successo: il bersaglio prendeva sul serio la tua minaccia e si nascondeva ancora meglio.
S'infilò sotto il getto caldo, avendo cura di strofinare col sapone il punto lesionato: se era un qualche tipo di
infezione, poteva essere utile fare così; poi pensò ad altro.
Lo aspettava una nottata impegnativa. L'iniziazione alle otto. L'incontro con Benloise alle dieci.
Poi un'altra puntatina lì a casa per fare ancora un po' di sesso.
Uscito dalla doccia, si asciugò, esaminando la lesione. Sembrava incazzata per le attenzioni che le aveva riservato,
tanto che in superficie si era formato un sottile velo nero.
Fantastico, bel casino sarebbe stato togliere quello schifo dalle sue camicie di seta nera.
Ci schiaffò sopra un cerotto grosso come una scheda; forse quella sera lui e la sua ragazza avrebbero fatto i bravi.
Tanto per cambiare, l'avrebbe legata.
In un lampo si infilò un magnifico completo Zegna e uscì. Passando davanti alla camera da letto padronale, si fermò
e strinse la mano a pugno. Sorridendo, bussò, abbastanza forte da svegliare anche i morti.
«Torno presto con delle catene.»
Attese una reazione. Non ottenendone, mise la mano sulla maniglia e accostò l'orecchio alla porta. Il rumore del
respiro di lei era sottile come una leggera corrente d'aria, ma c'era. Era viva. E lo sarebbe stata ancora al suo ritorno.
Con deliberato autocontrollo lasciò andare la maniglia. Se avesse aperto la porta avrebbe perso un altro paio d'ore, e a
suo padre non piaceva aspettare.
Giù in cucina tentò di mangiare un boccone, ma dovette desistere. La macchina del caffè era stata programmata per
accendersi due ore prima, quindi una rapida occhiata al suo contenuto rivelò un intruglio simile a olio lubrificante e
aprendo il frigo non vide nulla di appetitoso, malgrado avesse una fame da lupo.
Finì con lo smaterializzarsi a mani vuote e con lo stomaco che protestava. Non proprio il massimo per il suo umore,
ma non voleva perdersi lo spettacolo... se non altro perché era curioso di vedere cosa aveva subito durante
l'iniziazione.
La fattoria era a nord-est della casa di arenaria; appena riprese forma sul prato, capì che suo padre era già arrivato:
uno strano fremito gli agitava il sangue ogni volta che si trovava in presenza dell'Omega, come una eco in uno spazio
chiuso... ma non era sicuro se lui era il suono e suo padre la caverna o viceversa.
La porta d'ingresso era aperta; salì i gradini della veranda ed entrò nell'ingresso piccolo e squallido, ripensando alla
propria affiliazione.
«Quando diventasti veramente mio.»
Lash si voltò di scatto. L'Omega era in soggiorno, la lunga veste bianca gli copriva il volto e le mani, la sua energia
malefica trasudava fin sul pavimento, un'ombra scura che non era dovuta a nessuna illuminazione.
«Sei eccitato, figlio mio?»
«Sì.» Lash si voltò a guardare il tavolo della sala da pranzo. Il socchio e i coltelli che erano stati utilizzati su di lui
erano lì. Pronti e in attesa.
Nel sentire lo scricchiolio della ghiaia sotto gli pneumatici, si voltò verso la porta. «Sono arrivati.»
«Figlio mio, gradirei che me ne portassi degli altri. Sono affamato di carne fresca.»
«Nessun problema», disse Lash dalla soglia.
Almeno in questo erano in perfetta sintonia. Più reclute significava più soldi, più combattimenti.
L'Omega andò a piazzarsi dietro di lui e Lash sentì una leggera carezza quando una mano nera corse giù, lungo la sua
spina dorsale. «Sei un bravo figliolo.»
Per una frazione di secondo il cuore nero di Lash si gonfiò di dolore. Era la stessa frase che ogni tanto gli diceva il
vampiro che lo aveva cresciuto. «Grazie.»
Mr D e gli altri due lesser scesero dalla Lexus... facendo avanzare l'umano. Il piccolo bastardo non aveva ancora capito
che era a un paio di jeans e una T-shirt di distanza dal diventare un agnello sacrificale. Ma alla vista dell'Omega
sarebbe stato tutto chiaro come il sole.
Capitolo 12
Sentendo i passi del nemico che si avicinavano, John, steso a faccia in giù, respirò riempiendosi le narici di terriccio
fresco. Fingere di essere morto non era un'idea brillante, in linea generale, ma quello stronzo col dito epilettico sul
grilletto non sembrava un tipo scrupoloso, attento a verificare se aveva centrato il bersaglio oppure no.
Sparare all'impazzata nel bel mezzo di un parco pubblico?
Quell'idiota non aveva mai sentito parlare del Dipartimento di Polizia di Caldwell? Del Caldwell Courier journal?
Gli anfibi si fermarono e l'odore dolciastro e nauseante che i lesser avevano sulla pelle lo fece quasi vomitare. Buffo
come la vita e la morte attirino l'attenzione dell'esofago.
Senti qualcosa di smussato contro il braccio sinistro, come se il non morto stesse saggiando con la punta dell'anfibio
se John era pronto a uscire dall'obitorio con un cartellino attaccato all'alluce. Poi, con tempismo perfetto, da dietro
l'angolo del capanno giunse il gemito sommesso e patetico di Qhuinn.
Neanche il fegato gli stesse colando dentro il colon.
John socchiuse un occhio; gli anfibi avanzarono lungo il suo fianco quando il lesser andò a indagare. Come in una
produzione hollywoodiana, il bastardo stringeva la pistola con entrambe le mani, dritta davanti a sé, muovendo la
canna da una parte all'altra, facendo più scena che altro. Era ridicolo, con quelle mosse teatrali alla Miami Vice, ma le
pallottole sono pallottole e gli bastava un leggero spostamento di direzione per sparare a bruciapelo a John.
Meno male che quest'ultimo se ne sbatteva altamente. Mentre quel coglione proseguiva nella sua marcia nuziale
verso i mugolìi di Qhuinn, un'immagine del viso di Xhex lo spinse a balzare su
da terra con agilità. Atterrò sulla massiccia schiena del lesser, aggrappandosi con le gambe e il braccio Ubero e
puntandogli la pistola alla tempia.
Il non morto rimase impietrito per una frazione di secondo e John fischiò, il segnale per Qhuinn e Blay di venire
fuori.
«E ora di gettare le armi, stronzo», disse Qhuinn, uscendo allo scoperto. Senza dargli il tempo di ubbidire, strinse le
mani intorno all'avambraccio del bastardo, spezzandolo come un bastoncino.
Lo schianto secco delle ossa rotte risuonò più forte del fischio di John e il risultato fu un polso fratturato e una Glock
sottratta al controllo del nemico.
Mentre il lesser sgroppava in preda al dolore, in lontananza risuonarono le sirene della polizia... sempre più vicine.
John trascinò il bastardo verso la porta del capanno e, dopo che Blay l'ebbe aperta, tirò dentro la sua preda, lontano
da occhi indiscreti.
Muovendo le labbra in modo esagerato, sillabò, rivolto a Qhuinn, Vai a prendere l'Hummer.
«Se quei piedipiatti stanno venendo qui per noi, dobbiamo smammare.»
Non ce ne andiamo. Porta qui l'Hummer.
Qhuinn tirò fuori le chiavi e le lanciò a Blay. «Vai tu. E chiudici dentro, intesi?»
Senza perdere un secondo, Blay uscì e chiuse la porta. Si udì un leggero tintinnio metallico quando rimise a posto la
catena, poi un clic quando chiuse il lucchetto.
Il lesser stava cominciando a lottare con più foga, ma non era un male... loro lo volevano lucido.
John lo voltò a pancia in giù e gli tirò indietro il collo, piegandogli la spina dorsale neanche fosse una di quelle
ciambelle a forma di nodo.
Qhuinn sapeva già cosa fare. Inginocchiandosi, spinse la faccia contro quella del non morto. «Sappiamo che tenete
prigioniera una femmina. Dov'è?»
Mentre l'ululato delle sirene diventava sempre più assordante, il lesser riuscì a emettere solo una serie di grugniti,
quindi John allentò leggermente la presa per permettergli di far entrare un po' d'aria nei polmoni.
Qhuinn tirò indietro il braccio e gli mollò uno schiaffo. «Ti ho fatto una domanda, rottinculo. Dov'è?»
John allentò ancora un po' la presa, attento però a non lasciarselo scappare. Con quel margine di manovra in più, il
lesser rabbrividì di paura, a dimostrazione che, se prima era tutto gasato dal ruolo di pistolero, arrivato al dunque era
solo un delinquentello in una situazione più grande di lui.
La seconda sberla di Qhuinn fu ancora più pesante. «Rispondi.»
«Nessun... prigioniero.»
Quando Qhuinn tirò indietro il braccio un'altra volta, il lesser si ritrasse... già, quegli stronzi erano morti, ma i loro
recettori del dolore funzionavano alla perfezione. «La femmina rapita e tenuta prigioniera dal vostro Fore-lesser.
Dov'è?»
John passò a Qhuinn la sua pistola e con la mano libera sfilò il coltello da caccia da dietro la schiena. Inutile dire che
era l'unico autorizzato a fare davvero male. Avvicinò la lama agli occhi del lesser, che si dimenò selvaggiamente, ma
venne ben presto ridotto all'impotenza da John, il quale lo avvolse come una coperta nel suo corpo enorme.
«Ti conviene parlare», disse asciutto Qhuinn. «Fidati.»
«Non so di nessuna femmina.» Con la trachea compressa dall'avambraccio di John, le parole erano ridotte a un sibilo.
John diede uno strattone all'indietro e il non morto gridò, «È la verità!»
Adesso le sirene urlavano e fuori nel parcheggio si udì un gran stridore di pneumatici.
Ora bisognava procedere con cautela. Il lesser aveva già dimostrato un totale disprezzo verso l'unica regola della
guerra per cui, se con qualunque altro non morto il silenzio era garantito, con Mr Clic-clic Bang-bang non potevano
essere altrettanto sicuri.
John incrociò lo sguardo bicolore di Qhuinn, che stava già provvedendo. Allungata la mano verso un mucchio di
stracci unti, ne ficcò uno della bocca del lesser. Poi tutto si bloccò come in un fermo-immagine.
Dall'esterno, le voci degli sbirri giungevano soffocate: «Coprimi.»
«Ricevuto.»
John mise via il coltello per trattenere la preda con entrambe le mani. Si sentiva un gran scalpiccio, per lo più in
lontananza, ma alla fine si sarebbe sicuramente avvicinato.
Mentre i poliziotti si sparpagliavano per il parco, le radio nelle autopattuglie fornivano un'incessante colonna sonora
all'iniziale perquisizione e messa in sicurezza della zona. Che non durò a lungo. Tempo un paio di minuti e gli
agenti si raccolsero intorno alle macchine, proprio accanto al capanno.
«Unità Due-quaranta a centrale. L'area è sicura. Nessuna vittima. Nessun...»
Con mossa repentina il lesser scalciò, rovesciando una tanica di benzina. E in pratica si sentirono tutti quei poliziotti
che rialzavano le pistole, puntandole contro il capanno.
«Ma cosa cazzo succede?»
Lash sorrise nel vedere il ragazzino con gli occhi fissi sull'Omega. Anche se era tutto coperto dalla lunga tunica,
bisognava essere dei cretini integrali per non capire che là sotto c'era qualcosa di molto strano... e, ding-ding-ding,
avevano un vincitore alla lotteria cognitiva.
Il bastardello cominciò a indietreggiare fuori dalla fattoria, ma subito i lesser che davano man forte a Mr D lo
affiancarono, afferrandolo per le braccia.
Lash annuì in direzione del tavolo in sala da pranzo. «Mio padre lo farà secco lì.»
«Farà cosa?» Adesso, nel panico più totale, il ragazzino si divincolava come un maiale sgozzato. Un ottimo esercizio
per ciò che stava per accadere, in realtà.
I lesser lo sollevarono di peso sopra il piano di legno tutto bucherellato, tenendolo giù per i piedi e per le caviglie
mentre l'Omega avanzava tra tutti quegli strilli e gesti scomposti.
Quando il male si tolse il cappuccio, scese il silenzio.
Poi l'urlo che uscì dalla bocca dell'umano lacerò l'aria, riecheggiando fino al soffitto e riempiendo di rumore la casa
decrepita.
Lash si tenne in disparte e lasciò agire suo padre, guardando i vestiti dell'umano finire a brandelli sotto un semplice
tocco di quel palmo nero trasparente. Poi fu la volta del coltello; la lama scintillava alla luce del lampadario da
quattro soldi appeso al soffitto cadente.
Fu Mr D ad aiutare con i dettagli tecnici... posizionando i secchi sotto le braccia e le gambe dell'umano e correndo di
qua e di là.
Lash era morto, quando gli avevano prosciugato le vene; si era svegliato solo quando una scossa generata da Dio solo
sapeva dove lo aveva percorso da capo a piedi. Quindi trovava interessante vedere come funzionava il tutto: il corpo
che veniva dissanguato, il petto che veniva aperto e l'Omega che si recideva il polso per versare olio nero nella cavità
toracica, il Male che, evocando dal nulla una palla di energia, la scagliava dentro il cadavere, la rianimazione che
faceva confluire il liquido malefico verso ogni vena e arteria. Il passo finale era la rimozione del cuore; l'organo si
raggrinziva sul palmo dell'Omega, prima di essere inserito in un contenitore di ceramica.
Ripercorrendo il proprio ritorno dal regno dei morti, Lash rammentò anche che suo padre aveva trascinato a sé Mr D
perché I ungesse da fonte di nutrimento per suo figlio. Lash aveva bisogno di quel sangue, ma a quel punto era morto
da parecchie ore... ed era almeno per metà vampiro. L'umano, invece, si svegliò con la bocca spalancata come un pesce
fuor d'acqua e una gran contusione in testa.
Lash si mise la mano sul petto per sentire il battito del cuore...
Qualcosa stava colando. Dentro la sua manica.
Mentre l'Omega cominciava a fare cose depravate all'iniziato, Lash corse su in gabinetto. Si tolse la giacca del
completo, la piegò a metà... e si rese conto che non c'era niente su cui appoggiarla. Era tutto coperto da almeno un
ventennio di luridume.
Cristo, perché non aveva mandato qualcuno a pulire quel porcile?
Finì per appendere la giacca a un gancio e...
Oh, merda.
Alzando il braccio vide una macchia nera nel punto in cui aveva attaccato il cerotto, la base del gomito era bagnata.
«Porca puttana.»
Si strappò via i gemelli, si sbottonò la camicia e quando si guardò il petto, rimase impietrito.
Alzò gli occhi sullo specchio opaco, come se ciò potesse cambiare quello che stava vedendo, e si sporse in avanti. Sul
pettorale sinistro c'era un'altra piaga, grossa come una moneta da dieci centesimi e piatta come la prima. E una terza
vicino all'ombelico.
Il panico gli diede il capogiro, costringendolo ad aggrapparsi al lavandino. Il suo primo pensiero fu di correre
dall'Omega a chiedere aiuto, ma si trattenne... a giudicare dalle grida e dai grugniti provenienti dal piano di sotto, in
tinello era in corso qualcosa di parecchio movimentato, e solo un idiota l'avrebbe interrotto.
L'Omega era volubile per natura, ma in certe cose aveva la concentrazione tipica di chi è affetto da disturbi ossessivocompulsivi.
Puntando le mani sul lavabo, Lash abbandonò la testa sul petto, con lo stomaco vuoto che si rimescolava, rischiando
di farsela sotto. Chissà quante altre ulcerazioni aveva... Non potè fare a meno di chiederselo, ma preferiva non
conoscere la risposta.
La sua iniziazione, rinascita o quello che era, avrebbe dovuto essere permanente. Così gli aveva detto suo padre. Era
nato dal Male, generato da un pozzo tenebroso che era eterno.
Marcire da vivo non rientrava nei patti.
«Tutto bene, lì dentro?»
Lash chiuse gli occhi; la voce del texano gli graffiava la schiena come un artiglio. Però gli mancava l'energia per
mandarlo a farsi fottere.
«Come sta andando, giù di sotto?» chiese invece.
Mr D si schiarì la gola, ma la disapprovazione lo fece comunque incespicare nelle parole. «Credo che ci vorrà ancora
parecchio, signore.»
Fantastico.
Lash costrinse la spina dorsale afflosciata a raddrizzarsi e si voltò verso il suo vice...
D'un tratto sentì allungarsi le zanne e per un attimo non capì il perché. Poi si accorse che aveva gli occhi puntati sulla
giugulare del piccoletto.
In fondo alle viscere, la fame mise le corna e, come un toro scatenato, andò fuori controllo, scombussolandogli lo
stomaco.
Accadde troppo in fretta perché potesse fermarsi, porsi delle domande o riflettere. Un momento era fermo davanti al
lavandino e quello dopo era addosso a Mr D e lo spingeva contro la porta, addentandolo al collo.
Il sangue nero che sentì sulla lingua era il tonico che gli serviva; bevve avidamente, mentre il texano lottava per poi
arrendersi, immobile. Ma il coglione non doveva preoccuparsi, non c'era niente di sessuale in tutto quel succhiare.
Era puro e semplice nutrimento.
E più beveva più sentiva il bisogno di bere.
Stringendosi il lesser al petto, si nutrì a sazietà.
Capitolo 13
Quando il rumore dell'anfibio del lesser contro la tanica di benzina si spense, Qhuinn andò a sedersi sulle gambe di
quel figlio di puttana. Quel bastardo era riuscito a sferrare un calcio, ma non avrebbe avuto una seconda possibilità.
Fuori, gli sbirri umani si radunarono intorno al capanno.
«E' chiuso», disse uno di loro facendo sferragliare la catena.
«Qui ci sono dei bossoli.»
«Aspetta, dentro c'è qualcosa... oh, cristo, che puzza.»
«Qualunque cosa sia, è morta da almeno una settimana. Che tanfo... è persino peggio del pasticcio di tonno di mia
suocera.»
La battuta suscitò una risata di approvazione.
Al buio, John e Qhuinn si guardarono e attesero. L'unica soluzione, se la porta si apriva, era smaterializzarsi
lasciando lì il lesser, impossibile trasportare nell'aria il peso del non morto. Ma nessuno di quei poliziotti poteva
avere la chiave... se volevano entrare dovevano per forza sparare al lucchetto.
E c'erano ottime probabilità che rinunciassero a farlo: fare fuoco solo per entrare nel capanno li avrebbe costretti a
riempire una montagna di scartoffie; non ne valeva la pena.
«Secondo la chiamata al nove-uno-uno ha sparato una sola persona. E non può essere lì dentro.»
Ci fu un colpo di tosse e un'imprecazione. «Se è lì dentro, gli cascherà il naso dal fetore.»
«Chiama il custode», disse una voce profonda. «Qualcuno deve tirare via di là quell'animale morto. Intanto diamo
una controllata nel quartiere qui intorno.»
Chiacchiere e passi. Poco dopo, una delle auto si allontanò.
«Dobbiamo liquidarlo», bisbigliò Qhuinn all'orecchio di John. «Prendi il coltello; facciamogli la festa e filiamocela.»
John scosse la testa. Non voleva assolutamente perdere il suo trofeo.
«John, non possiamo portarcelo dietro. Uccidilo, così possiamo squagliarcela.»
Anche se Qhuinn non poteva vedergli le labbra, John sillabò, Col cazzo. Lui è mio.
Non aveva intenzione di lasciarsi sfuggire la sua fonte di informazioni. Alla peggio, potevano sistemare i poliziotti
sul piano mentale... e anche su quello fisico, se necessario.
Sentì il fruscio di un coltello che veniva sfoderato. «Spiacente, John, ma dobbiamo cambiare aria.»
No! Gridò John da sopra la spalla, senza emettere alcun suono.
Qhuinn afferrò John per il colletto del giubbotto, tirandolo fino a fargli perdere l'equilibrio: o lasciava andare il collo
del non morto o gli avrebbe staccato la testa dalla spina dorsale. Dal momento che un lesser decapitato non poteva
parlare, John mollò la presa... e si tenne piantando il palmo sul cemento gelido.
Per niente al mondo avrebbe permesso al suo amico di privarlo della sua preda.
Quando si avventò contro Qhuinn, si scatenò il finimondo. I due vampiri lottarono per assicurarsi il controllo del
pugnale, rovesciando ben più che una tanica di benzina; nel frattempo il lesser, liberatosi, schizzò verso la porta
tempestandola di pugni per uscire, coi poliziotti che urlavano a squarciagola...
Il rumore che subito dopo riuscì a sovrastare quel frastuono fu uno sparo, seguito da un tintinnio metallico.
I piedipiatti avevano fatto saltare il lucchetto con un colpo di pistola.
Da terra, John piegò il braccio dietro la schiena e, ruotando sulle ginocchia, lanciò il pugnale in sincrono con Qhuinn.
Le lame attraversarono da un capo all'altro lo spazio angusto trafiggendo il lesser in mezzo alle scapole; la
penetrazione fu tale che evidentemente una sola o entrambe centrarono il bersaglio: con un lampo accecante e un
boato capace di far sanguinare le orecchie, il lesser venne rispedito al creatore, lasciandosi dietro solo un odore di
fumo... e un buco grosso come un frigorifero nella porta del capanno.
Con l'adrenalina alle stelle, né John né Qhuinn potevano sma-tcrializzarsi, quindi balzarono in piedi appiattendosi
con la schiena ai due lati dello squarcio e restando immobili quando dall'apertura spuntarono prima una e poi una
seconda canna di pistola.
Seguite dagli avambracci.
Poi dai profili e dalle spalle. E dalle torce elettriche.
Per fortuna gli umani entrarono del tutto.
«Psst. Avete la patta aperta.» Quando gli sbirri si voltarono verso il ghigno beffardo di Qhuinn, John estrasse le due
SIG e, con una â– LUO
botta incrociata alla testa di entrambi, fece vedere le stelle agli eroi del Dipartimento di Polizia di Caldwell, che
crollarono a terra.
Proprio in quel mentre, Blay arrivò con l'Hummer.
John scavalcò d'un balzo i poliziotti fiondandosi verso il SUV, seguito a ruota da Qhuinn; le New Rock che quel
cazzone insisteva a portare facevano letteralmente tremare la terra sotto i piedi. John corse verso il portellone
posteriore, che Blay aveva opportunamente sganciato, afferrò la maniglia e si gettò all'interno, mentre Qhuinn si
infilava sul sedile di dietro.
Mentre Blay partiva sgommando e usciva dal parco a tavoletta, John ringraziò il cielo di aver dovuto sistemare una
sola coppia di sbirri... anche se gli altri due agenti sarebbero tornati al più presto, poco ma sicuro.
Stavano puntando a nord, verso l'autostrada, quando John si fece strada con le mani fino al sedile di dietro... e le
strinse di nuovo intorno al collo di Qhuinn.
«Ma cosa cavolo vi prende?» gridò Blay, vedendo che ricominciavano a picchiarsi.
Non c'era tempo per rispondere. John era impegnato a stringere con tutte le sue forze, mentre Qhuinn cercava di
fargli un occhio nero... riuscendoci.
Quasi cento chilometri all'ora. Dentro e fuori dalla città. Con una possibile descrizione dell'Hummer, se almeno uno
dei poliziotti aveva ripreso conoscenza abbastanza da mettere a fuoco la vista, mentre Blay li portava in salvo a tutto
gas.
E una scazzottata in corso.
In seguito John si sarebbe reso conto che c'era un solo posto in cui Blay poteva andare, naturalmente.
Quando entrò nel parcheggio di Sai - dietro al ristorante, dove non c'erano luci - sia John che Qhuinn sanguinavano.
La rissa terminò solo quando Trez trascinò fuori dalla portiera John... Blay doveva averlo avvertito telefonicamente.
Qhuinn subì un trattamento analogo da parte di iAm.
John sputò per pulirsi la bocca e li guardò tutti quanti in cagnesco.
«Credo si possa dire che è finita in parità, ragazzi», disse Trez con un mezzo sorriso. «Cosa ne pensate?»
Quando John venne lasciato libero, tremava dalla rabbia. Quel lesser poteva essere l'unica risorsa a loro disposizione
per sbrogliare la matassa, risolvere il mistero, scoprire il nascondiglio in cui tenevano Xhex... tutto quanto insomma.
E per colpa di Qhuinn, che aveva insistito per sprecarla, adesso erano al punto di partenza. Senza contare che quel
bastardo era morto così, come niente, senza soffrire. Una pugnalata al cuore e stop, fine di tutti i suoi problemi. Era a
casa... o quanto meno era tornato dall'Omega.
Qhuinn si pulì la bocca sul dorso della mano. «Per l'amor del cielo, John! Credi che non voglia trovarla? Credi che
non me ne freghi un cazzo? Cristo, sono uscito ogni notte con te a cercare, perlustrare, sperando in un indizio, uno
spiraglio.» Gli puntò contro l'indice. «Perciò ficcatelo bene in testa: noi due che ci facciamo beccare da un branco di
umani con un lesser ferito non ci è di nessun aiuto. Vuoi andare a dire a Wrath come te la sei giocata con quello? Io
no. E se ti azzardi un'altra volta a puntarmi una pistola in faccia ti riempio di botte, anche se per lavoro dovrei
proteggerti.»
John non si fidava a rispondere, era troppo furibondo. Una cosa era certa, però... se non avesse avuto la speranza che
saltasse fuori qualcosa all'indirizzo di Benloise, in St. Francis Avenue, avrebbe I atto un macello. E nessuno, Ombra o
altro, sarebbe riuscito a fermarlo.
«Mi hai sentito?» lo incalzò Qhuinn. «Mi sono spiegato?»
John camminava su e giù, mani sui fianchi, testa bassa. Quando la rabbia cominciò a sbollire, il suo lato razionale
capì che Qhuinn aveva ragione. Era anche ben consapevole di aver momentaneamente perso la testa, in quel capanno.
Aveva davvero puntato una calibro quaranta sul muso del suo amico?
Quella improvvisa lucidità gli diede la nausea.
Se non si dava subito una regolata avrebbe avuto problemi ben più gravi che una femmina scomparsa. Sarebbe finito
al cimitero, per una leggerezza sul campo di battaglia o perché Wrath gli avrebbe procurato una grave forma di
calcinculite.
Guardò Qhuinn. Dio, l'espressione dura su quella faccia piena di piercing era vicinissima al limite oltre il quale
un'amicizia si rompe per sempre... e non c'entrava col fatto che Qhuinn era un tipo tosto, ma piuttosto col fatto che
John era un imbecille con cui nessuno voleva avere a che fare.
Si avvicinò all'amico e non si sorprese nel vedere che Qhuinn non arretrava di un passo, malgrado il pestaggio in
macchina. Quando tese la mano, ci fu una lunga pausa.
«Non sono io il nemico, John.»
John annuì, concentrandosi sulla lacrima tatuata sotto l'occhio di Qhuinn. Ritraendo la mano, disse, Lo so. Solo che...
devo trovarla. E se quel lesser fosse stato il modo per riuscirci?
«Forse lo era... ma la situazione era troppo critica e a volte devi anteporre te stesso a lei. Perché altrimenti non
scoprirai mai cosa è successo, non puoi cercarla da dentro una bara.»
John non trovò nulla da ridire.
«Allora ascoltami bene, pazzo che non sei altro, ci siamo dentro insieme, in questa cosa», disse piano Qhuinn. «E io
sono qui per impedirti di farti ammazzare. Capisco la tua smania di trovarla, sul serio. Ma noi due dobbiamo
collaborare.»
Ucciderò Lash, disse d'impeto John. Gli stringerò le mani intorno al collo e lo guarderò negli occhi mentre muore. Non
mi importa quanto mi costerà... ma spargerò le sue ceneri sulla tomba di Xhex. Lo giuro su...
Su cosa poteva giurare? Non su suo padre o su sua madre.
... lo giuro sulla mia vita.
Chiunque altro avrebbe potuto tentare di placarlo con un mare di cazzate della serie "abbi fede", "vedrai che ce la
faremo", Qhuinn invece gli diede una pacca sulla spalla. «Ti ho detto quanto ti voglio bene, ultimamente?»
Ogni volta che esci con me per aiutarmi a trovarla.
«Non è per lavoro.»
Questa volta, quando John tese la mano, il suo amico la afferrò, attirandolo a sé in un abbraccio virile. Poi lo spinse
via e controllò l'orologio. «Dovremmo andare in St. Francis Avenue.»
«Avete ancora dieci minuti», disse Trez, mettendogli un braccio intorno alle spalle e avviandosi verso la porta di
servizio che dava sulla cucina. «Voi due dovete darvi una bella ripulita. Potete lasciare l'Hummer nella nostra area
per il ricevimento merci, così gli cambierò le targhe mentre siete via.»
Qhuinn lo guardò. «È molto gentile da parte tua.»
«Già, sono un vero signore. E, per dimostrartelo, vi dirò anche tutto quello che so su Benloise.»
John li seguì; non aver cavato niente da quel lesser lo rendeva ancora più deciso, spietato, irremovibile.
Lash non avrebbe lasciato Caldwell. Non poteva. Finché era a capo della Lessening Society doveva stare a distanza
ravvicinata con la confraternita, e i fratelli non si sarebbero mossi dalla città... lì c'era la Tomba. Così, anche se i
vampiri civili si erano sparpagliati altrove, Caldie restava l'epicentro della guerra perché il nemico non poteva
cantare vittoria finché i fratelli erano in vita.
Presto o tardi, Lash avrebbe fatto un passo falso, e John sarebbe stato lì, pronto ad aspettarlo.
Però, cavolo, quant'era snervante l'attesa, ti logorava da morire. Ogni nottata senza niente di nuovo, niente a cui
aggrapparsi... era un inferno senza fine.
Capitolo 14
Quando Lash finalmente si staccò dalla vena di Mr D, lo spinse via come un piatto sporco alla fine del pranzo. Poi si
accasciò sul lavandino, soddisfatto per aver saziato l'appetito e perché si sentiva già più in forma. Adesso però era
fiacco da morire, come gli accadeva sempre dopo un pasto a base di sangue.
Ogni tanto succhiava dalla vena di Xhex, così, per sfizio, ma chiaramente non era quello che gli serviva per riempirsi
lo stomaco.
E allora significava che doveva vivere nutrendosi dai... lesser?
Naa, mica pendeva da quella parte, lui. Mai nella vita. Non aveva nessuna intenzione di attaccarsi regolarmente alla
gola di un maschio. Non esisteva proprio.
Alzò il braccio per controllare l'orologio. Le dieci meno dieci. E sembrava un barbone. Si sentiva come un barbone,
anche.
«Pulisciti», disse a Mr D.«Devi farmi una cosa.»
Cominciò a impartire ordini, ma incespicava nelle parole.
«Hai capito bene?» chiese.
«Signorsì.» Il texano si guardò intorno, nel bagno, come in cerca di un asciugamano.
«Giù di sotto», disse brusco Lash. «In cucina. Vai a casa mia a prendermi un cambio di vestiti e portamelo qui. Oh, e
già che ci sei, porta qualcos'altro da mangiare in camera da letto.»
Mr D annuì, uscendo con passo malfermo.
«Hai portato un cellulare per la nuova recluta? Documenti?» gli gridò dietro Lash.
«Sono giù nella borsa. E le ho mandato un SMS col numero.»
Quel cazzone era proprio un ottimo segretario particolare.
Lash si sporse dentro la doccia per aprire i rubinetti sul muro
piastrellato; non si sarebbe sorpreso nel vedere che non ne usciva niente o solo un filo di schifezza marrone. Invece
era il suo giorno fortunato: dal soffione scese una pioggerella fresca e pulita. Si spogliò in fretta.
Che bello lavare via tutto lo sporco, gli sembrava di riavviare il proprio corpo come si fa con un computer.
Finita la doccia, usò la camicia per asciugarsi, poi uscì barcollando in camera da letto. Si sdraiò e chiuse gli occhi, con
una mano sullo stomaco, sopra le piaghe. Un gesto sciocco. Mica doveva proteggerle da qualcosa.
I rumori dal piano di sotto sembravano indicare che le cose stavano procedendo; ne fu sollevato... e un tantino
sorpreso. Non esprimevano più dolore e spavento; stavano sconfinando nel porno: gemiti e mugolìi da orgasmo.
Sei finocchio? ricordò che gli aveva chiesto il ragazzino.
Forse, più che una domanda, era una speranza.
Mah. Lash non voleva farsi vedere in quello stato da suo padre; con un po' di fortuna la nuova recluta sarebbe stata
strapazzata ancora per un po'.
Chiuse gli occhi cercando di "staccare" il cervello. Progetti per la Società, pensieri su Xhex, frustrazione per tutta la
faccenda del nutrimento... le sue onde cerebrali si misero a girare vorticosamente, ma il suo corpo era troppo esausto
per restare cosciente.
Tanto meglio...
Fu mentre sprofondava nel sonno che ebbe la visione. Chiara e nitida; più che apparire entrò dentro di lui,
insinuandosi nella sua mente chissà da dove e spingendo prepotentemente via ogni altra preoccupazione.
Vide se stesso nella tenuta in cui era cresciuto; camminava sul prato, verso la sontuosa villa. All'interno le luci erano
accese e c'era gente che si muoveva da una stanza all'altra... proprio come la notte in cui era entrato per assassinare i
due vampiri che lo avevano tirato su come un figlio. Quelli, però, non erano i volti di persone conosciute. Erano
diversi. Erano gli umani che avevano acquistato la casa.
Sulla destra c'era l'aiuola di edera in cui aveva sepolto i suoi genitori.
Vide se stesso ritto nel punto in cui aveva scavato la fossa e gettato i cadaveri. Il terreno era ancora leggermente
smosso, anche se qualche giardiniere ci aveva piantato dell'altra edera.
Si inginocchiò e tese le braccia in avanti... e soltanto allora si accorse che quelle non erano le sue braccia.
Aveva assunto la forma del suo vero padre: un'ombra nera e traslucida.
Per qualche motivo quella rivelazione lo gettò nel panico e cercò di svegliarsi. Nel corpo immobile, agitò
scompostameli le le braccia.
Ma era già sprofondato troppo tra le braccia di Morfeo per riuscire a liberarsi dalla sua morsa.
La galleria di Ricardo Benloise era in centro, nei pressi del complesso ospedaliero del St. Francis Hospital. Il
moderno edificio a sei piani spiccava in mezzo ai "grattacieli" fratelli degli anni Venti grazie a un lifting che gli aveva
regalato un esterno in acciaio satinato e finestre grandi come le porte di una stalla.
Un po' come una stellina del cinema seduta vicino a un branco di vecchie matrone.
Quando John e i suoi amici comparvero sul marciapiede di fronte alla facciata, il posto era in gran fermento.
Attraverso le enormi vetrate si vedevano uomini e donne in nero che si aggiravano per le sale con in mano flute di
champagne, esaminando i quadri alle pareti che, almeno della strada, sembravano un misto tra la pittura con le dita
dei bambini di cinque anni e l'opera di un sadico con la fissa dei chiodi arrugginiti.
John provò un moto di avversione per il modo di fare di quell'avanguardia colta e, come sempre, non aveva idea del
perché avesse un'opinione sull'arte. Come se importasse qualcosa.
Trez aveva detto di girare sul retro, quindi tutti e tre proseguirono lungo l'isolato, tagliando nel vicolo che correva
dietro la galleria. Se il davanti del palazzo faceva di tutto per dare nell'occhio e attirare visitatori, il retro era l'esatto
opposto. Niente finestre. Tutto dipinto di nero, due porte anonime e un'area di carico più chiusa di una cintura di
castità.
In base alle informazioni ricevute da Trez, le pietose manifestazioni "artistiche", come quelle discusse da quei
presuntuosi aspiranti Warhol non erano l'unico prodotto che entrava e usciva da lì. Il che spiegava la quantità
esagerata di telecamere di sicurezza montate sopra l'uscita posteriore.
Per fortuna c'erano molti angoli bui in cui nascondersi; invece di camminare in prossimità di tutti quegli obiettivi,
dunque, si smaterializzarono vicino a una catasta di pallet di legno.
La città, a quell'ora, era ancora piena di vita, il suono smorzato dei clacson delle automobili, le sirene della polizia in
lontananza e i rumorosi grugniti degli autobus dell'azienda di trasporti municipale si rincorrevano nell'aria frizzante
in una tipica sinfonia urbana...
Un'auto svoltò nel vicolo e avanzò a fari spenti verso la galleria.
«Appena in tempo», bisbigliò Qhuinn. «E quella Lexus.»
John inspirò a fondo, sperando di non perdere subito il bene della ragione.
La berlina si fermò parallela all'area di carico e la portiera si aprì. Quando la luce dell'abitacolo si accese...
Il piccolo lesser del parco, quello che puzzava di Old Spice, scese da una macchina per il resto vuota. Nessuna traccia
di Lash.
Il primo impulso di John fu di balzargli addosso... ma secondo Trez alla riunione doveva presenziare anche Lash.
Intervenendo adesso, rischiavano di farselo scappare; forse c'era un ordine di arrivo prestabilito per i partecipanti
all'incontro; se l'ordine saltava, Lash poteva ricevere una soffiata.
E, dati tutti i trucchetti che quella carogna sapeva tirar fuori dal cilindro, l'elemento sorpresa era decisivo.
Per un attimo, John si chiese se non fosse il caso di inviare un SMS ai fratelli. Avvertirli. Chiedere massicci rinforzi...
ma non appena fu sfiorato da quel pensiero, la sua sete di vendetta tornò ad alzare la testa.
Proprio per questo infilò la mano in tasca e tirò fuori il cellulare. Mentre il nanerottolo entrava, inviò a Rhage un
messaggino conciso, che andava dritto al punto: 189 St. Francis. Lash in arrivo. Noi 3 in vicolo dietro.
Rimettendo il telefonino in tasca, si accorse che Blay e Qhuinn lo guardavano da sopra la spalla. Uno di loro gli diede
una stretta alla spalla in segno di approvazione.
Qhuinn aveva ragione, questa era la verità. Se l'obiettivo era veramente quello di far fuori Lash, c'erano più
probabilità di beccarlo se si lasciava aiutare. E doveva agire con astuzia... perché fare lo scemo non lo avrebbe portato
da nessuna parte.
Un attimo dopo, Rhage si materializzò all'imbocco del vicolo insieme a Vishous e i due si avvicinarono. Hollywood
era il fratello giusto da interpellare, quando si trattava di Lash, perché aveva l'unica arma in grado di affrontare il
bastardo in un corpo a corpo: quel suo drago lo seguiva dappertutto.
In un baleno John se li trovò di fianco; prima che cominciassero a tempestarlo di domande, mise subito in chiaro una
cosa.
Voglio essere io a uccidere Lash. Intesi? Devo essere io.
Vishous immediatamente annuì e nella lingua dei segni disse, Conosco i tuoi trascorsi con quel pezzo di merda. Ma se
si arriva a dover scegliere tra te e quel figlio di puttana, dovrai mettere da parte l'onore e lasciare intervenire noi.
Chiaro?
John fece un profondo respiro. Era una motivazione più che sufficiente. Varò in modo che non dobbiate preoccuparvi
di questo.
Okay, andata.
Tutti si bloccarono quando il lesser arrivato a bordo della Lexus tornò fuori, si mise al volante... e partì, come se la
riunione fosse stata annullata.
«Sui tetti», disse Rhage, scomparendo.
Imprecando tra sé, John accolse il suggerimento e riprese forma in cima al palazzo di Benloise; sporgendosi oltre il
bordo, vide la berlina fermarsi lungo St. Francis Street. Per fortuna il piccoletto, ligio al codice della strada, mise la
freccia a sinistra, quindi John si smaterializzò, per ricompattare le sue molecole due edifici più in là. Via via che la
macchina procedeva ripetè l'operazione più volte, finché il lesser non svoltò a destra, nella parte più vecchia di
Caldwell.
Dove i tetti piatti finivano e bisognava atterrare su quelli a punta di epoca vittoriana.
Meno male che le suole dei suoi stivali avevano una buona aderenza.
Fingendo di essere un doccione, John si appollaiò su torrette, abbaini e davanzali, seguendo la sua preda dall'alto...
finché la Lexus s'infilò in un vicolo dietro una fila di palazzi in arenaria.
John conosceva pochissimo quel quartiere - c'era stato una volta sola, nel seminterrato dove abitava Xhex, lì vicino ma non era un territorio normale per la Lessening Society. Di solito i loro covi si trovavano in zone molto meno
eleganti.
C'era un'unica spiegazione possibile. Lì abitava Lash.
Uno come lui, cresciuto in mezzo al lusso, tra gioielli, vestiti eleganti e cagate simili avrebbe dovuto sottoporsi a un
trapianto di personalità per riuscire ad accontentarsi di qualcosa di meno di una bella casa in un quartiere signorile.
Era venuto su in un posto così e di sicuro lo vedeva come un suo diritto.
Il cuore di John si mise a battere all'impazzata.
La Lexus si fermò davanti a un garage e, quando la porta si aprì, entrò. Un attimo dopo il piccoletto attraversò un
giardino fino al retro di uno dei palazzi più belli.
Rhage comparve di fianco a John e nella lingua dei segni disse, Vieni sul retro con me. Vishous e i ragazzi si
smaterializzeranno entrando dal portone anteriore. V è già sulla veranda e dice che non c'è traccia di acciaio.
John annuì e, insieme, i due vampiri ripresero forma su una terrazza di ardesia... proprio mentre il lesser apriva la
porta su una cucina degna di un buongustaio. Attesero un momento, immobili nel tempo e nello spazio, che il
nanerottolo disattivasse il sistema di sicurezza.
Il fatto che andasse staccato non significava necessariamente che Lash non era in casa. I lesser avevano bisogno di
prendersi delle pause per ricaricarsi con una certa regolarità, e soltanto un imbecille non avrebbe provveduto a
proteggersi con le dovute precauzioni.
John doveva solo sperare che l'oggetto delle sue ricerche fosse dentro quella casa.
Capitolo 15
Xhex era seduta nella poltrona vicino alla finestra quando sentì il rumore sul tetto. Il bump-bump soffocato fu
abbastanza forte da strapparla all'aerobica mentale che faceva per mantenersi vigile.
Guardò il soffitto...
Al piano di sotto scattò il sistema di sicurezza e il suo udito finissimo colse il bip-bip-bip-bip-bip di quando veniva
disattivato, seguito dai passi leggeri del lesser che le portava da mangiare...
C'era qualcosa di strano. Qualcosa... non quadrava.
Piegandosi in avanti sulla poltrona si tese tutta, drizzando le antenne mentali. Non potendo inviare segnali
symphath, la sua capacità di decrittare le griglie emotive era compromessa, ma non del tutto... ecco come scoprì che
nei pressi della casa c'era qualcun altro, oltre al non morto.
Una quantità di corpi. Due sul retro. Tre sul davanti. E le emozioni degli individui che avevano circondato la villa
coincidevano con quelle tipiche dei soldati: massima calma e concentrazione.
Ma non erano lesser.
Xhex scattò in piedi.
Cristo santo. L'avevano trovata. I fratelli l'avevano trovata, cazzo.
L'imboscata venne messa in atto con tempismo perfetto. Al pianterreno sentì un grido di sorpresa, un parapiglia
confuso e poi tonfi e passi pesanti, quando si scatenò il corpo a corpo e i rinforzi piombarono dentro da un'altra
direzione.
Anche se nessuno poteva udirla, tranne Lash, si mise a urlare a più non posso nella speranza di superare, per una
volta, i muri invisibili della sua gabbia.
John Matthew non riusciva a credere che il lesser fosse ignaro della loro presenza. A meno che quello stronzo fosse in
qualche modo compromesso, avrebbe dovuto accorgersi che c'erano dei vampiri tutto intorno alla casa. Ma lui no...
andò avanti con le sue cose, entrando e lasciando la porta aperta.
La prima regola, in una irruzione, è assumere il controllo; appena varcata la soglia della casa di arenaria, John
neutralizzò il lesser torcendogli le braccia dietro la schiena, spingendolo a faccia in giù sul pavimento e sedendosi sul
suo didietro, neanche fosse un pianoforte a coda. Nel frattempo, Rhage lo oltrepassava con passo sorprendentemente
leggero proprio mentre V e i ragazzi sbucavano in cucina dalla sala da pranzo.
Mentre il pianterreno veniva setacciato in fretta, John sentì un formicolio alla schiena... un coltello affilato come un
rasoio lungo la spina dorsale. Si guardò intorno, ma non riuscì a localizzare la fonte di quella sensazione, quindi per
il momento la accantonò.
«Cantina», sibilò Rhage.
Vishous scese insieme al fratello.
Con i suoi amici che gli guardavano le spalle, John fu in grado di concentrare la propria attenzione sul lesser sotto di
sé. Quello stronzo era troppo silenzioso, troppo immobile. Respirava, ma niente di più.
Che avesse sbattuto contro qualcosa cadendo per terra? Sanguinava? Di solito quelle carogne reagivano.
Sferrando calci alle taniche di benzina, tanto per fare un esempio.
John cercò tracce di sanguinamento o altre ferite, attento a non dargli la possibilità di liberarsi. Afferrandolo per i
capelli, lo tirò su...
E qualcosa trovò, eccome se la trovò... ma di sicuro non era dovuta alla colluttazione. Sul lato sinistro del collo del
lesser c'erano due forellini e un livido circolare: qualcuno lo aveva morso e poi gli aveva succhiato il sangue.
Qhuinn si avvicinò e si mise in ginocchio. «Chi si è attaccato al tuo collo, amico?»
Il lesser non rispose; intanto V e Rhage si smaterializzarono di ritorno dal seminterrato e puntarono verso il primo
piano.
Mentre i fratelli si muovevano silenziosamente per casa, Qhuinn afferrò il lesser per la mascella. «Stiamo cercando
una femmina. E puoi rendere le cose più facili anche per te stesso, se ci dici dov'è.»
Il lesser si accigliò... e lentamente spostò gli occhi verso l'alto.
A John non serviva altro.
Scattò in avanti, afferrando il palmo di Blay e abbassandolo con forza sul non morto. Dopo quel cambio di mano,
John schizzò via attraversando di corsa una sala da pranzo e un atrio. La scalinata era ampia e coperta da una
passatoia, il che gli consentì di avere
più presa nel salire i gradini tre alla volta. Più saliva, più il suo istinto urlava.
Xhex era lì dentro.
Giunto in cima, Rhage e V gli comparvero davanti, bloccandogli la strada.
«La casa è vuota...» cominciò Rhage
John lo interruppe. Lei è qui. È qui da qualche parte. Ne sono sicuro.
Rhage lo afferrò per il braccio. «Andiamo giù a interrogare il lesser. Così ne sapremo di più...»
No! Lei è qui!
Vishous gli si piazzò davanti al muso, gli occhi di diamante che scintillavano. «Ascoltami, figliolo. Ti conviene
tornare da basso.»
John socchiuse gli occhi. Quei due non volevano semplicemente farlo scendere giù di sotto. Non lo volevano lì sopra.
Cosa avete trovato? Nessuno dei due fratelli rispose. Che cosa avete trovato!
Riuscì a scartarli entrambi; sentì Rhage imprecare, mentre V balzava davanti a una porta.
«Naa, lascialo andare, V», fece Hollywood con voce sepolcrale. «Lascialo andare... odia già abbastanza Lash, non gli
basterebbe una vita intera per perdonarlo.»
Gli occhi di V fiammeggiarono, come se volesse ribattere, poi però estrasse dal giubbotto ima delle sue sigarette
rollate a mano e si fece da parte con un'imprecazione.
Con la schiena rigida, John entrò come una furia, ma si fermò di colpo. La tristezza nella stanza era una soglia
tangibile in cui doveva aprire una breccia, riuscì a penetrare quel gelido muro di desolazione solo perché costrinse i
piedi ad avanzare.
Era stata imprigionata lì.
Xhex era stata imprigionata lì... e torturata lì.
Schiuse le labbra per respirare, mentre con gli occhi seguiva i graffi alle pareti. Ce n'erano un'infinità, oltre a macchie
nere... e altro sangue secco.
Di un rosso scuro, quasi viola.
John si avvicinò e fece scorrere le mani sopra un buco così profondo che sotto la tappezzeria di seta si vedevano le
assicelle di legno intonacate.
Via via che ispezionava la stanza, il suo respiro si faceva sempre più affannoso. Il letto era un macello, i cuscini
buttati per terra, il piumone un groviglio inestricabile...
Sopra c'era del sangue.
Si chinò a raccogliere uno dei cuscini e lo strinse con delicatezza. Accostandolo al naso, inspirò... e sentì una versione
più penetrante di ciò che sognava ogni notte: l'odore di Xhex.
Le ginocchia cedettero di schianto e lui andò giù come un sasso nell'acqua ferma, crollando di fianco al materasso.
Affondando la faccia nella morbidezza del guanciale, respirò a fondo per accogliere Xhex dentro di sé, la sua
fragranza persisteva come un ricordo a un tempo tangibile e sfuggente.
Lei era stata lì. Di recente.
John guardò le lenzuola insanguinate. I muri insanguinati.
Era arrivato troppo tardi.
Aveva la faccia bagnata e sentì qualcosa gocciolare giù dal mento, ma non gliene fregava niente. Era sconvolto al
pensiero di essere arrivato a un passo dal salvarla... c'era andato vicino, ma non abbastanza. Non aveva fatto in
tempo.
Il singhiozzo che uscì dalla sua gola di muto ruppe il silenzio.
Mai in vita sua il cuore di Xhex era stato incline a spezzarsi. A lungo aveva sospettato che fosse una conseguenza del
suo lato symphath, una sorta di condizione congenita che la induriva relativamente a quelle cose per cui la maggior
parte delle femmine si commuove, e perde il controllo.
Ma alla fine venne fuori che si sbagliava.
Ritta accanto a John Matthew, alla vista del suo corpo enorme accasciato vicino al letto, l'organo che batteva dietro il
suo sterno s'infranse come uno specchio.
Andando in mille pezzi.
Nel vedere John che stringeva al petto quel cuscino come un neonato, si sentì morire. Era distrutta. Completamente.
Assolutamente. In quel momento di totale disperazione, avrebbe fatto qualunque cosa per alleviare il suo dolore: non
aveva idea del perché lui si sentisse così, ma i motivi erano irrilevanti.
La cosa fondamentale era la sua sofferenza.
Indebolita a propria volta, si inginocchiò accanto a lui, turbata nel profondo da quell'immagine tragica.
Le sembravano passati secoli dall'ultima volta che lo aveva visto e, Dio, era ancora così bello... anche più di come se
lo ricordava nei suoi momenti di quiete. Con quel profilo forte e marcato c quegli straordinari occhi azzurri, aveva il
volto di un guerriero; e il fisico poderoso, con le spalle larghe tre volte quelle di lei, non era da meno. Era tutto vestito
di pelle, a eccezione della T-shirt, e aveva i capelli praticamente rapati a zero, tagliati col rasoio elettrico, come se non
gliene importasse più niente.
Sul davanti del giubbotto e sulla maglietta c'era sangue di lesser.
Quella notte aveva ucciso. E forse per questo l'aveva trovata.
Be', quasi trovata.
«John?» disse piano una voce maschile.
Xhex guardò verso la porta, anche se lui non lo fece. Qhuinn,
che aveva appena raggiunto i fratelli Rhage e Vishous, adesso era fermo sulla soglia insieme a loro.
Soprappensiero, Xhex notò lo shock sui volti dei fratelli... evidentemente ignoravano che tra lei e John c'era stato
qualcosa di serio. Adesso però avevano ricevuto il messaggio. Forte e chiaro.
Qhuinn entrò e si avvicinò al letto. «John, siamo qui da mezz'ora», disse, mantenendo un tono dolce. «Se dobbiamo
interrogare quel lesser giù da basso per farci dire qualcosa su di lei dobbiamo sbrigarci a portarlo vi'. Non vogliamo
torchiarlo qui e so che vuoi essere tu a occupartene.»
Oh, Dio... no...
«Portatemi con voi», sussurrò disperatamente Xhex. «Vi prego... non lasciatemi qui.»
D'un tratto John la guardò, come se avesse udito la sua supplica.
Ma no, stava solo guardando il suo amico; il suo sguardo la attraversava senza vederla.
Nel vederlo annuire, Xhex memorizzò il suo viso, sapendo che era l'ultima volta che lo vedeva. Appena scoperta
l'irruzione, Lash l'avrebbe uccisa su due piedi oppure trasferita da qualche altra parte... e con ogni probabilità non
sarebbe sopravvissuta abbastanza a lungo per essere ritrovata di nuovo.
Alzò la mano, anche se non serviva a niente, e la posò sul viso di John, sfregando il pollice avanti e indietro sui segni
delle lacrime. Immaginò di riuscire quasi a sentire il calore della pelle e l'umido delle guance.
Avrebbe dato qualunque cosa per poterlo prendere tra le braccia e stringerlo forte. Ancora di più per poter andare via
con lui.
«John...» disse con voce rotta. «Oh, Dio... perché ti stai facendo questo.»
Lui si accigliò, senza dubbio per qualcosa che aveva detto Qhuinn. Però poi alzò il palmo e lo posò nel punto in cui lo
stava toccando lei.
Ma solo per asciugarsi le lacrime.
Quando si alzò, prese con sé il cuscino e andò alla porta, passando proprio attraverso Xhex.
Lei guardò la sua schiena che si allontanava, col sangue che le rombava nelle orecchie. Per certi versi quella era una
eco del processo di morte, pensò. A poco a poco, un passo dopo l'altro, ciò che la legava alla vita se ne andava, si
allontanava, spariva. A ogni passo di John verso la porta, lei sentiva evaporare il fiato nei polmoni. Il suo cuore si
fermava. La sua pelle si raffreddava.
La sua possibilità di salvezza stava andando via. La sua possibilità di...
Fu allora che capì cosa aveva contrastato sin dall'inizio e, per una volta, non provò l'impulso di nascondere le proprie
emozioni.
Non ce n'era bisogno. Anche se John era lì con lei, era completamente sola e separata da lui, ma soprattutto era la sua
natura mortale a chiarire le sue priorità.
«John», disse piano.
Lui si fermò e guardò verso il letto.
«Ti amo.»
Col bel volto contratto dal dolore, John si massaggiò il centro del petto, come se qualcuno gli avesse stretto il cuore
nel pugno, strizzandolo fino alla morte.
Poi si voltò.
Il corpo di Xhex ebbe la meglio sulla sua mente. Con un balzo disperato corse verso la porta aperta, spalancando le
braccia e la bocca.
Quando andò a sbattere contro i confini della sua prigione, udì un rumore assordante, come una sirena... o come il
sibilo acuto dei fuochi d'artificio quando vengono accesi... o forse era scattato l'allarme del sistema di sicurezza.
Ma non era niente di tutto ciò.
Era lei che urlava a squarciagola.
Capitolo 16
John dovette staccarsi a forza da quella camera da letto. Se
non fosse stato per la spinta della logica e per il bisogno di
sventrare quel lesser, non sarebbe riuscito a muoversi di un millimetro.
Sentiva la presenza di Xhex, era pronto a giurarci... ma sapeva che era uno scherzo della sua mente, generato dalla sua
ricerca instancabile. Lei non era in quella stanza. C'era stata. Due cose completamente diverse... e la sua unica
possibilità di scoprire cosa le era capitato era giù in cucina.
Scese al pianterreno stropicciandosi gli occhi e la faccia e scoprì che una mano non voleva saperne di staccarsi dalla
guancia. La pelle, in quel punto, formicolava... un po' come quando Xhex lo aveva accarezzato, le poche volte che
l'aveva fatto.
Dio... il sangue in quella stanza. Tutto quel sangue. Lei aveva lottato contro Lash e, anche se pensare che lo aveva
riempito di botte era motivo di orgoglio, trovava intollerabile quanto era accaduto là dentro.
Svoltò a sinistra e attraversò la sala da pranzo a grandi passi, sforzandosi di riacquistare lucidità, con la sensazione
che lo avessero scorticato vivo e gettato nell'oceano. Entrò in cucina e...
Non appena posò gli occhi sul lesser, fu scosso da un terremoto: tutto il suo universo si spalancò, giù giù fino al suo
nucleo rovente.
Spalancò la bocca in un urlo silenzioso.
Mentre si scagliava in avanti, la rabbia gli allungò le zanne e il corpo inserì il pilota automatico, smaterializzandosi
attraverso lo spazio e riprendendo forma davanti a quel bastardo. Spinse via Blay e il vampiro innamorato in lui
aggredì il non morto con una ferocia di cui aveva sentito parlare... ma che non aveva mai visto.
E certamente mai sperimentato.
Accecato dall'ira, con i muscoli potenziati da una furia omicida, era tutto azione e niente pensiero quando attaccò, le
mani che graffiavano come artigli, le zanne che fendevano come pugnali, trasformato in animale da un furore
incontenibile.
Non aveva idea di quanto andò avanti... né di quello che fece. L'unica cosa di cui era vagamente consapevole era il
tanfo dolciastro che gli riempiva le narici. Non sentiva altro.
Qualche tempo dopo... molto tempo dopo... un secolo dopo... si fermò per riprendere fiato e si scoprì a quattro zampe,
la testa ciondoloni, i polmoni in fiamme per lo sforzo. Aveva i palmi piantati su mattonelle rese viscide dal sangue
nero e qualcosa gli gocciolava dai capelli e dalla bocca.
Sputò un paio di volte nel tentativo di liberarsi di un sapore disgustoso, ma qualunque cosa fosse, non ce l'aveva solo
sulla lingua e sui denti; ce l'aveva anche in gola e nelle viscere. Gli bruciavano gli occhi e aveva la vista annebbiata.
Aveva ricominciato a piangere? Non si sentiva più triste... si sentiva svuotato.
«Gesù... Cristo...» mormorò qualcuno.
Improvvisamente sopraffatto dalla stanchezza, John permise al gomito di piegarsi e si lasciò andare di lato. Appoggiò
la testa in una pozza sempre più fredda e chiuse gli occhi. Era senza forze. Riusciva a malapena a respirare.
Qualche tempo dopo, sentì Qhuinn che gli parlava. Quando ci lu una pausa annuì, più per una cortesia innata che per
una qualche consapevolezza di quello che stava succedendo.
Rimase momentaneamente sorpreso nel sentire delle mani sulle spalle e sulle gambe, e riuscì in qualche modo ad
alzare le palpebre quando venne sollevato.
Strano. I pensili e gli altri mobili erano bianchi, quando era entrato in cucina. Adesso... li avevano dipinti di un nero
lucido.
In preda al delirio, si chiese perché mai qualcuno avesse fatto una cosa del genere.
Non si poteva certo dire che il nero fosse un colore beneaugurante.
Chiuse gli occhi, sentendo gli urti e gli scossoni mentre lo portavano fuori, poi venne sollevato un'ultima volta e,
infine, il suo corpo si accasciò, inerte. Il motore di una macchina che veniva avviato. Portiere che si chiudevano.
Erano in viaggio. Senza dubbio verso il quartier generale della confraternita.
Prima di crollare addormentato, si portò la mano alla guancia. Al che si rese conto di aver dimenticato il cuscino.
Svegliandosi di soprassalto, si raddrizzò di colpo, come Lazzaro tornato dal regno dei morti.
Per fortuna ci aveva pensato Blay. «Eccolo qua. Mi sono assicurato di non andare via senza.»
John prese il guanciale ancora impregnato dell'odore di Xhex e ci si raggomitolò intorno. Quella fu l'ultima cosa che
ricordava del viaggio di ritorno a casa.
Lash si svegliò esattamente nella stessa posizione in cui si era assopito: steso sulla schiena con le braccia incrociate
sul petto... come un cadavere dentro una bara. Quand'era un vampiro si muoveva nel sonno e, di solito, si svegliava
su un fianco, con la testa sotto il cuscino.
Mettendosi a sedere, la prima cosa che fece fu controllare le lesioni al petto e all'addome. Invariate. Non peggiorate,
ma invariate. E il suo livello di energia non era migliorato in modo significativo.
Nonostante avesse dormito... Cristo santo, tre ore? Ma che cavolo...?
Meno male che aveva avuto il buon senso di posticipare l'appuntamento con Benloise. Non puoi incontrare un uomo
così quando hai la faccia - e ti senti - come uno che è sbronzo da una settimana e mezza.
Buttò le gambe giù dal letto, chiamò a raccolta le forze e sollevò il culo dal materasso, mettendosi in verticale.
Barcollava. Dal piano di sotto non giungeva alcun rumore, solo silenzio. No... un momento. Qualcuno stava dando di
stomaco. Il che significava che l'Omega aveva finito con la nuova recluta e il ragazzo era agli inizi di una
spassosissima sessione di vomito lunga dalle sei alle dieci ore.
Lash raccolse la camicia macchiata e il completo, chiedendosi dove diavolo fosse il cambio di biancheria che aveva
chiesto a Mr D. Mica ci volevano tre ore per andare da Benloise, fissare un nuovo appuntamento, andare a casa per
dare da mangiare a Xhex e prendere dall'armadio degli abiti puliti.
Scendendo le scale, chiamò quell'idiota al cellulare e appena scattò la casella vocale sbraitò, «Dove cazzo sono i miei
vestiti, imbecille?»
Riattaccò, e dal corridoio buttò l'occhio in tinello. La nuova recluta non era più sopra il tavolo, ma sotto di esso,
almeno in parte; piegata sopra un secchio, era scossa da conati a vuoto, neanche avesse nella pancia un topo incapace
di trovare l'uscita.
«Ti lascio qui», disse ad alta voce Lash. Questo diede luogo a una pausa in cui la recluta lo guardò. Aveva agli occhi
iniettati di sangue e dalla bocca gli colava qualcosa di simile alla sciacquatura di piatti.
«Cosa... mi sta succedendo?» Vocina flebile. Parole sconnesse.
Lash si portò la mano sulla piaga al petto; faticava a respirare.
Pensò ancora una volta che alle reclute non veniva mai raccontata tutta la storia. Non sapevano mai cosa aspettarsi,
non capivano fino in fondo a cosa rinunciavano e cosa ricevevano in cambio.
Non aveva mai pensato a se stesso come a ima recluta, prima d'ora. Lui era il figlio dell'Omega, non una delle tante
rotelle dell'ingranaggio. Ma fino a che punto conosceva la verità?
Si costrinse a levare la mano dalla lesione.
«Passerà», disse brusco. «Tutto... si sistemerà. Tra poco ti addormenterai e quando ti sveglierai... starai meglio di
prima.»
«Quella cosa...»
«È mio padre. Lavorerai per me, come ti ho detto. Non è cambiato niente.» Quando l'impulso di scappare si fece
troppo impellente per poterlo contrastare, Lash andò alla porta. «Adesso ti mando qualcuno.»
«Per favore... non lasciarmi.» Due occhi lacrimosi lo imploravano e una mano macchiata si tese verso di lui. «Per
favore...»
Le costole di Lash si strinsero con forza, comprimendo i polmoni al punto di comprometterne il funzionamento,
finché non riuscì più a far entrare aria in gola.
«Adesso verrà qualcuno.»
Fuori dalla porta, fuori di casa, fuori da quel casino. Corse verso la Mercedes, si mise al volante e si chiuse dentro,
uscendo a tutta birra dal corto vialetto della fattoria. Gli ci vollero quasi cinque chilometri prima di riuscire a
respirare bene, e si sentì meglio solo quando vide i grattacieli del centro.
Lungo il tragitto verso la casa di arenaria chiamò altre due volte Mr D; trovò la casella vocale, e poi... di nuovo la
casella vocale.
Svoltando a destra nel vicolo che portava al garage, era sul punto di scagliare il cellulare fuori dal finestrino per la
frustrazione...
Tolse il piede dall'acceleratore e si lasciò superare da un'altra auto... ma non aveva rallentato per gentilezza verso la
Porsche del suo vicino.
La porta del garage era spalancata e dentro c'era la Lexus di Mr D. In barba al protocollo.
Questo, unito al fatto che non gli rispondeva al telefono era un campanello d'allarme grosso come una casa e il suo
primo pensiero andò a Xhex. Se quei bastardi dei fratelli se l'erano portava via li avrebbe infilzati a un palo e lasciati
in mezzo al prato ad abbrustolire lentamente al sole.
Chiuse gli occhi drizzando le antenne... e un attimo dopo avvertì la presenza di Mr D, ma il segnale era debolissimo.
Quasi impercettibile.
Chiaramente quel coglione era stato ferito, ma non era ancora morto del tutto.
Quando un'auto alle sue spalle suonò il clacson, Lash si accorse di essere fermo in mezzo alla stradina.
Normalmente la sua prima mossa sarebbe stata infilare la Mercedes in garage e precipitarsi in casa, pronto a
combattere... ma era a dir poco debilitato, fiacco e intontito. Non era il momento buono per affrontare il nemico, se i
fratelli erano ancora lì dentro.
Anche i lesser potevano tirare le cuoia. Anche il figlio del Male poteva essere rispedito al creatore.
Già, ma... e la sua femmina?
Incalzato da uno strano terrore gelido, Lash proseguì fino in fondo al vicolo, poi svoltò a destra e ancora a destra.
Passando davanti alla casa, pregò con tutto il cuore che Xhex fosse ancora...
Quando alzò gli occhi verso le finestre del primo piano e la vide in camera da letto... non riuscì a trattenere un
profondo sospiro di sollievo. Non gli importava cos'era successo in quella casa, non gli importava chi ci era entrato:
Xhex era ancora dove l'aveva lasciata, il suo volto era visibile a lui, e a lui soltanto, dietro quel vetro, gli occhi levati
verso il cielo, la mano alla gola.
Che bella immagine, pensò. I capelli le stavano crescendo e cominciavano ad arricciarsi e il chiaro di luna sui suoi
zigomi alti e sulle labbra perfette era decisamente romantico.
Era ancora sua.
Si costrinse a proseguire. Lei era al sicuro dov'era... la sua prigione invisibile era impenetrabile da qualunque
vampiro, umano o lesser, che fosse un fratello o un vecchio scemo con una pistola e tanta grinta.
Se fosse entrato e fosse rimasto coinvolto in uno scontro con i fratelli? Se fosse rimasto ferito? L'avrebbe persa,
perché mantenere l'incantesimo in cui l'aveva intrappolata richiedeva energia e lui aveva già abbastanza problemi a
raccogliere le forze necessarie all'impresa. Per quanto disprezzasse la propria debolezza, doveva essere realista.
Non potersi fermare lì con lei era terribile. Una sofferenza atroce.
Ma era la decisione giusta. Se non voleva perdere Xhex doveva lasciarla fino all'alba, quando la casa si sarebbe
svuotata per forza di cose.
Ci mise un po' ad accorgersi che stava girando in tondo senza meta; la verità era che l'idea di tornare a dormire in una
delle squallide casette di proprietà della Lessening Society gli faceva venire voglia di scorticarsi la faccia.
Dio, quanto ci metteva l'alba ad arrivare...
Da una parte non riusciva a credere di essere così vigliacco da scappare, ma dall'altra faceva fatica anche solo a tenere
gli occhi aperti e la testa diritta, al volante. Imboccando il ponte che portava a ovest di Caldwell, ancora non si
capacitava di tanta stanchezza. Le piaghe potevano benissimo venire dalle battaglie con Xhex, ma quello sfinimento
era...
La risposta gli venne guardando i veicoli sull'altra corsia, diretti a est. Ma certo, era ovvio, eppure quella rivelazione
lo colpì con una forza tale da fargli alzare il piede dall'acceleratore.
Est e ovest. Sinistra e destra. Notte e giorno.
Per forza, nutrirsi da Mr D lo aveva aiutato solo in apparenza.
Gli serviva una femmina. Una lesser.
Perché non ci aveva pensato prima? I vampiri si rafforzano solo grazie al sangue del sesso opposto. E anche se in lui
era predominante il lato paterno, il retaggio del suo passato non era del tutto scomparso, evidentemente, se doveva
far ricorso alle zanne per nutrirsi.
Solo dopo essersi abbeverato alla vena di Mr D si era sentito almeno in parte soddisfatto.
Be', questo cambiava tutto... e apriva un futuro completamente nuovo per Xhex.
Capitolo 17
I rumori della sanguinosa mischia al piano di sotto era giunto fino alle orecchie di Xhex; dai miasmi che adesso
filtravano dalla porta della camera da letto, poteva facilmente indovinare cosa era toccato al piccolo lesser che le
portava da mangiare.
Tutto lasciava supporre che una parte del pianterreno fosse stata appena ritappezzata in "carta da parati lesser".
Era sorpresa che i fratelli avessero deciso di smembrarlo lì in casa. Da quello che sapeva, Butch O'Neal di solito
inalava quei bastardi per impedire il loro ritorno dall'Omega. Ma giù da basso... Si sarebbe meravigliata che fosse
rimasto ancora qualcosa da raccogliere col cucchiaino.
A meno che fosse un messaggio per Lash.
Dopo il caos assordante del massacro ci fu uno strano silenzio, seguito da un gran rumore di passi. Ora che non c'era
più nessuno da uccidere, se ne andavano.
Nel petto sentì montare di nuovo il panico e dovette fare uno sforzo quasi fisico per riprendersi... non doveva
lasciarsi andare, maledizione. In quella situazione poteva contare solo su se stessa, era quella la sua arma: la mente e
il corpo erano le uniche cose che Lash non poteva portarle via.
Perderle equivaleva a morire.
'Fanculo, perderle significava che, alla sua morte, non avrebbe potuto trascinare con sé Lash.
Trovò la forza di non mollare proprio nella realtà della situazione, quel fardello che gravava su di lei l'aiutò a tenere i
piedi per terra e a dominare le emozioni, che altrimenti si sarebbero liberate portandosi via anche la sua logica. Xhex
chiuse tutto sottochiave in un angolo della mente, qualunque cosa avesse sentito stando accanto a John Matthew.
Non lasciò filtrare nulla. Non lasciò venire a galla nulla.
Entrò in modalità guerra e si rese conto di non aver sentito nessuno schiocco né visto il riverbero di un lampo, quindi
i fratelli non avevano pugnalato il lesser. E, dal lezzo che ammorbava la casa, c'era da scommettere che avessero
abbandonato lì il corpo.
Lash avrebbe dato fuori di matto. Xhex lo aveva sentito interagire col piccolo texano e, anche se lui lo avrebbe negato,
era chiaramente affezionato a quel nanerottolo. Doveva sfruttare quel suo punto debole, far leva sul suo smarrimento
per mandarlo ancora più in crisi. Forse allora sarebbe crollato...
Avvolta dal silenzio e da quel tanfo dolciastro, si mise a camminare per la stanza e finì col ritrovarsi davanti alla
finestra. Soprappensiero, dimenticando il campo di forza, appoggiò le mani sul telaio...
Balzò subito indietro, aspettandosi una fitta di dolore.
Invece... sentì solo un formicolio.
Nella sua prigione c'era qualcosa di diverso.
Tenendo sempre la testa sotto controllo, avvicinò di nuovo i palmi alla barriera, premendoli contro quell'argine
invalicabile. Per valutare bene le cose doveva essere assolutamente obiettiva... ma il cambiamento era così evidente
che era impossibile non notarlo: la trama dell'incantesimo si era indebolita. Indebolita in modo inequivocabile.
La domanda era: perché? Ed era una debolezza destinata ad aumentare o doveva approfittare subito di quell'intoppo?
Xhex fece scorrere lo sguardo lungo i contorni della finestra. A vederla, la sua prigione non aveva nulla di anormale;
posò la mano sul vetro, tanto per essere sicura... sì, aveva visto giusto.
Lash era morto? Era stato ferito?
In quel momento una grossa Mercedes nera passò davanti alla casa e al suo interno lei avvertì la presenza di quel
figlio di puttana. E, vuoi perché Lash aveva succhiato il suo sangue, vuoi perché la barriera di contenimento in cui
l'aveva chiusa si stava incrinando, la griglia emotiva di quella carogna risultò chiarissima al suo lato symphath: Lash
si sentiva isolato. Angosciato. E... debole.
Bene, bene, bene...
Questo avvalorava il cedimento che aveva percepito. E spiegava anche come mai non era così ansioso di correre da lei.
Nei panni di Lash, se non si fosse sentita particolarmente in forma, avrebbe atteso l'alba, prima di entrare.
O sarebbe corsa a cercare rinforzi degni di tal nome.
Ma per questo ci sono i cellulari, no?
Quando la Mercedes lasciò il quartiere senza accennare a tornare, Xhex fece due passi indietro. Contraendo le cosce,
strinse i pugni e si piegò leggermente all'indietro sui fianchi, come un pugile. Inspirò a fondo, si concentrò, e...
Facendo scattare in avanti il pugno destro con tutta la forza che aveva nella spalla, colpì la barriera con una forza tale
che, se fosse stata la mascella di qualcuno, l'avrebbe maciullata.
L'incantesimo la respinse con una sorta di scossa elettrica, ma in tutta la stanza comparvero come delle increspature,
la sua cella tremolava, quasi si stesse ricalibrando dopo una ferita. Prima che si riprendesse del tutto, Xhex sferrò un
altro pugno...
Il vetro, al di là della barriera, si infranse.
All'inizio rimase come imbambolata... anche se sentiva la brezza sul viso; guardò le nocche insanguinate per avere la
conferma che la finestra non si era rotta per qualche altro motivo.
Porca... troia.
Esaminando rapidamente le potenziali strategie di fuga, si voltò a guardare la porta che John e i fratelli avevano
lasciata aperta.
L'ultima cosa che voleva era scappare attraverso la casa, perché ignorava com'era strutturata e in cosa poteva
incappare lungo la strada. Ma l'istinto le diceva che probabilmente era troppo debole per smaterializzarsi... perciò, se
provava a sfondare la finestra, rischiava di non riuscire a volatilizzarsi a mezz'aria.
Nel qual caso si sarebbe sfracellata sulla strada sottostante.
La porta aperta era l'alternativa migliore. Poteva usare il proprio corpo come un pugno e, prendendo la rincorsa,
avrebbe avuto ancora più slancio.
Si voltò, appoggiandosi con le scapole contro il muro, fece un respiro profondo e... scattò in avanti, attraversando la
stanza a tutta velocità, pompando con le braccia e con le gambe.
Quando colpì la barriera, un dolore incandescente pervase ogni cellula del suo corpo, come un fuoco che la divorava
dall'interno. Accecata dal male, rimase bloccata dall'incantesimo, che la intrappolò entro i suoi confini, lasciandola
come morta...
Poi però il suo slancio l'ebbe vinta sulle sbarre invisibili della prigione; ci fu come una lacerazione e... perdio, finì
fuori dalla camera da letto.
Finalmente libera, andò a sbattere in pieno contro la parete del corridoio, con una violenza tale che, scivolando fino a
terra, si aspettava di portar via una mano di vernice con la faccia e col petto.
Con la testa che girava e gli occhi pieni di lucine scintillanti, si preparò a rimettersi in moto. Era fuori, ma non era
ancora libera.
Si guardò indietro e vide le increspature dell'incantesimo che si stava ricostituendo... spezzandolo, aveva forse
inviato un qualche segnale a Lash?
Corri via... subito... esci... scappa!
Alzandosi faticosamente da terra e trascinandosi lungo il corridoio, infilò le scale con le gambe che tremavano,
barcollando, incespicando. Nell'atrio al pianterreno, il fetore di sangue di lesser le tolse il respiro fin quasi a farla
vomitare; si allontanò di volata, ma non per proteggere il suo naso. I lesser entravano e uscivano sempre dal retro. Se
le restava anche solo un briciolo di tempo, doveva concentrarsi sul trovare un'altra via d'uscita.
Poco più avanti, il portone d'ingresso era un coso massiccio con decorazioni a intaglio e un pannello di vetro
rinforzato da sbarre di ferro. Ma era chiuso da semplici serrature di sicurezza.
Facile come rubare una caramella a un bambino.
Xhex si avvicinò, posò la mano sulla serratura Schlage e concentrò tutte le energie residue nell'impresa di far scattare
i cilindri. Uno... due... tre... e infine il quarto.
Spalancò il portone e aveva già un piede fuori, quando sentì lo scricchiolio di qualcuno che entrava in cucina.
Oh, merda. Lash era tornato. Era tornato per lei.
In un lampo sparì, il panico le mise le ali ai piedi e la mente, concentratissima, ne fece buon uso. Nello stato in cui era
sapeva di non poter andare lontano; decise quindi che la cosa migliore era rifugiarsi nel suo appartamento al
seminterrato. Lì almeno sarebbe stata al sicuro finché non recuperava le forze.
Riprese forma nel sottoscala che conduceva al suo monolocale e, con la forza del pensiero, fece scattare le serrature di
rame. Appena varcò la soglia, le luci a sensori di movimento si accesero nel corridoio imbiancato a calce e lei alzò il
braccio per schermarsi gli occhi, scendendo i gradini con passo malfermo. Sprangata la porta col pensiero, avanzò
barcollando e si accorse vagamente che zoppicava.
Colpa dell'impatto contro il muro? Della corsa precipitosa giù per le scale? Boh, chi cazzo lo sapeva o se ne fregava.
Riuscì ad arrivare in camera e si chiuse dentro. Quando le luci automatiche si accesero, guardò il letto. Lenzuola
candide e pulite. Cuscini in perfetto ordine. Piumone senza una grinza.
Non ce la fece ad arrivare fino al materasso. Le ginocchia cedettero di schianto e lei si lasciò andare; lo scheletro crollò
su se stesso, riducendola a un mucchietto di ossa rivestite di pelle.
Appena toccò terra, non fu il sonno a vincerla. Ma andava bene così.
Svenire era anche meglio.
Blaylock rientrò nella casa di arenaria, insieme a Rhage e a Vishous una ventina di minuti dopo che ne erano usciti
con John. Subito dopo averlo depositato sano e salvo alla base, erano tornati per finire di passare al setaccio la casa:
stavolta cercavano roba piccola, tipo documenti, computer, denaro contante, droga, qualunque cosa in grado di
fornire informazioni.
Blay entrò in cucina e subito si mise ad aprire pensili e cassetti;
avendo assistito allo scempio effettuato da John Matthew, le conseguenze lo lasciarono pressoché indifferente.
Vishous salì al primo piano, mentre Rhage perlustrò il davanti della casa.
Blay cominciava a prendere il ritmo, quando Rhage gridò, «Il portone è spalancato.»
Allora qualcuno era tornato lì dopo che se l'erano svignata insieme a John? Lesser? Improbabile: non avrebbero mai
lasciato le loro cose incustodite. Un ladro, forse? I fratelli non avevano chiuso a chiave la porta sul retro, quando se
l'erano filata, quindi forse qualcuno si era intrufolato dentro casa.
Se era un umano, chissà che spavento si era preso a quello spettacolo. Questo poteva spiegare una fuga precipitosa
dal portone anteriore.
Blay impugnò la pistola, nell'eventualità che in casa ci fosse qualcuno, e, con la mano libera, riprese a rovistare in
fretta dappertutto. Dentro un cassetto, insieme ai coltelli, trovò due cellulari, entrambi senza caricabatteria... ma ci
avrebbe pensato V a risolvere il problema. Accanto al telefono c'erano anche dei biglietti da visita, ma erano tutti di
umani del settore edilizio... probabilmente ingaggiati per dei lavori di ristrutturazione.
Era alle prese con gli armadietti sotto il piano di lavoro, quando guardò in su, accigliato. Proprio di fronte a lui c'era
un portafrutta con delle mele fresche.
Guardando in direzione della cucina a gas, vide dei pomodori. E un filone di pane francese avvolto nella carta.
Raddrizzandosi, andò al frigorifero Sub-Zero e lo aprì. Latte biologico. Cibi cotti da asporto presi da Whole Foods.
Un tacchino fresco pronto per essere cucinato. Pancetta affumicata canadese.
Non esattamente cibi per una prigioniera.
Blay alzò gli occhi verso il soffitto; si sentivano i passi pesanti di V che passava da una stanza all'altra. Poi fece
scorrere lo sguardo sulla cucina nel suo insieme, dal completo di cachemire appoggiato sopra uno sgabello alle
pentole di rame accatastate sulle mensole a vista, fino alla caffettiera col caffè già pronto da versare.
Tutto di marca, nuovo di zecca e più pulito della foto di un catalogo.
Proprio nello stile di Lash... ma i lesser in teoria non mangiavano. Dunque, a meno che quel bastardo trattasse Xhex
come una regina, cosa alquanto improbabile... qualcuno in quella casa pappava regolarmente.
La dispensa era attaccata alla cucina; Blay schivò i resti sanguinolenti del lesser per dare un'occhiata veloce alla stanza
tappezzata di scaffali: c'erano abbastanza cibi in scatola da sfamare un'intera famiglia per un anno.
Uscendo, gli cadde l'occhio su qualcosa per terra: c'era una sottile serie di graffi sulla superficie in legno massello,
per il resto intatta e lustra come uno specchio... graffi a forma di mezzaluna.
Blay si accovacciò sui talloni, facendo scrocchiare le ginocchia, e spostò di lato un aspirapolvere. Sulla parete in
pedinato non notò strane fessure, ma gli bastò batterci sopra con le nocche per individuare uno spazio vuoto. Tirò
fuori il coltello e usò il manico a mo' di sonar per determinare le dimensioni esatte della cavità nascosta; poi voltò
l'arma e conficcò la punta della lama nel punto di giuntura tra due assicelle.
Forzando leggermente, il rivestimento in legno si staccò; Blay prese una torcia a stilo e illuminò l'interno.
Un sacco della spazzatura. Nero come il sangue dei lesser.
Lo tirò fuori e lo aprì. «Porca... vacca.»
Alle sue spalle comparve Rhage. «Cos'hai trovato?»
Blay infilò dentro la mano e tirò fuori una manciata di banconote tutte spiegazzate. «Soldi. Un mucchio di soldi.»
«Prendili. V ha trovato un laptop e una finestra rotta al piano di sopra che prima non c'era. Io ho chiuso il portone,
così gli umani non verranno a ficcanasare.» Controllò l'orologio. «Dobbiamo squagliarcela prima che sorga il sole.»
«Ricevuto.»
Blay afferrò il sacco, lasciando aperto il nascondiglio segreto; più prove c'erano di un furto con scasso, meglio era.
Anche se i brandelli di lesser non potevano passare inosservati.
Quanto gli sarebbe piaciuto vedere la faccia di Lash, al suo ritorno a casa.
Uscirono tutti e tre dal retro, passando dal giardino; lui e Rhage si smaterializzarono, mentre Vishous metteva in
moto la Lexus parcheggiata in garage, collegando i fili dell'accensione per poterla confiscare.
Inutile dire che avrebbero preferito restare per vedere chi arrivava. Ma con l'alba non si può contrattare.
Giunti alla grande casa della confraternita, Blay entrò nell'atrio insieme a Hollywood e trovò una fila di gente ad
attenderli. Tutto il bottino venne passato a Butch perché lo esaminasse alla Tana. Appena potè allontanarsi, Blay salì
di sopra in camera di John.
Bussò, e per tutta risposta ottenne un grugnito; quando entrò, vide Qhuinn seduto in una poltrona vicino al letto. La
lampada sul comodino accanto a lui proiettava un cono di luce gialla nell'oscurità, illuminando sia lui sia la
montagna stesa sotto il piumone.
John dormiva della grossa.
Qhuinn, dal canto suo, ci stava dando dentro con l'Herradura, In bottiglia di Seleccion Suprema che aveva vicino al
gomito, il bicchiere di cristallo pieno della tequila di prima qualità che ultimamente era diventata la sua bevanda
d'elezione.
Cristo, con Qhuinn che tracannava quella e John che si faceva di Jack Daniels, Blay stava meditando di passare ad
alcolici più tosti. La birra, tutt'a un tratto, sembrava roba da sbarbatelli.
«Come sta?» chiese sottovoce Blay.
Qhuinn buttò giù una sorsata di tequila. «Maluccio. Ho chiamato Layla. L'amico ha bisogno di nutrirsi.»
Blay si avvicinò al letto. Più che chiusi, gli occhi di John erano sprangati, le sopracciglia talmente aggrottate che
sembrava intento a risolvere nel sonno qualche legge fisica. In contrasto col suo pallore innaturale, i capelli
sembravano ancora più scuri, e aveva il respiro troppo leggero. Lo avevano svestito e ripulito di quasi tutto il sangue
del lesser.
«Tequila?» offrì Qhuinn.
Blay tese la mano senza guardare, ancora concentrato sul loro comune amico. Ciò che si ritrovò tra le dita fu il
bicchiere, invece della bottiglia, ma non se ne curò e bevve avidamente.
Be', almeno adesso sapeva perché a Qhuinn piaceva tanto quella roba.
Glielo restituì e, a braccia conserte, ascoltò il sommesso gorgoglio del bicchiere che veniva riempito di nuovo. Per
qualche motivo, il suono ovattato, seducente, della costosa bevanda alcolica contro il cristallo lo rilassava.
«Non riesco a credere che si sia messo a piangere», mormorò. «Cioè, sì... ci riesco, ma è stata una sorpresa.»
«E chiaro l'hanno tenuta prigioniera in quella stanza.» L'Herradura tornò sul comodino con un leggero tonfo. «E noi
l'abbiamo mancata per un pelo.»
«Lui ha detto qualcosa?»
«No. Nemmeno quando l'ho ficcato sotto la doccia e sono entrato dentro insieme a lui.»
Okay, quella era un'immagine di cui Blay faceva volentieri a meno. Meno male che John non era dell'altra sponda...
Qualcuno bussò piano alla porta e si sentì un profumo di cannella e spezie. Blay andò ad aprire e fece accomodare
Layla, inchinandosi con deferenza.
«In cosa posso servir...» L'Eletta guardò il letto, accigliandosi. «Oh, no... è ferito?» disse, avvicinandosi a John
Matthew.
Sì, pensò Blay, ma soprattutto dentro.
«Grazie di essere venuta», disse Qhuinn alzandosi dalla poltrona. Poi si chinò sopra John, dandogli una spintarella
alla spalla. «Ehi, amico, svegliati un secondo.»
John si svegliò come se stesse lottando contro un cavallone enorme, alzando lentamente la testa e battendo le
palpebre, quasi avesse la faccia sommersa dall'acqua.
«E ora di mangiare.» Senza voltarsi a guardarla, Qhuinn fece cenno a Layla di avvicinarsi, tendendo la mano. «Fai un
ultimo sforzo che poi ti lasciamo in pace.»
L'Eletta si fermò in istante... poi fece un passo avanti. Afferrò lenta il palmo proteso di Qhuinn, facendo scivolare la
pelle sulla sua e avvicinandosi con una sorta di timida bellezza che suscitò la compassione di Blay.
A giudicare dal rossore che d'improvviso le imporporò le guance, ebbe la sensazione che Layla, come chiunque altro,
a quanto pareva, si fosse infatuata di Qhuinn.
«John... amico? Dai, ho bisogno che ti concentri.» Qhuinn tirò Layla per la mano fino a farla sedere sul letto; non
appena l'Eletta guardò da vicino John, si dedicò completamente a lui.
«Padrone...» disse con una voce pacata e incredibilmente dolce, alzando la manica della veste. «Padrone, svegliatevi e
prendete ciò che ho da offrirvi. Ne avete un gran bisogno, in verità.»
John cominciò a scuotere la testa, ma Qhuinn intervenne con prontezza. «Vuoi dare la caccia a Lash? Non puoi farlo
in questo stato. Non riesci neanche ad alzare la testa, cazzo... scusa il linguaggio, Eletta. Devi rimetterti in forze... Dai,
John, non fare lo stronzo.»
Qhuinn spostò lo sguardo bicolore su Layla, sillabando in silenzio: Scusa. Lei doveva avergli sorriso, perché per un
attimo lui inclinò il capo come se ne fosse rimasto colpito.
O forse gli aveva solo detto qualcosa in silenzio anche lei.
Sì, doveva essere andata così.
Per forza.
Poi tutti e due abbassarono la testa di scatto e Layla si lasciò sfuggire un ansito quando John le affondò le zanne nella
carne, cominciando a succhiare. Palesemente soddisfatto, Qhuinn tornò al suo posto e si riempì il bicchiere. Ne bevve
metà, poi lo allungò a Blay.
L'idea migliore mai avuta da chiunque, da secoli. Blay si piazzò contro l'alto schienale della poltrona e, facendo
scorrere un braccio sulla sua sommità, bevve una lunga sorsata, e poi un'altra, prima di restituire la tequila.
Rimasero così, dividendosi l'acquavite, mentre John si sfamava col sangue di Layla... finché a un certo punto di
quella duplice bevuta, Blay si rese conto che stava posando le labbra sullo stesso bordo da cui beveva Qhuinn...
Sarà stato l'alcol. O forse il bicchiere. O forse il fatto che, dal punto in cui si trovava, a ogni respiro sentiva l'odore
intenso di Qhuinn...
Doveva andare via, lo sapeva.
Voleva stare accanto a John, ma col passare dei minuti scivolava vicino, più vicino, sempre più vicino... a Qhuinn. Al
punto che, con la mano penzoloni sullo schienale, quasi gli accarezzava i folti capelli neri.
«Devo andare», disse brusco, restituendogli il bicchiere per l'ultima volta, diretto alla porta.
«Stai bene?» gridò Qhuinn.
«Sì. Dormi bene e riguardati, Layla.»
«Non hai bisogno di nutrirti?» chiese Qhuinn.
«Domani.»
L'Eletta disse qualcosa di amabile e cortese, ma Blay non si voltò. No. Non poteva.
E pregò Dio di non incontrare nessuno, fuori in corridoio.
Non aveva controllato per vedere quant'era grave, ma sapeva quando era eccitato... e quella era una cosa che, per
quanto beneducato, un maschio in calzoni di pelle attillati non può nascondere.
Capitolo 18
Dall'Altra Parte, Payne girava in tondo nella fontana di sua madre, tracciando cerchi coi piedi nella vasca dove si
raccoglievano gli zampilli. Schizzava l'acqua, tenendo sollevata la lunga veste e ascoltando gli uccellini colorati
appollaiati sull'albero bianco nell'angolo. I piccoli volatili cinguettavano, svolazzando da un ramo all'altro,
becchettandosi a vicenda e arruffando le piume.
Come diavolo facessero a trovare la voglia di svegliarsi per un'attività così limitata, proprio non ne aveva idea.
Nel santuario il tempo non esisteva, eppure lei avrebbe tanto voluto un orologio da tasca o una pendola per
controllare quant'era in ritardo il Re cieco. Si vedevano ogni pomeriggio per una sessione di arti marziali.
Be', pomeriggio per lui. Per lei, bloccata lì da quella parte, tutto era eternamente immerso in un giorno indistinto.
Si chiese quanto tempo era passato, di preciso, da quando sua madre l'aveva tirata fuori da quella sorta di
ibernazione concedendole un po' di libertà. Impossibile saperlo. Wrath aveva cominciato a presentarsi regolarmente
più o meno da... quindici volte e lei era stata rianimata forse... be', da molto prima. Perciò, torse, erano passati più di
sei mesi?
La vera domanda era per quanto tempo era rimasta prigioniera in quella specie di ghiacciaia... ma non poteva
chiederlo a sua madie. Loro due non si parlavano. Finché la femmina "divina" che l'aveva generata non si decideva a
lasciarla andare, Payne non aveva nulla da dirle.
Quel silenzio forzato, in verità, non sembrava fare alcuna differenza; non che Payne si fosse illusa del contrario.
Quando tua madre è la creatrice della razza e non deve rendere conto a nessuno, neppure al re...
È piuttosto facile rimanere intrappolata nella tua stessa vita.
Quando accelerò il passo, la tunica cominciò a inzupparsi, allora balzò fuori dalla fontana e cominciò a correre
tutt'intorno, sferrando pugni nell'aria.
Essere un'Eletta docile e obbediente non era nel suo codice genetico, ed era la radice di tutti i problemi tra lei e sua
madre. Oh, che spreco. Oh, che delusione.
Oh, vedi di fartela passare, mammina cara.
Quel genere di condotta e di fede incondizionata non faceva per lei. E se la Vergine Scriba voleva un altro spettro in
tunica che si aggirava fluttuando silenzioso come una corrente d'aria in una stanza dalla temperatura ideale, avrebbe
dovuto scegliere un altro padre per sua figlia.
Payne aveva ereditato tutta la vitalità del Carnefice, i tratti del padre erano passati alla generazione successiva...
Ruotò su se stessa, parando il pugno di Wrath con l'avambraccio e sferrandogli una sforbiciata in pieno fegato. Il re
fu lesto a reagire, e la violenta gomitata con cui contrattaccò era una promessa di commozione cerebrale.
Payne si abbassò rapida, schivandola per un pelo. Un altro calcio costrinse il re a balzare all'indietro... malgrado fosse
cieco, sapeva sempre esattamente dove si trovava la sua avversaria.
Di conseguenza avrebbe intuito che Payne lo avrebbe attaccato sul fianco. Infatti si stava già spostando, pronto a
colpirla alla schiena con la suola dello stivale.
Cambiando idea, Payne si gettò a terra e spinse in fuori le gambe, centrandolo alla caviglia e sbilanciandolo. Un
rapido scarto sulla destra e si spostò dalla traiettoria di caduta di quell'enorme corpo barcollante. Quando Wrath
atterrò con violenza, il collo stretto nell'incavo del gomito di Payne, con un altro balzo gli fu sulla schiena. Per
aumentare la presa, lei si afferrò il polso e usò l'altro bicipite per premere contro la sua gola.
La reazione del sovrano? Posizionarsi a tartaruga.
Grazie alla sua incredibile forza, riuscì a infilare i piedi sotto il peso di entrambi e si alzò. Poi, con un gran balzo per
aria, atterrò sopra di lei, che si era appiattita contro il marmo del pavimento.
Fargli da materasso era tutt'altro che comodo... Payne sentiva le ossa che in pratica si piegavano.
Il re era innanzi tutto - e soprattutto - una persona d'onore, tuttavia, e in considerazione dell'inferiore forza muscolare
di Payne non la teneva mai sotto per molto. Cosa che la indispettiva. Lei avrebbe preferito uno scontro basato solo
sull'abilità, senza esclusione di colpi, ma tra i sessi ci sono differenze ineludibili, e i maschi, semplicemente, sono
più grossi e dunque più forti.
Per quanto fosse infastidita dai limiti imposti dalla biologia, non c'era niente da fare.
E ogni volta che riusciva a mettere in difficoltà l'avversario superandolo in velocità, la soddisfazione era ancora più
grande.
Il re si rimise in piedi con agilità e, quando si voltò, i lunghi capelli neri si allargarono a ventaglio prima di ricadere
sul judogi bianco. Con le lenti scure sugli occhi e quell'impressionante distesa di muscoli, era magnifico, un distillato
del meglio delle stirpi dei vampiri, incontaminato da qualunque traccia umana o di altro genere.
Anche se il suo problema era proprio questo. Payne aveva sentito che la sua cecità era la conseguenza di tutto quel
sangue puro.
Quando fece per alzarsi, Payne sentì una fitta lancinante alla schiena, ma la ignorò per affrontare un'altra volta il suo
avversario. Questa volta fu lei ad attaccare come una furia e, per essere cieco, Wrath diede prova di un'abilità davvero
straordinaria nel parare i colpi.
Forse per questo non si lamentava mai del suo handicap. D'altra parte non parlavano molto, e a lei andava bene così.
Anche se si chiedeva che vita conducesse lui, sulla terra.
Quanto invidiava la sua libertà.
Continuarono a darsele di santa ragione, girando intorno alla lontana e poi spostandosi verso il colonnato e la porta
che si apriva sul santuario. E ritorno. E ancora da capo, lungo lo stesso percorso.
Alla fine erano entrambi pesti e sanguinanti, ma non era un problema. Appena avessero lasciato ricadere le mani
lungo i fianchi e smettevano di scambiarsi colpi, le ferite avrebbero cominciato a guarire.
L'ultimo pugno venne da Payne, e fu un montante micidiale che centrò il mento del re come una di quelle palle di
ferro attaccate all'estremità di una catena in uso nel Medioevo. Gli rovesciò indietro la testa, scompigliandogli la
lunga chioma.
Senza bisogno di parlare, concordavano sempre su quando era il momento di smettere.
Si sciolsero i muscoli passeggiando fianco a fianco fino alla fontana, facendo stretching e sgranchendosi il collo.
Insieme si lavarono la faccia e le mani nell'acqua limpida, cristallina, e si asciugarono con dei panni morbidi che
Payne aveva chiesto di avere a portata di mano.
Pur scambiandosi pugni e non parole, Payne aveva cominciato a pensare al re come a un amico. E, in quanto tale, a
fidarsi di lui.
Era la prima volta che le capitava.
Ed erano davvero soltanto amici. Per quanto lei ammirasse i suoi notevoli attributi fisici, non c'era la minima
attrazione, tra loro... e questo era uno dei motivi per cui il loro sodalizio funzionava. Altrimenti lei non si sarebbe
sentita a suo agio.
No, non le interessava un rapporto a sfondo sessuale, né con lui né con nessun altro. I vampiri maschi, specie quelli
di nobili origini, avevano la tendenza a comandare. Era più forte di loro... ancora una volta, l'esempio di un
comportamento determinato dal sangue. E lei aveva già qualcuno che voleva decidere della sua vita. Non gliene
serviva un altro.
«Tutto okay?» chiese Wrath mentre si sedevano sul bordo della fontana.
«Sì. E tu?» Non le dispiaceva che lui le chiedesse sempre se stava bene. Un paio di volte, all'inizio, si era offesa... il re
stava forse insinuando che lei non riusciva a sopportare i postumi della lotta? Poi, però, aveva capito che non
c'entrava col fatto che era una femmina... Wrath l'avrebbe chiesto a chiunque, dopo scontri tanto violenti.
«Io sto da Dio», disse lui, con un sorriso che mise in mostra due zanne spaventose. «A proposito, quella leva al
gomito, all'inizio, è stata uno sballo.»
Payne sorrise tanto da farsi dolere le guance. Che era un altro dei motivi per cui le piaceva stare con lui. Dato che
Wrath non ci vedeva, non c'era motivo di nascondere le proprie emozioni... e nulla la riempiva di gioia come sentirgli
dire che era rimasto impressionato da qualche sua mossa.
«Be', Vostra Altezza, voi mi fregate sempre con le vostre tartarughe.»
Adesso fu Wrath a sorridere ancora più di gusto e, per un attimo, Payne si commosse al pensiero che i suoi
complimenti contassero qualcosa per lui. «Il peso morto ha la sua utilità», mormorò il re.
D'un tratto si voltò verso di lei; gli occhiali scuri che non si levava mai gli conferivano un'aria crudele, pensò ancora
una volta Payne. Eppure in un'infinità di occasioni aveva dimostrato che non era così.
Wrath si schiarì la gola. «Grazie di tutto. A casa le cose vanno male.»
«Come mai?»
Lui distolse lo sguardo, come se stesse scrutando l'orizzonte. Forse un riflesso di quando celava le proprie emozioni
agli altri. «Abbiamo perso una femmina. È nelle mani del nemico.» Scosse la testa. «E uno dei nostri ne soffre.»
«Erano sposati?»
«No... ma lui si comporta come se lo fossero.» Il re si strinse nelle spalle. «Non mi ero accorto del legame che li univa.
Nessuno di noi l'aveva notato. Ma... esiste, e stanotte è emerso in modo evidente.»
La brama per il mondo sottostante, per le vite terrene, traumatiche ma vivide, spinse Payne a sporgersi verso di lui.
«Cosa è successo?»
Il re spinse indietro i capelli; l'attaccatura alta spiccava sulla pelle dorata. «Ha massacrato un lesser, stanotte. Ha
massacrato quel bastardo.»
«E il suo dovere, no?»
«Non l'ha fatto sul campo. È successo nella casa dove i non morti tenevano prigioniera la femmina. Quel bastardo
avrebbe dovuto essere interrogato, ma John l'ha fatto a pezzi. John è un bravo ragazzo... ma l'istinto possessivo del
maschio innamorato... può essere micidiale, e non in senso buono, mi spiego?»
Payne venne assalita da ricordi vaghi e indistinti di quand'era sulla Terra, raddrizzava torti, combatteva e...
La Vergine Scriba varcò la soglia dei propri appartamenti privati, le vesti nere che fluttuavano leggermente sopra il
pavimento di marmo.
Il re si alzò in piedi e si inchinò... eppure in qualche modo non appariva per nulla servile. Motivo di più per
apprezzarlo. «Vergine Scriba.»
«Wrath, figlio di Wrath.»
E poi... basta. Poiché era vietato rivolgere domande alla madre della razza, e poiché la madre di Payne rimase zitta,
dopo i saluti ci fu un gran silenzio.
Già, perché - che il destino ce ne scampi - non conveniva gravarla di alcuna richiesta. Ed era chiaro il motivo di quella
interruzione: sua madre voleva evitare ogni contatto tra Payne e il mondo esterno.
«Ora mi ritiro», disse Payne al re. Perché temeva quello che poteva uscirle di bocca se sua madre si fosse azzardata a
mandarla via.
Il re tese il pugno. «Arrivederci. A domani?»
«Con piacere.» Payne batté le nocche contro quelle del re, secondo l'uso che le aveva insegnato, e si diresse alla porta
che conduceva al santuario.
Al di là dei pannelli bianchi, l'erba di un verde brillante fu uno shock per i suoi occhi; battendo le palpebre,
oltrepassò il Tempio del Primale e scese verso gli alloggi delle Elette. Adesso fiori gialli, rosa e rossi crescevano in
assoluta libertà, allegri tulipani si mescolavano a giunchiglie e iris.
Tutti fiori primaverili, se ben ricordava dal breve periodo trascorso sulla Terra.
Lì al santuario era sempre primavera. Ma sempre agli inizi, senza mai giungere alla piena magnificenza e al caldo
sfacciato dell'estate. O almeno... a com'era l'estate in base alle sue letture.
L'edificio con colonne in cui risiedevano le Elette era suddiviso in tanti cubicoli che offrivano un minimo di intimità
alle inquiline. Per la maggior parte erano vuoti, adesso, e non solo perché le Elette erano una specie in via di
estinzione. Da quando il Primale le aveva "liberate", la collezione privata di eteree fannullone della Vergine Scriba si
stava assottigliando grazie ai viaggi sulla Terra.
Sorprendentemente, nessuna di loro aveva scelto di abbandonare per sempre la condizione di Eletta... ma, a
differenza di prima, se andavano nella residenza privata del Primale, erano autorizzate a tornare al santuario.
Payne andò direttamente ai bagni termali e provò un senso di sollievo nel vedere che non c'era nessuno. Sapeva che
le sue "sorelle" non capivano quello che faceva col re e preferiva godersi gli effetti rilassanti dell'esercizio fisico
lontana da occhi indiscreti.
La piscina comune per le abluzioni occupava un maestoso spazio marmoreo, e in fondo all'enorme vasca c'era una
cascata. Come per tutto il resto che accadeva al santuario, lì non vigevano le leggi della razionalità: il ruscello tiepido
che scorreva sopra il bordo di pietra bianca era sempre pulito, sempre fresco, pur non avendo una sorgente, uno
scarico o un sistema di depurazione evidente.
Payne si tolse la veste che lei stessa aveva modificato per renderla simile al judogi - come lo chiamava lui - di Wrath,
ed entrò nella piscina con addosso la biancheria intima. La temperatura era sempre perfetta... e le faceva venire una
gran voglia di un bagno troppo caldo o troppo freddo.
Al centro del grande catino di marmo, l'acqua era abbastanza profonda da permettere di nuotare; Payne fece qualche
bracciata, godendosi i movimenti privi di peso.
Sì, quella era decisamente la parte migliore degli incontri di lotta libera con Wrath. Salvo quando riusciva a mettere a
segno un bel colpo.
Giunta davanti alla cascata, sguazzò verso di essa sciogliendosi i capelli. Li aveva più lunghi di Wrath e aveva
imparato non solo a raccoglierli in una treccia, ma anche a fissarli sulla nuca per non offrirgli un appiglio con cui
strattonarla.
Sotto gli spruzzi l'attendevano saponette profumate; Payne se ne passò una su tutto il corpo. Quando si voltò per
sciacquarsi, scoprì di non essere più sola.
Ma almeno la figura claudicante vestita di nero non era sua madre.
«Salve», gridò Payne.
No'One si inchinò, ma non rispose, come sempre; tutt'a un tratto Payne si dispiacque di aver abbandonato la veste sul
pavimento.
«La prendo io», disse, facendo riecheggiare la voce per tutta la grotta.
No'One scosse la testa e raccolse l'indumento. La cameriera, amabile e taciturna, faceva il suo dovere senza
lamentarsi, malgrado la sua disabilità.
Sebbene non parlasse mai, non era difficile indovinare quale fosse la sua triste storia.
Motivo di più per disprezzare Colei che aveva generato la razza, pensò Payne.
Al pari dei membri della Confraternita del Pugnale Nero, le Elette erano state allevate entro determinati parametri
con l'intento di conseguire il risultato desiderato. Mentre i maschi dovevano essere forti e robusti, aggressivi e
valorosi in battaglia, le femmine erano state programmate per essere intelligenti, tenaci e dotate di grandi capacità di
recupero, capaci di imbrigliare gli istinti più bassi dei maschi e di civilizzare la razza. Lo yin e lo yang. Le due parti di
un tutto, con la garanzia che i due sessi fossero legati per sempre dal reciproco bisogno di bere il sangue dell'altro.
Nello schema divino, tuttavia, c'era qualcosa che non andava. Gli accoppiamenti tra consanguinei avevano dato
origine a dei problemi, e se nel caso di Wrath le leggi stabilivano che, in quanto figlio del re, poteva salire al trono
comunque, con o senza menomazioni, le Elette non erano altrettanto fortunate. Le leggi della procreazione selettiva
non ammettevano i difetti. Era così da sempre. Dunque una handicappata come No'One era relegata a servire le sue
sorelle sotto un mantello... un motivo di imbarazzo tenuto nascosto e di cui si preferiva non parlare, ma
ciononostante guardato con "amore".
O con "pietà", per meglio dire.
Payne sapeva esattamente come doveva sentirsi No'One. Non per quel suo difetto fisico, ma per essere relegata in
uno spazio carico di aspettative impossibili da soddisfare.
E, a proposito di aspettative...
Layla, un'altra Eletta, entrò nel bagno e si tolse la tunica porgendola a No'One con il sorriso gentile che la
contraddistingueva.
Ma appena abbassò gli occhi, entrando nell'acqua cambiò espressione. Sembrava assorta in pensieri tutt'altro che
piacevoli.
«Salve, sorella», la apostrofò Payne.
Layla alzò la testa di scatto, sorpresa. «Oh... ma guarda, non sapevo che ci fossi anche tu. Salve, sorella.»
Dopo un profondo inchino, l'Eletta si sedette su una delle panche di marmo sommerse; Payne non era un'amante
della conversazione, tuttavia qualcosa, nel profondo silenzio dell'altra, l'attrasse.
Finito di sciacquarsi, nuotò verso Layla, intenta a lavare i segni di un morso al polso, e si accomodò accanto a lei.
«Chi hai nutrito?» chiese Payne.
«John Matthew.»
Ah, sì, doveva essere il giovane menzionato dal re. «È andata come doveva andare?»
«Sì. Certo.»
Payne reclinò la testa all'indietro, contro il bordo della piscina, contemplando la bionda bellezza dell'Eletta. «Posso
chiederti una cosa?» mormorò un attimo dopo.
«Certamente.»
«Qual è il motivo di tanta mestizia? Sei sempre così... torni sempre afflitta.» Anche se già conosceva la risposta. Per
una femmina, essere costretta a fare sesso con qualcuno e a nutrirlo solo perché lo imponeva la tradizione, era una
violazione irragionevole.
Layla guardò i segni del morso sulla sua vena con una sorta di spassionata concentrazione, quasi meditasse sulle
ferite di un'altra persona. Poi scosse la testa. «Non posso lagnarmi dell'onore che mi è stato fatto.»
«Onore? In verità, sembra che tu sia vittima di tutt'altro.» Una maledizione sembrava il termine più appropriato.
«Oh, no, è un onore potersi rendere utile...»
«Suvvia, non celarti dietro simili espressioni quando il tuo viso tradisce il tuo cuore. Come sempre, se ti preme
rivolgere qualche critica alla Vergine Scriba, puoi confidarti con me.» Un paio di occhi verde pallido si alzarono di
scatto su di lei, scioccati. Payne si strinse nelle spalle. «Non ho mai fatto mistero di ciò che penso.»
«No... hai ragione. Solo, sembra così...»
«Poco signorile? Sconveniente?» Payne fece schioccare le nocche. «Peccato.»
Layla fece un lungo sospiro. «Sono stata educata come si conviene, sai. Come ehros.»
«Ed è ciò che non ti piace...»
«Niente affatto. E ciò che non conosco, ma che vorrei conoscere.»
Payne aggrottò la fronte, perplessa. «Non vieni utilizzata?»
«In verità, sono stata respinta da John Matthew, la sera della sua transizione, dopo che lo avevo assistito durante il
cambiamento. E quando mi reco a nutrire i fratelli, loro non mi toccano mai.»
«Chiedo scu...» Aveva capito bene? «Tu vuoi fare sesso. Con uno di loro.»
«Comprendi di certo, più di qualunque altra tra le mie sorelle, cosa significhi non poter esprimere appieno il proprio
potenziale», disse Layla in tono sagace.
Be'... ma allora non aveva capito proprio niente. «Con tutto il dovuto rispetto, non riesco a capire perché desideri
fare... quello... con uno di quei maschi.»
«Perché non dovrei? I fratelli e quei tre giovani guerrieri sono phearsome, creature magnifiche e forti. E ora che il
Primale non si accoppia più con noi...» Layla scosse la testa. «Dopo essere stata istruita a fondo nell'atto sessuale,
dopo averlo sentito descrivere c averne letto... voglio sperimentarlo in prima persona. Foss'anche solo per una volta.»
«Invero io non ho la benché minima inclinazione in tal senso. Non l'ho mai avuta e non credo che l'avrò mai.
Preferisco combattere.»
«Allora ti invidio.» «Oh?»
Gli occhi di Layla sembravano vecchissimi. «Molto meglio essere indifferenti che inappagati. Uno è un sollievo,
l'altro un vuoto gravato da un enorme fardello.»
No'One comparve con un vassoio di frutta tagliata a tocchetti e una caraffa di spremuta. «Non vuoi farci compagnia,
No'One?»
Layla sorrise alla cameriera. «Coraggio. Siediti qui con noi.»
Con un inchino e una scrollata del capo, No'One lasciò il pasto che aveva preparato con tanta sollecitudine e tornò
alle sue faccende, zoppicando oltre l'arcata, fuori dai bagni.
Tra Payne e l'Eletta Layla scese il silenzio. Accigliata, Payne rifletteva su quanto si erano appena dette; era arduo
comprendere come potessero avere opinioni tanto opposte... eppure avere entrambe ragione. Per il bene di Layla,
Payne si augurò di avere torto: che delusione sarebbe stata struggersi per qualcosa di tanto inferiore alle aspettative.
Capitolo 19
«Una femmina...» La voce sommessa, echeggiante, delI'Omega, risuonò più forte di quanto suggerisse il volume; le
due parole pervasero ogni angolo della stanza in pietra levigata che formava i suoi appartamenti privati.
Lash fece del suo meglio per apparire distaccato, appoggiandosi contro una delle pareti nere. «Mi serve per il suo
sangue.»
«Davvero.»
«È una questione di biologia.»
L'Omega si aggirava per il salone. Nella sua veste bianca faceva un figurone; col cappuccio alzato, le braccia conserte
e le mani infilate nelle ampie maniche svolazzanti, sembrava un alfiere degli scacchi.
Salvo che, naturalmente, lì era il re.
L'area in cui il Male dava udienza era grande più o meno quanto una sala da ballo e arredata in modo analogo, con
una quantità di lampadari a bracci e candelabri neri che reggevano moltitudini di candele nere. Era tutt'altro che
disadorna, tuttavia. Tanto per cominciare, in cima a tutti quei lucignoli risplendevano fiammelle rosse, ma,
soprattutto, pareti, pavimento e soffitto erano del marmo più straordinario che Lash avesse mai visto: da una certa
angolatura era nero, mentre da un'altra era di un rosso sangue metallico e, dato che la fonte d'illuminazione variava
di continuo, col tremolio delle fiammelle eri circondato da entrambi i colori contemporaneamente.
Non era difficile intuire il perché di un arredo simile. Visto il guardaroba dell'Omega, limitato a quelle tuniche
avvolgenti bianche come la neve, il centro dell'attenzione, l'unico elemento di spicco, era lui. Il resto era scena.
E governava così anche il suo mondo.
«E sarebbe una compagna per te, figlio mio?» chiese l'Omega dal fondo del salone.
«No», mentì Lash. «Solo una fonte di sangue.»
Era sconsigliabile dare all'Omega più informazioni del necessario: Lash sapeva bene quanto poteva essere volubile,
suo padre; la chiave dei rapporti con lui era volare sotto la quota radar.
«Non ti ho dato abbastanza forza?»
«La mia natura di vampiro è quella che è.»
L'Omega si voltò per averlo di fronte. Dopo una pausa, quella voce distorta sussurrò, «In effetti. Devo constatare che
è vero.»
«Te la porterò», disse Lash, staccandosi dal muro. «Alla fattoria. Stanotte. Tu la trasformerai e io avrò quello che mi
serve.»
«E non posso fornirtelo io?»
«Me lo fornirai, infatti. Tu la affilierai e io avrò la fonte di sangue necessaria a darmi energia.»
«Dunque, stai dicendo che sei debole?»
Miseriaccia, ma era ovvio. L'Omega era in grado di percepire le cose e di certo se n'era accorto già da tempo.
Di fronte al silenzio di Lash, L'Omega si avvicinò fino a trovarsi faccia a faccia con lui. «Non ho mai affiliato una
femmina.»
«Non sarebbe un membro a tutti gli effetti della Lessening Society. Sarebbe solo per me.»
«Per te.»
«Non c'è motivo di farla uscire a combattere.»
«E questa femmina. L'hai già scelta.»
«Sì.» Lash fece una risatina, pensando a Xhex e ai danni di cui era capace. «Sono sicuro che incontrerà la tua
approvazione.»
«Ne sembri proprio certo.»
«Ho buon gusto.»
Tutt'intorno le fiammelle rosse tremolarono sugli stoppini, come agitate da una brezza.
D'un tratto il cappuccio dell'Omega si abbassò, rivelando un volto traslucido, spettrale, identico alla versione in carne
e ossa di Lash.
«Torna da dove sei venuto», disse solenne l'Omega, alzando la mano tenebrosa e indistinta. Con una carezza sulla
guancia di Lash, il Male si voltò. «Torna da dove sei venuto.»
«Ci vediamo appena fa buio», disse Lash. «Alla fattoria.»
«Appena fa buio.»
«Preferisci più tardi? All'una? Vediamoci all'una.»
«Mi vedrai eccome.»
«Grazie, padre.»
L'Omega si allontanò fluttuando, il cappuccio tornò a posto da solo e un pannello scorrevole si aprì all'altro capo
della sala. Un attimo dopo Lash era solo.
Con un gran sospiro si stropicciò la faccia, guardando tutte
quelle fiammelle rosse e quelle pareti spettacolari. Quel luogo assomigliava un po' a un grembo.
Con un supremo atto di volontà, si catapultò fuori da Dhunhd, tornando alla squallida casetta che doveva usare come
piattaforma di lancio. Risvegliandosi nella sua forma corporea, provò un moto di disgusto: era steso su un divano
rivestito con una fodera dozzinale, il disegno stampato raffigurava delle foglie autunnali e la stoffa sembrava pelo di
cane... e aveva anche lo stesso odore.
Sempre che il suddetto quadrupede si fosse rotolato in un portacenere umido.
Alzò la testa e si tirò su la camicia fino al collo. Erano ancora lì. Le lesioni erano ancora lì e si allargavano sempre più.
E lui stava da schifo.
Si mise a sedere con mani tremanti; controllò il telefonino: niente da parte di nessuno. Niente messaggi di Mr D nella
casella vocale e nessun altro lesser si era fatto sentire. Logico. Tutto e tutti passavano attraverso il suo vice, quindi se
quel figlio di puttana aveva tirato le cuoia, la Società non era in grado di rintracciare Lash.
Forse il piccolo texano era stato anche troppo bravo come segretario particolare.
Spronato dalla fame, si trascinò in cucina e aprì il frigorifero. Vuoto. Salvo una scatola di bicarbonato di sodio Arm &
Hammer che avrebbero dovuto usare su quel divano.
Sbatté la porta del frigo col disprezzo più assoluto per il mondo e per tutti quelli che ci abitavano... anche se, più che
altro, quella era una conseguenza del non avere le sue uova con pancetta pronte ad aspettarlo.
In più, quel postaccio schifoso avrebbe fatto quell'effetto a chiunque. La casa era un nuovo acquisto e lui c'era stato
una volta sola... neanche Mr D sapeva che apparteneva alla Società. Lash l'aveva comprata a una vendita di beni
ipotecati perché avevano bisogno di posti per produrre la metamfetamina e quella topaia aveva uno spazioso
seminterrato. Incredibile che i precedenti proprietari non fossero stati in grado di estinguere l'ipoteca. Quella
stamberga era appena un gradino più su di un gabinetto esterno.
Forse mezzo gradino.
Andò in garage; salire sulla Mercedes fu un sollievo enorme... anche se gli scocciava dover passare da un McDonald's
per ordinare un Egg McMuffin e un caffè. Oltre tutto, gli sarebbe toccato aspettare in coda con un branco di
camionisti e di mamme in monovolume.
Sulla via del ritorno verso il palazzo di arenaria, il suo umore sprofondò sempre più in territorio Charles Manson... e
finì dritto giù nel cesso appena arrivò davanti al garage. La porta era ancora aperta, ma la Lexus era sparita.
Parcheggiò la Mercedes, chiuse la porta col telecomando e uscì.
Il giardino sul retro era relativamente intatto, ma sentì puzza di tesser non appena...
Fermo sulla terrazza, alzò gli occhi di scatto verso il primo piano. Oh, Dio...
Rinvigorito dal panico, Lash si mise a correre a più non posso, saltando in un colpo solo i gradini sul retro ed
entrando come una furia...
Di fronte al macello che gli si parò davanti, frenò di botto. Gesù... Cristo... la sua cucina.
Sembrava finita sotto una doccia d'olio. Per forza: non era rimasto molto di Mr D. Il torace del lesser era in mezzo alla
stanza, vicino all'isola, ma braccia e gambe erano sparpagliate tutt'intorno... e il tubo digerente pendeva dalle
maniglie degli armadietti, come macramè.
Per qualche miracolo, la testa era ancora attaccata al collo e gli occhi spalancati; quando vide che non era più solo,
cominciò a muovere la bocca; una supplica gutturale gli uscì dalle labbra, lucide di sangue nero rappreso.
«Razza di finocchio», sbottò Lash. «Ma guardati. Per l'amor del cielo!»
Maledizione, aveva problemi ben più grossi a cui pensare del suo vice ridotto a brandelli. Scavalcò d'un balzo quello
scempio, ii (traversò di volata la sala da pranzo e si precipitò su per le scale.
Irrompendo nella stanza che aveva condiviso con Xhex, non trovò niente di niente; solo il vuoto più totale... e una
finestra con dentro un buco.
«Porca troia!»
Si voltò di scatto e, attraverso la porta aperta, vide il segno sulla parete del corridoio. Avanzò a grandi passi, premette
il naso contro la tappezzeria di seta e inspirò. Nelle fibre della trama c'era l'odore di Xhex.
Era riuscita a evadere facendo appello a tutta la sua forza fisica.
Eppure era ancora nella stanza, dopo l'aggressione a Mr D. I I rateili erano tornati e l'avevano aiutata a scappare?
Una corsa veloce attraverso la casa, e l'umore di Lash passò dal fattivo al pessimo. Il portatile era sparito. E
mancavano anche i cellulari.
Porca troia.
Giù in cucina, puntò verso la dispensa per prendere...
«Oh, porca puttana!» S'inginocchiò per controllare il pannello divelto. Era sparito anche il suo gruzzolo? Come cavolo
avevano latto a trovarlo?
D'altronde, Mr D sembrava la cavia di un corso di anatomia, l'orse aveva vuotato il sacco. Il che significava che Lash
non poteva sapere con certezza quali altri indirizzi erano stati compromessi.
In un accesso d'ira sferrò un pugno, senza badare a quello che colpiva.
Un grosso vaso di olive.
Che andò in frantumi, spargendo salamoia ovunque; i piccoli frutti tondi simili a occhi rotolarono sul pavimento in
tutte le direzioni, in cerca di libertà.
Lash tornò in cucina, furioso, e si avvicinò a Mr D. La bocca insanguinata del lesser ricominciò a muoversi in uno
sforzo pietoso decisamente nauseante.
Allungandosi sopra il bancone, Lash estrasse una Henckels e calò con forza il calcio sulla testa del suo vice. «Gli hai
detto qualcosa?»
Mr D scosse la testa; Lash lo guardò negli occhi. Il bianco stava trascolorando nel grigio e le pupille dilatate
inghiottivano quasi tutta l'iride. Sembrava in punto di morte, ma abbandonato a se stesso era condannato a languire,
decomponendosi in eterno in quello stato. C'era un solo modo per "ucciderlo".
«Sei sicuro?» mormorò Lash. «Neanche quando ti hanno strappato via le braccia?»
Mr D mosse la bocca, emettendo dei gorgoglìi simili a cibo per cani bagnato che cade dal barattolo.
Con un'imprecazione disgustata, Lash pugnalò il petto vuoto del lesser, sbarazzandosi almeno di quella parte dello
scempio. Lo schiocco e il lampo svanirono in fretta; poi Lash si chiuse in casa, sprangando la porta di servizio prima
di salire un'altra volta al primo piano.
Gli ci volle una mezz'ora per mettere in valigia i vestiti. Scese le scale con sei pesanti borsoni Prada; non ricordava di
aver mai dovuto portare di persona i propri bagagli.
Dopo aver allineato il carico fuori, sui gradini posteriori, inserì l'allarme, chiuse a chiave la porta e faticosamente
trascinò le sue cose fino alla Mercedes.
Si allontanò al volante della macchina. Detestava l'idea di tornare in quella fottutissima topaia, ma al momento non
aveva alternative e doveva preoccuparsi di ben altro che dell'alloggio.
Doveva trovare Xhex. Da sola non sarebbe andata lontano, era troppo debole. Quindi doveva essere con la
confraternita.
Gesù Cristo... con suo padre in arrivo all'una di notte per l'affiliazione, doveva sbrigarsi a riprendersela. Altrimenti
doveva arrangiarsi, trovando qualcuno con cui sostituirla.
Il colpo che svegliò John risuonò forte come una fucilata; qualcuno stava bussando energicamente.
Appena lo sentì, si drizzò sul letto. Stropicciandosi gli occhi con un fischio che significava "avanti", pregò che fosse
solo Qhuinn col vassoio del Primo Pasto.
La porta rimase chiusa.
John abbassò le mani, accigliato.
Alzandosi in piedi, afferrò un paio di jeans e se li infilò, poi andò alla porta e... sulla soglia c'era Wrath con al fianco
George, e non era solo. Con lui c'erano anche i suoi due amici e Rehvenge, così come tutti gli altri fratelli, compreso
Tohr.
Oh... Dio... no.
Le mani gesticolavano frenetiche mentre il suo cuore si fermava di colpo. Dove avete trovato il cadavere?
«E viva», disse Rehvenge allungandogli un telefonino. «Ho appena ricevuto un messaggio. Premi quattro.»
John ci mise qualche istante ad assimilare l'informazione. Poi strappò il cellulare dalle mani di Rehv e premette il
tasto. Ci fu un bip e poi...
Cristo santo... la sua voce. La voce di Xhex.
«Rehv... sono libera. Mi sono liberata.» Seguì un sospiro lungo e profondo. «Sto bene. Sono tutta intera. Sono libera.»
Lunga pausa. Al punto che John stava per controllare se il... «Mi serve un po' di tempo. Sono al sicuro... ma non torno
per un po'. Mi serve un po' di tempo. Dillo a tutti... dillo... a tutti. Mi faccio sentire io.» Un'altra pausa, poi la sua voce
si fece più forte, rabbiosa. «Appena possibile... Lash è mio. Hai capito? Nessuno deve farlo fuori a parte me.»
Fine del messaggio.
John premette di nuovo il tasto quattro e ascoltò tutto una seconda volta.
Alla fine restituì il telefonino a Rehv e lo guardò dritto negli occhi color ametista. Sapeva benissimo che Rehv
conosceva Xhex da anni e anni, sapeva che condivideva con lei non solo una quantità di esperienze ma anche il
sangue symphath, cosa che per molti versi cambiava tutto, sapeva che era più vecchio, più saggio eccetera.
Ma il suo amore per Xhex lo poneva sullo stesso piano di Rehv.
Se non addirittura su uno superiore.
Dove potrebbe essere andata? chiese.
Dopo che Qhuinn ebbe tradotto, Rehv annuì. «Ha un capanno da caccia a ventiquattro-venticinque chilometri da qui.
A nord. Sul fiume Hudson. Penso che sia andata lì. Da lì ha accesso a un telefono ed è un posto sicuro. Ci vado
appena fa buio, da solo. A meno che non voglia venire anche tu.»
Nessuno sembrava sorpreso da quello scambio di battute... d'un tratto John si rese conto che il suo segreto, ormai,
non era più tale. Dopo il modo in cui si era comportato nella camera da letto di quella casa di arenaria... per non
parlare di come si era accanito contro quel lesser, tutti quanti ormai sapevano quello che provava per Xhex.
Ecco perché si erano presentati in gruppo. Era un riconoscimento della sua posizione, di ciò che gli era dovuto. I
diritti e i confini dei vampiri innamorati venivano rispettati, quando si trattava delle loro femmine.
John guardò Qhuinn: Digli che ci vado.
Qhuinn tradusse e Rehv annuì, poi si rivolse a Wrath. «Vado con lui e con lui soltanto. Non può portarsi dietro
Qhuinn. Avremo già abbastanza guai con Xhex piombando lì senza avvertire.»
Wrath si accigliò. «Dannazione, Rhev...»
«Lei è a rischio fuga. Ci sono già passato una volta. Se Xhex vede qualcun altro prenderà il volo e non chiamerà più. E
poi John... mi seguirebbe comunque, dico bene, figliolo? Scaricherai Qhuinn e mi seguirai comunque.»
John annuì senza esitare.
Qhuinn imprecò con violenza e Wrath scosse la testa. «Perché diavolo ti ho assegnato lui come ahstrux...»
Ci fu qualche secondo di silenzio carico di tensione, durante il quale il re parve riflettere. «Oh, per l'amor del cielo,
va bene...» disse alla fine. «Per questa volta ti lascio andare senza la tua guardia del corpo, ma non azzardarti ad
affrontare il nemico. Vai in quel capanno e basta, e poi torni qui e ti riprendi Qhuinn prima di uscire sul campo.
Intesi?»
John annuì e si voltò per andare in bagno.
«Dieci minuti», disse Rehv. «Hai dieci minuti e poi partiamo.»
A John ne bastarono quattro e al sesto era già da basso a camminare su e giù nell'atrio. Era armato fino ai denti, come
da protocollo, e coperto di cuoio protettivo. Ma, soprattutto, si sentiva vivo come non mai, col sangue che scorreva
alla velocità di un tornado.
Mentre camminava nervosamente si sentiva osservato. Dalla sala del biliardo. Dalla sala da pranzo. Dalla balconata
al primo piano. Bocche cucite, ma occhi a cui non sfuggiva niente.
I fratelli e gli altri abitanti della casa erano chiaramente scossi dal suo legame con Xhex, e poteva anche capirlo.
Sorpresa! Si era innamorato di una symphath.
Ma non puoi decidere di chi ti innamori... o cambiare i sentimenti di chi non ricambia il tuo amore.
Non che questo avesse importanza. Lei era viva!
Rehvenge scese lo scalone; il bastone rosso batteva i gradini coperti dalla passatoia ogni volta che mandava avanti il
piede destro. Era vestito non per andare in guerra, ma per stare al caldo, la lunga pelliccia di visone sfiorava la punta
delle scarpe stringate e i polsini dell'elegante completo nero.
Giunto davanti a John, annuì e fece strada verso il vestibolo. Insieme uscirono nella notte gelida.
L'aria odorava di pulito, di terra libera dalla morsa del gelo.
Il profumo della primavera. L'aroma stesso della speranza e della rinascita.
Avviandosi verso la Bentley, John inspirò a fondo trattenendo quella fragranza nei polmoni, dicendosi che Xhex
stava facendo la stessa identica cosa in quella stessa identica notte.
E non perché era sepolta sottoterra.
Le lacrime gli pungevano gli occhi e la gratitudine gli inondava le vene, pompata in tutto l'organismo da un cuore
euforico.
Non riusciva a credere che l'avrebbe rivista... Dio, vederla un'altra volta. Guardare in quei suoi occhi grigio piombo...
Merda, sarebbe stata dura non gettarle le braccia al collo, tenendola stretta fino al mattino dopo. O magari anche fino
alla settimana dopo.
Saliti in macchina, Rehv mise in moto, ma non partì. Guardava fuori dal parabrezza, il viale lastricato di ciottoli.
A voce bassa chiese, «Da quanto tempo provi questa cosa? Per lei.»
John tirò fuori un blocchetto che aveva portato con sé e scrisse: Dal primo momento che l'ho vista.
Rehv lesse e si accigliò. «Lei prova la stessa cosa per te?»
John scosse la testa, senza abbassare lo sguardo. Non aveva senso cercare di nascondersi. Non con un symphath.
Rehv annuì, reciso. «È proprio da lei. Maledizione... okay, andiamo.»
Con un rombo si allontanarono nella notte.
Capitolo 20
La speranza è un'emozione infida.
Soltanto due sere dopo, Darius potè finalmente entrare nella casa della fanciulla rapita; allorché il portone si spalancò
davanti a lui e Tohrment, un doggen li accolse con gli occhi tragicamente colmi di speranza. Il maggiordomo era invero
convinto di introdurre nella dimora del suo padrone due salvatori, piuttosto che due comuni mortali, tale era il riguardo
che trasudava dalla sua espressione.
Soltanto il tempo e i capricci della fortuna avrebbero rivelato se la sua fiducia fosse bene o mal riposta.
Darius e Tohrment vennero condotti senza indugio in uno studio elegante, dove un nobile si alzò faticosamente da una
poltrona foderata di seta.
«benvenuti, signori, grazie di essere venuti», esordì Sampsone, tendendo entrambe le mani per stringere quelle di Darius.
«Mi scuso di non avervi potuto ricevere prima. La mia diletta shellan...»
La voce del padrone di casa si incrinò e, nel silenzio che seguì, Darius si fece da parte. «Permettetemi di presentarvi il
mio collega, Tohrment, figlio di Hharm.»
Appena Tohrment si inchinò con la mano sul cuore, apparve chiaro che il figlio aveva le belle maniere che difettavano al
padre.
Il padrone di casa ricambiò l'inchino. «Gradite rifocillarvi?»
Darius scosse la testa, accomodandosi su una sedia; Tohrment rimase in piedi, alle sue spalle. «No, grazie», fece Darius.
«Ma forse potremmo parlare di quanto è accaduto in questa casa.»
«Sì, sì, naturalmente. Cosa volete sapere?»
«Tutto. Raccontateci... tutto.»
«Mia figlia... il mio faro nella tenebra...» Il padrone di casa prese un fazzoletto. «Era onesta e virtuosa. Non esiste
fanciulla più affettuosa...»
Pur sapendo di aver già perso due sere preziose, Darius concesse al padre qualche minuto per abbandonarsi ai ricordi,
prima di riportarlo al punto. «E quella notte, signore, quella notte terribile», tagliò corto, approfittando di una pausa.
«Cosa è accaduto qui, in questa casa?»
Il vampiro annuì, asciugandosi gli occhi. «Appena sveglia, si sentiva lievemente indisposta e per il suo bene le
consigliammo di restare in camera sua. A mezzanotte le servirono un pasto, e poi un altro ben prima dell'alba. Quella fu
l'ultima volta che fu vista. I suoi appartamenti per la notte si trovano al piano di sopra, ma, come il resto della
famiglia, ha anche delle stanze nel sotterraneo. Spesso, tuttavia, durante il giorno preferiva non scendere da basso con
noi e, potendo raggiungerla attraverso corridoi interni, pensavamo che fosse al sicuro...»
A quel punto il vampiro s'interruppe, soffocato dall'angoscia. «Quanto rimpiango di non avere insistito.»
Darius comprendeva perfettamente. «Troveremo vostra figlia. In un modo o nell'altro la troveremo. Ora, col vostro
permesso, gradiremmo visitare la sua camera da letto.»
«Prego.» Il padrone di casa rivolse un cenno del capo al doggen e il maggiordomo fece un passo avanti. «Silas sarà ben
lieto di accompagnarvi. Io... preferirei attendere qui.»
«Ma certamente.»
Quando Darius si alzò, il padre si protese ad afferrargli la mano. «Permettete una parola? In privato.»
Darius acconsentì e, dopo che Tohrment si fu allontanato col doggen, il padrone di casa si abbandonò di nuovo
pesantemente sulla poltrona.
«Invero... mia figlia era una fanciulla onesta. Virtuosa. Illibata...»
Nella pausa che seguì, Darius intuì qual era il timore del vampiro: se non la riportavano indietro in quello stato
virginale, l'onore della giovane, oltre a quello dell'intera famiglia, era a repentaglio.
«Non posso dirlo di fronte alla mia diletta shellan», riprese il vampiro. «Ma nostra figlia... Se è stata disonorata... forse
sarebbe meglio lasciare...»
Darius socchiuse le palpebre. «Preferireste che non venisse trovata.»
Quegli occhi spenti si riempirono di lacrime. «Io...» D'un tratto il vampiro scosse la testa. «No... no. La rivoglio
indietro. Non importa come, non importa in che stato... rivoglio mia figlia, naturalmente.»
Darius era restio a offrirgli conforto... che il solo pensiero di rinnegare il sangue del proprio sangue avesse sfiorato la
mente di quel padre era grottesco. «Ora gradirei andare nella stanza di vostra figlia.»
Il padrone di casa schioccò le dita e il doggen rientrò attraverso l'arcata dello studio.
«Da questa parte, signore», disse il maggiordomo.
Mentre veniva scortato attraverso la casa insieme al suo pupillo, Darius esaminò con cura finestre e porte. C'era
metallo dappertutto, per separare le lastre di vetro e rinforzare i robusti pannelli di quercia. Entrare di soppiatto non
sarebbe stato facile... ed era pronto a scommettere che ogni stanza, al primo come al secondo piano, era costruita allo
stesso modo... cosi come gli alloggi della servitù.
Mentre salivano le scale, ispezionò anche ogni quadro, tappeto e oggetto prezioso. Quella era una famiglia molto
altolocata, all'interno della glymera, con forzieri colmi di monete e un invidiabile albero genealogico. Dunque la
scomparsa di una figlia nubile non toccava solo le corde del cuore: la fanciulla era un bene negoziabile, con un preciso
valore di mercato. Con origini di tal fatta, una femmina in età da marito era una cosa meravigliosa... piena di
implicazioni sociali e finanziarie.
E non era tutto. In base alle medesime valutazioni, era vero anche il contrario: avere una tale figlia rovinata, nei fatti o
in seguito a maldicenze, era una macchia che solo dopo generazioni si poteva sperare, se non di cancellare, quanto meno
di veder sbiadire. Il padrone di quella casa senza dubbio amava sinceramente sua figlia, ma il peso di tutto ciò
distorceva il loro rapporto.
Avendolo guardato negli occhi, Darius era propenso a credere che egli preferisse vederla tornare a casa dentro una bara,
piuttosto che viva, ma defiorata. Questa seconda eventualità era una maledizione, la prima, invece, una tragedia che
avrebbe suscitato grande solidarietà.
Darius odiava la glymera. Veramente.
«Ecco gli appartamenti privati della signorina», disse il doggen, aprendo una porta.
Tohrment entrò nella stanza illuminata dalle candele. «Sono stati puliti? Sono stati riordinati dall'ultima volta che ci è
entrata lei?» chiese Darius.
«Naturalmente.»
«Lasciateci soli, prego.»
Il doggen fece un profondo inchino e sparì.
Tohrment si aggirava per la stanza, ammirando i tendaggi di seta e il salottino arredato con gusto. In un angolo c'era un
liuto e in un altro un bel ricamo terminato solo in parte. Libri di autori umani campeggiavano in bell'ordine su alcuni
scaffali, accanto a rotoli di pergamena nell'Antico Idioma.
Non c'era nulla fuori posto, questa era la prima cosa che si notava. Difficile dire se per opera della servitù o se perché
tutto era così al momento della scomparsa della fanciulla.
«Non toccare niente, intesi?» raccomandò Darius.
«Certamente», disse Tohrment.
Darius entrò nella sontuosa camera da letto. I tendaggi erano di un tessuto molto pesante, tale per cui la luce del sole
non poteva sperare di penetrare nella stanza, e la medesima stoffa era stata utilizzata per il letto a baldacchino.
Darius si avvicinò al guardaroba e aprì le ante intagliate. Splendidi abiti blu zaffiro, rosso rubino, giallo citrino e verde
smeraldo erano appesi gli uni accanto agli altri, carichi di magnifiche promesse. All'interno dell'armadio c'era una sola
gruccia vuota appesa a un gancio, come se la fanciulla avesse fatto la sua scelta per la serata.
Sul tavolo da toletta c'erano una spazzola e svariati vasetti di unguenti, oli profumati e ciprie in polvere. Tutti allineati
in file ordinate.
Darius aprì un cassetto... e si lasciò sfuggire una sommessa imprecazione. Astucci per gioielli. Piatti astucci di cuoio per
gioielli. Ne prese uno, fece scattare il fermaglio dorato e sollevò il coperchio.
Diamanti scintillarono alla luce delle candele.
Darius ripose la scatolina accanto alle compagne; in quel mentre Tohrment si fermò sulla soglia, posando lo sguardo sul
lussuoso tappeto intrecciato con fili di varie tonalità di giallo, rosso e pesca.
Alla vista del lieve rossore sul volto del giovane, Darius si rattristò per qualche motivo. «Non sei mai stato nel boudoir
di una femmina, dunque?»
Tohrment arrossì ancora di più. «Ehm... no, signore.»
Con la mano, Darius gli fece cenno di avvicinarsi. «Be', questo è lavoro. Meglio lasciare in un canto ogni timidezza.»
Tohrment si schiarì la gola. «Sì. Certo.»
Darius andò alle due portefinestre. Entrambe affacciavano su una terrazza e lui uscì, seguito dappresso da Tohrment.
«Si intravede qualcosa tra gli alberi, in lontananza», mormorò il giovane, avanzando verso la balaustra.
Era vero. Attraverso i rami spogli era visibile la magione della tenuta confinante. Per dimensioni e bellezza, la grande
casa era paragonabile a quella della fanciulla scomparsa, con torrette impreziosite da belle lavorazioni in ferro battuto
e graziosi giardini... ma, per quel che Darius riusciva a vedere, non era abitata da vampiri.
Darius si volse e attraversò il terrazzo da un capo all'altro, ispezionando finestre, porte, maniglie, cardini e serrature,
senza tralasciare nulla.
Non c'erano segni di effrazione e, col freddo che faceva, la giovane non avrebbe tenuto finestre o porte spalancate.
Il che significava che, o se n'era andata di sua spontanea volontà... oppure aveva aperto a chi poi se l'era portata via.
Sempre ammesso che il rapitore fosse penetrato da lì.
Darius guardò le stanze attraverso il vetro della portafinestra, tentando di immaginare cos'era accaduto.
Al diavolo il punto d'ingresso, era più importante individuare quello d'uscita. Era molto improbabile che il rapitore
l'avesse trascinata fuori attraverso la casa: doveva aver agito col favore delle tenebre, altrimenti la poveretta sarebbe
rimasta incenerita dal sole, e durante le ore notturne c'era sempre gente in giro per casa.
No, pensò. Dovevano essere usciti da quella suite.
Tohrment prese la parola. «Non c'è nulla in disordine, né dentro né fuori. Niente graffi sui pavimenti o segni sul muro, il
che significa...»
«Che potrebbe averli fatti entrare lei, senza opporre troppa resistenza.»
Darius tornò dentro e prese la spazzola. Tra le setole erano rimaste impigliate sottili ciocche chiare. Nessuna sorpresa,
visto che entrambi i genitori erano biondi.
La domanda era: cosa poteva indurre una fanciulla onesta a scappare dalla dimora di famiglia appena prima dell'alba,
senza lasciare traccia... e senza portare niente con sé?
Una prima risposta appariva evidente: un amante.
Non sempre i padri sanno tutto della vita delle loro figlie.
Darius guardò fuori, nella notte, lasciando vagare lo sguardo sui giardini e sugli alberi... e sulla magione vicina. Dei
fili... lì dentro c'erano dei fili utili a risolvere quel mistero.
La risposta che stava cercando era lì, da qualche parte. Doveva solo cucire insieme i vari pezzi.
«Cosa facciamo?» chiese Tohrment.
«Parliamo con i domestici. A tu per tu.»
Per la maggior parte, in dimore come quella, i doggen non si sarebbero mai sognati di dire qualcosa di inopportuno. Ma
quelle non erano circostanze normali ed era possibile che la pietà e la compassione per la poveretta avessero la meglio
sulla reticenza della servitù.
E a volte il retro della casa sa cose che il davanti ignora.
Darius si volse, dirigendosi a grandi passi verso la porta. «Ora spariremo.»
«Spariremo?»
Uscirono insieme in corridoio e Darius guardò a destra e a sinistra. «Precisamente. Vieni da questa parte.»
Scelse la sinistra perché nella direzione opposta c'era una porta a due battenti che si apriva su un'altra terrazza...
dunque era evidente che la scala di servizio non era da quella parte. Mentre avanzavano, oltrepassando numerose
stanze arredate con eleganza, Darius aveva il cuore gonfio di dolore, al punto che faticava a respirare. A distanza di due
decenni, le perdite patite gravavano ancora su di lui come un fardello, la caduta in disgrazia aveva tuttora una pesante
eco. Sentiva soprattutto la mancanza di sua madre, in verità. E dietro quel dolore c'era la fine della vita di agi e
raffinatezze che un tempo aveva condotto.
Faceva ciò per cui era nato e per cui era stato formato a garanzia del bene della razza, indulgeva a certe... debolezze e si
era guadagnato il rispetto dei compagni, in guerra. Ma non c'era gioia, per lui, in quella esistenza. Nessuna attrattiva.
Nessuna emozione.
Provava interesse da sempre solo per le cose graziose? Era così frivolo e superficiale? Se un giorno avesse avuto una
casa grande e bella con stanze a non finire piene di oggetti mirabili, sarebbe stato felice?
No, pensò, se sotto quegli alti soffitti non ci fosse stato nessuno.
Sentiva la mancanza di persone che, unite dagli stessi interessi e ideali, abitassero insieme, una comunità alloggiata
entro solide mura, un gruppo che fosse una famiglia, sia per vincoli di sangue che per elezione. I membri della
confraternita non vivevano insieme poiché Wrath il Giusto lo giudicava un rischio per la razza: se il nemico avesse
scoperto dove abitavano, tutti sarebbero stati in pericolo.
Pur comprendendo tale punto di vista, Darius non era certo di condividerlo. Se gli umani potevano vivere in castelli
fortificati nel bel mezzo dei loro campi di battaglia, anche i vampiri potevano fare altrettanto.
Quantunque, a essere onesti, la Lessening Society fosse un nemico alquanto più pernicioso.
A un certo punto, lungo il corridoio, finalmente trovarono ciò che Darius aveva sperato: una porta a vento che si apriva
su una scala di servizio del tutto disadorna.
Scendendo i gradini di pino, sbucarono in una piccola cucina; la loro comparsa interruppe il pasto in corso al lungo
tavolo di quercia, all'altro capo della stanza. I doggen ivi radunati balzarono in piedi posando in gran fretta boccali di
birra e tozzi di pane.
«Riprendete pure a desinare», disse Darius, incoraggiandoli con le mani a rimettersi seduti. «Gradiremmo conferire con
il sottomaggiordomo addetto al primo piano e con la cameriera personale della signorina.»
Tutti i domestici tornarono a sedersi sulle panche, salvo due, una anziana canuta e un giovane dal volto gentile.
«Potete indicarci, di grazia, un luogo tranquillo in cui appartarci?» chiese Darius rivolto al sottomaggiordomo.
«Abbiamo un piccolo salotto, da quella parte.» Così dicendo, il domestico accennò col capo a una porta accanto al
camino. «Lì troverete ciò che cercate.»
Darius annuì e, rivolto alla cameriera, pallida e tremante come se fosse nei guai, disse, «Non avete fatto nulla di male,
cara. Venite, sarà un colloquio breve e indolore, ve l'assicuro.»
Meglio iniziare da lei, pensò Darius: dubitava che avrebbe retto, se costretta ad attendere che terminassero col
sottomaggiordomo.
Tohrment fece strada e tutti e tre entrarono in un salottino spoglio, paragonabile a un fascio di pergamena bianco.
Come sempre accade nelle grandi proprietà, le stanze riservate alla famiglia erano arredate con grande sfarzo, mentre in
quelle della servitù si badava solo all'aspetto pratico.
Capitolo 21
Quando la Bentley di Rehv uscì dalla Statale 149 Nord per immettersi in una stretta stradina sterrata, John si sporse
in avanti verso il parabrezza. I fari illuminarono nudi tronchi d'albero mentre la berlina procedeva serpeggiando,
sempre più vicino al fiume, in un paesaggio ostile e fitto di vegetazione.
Il capanno da caccia che comparve a un certo punto non era niente di speciale: piccolo, scuro e senza pretese, con un
garage in un fabbricato a parte. Era rustico, ma in perfetto stato.
John aprì la portiera prima ancora che la Bentley si fermasse e si avviò verso la porta d'ingresso prima che Rehv
scendesse dal posto di guida. Il prepotente senso di paura che lo assalì era un buon segno, in realtà, lo aveva sentito
anche su alla colonia symphath-. era logico che Xhex proteggesse i suoi appartamenti privati con un analogo campo di
forza.
Attraversò il vialetto in terra battuta col rumore degli stivali che gli rimbombava nelle orecchie; appena mise piede
sull'erba marrone e trascurata del praticello, tutto piombò nel silenzio. Senza bussare, strinse la maniglia e,
mentalmente, ordinò alla serratura di scattare.
Solo che... non funzionò.
«Non riuscirai a entrare lì dentro con la forza del pensiero.» Rehv lo raggiunse con in mano una chiave di rame, la
infilò nella toppa e aprì.
La robusta porta venne spinta di lato e John scrutò nell'oscurità, accigliato, la testa piegata di lato, in attesa di sentir
scattare un allarme.
«Xhex non crede negli allarmi», spiegò sottovoce Rehv... prima di trattenerlo dal precipitarsi dentro. Alzando il tono,
chiamò, «Xhex? Xhex? Metti giù la pistola... siamo io e John.»
In qualche modo la sua voce suonava strana, pensò John.
Nessuna risposta.
Lasciando andare il braccio di John, Rehv accese le luci e insieme entrarono. La cucina era un semplice angolino, con
il minimo indispensabile: forno a gas, un vecchio frigorifero, un lavello in acciaio inossidabile funzionale e tutt'altro
che chic. Ma era tutto immacolato e in perfetto ordine. Niente posta e niente riviste in giro. Niente armi in vista.
Odore di chiuso. C'era odore di chiuso.
In fondo c'era un'unica stanza piuttosto grande con una fila di finestre affacciate sull'acqua. I mobili erano ridotti al
minimo: due sedie di vimini, un divano in rattan e un piccolo tavolo.
Rehv attraversò deciso la stanza, puntando dritto verso una porta chiusa sulla destra. «Xhex?»
Di nuovo quella voce. Appoggiò il palmo allo stipite, si accostò ai pannelli di legno e chiuse gli occhi.
Poi scrollò le enormi spalle.
Xhex non c'era.
John avanzò e, afferrando la maniglia, entrò nella camera da letto. Vuota. Così come il gabinetto, in fondo.
«Maledizione.» Rehv girò sui tacchi e uscì a grandi passi. Sentendo una porta che sbatteva sul lato del capanno
affacciato sul fiume, John immaginò che fosse uscito sulla veranda e adesso stesse fissando l'acqua.
Si guardò intorno, imprecando tra sé. Era tutto pulito e in ordine. Niente fuori posto. Niente finestre socchiuse per far
entrare un po' d'aria fresca o porte aperte di recente.
Lo si capiva dal sottile velo di polvere sulle maniglie e sui chiavistelli.
Forse Xhex era stata lì, ma adesso non c'era più. E, se c'era andata, non si era fermata a lungo né aveva fatto granché,
perchè non c'era traccia del suo odore.
Gli parve di averla perduta di nuovo.
Cristo, era convinto che saperla viva sarebbe bastato a farlo andare avanti... e invece l'idea che lei fosse da qualche
parte sul pianeta, ma non con lui, era stranamente paralizzante. In più, si sentiva come accecato dalla situazione;
ancora non sapeva i come, i dove e i perché di tutta la storia.
Bello schifo.
Alla fine raggiunse Rehv sulla piccola veranda esterna. Prese il blocco e scribacchiò in fretta qualcosa, sperando in
cuor suo che il symphath comprendesse le sue ragioni.
Rehv lesse da sopra la spalla quello che gli mostrava. Un attimo dopo disse. «Sì. Certo. Dirò loro che Xhex non era
qui e che sei venuto con me a mangiare da iAm. Così avrai tre o quattro ore di tempo, minimo.»
John si mise una mano sul petto, inchinandosi profondamente.
«Però non sognarti di andare a combattere. Non voglio sapere dove stai andando, sono affari tuoi. Se ti fai
ammazzare... io ho già un mucchio di problemi, ma tu diventeresti il più grosso di tutti.» Rehv riportò lo sguardo sul
fiume. «E non preoccuparti per lei. L'ha già fatto in passato. Questa è la seconda volta che viene... portata via così.»
La mano di John scattò in fuori, stringendo con forza l'avambraccio di Rehv. Lui non fece una piega... d'altronde
girava voce che non sentisse niente per colpa di quello che faceva per dominare il suo lato symphath.
«Già. Questa è la seconda volta. Lei e Muhrder stavano insieme...» Alla vista delle zanne di John, Rhev sogghignò. «È
stato tanto tempo fa, non hai motivo di preoccuparti. Xhex era andata alla colonia per motivi familiari. Loro però le
giocarono un brutto scherzo; non volevano più lasciarla andare. Quando Muhrder andò su a prenderla, i symphath
catturarono anche lui e le cose si misero molto male. Fui costretto a stringere un patto per liberarli tutti e due, ma
all'ultimo momento la famiglia di Xhex la vendette, proprio sotto il mio naso.»
John deglutì a fatica e, soprappensiero, usò la lingua dei segni. A chi?
«Umani. Lei però riuscì a liberarsi, proprio come stavolta. E poi se ne andò via per un po'.» Negli occhi color ametista
di Rehv si accese come un lampo. «È sempre stata tosta, ma dopo quello che le fecero quegli umani - qualunque cosa
fosse - si è indurita ancora di più.»
Quando, sillabò John.
«Una ventina di anni fa.» Rehv tornò a guardare l'acqua del fiume. «Per tua informazione, Xhex non scherzava in
quel messaggio. Non apprezzerà che qualcuno voglia diventare il suo eroe uccidendo Lash. Deve farlo da sola. Vuoi
un consiglio? Lascia che sia lei a venire da te, quando sarà pronta... e non starle tra i piedi.»
Già, be', molto probabile che Xhex non avesse nessuna fretta di mandargli un SMS, pensò John. Quanto alla faccenda
di Lash, non era sicuro di riuscire a starne fuori. Neanche per lei.
Per piantarla di rimuginare, tese la mano. Lui e Rhev si strinsero in un rapido abbraccio, poi John si smaterializzò.
Quando riprese forma era di nuovo all'Xtreme Park, dietro al capanno, a scrutare le rampe e i catini deserti. Lo
spacciatore capo non era tornato. E nessuno stava facendo skateboard. Più che logico, in entrambi i casi. La notte
prima c'era stato quel raid della polizia, con una caterva di sbirri in giro. Per non parlare della sparatoria.
Per un po' il parco si sarebbe trasformato in una città fantasma.
John si appoggiò contro il legno grezzo del capanno, i sensi all'erta. Era consapevole dello scorrere del tempo, un po'
per la luna che tracciava un arco sopra la sua testa, e un po' perché il suo cervello cominciava a rallentare, passando
gradualmente da una frenesia maniacale a un'agitazione più ragionevole. Sempre uno schifo, ma almeno più facile
da gestire.
Xhex era libera e lui non sapeva nemmeno in che stato fosse. Era ferita? Aveva bisogno di nutrirsi? Aveva...
Okay. Basta con quella solfa.
Forse era il caso di smammare. Wrath era stato molto chiaro sul divieto di combattere senza Qhuinn, e quella era
ancora da considerarsi una zona calda per il nemico.
All'improvviso capì dove doveva andare.
Staccandosi dal capanno, si fermò un attimo per guardarsi intorno. La sensazione di essere osservato, di essere
seguito, lo assalì un'altra volta... proprio come era accaduto al negozio di tatuaggi.
Stanotte, però, non aveva proprio l'energia per reggere una buona dose di paranoia, per cui, semplicemente, si
smaterializzò. Chi gli stava alle costole lo avrebbe scovato di nuovo, o forse no. Forse John sarebbe riuscito a
seminarlo nell'etere... l'una o l'altra eventualità gli era ugualmente indifferente.
Era decisamente distrutto.
Riprese forma a una manciata di isolati di distanza dalla casa in cui si era scatenato contro quel lesser, la notte prima.
Dalla tasca interna del giubbotto tirò furori una chiave di rame identica a quella che Rehv aveva usato al capanno di
caccia.
Ce l'aveva grosso modo da un mese e mezzo. Xhex gliel'aveva data una sera, quando le aveva detto che con lui il suo
segreto era al sicuro: non avrebbe detto a nessuno che lei era una symphath. Come i cilici, la portava sempre con sé,
ovunque andasse.
Sgattaiolando sotto i gradini d'ingresso di un palazzo in arenaria, infilò la chiave nella toppa e aprì la porta. Le luci
nell'atrio si accendevano automaticamente al minimo movimento, così il muro di pietra imbiancato a calce s'illuminò
all'istante.
John si premurò di chiudere a chiave il seminterrato prima di proseguire verso l'unica altra porta.
Già una volta Xhex gli aveva offerto riparo in quella sua tana segreta. Gli aveva dato accesso al monolocale quando
aveva avuto bisogno di stare da solo. John aveva approfittato dell'ospitalità e la conseguenza era stata che lei gli
aveva rubato la verginità.
Si era rifiutata di baciarlo, però.
Sempre la stessa chiave serviva ad aprire la porta della camera da letto; la serratura scattò senza problemi. Appena
spalancò i pannelli di metallo, la luce si accese e lui entrò...
Alla vista di quello che c'era sul letto, John si sentì morire: cuore e respiro si fermarono, le onde cerebrali cessarono, il
sangue gelò nelle vene.
Il corpo nudo di Xhex era raggomitolato sulle lenzuola.
Appena la luce invase la stanza, la sua mano si strinse intorno alla pistola posata sul materasso e puntata verso la
porta.
Non aveva la forza di alzare la testa o l'arma, ma era in grado di premere il grilletto, John ne era più che sicuro.
Alzò le mani mostrando bene i palmi, si spostò di lato e, con un calcio, chiuse la porta per proteggerla.
«John...» La sua voce era a malapena un sussurro.
Una solitaria lacrima rosso sangue sgorgò dall'occhio che lui poteva vedere; John la guardò scivolare lentamente
sopra la radice del naso e cadere sul cuscino.
Xhex ritrasse la mano dalla pistola e se la portò al viso, lentissimamente, un centimetro dopo l'altro, come se dovesse
fare appello a tutte le sue forze per sollevarla. Si coprì nell'unico modo che poteva, nascondendogli le lacrime dietro
lo scudo del palmo e delle dita.
Era tutta coperta di lividi ed escoriazioni a vari stadi di guarigione ed era dimagrita al punto che le ossa sembravano
in procinto di perforare la carne. La pelle era grigiastra, invece che di un sano colore rosato, e il suo odore naturale era
quasi inesistente.
Stava morendo.
L'orrore di quella scena gli fece tremare le ginocchia, tanto che dovette appoggiarsi contro la porta per non cadere.
Barcollava, ma il suo cervello si mise in moto. La dottoressa Jane doveva venire a visitarla e Xhex aveva bisogno di
nutrirsi.
Non restava molto tempo.
Se voleva salvarla, doveva prendere in pugno la situazione.
Si strappò via il giubbotto e in fretta si rimboccò la manica della maglietta, avvicinandosi al letto. La prima cosa che
fece fu coprire con delicatezza la sua nudità, avvolgendola nel lenzuolo. La seconda fu avvicinarle il polso alla
bocca... e aspettare che l'istinto avesse il sopravvento.
Forse la sua mente non lo voleva, ma il suo corpo non ce l'avrebbe fatta a resistere a ciò che lui aveva da offrirle.
L'istinto di sopravvivenza l'aveva sempre vinta sugli affari di cuore. Lui ne era la prova vivente.
Capitolo 22
Xhex sentì una leggera carezza alla spalla e al fianco quando John la coprì coi lenzuolo.
Da dietro il riparo della sua mano, inspirò a fondo e sentì un buon odore di pulito, di maschio sano... e quell'odore le
riaccese la fame nelle viscere, l'appetito e i suoi bisogni si ridestarono dal sonno con un ruggito.
E questo prima che John le accostasse il polso alle labbra, così vicino che poteva baciarlo.
Il suo istinto di symphath sgusciò fuori per leggere le emozioni di John.
Era calmo e determinato. Saldissimo, nella testa e nel cuore: le avrebbe salvato le chiappe, fosse l'ultima cosa che
faceva.
«John...» sussurrò.
Il problema di quella situazione... be', uno dei problemi... era che John non era l'unico a sapere quant'era vicina alla
morte.
La rabbia verso Lash l'aveva tenuta in vita durante la prigionia e le sevizie, e credeva che anche da libera l'avrebbe
aiutata a tirare avanti. Subito dopo la telefonata a Rehv, invece, tutta la sua energia si era come prosciugata. Le restava
solo il battito cardiaco. E non era neanche un gran battito, per giunta.
John avvicinò ancora di più il polso... fino a sfiorarle la bocca.
Le zanne di Xhex si allungarono fiaccamente e il cuore ebbe come un singulto, come se non funzionasse bene.
Poteva scegliere, in quel momento sospeso e carico di tensione: attaccarsi alla sua vena e sopravvivere, oppure
respingerlo e morire davanti a lui nel giro di un'ora o poco più. Perché lui non se ne sarebbe andato.
Tolse la mano dalla faccia e spostò gli occhi su di lui. Era bello come sempre, con un viso che era il sogno di tutte le
femmine.
Alzò il palmo per toccarlo.
Negli occhi di lui si accese un lampo di sorpresa; poi John si chinò per permetterle di posargli la mano sulla guancia
calda. Lo sforzo di tenere la mano alzata si rivelò superiore alle sue forze; sentendo il tremore delle dita, John posò il
palmo sopra il suo, tenendolo fermo dov'era.
I suoi occhi blu scuro, lo stesso colore del cielo che si sta oscurando, erano una sorta di firmamento caldo, di paradiso.
Doveva prendere una decisione. Bere il suo sangue o...
Non trovando l'energia per completare il pensiero, provò un senso di smarrimento: sembrava cosciente, quindi
doveva essere viva... eppure non era più lei. La voglia di lottare era svanita da tempo, la cosa che più di ogni altra
l'aveva definita era evaporata. Più che logico. Vivere non le importava più, e non poteva fingere, né per lui né per se
stessa.
Due esperienze di prigionia l'avevano logorata troppo.
Dunque... che fare, che fare?
Si passò la lingua sulle labbra secche. Era nata in condizioni che, potendo, in piena libertà, non avrebbe mai scelto e
il resto del suo percorso, il tempo passato a respirare, mangiare, combattere e scopare, non aveva migliorato quel
punto di partenza. Però poteva andarsene alle sue condizioni... e dopo aver sistemato le cose.
Già, ecco la risposta. Grazie alle ultime tre settimane e mezzo aveva una bella lista di cose da fare, prima di morire.
Sopra c'era un solo nome, certo, ma a volte basta questo a motivarti.
In un impeto di determinazione la sua corazza esterna si riformò, lo strano senso di sconcerto che le aveva offuscato
la mente si dissipò, lasciandosi dietro una acuta consapevolezza. Bruscamente sfilò la mano da sotto quella di John,
provocando con quel gesto un picco di timor panico sulla sua griglia emotiva. Poi tirò il suo polso verso di sé,
scoprendo le zanne.
II senso di trionfo di John fu come un'ondata di calore.
Almeno finché non apparve chiaro che Xhex non aveva la forza
di incidere la pelle... gli incisivi graffiavano la superficie e niente di più. John allora reagì con prontezza. Con mossa
fulminea si morse la vena, avvicinandole alle labbra quella fonte di vita.
Il primo assaggio fu... una trasformazione. Il sangue di John era così puro che le divampò prima in bocca e poi giù in
gola... e il fuoco che le accese nello stomaco si diffuse in tutto il corpo, sciogliendola, rinvigorendola. Salvandola.
Succhiando avidamente, bevve il suo sangue per riprendersi, ogni sorso una scialuppa di salvataggio su cui strisciare,
una fune lanciata oltre la scogliera della sua dipartita, la bussola necessaria a ritrovare la strada di casa.
Lui le faceva dono di sé senza aspettative, speranze o emozioni di sorta.
Cosa che, anche nella sua frenesia, la addolorò. Gli aveva proprio spezzato il cuore: non gli aveva lasciato più nessun
desiderio da coltivare. Non lo aveva spezzato del tutto, però... e questo glielo faceva rispettare come nessun altro al
mondo.
Mentre si nutriva, il tempo scorreva come il sangue di John, dentro l'infinito e dentro di lei.
Finalmente sazia, si staccò dal suo polso, leccando la ferita per rimarginarla.
Ben presto cominciarono i tremiti. Iniziarono alle mani e ai piedi, per concentrarsi quasi subito nel petto, tremori
incontrollabili che le fecero battere i denti, annebbiandole il cervello e la vista; si sentiva come un calzino gettato in
una asciugatrice.
Scossa dai brividi, vide che John prendeva il cellulare dal giubbotto.
Cercò di afferrarlo per la maglietta. «N-n-n-no. N-n-non...»
Lui la ignorò, inclinando quel dannato telefono per digitare un SMS.
«C-c-c-cazzo...» gemette lei.
Quando John chiuse il telefonino di scatto, Xhex disse. «S-s-se ades-s-so provi a p-p-portarmi da H-H-Havers... t-t-te
n-ne p-p-pentirai.»
Il suo terrore per le cliniche e le procedure mediche l'avrebbe sconvolta, e grazie a lui, al suo sangue, adesso aveva
l'energia per sfogare il suo panico. Sarebbe stato un vero spasso per tutti loro.
John tirò fuori un blocco e scribacchiò qualcosa. Poi lo voltò verso di lei e, un attimo dopo, uscì; quando la porta si
chiuse, Xhex non potè fare altro che chiudere gli occhi.
Aprì le labbra per respirare dalla bocca. Chissà se aveva la forza di alzarsi, vestirsi e uscire prima che la brillante idea
di John si materializzasse. Un rapido controllo le disse che era escluso. Se non riusciva ad alzare la testa e a tenerla
sollevata dal cuscino per più di mezzo secondo, come poteva sperare di mettersi in verticale?
John non ci mise molto a tornare con la dottoressa Jane, il medico personale della Confraternita del Pugnale Nero. La
femmina spettrale aveva con sé una borsa nera e trasudava il tipo di competenza medica che Xhex ammirava... ma che
avrebbe infinitamente preferito vedere applicata ad altri, invece che a se stessa.
Jane si avvicinò e posò a terra le sue cose. La giacca bianca e il camice da chirurgo apparivano solidi, anche se faccia e
mani erano traslucidi. Tutto cambiò, tuttavia, appena si sedette sul bordo ilei letto. Ogni cosa in lei prese forma e la
mano che posò sul braccio di Xhex era calda e pesante.
Per quanto compassionevole, tuttavia, la dottoressa le faceva accapponare la pelle. Non voleva proprio essere toccata
da nessuno.
Jane tolse la mano e Xhex ebbe la sensazione che avesse capito ni volo. «Prima di mandarmi via, dovrebbe sapere un
paio di cose.
Anzitutto, non dirò a nessuno dove si trova e non rivelerò a nessuno quello che lei mi dirà o quello che emergerà
dalla visita. Dovrò informare Wrath che l'ho visitata, ma tutto ciò che scoprirò sul piano clinico resterà strettamente
riservato.»
Suonava bene. In teoria. Ma non voleva che quella donna le si avvicinasse con quello che c'era in quella borsa nera.
«Secondo», proseguì Jane, «io non so un accidente di niente dei symphath. Quindi, se dal punto di vista anatomico c'è
qualcosa di diverso o di rilevante in quella metà della sua persona... non è detto che sia in grado di curarlo.
Acconsente ancora a farsi visitare da me?»
Xhex si schiarì la gola, cercando di bloccare le spalle per non tremare troppo. «Non v-voglio essere visitata.»
«E quello che ha detto John. Ma lei ha subito un trauma...»
«N-n-non è stato così terribile.» Percepì la reazione emotiva di John a quell'affermazione, ma non aveva la forza di
analizzare nel dettaglio ciò che stava provando. «Sto b-b-bene...»
«Allora dovrebbe vederla come una semplice formalità.»
«Ho l'a-a-aria di una che bada alla forma?»
Jane socchiuse gli occhi verde scuro. «Ha l'aria di una che è stata picchiata, che non si è nutrita in modo adeguato e
che non ha dormito abbastanza. A meno che non voglia raccontarmi che quel livido viola alla spalla è ombretto e che
quelle borse sotto gli occhi sono un miraggio.»
Xhex era abituata alla gente che non accetta un no come risposta... aveva lavorato per anni con Rehv, tanto per dirne
una. Dal suo tono, pacato ma fermo, era chiarissimo che la dottoressa voleva averla vinta a tutti i costi. O
l'accontentava o quella non se ne sarebbe andata. Mai.
«M-m-m-maledizione.»
«Per la cronaca, prima cominciamo, prima finiamo.»
Xhex lanciò un'occhiata a John; se proprio dovevano visitarla, lui non doveva «ssere presente. Non c'era nessun
bisogno che sapesse più di quanto probabilmente aveva già intuito dello stato in cui si trovava.
La dottoressa si voltò a guardarlo da sopra la spalla. «John, ti spiace aspettare in corridoio, per favore?»
John chinò il capo e uscì dalla stanza, la distesa impressionante della sua schiena scomparve oltre la porta. Quando la
serratura scattò, la dottoressa aprì quella borsa della malora e stetoscopio e sfigmomanometro furono i primi a saltare
fuori.
«Voglio solo auscultarle il cuore», disse, infilandosi la forcella nelle orecchie.
La vista degli strumenti medici agì come benzina sul fuoco per i tremiti di Xhex che, per quanto confusa e
disorientata, si ritrasse.
Jane si fermò. «Non le farò male. E non le farò niente contro la sua volontà.»
Xhex chiuse gli occhi e rotolò sulla schiena. Ogni muscolo del corpo cominciò a dolerle all'improvviso. «Forza,
leviamoci il pensiero.»
Appena il lenzuolo venne sollevato, sentì l'aria fredda sulla pelle e il disco gelido dello stetoscopio sullo sterno.
Ricordi del passato minacciarono di farla strillare come su un ottovolante da brivido; Xhex fissò il soffitto,
sforzandosi di non levitare sopra quel maledetto materasso.
«F-faccia alla svelta, d-d-dottoressa.» Non poteva tenere a bada il panico più di tanto.
«Può farmi un bel respiro?»
Xhex fece del suo meglio e si ritrovò a contrarre il viso in una smorfia di dolore. Una o più vertebre dovevano essere
fratturate, per l'impatto contro il muro fuori da quella camera da letto, forse.
«Riesce a mettersi seduta?» chiese Jane.
Xhex imprecò con un gemito, mentre tentava di sollevare il busto dal letto senza riuscirci. Jane alla fine fu costretta
ad aiutarla; quando la dottoressa le tastò la schiena, Xhex si lasciò sfuggire un sibilo soffocato.
«Non fa poi così male», disse a denti stretti.
«Non so perché, ma ne dubito», commentò la dottoressa, ricominciando a spostare il disco metallico. «Respiri più a
fondo che può senza farsi male.»
Xhex ci provò e fu sollevata quando la dottoressa, con delicatezza, la spinse di nuovo giù sui cuscini, coprendola col
lenzuolo.
«Posso controllare se ha delle ferite alle braccia e alle gambe?» Xhex si strinse nelle spalle; allora Jane mise da parte
lo stetoscopio e si spostò ai piedi del letto. Un'altra corrente d'aria indicò i he il lenzuolo veniva tirato indietro... poi
l'altra femmina esitò.
«Segni di legatura molto profondi intorno alle caviglie», mormorò, quasi tra sé.
Be', perché Lash a volte la legava col filo di ferro.
«Numerose escoriazioni...»
Xhex interruppe l'ispezione quando sentì il lenzuolo all'altezza «lei fianchi. «Diciamo solo che arrivano su fino al
collo, okay?»
Jane rimise a posto il lenzuolo. «Posso palparle l'addome?»
«Si accomodi.»
Xhex si irrigidì al pensiero di venire scoperta di nuovo, ma la dottoressa si limitò ad appiattire bene il lenzuolo prima
di procedere alla palpazione. Purtroppo fu impossibile nascondere le smorbi di dolore, specie in prossimità del basso
ventre.
La dottoressa si raddrizzò e guardò Xhex dritto negli occhi. «C'è qualche speranza che si lasci fare una visita interna?»
«Interna in che senso...?» Appena Xhex afferrò il significato, scosse la testa. «No. Neanche morta.» «Ha subito
violenza sessuale?»
«No.»
Jane annuì, recisa. «C'è altro che dovrei sapere e che non mi ha detto? Dolori in qualche punto specifico?»
«Sto bene.»
«Lei sanguina. Non credo che se ne sia accorta. Ma sta sanguinando.»
Xhex si accigliò, guardandosi le braccia tremanti.
«Ha del sangue fresco all'interno delle cosce. Ecco perché le ho chiesto se potevo procedere a una visita ginecologica.»
Xhex venne assalita dalla paura.
«Glielo chiedo un'altra volta. Ha subito violenza sessuale?» Non c'era traccia di emozione dietro quelle parole
professionali, e la dottoressa aveva indovinato. Xhex avrebbe accolto con freddezza qualunque isterismo o pietà
eccessiva e sdolcinata.
Non ottenendo risposta, Jane interpretò correttamente il suo silenzio. «C'è qualche possibilità che sia rimasta
incinta?» Oh... Dio.
I cicli dei symphath erano bizzarri e imprevedibili e lei era stata talmente presa dal dramma della cattura e della
prigionia, che non aveva neanche pensato alle possibili ripercussioni.
In quel momento detestò il fatto di essere femmina. Profondamente.
«Non lo so.»
Jane annuì. «Da cosa lo capirebbe, se lo fosse?»
Xhex scosse la testa. «E impossibile che sia incinta. Il mio fisico ne ha passate troppe.»
«Si lasci visitare, okay? Solo per essere sicuri che non c'è niente che non va. Dopo, vorrei portarla al quartier generale
della confraternita per farle un'ecografia. Si è agitata parecchio quando le ho tastato l'addome. Ho chiesto a V di
venire con un'auto... ormai dovrebbe essere quasi arrivato.»
Xhex sentiva a stento quello che Jane le stava dicendo. Era troppo assorta a ripercorrere l'ultimo paio di settimane. Il
giorno prima del rapimento aveva fatto l'amore con John. Quell'ultima volta. Forse...
Se era incinta si rifiutava categoricamente di credere che c'entrasse qualcosa con Lash. Sarebbe stato troppo crudele.
Troppo crudele, cazzo.
E poi, forse, sanguinava per qualche altro motivo.
Tipo un aborto spontaneo, insistette a rimarcare una parte del suo cervello.
«E va bene», disse alla fine. «Però si sbrighi. Queste cose non mi piacciono neanche un po', e se la visita dura più di
qualche minuto potrei dare i numeri».
«Farò in fretta.»
Xhex chiuse gli occhi facendosi forza e subito nella sua testa partì una piccola proiezione di diapositive. Prima
diapositiva: il suo corpo su un tavolo d'acciaio inossidabile in una stanza piastrellata. Seconda diapositiva: caviglie e
polsi le venivano legati. Terza: medici umani con occhi invasati, da ritardati mentali, le si avvicinavano. Quarta: una
videocamera puntata in faccia, che poi faceva una panoramica verso il basso. Quinta: un bisturi scintillava alla luce
che pioveva dal soffitto.
Snap. Snap.
Alzò le palpebre di scatto, incerta se quegli schiocchi fossero nella sua testa o nella stanza. Era la seconda ipotesi. La
dottoressa Jane si era infilata i guanti di lattice.
«Sarò delicata», la rassicurò Jane.
Relativamente, ovvio.
Xhex strinse il lenzuolo nei pugni, irrigidendosi dalla testa ai piedi, e sentì contrarsi i muscoli all'interno delle cosce.
La buona notizia era che quell'irrigidimento istintivo la guarì dalla balbuzie. «Faccia veloce, per favore.»
«Xhex... voglio che mi guardi. Subito.»
Xhex voltò la testa. «Cosa?»
«Mi guardi negli occhi. Qui.» La dottoressa indicò i suoi occhi. «Li guardi fissi. Mi guardi in faccia e si ricordi che
anch'io ho subito lo stesso tipo di visita, okay? So esattamente cosa sto facendo, e non solo perché me l'hanno
insegnato.»
Xhex si sforzò di concentrarsi e... Gesù, funzionava davvero. Guardare quegli occhi verdi la aiutava sul serio. «Lo
sentirà.»
«Come dice?»
Xhex si schiarì la gola. «Se sono... incinta, lo sentirà.»
«In che modo?»
«Quando... ci sarà come una impronta. Dentro. Non...» Inspirò a fatica, attingendo ai racconti che aveva sentito dalla
gente di suo padre. «Le pareti non saranno lisce.»
La dottoressa Jane non batté ciglio. «Ho capito. È pronta?»
No. «Sì.»
Alla fine della visita, Xhex era tutta un sudore freddo e quella costola fratturata urlava per i suoi respiri affannosi.
«Mi dica tutto», disse con voce roca.
Capitolo 23
«Ti sto dicendo... che Eliahu è vivo. Eliahu Rathboone... è vivo.»
Ritto davanti alla finestra della sua stanza, nella magione di Eliahu Rathboone, Gregg Winn stava contemplando la
tillandsia, quella pianta così caratteristica della Carolina del Sud. Al chiaro di luna i lunghi filamenti facevano
accapponare la pelle, come l'ombra proiettata da un oggetto... o da un corpo non meglio identificato.
«Gregg, mi hai sentito?»
Gregg si stropicciò gli occhi nel tentativo di scacciare il sonno, I poi si voltò a guardare da sopra la spalla la sua
attraente, giovane collaboratrice. Holly Fleet era ferma appena oltre la soglia, i lunghi capelli biondi raccolti in una
coda di cavallo, il viso struccato, gli occhi non più così grandi o maliardi, senza le ciglia finte e tutta quell'altra roba
luccicante che si metteva prima di comparire da vanti alla telecamera. In compenso, la vestaglia di seta rosa non
faceva nulla per nascondere il suo fisico mozzafiato.
E in pratica stava vibrando, neanche il suo diapason interno fosse stato colpito con forza spropositata.
«Ti rendi conto», farfugliò assonnato Gregg, «che quel figlio di buona donna è morto più di centocinquant'anni fa.»
«Allora qui c'è davvero il suo fantasma.»
«I fantasmi non esistono.» Gregg tornò a voltarsi verso il panorama fuori dalla finestra. «Dovresti saperlo meglio di
chiunque altro.»
«Questo qui esiste.»
«E mi hai svegliato all'una di notte per dirmi questo?»
Non era stata una mossa astuta. La notte prima tutti e tre non avevano praticamente chiuso occhio e lui aveva passato
la giornata
al telefono con Los Angeles. Si era infilato sotto le coperte un'ora prima, senza illudersi di riuscire a dormire... ma per
fortuna il suo corpo aveva altri progetti.
O era così oppure il suo cervello gli stava dicendo di gettare la spugna perché le cose non procedevano bene. Quel
maggiordomo si rifiutava di cambiare idea sulla questione del permesso; Gregg era tornato alla carica due volte, ma
entrambi gli approcci erano stati respinti, quello a colazione cortesemente declinato, quello a cena apertamente
ignorato.
Nel frattempo avevano già inviato alla base una gran quantità di filmati. Grazie al potere evocativo delle riprese
girate di nascosto, i pezzi grossi gli avevano dato il via libera per spostare lì lo speciale... ma lo stavano pressando per
avere un promo da trasmettere prima possibile.
Cosa impossibile finché il maggiordomo non cedeva.
«Pronto?» sbottò Holly, piccata. «Mi stai ascoltando?»
«Cosa c'è?»
«Io voglio andare.»
Gregg si accigliò; col cervellino che si ritrovava, quella poteva spaventarsi solo per un TIR col suo nome stampato
sulla griglia del radiatore. «Andare dove?»
«A Los Angeles.»
Gregg quasi sobbalzò. «Los Angeles? Stai scherzando... Okay, levatelo dalla testa. A meno che tu non voglia tornare
indietro con uno scomodissimo volo low cost. Abbiamo un lavoro da fare, qui.»
Il che visto che il maggiordomo aveva la luna per traverso, comportava una buona dose di maneggi e suppliche. E
queste ultime erano il pane di Holly. E poi... se era spaventata, questo giocava ;i loro favore. Poteva far leva sulla
paura. Gli uomini di solito reagiscono bene a quel genere di stimolo... specie i perfetti gentiluomini con la cavalleria
al posto del midollo nelle vecchie ossa l'insecchite.
«Davvero, io...» Holly si strinse intorno al collo i baveri di seta... e il davanti della vestaglia si tese sui capezzoli
turgidi. «Io
ho una fifa blu.»
Hmm. Se era uno stratagemma per infilarsi nel suo letto... non era poi così stanco. «Vieni qui.»
Gregg tese le braccia e, quando Holly andò a premersi contro
di lui, sorrise da sopra la sua testa. Dio, che buon odore aveva. Non quella fragranza floreale che si spruzzava di
solito, ma qualcosa di più intenso e penetrante. Buono.
«Lo sai che devi stare con noi, piccola. Ho bisogno della tua magia.»
Fuori, la tillandsia fluttuava nella brezza; il chiaro di luna creava l'illusione che fosse chiffon, tanto che gli alberi
sembravano in abito da sera.
«Qui c'è qualcosa che non va», disse lei contro il suo petto.
Giù di sotto, sul prato, comparve una figura solitaria. Camminava con tutta calma. Stan che andava a farsi una
passeggiatina fumandosi l'ennesima canna, chiaramente.
Gregg scosse la testa. «L'unica cosa che non va è quel maledetto maggiordomo. Non vuoi diventare famosa? Uno
speciale qui ti aprirà un sacco di porte. La prossima volta potresti presentare Ballando con le stelle. O il Grande
Fratello.»
Capì di aver catturato la sua attenzione perché sentì il suo corpo rilassarsi e, per aiutarla ulteriormente, le accarezzò la
schiena.
«Così, brava.» Intanto seguiva con lo sguardo Stan che vagava per il prato con le mani in tasca, la testa voltata
dall'altra parte rispetto alla casa, i lunghi capelli agitati dal vento. Un altro paio di metri e, uscendo da sotto gli alberi,
sarebbe stato inondato dalla luce della luna. «Senti, voglio che resti qui con me... come ho già detto, tu meglio di
chiunque altro dovresti sapere che queste storie di fantasmi sono sempre solo pavimenti che scricchiolano. Abbiamo
un lavoro proprio perché la gente vuole credere a queste stronzate da pelle d'oca.»
Neanche a farlo apposta, qualcuno salì le scale proprio in quel momento, i passi leggeri accompagnati da effetti
speciali degni di Vincent Price, col silenzio rotto dai gemiti e dai lamenti del legno antico.
«E di questo che hai paura? Qualche scricchiolio nella notte?» disse Gregg, scostandosi per guardarla. Le labbra
carnose di Holly gli riportarono alla mente alcuni ricordi molto piacevoli; le accarezzò la bocca col pollice; forse se le
era fatte siliconare ancora un po'. Sembravano supergonfie e belle.
«No...» sussurrò lei. «Non è per quello.»
«Allora perché credi che ci sia un fantasma?»
Bussarono alla porta; poi la voce di Stan giunse soffocata. «Voi due state scopando oppure adesso posso andare a
letto?»
Gregg si accigliò, voltando la testa di scatto verso la finestra. La figura solitaria uscì in piena vista, lasciandosi
illuminare dalla luna... e scomparve nel nulla.
«Perché ci ho appena fatto sesso», spiegò Holly. «Ho fatto sesso con Eliahu Rathboone.»
Capitolo 24
Fuori in corridoio, a casa di Xhex, John stava scavando un sentiero nel pavimento di pietra. Avanti e indietro. Avanti
e indietro. E dalla porta della camera da letto non filtrava il minimo rumore.
Era un bene, o almeno così supponeva... l'assenza di grida e di parolacce significava che la visita della dottoressa Jane
non era dolorosa.
Con un SMS aveva informato Rehvenge di aver trovato Xhex, ingiungendo che avrebbero cercato di riportarla al
quartier generale. Non accennò al monolocale nel seminterrato, però. Xhex voleva tenerlo segreto, evidentemente,
perché se Rehv avesse saputo della sua esistenza avrebbe insistito per andarci, non trovandola al capanno di caccia.
Dopo aver controllato l'orologio, John si passò di nuovo le mani nei capelli, chiedendosi come facessero i vampiri
innamorati come Wrath, Rhage e Z, a gestire situazioni come quella... Z aveva dovuto assistere alle doglie e al parto
di Bella, Cristo. Come diavolo facevano...
La porta si aprì e lui si voltò di scatto, facendo stridere le suole sul pavimento.
La dottoressa Jane era cupa. «Ha accettato di venire al quartier generale. V dovrebbe essere qua fuori ad aspettare,
nella Escalade... puoi andare a vedere se c'è?»
Sta bene? chiese John a gesti.
«Se l'è vista brutta. Vai a controllare se la macchina è arrivata, li spiace? Poi dovrai portarla fuori in braccio, okay?
Non voglio farla camminare e non voglio usare una barella; meglio non dare spettacolo per strada.»
Senza perdere un minuto, John schizzò fuori dal seminterrato.
Parcheggiato lì davanti, con i fari spenti ma il motore acceso, c'era il SUV. Dietro il volante scorse un bagliore
arancione quando V diede un tiro alla sigaretta rollata a mano.
Il fratello abbassò il finestrino. «La portiamo via?»
John annuì reciso e tornò dentro di corsa.
Giunto davanti alla porta della stanza di Xhex la trovò chiusa, quindi bussò piano.
«Un minuto», gridò Jane; la voce giunse soffocata. «Okay.»
John aprì e trovò Xhex ancora stesa su un fianco. Adesso era avvolta in un asciugamano e un lenzuolo pulito la
copriva dalla testa ai piedi. Cristo... non c'era differenza tra la sua pelle e tutto quel bianco.
John si avvicinò. Strano, pensò, non si era mai accorto di essere tanto più alto di Xhex. Ora, invece, torreggiava sopra
di lei, e non solo perché era sdraiata.
Adesso ti prendo in braccio, le disse nella lingua dei segni, e contemporaneamente muovendo le labbra.
Lei lo guardò negli occhi, poi annuì e fece per mettersi a sedere. Vedendo la fatica che faceva, John si chinò e la prese
tra le braccia.
Non pesava niente.
Quando si raddrizzò, Jane piegò in fretta le coperte del letto e si avviò alla porta.
Xhex se ne stava tutta rigida e questo le costava energia; John avrebbe voluto dirle di rilassarsi, ma, anche se avesse
potuto parlare, sarebbe stata una perdita di tempo. Xhex non era il tipo che si fa portare in braccio, in nessun caso, da
nessuno.
Almeno... in circostanze normali.
Il corridoio sembrava lungo una ventina di chilometri e, all'esterno, i tre metri scarsi che dovette fare per attraversare
il marciapiede fino al SUV gli parvero lunghi il doppio.
V saltò giù dal posto di guida e aprì il portellone posteriore. «Può sdraiarsi lì. Ho steso delle coperte prima di
partire.»
John annuì e fece per deporla sul morbido nido che era stato predisposto.
Xhex gli strinse con forza la spalla. «Resta con me. Per favore.»
Lui si bloccò per una frazione di secondo... poi s'infilò dentro, sempre tenendola in braccio. Faticò un po' a trovare la
posizione giusta... ma alla fine si sistemò contro la fiancata con le ginocchia piegate e Xhex in grembo, rannicchiata
contro il suo petto.
Le portiere vennero chiuse e, dopo altri due tonfi sordi, si sentì il rombo del motore.
Attraverso i finestrini oscurati, vide le luci dei lampioni arretrare mentre uscivano a tutta birra dalla città.
Xhex cominciò a rabbrividire e lui la strinse più forte tra le braccia, tenendola a contatto col proprio corpo e cercando
di infonderle tutto il suo calore. E forse funzionò, perché un istante dopo Xhex posò la testa sul suo petto e i tremori
diminuirono.
Dio... per quanto tempo aveva desiderato stringerla tra le braccia. Se l'era immaginato, sognando possibili scenari in
cui sarebbe accaduto.
Ma non certo quello.
Inspirò a fondo, intenzionato a esalare un sospiro... e fiutò l'odore che stava emanando. Speziato, penetrante. Lo
stesso che sentiva addosso ai fratelli in presenza delle loro shellan. Quella fragranza stava a significare che il suo
corpo si stava facendo sentire. Impossibile tornare indietro.
Impossibile nascondere i suoi sentimenti per Xhex, maledizione, impossibile fermarli. Sin dall'inizio, dalla prima
volta che l'aveva vista, un passo dopo l'altro si era avvicinato all'orlo del baratro e, nutrendola col proprio sangue,
chiaramente l'aveva oltrepassato.
«John?» sussurrò lei.
Lui le batté piano sulla spalla per farle capire che l'aveva sentita.
«Grazie.»
John posò la guancia sui suoi capelli e annuì, per farglielo sentire.
Quando lei si sfilò da sotto non ne fu sorpreso... almeno fino a quando non si rese conto che voleva guardarlo.
Oh, Gesù, che orrore l'espressione sul suo volto smunto. Era terrorizzata, gli occhi grigio scuro avevano il colore
dell'asfalto.
Tranquilla, sillabò lui. Ti rimetterai.
«Dici?» Lei strinse gli occhi con forza. «Sul serio?»
Sì, cazzo, lui avrebbe fatto tutto il possibile per aiutarla.
Xhex riaprì gli occhi. «Mi dispiace tanto», disse con voce roca.
Ver cosa?
«Per tutto. Per averti trattato come ti ho trattato. Per essere quello che sono. Tu meriti molto di più. Mi... dispiace
davvero tanto.»
Alla fine le si incrinò la voce e, battendo freneticamente le palpebre, abbassò di nuovo la testa e posò la mano sul
cuore di John.
Era in momenti come quello che lui desiderava disperatamente poter parlare. Mica poteva spostarla per prendere
quel cavolo di bloc-notes.
Alla fine si limitò a stringerla con cautela perché non poteva offrirle di meglio.
Non aveva frainteso il significato di quelle parole. Delle scuse non sono una dichiarazione d'amore e non erano
neanche necessarie, perché lui l'aveva comunque perdonata. Eppure la cosa lo aiutò, in qualche modo. Era ancora
lontanissimo da come aveva sperato che le cose potessero andare tra loro, ma era molto meglio che niente.
Le tirò un po' più su il lenzuolo sulla spalla, poi abbandonò la testa all'indietro. Fuori dal finestrino oscurato, scrutò
le stelle che punteggiavano la fitta coltre nera e vellutata del cielo notturno.
Buffo, gli sembrava che il paradiso fosse contro il suo petto, invece che su in alto, sopra il mondo intero.
Xhex era viva. Tra le sue braccia. E la stava portando a casa.
Già, tutto sommato le cose avrebbero potuto andare molto peggio.
Capitolo 25
In seguito, Lash avrebbe fatto una riflessione di questo tipo: non sai mai chi puoi incrociare sulla tua strada, non puoi
mai sapere come la semplice decisione di svoltare a destra o a sinistra a un incrocio potrebbe cambiare le cose. A
volte scegliere una cosa o l'altra non ha importanza, altre volte invece... puoi ritrovarti in luoghi inaspettati.
In quel preciso momento, tuttavia, non era ancora giunto a quella consapevolezza. Guidava la Mercedes in
campagna, pensando all'ora.
L'una di notte passata da poco. «Quanto manca?»
Lash guardò il sedile accanto al suo. La prostituta che aveva tirato su in un vicolo del centro era abbastanza piacente e
sufficientemente siliconata per darsi al porno, ma per colpa della droga, Plastic Fantastic era tutta pelle e ossa e
irrequieta.
Disperata, anche. Strafatta al punto che era bastata una banconota da cento dollari per farla montare sulla AMG
diretta a una "festa".
«Non molto», rispose lui, tornando a concentrarsi sulla strada. Era deluso da morire. Quando si era immaginato tutta
la scena nella sua testa, Xhex era legata e imbavagliata sul sedile di dietro... molto più romantico. Invece eccolo lì con
quella troia schifosa. Ma la realtà era quella che era: lui aveva bisogno di nutrirsi e suo padre lo stava aspettando, e
rintracciare Xhex richiedeva più tempo di quello che lui aveva a disposizione.
Uno dei compromessi peggiori a cui era dovuto scendere era che la puttana seduta di fianco a lui era un'umana: molto
meno utile di una vampiri, ma sperava che le ovaie bastassero, per succhiarle il sangue.
Ma soprattutto, non era riuscito a trovare una come lui in gonnella.
«Sai», biascicò lei. «Un tempo facevo la modella.»
«Davvero.»
«Giù a Manhattan. Però poi sai, quei bastardi... non gliene frega un cazzo di te. Vogliono solo usarti, sai.»
Okay. Primo, quella doveva piantarla di dire sai ogni due parole e, secondo, credeva forse di passarsela meglio da
sola, lì a Caldwell?
«Mi piace la tua macchina.»
«Grazie», bofonchiò Lash.
Lei si sporse verso di lui, facendo quasi traboccare le tette dall'attillato top rosa su cui spiccavano delle ditate di unto,
come se non lo lavasse da un paio di giorni; puzzava di ciliegine candite, sudore e fumo di crack.
«Mi piaci, sai...»
Allungò la mano verso la sua coscia, chinando la testa sul suo grembo. Quando Lash la sentì armeggiare in cerca della
cerniera, afferrò una ciocca arruffata biondo-finto e la tirò su con uno strattone.
Lei non si accorse neanche del dolore.
«Non adesso, aspetta», disse Lash. «Ormai ci siamo.»
La donna si leccò le labbra. «Okay. Bene.»
I campi di stoppie ai due lati della strada erano inondati dal chiaro di luna e le case rivestite di legno che li
punteggiavano risplendevano bianche. Per la maggior parte avevano una luce accesa sulla veranda e basta. Da quelle
parti si andava a letto presto, mezzanotte passata era già moooooolto tardi.
Anche per questo la Società aveva un avamposto lì, nella terra della torta di mele calda e delle bandiere americane
alle finestre.
Cinque minuti dopo accostarono alla fattoria e parcheggiarono vicino alla porta d'ingresso.
«Non c'è nessuno», disse la donna. «Siamo i primi?»
«Già.» Lash spense il motore. «And...»
II clic vicino all'orecchio lo lasciò impietrito.
La voce della prostituta non era più un biascichio confuso. «Scendi dalla macchina, stronzo.»
Lash voltò la testa e quasi baciò in bocca la canna di una nove millimetri. All'altra estremità della pistola, le mani
della puttana erano saldissime e i suoi occhi ardevano del tipo di astuzia che non poteva non incutergli un certo
rispetto.
Sorpresa, pensò.
«S-C-E-N-D-I», lo incalzò brusca lei.
Lui sorrise, sornione. «Hai mai sparato con quella?»
«Un mucchio di volte», rispose lei senza battere ciglio. «E il sangue non mi fa impressione.» «Ah. Be', buon per te.»
«Scendi...»
«E così, quale sarebbe il piano? Mi fai scendere dalla macchina, mi fai un buco in testa e mi pianti qui morto? Mi
freghi Mercedes, orologio e portafoglio?»
«E anche quello che hai dentro il baule.»
«Ti serve una ruota di scorta? Puoi comprarne una in qualunque punto vendita della Firestone o della Goodyear, sai?
Tanto per la cronaca.»
«Credi che non sappia chi sei?»
Oh, era più che sicuro che non ne avesse la più pallida idea. «Perché non me lo dici tu.»
«Ho già visto questa macchina. Ho visto te. Ho comprato la tua droga.»
«Una cliente. Che cosa carina.» «S-C-E-N-D-I.»
Vedendo che lui non si muoveva, la donna spostò la pistola di un centimetro e premette il grilletto. Quando la
pallottola fece esplodere il finestrino dietro di lui, Lash si incazzò. Una cosa era giocare, un'altra danneggiare la
proprietà altrui.
Quando l'umana gli puntò di nuovo la canna della nove millimetri in mezzo agli occhi, lui si smaterializzò.
Riprese forma fuori dall'auto, dal lato passeggero, e la guardò sobbalzare sul sedile e guardarsi intorno, sconvolta, coi
capelli crespi che volavano di qua e di là.
Pronto a insegnarle un paio di cosette sui piani, spalancò la portiera e la trascinò fuori per un braccio. Prendere il
controllo sull'arma e su di lei fu questione di un attimo, un gioco da ragazzi. Poi si infilò la nove millimetri nella
cintura, dietro la schiena, e immobilizzò la donna contro il proprio petto con una presa da soffocamento.
«Cosa... cosa...»
«Mi hai detto di scendere dalla macchina», le bisbigliò all'orecchio. «Così l'ho fatto.»
Il corpo magro dell'umana era fragile come una foglia al vento, poco più che un'ombra nei suoi volgari vestiti da
battona. Paragonato agli scontri fisici con Xhex, quello era un alito di vento contro la forza impetuosa di un uragano.
Che noia.
«Entriamo», mormorò Lash, chinando la bocca sulla sua gola e tacendo scorrere una zanna sulla giugulare. «L'altro
invitato alla lesta dovrebbe essere già dentro ad aspettarci.»
Ritraendosi, la donna voltò la faccia e Lash sorrise, mettendo in mostra le zanne. L'urlo di lei spaventò un gufo
appollaiato sopra la loro testa, facendolo volare via; per essere sicuro che la piantasse di strillare conte in un thriller
di Hitchcock, Lash le schiaffò sulla bocca la mano libera e la spinse verso la porta.
Dentro, la casa puzzava di morte, per via dell'iniziazione della notte precedente e di tutto il sangue nei secchi. C'era
un vantaggio, però. Quando accese le luci con la forza del pensiero e la pollastra vide la sala da pranzo, si irrigidì,
atterrita, e poi svenne.
Gentile da parte sua. Sollevarla sul tavolo e legarla a braccia e gambe spalancate fu più facile.
Dopo aver ripreso fiato, Lash portò i secchi in cucina, li sciacquò nel lavandino e pulì i coltelli, rimpiangendo
amaramente che Mr D non potesse più occuparsi del lavoro sporco.
Stava per rimettere a posto la canna dell'acqua, quando si rese conto che non c'era traccia del lesser affiliato la sera
prima.
Riportò i secchi in sala da pranzo, li sistemò sotto i polsi e le caviglie della puttana e controllò meglio il pianterreno.
Niente, nisba, nada, il lesser non c'era. Salì al primo piano.
Lo sportello dell'armadio in camera da letto era aperto e c'era una gruccia sul letto, come se qualcuno avesse preso
una camicia. In bagno, le pareti della doccia gocciolavano di fresco.
Ma cosa cazzo...?
Come cavolo aveva fatto a scappare? Non c'erano auto, quindi l'unica alternativa era andare a piedi. E poi fare
l'autostop. Oppure rubare uno di quei camioncini usati dagli agricoltori della zona.
Lash scese da basso e scoprì che la puttana aveva ripreso i sensi e stava lottando per levarsi lo straccio che le aveva
ficcato in gola, gli occhi fuori dalle orbite mentre si contorceva sul tavolo.
«Non ci vorrà molto», le disse, lanciando un'occhiata alle sue gambe lunghe e sottili. Aveva dei tatuaggi su tutte e
due, ma erano un gran caos senza un tema preciso, solo chiazze a casaccio... alcuni magari potevi identificarli, altri
erano rovinati da cicatrici o da un pessimo lavoro di manutenzione: una volta scoloriti, glieli avevano ripassati male.
Tante farfalle fosforescenti. Forse all'inizio l'idea era quella.
Si mise a girare per casa, andò in cucina e tornò indietro, passando dalla sala da pranzo, poi tornò in corridoio. Il
ticchettio dei tacchi a spillo che battevano sul tavolo e lo stridore della pelle nuda sulla sua superficie si spensero in
lontananza mentre Lash si chiedeva che fine avesse fatto la nuova recluta e come mai suo padre fosse in ritardo.
Mezz'ora dopo, ancora non si vedeva nessuno; Lash inviò un impulso mentale dall'Altra Parte.
Suo padre non rispose.
Lash salì al piano di sopra e chiuse la porta; forse non si era concentrato abbastanza perché era incazzato nero e
frustrato. Si sedette sul letto, mise le mani sulle ginocchia e si calmò. Quando il battito cardiaco tornò lento e
regolare, fece un profondo respiro e inviò un altro segnale... senza alcun risultato.
Che fosse successo qualcosa all'Omega?
In un impeto emotivo, decise di andare nel Dhunhd.
Le sue molecole si scomposero abbastanza bene, ma quando tentò di riprendere forma nell'altra dimensione
dell'esistenza venne bloccato. Tagliato fuori. Respinto.
Fu come andare a sbattere contro un muro; rimbalzando indietro nella squallida camera da letto della fattoria, il suo
fisico incassò il colpo con un'ondata di nausea.
Ma cosa cazzo stava succedendo...
Sentendo suonare il cellulare, Lash si affrettò a tirarlo fuori dalla tasca della giacca del suo completo e alla vista del
numero si accigliò.
«Pronto?»
La risatina che gli rispose era quella di un ragazzino. «Ehilà, stronzo. Sono il tuo nuovo capo. Indovina un po' chi è
stato appena promosso? A proposito, il tuo paparino dice di non seccarlo più. Pessima mossa chiedere delle
signorine... dovresti conoscere meglio tuo padre. Ah, e adesso ho il compito di ucciderti. A presto!»
La nuova recluta scoppiò a ridere e quel suono sfondò la linea telefonica, trapanando il cranio di Lash quando la
chiamata venne interrotta.
Dal suo interlocutore.
Non era incinta. Almeno per quel che poteva dire la dottoressa Jane.
Ma, grazie a quella simpatica sosta a panicolandia, Xhex non ricordava nulla del viaggio fino al quartier generale
della confraternita. L'idea che ci fosse anche solo una possibilità di essere...
Dopo tutto non portava i cilici... e il loro scopo era di sopprimere le sue tendenze symphath, ovulazione compresa.
Che cosa avrebbe fatto?
Okay, inutile pensarci, quindi meglio darci un taglio. Dio solo sapeva se non aveva già abbastanza di cui
preoccuparsi nella categoria delle "cose reali".
Inspirò a fondo, inalando l'odore di John, e si concentrò sul battito del suo cuore, forte e regolare, sotto l'orecchio.
Non ci mise molto ad assopirsi; il misto di stanchezza, torpore post-prandiale e bisogno di dire per un po' ciao ciao
alla vita, la trascinò in un sonno profondo e senza sogni, lì sul retro del SUV.
Fu svegliata dalla sensazione di essere sollevata e aprì gli occhi.
John stava attraversando con lei in braccio una specie di area di parcheggio che, date le pareti e il soffitto simili a una
caverna, doveva essere sottoterra. Vishous, che sembrava sorprendentemente in vena di radersi utile, aprì una
massiccia porta d'acciaio al di là della quale... c'era un incubo.
Un lungo corridoio anonimo con un pavimento di piastrelle pallide, muri di cemento e faretti fluorescenti incassati
nel basso soffitto.
Il passato tornò all'improvviso, il filtro dell'esperienza precedente sostituì ciò che stava accadendo veramente col
ricordo di un incubo. Tra le braccia di John, il suo corpo passò dalla debolezza a un'agitazione convulsa; Xhex
cominciò a divincolarsi, lottando per liberarsi. Lo scompiglio fu immediato, gente che correva verso di lei, un suono
assordante come l'ululato di una sirena...
Sentì vagamente che la mascella le faceva male e si rese conto che stava urlando.
Poi, all'improvviso, vide solo la faccia di John.
In qualche modo era riuscito a voltarla, tra le sue braccia, e adesso erano naso contro naso, occhi negli occhi, le mani
di lui affondate nei suoi fianchi. Ora che la vista di quel corridoio istituzionale era stata rimpiazzata dal suo sguardo
azzurro, il passato perse la sua presa e Xhex rimase come stregata.
John non disse una parola. Rimase fermo e si lasciò guardare.
Era esattamente ciò di cui lei aveva bisogno. Lo guardò fisso negli occhi, usandoli per spegnere il cervello.
Quando John annuì, lei annuì a sua volta e lui riprese a camminare. Ogni tanto distoglieva un attimo lo sguardo per
controllare dove stavano andando, ma poi tornava sempre a posarlo nei suoi occhi.
Tornava sempre.
C'erano voci, molte, e molte porte che si aprivano e si chiudevano, poi una distesa di piastrelle verde pallido. Era in
una sala visita, con un lampadario multiluci e ogni sorta di scorte medicinali dentro armadietti con lo sportello di
vetro, ovunque guardasse.
Quando John la depose sul tavolo operatorio, lei perse di nuovo il controllo. I polmoni si rifiutavano di fare il loro
lavoro, come se l'aria fosse avvelenata, e gli occhi rimbalzavano dappertutto, posandosi su ogni sorta di fonte di
panico, come le apparecchiature mediche, gli strumenti chirurgici e il tavolo... il tavolo.
«Okay, la stiamo perdendo di nuovo.» Il tono della dottoressa Jane era inesorabilmente pacato. «John, entra.»
Il volto di John tornò vicinissimo e Xhex si aggrappò ai suoi occhi.
«Xhex?» la voce della dottoressa Jane veniva da un punto sulla sinistra. «Adesso le somministro un sedativo...»
«Niente droghe!» La risposta le balzò fuori dalle labbra. «Preferisco essere terrorizzata... piuttosto che impotente...»
Aveva il fiato dolorosamente corto e ogni inutile espansione della cassa toracica la convinse come nient'altro al
mondo che la vita è più sofferenza che gioia. C'erano stati troppi di questi momenti, troppe volte il dolore e la paura
avevano avuto il sopravvento, troppe ombre scure che non si limitavano a incombere minacciose, ma risucchiavano
tutta la luce dalla notte in cui lei conduceva la sua esistenza.
«Lasciatemi andare... lasciatemi andare via...» Quando John sgranò gli occhi, Xhex si accorse di aver trovato uno dei
suoi coltelli, lo aveva sfoderato e stava cercando di impugnarlo. «Lasciatemi andare, per favore... non voglio più stare
qui... lasciatemi dormire per sempre, vi prego...»
I corpi impietriti intorno a lei e l'assenza di movimento le restituirono un po' di lucidità. Rhage e Mary erano
nell'angolo. C'era anche Rhev. Vishous e Zsadist. Nessuno parlava o muoveva un solo dito.
John le tolse il pugnale di mano e fu questo a farla scoppiare in lacrime. Perché lui non l'avrebbe usato. Non su di lei.
Né ora... né mai.
E a lei mancava la forza di farlo da sola.
Tutt'a un tratto sentì ribollire nelle viscere un'emozione tremenda; via via che si espandeva e la pressione aumentava
dentro di lei, Xhex si guardò intorno frenetica, mentre le mensole cominciavano a tremare e il computer nell'angolo
sobbalzava sulla scrivania.
John se ne accorse e reagì con prontezza. Cominciò a gesticolare con la stessa urgenza che sentiva lei e un attimo dopo
uscirono tutti.
Tranne lui.
Cercando disperatamente di non esplodere, Xhex si guardò le mani. Tremavano con una violenza tale da assomigliare
alle ali di una mosca... e fu mentre le fissava che toccò il fondo.
Dalla gola le uscì un urlo lacerante; era un suono assolutamente sconosciuto, acuto e inorridito.
John non si spostò di un millimetro. Anche quando lei urlò di nuovo.
Non sarebbe andato da nessuna parte. Non era scosso. Era solo... lì.
Afferrando il lenzuolo che l'avvolgeva, Xhex se lo strinse addosso, consapevole che stava per crollare, che il tragitto
lungo quel corridoio aveva aperto una crepa e adesso lei stava andando in frantumi. In realtà le sembrava che nella
stanza ci fossero due Xhex: quella pazza che urlava a squarciagola sul tavolo operatorio e piangeva lacrime di
sangue... e una Xhex calma e sana di mente, nell'angolo in fondo, che osservava dall'esterno se stessa e John.
Le due parti di lei si sarebbero di nuovo riunite oppure sarebbe rimasta per sempre così, lacerata, a pezzi?
La sua mente preferì l'osservatrice all'isterica e lei si ritirò in quell'angolo silenzioso da cui vedeva se stessa soffocata
dai singhiozzi. Le scie di sangue che le rigavano le guance ceree non la disgustavano e neanche gli occhi folli,
spiritati o gli spasmi epilettici che le agitavano scompostamente braccia e gambe.
Le dispiaceva per la disgraziata che era stata condotta a quegli estremi. Che si era tenuta lontana da tutte le emozioni.
Quella disgraziata era maledetta dalla nascita. Aveva fatto del male e l'aveva subito. Si era indurita; la sua mente e le
sue emozioni erano diventate d'acciaio.
Quella disgraziata aveva sbagliato a chiudersi in se stessa, a tenersi tutto dentro.
Non era una dimostrazione di forza, come si era sempre detta.
Era puro istinto di sopravvivenza... e, molto semplicemente, non ce la faceva più ad andare avanti così.
Capitolo 26
«Tu hai fatto... sesso. Con Eliahu Rathboone.»
Gregg scostò Holly e la guardò in faccia, pensando che le avesse dato di volta il cervello... be', quel poco che aveva. E
così erano in due, perché lui si era chiaramente immaginato quello che aveva appena "visto" fuori dalla finestra.
Peccato che lo sguardo di Holly fosse assolutamente candido e trasparente. «È venuto da me. Io mi ero
addormentata...»
Un'altra raffica di pugni alla porta la interruppe, poi sentirono la voce di Stan che diceva, «Ehilà, mi sentite? In che
stanza posso...»
«Più tardi, Stan», tagliò corto Gregg. Il borbottio si spense, poi udirono dei passi in corridoio fino alla stanza di
Holly, e una porta che sbatteva.
«Vieni qui.» Gregg tirò Holly verso il letto. «Siediti e raccontami... cosa diavolo credi sia successo.»
Mentre lei parlava, lui si concentrò su quelle labbra turgide. «Be', ero appena uscita dalla doccia. Ero stanca morta e
mi sono sdraiata sul letto per far riposare gli occhi prima di infilarmi la camicia da notte. Devo essermi
addormentata... perché la cosa che ricordo subito dopo è questo sogno...»
Oh, per l'amor di Dio. «Holly, solo perché hai avuto un incubo non significa che...»
«Non ho finito», sbottò lei. «E non era un incubo.»
«Credevo che avessi una fifa boia.»
«La roba da brivido è venuta dopo.» Holly inarcò un sopracciglio. «Mi lasci parlare?»
«Va bene.» Ma solo nella speranza di convincerla a fare qualcos'altro con quella bocca, dopo. Accidenti com'erano
belle quelle labbra... «Vai avanti.»
Sì, avanti verso un bel pompino, ecco a cosa stava pensando.
«Ho sognato che quest'uomo entrava in camera mia. Era molto alto e muscoloso... uno degli uomini più grossi che
abbia mai visto. Era vestito di nero e se ne stava in piedi vicino al mio letto. Aveva un odore pazzesco... e mi
guardava. Io...» Si strinse la mano intorno al collo e poi, lentamente, la fece scivolare giù, in mezzo ai seni. «Io mi
sono tolta l'asciugamano e l'ho attirato sopra di me. È stato... indescrivibile...»
Ottima notizia. Perché all'improvviso Gregg non aveva più voglia di ascoltare quello che era successo dopo.
«Mi ha posseduta.» Holly si portò di nuovo la mano alla gola. «Come non mi era mai capitato prima. Era così...»
«... dotato, ce l'aveva grosso come una mazza da baseball ti ha scopata in tutti i modi possibili e immaginabili.
Complimenti. Il tuo subconscio dovrebbe dirigere filmetti porno. Cosa c'entra questo con Eliahu Rathboone?»
Holly gli scoccò un'occhiataccia... poi, con gesto deciso, si aprì la vestaglia. «Perché quando mi sono svegliata, avevo
questo.» Così dicendo, indicò quello che aveva tutta l'aria di essere un succhiotto sul collo. «E effettivamente avevo
fatto sesso.»
Gregg aggrottò la fronte. «Tu... Come fai a saperlo?»
«Prova un po' a indovinare.»
Gregg si schiarì la gola. «Stai bene?» disse, posandole la mano sul braccio. «Sì, insomma... ehm, vuoi chiamare la
polizia?»
Lei se ne uscì con una risata sommessa e incredibilmente sexy. «Oh, è stato consensuale. Qualunque cosa fosse.»
D'un tratto si rabbuiò. «Il punto è proprio questo... non so che cosa è stato. Credevo di averlo sognato. Non pensavo
che fosse vero finché...»
Finché non aveva scoperto una prova inequivocabile del contrario.
Gregg le accarezzò le extension bionde sulla spalla. «Sei sicura di stare bene?»
«Credo di sì.»
Gregg ci mise meno di un secondo a prendere una decisione. «Be', allora domani ce ne andiamo.»
«Cosa? Oh, mio Dio, Gregg... non volevo creare problemi...» Holly si accigliò. «Forse... forse ho sognato anche la parte
in cui mi sono svegliata. Ho fatto un'altra doccia... forse non è successo proprio niente.»
«Col cavolo. Appena fa giorno chiamo Atlanta e dico che è tutto riconfermato. Non voglio farti stare in un posto dove
non sei al sicuro.»
«Gesùj cioè, insomma, è molto cavalleresco da parte tua, ma... non so. E tutto così vago, e adesso mi chiedo se domani
mattina non mi sentirò meglio. Sono proprio confusa... è stato così strano.» Cominciò a massaggiarsi le tempie in
senso circolare con la punta
delle dita, come se le facesse male la testa. «Volevo che succedesse, dall'inizio alla fine, direi...»
«Avevi chiuso a chiave la porta?» la interruppe brusco Gregg; voleva una risposta alla sua domanda, ma soprattutto
non aveva nessuna voglia di sentir magnificare le prestazioni del Fantasma Superdotato.
«Chiudo sempre a chiave la porta di una stanza d'albergo prima di farmi una doccia.»
«E le finestre?»
«Chiuse. Credo che siano addirittura bloccate. Non so.»
«Be', stanotte resti con me. Qui sarai al sicuro.» E non solo perché adesso non ci avrebbe più provato con lei. Aveva
con sé una pistola. Sempre. Aveva il porto d'armi e sapeva come usarla: ai tempi in cui a Los Angeles avevano
cominciato a sparare alla gente per strada, aveva deciso di premunirsi.
Insieme si stesero sul letto. «Lascio la luce accesa.»
«Non c'è bisogno. Basta che chiudi bene la porta.»
Gregg annuì e scivolò giù dal letto, tirando il chiavistello e agganciando la catenella; poi diede una rapida controllata
alle finestre per accertarsi che fossero ben chiuse. Quando tornò a sdraiarsi, Holly si accoccolò contro il suo braccio
con un sospiro.
Gregg sfilò il piumone da sotto le loro gambe e lo tirò addosso a entrambi, spense l'abat-jour e appoggiò la testa sui
cuscini.
Pensò all'uomo che passeggiava in giardino e quasi gli sfuggì un grugnito. 'Fanculo quelle stronzate. O era uno del
posto con un passepartout, oppure un domestico in grado di forzare la serratura.
Sempre ammesso che fosse successo davvero qualcosa. Cosa di cui Holly sembrava sempre meno sicura...
Amen. La mattina dopo sarebbero partiti, punto e basta.
Al buio si accigliò. «Holly?» «Sì?»
«Perché hai pensato che fosse Rathboone?»
Lei spalancò la bocca in uno sbadiglio. «Perché era identico al ritratto in soggiorno.»
Capitolo 27
Giù nella sala visite della clinica sotterranea, John, ritto di fronte a Xhex, si sentiva assolutamente incapace di
aiutarla. Seduta sul tavolo d'acciaio inossidabile, lei urlava, le braccia contratte sul lenzuolo, il volto tirato, la bocca
spalancata, mentre lacrime rosse le rigavano le guance cadaveriche... E lui non ci poteva fare niente.
Conosceva il luogo infernale in cui lei si trovava. Sapeva che non poteva raggiungere in alcun modo il pozzo in fondo
al quale era precipitata: c'era stato anche lui. Sapeva con esattezza cosa significava inciampare, cadere e soffrire in
modo atroce per la violenza dell'impatto... anche se tecnicamente il tuo corpo non era andato da nessuna parte.
L'unica differenza era che Xhex aveva una voce in grado di mettere le ali al suo dolore.
Con le orecchie che fischiavano e il cuore a pezzi per lei, rimase saldo contro la bufera impetuosa che lei aveva
scatenato. Restò lì ad assistere al suo dolore, sentiva le sue urla e stava lì per lei, perché è l'unica cosa che si può fare
davanti a una crisi di nervi.
Dio che supplizio, però, vedere quanto soffriva. Ma era un supplizio che lo rendeva ancora più lucido e determinato;
nella sua mente, il volto di Lash comparve come uno spettro che assume forma fisica. Mentre Xhex gridava e gridava,
lui giurò di vendicarla, finché il suo cuore, invece che sangue, cominciò a pompare sete di vendetta.
A un certo punto, Xhex fece una serie di profondi respiri. Poi altri due.
«Credo di aver finito», disse brusca.
Lui attese un istante per essere sicuro. Quando lei annuì, John tirò fuori il bloc-notes e scrisse in fretta qualcosa.
Le mostrò la pagina e Xhex la guardò, ma dovette rileggerla un paio di volte per cogliere il succo.
«Posso lavarmi la faccia, prima?»
John annuì e andò al lavandino d'acciaio inox. Aprì il rubinetto dell'acqua fredda, prese un asciugamano pulito da
un'alta pila e lo inumidì prima di tornare la lei. Xhex tese le mani e lui le mise la salvietta sui palmi e la guardò
mentre se la premeva lentamente sul viso. Era dura vederla così fragile; ripensò a come l'aveva sempre conosciuta:
forte, sicura, vigile.
I capelli le si erano allungati e cominciavano ad arricciarsi in punta; se non li avesse tagliati sarebbero diventati una
folta chioma ondulata. Dio, che voglia di toccare quella massa morbida.
Fece scorrere gli occhi lungo il tavolo e, all'improvviso, li sgranò. Il lenzuolo si era attorcigliato, scivolando via... e
sugli asciugamani avvolti intorno ai suoi fianchi c'era una macchia scura.
Inspirando a fondo, John fiutò l'odore di sangue fresco e si stupì di non averlo notato prima. D'altronde, era stato
leggermente distratto da altre cose.
Oh... Cristo. Xhex stava sanguinando...
Le batté leggermente sul braccio e sillabò, Dottoressa Jane,
Xhex annuì. «Sì. Leviamoci il pensiero.»
Agitatissimo, John raggiunse in due falcate la porta della sala visite. Fuori in corridoio c'era una moltitudine di facce
preoccupate{ con la dottoressa Jane alla testa del gruppo.
«E pronta per me?» Quando John si spostò di lato, agitando frenetico il braccio, la dottoressa fece per entrare.
Lui però la fermò e, dando le spalle a Xhex, disse, E' ferita da qualche parte. Sanguina.
Jane gli mise una mano sulla spalla e lo fece ruotare in modo ila scambiarsi di posto con lui. «Lo so. Perché non
aspetti qui fuori? Mi prenderò cura di lei, sta' tranquillo. Ehlena? Ti spiace venire? Avrò bisogno di un altro paio di
mani.»
La shellan di Rehvenge entrò nella sala visite e, al di sopra della testa di Jane, John vide che cominciava a lavarsi le
mani.
Perché non hai chiamato Vishous ad assisterla? chiese.
«Facciamo solo un'ecografia per assicurarci che stia bene. Non devo operarla.» Jane gli sorrise in modo
professionale... cosa stranamente inquietante. Poi gli chiuse la porta in faccia.
John si guardò intorno. Tutti i maschi erano chiusi fuori in corridoio. Dentro con Xhex c'erano soltanto femmine.
II suo cervello cominciò a macinare ipotesi e non ci mise molto a giungere a una conclusione che non poteva in alcun
modo essere quella giusta.
Una mano pesante gli calò sulla spalla e, a voce bassa, V disse. «No, devi restare qua fuori, John. Lascia andare.»
Soltanto allora si accorse di avere stretto le dita intorno alla maniglia della porta. Guardò in giù, ordinando a se stesso di mollare la presa... ma dovette ripetere il comando due volte
prima di veder scivolare via la mano dal metallo.
Non ci furono altre grida. Neanche il minimo rumore.
John attese. E attese. Camminò su e giù e attese ancora. Vishous si accese un'altra sigaretta rollata a mano. Blay lo
imitò, accendendosi una Dunhill. Qhuinn tamburellava le dita sulla coscia. Wrath accarezzava la testa di George
mentre il golden retriever guardava John con i suoi mansueti occhi castani.
A un certo punto, Jane fece capolino dalla porta e guardò il suo compagno. «Ho bisogno di te.»
Vishous spense la sigaretta contro la suola dello stivale e infilò il mozzicone nella tasca posteriore dei calzoni. «Devo
prepararmi?» «Già.»
«Vado a cambiarmi.»
Mentre V si avviava in fretta verso lo spogliatoio, Jane guardò John. «Mi prenderò cura di lei, sta' tranquillo...»
Cosa c'è che non va? Perché sta sanguinando? chiese lui nella lingua dei segni.
«Mi prenderò cura di lei.»
Poi la porta si richiuse.
Quando V tornò, non aveva perso minimamente il suo aspetto da guerriero, anche se si era tolto i calzoni di cuoio;
John sperò ardentemente che la sua bravura sul campo di battaglia valesse anche in campo medico.
Quei suoi occhi di diamante brillavano; diede una pacca sulla spalla di John prima di infilarsi nella sala visite... che
adesso evidentemente fungeva da sala operatoria.
Quando la porta si chiuse, John fu assalito dall'impulso di mettersi a urlare a sua volta.
Invece continuò a camminare su e giù per il corridoio. Su e giù. Su e... giù. Alla fine gli altri si allontanarono,
avviandosi verso un'aula vicina, ma lui non se la sentì di unirsi a loro.
Ogni volta che passava davanti a quella porta chiusa, allargava il giro fino a tracciare un percorso che andava dal
parcheggio allo spogliatoio. Le sue lunghe gambe divoravano la distanza, riducendo una cinquantina di metri a
qualcosa come pochi centimetri.
O almeno così sembrava.
In quello che doveva essere il suo cinquantesimo giro fino allo spogliatoio, John si voltò, ritrovandosi davanti alla
porta a vetri dell'ufficio. La scrivania, gli schedari e il computer avevano un aspetto implacabilmente normale, e lui
trasse uno strano conforto da quegli oggetti inanimati.
Sollievo che svanì non appena ricominciò a camminare.
Con la coda dell'occhio scorse le crepe nel muro di cemento di fronte, le fessure si allargavano a ragnatela da un
singolo punto d'impatto.
Ricordava la notte in cui era successo. Quella notte orribile.
Lui e Tohr erano seduti insieme, in ufficio, lui a fare i compiti, il fratello sforzandosi di restare calmo mentre
chiamava casa in continuazione. Ogni volta che Wellsie non rispondeva al telefono, ogni volta che scattava la casella
vocale, la tensione aumentava... finché non era comparso Wrath, con alle spalle l'intera confraternita.
La notizia che Wellsie era morta era tragica... ma poi Tohr aveva saputo il "come": non era morta perché incinta del
loro primo figlio, ma perché un lesser l'aveva uccisa a sangue freddo. Assassinata. Fatta fuori, e il piccolo con lei.
Era stato quello a provocare quei segni.
John si avvicinò e fece scorrere le dita sulle sottili linee nel cemento. La rabbia era stata così grande che Tohr,
letteralmente, era imploso come una supernova, il sovraccarico emotivo lo aveva fatto smaterializzare da qualche
parte.
John non aveva mai saputo dove.
La sensazione di essere osservato gli fece alzare la testa per guardarsi alle spalle. Al di là della porta a vetri, Tohr, in
piedi nell'ufficio, lo fissava.
Si guardarono negli occhi, da pari a pari, non da adulto a ragazzo.
John adesso aveva un'età diversa e, come per tante altre cose, in quella situazione era impossibile tornare indietro.
«John?» Dal fondo del corridoio giunse la voce di Jane e lui si voltò di scatto, poi corse da lei.
Come sta? Cosa è successo? Sta...?
«Si riprenderà. Sta uscendo adesso dall'anestesia. La terrò a letto per le prossime sei ore, grosso modo. L'hai nutrita
col tuo sangue, giusto?» Lui le mostrò il polso e la dottoressa annuì. «Bene. Ti sarei molto grata se rimanessi con lei,
nel caso ne avesse ancora bisogno.»
Dove altro credeva che sarebbe andato?
John entrò in sala visite muovendosi in punta di piedi, attento a non disturbare; ma lei non c'era.
«L'abbiamo trasferita nell'altra stanza», spiegò V dal fondo della sala, vicino all'autoclave.
Prima di attraversare la sala operatoria fino alla porta in fondo, John guardò i resti di quello che avevano fatto a Xhex,
qualunque cosa fosse. Sul pavimento c'era un allarmante mucchio di garze insanguinate e altro sangue sul tavolo
dove prima era stesa Xhex. 11 lenzuolo e gli asciugamani in cui era avvolta erano per terra, in un angolo.
Un mare di sangue. Tutto fresco.
John fischiò forte per richiamare l'attenzione di V. Qualcuno può dirmi cosa cazzo è successo qui dentro?
«Puoi parlarne con lei.» Il fratello tirò fuori un sacchetto arancione per rifiuti biologici e cominciò a raccogliere le
garze usate; a un certo punto si fermò e, senza guardarlo negli occhi, disse, «Si rimetterà.»
Fu allora che John ne ebbe la certezza.
Sapeva che era stata maltrattata, ma in realtà le era andata peggio. Molto peggio di quanto avesse immaginato.
In genere, quando si trattava di ferite riportate in combattimento o sul campo, se ne parlava senza neanche pensarci un femore fratturato, delle costole rotte, una pugnalata. Ma arrivava una femmina, veniva visitata senza nessun
maschio presente e nessuno si azzardava a dire una sola parola sull'intervento che aveva subito?
Solo perché i tesser erano impotenti non significava che non potessero fare altre cose con...
La brezza gelida che investì la sala operatoria spinse V a rialzare la testa. «Un consiglio, John. Fossi in te, terrei per
me le mie supposizioni. Ammettiamo che tu voglia uccidere Lash, okay? Non avrebbe senso che Rehv o le Ombre,
con tutto il rispetto, ti privino di un tuo diritto.»
Cavolo, è in gamba il fratello, pensò John.
Annuì una volta, poi andò nella stanza di Xhex; quei tre non erano il solo motivo per cui avrebbe tenuto il becco
chiuso. Neanche Xhex doveva sapere fino a che punto era disposto a spingersi.
Xhex si sentiva come se qualcuno le avesse parcheggiato nell'utero un autobus Volkswagen.
La pressione era tale che alzò la testa per vedere se si era gonfiata fino ad assumere le dimensioni di un garage.
No. Piatta come sempre.
Lasciò ricadere la testa.
Da un certo punto di vista non riusciva ancora a credere di essere lì, reduce da un intervento chirurgico, sdraiata in un
letto con braccia, gambe e testa ancora attaccate... e la lacerazione alla parete uterina riparata.
Presa nella morsa della iatrofobia, la paura dei medici e di tutto ciò che ha a che fare con la medicina, non riusciva a
vedere al di là di ciò che il suo cervello aveva contrassegnato come mortale. In preda a un terrore cieco, era convinta
di non essere in un ambiente sicuro, circondata da persone note, di cui si poteva fidare.
Adesso, dopo quella prova del fuoco, il fatto di esserne uscita illesa e in salute le procurava una strana euforia da
endorfine.
Qualcuno bussò piano; dall'odore che filtrava dalla porta capì chi era.
Toccandosi i capelli, si chiese che razza di aspetto poteva avere e decise che era meglio non saperlo. «Avanti.»
John Matthew infilò dentro la testa e inarcò le sopracciglia come a chiedere "come stai?"
«Sto bene. Sto meglio. Intontita dalle medicine.»
Lui entrò e si appoggiò contro il muro, infilandosi le mani in tasca e accavallando uno stivale sull'altro. La T-shirt era
una semplice Hanes bianca; una fortuna, probabilmente, visto che era macchiata di sangue di lesser.
Aveva l'odore che ogni maschio dovrebbe avere. Di sapone e sudore pulito.
Ed era come ogni maschio dovrebbe essere. Alto, grosso e letale.
Dio, era davvero andata completamente fuori di testa davanti a lui?
«Hai i capelli più corti», disse, senza un motivo particolare.
Lui sfilò una mano dalla tasca e, in evidente imbarazzo, se la passò sul cranio rasato. Con la testa china, i poderosi
muscoli che correvano dalle spalle fin sul collo si fletterono sotto la pelle dorata.
All'improvviso, Xhex si chiese se avrebbe mai più fatto sesso.
Era un pensiero ben strano, considerato come aveva passato le ultime...
Si accigliò. «Da quante settimane ero sparita?»
Lui alzò quattro dita, poi ne piegò leggermente uno.
«Quasi quattro?» Quando John annuì, lei fece gran mostra di raddrizzare il risvolto del lenzuolo che le correva sul
petto. «Quasi... quattro.»
Be', gli umani l'avevano trattenuta per mesi, prima che lei riuscisse a scappare. Meno di quattro settimane non erano
niente, in confronto, tirare avanti doveva essere una passeggiata.
Ah, ma lei non progettava di restare in circolazione ancora per molto, no? Il punto non era tanto "tirare avanti" quanto
piuttosto "tirare le cuoia".
«Vuoi sederti?» disse, indicando una sedia di fianco al letto. Era In classica sedia da ospedale, quindi aveva l'aria di
essere comoda come un palo ficcato su per il culo, ma non voleva che John se ne andasse.
Lui inarcò di nuovo le sopracciglia e, annuendo, si avvicinò. Sistemando alla bell'e meglio l'enorme corpo sulla
seggiolina, tentò prima di accavallare le ginocchia e poi le caviglie. Finì per stare mezzo girato, coi piedi sotto il letto
e un braccio dietro la spalliera.
Xhex, intanto, continuava ad armeggiare con quel lenzuolo della malora. «Posso chiederti una cosa?»
Con la coda dell'occhio lo vide annuire, poi voltarsi e tirare fuori dalla tasca di diedro un blocco e una penna.
Schiarendosi la gola, si chiese come formulare la domanda.
Alla fine optò per una cosa impersonale. «Dov'è stato visto Lash per l'ultima volta?»
John annuì e, chinandosi sopra il foglio, cominciò a scrivere in fretta. Mentre le parole prendevano forma sulla
pagina bianca, Xhex si soffermò a guardarlo... e si rese conto che non voleva mai più vederlo andare via. Lo voleva
per sempre lì, accanto a sé.
Al sicuro. Era proprio al sicuro con lui.
John si raddrizzò e le mostrò il bloc-notes. Poi parve come impietrito.
Per qualche motivo, Xhex non riusciva a mettere a fuoco quello che aveva scritto e si sforzò...
John lentamente abbassò il braccio.
«Aspetta, non ho ancora letto. Potresti... Cosa... Cosa c'è?» Accidenti, adesso i suoi occhi si rifiutavano di vederlo
bene.
John si piegò di lato e lei sentì un lievissimo fruscio. Poi si trovò davanti un Kleenex.
«Oh, per l'amor del cielo.» Prese il fazzoletto di carta e se lo premette su tutti e due gli occhi. «Quanto odio essere una
femmina. Lo detesto con tutto il cuore.»
Mentre lei si lanciava in un'invettiva contro estrogeni, gonne, smalto per unghie rosa e tacchi a spillo del cavolo, John
le passava un Kleenex dopo l'altro, raccogliendo quelli macchiati di rosso che aveva usato.
«Io non piango mai, lo sai.» Disse Xhex, guardandolo torva. «Mai.»
Lui annuì. E le allungò un altro fottutissimo fazzoletto di carta.
«Gesù Cristo. Prima mi metto a strillare come un'aquila e adesso eccomi qui a frignare senza motivo. Potrei uccidere
Lash solo per questo.»
Una folata gelida spazzò la stanza e lei guardò John... e si ritrasse, spaventata. Era passato dal comprensivo al
sociopatico nello spazio di un secondo. Al punto da non accorgersi di aver scoperto le zanne, Xhex ne era più che
sicura.
Lei ridusse la voce a un sussurro e quello che davvero voleva chiedergli venne fuori di slancio. «Perché sei rimasto?
Prima, in sala operatoria.» Staccò gli occhi dai suoi, concentrandosi sullo macchie rosse sul fazzoletto appena usato.
«Sei rimasto e... sembrava che avessi capito tutto.»
Nel silenzio che seguì, si rese conto che conosceva come le suo tasche il contesto della vita di John: con chi viveva,
cosa faceva sul campo, dove trascorreva il suo tempo. Ma non sapeva niente di lui nello specifico. Il suo passato era
un buco nero.
E, per qualche motivo a lei sconosciuto, voleva che lui la illuminasse.
Sconosciuto un corno, sapeva benissimo perché: nell'orrore incandescente che aveva affrontato in sala operatoria,
l'unica cosa che l'aveva tenuta ancorata a terra era stato lui; era strano, ma adesso si sentiva legata a lui a un livello
molto profondo. John l'aveva vista al suo peggio, al culmine della sua debolezza e della sua paranoia, e non si era
voltato dall'altra parte. Non se n'era andato, non l'aveva giudicata e non era rimasto "scottato".
Era come se il fuoco che lei aveva attraversato li avesse fusi insieme.
Era più che una semplice emozione. Aveva a che fare con l'anima.
«Cosa diavolo ti è successo, John. Nel tuo passato.»
Lui si fece serio, incrociando le braccia sul petto, come se adesso fosse il suo turno di trovare il modo giusto per
esprimersi. Ma soprattutto la sua griglia emotiva d'un tratto si riempì di ogni sorta di cupezza e Xhex ebbe
l'impressione che stesse meditando di scappare.
«Senti, non voglio pressarti.» Merda. Cazzo. «Se vuoi farmi credere che la tua vita è stata tutta rose e fiori, okay, sono
pronta ad accettarlo e a passare oltre. È solo che... La maggior parte della gente sarebbe sobbalzata, come minimo. Che
cavolo, perfino la dottoressa Jane ci è andata coi piedi di piombo, quando ho sclerato. Tu, invece? Te ne sei rimasto lì
senza fare una piega, come se niente fosse.» Fissò il suo viso duro, ermeticamente chiuso. «Ti ho guardato negli occhi,
John, e ci ho visto qualcosa di più che una ipotetica comprensione.»
Dopo una lunga pausa, John prese il blocco, voltò pagina e scribacchiò in fretta qualcosa. Quando glielo mostrò, lei
comprese il suo punto di vista, ma avrebbe voluto bestemmiare:
Prima dimmi quello che ti hanno fatto in sala operatoria. Dimmi che problema avevi.
Eh già, il classico do ut des.
I ,ash ci mise solo un'oretta a tornare con la puttana dalla fattoria alla topaia in città... In piena modalità
sopravvivenza, guidava la Mercedes veloce e deciso, e fece un'unica sosta lungo la strada.
In un capanno in mezzo ai boschi, dove prese della roba di importanza cruciale.
Una volta parcheggiato nel garage della squallida casetta, attese i he la porta fosse chiusa prima di scendere e tirare
giù la prostituta dal sedile posteriore. La donna si divincolava selvaggiamente; mentre la trascinava in casa passando
dalla cucina, Lash alzò una barriera magica analoga a quella dentro cui aveva imprigionato Xhex.
Ma non per Plastic Fantastic.
L'Omega sapeva dove si trovavano i suoi lesser, li percepiva come echi della sua stessa esistenza, e, allo stesso modo, i
non morti erano in grado di sentire i loro compagni.
Quindi Lash poteva restare nascosto solo imprigionando se stesso. Mr D non sapeva che Xhex era chiusa in camera da
letto... la sua confusione era evidente ogni volta che riceveva l'ordine di depositarvi qualcosa da mangiare.
Naturalmente la domanda da un milione di dollari era se quel mascheramento avrebbe tenuto a bada l'Omega. E per
quanto tempo.
Lash buttò la puttana nel gabinetto con la stessa delicatezza che avrebbe riservato a un borsone da quattro soldi
pieno di biancheria sporca. La donna atterrò con violenza dentro la vasca da bagno, gemendo contro il nastro adesivo
che le tappava la bocca. Lash tornò alla macchina.
Ci mise una ventina di minuti a disfare il suo carico, che poi allineò sul pavimento di cemento del seminterrato: sette
fucili a canne mozze, un sacchetto di plastica dei supermercati Hannaford pieno di soldi, un chilo e mezzo di
esplosivo al plastico C4, due detonatori a distanza, una bomba a mano, quattro pistole automatiche. Munizioni.
Munizioni. Munizioni.
Salì le scale e spense la luce della cantina, andò ad aprire la porta sul retro e mise fuori una mano. L'aria fresca della
notte penetrava senza problemi attraverso lo scudo protettivo, ma il suo palmo avvertiva la barriera. Era forte... ma gli
occorreva ancora più forte.
Sallllve, troia, eccomi che arrivo.
Lash chiuse la porta, tirò il chiavistello e andò in bagno con passo deciso.
Concentratissimo, tirò fuori il coltello, tagliò i lacci che le legavano i polsi dietro la schiena e...
Lei agitò le braccia convulsamente, finché Lash non le sferrò un pugno sulla testa mettendola KO. Taglia. Taglia.
Taglia. Le praticò tre incisioni profonde ai polsi e al collo, poi si sedette a guardare il sangue che defluiva
pigramente.
«Dai... sanguina, troia, sanguina.»
Controllò l'orologio; forse avrebbe dovuto farla rinvenire per aumentare frequenza del polso e pressione sanguigna,
riducendo così quella pausa forzata in attesa che lei si dissanguasse.
Non aveva idea di quanto dovesse aspettare, ma la pozza rossa sotto di lei stava salendo, e il corpino rosa diventava
sempre piii scuro.
Il tempo scorreva lento e lui batteva il piede nervosamente, un miglio al minuto... a un certo punto notò che la pelle
della donna non era solo pallida, ma grigiastra e sulle pareti della vasca il li vello del sangue aveva smesso di salire.
Ne dedusse che il processo di dissanguamento era terminato. Tagliò il corpino mettendo in mostra un paio di tette
finte davvero spaventose e la pugnalò al petto, affondando la lama lungo lo sterno.
Il taglio successivo lo fece a se stesso.
Tenendo il polso sopra lo squarcio al torace, guardò le gocce nere in caduta libera nel cuore fermo della donna. Non
sapendo neanche in questo caso quanto sangue dovesse darle, preferì abbondare. Poi chiamò a raccolta l'energia nel
suo palmo; con un atto di volontà costrinse le molecole dell'aria a girare vorticosamente in circolo in una sorta di
tornado, fino a che non diventarono una unità di forza cinetica che lui era in grado di controllare.
Guardò la puttana, il suo corpo profanato, il trucco sbavato sulle guance, i capelli luridi ritti in testa, più una parrucca
di carnevale che la pettinatura di una che batte per strada.
Doveva funzionare, ne aveva bisogno. Sentiva già le forze affievolirsi, e non aveva fatto chissà che cosa, solo
l'incantesimo della barriera e quella piccola palla di fuoco sulla mano.
Doveva funzionare a tutti i costi, cazzo.
Lanciò la fiammata nella cassa toracica della donna e le sue membra inerti sbatterono come code di pesce contro i lati
della vasca. Quando il lampo luminoso si spense a poco a poco, Lash attese... pregando che...
L'ansito che lei emise fu terrificante. Ma fu anche una manna dal cielo.
Lash rimase affascinato quando il cuore cominciò a pompare e il sangue nero venne assorbito dalla carne viva della
gabbia toracica; di fronte alla rianimazione il suo uccello, ebbe un fremito eccitato. Questo sì che è potere, pensò,
altro che quello che si può comprare con i soldi.
Era davvero un dio, proprio come suo padre.
Accovacciato sui talloni, guardò la pelle della donna riprendere colore. Via via che l'umana tornava in vita, le sue dita
si piegavano contro il bordo della vasca e i muscoli avvizziti delle cosce si contraevano.
Il passo successivo era qualcosa che Lash non capiva fino in fondo, ma che si guardò bene dal mettere in discussione.
Quando la donna parve tornata a tutti gli effetti tra i vivi, a mani nude le strappò il cuore dal petto.
Altri ansiti. Altri colpi di tosse. Bla, bla, bla.
Era affascinato dall'impresa che aveva compiuto, specie quando poggiò il palmo sullo sterno dell'umana e ordinò alla
sua carne di richiudersi: incredibile ma vero, la pelle e le ossa ubbidirono al suo volere e lei tornò come prima.
Anzi, meglio di prima. Perché adesso gli era utile.
Lash allungò la mano di lato per aprire il rubinetto della doccia; il getto la investì in pieno, in faccia e sul corpo, e lei
batté le palpebre, agitando le mani penosamente contro quella pioggia gelata.
Quanto doveva aspettare, adesso? si chiese Lash. Quanto, prima di vedere se si era avvicinato almeno un po' a ciò che
lo avrebbe davvero rinvigorito?
Mentre un'ondata di spossatezza gli risaliva la spina dorsale, annebbiandogli il cervello, si accasciò contro gli
armadietti sotto al lavandino. Chiuse la porta con un calcio e, con le braccia appoggiate sulle ginocchia, rimase a
guardare tutto quello scalmanarsi della puttana.
Si sentiva così debole.
Così fottutamente debole.
Avrebbe dovuto esserci la sua Xhex al posto di quell'umana. Era lei che doveva sottoporre a quella procedura, non
una cavolo di battona raccattata a caso.
Si portò le mani al viso, lasciando ricadere la testa sul petto; ormai tutta l'esaltazione era evaporata. Non era così che
doveva andare. Non era questo che aveva in programma.
In fuga. Braccato. Ramingo per il mondo.
Cosa diavolo avrebbe fatto senza suo padre?
Capitolo 28
In attesa che Xhex rispondesse alla sua domanda, John si concentrò sulle parole che aveva scritto, ripassandoci sopra
con la
penna e facendole diventare sempre più scure man mano che ci calcava sopra.
Forse non avrebbe dovuto avanzare richieste, visto lo stato in cui lei era, ma aveva bisogno di ricevere qualcosa in
cambio. Se proprio doveva aprire il forziere dei suoi segreti più imbarazzanti, non poteva essere il solo a mettersi a
nudo.
E poi voleva davvero sapere cosa le era successo, e questo poteva dirglielo soltanto lei.
Nel silenzio che si protraeva, l'unica cosa a cui riusciva a pensare era che... merda, lei gli stava sbattendo la porta in
faccia. Di nuovo. Da un certo punto di vista non era affatto una sorpresa, dunque non avrebbe dovuto importargli.
Dio solo sapeva quante volte lo aveva respinto.
Ma per lui era come affrontare un'altra morte, questa era la verità...
«Ti ho visto. Ieri.»
Lui alzò la testa di scatto. Cosa? sillabò.
«Lash mi teneva prigioniera in quella camera da letto. Ti ho visto. Sei entrato e ti sei avvicinato al letto. Te ne sei
andato portandoti via un cuscino. Ero... lì, vicino a te, per tutto il tempo che sei rimasto lì dentro.»
John si portò la mano alla guancia e lei abbozzò un sorriso. «Sì, ti ho toccato la faccia.»
Cristo santo...
Com'è possibile?, sillabò lui.
«Non so di preciso come faccia, Lash, ma è così che è riuscito a catturarmi. Eravamo tutti in quella grotta dove
avevano imprigionato Rhev, alla colonia. I symphath sono entrati e Lash mi ha presa... è successo tutto così in fretta. All'improvviso
sono stata sollevata di peso e trascinata fuori, ma non riuscivo a lottare e nessuno mi sentiva urlare. E una specie di
campo di forza. Se ci sei dentro e cerchi di infrangerlo ti fai male, il dolore è immediato... ma è più che semplice
avversione. C'è qualcosa di fisico in quella barriera.» Alzò il palmo spingendo l'aria. «Una specie di trama. La cosa
strana, però, è che anche altri possono occupare lo stesso spazio. Come quando sei entrato tu.»
John si accorse vagamente che le mani gli facevano male. Guardò in giù e vide che aveva stretto i pugni con forza tale
che il bloc-notes gli aveva inciso la carne, e così pure la penna a sfera.
Voltando pagina, scribacchiò, Non sapevo che eri lì dentro. Mi dispiace. Altrimenti avrei fatto qualcosa. Giuro che non
lo sapevo.
Xhex lesse ciò che aveva scritto e gli mise una mano sul braccio. «Lo so. Non è colpa tua.»
Lui però si sentiva in colpa. Essere lì con lei e non avere idea che lei era...
Oh. Merda.
Scrisse in fretta, poi le mostrò il foglio, Lui è tornato? Dopo che noi ce ne siamo andati.
Quando Xhex scosse la testa, il cuore di John riprese a battere. «E passato in macchina davanti alla casa, ma non si è
fermato.»
Come hai fatto a fuggire? chiese a gesti lui, soprappensiero, poi se ne accorse e si mise ad armeggiare col blocco per
passare a un foglio bianco.
«Come ho fatto a uscire?» azzardò Xhex. Quando John annuì lei rise. «Ti toccherà insegnarmi la lingua dei segni, sai.»
Lui batté le palpebre, allibito, poi sillabò, Okay.
«Non preoccuparti, imparo in fretta.» Xhex fece un profondo respiro. «La barriera era abbastanza forte da trattenermi
sin da quando Lash mi ha catturata. Poi però siete arrivati voi e ve ne siete andati e...» Si accigliò. «Sei stato tu a far
fuori quel lesser al pianterreno?»
Sì, cazzo, sillabò lui, con le zanne che si allungavano.
«Ottimo lavoro», commentò Xhex con un sorrisetto tagliente come un pugnale. «Ho sentito tutto. Comunque sia,
quando è sceso il silenzio ho capito che l'alternativa era scappare o...»
Morire, pensò John. Per quello che lui aveva fatto in quella cucina,
«Così ho...»
Lui alzò una mano per fermarla. Poi scrisse in fretta. Quando le mostrò il foglio, Xhex si accigliò, poi scosse la testa.
«Oh, ma certo che non l'avresti fatto se avessi saputo che ero lì. Ma non lo sapevi. E dai rumori mi è sembrato che non
potessi farne a meno. Io sono l'ultima persona con cui devi scusarti pei aver massacrato uno di quei bastardi, fidati.»
Vero, ma sudava ancora freddo al pensiero di come l'aveva messa in pericolo senza volerlo.
Lei inspirò ancora a fondo. «Ad ogni modo, dopo che ve ne siete andati è diventato chiaro che la barriera si stava
indebolendo e, quando sono riuscita a sfondare la finestra con un pugno, ho capito di avere una possibilità.» Alzò
una mano e si guardò le nocche. «Alla fine ho preso la rincorsa e ho buttato giù la porta. Ho pensato che mi serviva
tutto lo slancio possibile, e avevo ragione.»
Xhex cambiò posizione sul letto con una smorfia. «È lì che mi sono fatta male, credo. Una lacerazione. Dentro. Per
superare la barriera mi sono dovuta torcere e strizzare di brutto... E stato un po' come passare attraverso un blocco di
cemento che si sta solidificando. Ho sbattuto forte contro il muro del corridoio, anche.»
John fu tentato di credere che i lividi sulla pelle di Xhex fossero una conseguenza della fuga. Ma conosceva Lash.
Tante volte aveva visto in faccia la sua crudeltà, abbastanza da sapere con assoluta certezza che Xhex ne aveva passate
di tutti i colori.
«Ecco perché hanno dovuto operarmi.»
Lo disse con voce chiara e pacata. Ma senza guardarlo negli occhi.
John voltò ancora pagina e scrisse nove lettere maiuscole con l'aggiunta di un punto interrogativo finale. Quando
voltò il blocco, Xhex guardò a malapena il VERAMENTE?
Quel suo sguardo grigio piombo deviò subito verso l'angolo in fondo alla stanza. «Potrei essermi ferita lottando
contro di lui. Ma prima di scappare non avevo mai avuto emorragie interne, per cui... ecco.»
John espirò, pensando alle pareti graffiate e macchiate che aveva visto in quella stanza. Con gran dolore scrisse la
frase successiva.
Xhex la lesse e il suo volto si tese fino a rasentare l'anonimato. Fù come guardare un'estranea.
John abbassò gli occhi sulle parole che aveva scritto: Quanto è stato brutto?
Non avrebbe dovuto chiederglielo. Aveva visto in che stato era. L'aveva sentita urlare in sala operatoria ed era
proprio davanti a lei quando aveva avuto quel crollo nervoso. Cos'altro voleva sapere?
Stava per scrivere un mi dispiace quando Xhex rispose, con un filo di voce, «Non è stato poi così... terribile. Sì,
insomma...»
John fissò il suo profilo, sperando che continuasse.
Lei si schiarì la gola. «Non mi ero fatta illusioni. Non serve a niente. Avevo capito che se non riuscivo a scappare sarei
morta nel giro di poco tempo.» Scosse lentamente la testa avanti e indietro, sul cuscino bianco. «Mi stavo
indebolendo troppo per la mancanza di sangue e perché dovevo lottare in continuazione. Non ero spaventata all'idea
di morire, in realtà. Neanche adesso lo sono.
La morte è soltanto un processo, per quanto solitamente doloroso. Ma una volta concluso stai bene perché non esisti
più e tutte le rogne sono finite.»
Per qualche motivo, vederla tanto disincantata lo innervosì e dovette cambiare posizione sulla sedia per non mettersi
a camminare su e giù per la stanza.
«Se è stato brutto?» mormorò lei. «Sono una combattente per natura. Quindi in una certa misura non è stato niente di
speciale, niente che non fossi in grado di gestire. Sì, insomma, sto a posto. In clinica sono andata giù di testa perché
odio le cose mediche, non per via di Lash.»
Colpa del suo passato, pensò John tra sé.
«Ti dirò una cosa.» Tornò a guardarlo negli occhi e lui quasi si ritrasse davanti all'intensità di quello sguardo. «Sai
cosa lo renderebbe brutto? Cosa renderebbe queste ultime tre settimane assolutamente intollerabili? Se non lo
uccidessi. Questo troverei insopportabile.»
Il vampiro innamorato in lui si rizzò sulla sedia, urlando; Xhex sapeva che non le avrebbe permesso di eliminare quel
figlio di puttana? I vampiri maschi proteggono le loro femmine. E la legge universale, se hai un uccello e due palle.
In più, il pensiero di Xhex vicino a quello stronzo lo mandava al manicomio. Lash l'aveva già catturata una volta. E se
avesse rifatto lo scherzetto della caverna, su alla colonia, quando l'aveva fatta sparire sotto il naso di tutti?
Non potevano rischiare una seconda volta di andare a salvarla. Neanche a pensarci.
«Allora», fece lei. «Io ho fatto la mia parte. Adesso tocca a te.»
Giusto. Okay.
Adesso fu lui a fissare l'angolo in fondo alla stanza. Gesù Cristo. Da dove cominciare?
Girò un'altra pagina del blocco, poggiò la punta della Bic sul foglio bianco e...
Niente. Non gli venne niente. C'era troppo da scrivere, troppo da raccontare, era quello il guaio, ed era deprimente da
morire.
Bussarono alla porta ed entrambi voltarono la testa.
«Maledizione», mormorò lei. «Un minuto!»
Sapere che c'era qualcuno fuori dalla porta in attesa di entrare non era proprio l'ideale per abbandonarsi a
confidenze. Se poi a questo si aggiungeva la barriera comunicativa e la sua innata tendenza a nascondere la verità sul
suo passato... morale della favola: il suo cervello andò in panne.
«Chiunque sia, per me può stare là fuori anche tutta stanotte c tutto domani.» Xhex si lisciò la coperta sullo stomaco.
«Voglio sentire quello che hai da dire.»
Buffo, fu questo a sbloccarlo.
Sarebbe più facile mostrartelo, scrisse in fretta.
Leggendo la frase, lei aggrottò le sopracciglia, poi annuì. «Okay. Quando?»
Domani sera. Se ti danno il permesso di uscire.
«E un appuntamento.» Xhex alzò la mano... e la poggiò con delicatezza sul braccio di lui. «Devi sapere...»
Bussarono di nuovo, interrompendola. Entrambi imprecarono.
«Un minuto, ho detto!» gridò Xhex prima di tornare a concentrarsi su di lui. «Devi sapere... che puoi fidarti di me.»
Con gli occhi fissi nei suoi, John venne immediatamente trasportato su un piano esistenziale diverso. Poteva essere
di nuovo il paradiso, chissà. E comunque chi cazzo se ne fregava. Sapeva solo che c'erano soltanto lei e lui insieme, il
resto del mondo svaniva nella nebbia.
È possibile innamorarsi due volte della stessa persona? si chiese l'onfusamente.
«Cosa diavolo state combinando, lì dentro?»
La voce di Rehv al di là della porta ruppe quel momento manico, ma non lo cancellò.
Nulla ci sarebbe mai riuscito, pensò John, quando Xhex si scostò e lui si alzò in piedi.
«Entra, rompiscatole», sbottò lei.
Appena il maschio con la cresta da moicano entrò nella stanza, John avvertì il cambiamento nell'aria e capì, vedendo
il modo in cui quei due si guardavano senza parlare, che stavano comunicando alla maniera dei symphath.
Per non disturbarli si avviò alla porta e, proprio mentre stava uscendo, Xhex disse, «Torni?»
All'inizio John pensò che stesse parlando con Rehv, ma poi quest'ultimo lo afferrò per il braccio, fermandolo.
«Amico? Pensi di tornare?»
John si voltò verso il letto. Era riuscito a dimenticare blocco e penna sul comodino, quindi si limitò ad annuire.
«Presto?» chiese Xhex. «Perché non sono stanca e voglio imparare la lingua dei segni.»
John annuì di nuovo, poi salutò Rehvenge battendo le nocche contro le sue.
I n sala operatoria, si avvicinò alla lettiga vuota, lieto che V avesse lei minato di pulire e non fosse più nei paraggi.
Perché non sarebbe riuscito a nascondere il sorriso che aveva stampato sulla faccia.
In silenzio, Blay camminava al fianco di Qhuinn nel tunnel sotterraneo che collegava il centro di addestramento
all'atrio della grande casa della .confraternita.
I rumori dei loro stivali si mescolavano, ma per il resto niente. Nessuno dei due diceva niente. E non si sfioravano
nemmeno.
Neanche per sbaglio.
In passato, prima della sua grande ammissione all'amico, prima della rottura tra loro, Blay gli avrebbe chiesto
semplicemente a cosa stava pensando, perché era chiaro che Qhuinn stava rimuginando su qualcosa. Adesso, tuttavia,
quello che un tempo sarebbe stato solo un pensiero gentile, appariva come un'intrusione inopportuna.
Quando emersero dalla porta nascosta sotto lo scalone, Blay si ritrovò a temere il resto della nottata.
Non ne restava granché, certo, ma due ore potevano sembrare un'eternità nelle circostanze giuste. O in quelle
sbagliate, come nella fattispecie.
«Dovrebbe esserci Layla ad aspettarci», disse Qhuinn avviandosi verso le scale.
Ah... fantastico. Proprio il tipo di distrazione che sperava... di evitare. Aveva notato come quella Eletta guardava
Qhuinn e proprio non se la sentiva di vedere di nuovo tutti quei timidi sguardi da innamorata. Specie quella notte.
Aver mancato per un pelo il salvataggio di Xhex lo aveva lasciato stranamente scosso.
«Vieni?» chiese Qhuinn; il suo cipiglio avvicinava alla radice del naso il piercing al sopracciglio sinistro.
Blay guardò l'anellino che gli perforava il carnoso labbro inferiore.
«Blay? Stai bene? Senti, mi sa che dovresti nutrirti, amico. Ne sono successe anche troppe, ultimamente.»
Amico... Cristo, odiava quella parola.
Però doveva controllarsi, accidenti. «Sì. Certo.»
Qhuinn gli scoccò un'occhiata strana. «Camera mia o camera tua?»
Con una risata aspra, Blay si avviò su per le scale. «Ha qualche importanza?»
«No.»
«Appunto.»
Al primo piano passarono davanti alla porta chiusa dello studio di Wrath e imboccarono la galleria delle statue.
La stanza di Qhuinn era la prima, tra le due, ma Blay tirò dritto, pensando che finalmente si poteva fare qualcosa sul
suo terreno, alle sue condizioni.
Spalancò la porta della sua camera e la lasciò così, ignorando il lieve scatto della serratura, quando Qhuinn si chiuse
dentro insieme a lui.
In bagno, aprì il rubinetto del lavandino e si chinò a sciacquarsi il viso. Si stava asciugando quando colse un profumo
di cannella e capì che Layla era arrivata.
Puntando i palmi sul marmo, si accasciò sulle braccia. Fuori, in camera da letto, le due voci si mescolavano, quella più
bassa e quella più alta, alternandosi nella conversazione.
Buttando via l'asciugamano, si voltò e decise di prendere il toro per le corna. Sul letto, la schiena appoggiata alla
testiera, gli stivali accavallati, le dita incrociate sul petto muscoloso, Qhuinn sorrideva all'Eletta. Ritta accanto a lui,
Layla, tutta rossa, si tormentava le piccole mani delicate con gli occhi fissi sul tappeto.
Quando Blay entrò, entrambi si voltarono a guardarlo. Layla non cambiò espressione, Qhuinn invece sì,
rabbuiandosi.
«Chi comincia per primo?» chiese Blay, avvicinandosi.
«Tu», borbottò Qhuinn. «Comincia tu.»
Blay non aveva nessuna voglia di saltare sul letto, quindi andò a sedersi sulla chaise-longue. Layla si avvicinò
leggera, inginocchiandosi davanti a lui.
«Padrone», disse, offrendogli il polso.
La TV si accese; i canali cambiavano via via che Qhuinn premeva i tasti sul telecomando. Alla fine si fermò su Spike
TV, che trasmetteva la replica di un incontro di arti marziali miste, Hughes contro Penn.
«Padrone?» ripetè Layla.
«Perdonami.» Blay si chinò e prese tra le grosse mani l'avambraccio sottile dell'Eletta, tenendolo saldamente ma
senza stringere troppo. «Ti ringrazio per il tuo dono.»
La morse il più delicatamente possibile e, sentendola trasalire in modo quasi impercettibile, fece una smorfia.
Avrebbe voluto ritrarre le zanne per scusarsi, ma poi sarebbe stato costretto a morderla di nuovo per abbeverarsi alla
sua vena.
Succhiando il sangue, spostò gli occhi sul letto. Qhuinn, tutto preso dall'incontro di arti marziali sullo schermo,
aveva alzato la mano destra stretta a pugno.
«Bravo», stava bofonchiando. «Così si fa!»
Blay si concentrò su quello che stava facendo e terminò alla svelta. Staccandosi dal polso di Layla, guardò il suo bel
volto dicendo, «Sei stata molto cortese, come sempre.»
«Padrone...» fece lei con un sorriso radioso, «è sempre una gioia servirvi.»
Lui tese la mano per aiutarla ad alzarsi, ammirando la sua grazia innata. La forza che gli infondeva era a dir poco
miracolosa. Si sentiva già rinvigorito, la testa snebbiata grazie a ciò che Layla gli aveva dato.
Qhuinn era ancora assorto nel combattimento, le zanne scoperte, non per Layla, ma per chi stava perdendo. O
vincendo. O quello che era.
L'espressione di Layla sbiadì in una rassegnazione che Blay conosceva anche troppo bene.
J
«Qhuinn. Vuoi nutrirti sì o no?» fece, accigliato.
Gli occhi spaiati di Qhuinn non si staccarono dallo schermo finché l'arbitro dichiarò terminato l'incontro; poi l'iride
blu e quella verde scivolarono su Layla. Muovendosi sensuale, il vampiro si spostò per farle posto sul letto.
«Vieni qui, Eletta.»
Quelle tre parole, rafforzate dallo sguardo lascivo, furono un pugno allo stomaco per Blay... il guaio era che Qhuinn
non stava facendo niente di speciale a beneficio di Layla. Era fatto così e basta.
Sesso allo stato puro: in ogni respiro, in ogni battito del suo cuore, in ogni gesto.
Layla sembrava sulla sua stessa lunghezza d'onda, perché cominciò ad armeggiare con la veste, prima slacciandosi la
fusciacca, poi aprendosi il colletto.
Per qualche motivo, Blay si rese conto per la prima volta che, sotto i ricchi panneggi della tunica, era completamente
nuda.
Qhuinn tese la mano e, nel toccarla, quella di Layla tremò.
«Hai freddo?» chiese lui, rizzandosi a sedere. Sotto la T-shirt attillata, gli addominali si gonfiarono a tartaruga.
Layla scosse la testa e Blay andò in bagno, chiuse la porta e aprì l'acqua nella doccia. Dopo essersi spogliato, si infilò
sotto il getto caldo, cercando di dimenticare ciò che stava succedendo sul suo letto.
Ci riuscì solo finché si trattò di eliminare Layla dal quadro d'insieme.
Il suo cervello si bloccò su una fantasia che aveva per protagonisti lui e Qhuinn sdraiati insieme, la bocca dell'uno sul
collo dell'altro, le zanne che incidevano la pelle vellutata, i corpi che...
Era piuttosto comune per i vampiri maschi eccitarsi dopo essersi nutriti. Specie se si mettevano a pensare a ogni sorta
di scene di nudo. E il sapone non aiutava.
E neanche le immagini di ciò che sarebbe successo dopo che loro due avessero terminato di mordersi la gola a
vicenda.
Blay piantò una mano sul marmo scivoloso della doccia e l'altra sui membro in erezione.
Quello che fece fu veloce e appagante più o meno come una fetta di pizza fredda: piacevole, ma neanche
lontanamente paragonabile a un vero pasto.
Il secondo giro non migliorò la situazione. Blay negò al suo corpo un terzo giro perché, onestamente, era troppo
squallido. Qhuinn e Layla si davano da fare fuori dalla porta mentre lui era lì a slogarsi il polso sotto l'acqua
bollente? Bleah.
Uscì dalla doccia, si asciugò, si infilò l'accappatoio e soltanto allora si accorse di non aver preso niente con cui
cambiarsi. Girando la maniglia, pregò che le cose fossero come le aveva lasciate.
E così era... Vergine Scriba, ti ringrazio: Qhuinn, con la bocca sull'altro polso di Layla, stava bevendo il suo sangue,
mentre l'Eletta era in ginocchio accanto a lui.
Nulla di apertamente sessuale.
L'enorme sollievo che Blay provò gli fece capire quanta rabbia avesse accumulato... non solo per quello, ma per tutto
quanto aveva a che fare con Qhuinn.
Non era una cosa sana. Per nessuno.
E poi, ragionando a mente fredda, era così sbagliato che Qhuinn provasse quello che provava? Mica si può scegliere
da chi si è attratti... o da chi non lo si è.
Blay tirò fuori dall'armadio una camicia button-down e un paio di comodi calzoni neri. Proprio mentre si voltava per
tornare in bagno, Qhuinn alzò la bocca dalla vena di Layla.
Con un gemito di sazietà, leccò le ferite lasciate dalle zanne. Nel vedere un lampo argenteo, Blay inarcò le
sopracciglia. Quel piercing alla lingua era nuovo; chissà chi glielo aveva fatto.
Vishous, probabilmente. Quei due passavano molto tempo insieme, ecco come si erano procurati l'inchiostro per il
tatuaggio di John... Qhuinn aveva fregato la boccetta.
A ogni passata della lingua sulla pelle dell'Eletta, la pallina mandava un bagliore metallico. «Grazie, Layla. Sei molto
buona con noi.»
Con un fugace sorriso, Qhuinn buttò le gambe giù dal letto, chiaramente intenzionato a uscire. Layla, al contrario,
non si mosse. Invece di seguire il suo esempio e congedarsi, chinò il capo, gli occhi fissi sul proprio grembo...
Anzi no, sui polsi, che spuntavano dalle ampie maniche della veste. Vedendola vacillare, Blay si accigliò.
«Layla?» disse, avvicinandosi. «Ti senti bene?»
Qhuinn girò intorno al letto. «Layla? Cosa succede?»
Adesso erano loro due in ginocchio davanti a lei.
Blay decise di parlare chiaro. «Abbiamo bevuto troppo?»
Qhuinn le offrì il polso. «Usami»
Merda, Layla aveva nutrito John la sera prima. Forse l'avevano chiamata troppo presto?
L'Eletta alzò gli occhi verde pallido sul volto di Qhuinn; non c'era traccia di disorientamento nel suo sguardo, solo
una brama mesta e antica.
Qhuinn trasalì. «Che cosa ho fatto?»
«Nulla», rispose lei con una voce troppo profonda. «Se volete scusarmi, ora torno al santuario.»
Fece per alzarsi, ma Qhuinn l'afferrò per la mano e la tirò giù. «Layla, cosa c'è?»
Dio, quella sua voce. Così dolce, così gentile. E così pure la sua mano, quando la prese per il mento costringendola a
guardarlo negli occhi.
«Non posso parlarne.»
«Sì, invece.» Qhuinn annuì in direzione di Blay. «Lui e io manterremo il segreto.»
L'Eletta inspirò a fondo, poi espirò, sconfitta, come se avesse esaurito le energie, le alternative, le forze. «Veramente?
Non direte nulla?»
«No. Blay?»
«No, assolutamente.» Blay si mise la mano sul cuore. «Lo giuro. Faremo qualsiasi cosa per aiutarti. Qualsiasi cosa.»
Lei si concentrò su Qhuinn, guardandolo fisso negli occhi. «Mi trovate sgradevole alla vista, padrone?» Vedendolo
perplesso, Layla si toccò gli zigomi, la fronte. «Sono forse lontana dal vostro ideale, in un modo che mi rende...»
«Dio, no. Cosa dici? Sei bellissima.»
«Allora... perché non mi volete?»
«Non capisco... sì che ti vogliamo. Regolarmente. Io, Blay e John. Rhage e V. Vogliamo tutti te perché tu...»
«Nessuno di voi mi utilizza per qualcosa che non sia il sangue.»
Blay si alzò in piedi e indietreggiò, finché non andò a sbattere contro la chaise-longue e si ritrovò seduto.
Rimbalzando col sedere sul cuscino, quasi scoppiò a ridere per la faccia di Qhuinn. Il suo amico non si lasciava mai
cogliere alla sprovvista. In parte perché ne aveva passate tante nel corso della sua relativamente breve vita, sia per
scelta che per disgrazia. E in parte per via della sua personalità. Se la cavava in tutte le situazioni. Punto.
Eccetto quella, evidentemente. Sembrava che lo avessero colpito alla nuca con una stecca da biliardo.
«Io...» Qhuinn si schiarì la gola. «Io... io...»
Eh, sì, altra novità: era la prima volta che balbettava.
Fu Layla a rompere il silenzio. «Io servo i maschi e i fratelli di questa casa con orgoglio. Do senza ricevere niente in
cambio perché sono stata educata così e perché per me è un piacere. Vi dico questo perché me lo avete chiesto e...
perché devo. Ogni volta che torno al santuario o alla dimora del Primale, mi scopro sempre più svuotata. Al punto
che penso di dovermi fare da parte. In verità...» Scosse la testa. «Non posso continuare a fare questo, anche se l'ho
sempre visto come un dovere. È solo che... il mio cuore non può più reggere.»
Qhuinn lasciò ricadere le mani e si sfregò le cosce. «Vuoi... vorresti continuare, potendo?»
«Naturalmente.» La voce di Layla era forte e sicura. «Sono fiera di rendermi utile.»
Adesso Qhuinn si stava passando una mano tra i folti capelli neri. «Cosa ti... farebbe sentire realizzata?»
Era come assistere a un disastro ferroviario. Blay avrebbe dovuto andarsene, ma non riusciva a muoversi: doveva
vedere la collisione.
Il rossore acceso di Layla, naturalmente, la rese ancora più bella. Poi le sue labbra tumide, incantevoli, si schiusero. Si
chiusero. Si schiusero... e si chiusero di nuovo.
«Okay», sussurrò Qhuinn. «Non c'è bisogno di dirlo a voce alta. Ho capito cosa vuoi.»
Blay sentì il petto coprirsi di sudore freddo e le mani stringersi convulsamente sui vestiti che aveva tirato fuori
dall'armadio.
«Chi», chiese Qhuinn con voce roca. «Chi vuoi?»
Dopo un'altra lunga pausa, Layla disse una sola parola: «Te.»
Blay si alzò in piedi. «Vi lascio soli.»
Andò alla porta, completamente cieco, e per abitudine afferrò il giubbotto di cuoio.
Uscendo, sentì Qhuinn che diceva, «Faremo con calma. Faremo con molta calma.»
Fuori, in corridoio, Blay si allontanò in fretta dalla sua stanza; solo quando giunse davanti alla porta che si apriva
sull'ala riservata alla servitù, si accorse che era in accappatoio. Sgattaiolando su per la rampa di scale che conduceva
alla sala proiezioni del secondo piano, si infilò i vestiti davanti alla macchina per i popcorn.
La rabbia che gli ribolliva nelle viscere lo divorava come un cancro. Ma era così infondata. Così inutile.
Rimase impalato di fronte alle mensole cariche di DVD, i titoli sulle custodie solo un insieme di simboli privi di
significato.
Ciò che prese alla fine non fu un film, però.
Ma un cartoncino dalla tasca del giubbotto.
Capitolo 29.
Quando la porta della sala post-operatoria si chiuse, Xhex si sentì in dovere di dire qualcosa. A voce alta. A
Rehvenge. «Allora. Ehm...» Si toccò i capelli. «Come st...»
Lui interruppe bruscamente quelle parole imbarazzate avvicinandosi a grandi passi; si appoggiava pesantemente al
bastone rosso, i mocassini che battevano sulle piastrelle, tacco-punta, tacco-punta, con una espressione feroce e gli
occhi viola che ardevano.
Bastò questo a farla sentire in colpa.
Tirandosi su ancora di più il lenzuolo, Xhex farfugliò, «Cosa diavolo ti prend...»
Rehv protese le lunghe braccia e la trasse a sé, stringendola al petto con estrema delicatezza. Chinando la testa verso
la sua, parlò con voce profonda e grave.
«Credevo di non rivederti mai più.»
Sentendolo rabbrividire, Xhex alzò le mani sul suo torace. Dopo un attimo di esitazione... lo abbracciò con identico
slancio.
«Usi sempre lo stesso profumo», disse commossa, premendo il naso contro il colletto dell'elegante camicia di seta.
«Oh... Dio, usi sempre lo stesso profumo.»
La costosa acqua di colonia speziata la riportò ai tempi dello ZeroSum, quando loro quattro lavoravano insieme: lui
al timone del club, iAm alla contabilità, Trez alle operazioni e lei alla sicurezza.
Quella fragranza fu il gancio che la afferrò, strappandola al rapimento, collegandola al passato, gettando un ponte
oltre l'orribile baratro delle ultime tre settimane.
Lei però non voleva pastoie. Avrebbero solo reso più difficile il distacco. Meglio ancorarsi agli eventi e agli obiettivi
più immediati.
Per poi galleggiare via, lontano.
Revh si sciolse dall'abbraccio. «Non voglio stancarti, quindi vado via subito. Ma avevo bisogno di... Sì.» «Sì.»
Si tennero stretti per le braccia e, come sempre, lei sentì quell'affinità tra loro; non avevano bisogno di parole, uniti
dal loro comune lato meticcio, si capivano al volo, com'era tipico dei
symphath.
«Ti serve niente?» chiese Rehv. «Qualcosa da mangiare?»
«La dottoressa Jane ha detto niente cibi solidi per un altro paio d'ore.»
«Okay. Senti, dobbiamo parlare del futuro...»
«In futuro.» Xhex proiettò nella propria mente un'immagine di loro due che parlavano fitto fitto, al solo scopo di
tacitarlo nel caso le stesse leggendo nel pensiero.
Non era sicura che Rehv se la fosse bevuta. «Abito qui, adesso, a proposito», disse lui.
«Dove mi trovo, esattamente?»
«Al centro di addestramento della confraternita.» Rehv si accigliò. «Credevo ci fossi già stata.»
«Non in questo settore. Però sì, avevo immaginato che mi avessero portato qui. A proposito, Ehlena è stata molto
buona con me, là dentro», così dicendo, annuì in direzione della sala operatoria. «E, prima che tu me lo chieda, mi
rimetterò. Così ha detto la dottoressa Jane.»
«Bene.» Rehv le strinse forte la mano. «Vado a chiamare John.»
«Grazie.»
Sulla porta, Rehv si fermò un attimo e, da sopra la spalla, la trafisse con uno dei suoi sguardi, socchiudendo gli occhi
di ametista. «Ascoltami bene» Lo scema era sottinteso. «Tu sei importante. Non solo per me, ma per un sacco di gente.
Quindi fai quello che devi fare e riprenditi, mentalmente e psicologicamente. Ma non credere che non sappia quello
che hai in mente di fare dopo.»
Lei lo guardò torva. «Fottutissimo divoratore di peccati.»
«Be', mi conosci.» Rehv inarcò un sopracciglio. «E anch'io ti conosco... fin troppo bene. Non fare la stronza, Xhex.
Siamo tutti dalla tua parte e puoi farcela a superare anche questa.»
Poi uscì. Xhex trovava ammirevole la fiducia di Rehv nella sua capacità di recupero. Ma lei non se la beveva.
In realtà, al solo pensiero di un futuro al di là del funerale di Lash, si sentiva sommergere da un'ondata di
sfinimento. Con un gemito chiuse gli occhi, pregando che, per amore di tutto ciò che è sacro, Rehvenge non
s'impicciasse degli affari suoi...
Si svegliò di soprassalto, ansimando. Non sapeva quanto avesse dormito. O dove fosse John...
Be', a questo trovò subito risposta: John era sul pavimento di
fronte al letto, sdraiato su un fianco, la testa poggiata all'interno del braccio piegato a mo' di cuscino. Aveva l'aria
stanca anche nel sonno, le sopracciglia corrugate, la bocca contratta in una smorfia esausta.
Il conforto che provò nel vederlo la lasciò esterrefatta, ma non cercò di contrastarlo. Non aveva abbastanza energia... e
poi non c'erano testimoni.
«John?»
Appena lo chiamò, lui balzò su dal linoleum, in guardia, col suo corpo da guerriero tra lei e la porta che dava sul
corridoio. Era pronto a fare a pezzi chiunque osasse minacciarla, questo era chiaro.
Il che era... dolcissimo.
Meglio di un mazzo di fiori, che l'avrebbe fatta starnutire.
«John... vieni qui.»
Lui attese un istante, inclinando la testa come per cogliere eventuali rumori. Poi abbassò i pugni e si avvicinò.
Appena volse gli occhi su di lei, lo sguardo feroce e le zanne scoperte lasciarono il posto a una compassione
struggente.
Andò difilato a prendere il blocco, scrisse qualcosa e glielo mostrò.
«No, grazie. Non ho ancora fame.» Per lei era sempre stato così. Dopo un pasto a base di sangue non mangiava per
ore, a volte anche per un'intera giornata. «Quello che mi piacerebbe davvero tanto...»
Spostò gli occhi sul bagno, nell'angolo.
Doccia, scrisse lui, mostrandole il foglio.
«Sì. Gesù... mi piacerebbe da morire una bella doccia bollente.»
Lui vestì subito i panni della crocerossina, andò in bagno ad aprire il rubinetto della doccia, tirò fuori asciugamani,
sapone e uno spazzolino da denti e posò tutto sul piano del lavandino.
Per non fare la figura della pelandrona, Xhex cercò di mettersi a sedere... e fu subito chiaro che qualcuno le aveva
legato una casa sulla schiena, nel vero senso della parola: era come sollevare sulle spalle una villa a due piani in stile
coloniale. Riuscì a buttare le gambe giù dal letto solo grazie a uno sforzo sovrumano... oltre alla convinzione che, se
non fosse riuscita ad alzarsi almeno in parte da sola, John avrebbe chiamato la dottoressa e lei si sarebbe persa la sua
doccia.
John tornò in camera in tempo per vederla poggiare i piedi nudi sul pavimento e si precipitò a offrirle il braccio per
aiutarla ad alzarsi. Quando le lenzuola scivolarono giù, entrambi ebbero un attimo di smarrimento imbarazzato... Oh,
cavolo... era nuda. Ma non era certo il momento adatto per i falsi pudori.
«Cosa devo fare con la medicazione?» mormorò lei, abbassando gli occhi sulla benda bianca che le copriva l'inguine.
Quando John lanciò un'occhiata al bloc-notes, quasi stesse valutando se poteva raggiungerlo senza lasciarla andare,
Xhex disse, «No, non voglio la dottoressa Jane. Me la tolgo e basta.»
Staccò un angolo del cerotto, barcollando; forse sarebbe stato meglio farlo da sdraiata... e sotto supervisione medica.
Ma al diavolo.
«Oh...» esclamò, rivelando a poco a poco la linea di punti di sutura neri. «Accidenti... la femmina di V è brava con ago
e filo, eh?»
John prese la compressa di garza macchiata di sangue e, con un lancio da maestro, centrò la pattumiera nell'angolo.
Poi attese, come se avesse intuito che Xhex stava meditando di rimettersi a letto.
Per qualche motivo, l'idea di essere stata aperta con un bisturi le dava le vertigini.
«Forza, andiamo», disse brusca.
John lasciò che fosse lei a fare l'andatura, che si rivelò solo un filo più veloce della retromarcia.
«Puoi spegnere le luci, in bagno?» disse Xhex, strascicando i piedi con dei passettini da bambina, non più lunghi di
sette-otto centimetri. «Preferisco non vedermi nello specchio sopra il lavandino.»
Appena fu a portata di mano, John abbassò l'interruttore sulla parete.
«Grazie.»
L'aria umida e lo scroscio dell'acqua la rilassarono nella mente e nel corpo. Il guaio era che la tensione l'aveva aiutata
a stare diritta, mentre adesso si stava accasciando.
«John...» ma era la sua voce, quella? Com'era debole e sottile. «John, ti spiace entrare insieme a me? Per piacere.»
Quando si dice un silenzio prolungato. Poi però lui annuì, illuminato dalla luce che entrava dalla camera da letto.
«Tu svestiti lì fuori», disse Xhex, «e chiudi la porta. Devo usare il gabinetto.»
Così dicendo, si aggrappò alla sbarra fissata alla parete e si tirò in avanti. Ci fu un'altra pausa, poi John fece un passo
indietro e la luce si smorzò.
Dopo aver fatto quello che doveva, Xhex si tirò su a fatica e socchiuse la porta.
Si ritrovò in faccia il bloc-notes: Avrei tenuto i boxer, ma non li porto.
«Non fa niente. Sono tutto tranne che timida.»
Ma non era proprio così, come apparve chiaro appena entrarono nella doccia insieme. Dopo tutto quello che aveva
passato, un po' di pelle nuda in una stanza buia, con un maschio di cui si fidava e con cui era già andata a letto, non
avrebbe dovuto essere chissà che. E invece lo era.
Specie quando, nel chiudere la porta di vetro, John la sfiorò da dietro.
Concentrati sull'acqua, si disse lei, chiedendosi se non fosse ammattita.
Quando alzò la testa, cominciò a sbandare di lato e la grossa mano di John scivolò sotto il suo braccio per tenerla su.
«Grazie», disse brusca.
Per quanto imbarazzante fosse la situazione, sentire l'acqua calda scorrere tra i capelli fino al cuoio capelluto era
fantastico, e il pensiero di potersi pulire a fondo, all'improvviso fu più importante di quello che non indossava John
Matthew.
«Ho dimenticato il sapone, accidenti.»
John si spostò di nuovo, premendo i fianchi contro i suoi. Lei si irrigidì, preparandosi a sentire qualcosa di duro... ma
lui non era eccitato.
Il che fu un sollievo. Dopo tutto quello che le aveva fatto Lash...
Quando John le mise in mano il sapone, Xhex scacciò dalla mente quanto era successo in quella camera da letto e
bagnò la saponetta sotto il getto d'acqua. Lavarsi. Asciugarsi. Tornare a letto. Doveva pensare soltanto a questo.
L'odore forte e inconfondibile del Dial saturò la doccia, facendole battere le palpebre freneticamente.
Era proprio quello che avrebbe scelto anche lei.
Incredibile, pensò John, ritto dietro Xhex.
Se ti guardi l'uccello e le palle e gli dici che se si comportano male li tagli via e poi li seppellisci in giardino, loro ti
ascoltano.
Doveva tenerlo a mente.
Il box doccia era spazioso, un maschio ci stava largo, ma per loro due insieme era strettino e lui doveva stare col
sedere schiacciato contro la fredda parete piastrellata per essere sicuro al cento per cento che Mister Idea Brillante e i
suoi due compari, i gemelli Scemo e Più Scemo, stessero alla larga da Xhex.
Il suo discorsetto aveva fatto miracoli, ma non voleva correre rischi.
E poi era ancora scioccato: Xhex era così debole da aver bisogno del suo aiuto per reggersi in piedi... anche dopo
essersi nutrita col suo sangue. D'altronde, per scrollarsi di dosso quattro settimane d'inferno mica basta un pisolino
di un paio d'ore. Che era quanto aveva dormito Xhex, stando al suo orologio.
Mettendosi lo shampoo, Xhex inarcò la schiena e gli sfiorò il petto coi capelli bagnati, prima di voltarsi per
sciacquarsi via la schiuma. Lui spostò la presa in base alla necessità, tenendola prima per il braccio destro, poi per il
sinistro, poi di nuovo per il destro.
Il guaio fu quando lei si chinò per lavarsi le gambe.
«Merda...» Si sbilanciò così in fretta che lui perse la presa sui bicipiti scivolosi di sapone e lei gli cadde addosso.
John ebbe una fugace impressione di qualcosa di viscido, bagnato e caldo, poi si schiaffò contro il muro nel disperato
tentativo di sorreggerla limitando al minimo il contatto.
«Peccato che non ci sia un seggiolino», disse lei. «Non riesco proprio a stare in equilibrio.»
Ci fu una pausa... poi lui le tolse di mano il sapone. Lentamente, cambiò posto con lei, spingendola con delicatezza
verso l'angolo in cui fino a poco prima aveva parcheggiato il suo fondoschiena e facendole appoggiare le mani sulle
sue spalle.
Si mise in ginocchio e rigirò la saponetta tra le dita fino a ricavare una nuvola di schiuma, mentre l'acqua le batteva
sulla nuca scorrendo lungo la schiena. Le piastrelle erano dure sotto le rotule, e lo scarico contro cui aveva poggiato le
dita di un piede aveva i denti e lo stava mordicchiando - o almeno così sembrava - ma lui non ci fece caso.
Stava per toccarla. Soltanto questo contava.
Stringendo la mano intorno alla sua caviglia, le diede una tiratina e, un istante dopo, Xhex spostò il peso sull'altra
gamba, alzando il piede. Lui posò il Dial accanto alla porta, insaponando la pianta e poi il tallone, massaggiando,
pulendo...
In adorazione, senza aspettarsi niente in cambio.
Procedeva adagio, specie quando cominciò a risalire la gamba, fermandosi di tanto in tanto per assicurarsi di non
premere troppo sui lividi. Il muscolo del polpaccio era duro come la pietra e le ossa che salivano fino al ginocchio
sembravano forti come quelle di un maschio, ma a modo suo era delicata. Per lo meno se paragonata a lui.
Salendo ancora più su, fino alla coscia, gravitò verso l'esterno. Xhex non doveva essere sfiorata dal sospetto che
volesse farle delle avance; giunto all'altezza del fianco, si fermò e prese di nuovo il sapone.
Dopo averle sciacquato la pianta del piede, le batté sull'altra caviglia e provò una fitta di sollievo quando lei, docile,
gli diede la possibilità di ripetere la stessa operazione.
Lenti massaggi, mani lente, lenti progressi... e solo all'esterno delle gambe, su su verso la cima.
Alla fine si rialzò, le ginocchia che crocchiavano, ergendosi in tutta la sua altezza e facendola spostare sotto il getto
d'acqua. Reggendola di nuovo per il braccio, le passò il sapone in modo che potesse lavarsi nei punti che aveva
saltato lui.
«John?» fece lei.
Essendo buio lui fischiò un Cosa?
«Sei proprio una persona perbene, sai? Sul serio.»
Gli prese la faccia tra le mani.
Accadde così in fretta che lui non riuscì a crederci. In seguito ci avrebbe ripensato più e più volte, ripercorrendo
mentalmente tutta la scena, prolungando all'infinito quel momento, rivivendolo e traendo uno strano tipo di
nutrimento dal ricordo.
In realtà quando successe, però, fu solo un istante. Un impulso da parte di Xhex. Un casto dono, dato in segno di
gratitudine per un casto dono ricevuto.
Xhex si alzò in punta di piedi e premette la bocca sulla sua.
Oh, che morbide. Le sue labbra erano incredibilmente morbide. E delicate. E così calde.
Il contatto fu troppo fugace, ma d'altronde lui era pronto ad andare avanti per ore, e ancora non gli sarebbe bastato.
«Vieni a sdraiarti con me», disse lei, aprendo la porta della doccia e uscendo. «Non mi piace vederti sul pavimento.
Meriti molto di più.»
Stordito, lui chiuse il rubinetto e la seguì, accettando l'asciugamano che lei gli porgeva. Si asciugarono insieme, lei
coprendosi il busto e lui l'inguine.
Fuori, John s'infilò a letto per primo e gli parve la cosa più naturale del mondo spalancare le braccia. Se ci avesse
pensato non l'avrebbe fatto, ma era soprappensiero.
E meno male.
Perché lei gli andò incontro avvolgendolo in un calore che filtrò sotto la pelle, fino al midollo, come l'acqua della
doccia.
Ma naturalmente, Xhex penetrò molto più a fondo. Come sempre.
Gli sembrava di averle ceduto l'anima sin dalla prima volta che le aveva messo gli occhi addosso.
Quando spense la luce e la sentì accoccolarsi contro di sé, gli parve che stesse scavando dentro il suo cuore gelato per
mettervi radici, il suo fuoco gli sciolse l'anima, strappandogli il primo respiro davvero profondo dopo mesi.
John chiuse gli occhi, senza aspettarsi di dormire.
Invece dormì. E molto, molto bene.
Capitolo 30
Nel salottino del personale di servizio, a casa di Sampsone, Darius concluse il suo colloquio con la cameriera della
figlia. «Grazie», disse alzandosi in piedi e congedandola con un cenno del capo. «Apprezzo la vostra sincerità.»
La doggen si piegò in un profondo inchino. «Trovatela, vi scongiuro. E riportatela a casa, signore.»
«Faremo del nostro meglio.» Darius lanciò un'occhiata a Tohrment. «Saresti così gentile da far entrare il
sottomaggiordomo?»
Tohrment apri la porta alla minuscola cameriera e uscì insieme a
lei.
In loro assenza, Darius prese a camminare sul pavimento spoglio, tracciando con gli stivali di cuoio un cerchio intorno
allo scrittoio al centro della stanza. La cameriera non sapeva nulla di rilevante. Era stata franca e misurata... non
aveva aggiunto niente di utile alla soluzione del rompicapo.
Tohrment rientrò con il sottomaggiordomo e, senza dire una parola, riprese il suo posto accanto alla porta. Ottima cosa
poiché, in linea generale, durante gli interrogatori di routine basta una sola persona a fare domande. Il ragazzo era utile
sotto un altro aspetto, tuttavia: ai suoi occhi acuti non sfuggiva nulla, quindi forse avrebbe notato qualcosa che Darius
aveva trascurato nel corso dei colloqui.
«Vi ringrazio di avere accettato di parlare con noi», esordì Darius.
Il doggen fece un profondo inchino. «Sarò ben lieto di rendermi utile, signore.»
«Molto bene», mormorò Darius, sedendosi sul duro sgabello che aveva usato nel colloquio con la cameriera. I doggen,
per loro natura, tendono ad attribuire grande importanza al protocollo, dunque in tale circostanza avrebbero preferito
rimanere in piedi al cospetto di una persona di ceto più elevato. «Come vi chiamate, di grazia?»
Un altro profondo inchino. «Frìtzgelder Perlmutter.»
«E da quanto tempo prestate servizio in questa famiglia?»
«Sono nato in questa casa settantasette anni fa.» Il sottomaggiordomo giunse le mani dietro la schiena e raddrizzò le
spalle. «Mi onoro di servire questa famiglia sin dal mio quinto genetliaco.»
«Lunga storia. Dunque conoscete bene la figlia dei padroni.»
«Sì. E una fanciulla virtuosa. Una gioia per i suoi genitori e per il suo lignaggio.»
Darius scrutò con attenzione il volto del domestico. «E non avete notato nulla... che lasciasse presagire tale
scomparsa?»
Il sopracciglio sinistro del domestico si contrasse brevemente.
E seguì un lungo silenzio.
Darius abbassò la voce, riducendola a un sussurro. «Se la cosa può rasserenare la vostra coscienza, avete la mia parola
di fratello che né io né il mio collega riveleremo ad anima viva ciò che direte. Fos-s'anche il re in persona.»
Fritzgelder aprì la bocca e inspirò.
Darius rimase in silenzio: incalzare il poveretto sarebbe servito solo a rallentare il processo di rivelazione. Poteva
parlare oppure no, e sollecitarlo avrebbe solo ritardato la sua decisione.
Il sottomaggiordomo infilò la mano nella tasca interna dell'uniforme e tirò fuori un fazzoletto, un quadrato di stoffa
immacolato stirato con la massima cura. Dopo essersi tamponato il labbro superiore, armeggiò per rimetterlo a posto.
«Nulla uscirà da queste mura», bisbigliò Darius. «Non una parola.»
Il domestico dovette schiarirsi la gola due volte prima di parlare con un filo di voce. «In verità... la signorina era
irreprensibile. Di questo sono certo. Non c'era alcuna... tresca amorosa, di cui i suoi genitori fossero all'oscuro.»
«Ma...» mormorò Darius.
In quel momento la porta si spalancò e comparve il maggiordomo che li aveva fatti accomodare in casa. Non appariva
affatto sorpreso da quella riunione, ma il suo volto esprimeva la disapprovazione più assoluta. Senza dubbio era stato
informato da uno dei suoi sottoposti.
«Siete alla testa di una squadra di domestici davvero ammirevole», lo blandì Darius. «Il mio collega e io siamo
sinceramente impressionati.»
Il profondo inchino del doggen non mitigò minimamente la diffidenza della sua espressione. «Ne sono lusingato,
signore.»
«Stavamo giusto per andarcene. Il vostro padrone è ancora alzato?»
Il maggiordomo si raddrizzò con evidente sollievo. «Si è ritirato nelle sue stanze, per questo sono venuto a cercarvi. Mi
ha pregato di porgervi i suoi più cordiali saluti, ma deve badare alla sua adorata shellan.»
Darius si alzò in piedi. «Il vostro sottomaggiordomo, qui, stava per mostrarci i giardini, uscendo. Piove, dunque sono
certo che preferite farci scortare sull'erba bagnata da uno dei vostri sottoposti. Torneremo dopo il tramonto. Grazie
della cortese disponibilità, sono certo che non avrete nulla in contrario ad assecondare le nostre richieste.»
«Ma naturalmente», disse il maggiordomo. Non ci furono altre reazioni.
Fritzgelder rivolse un inchino al suo superiore, quindi tese il braccio verso una porta nell'angolo in fondo alla stanza.
«Da questa parte, prego.»
Fuori, quasi non si avvertiva la promessa primaverile di una temperatura più mite. L'aria era gelida come in inverno,
mentre procedevano a fatica nella nebbia.
Fritzgelder sapeva con esattezza dove condurli; girando dietro la casa, si avviò deciso verso il settore dei giardini su cui
affacciava la camera da letto della fanciulla.
Il suo piano aveva funzionato, pensò Darius.
Il sottomaggiordomo si fermò proprio sotto la finestra della figlia di Sampsone, ma invece di voltarsi verso le solide
mura di pietra della casa, volse lo sguardo verso l'esterno... oltre le aiuole fiorite e il dedalo di siepi... verso la tenuta
vicina. Poi, di proposito, si volse verso Darius e Tohrment.
«Alzate gli occhi sugli alberi», disse indicando la casa, quasi stesse descrivendo qualcosa... poiché sicuramente li
stavano osservando dalle finestre della magione. «Guardate quel varco.»
In effetti, nell'intrico di rami spogli c'era una breccia... la stessa attraverso cui, dal primo piano, avevano scorto la
magione confinante.
«Quell'apertura non è stata creata da nessuno degli abitanti di questa casa, signore», spiegò sottovoce il doggen. «E io
l'ho notata più o meno una settimana prima... della scomparsa della signorina. Ero di sopra a pulire le stanze. I padroni
si erano ritirati nel sotterraneo, essendo giorno fatto. Quando ho udito il rumore di un legno che veniva spezzato, mi
sono affacciato alla finestra e ho visto i rami che venivano tagliati.»
Darius socchiuse gli occhi. «È stato un gesto deliberato, dunque.»
«Assolutamente. All'epoca non vi ho dato importanza poiché laggiù risiedono solo umani. Ma ora...»
«Ora vi chiedete se non vi fosse uno scopo ben diverso dalla potatura degli alberi. Dite, con chi ne avete parlato?»
«Con il maggiordomo. Ma lui mi ha implorato di non farne parola con nessuno. E una brava persona, un servitore fedele.
Vuole solo che la signorina venga ritrovata...»
«Ma non vuole si sospetti che potrebbe essere caduta nelle grinfie degli umani.»
Gli umani, dopo tutto, agli occhi della glymera erano poco più che topi di fogna.
«Vi ringrazio dell'informazione», disse Darius. «Avete fatto il vostro dovere.»
«Trovatela, ve ne prego. Non importa chi l'ha rapita... riportatela a casa e basta.»
Darius si concentrò su ciò che riusciva a vedere della casa dei vicini. «Lo faremo. In un modo... o nell'altro.»
Per il loro bene, pregò che gli umani in quella tenuta non avessero osato prendere una delle loro femmine. L'altra razza
andava evitata per ordine del re, ma se gli umani avevano avuto la temerarietà di aggredire una vampira? E per giunta
aristocratica?
Darius li avrebbe trucidati uno per uno nei loro letti, e poi avrebbe lasciato i cadaveri a marcire nel fetore della
decomposizione.
Capitolo 31
Gregg Winn si svegliò con Holly raggomitolata contro di sé, le megatette finte come due cuscini gemelli premuti
contro il fianco.
Una rapida occhiata alla sveglia e vide che erano le sette del mattino. Tanto valeva fare i bagagli e partire per Atlanta.
«Holly.» Le diede un colpetto con la mano. «Svegliati.»
Lei emise qualcosa di simile alle fusa di un gatto e si stiracchiò, inarcandosi contro di lui e trasformando la sua
erezione mattutina in una smania irresistibile che era propenso a placare in qualche modo. Il ricordo di come Holly
fosse finita nel suo letto, però, raffreddò subito quell'impulso.
A riprova del fatto che per certi versi era un gentiluomo.
«Holly. Dai. Sveglia, dormigliona.» Le tirò indietro i capelli lisciandoli sulla spalla. «Se ci diamo ima mossa saremo
ad Adanta prima di sera.»
Il che tornava comodo considerato che, per inseguire quella storia di Rathboone, aveva fatto perdere un giorno intero
a tutti e tre.
«Okay. Mi alzo. Mi alzo.»
Gregg, in realtà, fu l'unico dei due ad alzarsi. Raggomitolata nella nicchia calda lasciata libera da lui, Holly si
riaddormentò.
Dopo la doccia, Gregg riempì la valigia il più rumorosamente possibile, ma lei dormiva come un sasso: più che
addormentata, era in coma.
Stava per fare un salto da Stan, che era anche peggio di Holly quando si trattava di alzarsi, quando bussarono alla
porta.
Possibile che quel fesso strafatto di marijuana fosse già sveglio?
Aprendo la porta, cominciò a parlare al suo cameraman, «Senti, carichiamo il furgone...»
Era quel bacchettone compassato del maggiordomo e aveva una faccia... come se qualcuno avesse rovesciato del vino
rosso sul suo bel divano.
Gregg alzò una mano. «Okay, ce ne andiamo. Leviamo le tende. Ci dia giusto...»
«Il proprietario ha deciso di darvi il permesso di filmare. Per il vostro speciale.»
Gregg batté le palpebre come un ebete. «Come ha detto?»
Il tono del maggiordomo si fece, se possibile, ancora più disgustato. «Ho parlato col proprietario, stamattina. Ha detto
che avete il permesso di girare qui il vostro programma.»
Troppo tardi, pensò Gregg imprecando tra sé. «Spiacente. La mia squadra e io siamo...»
«Entusiasti», terminò Holly al suo posto.
Gregg la guardò da sopra la spalla; la sua conduttrice, sistemandosi la vestaglia, stava scendendo dal letto.
«E una splendida notizia», esclamò enfatica lei, sorridendo al maggiordomo.
Il quale sembrava altalenare tra la disapprovazione e la delizia nel vederla mezza insonnolita, calda di letto e al
naturale.
«Molto bene, allora», disse il maggiordomo dopo essersi schiarito la gola. «Vi prego di farmi sapere se vi serve
qualcosa.»
Con un inchino, scomparve lungo in corridoio.
Gregg chiuse la porta. «Credevo che volessi scappare via di qui.»
«Be'... con te sono stata al sicuro, giusto?» Holly gli andò vicino, timidamente, accarezzandogli il petto. «Resterò qui
con te.»
La soddisfazione nella sua voce lo insospettì. «Mi hai preso in giro, con tutta quella storia di sesso con... chiunque
fosse?»
Lei scosse la testa senza esitazione. «No... ma credo davvero che fosse tutto un sogno.»
«Ma non avevi detto che eri certa di aver fatto sesso?»
Holly aggrottò le sopracciglia depilate come se si stesse sforzando di vedere attraverso un vetro ghiacciato. «È tutto
troppo vago per essere vero. Ieri notte ero completamente confusa, ma adesso che è giorno... sembra tutta una
sciocchezza.»
«Eri parecchio sicura, quando sei piombata qui dentro.»
Lei scosse adagio la testa. «E' stato solo un sogno incredibile e molto vivido... non è successo per davvero.»
Gregg la scrutò bene in volto e non vide altro che certezza.
D'un tratto, lei si portò una mano alla tempia. «Hai un'aspirina?»
«Mal di testa?»
«Già. E' scoppiato così, all'improvviso.»
Gregg tirò fuori dalla valigia il nécessaire da toilette. «Ascolta, sono disposto a fare un tentativo, ma se decidiamo di
restare poi non possiamo più tirarci indietro. Dobbiamo riempire la nostra fascia oraria, non è che tra un giorno o due
possiamo prendere e schizzare ad Atlanta.»
Francamente, erano già quasi fuori tempo massimo.
«Capisco», disse Holly, sedendosi sul letto. «Assolutamente.»
Gregg le portò le aspirine, poi andò in bagno a prenderle un bicchiere d'acqua. «Senti, perché non ti rimetti a letto? È
ancora presto e Stan, di sicuro, starà ancora Tonfando.»
«Tu cosa hai in mente di fare?» Holly sbadigliò, restituendogli la confezione di aspirine e il bicchiere vuoto.
Gregg annuì in direzione del portatile. «Porto quello giù in salotto e comincio a controllare le immagini che abbiamo
catturato di nascosto ieri sera. Dovrebbe averle caricate tutte dalle telecamere esterne.»
«Resti qui?» fece lei, infilando sotto le lenzuola le unghie fresche di pedicure.
«Sei sicura?»
Il sorriso che Holly gli rivolse poggiando la testa sul cuscino mise in mostra la sua dentatura perfetta... nonché il lato
dolce della sua personalità. «Sì. Così dormirò meglio, e poi hai un buon profumo, dopo la doccia.»
Dio, certo che ci sapeva fare. Con lei che lo guardava così, stesa sul suo letto, ci sarebbe voluto un esercito per
trascinarlo fuori dalla stanza.
«Okay. Adesso dormi, Lolli.»
Lei sorrise nel sentire il vezzeggiativo che Gregg le aveva dato quando avevano cominciato ad andare a letto insieme.
«Va bene. Sono contenta che resti qui con me. Grazie.»
Quando Holly chiuse gli occhi, Gregg andò a sedersi nella poltrona vicino alla finestra e accese il portatile.
Il "girato" delle minuscole telecamere che avevano nascosto in corridoio, giù in salotto e fuori, tra i rami della grande
quercia accanto alla veranda, erano arrivate, in effetti.
Con quello che era successo, gli spiaceva da morire non averne piazzata una anche nella stanza di Holly, ma ormai
era andata così. Dato che i fantasmi non esistono veramente, perché avrebbero dovuto prendersi la briga di farlo?
Avevano girato quei filmati solo per comunicare l'atmosfera del luogo... e per "aggiustarli" in seguito, al momento di
"evocare gli spiriti della casa."
Cominciando a visionare le immagini catturate di straforo, si rese conto che seguiva quel programma da quanto? Due
anni? E ancora non aveva visto o sentito niente di davvero inspiegabile.
E andava benissimo così. Mica stava cercando di dimostrare l'esistenza degli spiriti. Il suo compito era vendere
intrattenimento.
Era un bene che mentire non fosse mai stato un problema per lui, questa era l'unica cosa che aveva imparato negli
ultimi ventiquattro mesi. In realtà, il fatto che si sentisse assolutamente a suo agio con la falsità spiegava perché fosse
perfetto come produttore televisivo: per lui contava solo l'obiettivo finale e i particolari, che fossero le location, il
talento, gli agenti, i proprietari delle case o qualunque cosa su pellicola o su nastro, non erano altro che barattoli di
minestra in scatola dentro una dispensa, da posizionare a suo piacimento. Per portare a termine il lavoro aveva
mentito su contratti, date, tempi di lavorazione, immagini ed effetti sonori. Aveva falsificato, fuorviato e minacciato
con false credenze.
Aveva fabbricato dal nulla, imbeccato e...
Accigliandosi, Gregg avvicinò il viso allo schermo.
Spostando il cursore sul tasto rewind di Windows Media Player, fece ripartire la sequenza registrata in corridoio.
C'era una sagoma scura che si muoveva fuori dalle loro camere da letto e... spariva dentro quella di Holly. Nell'angolo
in basso a destra compariva l'ora: mezzanotte e undici minuti.
Più o meno quarantacinque minuti prima che Holly andasse lì da lui.
Gregg fece ripartire la sequenza, osservando quell'ombra enorme avanzare verso il centro del corridoio fiocamente
illuminato, coprendo la luce che entrava dalla finestra in fondo.
Risentì la voce di Holly che diceva: Perché ci ho fatto sesso.
Con la mente agitata da un misto di rabbia e ansietà, guardò il seguito della registrazione; i minuti scorrevano
nell'angolino in basso a destra. Ed eccolo lì: una mezz'ora dopo qualcuno usciva dalla stanza di Holly, coprendo di
nuovo la luce.
La figura si allontanò dalla parte opposta a quella da cui era arrivata, quasi sapesse dov'era piazzata la telecamera e
non volesse farsi vedere in faccia.
Gregg stava già per chiamare la polizia locale quando... quell'accidente sparì nel nulla.
Ma che cazzo...
Capitolo 32
John Matthew si svegliò, sentì Xhex accanto a sé e andò nel panico.
Un sogno... era un sogno?
Si mise a sedere lentamente e, quando sentì il braccio di lei scivolare sul suo petto fino al ventre, lo afferrò prima che
arrivasse all'inguine. Dio, il braccio che stringeva con delicatezza era caldo, pesante e...
«John?» disse Xhex contro il cuscino.
Soprappensiero, lui le si raggomitolò addosso, accarezzandole i capelli corti. Immediatamente, lei parve
riaddormentarsi.
Una rapida occhiata all'orologio gli disse che erano le quattro del pomeriggio. Avevano dormito per ore e, da come gli
brontolava lo stomaco, anche lei doveva morire di fame.
Quando fu sicuro che Xhex dormiva della grossa, si sciolse dalla sua stretta e, senza fare rumore, le scrisse un breve
messaggio prima di infilarsi calzoni e T-shirt.
A piedi nudi uscì in corridoio. Era tutto silenzioso perché lì non c'era più nessun addestramento, ed era un vero
peccato. Avrebbe dovuto sentire le grida di chi si stava allenando nelle arti marziali in palestra, il mormorio di chi
teneva lezione in aula e gli armadietti che sbattevano nelle docce.
Invece, silenzio.
Ma scoprì che lui e Xhex non erano soli.
Giunto davanti alla porta a vetri dell'ufficio, si bloccò con la mano sulla maniglia.
Tohr si era assopito alla scrivania... be', sopra di essa. La testa appoggiata sul braccio e le spalle accasciate.
Era così abituato a essere in collera con lui che fu uno shock non provare niente del genere. Invece... sentì una
tristezza straziante.
Lui si era svegliato vicino a Xhex, quella mattina.
Tohr non avrebbe mai più potuto vivere una cosa del genere. Non avrebbe mai più potuto rotolare sulla schiena e
accarezzare i capelli di Wellsie. Non avrebbe mai più potuto fare un salto in cucina per portarle qualcosa da
mangiare. Non avrebbe mai più potuto abbracciarla o baciarla.
E, insieme a lei, aveva perso anche un figlio.
John aprì la porta aspettandosi di vederlo balzare su di scatto, ma Tohr non si mosse. Dormiva come un sasso. Nulla
di strano. Si era dato molto da fare per rimettersi in forma, mangiava e si allenava senza sosta, ventiquattr'ore su
ventiquattro, sette giorni su sette; e i risultati si cominciavano a vedere: camicie e calzoni non gli pendevano più
addosso. Ma era un percorso massacrante, evidentemente.
Dov'era Lassiter? si chiese John, girando intorno alla scrivania ed entrando nell'armadio. L'angelo di solito stava
appiccicato al fratello.
Infilò la porta nascosta tra le mensole e si incamminò lungo il tunnel, verso casa. Le luci fluorescenti sul soffitto si
stendevano a perdita d'occhio, dando l'impressione di un sentiero segnato... il che, visto come stavano andando le
cose, era confortante. Giunto davanti a una breve rampa di gradini, la salì, inserì un codice e fece un'altra rampa di
scale. Sbucando nell'atrio, sentì la TV nella sala del biliardo e immaginò che l'angelo fosse lì dentro.
Nessun altro in casa avrebbe guardato Oprah. Se non con una pistola puntata alla tempia.
La cucina era deserta, i doggen stavano sicuramente mangiando qualcosa nell'ala riservata alla servitù prima di
preparare e servire il Primo Pasto. Tanto meglio. Lui non voleva nessun aiuto.
In fretta prese una cesta dalla dispensa e la riempì fino all'orlo. Ciambelle. Thermos pieno di caffè. Caraffa di succo
d'arancia. Frutta tagliata a pezzetti. Dolcetto glassato. Dolcetto glassato. Dolcetto glassato. Tazza. Tazza. Bicchiere.
Stava abbondando con i cibi ad alto contenuto calorico e sperava che le piacessero i dolci.
A quel punto preparò un panino ripieno di tacchino, tanto per stare tranquilli.
E, per un motivo diverso, preparò anche un panino al prosciutto e formaggio.
Uscito dalla sala da pranzo, si avviò verso la porta sotto lo scalone...
«Quanto ben di dio per due persone», commentò Lassiter, senza la solita aria saputa.
John si voltò di scatto. L'angelo era sulla soglia della sala del biliardo, appoggiato con indolenza contro l'arco
riccamente decorato. Aveva uno stivale accavallato sull'altro e le braccia incrociate sul petto. Con quei piercing dorati
che scintillavano, sembrava tutto coperto di occhi, occhi a cui non sfuggiva niente.
«E così adesso vedi le cose da un'angolatura diversa, eh?» disse Lassiter con un sorrisetto.
Soltanto la sera prima John gli avrebbe risposto con un vaffanculo, ma adesso preferì annuire. Specie ripensando alle
crepe nel cemento del corridoio provocate dal dolore patito da Tohr.
«Bene», fece Lassiter, «era ora, cavolo. Oh, e al momento non sono con lui perché tutti abbiamo bisogno di stare un
po' da soli. E poi dovevo farmi la mia dose di Oprah.»
L'angelo si voltò, facendo ondeggiare i capelli biondi e neri. «E risparmiati i commenti sarcastici. Oprah è fantastica.»
John scosse la testa e si ritrovò a sorridere. Lassiter poteva anche essere un fighetto modaiolo e rompipalle, ma aveva
riportato Tohr alla confraternita, e non era cosa da poco.
Dentro il tunnel. Fuori dall'armadio. Dentro l'ufficio in cui Tohr era ancora addormentato.
Quando John passò davanti alla scrivania, il fratello si svegliò di soprassalto, alzando la testa di scatto dalla scrivania.
Metà faccia era schiacciata, come se qualcuno gli avesse spruzzato sopra dell'appretto e poi l'avesse stirata male.
«John...» disse brusco. «Ehi. Ti serve qualcosa?»
John infilò la mano nella cesta e tirò fuori il panino al prosciutto e formaggio. Lo posò sulla scrivania, spingendolo
verso Tohr.
Tohr batté le palpebre, allibito, come se non avesse mai visto due fette di pane di segale con dentro un po' di
affettato.
John annuì in direzione del panino. Mangia, sillabò.
Tohr ci mise la mano sopra. «Grazie.»
John annuì, le dita che indugiavano sul piano della scrivania. Il suo saluto fu un rapido colpetto con le nocche. C'era
troppo da dire nel poco tempo che aveva a disposizione, la sua principale preoccupazione adesso era che Xhex non si
svegliasse da sola.
Quando fu sulla porta, Tohr disse, «Sono proprio contento che tu l'abbia ritrovata. Sono contentissimo.»
Nel sentire quelle parole, John fissò le crepe sulla parete, fuori in corridoio. Anche lui avrebbe fatto lo stesso, si rese
conto. Se Wrath e i fratelli si fossero presentati alla sua porta con cattive notizie sulla sua femmina, avrebbe reagito
nello stesso identico modo di Tohr.
Distruggendo tutto il muro, dal pavimento in su, prima di sparire dalla circolazione.
Da sopra la spalla guardò il volto pallido del vampiro che era stato il suo salvatore, il suo mentore... la cosa più simile
a un padre che avesse mai avuto. Tohr aveva messo su peso, ma il suo viso era ancora scavato e forse, per quanto
mangiasse, non sarebbe mai cambiato.
Quando i loro occhi si incontrarono, John ebbe la sensazione che avessero condiviso ben più che la semplice somma
degli anni trascorsi insieme.
Posò il cestino ai suoi piedi. Stasera porto fuori Xhex.
«Ah, sì?»
Voglio farle vedere dove sono cresciuto.
Tohr deglutì a fatica. «Vuoi le chiavi di casa mia?»
John trasalì. Voleva solo rendere partecipe Tohr di quello che gli stava capitando, una specie di primo passo verso
una riconciliazione.
Non avevo in mente di portarla lì...
«Vacci. Ti farebbe bene darci un'occhiata. I doggen ci fanno un salto solo una volta al mese, forse due.» Tohr aprì uno
dei cassetti della scrivania. Tirò fuori un portachiavi, schiarendosi la voce. «Ecco.»
John prese le chiavi e le strinse nel pugno, soffocato dalla vergogna. Ultimamente non aveva fatto altro che bistrattare
Tohr e, nonostante tutto, il fratello gli offriva con grande coraggio ciò che senza dubbio gli procurava un dolore
atroce.
«Sono contento che tu e Xhex vi siate trovati. Significa davvero tanto.»
John si infilò le chiavi in tasca per liberarsi la mano. Non stiamo
insieme.
Il sorriso che comparve fugacemente sul viso del fratello sembrava antichissimo. «Sì, invece. Voi due siete fatti per
stare insieme.»
Gesù, avrà fiutato il mio odore di vampiro innamorato, pensò John. Ma non c'era motivo di entrare in tutti i "perché
no" che circondavano la loro coppia.
«E così vai all'orfanotrofio?» Quando John annuì, Tohr prese dal pavimento un sacco della spazzatura. «Portati dietro
questi. Sono soldi ricavati dalla droga, confiscati in quella casa di arenaria. Li ha trovati Blay. A loro faranno
comodo.»
Tohr si alzò in piedi, lasciò il bottino sulla scrivania e prese il panino, tolse la pellicola per alimenti e gli diede un
morso.
«La maionese è perfetta», mormorò. «Né troppa né troppo poca. Grazie.»
Tohr si avviò all'armadio.
John fischiò piano e il fratello si fermò, ma non si voltò. «Va tutto bene, John. Non devi dire niente. Solo, stai attento
là fuori, stanotte, okay?»
Ciò detto, Tohr uscì dall'ufficio lasciandolo solo, sull'onda di una gentilezza e una dignità che John poteva solo
sperare di eguagliare, un giorno.
Quando la porta dell'armadio si chiuse, John pensò... che vo leva essere come Tohr.
Uscì in corridoio; buffo che quel pensiero gli frullasse di nuovo in testa; la sua ricomparsa in un certo senso
raddrizzava le cose. Sin dalla prima volta che aveva incontrato Tohr, che fosse per la sua stazza, la sua intelligenza, il
modo in cui trattava la sua compagna o in cui combatteva, o addirittura la sua voce profonda... John aveva sognato di
essere come lui.
Era una cosa bella.
Era una cosa... giusta.
Ormai era vicino alla sala post-operatoria. Non è che proprio morisse dalla voglia di affrontare la serata. In fin dei
conti, spesso il passato è meglio lasciarlo sepolto... specialmente il suo, perché faceva schifo.
Ma era un modo per impedirle di lanciarsi subito sulle tracce di Lash. Le occorreva un'altra notte, o magari anche due,
prima di essere nel pieno delle forze. E doveva nutrirsi almeno un'altra volta.
Portandola fuori, John avrebbe saputo dov'era e l'avrebbe tenuta al suo fianco per l'intera serata.
Non si faceva illusioni, comunque la pensasse Tohr. Prima o poi Xhex se ne sarebbe andata e lui non sarebbe riuscito
a fermarla.
Dall'Altra Parte, Payne passeggiava per il Santuario, i piedi nudi solleticati dal morbido tappeto di erba verde,
inebriata dai profumi di giacinto e caprifoglio.
Non aveva dormito neanche un'ora da quando sua madre l'aveva rianimata e, per quanto all'inizio le sembrasse
strano, ormai non ci faceva quasi più caso. Era così e basta.
Più che probabile che il suo corpo si fosse riposato abbastanza per un'intera vita.
Passò davanti al Tempio del Primale, ma non entrò. Idem per l'ingresso al cortile di sua madre... era troppo presto per
l'arrivo di Wrath, e i suoi incontri di arti marziali con lui erano il solo motivo per cui entrava lì dentro.
Giunta al tempio delle scrivane segregate, tuttavia, aprì la porta, spinta da un impulso inspiegabile a girare la
maniglia e varcare la soglia.
Le ciotole piene d'acqua che per lungo tempo le Elette avevano utilizzato per guardarci dentro e assistere agli eventi
che avevano luogo di là, sulla Terra, erano allineate in perfetto ordine sui tanti scrittoi, analogamente alle penne
d'oca e ai rotoli di pergamena pronti all'uso.
Attratta da un bagliore, Payne si diresse verso la sua fonte. L'acqua, in uno dei bacili di cristallo, si muoveva in cerchi
sempre più lenti, come se fosse stata appena usata.
Payne si guardò intorno. «Ehilà, c'è nessuno?»
Nessuna risposta, solo un dolce profumo di limone, da cui si intuiva che No'One era passata di recente col suo
straccio. Cosa che in realtà era un po' una perdita di tempo. Non c'era un solo granello di polvere, non una sola traccia
di sporco da pulire, lì, ma d'altronde No'One rientrava nella grande tradizione delle Elette, no?
Nulla da fare se non dei lavoretti che non servivano a granché, tanto per tenersi occupati.
Payne si voltò per uscire, passando accanto alle sedie vuote; il senso del fallimento di sua madre era predominante,
come il silenzio di tomba di quel luogo.
Sua madre non le piaceva, questo era vero, ma c'era una triste realtà in tutti quei progetti che non erano approdati a
nulla: concepire un programma di selezione della razza in modo da eliminarne tutti i difetti per rafforzarla;
affrontare il nemico sul campo di battaglia terrestre e vincere; farsi servire dai suoi innumerevoli figli con amore,
obbedienza e gioia.
Come viveva la Vergine Scriba, adesso? Da sola, senza nessuno che la venerasse o la amasse.
Quanto alla generazione futura, era ancora meno probabile che seguisse le regole dettate da Lei, visto il modo in cui
tanti genitori si erano discostati dalla tradizione.
Lasciando la stanza deserta, Payne uscì nella pervasiva luce lattea e...
Accanto alla vasca dei riflessi una figura giallo vivo si muoveva leggiadra, danzando come un tulipano nella brezza.
Payne si incamminò decisa in quella direzione e, quando fu più vicina, concluse che Layla doveva essere impazzita.
L'Eletta canticchiava una canzone senza parole, muovendosi a un ritmo silenzioso, senza accompagnamento musicale,
i capelli che sventolavano come una bandiera.
Era la prima e unica volta che non aveva lo chignon tipico di tutte le Elette... almeno per quel che ricordava Payne.
«Sorella!» esclamò Layla, fermandosi. «Perdonami.»
Il suo sorriso smagliante era più luminoso del giallo della sua veste e il suo profumo era più intenso che mai, l'aroma
di cannella si spandeva nell'aria come poco prima aveva fatto la sua voce.
Payne si strinse nelle spalle. «Non c'è nulla da perdonare. Il tuo canto è piacevole da ascoltare, in verità.»
Layla riprese a far ondeggiare le braccia con eleganza. «È una splendida giornata, non trovi?»
«Hai ragione.» Tutt'a un tratto Payne provò una fitta di paura. «Il tuo umore è molto migliorato.»
«E così, infatti.» L'Eletta piroettava tutt'intorno, inarcando con grazia la punta del piede prima di spiccare il balzo. «È
proprio una splendida giornata.»
«Cosa ti ha resa tanto felice?» Ma Payne conosceva già la risposta. I cambiamenti di umore, dopo tutto, di rado sono
spontanei... quasi sempre rispondono a uno stimolo.
Layla rallentò la danza, le braccia si abbassarono fino a fermarsi e i capelli le ricaddero sulla schiena. Si portò alle
labbra le dita affusolate, incapace, in apparenza, di trovare le parole.
Si era resa utile a tutti gli effetti, pensò Payne. La sua esperienza come ehros non era più soltanto teorica.
«Io...» Layla aveva le guance rosso fuoco.
«Non dire altro, sappi solo che sono felice per te», mormorò Payne, ed era in gran parte vero. Ma una parte di lei,
invece, si sentiva stranamente avvilita.
Ora soltanto lei e No'One erano inutili? Così pareva.
«Mi ha baciata», disse Layla, guardando la vasca. «Lui... ha posato le labbra sulle mie.»
Con grazia, L'Eletta si sedette sul bordo di marmo facendo scorrere la mano nell'acqua immota. Un attimo dopo
Payne la raggiunse, perché a volte è meglio provare qualcosa, qualunque cosa. Anche un dolore.
«Ti è piaciuto, sì?»
Layla guardò il proprio riflesso, i capelli biondi le scivolarono giù dalla spalla toccando con le punte la superficie
argentea della vasca. «Lui era... un fuoco dentro di me. Una vampata che... mi ha consumata.»
«Dunque non sei più vergine.»
«Lui si è fermato dopo il bacio. Voleva che fossi sicura, così ha detto.» Il sorriso sensuale che le illuminò il volto era
una chiara eco della passione. «Io ero certa, lo sono tuttora. E anche lui. Il suo corpo di guerriero era pronto per me, in
verità. Bramoso. Essere desiderata a tal punto è stato un dono incommensurabile. Credevo... di agognare il
compimento della mia educazione, ma ora so che di là, sulla Terra, mi attende molto di più.»
«Con lui?» mormorò Payne. «O tramite l'adempimento del tuo dovere?»
A quell'interrogativo, Layla si accigliò.
Payne annuì. «Devo constatare che cerchi più lui che la tua posizione.»
Seguì una lunga pausa. «Una tale passione tra noi è sicuramente indicativa di un certo destino, non credi?»
«Non ho opinioni in merito.» La sua esperienza col fato l'aveva condotta a un radioso, sanguinario momento di
attività... seguito da una prolungata, pervasiva inazione. Né l'uno né l'altra le consentiva di commentare il genere di
passione a cui si riferiva Layla.
O in cui stava trovando diletto.
«Mi condanni?» sussurrò Layla.
Payne alzò gli occhi sull'Eletta e pensò al tempio deserto, con
tutti gli scrittoi vuoti e le ciotole per le visioni abbandonate dalle mani esperte. La gioia di Layla, adesso, radicata
com'era in eventi esterni alla vita delle Elette, sembrava un'altra inevitabile defezione. E non era un male.
«Niente affatto. In verità sono lieta per te», disse Payne, toccandole la spalla.
Il timido piacere di Layla trasformò la sua bellezza in qualcosa che toglieva il respiro. «Sono così felice di
condividere questo con te. Mi sento piena fin quasi a scoppiare e non c'è nessuno... invero... con cui parlare.»
«Puoi sempre parlare con me.» In fondo, Layla non l'aveva mai giudicata per le sue inclinazioni mascoline e lei era
più che propensa a ricambiarla con la medesima, garbata accettazione. «Tornerai presto di là, sulla Terra?»
Layla annuì. «Lui ha detto che posso tornare a trovarlo nella sua... come si è espresso? La sua prossima serata di
riposo. E così farò.»
«Be', devi tenermi aggiornata. Davvero... mi interessa molto sentire come stai.»
«Grazie, sorella.» Layla coprì la mano di Payne con la sua e i suoi occhi si velarono di lacrime. «Per troppo tempo
sono rimasta inutilizzata e questo... questo è ciò che ho sempre desiderato. Mi sento... viva.»
«Buon per te, sorella. È... un'ottima cosa»
Con un ultimo sorriso di rassicurazione, Payne si alzò in piedi e prese congedo dall'Eletta. Tornando ai suoi
appartamenti, si scoprì a massaggiare il dolore che le era sbocciato in mezzo al petto.
Non vedeva l'ora che arrivasse Wrath.
Capitolo 33
Xhex fu svegliata dall'odore di John Matthew.
Da quello e dall'aroma di caffè appena fatto.
Alzò le palpebre e lo vide, nella penombra della sala postoperatoria. Era tornato sulla sedia, il busto voltato mentre
versava il caffè da un thermos verde scuro. Si era rimesso i calzoni di pelle e la T-shirt, ma era a piedi nudi.
Voltandosi verso di lei si bloccò, inarcando le sopracciglia di scatto. Aveva già quasi il caffè alle labbra, ma
immediatamente glielo porse.
Bastava quel gesto a riassumerlo.
«No, grazie», disse lei. «È tuo.»
John rimase fermo un istante, quasi valutando se mettersi a discutere. Poi bevve un sorso dalla tazza di porcellana.
Sentendosi un po' meno instabile, Xhex gettò via le coperte e fece scivolare le gambe giù dal letto. Nell'alzarsi,
l'asciugamano che aveva addosso cadde. Sentì John inspirare con forza.
«Oh, scusa», farfugliò, chinandosi a raccoglierlo.
Non poteva biasimarlo se preferiva non guardare la cicatrice al basso ventre ancora in via di guarigione. Non era
esattamente la cosa più bella da vedere, appena prima di colazione.
Avvolgendosi nel telo di spugna andò al gabinetto, fece i suoi bisogni e si lavò la faccia. Il suo fisico si stava
riprendendo bene, la sua collezione di lividi stava sparendo, le gambe reggevano meglio il suo peso. Grazie a tutto
quanto e al sangue di John, i dolori si erano attenuati, riducendosi a una serie di vaghi fastidi.
Uscendo dal bagno disse, «Pensi che qualcuno possa prestarmi dei vestiti?»
John annuì, ma indicò il letto. Prima voleva che mangiasse, evidentemente, e lei non aveva nulla in contrario.
«Grazie», disse, stringendosi l'asciugamano sui seni. «Che cos'hai lì dentro?»
Appena si sedette, John le offrì una varietà di cose e lei scelse il panino al tacchino, perché il fabbisogno di proteine
per lei era ineludibile. Dalla sua sedia, John la guardava mangiare sorseggiando il caffè; non fece in tempo a finire
che subito lui tirò fuori un pasticcino, che si rivelò una tentazione troppo forte.
La combinazione di ciliegia e glassa le fece venire voglia di caffè. Neanche a dirlo, John era già pronto con una tazza,
come se le avesse letto nel pensiero.
Xhex buttò giù un secondo dolcetto e una ciambella. E un bicchiere di succo d'arancia. E due tazze di caffè.
Buffo, il silenzio di lui le faceva uno strano effetto. Di solito era lei quella taciturna, preferendo tenere per sé quello
che pensava su qualunque argomento. Ma la presenza muta di John la spingeva curiosamente a parlare.
«Sono strapiena», disse, abbandonandosi contro i cuscini. Quando John alzò l'ultimo pasticcino, inarcando un
sopracciglio con fare interrogativo, lei scosse la testa. «Dio... no. Non riuscirei a mandare giù neanche una briciola.»
Soltanto allora lui cominciò a mangiare.
«Ma aspettavi me?» chiese lei, accigliandosi. Quando lui abbassò lo sguardo scrollando le spalle, Xhex imprecò
sottovoce. «Non dovevi.»
Altra scrollata di spalle.
Guardandolo, mormorò, «Sei molto beneducato.»
Il rossore di lui aveva il colore del giorno di San Valentino; il cuore di Xhex cominciò a battere forte, tanto che
dovette intimargli di darsi una calmata.
Ma forse aveva le palpitazioni perché aveva appena ingurgitato poco meno di duemila calorie.
O forse no. Quando John cominciò a leccare via la glassa dalla punta delle dita, lei intravide la sua lingua e per un
attimo fu scossa da un fremito...
Ricordi di Lash uccisero sul nascere il fragile desiderio sbocciatole tra le gambe, immagini che la riportarono in
quella camera da letto, con Lash che, sopra di lei, le spalancava le cosce a forza...
«Oh, cazzo...» Buttandosi giù dal letto, arrancò verso il water... appena in tempo.
Venne su tutto. I due pasticcini. Il caffè. Quel panino al tacchino. Un'evacuazione completa di tutto ciò che aveva
mangiato.
Mentre dava di stomaco, invece del vomito sentiva le schifose manacce di Lash sulla pelle... il suo membro dentro di
lei che pompava furiosamente...
Ed ecco anche il succo d'arancia.
Misericordia... come aveva fatto a sopportare il calvario infinito inflittole da quel bastardo? I pugni, la lotta, i morsi...
e poi il sesso brutale. Ancora e ancora e ancora... e poi quello che veniva dopo. Lavarselo via di dosso. Via dalla pelle.
Via da dentro.
Cazzo...
Un'altra ondata di conati troncò quei pensieri; per quanto odiasse vomitare, staccare il cervello per un po' fu un
sollievo. Era come se il suo corpo stesse cercando di esorcizzare fisicamente il trauma, espellendolo per permetterle di
ricominciare.
Ripartire da zero, azzerando il contenuto del suo stomaco, per così dire.
Passato il peggio, si accasciò sui talloni appoggiando sul braccio la fronte madida di sudore. Respirava a fatica, con
l'urto di vomito che premeva in gola, quasi stesse valutando se riorganizzarsi per ricominciare.
Non c'è rimasto più niente, gli disse lei. A meno che quello stronzo volesse farle sputare anche i polmoni.
Merda, odiava quella parte. Subito dopo che avevi passato l'inferno, la tua mente e il tuo ambiente erano pieni di
mine antiuomo e non sapevi mai cosa poteva innescare un'esplosione. Col tempo passava, certo, ma l'iniziale ritorno
alla "vita normale" era un vero strazio.
Alzò la testa e azionò lo sciacquone.
Sentendo sulla mano una spugna fresca trasalì, ma niente paura, era solo John.
E aveva l'unica cosa che in quel momento lei voleva davvero: quella spugna pulita, umida e fredda era un dono del
cielo.
Xhex vi affondò il viso, rabbrividendo di sollievo. «Mi spiace per la colazione. Era tutto squisito, quando l'ho
mandato giù.»
Era il momento di chiamare la dottoressa Jane.
Mentre Xhex, nuda, se ne stava seduta scompostamente sul pavimento di fronte al water, John scrisse un SMS
tenendo un occhio su di lei e l'altro sul telefonino.
Subito dopo aver premuto invio, buttò il cellulare sul piano del lavandino e prese un asciugamano pulito dalla pila lì
accanto.
Voleva proteggere l'intimità di X, ma faticava anche a guardare come la sua spina dorsale minacciava di lacerare la
pelle della schiena. L'avvolse nel telo di spugna, indugiando con le mani sulle sue spalle.
Aveva voglia di stringerla al petto, ma non sapeva se le andava di stare così vici...
Xhex si appoggiò all'indietro contro di lui e sistemò l'asciugamano, incrociandolo sul davanti. «Lasciami indovinare.
Hai chiamato la dottoressa.»
Spostandosi, John si puntellò con le mani sul pavimento e alzò le ginocchia, in modo da circondarla su tutti i lati.
Non male, pensò. Adesso Xhex non aveva il water proprio davanti alla faccia ma, in caso di bisogno, doveva solo
raddrizzare la schiena.
«Non sto male», disse lei con voce roca. «Per l'operazione o roba del genere. Ho solo mangiato troppo in fretta.»
Forse, pensò lui. Ma che male c'era se la dottoressa Jane passava a darle un'occhiata? E poi avevano bisogno della sua
autorizzazione per uscire, quella sera, sempre ammesso che fosse ancora possibile.
«Xhex? John?»
Nel sentire la voce della dottoressa, John fischiò e un attimo dopo la compagna di Vishous fece capolino dalla porta
del bagno.
«Cosa c'è, una festa? E nessuno mi ha invitato?» scherzò, entrando.
«Be', tecnicamente, credo che lo sia stata», mormorò Xhex. «Sto bene.»
Jane si inginocchiò e, malgrado il sorriso cordiale, scrutò con molta attenzione il volto di Xhex. «Allora, cosa
succede?»
«Ho mangiato e subito dopo ho dato di stomaco.»
«Le spiace se le misuro la febbre?»
«Al momento preferirei che non mi ficcasse niente in gola, se non le spiace.»
Jane tirò fuori dalla borsa un apparecchietto bianco. «Posso misurargliela dall'orecchio.»
John rimase scioccato quando Xhex gli prese la mano e gliela strinse con forza, quasi avesse bisogno di sostegno
morale. Per farle capire che lui c'era, per qualunque cosa le servisse, ricambiò la stretta; subito lei si rilassò e la
tensione che le contraeva le spalle si sciolse.
«Faccia pure, dottoressa.»
Xhex piegò il collo e, neanche a farlo apposta, la testa finì proprio sulla spalla di John. Così lui proprio non potè fare
a meno di posare la guancia sui riccioli morbidi, inspirando a fondo.
Purtroppo per lui, però, la dottoressa si sbrigò troppo in fretta: infilò il termometro nell'orecchio, il tempo di un bip e
via, lo stava già tirando fuori... al che Xhex raddrizzò la testa.
«Niente febbre. Le spiace se do un'occhiata all'incisione?»
Xhex aprì l'asciugamano esponendo il ventre e la cicatrice che correva lungo la parte inferiore dell'addome.
«Sembra a posto. Cosa ha mangiato?»
«Troppo.»
«Okay. Nessun dolore di cui dovrei essere informata?»
Xhex scosse la testa. «Mi sento già meglio. Davvero. Ho solo bisogno di vestiti e un paio di scarpe... e di riprovarci
con la prima colazione.»
«Io ho dei pantaloni e una casacca da chirurgo, può mettersi quelli; poi su in casa provvederemo a sfamarla di
nuovo.» «Bene. Grazie.» Xhex fece per rimettersi in piedi e John l'aiutò, attento a tenere a posto l'asciugamano
quando minacciava di scivolare via. «Perché noi due dobbiamo uscire.»
«Non a combattere, levatevelo dalla testa.»
John annuì. Ci sgranchiamo solo le gambe. Giuro.
Jane socchiuse gli occhi. «Posso esprimere solo un parere medico. Penso che» - così dicendo guardò Xhex - «dovrebbe
mangiare qualcosa e stare qui ancora per tutta stanotte. Ma essendo adulta, è libera di scegliere. Però vi avverto. Se
uscite senza Qhuinn, Wrath si arrabbierà parecchio, con tutti e due.»
Va bene, disse John. Dover girare col solito babysitter non lo esaltava per niente, ma non voleva correre rischi con
Xhex.
Non si faceva illusioni sulla femmina che amava. Xhex poteva decidere di scappare in qualsiasi momento e, a quel
punto, un aiuto gli avrebbe fatto comodo.
Capitolo 34
Lash si svegliò nella stessa posizione in cui si era addormentato: seduto per terra, nel gabinetto della topaia, le
braccia incrociate in cima alle ginocchia, la testa abbandonata sul petto.
Quando aprì gli occhi, ebbe una visione della propria erezione.
Aveva sognato Xhex, immagini così nitide, sensazioni così vivide che era un miracolo se non era venuto nei calzoni:
nella camera da letto della casa di arenaria lottavano e si mordevano, poi lui l'aveva presa, schiacciandola giù sul
materasso e costringendola ad accettarlo anche se lei non voleva.
Era innamorato pazzo di lei.
Un gorgoglio gli fece alzare la testa. Plastic Fantastic stava rinvenendo, le dita si contraevano, le palpebre
tremolavano come veneziane rotte.
Guardando i capelli arruffati e il corpino macchiato di sangue della donna, Lash sentì una fitta di dolore alle tempie,
una specie di doposbornia che non lasciava presagire niente di buono. Quella troia lo disgustava, stesa lì, accasciata
nel suo stesso vomito.
Doveva aver dato di stomaco; meno male che lui dormiva, quando era successo.
Scostandosi i capelli dagli occhi, sentì le zanne che si allungavano e capì che era giunto il momento di usarla; Cristo,
però... era appetitosa come un pezzo di carne avariata.
Ancora un po' d'acqua. Ecco cosa occorreva a quell'incubo. Ancora un po' d'acqua e...
Mentre Lash si allungava per riaprire il rubinetto della doccia, la donna spostò gli occhi su di lui.
L'urlo che le uscì dalla bocca insanguinata riecheggiò contro le pareti piastrellate del bagno, fino a stordirgli le
orecchie come le campane di una chiesa.
Maledette zanne, l'avevano spaventata a morte. I capelli gli ricaddero sugli occhi e lui li scostò di nuovo, valutando se
sgozzarla tanto per farla tacere. Non si sognava neanche lontanamente di morderla, se prima non riusciva a lavarla...
Lei, però, non stava guardando la sua bocca. I suoi occhi sbarrati, atterriti, erano fissi sulla sua fronte.
Quando i capelli tornarono a infastidirlo, Lash se li tirò indietro... e qualcosa gli rimase in mano.
Al rallentatore guardò in giù.
No, non erano i suoi capelli biondi.
Era la sua pelle.
Voltandosi verso lo specchio, si ritrovò a gridare. Il suo riflesso era irriconoscibile; il pezzo di carne che si era staccato
aveva messo in luce uno strato nero melmoso sopra il cranio bianco. Con l'unghia grattò leggermente il bordo di
quello che era rimasto attaccato e scoprì che era molliccio; ogni centimetro quadrato di faccia non era altro che un
lenzuolo steso sopra l'osso.
«No!» urlò, tentando di riattaccare la pelle...
Le mani... oh, Dio, no, anche le mani. Lembi di pelle penzolavano dal dorso; si tirò su bruscamente le maniche della
camicia e subito rimpianse di non essere stato più delicato, perché l'epidermide venne via con la seta finissima.
Cosa gli stava succedendo?
Dietro di lui, nello specchio, vide la puttana schizzare via correndo a rotta di collo, come Sissy Spacek in Carrie - Lo
sguardo di Satana, solo senza il vestito dei ballo studentesco.
Con uno sforzo estremo la inseguì, muovendosi senza un briciolo della potenza e della grazia di un tempo.
Rincorrendo la sua preda, sentiva la frizione degli indumenti contro la pelle e poteva facilmente immaginare cosa
stava succedendo a ogni centimetro del suo corpo.
Agguantò la prostituta davanti alla porta di servizio, mentre già stava armeggiando con le serrature. Piombandole
addosso da dietro, l'afferrò per i capelli, le tirò indietro la testa con uno strattone e le affondò le zanne nel collo,
succhiando il suo sangue nero.
Bevve fino a prosciugarla, finché non venne fuori più niente; alla fine la lasciò andare, e lei si afflosciò sul tappeto.
Barcollando come un ubriaco, tornò in bagno e accese le luci ai due lati dello specchio.
Cominciò a spogliarsi, rivelando a poco a poco l'orrore che si stava già manifestando sulla sua faccia: sotto la luce
delle lampadine, ossa e muscoli luccicavano di un nero velo oleoso.
Era un cadavere. Un cadavere ambulante. Camminava e respirava, ma gli occhi ruotavano nelle orbite senza più
palpebre o ciglia e della bocca erano rimaste solo le zanne e i denti.
L'ultimo lembo di pelle era quello che ancorava al cranio i bei
capelli biondi, ma anche quella stava scivolando via da dietro, come una parrucca senza più colla.
Lash staccò l'ultimo pezzo di cuoio capelluto e, con le mani scheletriche, accarezzò la chioma di cui un tempo era
andato tanto fiero. Peccato che così la rovinò: quella specie di fanghiglia nera si rapprese sulle ciocche, macchiandole,
insozzandole... tanto che alla fine non erano molto meglio dei capelli ancora attaccati alla testa della puttana svenuta
vicino alla porta.
Lash lasciò cadere lo scalpo sul pavimento e si guardò.
Attraverso la gabbia toracica guardò il cuore che batteva e si chiese con orrore cos'altro sarebbe marcito, staccandosi
dal suo corpo... e cosa gli sarebbe rimasto al termine di quella trasformazione.
«Oh, Dio...» esclamò; la voce suonava strana, un'eco fuori posto che distorceva le parole in un modo spaventosamente
familiare.
Blay era fermo davanti all'armadio, con l'anta aperta e tutti i suoi vestiti appesi in bella mostra. Era assurdo, ma
voleva chiamare sua madre per un consiglio. Che poi era quello che faceva sempre, prima, quando doveva mettersi in
ghingheri.
Quella, però, non era una conversazione che aveva fretta di fare. Lei avrebbe dato per scontato che si trattava di una
femmina, sarebbe stata tutta eccitata all'idea che suo figlio stesse andando a un appuntamento, così lui sarebbe stato
costretto a mentirle... o a confessarle la verità.
I suoi genitori non lo avevano mai giudicato... Ma lui era figlio unico e niente fidanzate significava non solo niente
nipotini, ma anche la censura da parte dell'aristocrazia. Com'era prevedibile, la glymera non ti vietava di essere
omosessuale, purché fossi sposato con una femmina, non ne parlassi mai e poi mai e non facessi nulla per confermare
apertamente quello che eri dalla nascita. Bisognava salvare le apparenze. Soltanto questo contava. E se venivi allo
scoperto? Eri tagliato fuori.
E con te, tutta la tua famiglia.
Da un certo punto di vista non riusciva a credere che stava per vedersi con un maschio. In un ristorante. Per poi
andare con lui in un locale aperto fino a tardi.
II ragazzo con cui stava per uscire sarebbe stato elegantissimo. Lo era sempre.
Così Blay tirò fuori un completo di Zegna, un gessato grigio a sottilissime righine rosa. Poi una bella camicia di
cotone button-down Burberry, rosso chiaro, con il colletto e i polsini alla francese di un bianco immacolato. Scarpe...
scarpe... scarpe...
Barn, barn, barn alla porta. «Ehi, Blay.»
Merda. Aveva già steso il vestito sul letto ed era fresco di doccia, in accappatoio e col gel sui capelli.
Gel: indizio che lo avrebbe tradito di sicuro.
Andò alla porta e la socchiuse di qualche centimetro. Fuori in corridoio, in calzoni di pelle e New Rock, e col fodero
dei pugnali che gli penzolava dalla mano, Qhuinn era pronto per combattere.
Buffo, però, pensò Blay, la tenuta da guerriero non gli faceva più tutta questa impressione. Era troppo preso a
ricordare come o aveva visto la sera prima, steso sul letto con gli occhi fissi sulla bocca di Layla.
Bella pensata averle permesso di nutrire Qhuinn lì, nella sua stanza: adesso non faceva che chiedersi fino a che punto
si erano spinti quei due sul suo materasso.
Conoscendo Qhuinn, comunque, dovevano essere arrivati fino in fondo. Fantastico.
«John mi ha mandato un SMS», disse Qhuinn. «Lui e Xhex vogliono fare un giro per Caldie e per una volta quel
figlio di buona donna è...»
Lo sguardo bicolore di Qhuinn andò su e giù, poi lui si piegò di lato buttando l'occhio al di là della spalla di Blay.
«Cosa stai facendo?»
Blay si strinse l'accappatoio sul petto. «Niente.»
«Hai cambiato acqua di colonia... che cos'hai fatto ai capelli?»
«Niente. Cosa stavi dicendo di John?»
Ci fu una pausa. «Sì... okay. Be', vuole uscire e dobbiamo andare con lui. Dobbiamo starcene in disparte, però. Quei
due vorranno un po' di intimità. Ma possiamo...»
«Io stanotte sono di riposo.»
Il sopracciglio col piercing di Qhuinn si abbassò. «E allora?»
«Allora... sono di riposo.»
«Non ha mai fatto nessuna differenza, prima.»
«Adesso però sì.»
Qhuinn si spostò ancora di lato, gettando un'occhiata dietro la testa di Blay. «Ti metti quel vestito solo per fare colpo
su noi della casa?»
«No.»
Seguì un lungo silenzio, poi due parole: «Chi è?»
Blay lasciò andare la porta e indietreggiò nella stanza. Se dovevano mettersi a litigare non aveva senso farlo fuori in
corridoio, facendosi vedere e sentire da tutti.
«Ha qualche importanza?» chiese, con un moto di rabbia.
La porta si chiuse. Sbattendo. «Sì. Ce l'ha.»
A mo' di vaffanculo, Blay si slacciò l'accappatoio e lo lasciò cadere, mostrandosi in tutta la sua nudità. E si infilò i
pantaloni... senza mutande.
«Siamo solo amici.» «Maschio o femmina?»
«Come ho già detto, ha qualche importanza?»
Altra lunga pausa, durante la quale Blay si infilò la camicia e la abbottonò.
«Mio cugino», ringhiò Qhuinn. «Esci con Saxton.»
«Forse.» Blay andò al cassettone e aprì il portagioie. All'interno scintillarono gemelli di ogni tipo. Ne scelse un paio
con dei rubini.
«Vuoi farmela pagare per ieri sera, con Layla?»
Blay si bloccò con la mano sul polsino. «Cristo santo.»
«E così, allora. È per...»
Blay si voltò. «Ti è mai passato per la testa che potrebbe non avere niente a che fare con te? Che un tipo mi ha invitato
fuori e io voglio andarci? Che è una cosa normale? O sei così preso da te stesso che devi sempre filtrare tutto e tutti
attraverso il tuo narcisismo?»
Qhuinn trasalì impercettibilmente. «Saxton è una troia.»
«Be', immagino che tu sia un esperto in materia.»
«E una troia, di gran classe e molto chic, ma pur sempre una troia.»
«Forse quello che voglio è solo un po' di sesso.» Blay inarcò un sopracciglio. «E passato parecchio tempo per me,
dall'ultima volta, e quelle femmine che mi sono fatto nei bar solo per stare al passo con te non erano neanche 'sto
gran che, tanto per cominciare. Penso sia ora di sfogarmi, e nel modo giusto.»
Quel bastardo di Qhuinn ebbe la faccia tosta di impallidire. Senza scherzi. E addirittura barcollò all'indietro e si
appoggiò alla porta.
«Dove andate?» chiese brusco.
«Mi porta da Sai. Poi andiamo in quel locale per fumatori.» Blay si chiuse l'altro polsino e andò al comò a prendere le
calze di seta. «Dopo... chissà.»
Un aroma speziato invase la camera da letto, lasciandolo senza parole. Di tutti i possibili sviluppi di quella
conversazione... che innescasse in Qhuinn l'odore tipico dei vampiri innamorati proprio non era previsto.
Blay si voltò di scatto.
Dopo un lungo momento carico di tensione, si avvicinò al suo migliore amico, attratto da quella fragranza. Gli occhi
di fuoco di Qhuinn seguivano ogni suo passo; il legame tra loro, che da entrambe le parti era stato sepolto, esplose
all'improvviso nella stanza.
Quando furono a pochi centimetri di distanza, Blay si fermò; il petto, sollevandosi nel respiro, toccò quello di
Qhuinn. «Dillo», sussurrò aspro. «Dillo e io non ci andrò.»
Le mani di Qhuinn si strinsero intorno al suo collo; la pressione
costrinse Blay a reclinare la testa all'indietro, aprendo la bocca per respirare. I pollici affondarono con forza ai due
lati della mascella.
Momento elettrico.
Potenzialmente incendiario.
Sarebbero finiti a letto, pensò Blay, stringendo i palmi sui grossi polsi di Qhuinn.
«Dillo, Qhuinn. Fallo e passerò la notte con te. Usciremo con Xhex e John e, quando loro ne avranno abbastanza,
torneremo qui. Dillo.»
Gli occhi azzurro e verde che Blay aveva passato una vita a guardare si posarono sulla sua bocca; i pettorali di
Qhuinn pompavano su e giù come se stesse correndo.
«Meglio ancora», sussurrò sensuale Blay, «perché non mi baci...»
Blay venne spinto con forza contro il cassettone, che andò a sbattere contro il muro con un fragore assordante. Mentre
i flaconi di acqua di colonia tintinnavano e una spazzola cadeva per terra, Qhuinn premette le labbra con forza su
quelle di Blay, affondandogli le dita nella gola.
Ma non aveva importanza. Un bacio duro e disperato era ciò che voleva da lui e Qhuinn era d'accordo, chiaramente;
la sua lingua scattò in fuori, imperiosa... prepotente.
Con gesti convulsi, Blay si sfilò la camicia dai calzoni e fece per aprirsi la patta. Aspettava quel momento da tanto di
quel tempo...
Ma tutto finì prima ancora di cominciare.
Quando i calzoni di Blay toccarono terra, Qhuinn si voltò di scatto e letteralmente si lanciò verso la porta. Con la
mano sulla maniglia picchiò la fronte con forza contro i pannelli di legno. Due volte.
Poi, con voce atona, spenta, disse, «Vai. Divertiti. Ma stai attento, per piacere, e cerca di non innamorarti di lui. Ti
spezzerà il cuore.»
Poi in un lampo uscì dalla stanza e la porta si chiuse senza il minimo rumore.
Blay rimase impalato dov'era, i calzoni intorno alle caviglie, l'erezione che si ammosciava in modo imbarazzante,
anche se era da solo. Mentre il mondo intorno a lui diventava sfocato e il petto si stringeva in un pugno, batté
convulsamente le palpebre, cercando di trattenere le lacrime.
Come un vecchio, si chinò adagio a raccogliere i pantaloni, armeggiando con cerniera e bottoni. Senza infilare dentro
la camicia, andò a sedersi sul letto.
Quando gli suonò il cellulare sul comodino, si voltò a guardare il display. Per certi versi si aspettava che fosse
Qhuinn, ma era l'ultima persona con cui voleva parlare, quindi lasciò scattare la casella vocale.
Per qualche motivo pensò all'ora trascorsa in bagno a prepararsi, facendosi la barba, tagliandosi le unghie e
modellandosi i capelli con quel gel del cavolo. Poi al tempo passato davanti all'armadio. Adesso sembrava tutto
tempo sprecato.
Si sentiva sporco. Sudicio.
Quella sera non sarebbe uscito con Saxton né con nessun atro. Non nello stato d'animo in cui era. Non c'era motivo di
ammorbare qualche povero innocente con la propria angoscia.
Porco...
Mondo.
Quando si sentì in grado di parlare, si allungò verso il comodino per prendere il telefono. Aprendolo, vide che a
chiamare era stato Saxton.
Forse per disdire? Sarebbe stato un enorme sollievo. Essere scaricato due volte nella stessa serata non si poteva certo
definire una bella notizia, ma gli avrebbe risparmiato la fatica di scusarsi perché gli stava dando buca.
Fece partire la casella vocale, la fronte appoggiata al palmo, gli occhi fissi sui piedi nudi.
«Buonasera, Blaylock. Immagino che in questo preciso momento tu sia in piedi di fronte all'armadio cercando di
decidere cosa indossare.» La voce profonda e carezzevole di Saxton, così bassa e rassicurante, era un curioso balsamo.
«Be', in effetti anch'io sono davanti ai miei vestiti... credo che opterò per un completo con panciotto in un pied-depoule piuttosto sbarazzino. Penso che un gessato, da parte tua, sarebbe un abbinamento perfetto.» Seguì una pausa e
una risata. «Non che voglia suggerirti cosa mettere, naturalmente. Ma chiamami, se sei indeciso. Sul tuo guardaroba,
naturalmente.» Un'altra pausa; poi, in tono serio. «Non vedo l'ora di vederti. Ciao.»
Blay allontanò il telefonino dall'orecchio col pollice sospeso sopra l'opzione cancella. D'impulso, salvò il messaggio.
Dopo un respiro lungo e profondo si impose di alzarsi. Con le mani che tremavano si infilò la bella camicia nei
calzoni e tornò davanti al cassettone, adesso tutto in disordine.
Raddrizzò le bottiglie di colonia e raccolse la spazzola da terra. Poi aprì il cassetto con le calze... e tirò fuori quello che
gli occorreva.
Per finire di vestirsi.
Capitolo 35
Darius doveva incontrare il suo giovane protetto al calar del sole, ma prima di dirigersi verso la proprietà degli umani
che lui e Tohrment avevano spiato attraverso gli alberi, si materializzò nei boschi davanti alla grotta della
confraternita.
Con i fratelli sparpagliati qua e là, le comunicazioni potevano subire dei ritardi, così avevano escogitato un sistema per
scambiarsi notizie e informazioni. Tutti si recavano in quel luogo ogni notte, per vedere cosa era stato lasciato per gli
altri o per lasciare essi stessi delle missive.
Dopo essersi assicurato che non vi fossero occhi indiscreti, Darius sgattaiolò dentro il pertugio tenebroso, imboccò il
passaggio segreto nella parete rocciosa e varcò la serie di cancelli che conducevano al sancta sanctorum della
confraternita. Il "sistema di comunicazione" non era altro che una rientranza nella parete rocciosa entro cui si poteva
riporre la corrispondenza e, a causa della sua semplicità, era situato verso il fondo della caverna.
Darius non riuscì a vedere subito se i suoi fratelli avessero qualcosa da dirgli, tuttavia, poiché fu indotto a fermarsi
molto prima.
Giunto davanti all'ultimo cancello, scorse sul pavimento di pietra quella che a un primo sguardo poteva sembrare una
pila di indumenti ripiegati accanto a una sacca.
Mentre sfoderava il pugnale nero, una testa scura di levò dal mucchio di vestiti.
«Tohr?» Darius abbassò l'arma.
«Sì.» Il giovane si voltò sul suo giaciglio di stracci. «Buonasera, signore.»
«Che cosa ci fai qui?»
«Ho dormito.»
«Questo mi pare ovvio.» Darius andò a inginocchiarsi accanto a lui. «Ma per quale motivo non sei tornato a casa tua?»
Era stato ripudiato, certo, ma Hharm rincasava di rado dalla sua compagna, dunque il ragazzo poteva stare con la sua
mahmen.
Tohrment si alzò in piedi con una spinta, reggendosi al muro. «Che ore sono? Ho perso...»
Darius lo afferrò per il braccio. «Hai mangiato?»
«Sono in ritardo?»
Darius non perse tempo a rivolgergli altre domande. Le risposte che cercava erano nel modo in cui il ragazzo si rifiutava
di alzare gli occhi: gli avevano proibito di riparare a casa di suo padre.
«Tohrment, quante notti hai trascorso qui?» Sul pavimento gelido.
«Posso cercarmi un altro posto dove stare. Non dormirò più qui.»
Sarebbe andata così, infatti, Ringraziando la Vergine Scriba. «Aspetta qui, per favore.»
Varcato il cancello, Darius andò a controllare se c'erano comunicazioni. Trovando messaggi per Muhrder e Ahgony,
pensò di lasciarne uno per Hharm. Qualcosa come, Come hai potuto cacciare di casa tuo figlio costringendolo a passare
le giornate con nient'altro che una lastra di pietra per giaciglio e i suoi abiti per coperta?
Infame.
Tornato da Tohrment, vide che il ragazzo aveva radunato le sue cose nella sacca e si era agganciato le armi.
Darius trattenne un'imprecazione. «Per prima cosa andremo a casa della figlia di Sampsone. C'è una cosa che devo
discutere con... quel sottomaggiordomo. Porta con te le tue cose, figliolo.»
Tohrment lo seguì, più vigile di quanto molti sarebbero stati dopo chissà quanti giorni senza cibo o riposo adeguato.
Non appena si materializzarono davanti alla dimora di Sampsone, Darius accennò col capo a destra, a significare che
dovevano girare intorno alla casa. Giunti sul retro, si diressero alla porta da cui erano usciti la sera prima e suonarono
il campanello.
Il maggiordomo aprì la porta e li accolse con un profondo inchino. «Signori, in cosa possiamo servirvi?»
Darius entrò in casa. «Gradirei conferire di nuovo con il sottomaggiordomo addetto al primo piano.»
«Ma naturalmente.» Un altro profondo inchino. «Abbiate la compiacenza di seguirmi nel salottino anteriore.»
«Aspetteremo qui», disse Darius, sedendosi al tavolo consunto della servitù.
Il doggen impallidì. «Signore... questo è...»
«Il luogo in cui gradirei conferire con il sottomaggiordomo Fritzgelder. Non vedo il motivo di incomodare i vostri
padroni, già così provati dal dolore, costringendoli a incontrarci senza preavviso. Non siamo ospiti... siamo qui per
renderci utili nella tragedia che li ha colpiti.»
Il maggiordomo si piegò in un inchino talmente profondo che fu un miracolo se non cadde per terra a faccia in giù.
«Avete ragione. Vado subito a chiamare Fritzgelder. C'è nient'altro che possiamo fare per servirvi?»
«St. Gradiremmo delle vivande e un boccale di birra.»
«Oh, ma certamente, signore!» Il doggen uscì dalla stanza con una serie di inchini. «Avrei dovuto provvedere senza
indugio, vogliate perdonarmi.»
«Non siete tenuto a farlo», disse Tohrment quando rimasero soli.
«A fare che cosa?» chiese Darius sornione, facendo scorrere le dita sul piano scheggiato del tavolo.
«A chiedere del cibo per me.»
Darius lo guardò da sopra la spalla. «Mio caro ragazzo, è stata una richiesta calcolata per mettere a suo agio il
maggiordomo. La nostra presenza in questa stanza è fonte di grande disagio per lui, così come la richiesta di porre altre
domande al suo sottoposto. La richiesta di vettovaglie, per lui, sarà un sollievo. Ora per favore siediti, e quando
arriveranno cibarie e libagioni dovrai consumarle. Io sono sazio.»
Si udì il rumore di una sedia che veniva spostata e poi uno scricchiolio quando il peso di Tohrment vi si posò sopra.
Il sottomaggiordomo arrivò nel volgere di pochi secondi.
Il che fu causa di imbarazzo, poiché Darius, in verità, non aveva nulla da chiedergli. Ma dov'erano le cibarie...
«Signori», disse il maggiordomo con orgoglio, aprendo la porta con gesto teatrale.
I domestici sfilarono nella stanza con ogni sorta di vassoi, boccali e provviste; mentre imbandivano la tavola, Darius
inarcò un sopracciglio rivolto a Tohrment, poi con intenzione guardò le varie portate.
Tohrment, beneducato come sempre, si servì.
Darius annuì al maggiordomo. «Questo banchetto è degno di una dimora di tal fatta. Il vostro padrone dev'essere molto
fiero di voi.»
Dopo che il maggiordomo e gli altri doggen furono usciti, Fritzgelder attese con pazienza, insieme a Darius, che
Tohrment mangiasse a sazietà. Alla fine, Darius si alzò in piedi.
«Permettete che vi chieda un favore, Fritzgelder?»
«Certamente, signore.»
«Sareste così cortese da prendere in custodia per qualche ora la borsa del mio collega? Torneremo dopo che avremo
compiuto il nostro servizio di sorveglianza.»
«Ma certo, signori.» Fritzgelder si piegò in un profondo inchino. «Mi prenderò cura io delle sue cose.»
«Vi ringrazio. Vieni, Tohrment, possiamo andare.»
Uscendo, Darius avvertì la collera del ragazzo e non fu affatto sorpreso nel sentirsi afferrare per il braccio.
«So badare a me stesso.»
Darius si voltò a guardarlo. «Non ne ho il minimo dubbio. Tuttavia, non so che farmene di un assistente indebolito da
una pancia vuota e...» «Ma...»
«... se credi che una famiglia che dispone di tali e tanti mezzi voglia lesinare su un pasto a beneficio di chi è impegnato
nella ricerca della figliola scomparsa, sei in grave errore.»
Tohrment lasciò ricadere la mano. «Mi troverò un alloggio. E del cibo.»
«Sì.» Darius annuì in direzione degli alberi che circondavano la tenuta vicina. «Ora, possiamo procedere?»
Quando Tohrment annuì, entrambi si smaterializzarono nel fitto della boscaglia e da lì si aprirono un varco verso la
proprietà confinante.
Avvicinandosi alla meta, Darius era vieppiù oppresso da un timore che crebbe al punto da togliergli il respiro: il tempo
giocava a loro sfavore.
Ogni notte che passava senza aver trovato la fanciulla era un altro passo verso la sua morte.
E avevano così poco su cui lavorare.
Capitolo 36
A Caldwell, il terminal della Greyhound era ai margini dell'area industriale che si stendeva a sud della città. Il
vecchio edificio dal tetto piatto era circondato da una rete metallica, neanche gli autobus fossero a rischio di fuga, e la
pensilina all'ingresso era infossata al centro.
John riprese forma al riparo di un autobus parcheggiato e attese Xhex e Qhuinn. Xhex fu la prima ad arrivare. Stava
davvero molto meglio; il secondo tentativo di rifocillarsi era andato a buon fine e ora aveva un bel colorito sano.
Aveva ancora addosso i pantaloni da chirurgo che le aveva prestato la dottoressa Jane, ma sopra si era infilata una
delle felpe nere con cappuccio di John, e una delle sue giacche a vento leggere.
Gli piaceva da morire com'era vestita. Gli piaceva che avesse addosso i suoi vestiti. E che le andassero grandi.
E che avesse un aspetto molto femminile.
Non che i suoi calzoni di pelle, le canotte attillate e i modi da "se non righi diritto ti stacco le palle" non lo
mandassero su di giri. Anche quelli erano un afrodisiaco eccezionale. Solo che... per qualche motivo l'aspetto che
aveva adesso sembrava più privato, più intimo. Forse perché era sicurissimo che Xhex non si faceva vedere così molto
spesso.
«Perché siamo qui?» chiese lei, guardandosi intorno. Non aveva un tono deluso o seccato, grazie a Dio. Era solo
curiosa.
Qhuinn riprese forma a una decina di metri di distanza e incrociò le braccia sul petto, come se temesse di poter
fracassare qualcosa. Era di cattivo umore. Pessimo, anzi. Non era riuscito a spiccicare due parole civili nell'atrio,
quando John gli aveva comunicato i luoghi in cui sarebbero andati e in che ordine li avrebbero visitati, e la causa di
tanto malumore non era chiara.
Oddio... almeno finché non era sopraggiunto Blay tutto in tiro nel suo completo gessato grigio. Senza degnare di uno
sguardo Qhuinn, si era fermato solo per salutare John e Xhex, prima di uscire nella notte.
Profumava di acqua di colonia.
Stava andando a un appuntamento, chiaramente. Ma con chi?
Con un sibilo e un rombo, un autobus uscì faticosamente dal parcheggio e il naso di John minacciò uno starnuto per i
fumi di scappamento al diesel.
Andiamo, sillabò rivolto a Xhex, spostando lo zaino sull'altra spalla e tirandola avanti.
Insieme, attraversarono il selciato umido verso le luci fluorescenti dell'autostazione. Si gelava, ma John teneva aperto
il giubbotto di pelle, nel caso dovesse afferrare i pugnali o la pistola, e anche Xhex era armata.
I lesser potevano essere ovunque e gli umani potevano essere idioti.
Le tenne la porta aperta e fu sollevato nel vedere che, a parte il bigliettaio dietro il plexiglas antiproiettile, c'era solo
un vecchio che dormiva seduto su una delle panche di plastica, e una donna con una valigia.
«Questo posto... ti mette tristezza», disse Xhex a voce bassa.
Merda, forse sì, pensò John. Ma non per quello che aveva vissuto lì dentro... più per quello che sua madre doveva
aver provato mentre, sola e sofferente, affrontava le doglie e il parto.
John lanciò un fischio e, quando i tre umani lo guardarono, alzò il palmo. Offuscando la loro coscienza, li fece cadere
in una leggera trance, poi si diresse verso la porta di metallo con sopra il cartello: DONNE.
Piantando la mano sul gelido pannello, s'infilò dentro di mezzo passo e si mise in ascolto. Nessun rumore. Il posto
era deserto.
Xhex gli passò davanti, facendo scorrere gli occhi sulle pareti di calcestruzzo, i lavandini di acciaio inox e i tre
gabinetti. C'era odore di candeggina e pietra umida e gli specchi non erano di vetro, ma lastre di metallo lucidate.
Tutto era fissato con dei bulloni, dal gocciolante dispenser del sapone liquido al cartello VIETATO FUMARE al
cestino dei rifiuti.
Xhex si fermò davanti al gabinetto per disabili, gli occhi penetranti, lo sguardo acuto. Aprì la porta a vento con una
leggera spinta e si ritrasse, confusa.
«Qui...» Indicò il pavimento nell'angolo. «Qui è dove sei... dove sei venuto al mondo.»
Quando si voltò a guardarlo, John si strinse nelle spalle. Non sapeva esattamente in quale dei gabinetti era successo,
ma sembrava ragionevole: se stavi per mettere al mondo un bambino, era naturale scegliere quello più spazioso.
Xhex lo fissava come se lo stesse trapassando con lo sguardo e John si voltò brevemente per controllare se era entrato
qualcuno. No. C'erano soltanto loro due, insieme, nel bagno delle donne.
Cosa c'è? sillabò, lasciando chiudere la porta del gabinetto.
«Chi ti ha trovato?» Lui fece il gesto di lavare il pavimento. «Un inserviente», mormorò lei.
John annuì; si vergognava di quel posto, della propria storia.
«Non devi», disse lei, avvicinandosi. «Io sono l'ultima a poterti giudicare, credimi. La mia nascita non è avvenuta in
circostanze migliori della tua. Anzi, si potrebbe dire che erano addirittura peggiori.»
John poteva immaginarlo, essendo lei una symphath mezzosangue. Le due razze, quella dei symphath e quella dei
vampiri, non si mescolavano quasi mai di buon grado.
«E dopo dove sei finito?»
Lui la condusse fuori dal bagno e si guardò intorno. Qhuinn se ne stava nell'angolo in fondo, guardando in cagnesco
le porte del terminal, quasi sperasse di veder entrare qualcuno che puzzava di borotalco. Quando si voltò verso di lui,
John annuì; poi liberò gli umani dalla trance e ripulì la loro memoria. A quel punto tutti e tre si smaterializzarono.
Quando ripresero di nuovo forma, si trovavano nel cortile dell'orfanotrofio di Nostra Signora, vicino allo scivolo e
alla sabbiera. Un pungente vento marzolino spazzava i terreni di quel santuario ecclesiastico per gli indesiderati,
facendo cigolare le catene delle altalene; i rami spogli degli alberi non offrivano alcuna protezione. Poco più avanti,
le file di finestre del dormitorio erano buie... e così pure tutte quelle della mensa e della cappella.
«Umani?» chiese Xhex con un filo di voce, mentre Qhuinn li oltrepassava per andare a sedersi su una delle altalene.
«Sei stato cresciuto dagli umani? Dio... buono.»
John avanzò verso l'edificio; forse non era stata una buona idea: Xhex sembrava inorridita...
«Tu e io abbiamo in comune molto più di quanto pensassi.»
Lui rimase impietrito; Xhex doveva aver letto la sua espressione... o le sue emozioni: «Anch'io sono stata cresciuta da
gente che non mi assomigliava. Anche se, considerato qual è l'altra mia metà, forse è stata una fortuna.»
Andò a piazzarsi di fianco a John e lo guardò in faccia. «Sei stato più coraggioso di quanto pensi.» Annuì in direzione
dell'orfanotrofio. «Durante la tua permanenza qui dentro, sei stato più coraggioso di quanto pensi.»
Lui non era d'accordo, ma si guardava bene dal mettere in discussione la fiducia che lei gli accordava. Un attimo dopo
le tese la mano e, quando Xhex la prese, camminarono insieme verso l'ingresso posteriore. Scomparvero, e in un
attimo furono dentro.
Oh, merda, usavano sempre lo stesso detersivo per pavimenti. Limone acido.
E neanche la disposizione delle stanze era cambiata. Il che significava che l'ufficio del direttore era ancora in fondo al
corridoio, affacciato sul davanti.
John fece strada fino alla vecchia porta di legno, tirò giù lo zaino dalla spalla e lo appese alla maniglia di ottone.
«Cosa c'è lì dentro?»
Lui alzò la mano, sfregando medio e indice contro il pollice.
«Soldi. Trovati quando avete fatto irruzione in...»
Lui annuì.
«Questo è il posto giusto dove lasciarli.»
John si voltò e guardò in fondo al corridoio, dove si trovava il dormitorio. A poco a poco i ricordi venivano a galla;
prima ancora di rendersene conto, i suoi piedi si incamminarono verso il luogo in cui un tempo aveva dormito:
com'era strano essere di nuovo lì, ricordare la solitudine, la paura, la tormentosa sensazione di essere completamente
diverso... specie quando era in compagnia dei maschietti della sua stessa età.
Questo gli aveva sempre reso tutto ancora più difficile. Vivere gomito a gomito con coloro a cui avrebbe dovuto
essere sostanzialmente identico era la cosa che, più di ogni altra, lo aveva riempito di un senso di alienazione.
Xhex seguì John lungo il corridoio, tenendosi leggermente alle sue spalle.
Lui camminava senza fare rumore, quasi in punta di piedi, e lei seguì il suo esempio: due fantasmi nel corridoio
silenzioso. Mentre avanzavano, notò che, malgrado la struttura dell'edificio fosse vecchia, era tutto immacolato, dal
linoleum tirato a lucido alle pareti tinteggiate infinite volte di beige, alle finestre coi vetri rinforzati da reti metalliche
a maglie strette. Non c'era un granello di polvere, niente ragnatele, niente scalfitture o crepe nell'intonaco.
Tutto ciò le dava qualche speranza che le suore e gli amministratori si prendessero cura dei piccoli ospiti con analoga
attenzione al dettaglio.
Giunta insieme a John davanti a una porta a due battenti, percepì i sogni dei bambini dall'altra parte, i fremiti
emotivi scaturiti dal loro sonno profondo solleticavano i suoi recettori di symphath.
John infilò dentro la testa e, mentre guardava coloro che adesso occupavano i letti dove un tempo aveva dormito lui,
Xhex si scoprì di nuovo perplessa.
Nella griglia emotiva di John c'era come... un'ombra. Una struttura parallela ma separata che lei aveva già colto in
precedenza, ma che adesso appariva in tutta la sua evidenza.
Non aveva mai percepito nulla di simile in nessun altro e non era in grado di spiegarlo... era anche convinta che John
non ne fosse consapevole. Per qualche motivo, tuttavia, quel viaggio nel suo passato stava mettendo in luce quella
faglia nella sua psiche.
Oltre a molte altre cose. Proprio come lei, John era cresciuto sperduto e isolato, accudito da estranei per dovere, non
per vero amore di consanguinei.
Una parte di lei avrebbe dovuto dirgli di interrompere quell'itinerario, perché sentiva quanto lo stava logorando... e
quanta strada ancora avevano da fare. Ma era ammaliata da quello che le stava mostrando.
E non solo perché, in quanto symphath, si nutriva delle emozioni altrui.
No, voleva saperne di più sul suo conto.
Mentre John scrutava i bambini addormentati, risucchiato dal suo passato, Xhex si concentrò sul suo profilo forte,
illuminato dalla lampada di sicurezza sopra la porta.
Quando gli posò una mano sulla spalla, lui trasalì leggermente.
Avrebbe voluto dirgli qualcosa di brillante e gentile, trovare le parole giuste per toccarlo nel profondo, così come
l'aveva toccata lui portandola lì. Ma c'era più coraggio in quelle sue rivelazioni di quanto lei ne avesse mai mostrato a
chiunque e, in un mondo pieno di crudeltà ed egoismo, di gente capace solo di prendere, lui le spezzava il cuore con
ciò che le stava donando.
Si era sentito così solo, lì, e gli echi della sua angoscia lo stavano facendo soffrire terribilmente. Eppure avrebbe
tenuto duro perché glielo aveva promesso.
I begli occhi azzurri di John incontrarono i suoi e, quando inclinò la testa con fare interrogativo, Xhex capì che le
parole non valgono niente in momenti come quelli.
Premendosi contro il suo corpo muscoloso, gli fece scivolare un braccio dietro la schiena, poi con la mano libera lo
prese per la nuca e lo attirò a sé.
John esitò, poi cedette di buon grado, cingendole la vita e affondandole il viso nel collo.
Xhex lo tenne stretto, infondendogli forza, offrendogli riparo come soltanto lei era capace di fare. Mentre se ne
stavano così, stretti l'uno contro l'altra, Xhex spinse lo sguardo oltre la sua spalla, fin dentro lo stanzone,
soffermandosi sulle testoline scure sui cuscini.
Nel silenzio, sentì passato e presente agitarsi e mescolarsi, ma era un miraggio, un'illusione. Non c'era modo di
consolare il bambino perduto che John era stato un tempo.
Lei però aveva l'adulto.
Ce l'aveva proprio lì, tra le braccia, e per un attimo fantasticò di non lasciarlo andare mai più.
Capitolo 37
Seduto nella sua stanza, a casa Rathboone, Gregg Winn avrebbe dovuto stare meglio di come stava. Grazie alle
riprese evocative di quel ritratto tanto espressivo giù in salotto e ad alcuni fotogrammi dei giardini all'imbrunire, i
pezzi grossi, giù a Los Angeles, erano elettrizzati dal video di lancio e avevano deciso di mandarlo in onda. In più, il
maggiordomo aveva dimostrato la massima disponibilità, firmando i documenti legali che lo autorizzavano ad avere
libero accesso a tutto.
Stan, il cameraman, poteva quasi eseguire una gastroscopia di quella maledetta villa, con tutti gli angoli in cui poteva
ficcare il suo obiettivo.
Gregg, però, non assaporava la vittoria. No, aveva lo stomaco sottosopra per un malessere della serie "qualcosa non
va" e una cefalea tensiva che, dalla base del cranio, si irradiava su fino al lobo frontale.
Il problema era la telecamera nascosta che avevano piazzato in corridoio la notte prima.
Non c'era una spiegazione logica per quello che aveva ripreso.
Buffo che un "cacciatore di fantasmi", trovandosi di fronte a una figura che spariva nel nulla, dovesse imbottirsi di
compresse contro l'emicrania e i bruciori di stomaco. Avrebbe dovuto essere al settimo cielo, visto che per una volta
non doveva costringere il suo cameraman a truccare i filmati.
E Stan? Be', lui prendeva tutto con una scrollata di spalle. Oh, credeva che fosse un fantasma, garantito... ma la cosa
non lo turbava neanche un po'.
D'altronde, potevano legarlo alle rotaie del treno come in quel classico della suspense, I pericoli di Paolina, e il suo
unico pen siero sarebbe stato: perfetto, giusto il tempo di schiacciare un pi solino prima di farmi una bella canna.
Essere sempre strafatto aveva i suoi vantaggi.
La pendola al piano di sotto batté le dieci; Gregg lasciò il portatile e andò alla finestra. Cavolo, si sarebbe sentito
molto meglio se non avesse visto quella figura coi capelli lunghi aggirarsi lì intorno, la notte prima.
Al diavolo: sempre meglio che vedere quello stronzo fuori in corridoio che con qualche trucco aveva messo in piedi
un'allucinazione della serie "ora mi vedi, ora non mi vedi più".
Dal letto alle sue spalle, Holly disse, «Speri di vedere il coniglietto pasquale, là fuori?»
Lui la guardò, pensando che era magnifica appoggiata contro i cuscini, col naso dentro un libro. Quando lo aveva
tirato fuori, Gregg era rimasto stupito nel vedere che era il saggio di Doris Kearns Goodwin sui Fitzgerald e i
Kennedy. Si aspettava che fosse più una da biografie di gente del cinema, tipo Tori Spelling.
«Sì, ho un debole per quel bastardello», mormorò. «E penso che andrò giù a vedere se riesco a fregargli il cestino.»
«Non tornare con i marshmallow Peeps. Le uova colorate, i coniglietti di cioccolato e l'erba finta... vanno tutti bene.
Ma quei dolcetti a forma di pulcino mi fanno senso.»
«Dirò a Stan di venire qui a tenerti compagnia, okay?»
Holly alzò gli occhi dalla storia di Camelot. «Non mi serve una balia. Specialmente una che, novanta su cento, si
chiuderebbe al cesso a fumarsi uno spinello.»
«Non mi va di lasciarti qui da sola.»
«Ma io non sono sola.» Holly annuì in direzione della telecamera nell'angolo in fondo alla stanza. «Accendi quella.»
Gregg si appoggiò contro il telaio della finestra. Il modo in cui i capelli di Holly riflettevano la luce era davvero
bello. Certo, il colore era senza dubbio opera di una mano esperta... ma quella sfumatura di biondo era proprio
perfetta per la sua carnagione.
«Non sei spaventata, eh?» disse, chiedendosi quando esattamente si erano scambiati i ruoli.
«Per ieri notte, vuoi dire?» Holly sorrise. «No. Credo che quell'"ombra" sia Stan che ha fatto uno scherzo a tutti e due
per vendicarsi di averlo fatto girare da una stanza all'altra. Sai quanto odia spostare i bagagli. E poi, è servito a farmi
tornare nel tuo letto, no? Non che tu ti sia dato granché da fare.»
Gregg prese la giacca a vento e le andò vicino. L'afferrò per il mento guardandola negli occhi. «Mi desideri ancora
tanto?»
«Non ho mai smesso», Holly abbassò la voce. «È una specie di maledizione.»
«Una maledizione?»
«E dai, Gregg.» Vedendo che lui la guardava senza capire, Holly alzò le braccia, sconsolata. «Non dai affidamento. Sei
sposato col tuo lavoro e venderesti l'anima al diavolo pur di fare carriera. Riduci tutto e tutti quelli che ti circondano a
un minimo comune denominatore, il che ti permette di sfruttarli. E quando non ti servono più, non ti ricordi neppure
come si chiamano.»
Gesù... quella ragazza era più intelligente di quanto pensasse. «Allora perché vuoi avere a che fare non me?»
«A volte... proprio non lo so.» Gli occhi di Holly tornarono sul libro, ma non andavano avanti e indietro, seguendo le
righe. Erano fissi sulla pagina. «Credo che sia perché ero proprio ingenua, quando ti ho conosciuto, e tu mi hai dato
una possibilità quando nessun altro me l'avrebbe data, e mi hai insegnato un sacco di cose. E quella cotta iniziale
dura ancora adesso.»
«La fai sembrare una cosa brutta.»
«Può esserlo. Speravo di lasciarmela alle spalle, col tempo... ma poi tu fai delle cose tipo prenderti cura di me ed ecco
che ci ricasco di nuovo.»
Gregg la fissava, ammirando la perfezione dei lineamenti, la pelle vellutata e il corpo incredibile.
Si sentiva strano e confuso, come se le dovesse delle scuse; andò alla telecamera sul treppiede e l'accese. «Hai il
cellulare a portata di mano?»
Lei infilò la mano nella tasca della vestaglia e tirò fuori un Black-Berry. «Proprio qui.»
«Chiamami se succede qualcosa di strano, okay?»
Holly si accigliò. «Ti senti bene?»
«Perché me lo chiedi?»
Lei si strinse nelle spalle. «È che non ti ho mai visto così...»
«Inquieto? Già, credo che questa casa abbia qualcosa di particolare.»
«Stavo per dire... connesso, per la verità. È come se mi guardassi davvero per la prima volta.»
«Ti ho sempre guardata.»
«Non così.»
Gregg si fermò un attimo sulla porta. «Posso farti una domanda un po' bizzarra? Ti... tingi i capelli?»
Lei posò una mano sulle onde bionde. «No. Non l'ho mai fatto.»
«Sono proprio così al naturale?»
«Dovresti saperlo.»
Holly inarcò un sopracciglio con aria d'intesa e lui arrossì. «Be', le donne possono tingersi anche giù in bas... sì,
insomma, hai capito.»
«Be', io non lo faccio.»
Gregg si accigliò. Chi diavolo stava guidando il suo cervello? Sentiva girare nell'etere tutti quei pensieri strambi,
come se qual cun altro trasmettesse dalla sua stazione radio. Salutò Holly agi tando la mano e uscì in corridoio.
Guardò prima a destra e poi a sinistra, ponendosi in ascolto. Niente passi. Niente scricchiolii.
Nessuno con un lenzuolo sulla testa che girava per casa in stile "Casper il fantasmino".
S'infilò la giacca a vento e, con passo deciso, si avviò verso le scale; detestava l'eco dei suoi passi. Gli sembrava di
essere inseguito.
Si lanciò un'occhiata alle spalle. Niente, a parte il corridoio deserto.
Giù da basso guardò le luci che erano state lasciate accese. Una in biblioteca. Una nell'atrio sul davanti. Una nel
salottino.
Svoltò l'angolo e si fermò a esaminare il ritratto di Rathboone. Per qualche motivo non gli sembrava più così
romantico e affascinante.
Qualche motivo un corno. Quanto mai aveva chiamato Holly ad ammirarlo. Se non l'avesse fatto, forse il quadro non
avrebbe segnato il suo subconscio fino a ispirarle delle fantasie su quel tizio che entrava in camera sua e faceva sesso
con lei. Dio... quell'espressione sul suo viso mentre raccontava il sogno. Non la parte spaventosa, ma il sesso, il sesso
memorabile. Holly aveva mai avuto quell'espressione, dopo aver fatto l'amore con lui?
Si era mai soffermato a vedere se l'aveva soddisfatta fino a quel punto?
Soddisfatta almeno un po'?
Aprì la porta d'ingresso e uscì come se avesse una missione da compiere, quando in realtà non doveva andare da
nessuna parte. Be', tranne che lontano da quel computer e da quelle immagini... e da quella stanza silenziosa, con una
donna che forse aveva più spessore di quanto lui avesse mai sospettato.
Tipo un fantasma reale, pieno di sostanza.
Dio... com'era tersa l'aria, lì fuori.
Si allontanò dalla casa e dopo un centinaio di metri si fermò, sul prato ondulato per guardare indietro. Al primo
piano vide la luce accesa in camera sua e si figurò Holly accoccolata contro i cuscini, il libro tra le dita lunghe e sottili.
Riprese a camminare, diretto verso il filare di alberi e il ruscello.
I fantasmi hanno un'anima? si chiese. O sono anime essi stessi?
I dirigenti televisivi hanno un'anima?
Be', quella sì che era una bella domanda esistenziale.
Fece il giro della proprietà, senza fretta, fermandosi a tirare i filamenti di tillandsia, a toccare la corteccia delle querce
e ad annusare la terra e la foschia.
Stava tornando verso casa, quando all'ultimo piano si accese la luce... e un'ombra alta e scura passò davanti a una
delle finestre.
Gregg allungò il passo. Poi si mise a correre.
Volava, quando balzò sulla veranda spalancando di slancio il portone e precipitandosi su per le scale. Se ne fregava
altamente dell'avvertimento di non andare all'ultimo piano. E se svegliava qualcuno, pazienza.
Giunto al primo piano, si rese conto che non aveva idea di quale porta potesse condurlo in solaio. Percorse in fretta il
corridoio; i numeri sugli stipiti indicavano senza ombra di dubbio le stanze riservate agli ospiti paganti.
A un certo punto arrivò davanti al Deposito. Ripostiglio.
Gesù, ti ringrazio: USCITA.
Spalancò la porta e infilò la scala di servizio salendo i gradini a due a due. Giunto in cima, trovò una porta chiusa a
chiave con la luce che filtrava da sotto.
Bussò energicamente. Niente.
«Chi c'è lì dentro?» gridò, strattonando la maniglia. «Ehi, rispondete.»
«Signore! Cosa sta facendo?»
Gregg si voltò di scatto: in fondo alle scale c'era il maggiordomo... che, malgrado l'ora tarda, era ancora vestito di tutto
punto.
Forse non dormiva in un letto, ma si appendeva dentro un armadio per non stropicciarsi durante la notte.
«Chi c'è là dentro?» chiese Gregg, indicando col pollice la porta alle sue spalle.
«Spiacente, signore, ma il secondo piano è privato.»
«Perché?»
«La cosa non la riguarda. Ora, se non le dispiace, devo chiederle di tornare nella sua stanza.»
Gregg aprì la bocca per protestare, ma poi la richiuse. C'era un modo migliore per risolvere la questione.
«Sì. Okay. Va bene.»
Fece gran mostra di scendere le scale e passò davanti al maggiordomo.
Poi si avviò da bravo verso la sua stanza e s'infilò dentro.
«Com'è andata la passeggiata?» chiese Holly, sbadigliando.
«E successo qualcosa mentre ero fuori?» Tipo, be', vediamo, un tizio morto da un pezzo è entrato qui dentro a
sbatterti?
«No. Be', a parte qualcuno che si è messo a correre, qui fuori in corridoio. Chi era?»
«Boh!», farfugliò Gregg, andando a spegnere la telecamera. «Non ne ho idea...»
Capitolo 38
John riprese forma accanto a un lampione che non doveva avere molte soddisfazioni sul lavoro. La luce che si
raccoglieva sotto il suo collo da giraffa illuminava la facciata di un caseggiato cne avrebbe fatto più bella figura al
buio più totale: mattoni e malta non erano, rispettivamente, rossi e bianca, ma marrone e ancora più marrone, e le
tante finestre rotte o incrinate erano state aggiustate alla bell'e meglio con coperte da quattro soldi fissate da strisce
zigzaganti di nastro isolante. Persino i bassi gradini che salivano fino all'androne erano tutti bucherellati, neanche
fossero stati presi d'assalto con un martello pneumatico.
Il posto era identico a com'era quando lui ci aveva passato la sua ultima sera, salvo che per una cosa: il cartello giallo
inchiodato al portone d'ingresso in cui veniva dichiarata l'inagibilità dell'edificio.
Da archiviare sotto un bel Ma va?! Bella scoperta. Quando Xhex emerse dalle tenebre e lo raggiunse, John fece del
suo meglio per emanare solo un calmo distacco... ma ogni sforzo fu vano. Il viaggio nel merdoso paesaggio della sua
vita passata era più arduo del previsto. Ma, come in un giro al luna-park, una volta che la giostra era in movimento
non potevi più fermarla.
Chi poteva immaginare che la sua esistenza avrebbe dovuto essere accompagnata da un divieto per le donne incinta e
gli epilettici.
Già, impossibile fermarsi; Xhex avrebbe capito subito che aveva interrotto il percorso senza concluderlo. Sembrava
sapere sempre quello che lui provava... compreso, quindi, anche il senso di fallimento che lo avrebbe pervaso se si
tirava indietro prima del tempo.
«Sei finito a vivere qui?» sussurrò lei.
Annuendo, John la condusse dietro l'angolo, nel vicolo di fianco al palazzo. Giunto davanti all'uscita di sicurezza si
fermò: chissà se la chiusura era ancora rotta...
La maniglia cedette subito e loro entrarono.
La moquette dell'atrio assomigliava più che altro al pavimento in terra di certi capanni, compattata com'era da
macchie che erano penetrate fin dentro alle fibre per poi indurirsi. Il corridoio era disseminato di bottiglie di whisky
vuote, carte di snack accartocciate e mozziconi di sigaretta e l'aria puzzava come l'ascella di un barbone.
Dio... neanche una cisterna di Febreze poteva intaccare quell'incubo olfattivo.
Appena Qhuinn entrò dall'uscita di emergenza, John svoltò a sinistra verso la scala e iniziò un'ascesa che gli fece
venir voglia di mettersi a urlare. Man mano che salivano, i topi zampettavano via squittendo e il fetore da casa
popolare diventava ancora più forte e pungente, quasi fermentasse ad alta quota.
Al primo piano, John fece strada lungo il corridoio, fermandosi davanti a una grossa chiazza sul muro. Gesù Cristo...
quella macchia di vino era ancora lì... ma perché cavolo si stupiva? Credeva forse che qualche impresa di pulizie si
presentasse lì a candeggiare tutto quanto?
Una porta più in là, arrivò davanti a quello che un tempo era stato il suo monolocale e... entrò...
Dio, era tutto come l'aveva lasciato.
Nessuno ci aveva più abitato, dopo di lui. Logico. A poco a poco la gente aveva cominciato ad andarsene, già quando
lui viveva lì... be', almeno quelli che potevano permettersi posti migliori. Erano rimasti i tossici. E gli appartamenti
vuoti erano stati occupati dai senzatetto, che si erano intrufolati dentro come scarafaggi dalle finestre rotte e dalle
porte sfondate al pianterreno. Il culmine di quel cambiamento demografico era quell'avviso di inagibilità, l'edificio
era stato ufficialmente dichiarato morto, dopo che il cancro del declino aveva già divorato tutto tranne l'involucro
esterno.
Nel vedere Flex, la rivista che aveva abbandonato sul letto vicino alla finestra, la realtà subì una sorta di distorsione e
lo trascinò indietro nel tempo, malgrado avesse i piedi saldamente piantati nel qui e ora.
E infatti, quando aprì il frigorifero staccato... barattoli di Ensure alla vaniglia.
Già, perché neanche dei barboni affamati e senza un soldo, abituati a rovistare tra i rifiuti, avrebbero mangiato
quello schifo di integratori alimentari.
Xhex fece il giro dell'appartamento, fermandosi davanti alla finestra da cui lui aveva guardato fuori per tante notti.
«Volevi essere diverso da quello che eri.»
John annuì.
«Quanti anni avevi quando ti hanno trovato?» quando lui le mostrò due volte due dita lei spalancò gli occhi.
«Ventidue? E non avevi idea di essere...»
John scosse la testa e andò a prendere la rivista. Sfogliandola, si rese conto di essere diventato quello che aveva
sempre sognato: un cazzutissimo marcantonio che non aveva paura di menare le mani. Chi l'avrebbe mai detto. Prima
della transizione era un mingherlino pelle e ossa, in balia di tutta una serie di...
Ributtò la rivista sul letto, scacciando bruscamente quei pensieri. Era pronto a mostrarle quasi tutto, ma quello no.
Quella parte no... mai.
Non l'avrebbe portata nel primo palazzo in cui aveva vissuto da solo; Xhex non avrebbe scoperto perché se n'era
andato via di là per venire a quell'indirizzo.
«Chi ti ha fatto entrare nel nostro mondo?»
Tohrment, sillabò lui.
«Quanti anni avevi quando hai lasciato l'orfanotrofio?» John alzò un dito e poi sei. «Sedici? E sei venuto subito qui?
Direttamente da Nostra Signora?»
John annuì e andò ai pensili sopra il lavandino. Aprendone uno, vide l'unica cosa che si era aspettato di trovare. Il
suo nome. E la data.
Si fece da parte per farle vedere quello che aveva scritto. Ricordò il momento in cui l'aveva fatto, in fretta, di corsa.
Tohr lo aspettava giù di sotto e lui era tornato su di volata a recuperare la bicicletta. Aveva scribacchiato nome e data
come una testimonianza di... non sapeva neanche lui cosa.
«Non avevi nessuno», mormorò Xhex, guardando l'armadietto. «Anch'io ero così. Mia madre è morta di parto e io
sono stata cresciuta da una famiglia di persone assolutamente perbene... con cui sapevo di non avere niente in
comune. Le ho lasciate presto e non sono mai più tornata indietro, perché quello non era il mio posto... e qualcosa
dentro di me gridava che era meglio per loro se me ne andavo. Non avevo idea di essere per metà symphath e che
fuori nel mondo non c'era niente, per me... ma dovevo andarmene. Per fortuna ho incontrato Rehvenge e lui mi ha
mostrato quello che ero.»
Lo guardò da sopra la spalla. «Le occasioni mancate per un pelo nella vita... dio, sono tremende, eh? Se Tohr non ti
avesse trovato...»
Sarebbe morto nel bel mezzo della transizione perché non avrebbe avuto il sangue che gli serviva per sopravvivere.
Per qualche motivo, non voleva pensarci. E neanche al fatto che lui e Xhex avevano in comune tanta solitudine e tanto
senso di smarrimento.
Dai, vieni, sillabò. Andiamo alla prossima fermata.
In mezzo ai campi di granturco, Lash guidava lungo la stradina sterrata diretto alla fattoria. Aveva attivato la sua
copertura psichica per impedire all'Omega e al suo nuovo gigolò di beccarlo, e girava con un berretto da baseball, un
impermeabile col colletto alzato e un paio di guanti.
Si sentiva come l'Uomo Invisibile.
'Fanculo, magari fosse stato davvero invisibile. Detestava guardarsi. Aveva aspettato due ore buone per vedere
cos'altro si sarebbe staccato dal suo corpo in quella discesa tra i morti viventi; ormai sembrava essersi stabilizzato, ma
non era certo di provare sollievo.
A quel punto era solo mezzo sciolto: i muscoli erano ancora attaccati alle ossa.
A un mezzo chilometro dalla meta, parcheggiò la Mercedes in mezzo a un gruppetto di pini e scese. Dovendo
utilizzare tutti i suoi poteri per mascherarsi, non gliene restavano più per smaterializzarsi.
Così dovette farsi una lunga scarpinata fino a quel cesso di fattoria, imbestialito per tutta la faticaccia che gli toccava
fare soltanto per muoversi.
Ma quando giunse alla casupola rivestita di legno, si sentì pervadere da un'ondata di energia. Sul vialetto d'ingresso
c'erano tre macchine... e lui le riconobbe tutte. Quei catorci degni di Willy Loman - il commesso viaggiatore di
letteraria memoria - erano di proprietà della Lessening Society.
E, sorpresa, il posto era in gran fermento. Dentro c'erano almeno una ventina di tizi che si stavano dando alla pazza
gioia: dalle finestre vide i barili di birra e le bottiglie di alcolici e, tutt'intorno, quegli stronzi che si accendevano pipe
ad acqua per fumare l'hashish e sniffavano dio solo sapeva cosa.
Dov'era il bastardello?
Ah... tempismo perfetto. Stava arrivando una quarta macchina, e non era come le altre tre. La vistosa verniciatura
tipica delle auto per le corse clandestine doveva essere costata cara quanto il motore truccato dentro il cofano, e la
luce al neon sul telaio la faceva assomigliare a un aereo in fase di atterraggio. Il ragazzino scese dal posto di guida e,
caspita, era tutto in tiro anche lui: si era comprato dei jeans nuovi di zecca e un giubbotto di pelle Affliction che era
uno sballo, e adesso si accendeva le sigarette con un accendino d'oro.
Be', quella era la prova del nove.
Se il ragazzino entrava e si metteva a fare baldoria e basta, Lash si era sbagliato sulla sua intelligenza... e l'Omega si
era trovato solo uno con cui andare a letto. Ma se aveva ragione, e quel figlio di puttana era sveglio come pensava,
allora la festa si sarebbe fatta interessante.
Stringendosi i baveri dell'impermeabile intorno alla carne viva a cui adesso era ridotto il suo collo, Lash cercò di
mettere a tacere la gelosia. Prima c'era lui al posto d'onore del ragazzino. Si era goduto quella posizione privilegiata,
gasandosi per quant'era speciale, convinto che la pacchia durasse per sempre. Amen. Se l'Omega era pronto a
prendere a calci il sangue del suo sangue, quell'ex pezzo di merda umano non sarebbe durato a lungo.
Quando uno degli ubriaconi guardò fuori dalla finestra nella sua direzione, Lash capì che stava rischiando troppo a
stare così vicino, ma non gliene fregava un accidente. Non aveva niente da perdere e non aveva nessuna voglia di
passare il resto dei suoi giorni come un quarto di manzo animato.
Essere orrendo, debole e sanguinolento non era per niente sexy.
Battendo i denti per il vento gelido, si scaldò con il ricordo di Xhex. Per certi versi non riusciva a credere che fossero
passati solo pochi giorni dal periodo trascorso con lei. Gli sembravano passati secoli dall'ultima volta che l'aveva
tenuta sotto di sé. Scoprire quella prima lesione al polso era stato l'inizio della fine, cazzo... solo che all'epoca non lo
sapeva.
È solo un graffietto, aveva pensato.
Sì, come no.
Alzando la mano per tirarsi indietro i capelli, colpì la visiera del cappellino da baseball e si ricordò che ormai non
aveva più niente da sistemare. Lassù in cima gli era rimasta solo la calotta cranica.
Se avesse avuto più energie si sarebbe messo a inveire contro l'ingiustizia e la crudeltà del suo destino di
putrefazione. La vita non doveva andare così. Lui non avrebbe dovuto guardarla dall'esterno come uno spettatore che
sbircia dalla finestra. Era sempre stato il centro dell'attenzione, lui, il motore di tutto, quello speciale.
Per qualche stupido motivo pensò a John Matthew. Quando quel coglione era entrato nel programma di
addestramento per soldati era un mingherlino in fase di pre-transizione, con solo un nome da fratello e una cicatrice
a forma di stella sul petto. Era il bersaglio perfetto da ostracizzare e Lash ci aveva preso gusto a tormentarlo senza
pietà.
Cavolo, all'epoca non sapeva cosa volesse dire essere diverso, isolato, escluso. Ti faceva sentire una merda che non
vale niente. Guardavi gli altri, quelli a cui andava tutto bene, e avresti dato qualunque cosa per essere uno di loro.
Meno male che allora non ne aveva la più pallida idea, altrimenti forse ci avrebbe pensato due volte prima di
rompere le palle a quel cazzone.
In quel momento, appoggiato contro la ruvida, fredda corteccia di una quercia a spiare dalle finestre della fattoria un
altro golden boy cui era toccata la vita che avrebbe dovuto vivere lui, Lash cominciò a rivedere i suoi piani.
Avrebbe annientato quello stronzetto, fosse l'ultima cosa che faceva.
Era ancora più importante di Xhex.
Non perché quel bastardo aveva osato condannarlo a morte, ma perché sentiva il bisogno di mandare un messaggio a
suo padre. In fondo lui era la classica mela marcia - non poteva esserci metafora più giusta, visto che stava marcendo
nel vero senso della parola - e il frutto, come si sa, non cade mai lontano dall'albero... e la vendetta è dolce.
Capitolo 39
«Questa è la vecchia casa di Bella», disse Xhex, dopo aver ripreso forma in un prato di fianco a John Matthew.
Lui annuì e lei volse lo sguardo su quello scenario agreste. Al chiaro di luna, la fattoria bianca con la veranda che
girava tutto intorno alla casa e i comignoli rossi, era il soggetto perfetto per un quadro; peccato che fosse rimasta
vuota, con solo le luci di sicurezza esterne accese.
Il fatto che sul vialetto di ghiaia del fabbricato annesso fosse parcheggiato un pickup Ford F-150 e che dalle finestre
filtrasse una luce soffusa rendeva ancora più acuto il senso di abbandono.
«E stata Bella la prima a trovarti?»
John fece un gesto ambiguo con la mano, indicando un'altra casetta lungo la stradina. Cominciò a usare la lingua dei
segni, poi si fermò; il suo senso di frustrazione per la barriera comunicativa era evidente.
«Qualcuno in quella casa... lo conoscevi e ti ha messo in contatto con Bella?»
Lui annuì, infilò la mano nel giubbotto e tirò fuori quello che sembrava un braccialetto fatto a mano. Xhex lo prese e
vide i simboli nell'Antico Idioma incisi nel cuoio.
«Tehrror.» Quando John si toccò il petto lei disse, «E il tuo nome? Ma come facevi a saperlo?»
John si toccò la testa e poi si strinse nelle spalle.
«Te lo sei ritrovato in testa.» Xhex si concentrò sulla casa più piccola. C'era una specie di piscina, sul retro, e lei
avvertì che lì i ricordi di John erano più vividi, perché ogni volta che guardava oltre quella terrazza la sua griglia
emotiva si infiammava, diventava un quadro di comando con un mucchio di circuiti accesi.
All'inizio era andato lì per proteggere qualcuno. Non per Bella.
Mary, pensò. La shellan di Rhage, Mary. Ma come si erano conosciuti?
Strano... quello era un vicolo cieco. John la stava escludendo da quella parte della sua vita.
«Bella si è messa in contatto con la confraternita e Tohrment è venuto a cercarti.»
Quando John annuì di nuovo, gli restituì il braccialetto e, mentre lui toccava i simboli che vi erano incisi, Xhex si
meravigliò della relatività del tempo. Era passata appena un'ora da quando avevano lasciato la grande casa della
confraternita, ma le sembrava che avessero trascorso insieme un anno intero.
Dio, le aveva dato più di quanto si sarebbe mai aspettata... e adesso sapeva esattamente perché era stato tanto
disponibile quando lei aveva sclerato, in sala operatoria.
Ne aveva passate di tutti i colori: più che vivere la prima parte della sua vita, vi si era trascinato a fatica.
La domanda era: come aveva fatto a perdersi nel mondo degli umani? Dov'erano i suoi genitori? Il re era stato il suo
whard, prima della transizione... così dicevano i suoi documenti la prima volta che lo aveva incontrato, allo ZeroSum.
Aveva supposto che sua madre fosse morta, e la visita alla stazione degli autobus non smentiva quell'ipotesi... ma
c'erano delle lacune nella storia. Alcune delle quali deliberate, o almeno questa era la sua impressione, altre, invece,
John stesso sembrava incapace di colmarle.
Accigliandosi, sentì che suo padre gli era ancora molto vicino, eppure John non l'aveva mai conosciuto, a quanto
pareva.
«C'è un ultimo posto in cui vuoi portarmi?» mormorò.
Dopo un'ultima occhiata intorno, John sparì e lei lo seguì, grazie a tutto il sangue che aveva succhiato da lui e che
adesso era dentro il suo organismo.
Quando ripresero forma davanti a una favolosa casa moderna, John venne sopraffatto dalla tristezza, al punto che la
sua sovrastruttura emotiva cominciò letteralmente a crollare su se stessa. Con un supremo sforzo di volontà, tuttavia,
riuscì a bloccare in tempo la disintegrazione, prima che fosse troppo tardi.
Una volta che la tua griglia collassava, eri spacciato. Finivi in balia dei tuoi demoni interiori.
Il che la fece pensare a Muhrder. Il giorno in cui lui aveva appreso la verità su di lei, Xhex ricordava perfettamente
come le era apparsa la sua struttura emotiva: le travi di acciaio che erano la base della salute mentale erano ridotte a
un caos indistinto.
Lei era stata l'unica a non sorprendersi quando era impazzito, sparendo per sempre.
Rivolgendole un cenno del capo, John andò alla porta d'ingresso, infilò una chiave nella toppa e fece strada
all'interno. Vennero accolti da una corrente d'aria che portò con sé odore di poi-vere e umidità, a indicare che quella
era un'altra casa vuota. Ma, a differenza del caseggiato dove John abitava prima, lì dentro non c'era niente di marcio.
Quando John accese la luce nell'ingresso, Xhex trattenne un'esclamazione. Sul muro, a sinistra della porta, c'era un
rotolo di pergamena in cui si dichiarava nell'Antico Idioma che quella era la casa del fratello Tohrment e della sua
legittima shellan, Wellsie.
Ecco spiegato perché stare lì lo addolorava tanto. L'hellren di Wellesandra non era l'unico ad aver salvato il giovane
John dalle case popolari.
Anche la sua compagna era stata importante per John. Tantissimo.
John infilò il corridoio e, lungo la strada, accese altre luci, le sue emozioni un misto di affetto agrodolce e dolore
straziante. Quando giunsero in una cucina spettacolare, Xhex andò al tavolo collocato in una rientranza.
John si era seduto lì, pensò, posando le mani sullo schienale di una delle sedie... la prima sera in cui era stato in
quella casa si era seduto lì.
«Specialità messicane», mormorò. «Avevi tanta paura di offenderli. Ma poi... Wellesandra...»
Come un segugio che fiuta una traccia fresca, Xhex inseguiva ciò che sentiva dei ricordi di John. «Wellesandra ti ha
servito del riso allo zenzero. E... un budino. Ti sei sentito sazio per la prima volta in vita tua, non avevi mal di
stomaco ed eri... eri così riconoscente che non sapevi cosa fare.»
Guardò John; era pallido e aveva gli occhi un po' troppo lucidi; Xhex capì che era tornato nel gracile corpo di un
tempo, seduto a tavola, tutto chiuso in se stesso... commosso per la prima gentilezza mai ricevuta in vita sua.
Il rumore di un passo, fuori in corridoio, le fece alzare la testa; si rese conto che Qhuinn era ancora lì con loro,
gironzolava per casa, il suo malumore un'ombra tangibile che lo avvolgeva tutto.
Be', ora non doveva più seguirli passo passo. Erano arrivati alla fine della strada, l'ultimo capitolo della storia di
John, che più o meno l'aggiornava fino al presente. E questo, purtroppo, significava anche che dovevano tornare al
quartier generale della confraternita... dove di sicuro John l'avrebbe fatta mangiare ancora un po', tentando anche di
convincerla a bere di nuovo il suo sangue.
Lei non voleva tornare laggiù, però, non ancora. Nella sua mente aveva deciso di prendersi una serata di libertà,
quindi quelle erano le sue ultime ore prima di imboccare la via della vendetta... e perdere quel dolce rapporto con
John, quella profonda comprensione reciproca.
Perché non voleva farsi illusioni: il forte legame che li univa era comunque fragilissimo, questa era la triste realtà, e
si sarebbe spezzato non appena il presente fosse tornato in primo piano rispetto al passato, non c'era il minimo
dubbio.
«Qhuinn, ci lasci da soli, per favore?»
Lo sguardo bicolore della guardia del corpo si spostò su John, e i due si scambiarono una serie di gesti con le mani.
«Fantastico», esclamò sarcastico Qhuinn, prima di girare sui tacchi e uscire a passo di carica.
La porta che sbatteva riecheggiò per tutta la casa; quando fu tornato il silenzio, Xhex guardò fisso John. «Dove
dormivi?»
John indicò un corridoio; insieme oltrepassarono numerose stanze con arredi moderni e pezzi di arte antica, una
combinazione che faceva assomigliare la villa a un museo d'arte abitabile. Xhex curiosò un pochino, infilando la testa
dentro salottini e camere da letto.
La camera di John era proprio in fondo. Appena entrata, Xhex immaginò lo shock culturale che doveva aver subito.
Dallo squallore allo splendore, tutto in un semplice cambio di codice postale: a differenza dello squallido
monolocale, quello era un rifugio blu marino con splendidi mobili moderni, un bagno di marmo e una moquette
folta come il taglio a spazzola di un marine.
E, con in più, una vetrata scorrevole affacciata su un terrazzo privato.
John andò ad aprire l'armadio e, al di sopra del suo braccio forte e muscoloso, Xhex guardò i vestiti appesi alle grucce
di legno. La taglia era quella di un ragazzino.
Con le spalle contratte e una mano stretta a pugno, John si soffermò a guardare camicie, felpe e pantaloni. Era
dispiaciuto per qualcosa che aveva fatto o per il modo in cui si era comportato, e non c'entrava niente con lei...
Tohr. C'entrava Tohr.
Gli spiaceva il modo in cui erano andate le cose tra loro ultimamente.
«Parlagli», disse piano lei. «Digli quello che provi. Vi sentirete meglio tutti e due.»
John annuì e lei sentì crescere la sua determinazione.
Dio, non avrebbe saputo spiegare come accadde... be', la dinamica in realtà era molto semplice, ma la cosa
sorprendente fu che ancora una volta si ritrovò ad abbracciarlo. Gli cinse la vita da dietro e, posando la guancia in
mezzo alle sue scapole, fu felice di sentire le mani di lui sulle sue.
John comunicava in talmente tanti modi diversi. E a volte toccarsi è meglio che parlare per esprimere quello che
abbiamo dentro.
Nel silenzio della stanza, Xhex lo tirò indietro, verso il letto, c insieme si sedettero.
Cosa c'è?, sillabò lui, vedendo che Xhex lo fissava senza parlare.
«Sei sicuro di volerlo sapere?» Quando lui annuì, lei lo guardò dritto negli occhi. «So che hai tralasciato qualcosa. Lo
sento. C'è un buco, tra l'orfanotrofio e quel caseggiato popolare.»
John non batté ciglio, non ci fu un solo fremito dei suoi muscoli facciali. Ma i tic di uno bravo a nascondere le proprie
reazioni come un giocatore di poker sono irrilevanti. Lei sapeva quello che sapeva su di lui.
«Okay, non farò domande. E non insisterò.»
Il leggero rossore di John era qualcosa che si sarebbe ricordata a lungo, dopo la sua partenza... e il pensiero di
lasciarlo fu ciò che la spinse a sfiorargli le labbra con la punta delle dita. Quando lui trasalì per la sorpresa, Xhex si
focalizzò sulla sua bocca.
«Voglio darti qualcosa di mio», disse con voce bassa, profonda. «Non per pareggiare i conti. Solo perché mi va di
farlo.»
Sarebbe stato fantastico portarlo nei suoi luoghi, accompagnandolo attraverso la sua vita, ma conoscere meglio il suo
passato gli avrebbe solo reso più difficile accettare la sua missione suicida: quali che fossero i suoi sentimenti per
John, lei avrebbe dato la caccia al suo rapitore e non si faceva illusioni sulle sue probabilità di sopravvivere a quella
resa dei conti.
Lash conosceva dei trucchi.
Trucchi malvagi con cui faceva cose malvagie.
Ricordi di quel bastardo le affollarono la mente, ricordi orribili che le fecero tremare le gambe, ricordi spaventosi
che, ciononostante, servirono a spingerla verso qualcosa per cui forse non era davvero pronta. Ma non poteva finire
nella tomba avendo Lash come ultimo amante.
Non quando aveva davanti l'unico maschio che avesse mai amato.
«Voglio fare l'amore con te», disse con voce roca.
Gli occhi azzurri di John la scrutarono in volto, scioccati, quasi stesse cercando indizi di un possibile
fraintendimento. Poi però un desiderio selvaggio, incontrollabile, travolse le sue emozioni, spazzando via tutto
tranne il virile bisogno di accoppiarsi.
A onor del vero, John fece del suo meglio per reprimere l'istinto, aggrappandosi a una qualche parvenza di
razionalità. Risultato? Fu lei a porre fine alla battaglia tra ragione e sentimento... posando la bocca sulla sua.
Oh... Dio com'erano morbide le sue labbra.
A dispetto del tumulto che sentiva ribollire nel sangue, John riuscì a dominarsi. Anche quando gli fece scivolare la
lingua in bocca. E quella compostezza le facilitò le cose, mentre la sua mente saltava avanti e indietro tra quello che
stava facendo adesso...
E quello che Lash le aveva fatto solo pochi giorni prima.
Per non perdere la concentrazione cercò il suo petto, facendo
scorrere i palmi sui poderosi muscoli sopra il cuore. Spingendolo all'indietro sul materasso, inspirò a fondo e sentì
l'odore del desiderio che provava per lei. Un penetrante aroma di spezie che era soltanto suo, e che non poteva essere
più lontano dal fetore ammorbante di un lesser.
Cosa che l'aiutò a separare l'esperienza presente da quelle del recente passato.
Il bacio cominciò come un'esplorazione, ma non per molto. John si fece più vicino, strusciando il corpo enorme
contro il suo, sollevando la gamba fino a schiacciare quella di lei sotto il suo peso. Al tempo stesso la cinse tra le
braccia, stringendola a sé.
Si muoveva adagio, come lei.
E tutto andò bene finché non sentì la sua mano sul seno.
Quel contatto la mandò in confusione, strappandola a quella stanza e a quel letto, trascinandola via, lontano da John
e da quel momento di intimità con lui per catapultarla di nuovo all'inferno.
Lottando contro quella defezione mentale, tentò di restare connessa al presente, a John. Ma nel sentire il suo pollice
che le accarezzava il capezzolo, dovette imporsi di restare immobile. A Lash piaceva tenerla giù, graffiandola e
palpandola prima di arrivare all'inevitabile, perché, per quanto godesse al momento dell'orgasmo, godeva ancora di
più durante i preliminari, quando si divertiva a fotterle il cervello.
Mossa psico-astuta da parte sua. Lei avrebbe infinitamente preferito farsi fottere e basta...
John spinse l'erezione contro il suo fianco.
Snap.
Giunto al limite, il suo autocontrollo si spezzò in due, come un elastico: il suo corpo si ritrasse di scatto da quel
contatto fisico, rompendo la comunione con John, rompendo l'incantesimo.
Xhex balzò giù dal letto; avvertiva l'orrore di John, ma era troppo scossa dalla paura per riuscire a dare spiegazioni. Si
mise a camminare su e giù per la stanza nel disperato tentativo di restare ancorata alla realtà, ansimando non per la
passione, ma per il panico.
Be', se non era sfiga quella...
Maledetto Lash... moriva dalla voglia di ammazzarlo, per questo. Non per quello che stava passando lei, ma per la
posizione in cui aveva messo John.
«Scusa», gemette. «Non avrei dovuto cominciare. Mi dispiace tantissimo.»
Quando se la sentì, si fermò davanti al cassettone e guardò nello specchio appeso al muro. Mentre lei camminava
frenetica, John si era alzato spostandosi davanti alla vetrata scorrevole, le braccia incrociate sul petto, la mascella
contratta, lo sguardo fisso fuori, nella notte.
«John... non è per te. Te lo giuro.»
Lui scosse la testa senza guardarla.
Xhex si stropicciò la faccia; il silenzio e la tensione tra loro amplificava il suo impulso di scappare. No, non ce la
faceva ad affrontare tutto questo: quello che provava, quello che aveva fatto a John e tutte le porcherie con Lash.
Puntò gli occhi sulla porta, i muscoli in tensione per il desiderio di uscire. Un copione che conosceva a memoria. Per
tutta la vita si era sempre affidata al suo talento di sfuggire alle cose andandosene, sparendo senza lasciare traccia,
senza una spiegazione, senza lasciarsi dietro nulla.
Era l'ideale per un'assassina.
«John...»
Lui voltò la testa; il suo sguardo riflesso nello specchio ardeva di rimpianto.
Aspettava che lei parlasse. Lei avrebbe dovuto dire che era meglio se se ne andava, avrebbe dovuto buttare lì un'altra
scusa pietosa e poi smaterializzarsi fuori da quella stanza... fuori dalla sua vita.
Invece riuscì a dire solo il suo nome.
Lui si voltò per fronteggiarla sillabando, Scusa. Vai. Non c'è problema. Vai.
Lei però non riusciva a muoversi. Poi schiuse la bocca. Quando si rese conto di quello che le premeva in fondo alla
gola, non riuscì a credere che stava per dargli voce. Quella rivelazione andava contro tutto ciò che sapeva di se stessa.
Stava davvero per farlo, per l'amor dei cielo? «John... io... io sono...»
Deviò lo sguardo, concentrandosi sul proprio riflesso. Le guance scavate e il pallore cadaverico erano dovuti a molto
più che semplice mancanza di sonno e nutrimento.
«Lash non era impotente, okay? Non era... impotente...» sbottò, in un improvviso impeto di rabbia.
La temperatura nella stanza precipitò così in fretta e così tanto da condensarle il fiato in tante nuvolette.
Ciò che vide allo specchio la spinse a voltarsi di scatto, arretrando di un passo da John: i suoi occhi azzurri brillavano
di una luce scellerata, il labbro superiore si increspò, scoprendo due zanne lunghe e affilate come pugnali.
Tutt'intorno, nella stanza, gli oggetti cominciarono a vibrare: le lampade sui comodini, i vestiti sulle grucce, lo
specchio alla parete. In un crescendo, quel tintinnio collettivo si trasformò in un rombo sordo e Xhex dovette
aggrapparsi al comò per non correre il rischio di cadere per terra.
L'aria era viva. Sovraccarica. Elettrica.
Pericolosa.
E John era l'epicentro di quell'energia violenta, furibonda, i pugni serrati talmente forte da far fremere gli
avambracci, le cosce contratte, mentre si piegava leggermente sulle ginocchia in posa da combattimento.
Fece scattare la testa in avanti sulla spina dorsale, spalancò la bocca... e lanciò un grido di guerra...
Il suono esplose tutto intorno a lei, talmente forte che dovette tapparsi le orecchie, talmente potente che ne sentì
l'impatto in pieno volto.
Per un attimo credette che John avesse ritrovato la voce... ma quell'urlo roboante non era il prodotto delle sue corde
vocali.
Alle spalle di John la vetrata esplose, frantumandosi in migliaia di schegge che si dispersero all'esterno; i frammenti
rimbalzarono sulle lastre di ardesia, riflettendo la luce come gocce di pioggia...
O come lacrime.
Capitolo 40
Blay non aveva idea di cosa gli avesse appena allungato Saxton. Sì, be', era un sigaro e, sì, era caro, ma non aveva ben
capito come si chiamava.
«Credo che ti piacerà», disse Saxton, appoggiandosi all'indietro nella poltrona di cuoio e accendendosi il suo sigaro
lungo e sottile. «Sono dolci. Scuri, ma dolci.»
Blay fece scattare l'accendisigari Montblanc e si sporse in avanti per dare un tiro. Aspirando il fumo, sentì su di sé lo
sguardo intenso di Saxton.
Di nuovo.
Ancora non riusciva ad abituarsi a quell'attenzione, quindi lasciò vagare lo sguardo per il locale: soffitto a volta verde
scuro, pareti di un nero lucido, séparé e poltrone di cuoio color sangue di bue. Una marea di umani col portacenere
accanto al gomito.
In breve: nessuna distrazione anche solo lontanamente paragonabile a Saxton, ai suoi occhi, alla sua voce, alla sua
colonia o...
«Allora dimmi», disse Saxton, soffiando nell'aria una nuvola azzurrina perfetta che per un attimo gli eclissò il volto,
«Ti sei messo il gessato prima o dopo che ho chiamato?»
«Prima.»
«Sapevo che hai stile.»
«Davvero?»
«Sì.» Saxton lo guardò al di sopra del tavolino di mogano che li separava. «Altrimenti non ti avrei invitato fuori a
cena.»
La cena che avevano consumato da Sai era stata... molto gradevole, in effetti. Avevano mangiato in cucina, a un tavolo
riservato; iAm aveva preparato un menu speciale a base di antipasto e pastasciutta, con cappuccino e tiramisù per
dessert. Avevano bevuto vino bianco con la prima portata e rosso con la seconda.
Gli argomenti di conversazione erano stati neutri, ma interessanti... e comunque trascurabili. Il vero motore di ogni
parola, occhiata e movimento del corpo correva sul filo del "lo faranno oppure no"?
Dunque... quello era un appuntamento, pensò Blay. Un negoziato sottotraccia, camuffato da amabile conversazione
sulle letture preferite e sui gusti musicali.
Non c'era da stupirsi che Qhuinn puntasse dritto al sesso e basta. Non avrebbe avuto la pazienza per quel genere di
sottigliezze. In più, non gli piaceva leggere e la musica che si pompava nelle orecchie era metalcore, un misto tra
heavy metal e hardcore punk che solo i sordi o gli squilibrati potevano sopportare.
Un cameriere vestito di nero si avvicinò. «Posso portarvi qualcosa da bere?»
Saxton fece rotolare il sigaro tra pollice e indice. «Due bicchieri di porto. Croft Vintage 1945, per favore.»
«Ottima scelta.»
Saxton riportò gli occhi su Blay. «Lo so.»
Blay si voltò verso la finestra davanti a cui erano seduti, chiedendosi se avrebbe mai smesso di arrossire in sua
presenza. «Piove.» «Già.»
Dio, quella voce. Le parole di Saxton erano dolci e deliziose quanto il sigaro.
Blay spostò le gambe, accavallandole.
Si scervellò in cerca di qualcosa da dire per rompere il silenzio, ma la cosa più ispirata che gli venne in mente fu
qualche banalissimo commento sul tempo. La fine della serata cominciava a profilarsi all'orizzonte e, se aveva
appreso che sia lui che Saxton piangevano la perdita di Dominick Dunne ed erano fan di Miles Davis, non sapeva
ancora cosa fare al momento dei saluti.
Sarebbe stata una cosa del tipo Dobbiamo rifarlo un'altra volta, chiamami? oppure l'infinitamente più complicato,
insidioso e piacevole, Sì, in effetti, credo che verrò a vedere la tua collezione di farfalle.
Cosa a cui la sua coscienza imponeva di aggiungere: Anche se noti l'ho mai fatto con un maschio, e sebbene chiunque
potrà essere solo un misero rimpiazzo di Qhuinn.
«Quand'è stata l'ultima volta che sei uscito con qualcuno, Blaylock?»
«Io...» Blay diede un lungo tiro al sigaro. «È passato un bel po' di tempo.»
«Che vita hai fatto? Tutto dovere e niente piacere?»
«Più o meno.» Okay, l'amore non corrisposto non rientrava esattamente in nessuna delle due categorie, anche se di
sicuro si poteva parlare di niente piacere.
Saxton abbozzò un sorriso. «Sono stato contento quando mi hai chiamato. E anche un po' sorpreso.»
«Perché?»
«Mio cugino ha una certa... possessività nei tuoi confronti.»
Blay voltò il sigaro, fissando la punta incandescente. «Credo che tu abbia ampiamente sopravvalutato il suo
interesse.»
«E io credo che questo sia un modo garbato per dirmi di farmi gli affari miei, sbaglio?»
«Qui non c'è proprio nessun affare da farsi.» Blay sorrise al cameriere, che posò due bicchieri di porto sul tavolino
rotondo e indietreggiò. «Fidati.»
«Sai, Qhuinn è un tipo interessante.» Saxton allungò la mano con gesto elegante e prese il suo porto. «E uno dei miei
cugini preferiti, in realtà. Il suo anticonformismo è ammirevole ed è sopravvissuto a cose che avrebbero distrutto
tanti altri meno forti di lui. Non so se innamorarsi di lui sarebbe facile, però.»
Blay non abboccò. «E così, vieni qui spesso?»
Saxton rise; i suoi occhi chiari brillarono. «Non ti va di parlarne, eh?» Si guardò intorno, aggrottando la fronte. «A
dire il vero, ultimamente non sono uscito molto. Troppo lavoro.»
«Hai detto di essere un legale esperto di Antica Legge. Dev'essere interessante.»
«Mi sto specializzando in patrimoni in amministrazione fiduciaria e assi ereditari, quindi il fatto che gli affari stiano
andando a gonfie vele è motivo di rammarico. Il Fado si è riempito di troppi innocenti, dall'estate scorsa...»
Al tavolo accanto, un gruppo di ciccioni in completo di seta e orologio d'oro si sganasciavano dalle risate, da quegli
ubriaconi smargiassi che erano... al punto che il più chiassoso di tutti si buttò all'indietro sulla poltrona, urtando
Saxton.
Che non gradì, a riprova del fatto che era un signore, ma non un cacasotto: «Domando scusa, vi dispiacerebbe
abbassare la voce?»
Quel cafone si voltò, con la pancia che traboccava dalla cintura tanto da far temere che esplodesse come in
quell'episodio del film Monty Phyton - Il senso della vita, schizzando vomito dappertutto. «Sì che mi dispiace», disse
socchiudendo gli occhi acquosi. «E comunque quelli come voi due non dovrebbero stare qui.»
E non si riferiva al fatto che fossero vampiri.
Blay bevve un sorso di porto; sapeva di aceto... ma il costosissimo liquore non era andato a male: l'amaro in bocca era
dovuto a ben altro.
Un attimo dopo l'umano andò a sbattere di nuovo contro Saxton, talmente forte da fargli quasi rovesciare il porto.
«Accidenti», borbottò Saxton prendendo il tovagliolo.
Quel maledetto idiota si sporse di nuovo verso il loro tavolo, col rischio di far saltare via la cintura cavando un occhio
a qualcuno. «Ehi, belli, disturbiamo? Vedo che vi piace ciucciare il sigaro.»
«Ci state decisamente disturbando, sì», disse Saxton con un sorriso tirato.
«Oh, scuuuuusa», fece l'uomo alzando il mignolo dal sigaro in modo plateale. «Non volevo offendervi.»
«Andiamo via», disse Blay, chinandosi a spegnere il sigaro.
«Posso chiedere di spostarci a un altro tavolo.»
«Scappate, ragazzi?» disse beffardo Mister Boccalone. «Andate a qualche festa dove ci sono tutti i tipi di sigaro? Forse
vi seguiremo, tanto per essere sicuri che arriviate a destinazione sani e salvi.»
Blay teneva gli occhi fissi su Saxton. «In ogni caso si sta facendo tardi.»
«Il che significa che siamo solo a metà della nostra giornata.»
Blay si alzò, infilandosi una mano in tasca, ma Saxton allungò il braccio per impedirgli di tirare fuori il portafoglio.
«No, faccio io.»
Un'altra fila di commenti dalla comitiva Super-Bowl-più-spoglia-rello rese l'aria ancora più irrespirabile. Blay
digrignava i molari; per fortuna Saxton si sbrigò a pagare il cameriere, poi insieme si avviarono all'uscita.
Fuori, la gelida aria notturna fu un toccasana per i sensi; Blay inspirò a fondo.
«Quel posto non è sempre così», mormorò Saxton. «Altrimenti non ti ci avrei mai portato.»
«Non fa niente.» Blay s'incamminò e sentì Saxton avanzare al suo fianco.
Giunti all'imbocco di un vicolo, si fermarono per permettere a un'auto di svoltare a sinistra sulla Commerce.
«Allora, come ti senti per tutto questo?»
Blay si voltò verso Saxton e decise che la vita è troppo breve per fingere di non sapere esattamente cosa fosse il
"questo". «Onestamente, mi sento strano.»
«E non ti riferisci a quei gentiluomini là al bar, immagino.»
«Ho mentito. Questo è il mio primo appuntamento.» Saxton inarcò un sopracciglio e Blay non potè fare a meno di
ridere. «Già, sono un gran vitaiolo.»
L'aria affabile di Saxton sparì e nei suoi occhi Blay vide accendersi un calore sincero. «Be', sono contento di essere il
primo con cui esci.»
Blay lo guardò negli occhi. «Come facevi a sapere che sono gay?»
«Non lo sapevo. L'ho solo sperato.»
Blay rise di nuovo. «Be', ci hai preso.» Dopo una pausa, gli tese la mano. «Grazie per la serata.»
Quando Saxton gliela strinse, tra loro corse un brivido di eccitazione. «Lo sai, vero, che gli appuntamenti di solito
non finiscono così. Ammesso che entrambe le parti siano interessate.»
Blay si scoprì incapace di lasciargli la mano. «Ah... davvero?»
Saxton annuì. «È consuetudine darsi un bacio.»
Blay puntò gli occhi sulle sue labbra e, all'improvviso, si chiese che sapore avessero.
«Vieni qui», mormorò Saxton, tirandolo per la mano al riparo del vicolo.
Sotto l'effetto di un incantesimo erotico che non gli andava di rompere, Blay lo seguì nell'oscurità. Quando furono a
ridosso dei palazzi, sentì il petto dell'altro contro il proprio, poi i loro inguini si fusero.
Così capì esattamente fino a che punto era eccitato Saxton.
E Saxton capì che lo stesso valeva per lui.
«Dimmi una cosa», sussurrò Saxton. «Hai mai baciato un maschio?»
Blay non voleva pensare a Qhuinn proprio in quel momento, quindi scosse la testa per scacciare dalla mente
quell'immagine. Ma non funzionò: gli occhi azzurro e verde di Qhuinn non volevano saperne di sparire; quindi fece
l'unica cosa che, garantito, lo avrebbe I atto smettere di pensare al suo pyrocant.
Colmò la distanza che separava la bocca di Saxton dalla sua.
Qhuinn sapeva che avrebbe dovuto filare dritto a casa. Dopo essere stato sommariamente congedato dalla casa di
Tohr per permettere a John e Xhex di fare un po' di conversazione orizzontale, senza dubbio avrebbe dovuto tornare
al quartier generale della confraternita a godersi un bel bicchiere di Herradura pensando agli affaracci suoi.
Ma invece nooooo. Aveva ripreso forma sul marciapiede di fronte all'unico locale riservato ai fumatori di Caldwell
ed era rimasto a guardare - sotto la pioggia, come uno sfigato - Blay e Saxton che si accomodavano a un tavolo proprio
davanti alla finestra. Aveva visto suo cugino guardare il suo migliore amico con elegante lussuria, poi degli imbecilli
li avevano importunati e loro due avevano lasciato i sigari appena cominciati e i bicchieri di porto mezzi pieni.
Non volendo farsi scoprire a pedinarli, Qhuinn si era smaterializzato nel vicolo lì accanto... che ben presto si era
rivelato il classico posto sbagliato nel momento sbagliato.
La voce di Saxton gli giunse sulle ali della brezza gelida. «Lo sai, vero, che gli appuntamenti di solito non finiscono
così. Ammesso t he entrambe le parti siano interessate.»
«Ah... davvero?»
«È consuetudine darsi un bacio.»
Qhuinn strinse i pugni e, per una frazione di secondo, pensò veramente di saltare fuori dal suo nascondiglio dietro il
cassonetto dell'immondizia. Ma per fare cosa? Piombare come un carro armato davanti a quei due per la serie
"semaforo rosso, piantatela ragazzi"?
Be', sì. Esattamente.
«Vieni qui», mormorò Saxton.
Merda, quel bastardo sembrava l'operatore di una linea erotica, tutto voce sexy e arrapata. E... oh, cavolo, Blay ci
stava, lo seguiva nel buio del vicolo.
C'erano volte in cui l'udito finissimo dei vampiri era una gran rottura di palle. E naturalmente... era anche peggio se
facevi capolino dal mucchio di spazzatura vicino a cui ti eri piazzato per dare una bella occhiata.
Quando quei due si avvicinarono fino a toccarsi, Qhuinn spalancò la bocca. Non perché fosse scioccato o volesse
intervenire.
Semplicemente, non riusciva a respirare. Era come se le costole gli si fossero bloccate, e anche il cuore.
No... no, dannazione, no...
«Dimmi una cosa», sussurrò Saxton. «Hai mai baciato un maschio?»
Sì, voleva gridare Qhuinn...
Blay scosse la testa. Sul serio, scosse la testa.
Qhuinn chiuse gli occhi stringendo le palpebre con forza, imponendosi di calmarsi abbastanza da riuscire a
smaterializzarsi. Quando riprese forma davanti alla grande casa della confraternita, tremava come una foglia... e per
un attimo valutò l'eventualità di piegarsi in due per fertilizzare i cespugli con la cena consumata prima di uscire con
Xhex e John.
Un paio di profondi respiri dopo decise che lo stuzzicava di più procedere col piano A e bere come una spugna. Con
in mente questo obiettivo, entrò nel vestibolo, si fece aprire il portone da Fritz e si avviò in cucina.
Forse si sarebbe spinto un po' più in là di una semplice sbronza, che cavolo. Saxton non si sarebbe certo accontentato
di uno o due baci in un vicolo freddo e umido, e Blay sembrava intenzionato a prendersi finalmente quello di cui
aveva bisogno sin dall'inizio.
Per cui aveva un mucchio di tempo per sbevazzare fino a perdere i sensi.
Gesù... Cristo, pensò, massaggiandosi il petto e risentendo senza sosta la voce di suo cugino: Dimmi una cosa. Hai
mai baciato un maschio?
L'immagine di Blay che scuoteva la testa era come una cicatrice nel suo cervello e, naturalmente, lo spinse fino alla
dispensa in fondo alla cucina, dove si trovavano le casse di alcolici.
Che cliché. Ubriacarsi perché non avevi le palle per guardare in faccia la realtà.
Ma tanto valeva fare almeno una cosa, nella vita, secondo tradizione.
Riattraversando la cucina, pensò che c'era almeno una magni consolazione: il fattaccio doveva accadere per forza a
casa di Saxton, perché lì a casa del re non erano ammessi visitatori occasionali. Mai.
Emergendo nell'atrio, si bloccò di colpo.
Blay stava emergendo dal vestibolo.
«Sei tornato presto», lo apostrofò brusco Qhuinn. «Non dirmi che mio cugino è così veloce.»
Senza fermarsi neanche un secondo, Blay infilò dritto le scale. «Tuo cugino è un gran signore.»
Qhuinn si accodò al suo migliore amico, standogli alle calcagna. «Credi? In base alla mia esperienza, è tutta scena.»
Questo spinse Blay a voltarsi. «Prima ti è sempre piaciuto. Era il tuo preferito. Ricordo che ne parlavi come se fosse
un dio.»
«Crescendo ho cambiato idea.»
«Be', a me piace. Molto.»
Qhuinn aveva voglia di ringhiare, ma soffocò quell'impulso stappando l'Herradura sgraffignato in dispensa e
bevendone un sorso. «Buon per te. Sono proprio strafelice per voi due.»
«Davvero? Allora perché ti sei attaccato alla bottiglia senza neanche usare il bicchiere?»
Qhuinn girò intorno al suo amico e non si fermò neanche quando Blay chiese, «Dove sono John e Xhex?»
«Fuori. Nel mondo. Da soli.»
«Ma non dovevi restare con loro?»
«Sono stato momentaneamente congedato.» In cima alle scale si fermò un attimo, battendo il dito sulla lacrima
tatuata sotto all'occhio. «Xhex è una killer, santo cielo. E perfettamente in grado di proteggerlo. E poi volevano
starsene un po' nella vecchia casa di Tohr.»
Giunto in camera sua, Qhuinn chiuse la porta con un calcio e si spogliò. Dopo aver tracannato dalla bottiglia, chiuse
gli occhi e inviò un richiamo.
Layla sarebbe stata un'ottima compagnia.
Proprio quello che ci voleva.
In fondo era stata educata apposta per fare sesso, e tutto quello che voleva era usare lui come una palestra erotica.
Non doveva preoccuparsi di farla soffrire, o che si affezionasse a lui. Era una professionista, per così dire.
O lo sarebbe stata, una volta finito di fare pratica con lui.
E Blay? Non aveva idea del perché fosse tornato, invece di infilarsi nel letto di Saxton. Ma una cosa era chiara: c'era
attrazione reciproca tra quei due e Saxton non era tipo da aspettare, quando voleva qualcuno.
Qhuinn e suo cugino erano parenti, in fin dei conti.
Ma questo non avrebbe minimamente salvato quel figlio di puttana, se avesse spezzato il cuore di Blay.
Capitolo 41
La festa alla fattoria andò avanti parecchio. Continuava ad arrivare gente; parcheggiavano le auto sul prato e si
accalcavano nelle stanze al pianterreno. Per la maggior parte erano tizi che Lash aveva visto all'Xtreme Park, ma non
tutti. E continuavano a portare roba da bere. Confezioni da sei di birre, bottiglie, barilotti.
Dio solo sapeva che razza di sostanze illegali avevano in tasca.
Ma che cazzo... cominciò a pensare Lash. Forse si era sbagliato e l'Omega era stato sopraffatto dalle sue stesse
perversioni...
Quando un vento teso cominciò a soffiare da nord, Lash rimase perfettamente immobile, mantenendo il suo
camuffamento e sprangando la propria mente.
Un'ombra... proiettò un'ombra dentro di sé, attraverso di sé e intorno a sé.
L'arrivo dell'Omega fu preceduto da un'eclissi di luna; quegli idioti dentro casa non capirono cosa stava succedendo...
ma lo stronzetto sì. Il ragazzino uscì dalla porta, avvolto dalla luce proveniente dall'interno.
Il padre di Lash prese forma sul prato infestato di erbacce, i bianchi panneggi che sventolavano, e il suo arrivo
abbassò ulteriormente la temperatura. Non appena l'Omega prese forma, lo stronzetto gli andò incontro e i due si
abbracciarono.
Lash fu tentato di affrontarli, dicendo a suo padre che era solo un volubile succhiacazzi e avvertendo quel verme
della sua putta nella che aveva i giorni contati...
Il volto incappucciato dell'Omega si volse nella sua direzione.
Trattenendo il fiato, Lash svuotò la mente, in modo da risultare invisibile dentro e fuori. Ombra... ombra... ombra...
La pausa durò una vita; se l'Omega avesse avvertito la presenza di Lash, sarebbe stata la fine.
Un istante dopo l'Omega tornò a concentrarsi sul suo golden boy, ma proprio in quel mentre un cretino uscì dalla
fattoria, incespicando e barcollando, le braccia e le gambe che andavano da tutte le parti nel tentativo di non cadere.
Una volta sull'erba, si avvicinò a un orticello di cavoli, ma prima di raggiungerlo cadde in ginocchio, vomitando
contro le fondamenta della casa. Mentre i suoi compari ridevano di lui e i rumori della baldoria si spandevano nella
notte, l'Omega fluttuò fino alla porta.
Quando l'Omega entrò in casa, la festa continuò come se niente fosse, senza dubbio perché quei coglioni erano
troppo sbronzi e strafatti per rendersi conto che, sotto quella veste bianca, il Male si era appena insinuato tra loro.
Non rimasero ignari a lungo, però.
All'improvviso scoppiò una potentissima bomba luminosa; l'esplosione accecante spazzò l'intera casa, uscendo dalle
finestre fino al filare di alberi. Quando la luce abbagliante si attenuò in un chiarore soffuso, non c'erano superstiti:
tutti quegli ubriaconi erano caduti per terra in un colpo solo; i bei tempi erano finiti, per usare un eufemismo.
Porca puttana. Se le cose prendevano la piega che sembrava...
Lash si avvicinò furtivamente alla casa, attento a non lasciare tracce, né in senso proprio né figurato. A un certo punto
udì uno strano raschiare.
Giunto all'altezza di una delle finestre del salotto, sbirciò all'interno.
Lo stronzetto trascinava i corpi per la stanza, allineandoli uno di fianco all'altro sul pavimento, a una trentina di
centimetri l'uno dall'altro, con le teste rivolte verso nord. Gesù... quanti cadaveri: la fila di bravi soldatini defunti
arrivava fino in corridoio e, da lì, in sala da pranzo.
L'Omega si teneva in disparte, come se gli piacesse guardare il suo gigolò che spostava gli uomini a forza di braccia.
Che tenerezza.
Gli ci volle quasi mezz'ora per metterli tutti in fila; quelli su al primo piano vennero trascinati giù per le scale, con le
teste che rimbalzavano su ogni gradino, e lasciavano una scia di sangue rosso vivo.
Logico. Trascinare un peso morto per i piedi è più facile.
Quando furono tutti riuniti, lo stronzetto si mise all'opera col coltello dando vita a una catena di montaggio di
iniziazioni. Partendo dalla sala da pranzo, cominciò a tagliare gole e polsi, caviglie e toraci, poi a ruota arrivava
l'Omega, che faceva colare il sangue nero dentro i petti squarciati e li investiva con una scossa elettrica prima di
procedere alla cardio-ectomia.
Niente vasi, per quell'infornata. I cuori estratti venivano gettati in un angolo.
Molto stile mattatoio.
Alla fine c'era un'enorme pozza di sangue in mezzo al soggiorno, dove le assi del pavimento si erano imbarcate, e
un'altra in corridoio, ai piedi delle scale. Lash non riusciva a spingere lo sguardo fino in sala da pranzo, ma era
sicurissimo che ce n'era un'altra anche lì.
Poco dopo ebbero inizio i lamenti degli affiliati, un coro
destinato a diventare sempre più assordante e caotico via via che la transizione si concludeva vomitando gli ultimi
residui di umanità.
Nel mezzo di quella messe di atroci sofferenze, l'Omega volteggiava tutt'intorno, scavalcando i corpi che si
contorcevano, danzando avanti e indietro, la lunga veste sempre immacolata malgrado venisse trascinata nello schifo
che si stava rapprendendo per terra.
In un angolo, lo stronzetto si accese uno spinello e si mise a fumare tranquillo, neanche stesse tirando il fiato dopo
un lavoro ben fatto.
Lash arretrò dalla finestra, ritirandosi verso gli alberi senza staccare gli occhi dalla fattoria.
Maledizione, avrebbe dovuto fare una cosa così, ma gli mancavano i contatti nel mondo umano. A differenza dello
stronzetto.
Dio, questo avrebbe cambiato tutto per i vampiri. Quegli stronzi si sarebbero trovati di fronte un'altra volta un
esercito di nemici.
Giunto alla Mercedes, mise in moto e, facendo il giro largo per non avvicinarsi alla casa, uscì da fattorilandia. Seduto
al volante, con l'aria gelida che gli soffiava in faccia per via del finestrino rotto, era nero. Al diavolo le femmine e
tutte le altre stronzate, sul serio. Il suo unico obiettivo nella vita, adesso, era mettere KO lo stronzetto. Togliere
all'Omega il suo giocattolino. Distruggere la Lessening Society.
Oddio... le femmine poteva mandarle al diavolo solo fino a un certo punto. Si sentiva esausto perché aveva bisogno
di nutrirsi... qualunque cosa stesse succedendo al suo involucro esterno, il suo interno era ancora assetato di sangue e,
prima di affrontare il suo caro paparino, doveva risolvere quel problema.
Altrimenti avrebbe fatto una brutta fine.
Guidando verso il centro di Caldwell tirò fuori il cellulare, meravigliandosi di quello che stava per fare. Ma
d'altronde, non c'è come , avere un nemico in comune per stringere strane alleanze.
Al quartier generale della confraternita, intanto, Blay si spogliava nel bagno di camera sua e s'infilava sotto la doccia.
Insaponandosi le mani, ripensò al bacio in quel vicolo.
A quel maschio.
A... quel bacio.
Muovendo i palmi sui pettorali, piegò indietro la testa e lasciò scorrere l'acqua calda sui capelli e sulla schiena, fino
alle natiche. Sentiva il bisogno fisico di inarcarsi e lo fece, stirandosi, godendosi il getto caldo. Senza fretta si lavò i
capelli, facendo scorrere sulla testa la mano scivolosa di shampoo.
Ripensando ancora un po' a quel bacio.
Dio, il ricordo delle loro labbra unite era come una calamita che lo attirava di continuo, un richiamo troppo forte da
contrastare, un legame troppo allettante per aver voglia di evitarlo.
Passandosi i palmi sul torace, si chiese quando avrebbe rivisto Saxton.
Quando sarebbero stati di nuovo soli.
Spostando la mano ancora più in basso,...
«Padrone?»
Blay si voltò di scatto, facendo stridere il tallone sul marmo. Coprendosi con entrambe le mani il membro grosso e
duro, fece capolino dalla porta di vetro. «Layla?»
L'Eletta gli sorrise timidamente, lasciando scorrere lo sguardo sul suo corpo. «Mi avete chiamato? Per servirvi?»
«Io non ho chiamato nessuno.» Forse si era confusa? A meno che...
«Mi ha convocata Qhuinn. Credevo di dover venire in questa stanza.»
Blay chiuse brevemente gli occhi, con l'erezione che si afflosciava. Poi, con un metaforico calcio nel sedere, chiuse
l'acqua calda. Tastando alla cieca, prese un asciugamano e se lo legò in vita.
«No, Eletta», disse piano. «Non qui. In camera sua.»
«Oh! Perdonatemi, padrone», esclamò Layla, indietreggiando verso la porta del bagno con le guance in fiamme.
«Non fa niente... attenta!» Blay si lanciò in avanti, afferrandola proprio mentre andava a urtare contro la vasca,
sbilanciandosi. «Tutto bene?»
«Dovrei guardare dove metto i piedi, in verità.» Layla lo guardò negli occhi, posando le mani sulle sue braccia nude.
«Grazie.»
Aveva un volto bellissimo, perfetto; non c'era da stupirsi che Qhuinn fosse interessato. Layla era eterea, certo, ma in
lei c'era qualcosa di più... specie quando abbassò le palpebre e un lampo si accese nei suoi occhi verdi.
Innocente, ma erotica. Ecco. Incarnava quella combinazione affascinante di purezza e sesso selvaggio che i maschi
normali trovano irresistibile... e Qhuinn non era neanche lontanamente normale. Si sarebbe scopato qualunque cosa.
L'Eletta lo sapeva? E sapendolo, le sarebbe importato?
Accigliandosi, Blay la scostò da sé. «Layla...»
«Sì, padrone?»
Be', cavolo... cosa poteva dirle? Era evidente che Qhuinn non l'aveva chiamata per nutrirsi, perché l'aveva fatto la sera
prima...
Cristo, forse il punto era proprio quello. Avevano fatto sesso già una volta e lei era tornata per farlo di nuovo.
«Padrone?»
«Niente. Farai meglio ad andare. Sono sicuro che Qhuinn ti sta aspettando.»
«Avete ragione.» La fragranza alla cannella, tipica di Layla, gli invase le narici. «E gliene sono infinitamente grata.»
Layla si voltò e uscì; nel vederla ancheggiare, Blay fu assalito dall'impulso di gridare. Non voleva pensare a Qhuinn
che faceva sesso nella stanza accanto... quella casa era l'unico luogo ancora incontaminato da tutta la sua "ginnastica"
extracurricolare, per l'amor del cielo.
E adesso, invece, non vedeva altro: Layla che entrava nella stanza di Qhuinn e lasciava scivolare la veste bianca giù
dalle spalle, rivelando seni, ventre e cosce al suo sguardo bicolore. In un batter d'occhio sarebbe stata nel suo letto e
sotto di lui.
E Qhuinn l'avrebbe fatta godere. Era quello il fatto, almeno quando si trattava di sesso: era generoso col suo tempo e
coi suoi talenti. Si sarebbe dedicato a lei con tutto ciò che aveva, mani, bocca...
Già, be', meglio non toccare quel tasto.
Asciugandosi, gli venne da pensare che forse Layla era la compagna ideale per Qhuinn. Data la sua formazione di
ehros, non solo lo avrebbe soddisfatto a tutti i livelli, ma non avrebbe mai preteso che fosse monogamo, non gli
avrebbe rimproverato le sue prodezze sessuali con le altre femmine né lo avrebbe stressato affinché le manifestasse
sentimenti ed emozioni che non provava. Forse avrebbe addirittura condiviso il suo divertimento, perché da come si
muoveva era evidente che si sentiva a suo agio col proprio corpo.
Layla era perfetta per lui. Sicuramente meglio di Blay.
E poi, Qhuinn aveva messo bene in chiaro che alla fine voleva sistemarsi con una femmina... una femmina
tradizionale con dei valori tradizionali, preferibilmente aristocratica, sempre ammesso che ne trovasse una disposta
ad accettarlo malgrado quel difetto degli occhi di due colori diversi.
Layla rispondeva a tutti i requisiti richiesti... non c'era nulla di più vecchio stile o altolocato di una Eletta, ed era
chiaro che lei desiderava Qhuinn.
Sentendosi vittima della malasorte, Blay andò all'armadio e si infilò un paio di pantaloncini di nylon e una maglietta
Under Armour. Non aveva nessuna intenzione di starsene lì seduto a leggere un buon libro mentre nella stanza
accanto succedeva quello che doveva succedere, qualunque cosa fosse...
Già. Meglio evitare quelle immagini, anche sul piano ipotetico.
Uscì nella galleria delle statue, passando di volata davanti alle figure marmoree; invidiava le loro pose calme e i loro
volti sereni. A vederle, con quell'aria della serie "è tutto okay", veniva da pensare che essere un oggetto inanimato è
un affarone. Non provavano nessuna gioia, certo, ma non dovevano neanche sopportare quel dolore bruciante.
Nell'atrio, aggirò l'estremità arrotondata della ringhiera, infilandosi dentro la porta nascosta. Nel tunnel che portava
al centro di addestramento, cominciò a scaldarsi con un corsetta e non rallentò neanche quando emerse dal fondo
dell'armadio nell'ufficio. La sala pesi era l'unico posto in cui gli andava di stare in quel momento. Un'oretta buona
sullo stepper e forse gli sarebbe passata la voglia di levarsi la pelle con un cucchiaio arrugginito.
In corridoio, si fermò di colpo alla vista di una figura solitaria appoggiata al muro di cemento.
«Xhex? Che cosa ci fai qui?» Be', a parte fissare un buco nel pavimento.
Lei lo guardò; gli occhi grigio scuro sembravano due pozzi senza fondo. «Ehilà.»
Blay le andò vicino, aggottando la fronte. «Dov'è John?»
«E lì dentro.» Xhex annuì in direzione della sala pesi.
Ecco spiegati i tonfi sordi in sottofondo. Qualcuno stava chiaramente mettendo a dura prova uno dei tapis roulant.
«Cos'è successo?» Blay fece due più due, mettendo insieme l'espressione di Xhex e la corsa sfrenata delle Nike di
John... il risultato era più o meno un grosso "oh cazzo".
Xhex abbandonò la testa contro il muro che la teneva su. «È già tanto se sono riuscita a riportarlo qui.»
«Perché?»
Lei lo guardò. «Diciamo solo che vuole dare la caccia a Lash.»
«Be', è comprensibile.» «Già.»
Quando quella parola le uscì dalle labbra, Blay ebbe la sensazione che sotto ci fosse molto di più, ma era chiaro che
Xhex non si sarebbe spinta oltre con i commenti.
D'un tratto, il suo sguardo color nuvola temporalesca si appuntò sul viso di Blay. «E così sei tu il motivo per cui
Qhuinn era di umore nero, stanotte.»
Blay trasalì, poi scosse la testa. «Io non c'entro niente. Qhuinn è quasi sempre di cattivo umore.»
«Capita, quando si imbocca la strada sbagliata. Cercare la quadratura del cerchio è come chiedere la luna,
impossibile.»
Blay si schiarì la gola; i sympbath, anche quelli che presumibilmente non ce l'hanno con te, non sono il genere di
persone da avere attorno quando sei giù di morale e vulnerabile. Tipo quando il maschio dei tuoi sogni si sta dando
da fare con una Eletta dal viso d'angelo e un corpo fatto per peccare, diciamo.
Dio solo sapeva cosa stava captando Xhex di ciò che gli frullava per la testa.
«Be'... vado ad allenarmi un po'.» Come se la sua tenuta non fosse già un indizio sufficiente.
«Bene. Magari potresti parlargli.»
«Lo farò.» Blay esitò; Xhex sembrava afflitta quanto lui. «Senti, non per niente, ma è chiaro che sei sfinita. Perché non
vai su a dormire in una delle stanze per gli ospiti?»
Lei scosse la testa. «Non voglio lasciarlo. Sto qui fuori ad aspettare solo perché non voglio farlo impazzire. Vedermi...
non fa bene alla sua salute mentale, al momento. Spero che andrà meglio dopo che avrà rotto il secondo tapis
roulant.»
«Il secondo?»
«Sono quasi certa che lo schianto e la puzza di bruciato che ho sentito un quarto d'ora fa significano che ne ha già
distrutto uno.»
«Accidenti.» «Già.»
Facendosi forza, Blay entrò nella sala pesi...
«Gesù... Cristo. John.»
Inutile chiamarlo: il baccano del tapis roulant, unito ai tonfi di quella marcia forzata, avrebbero sovrastato anche il
ritorno di fiamma di un motore.
John correva come un matto; la T-shirt e il torace grondavano sudore e dai pugni chiusi schizzavano goccioline che si
depositavano in due scie gemelle ai lati dell'attrezzo. I calzettoni bianchi erano striati di rosso sul tallone, come se
interi lembi di pelle si fossero staccati, e i calzoncini di nylon sbattevano come una salvietta bagnata.
«John?» gridò Blay, esaminando l'attrezzo bruciato vicino a quello in funzione. «John!»
Quando neanche gridando riuscì a fargli voltare la testa, gli si piazzò davanti agitando le mani nel suo campo visivo.
Poi si pentì di averlo fatto. Gli occhi che si puntarono nei suoi ardevano di un odio così mortale che Blay fece un
passo indietro.
Quando John tornò a concentrarsi sul nulla davanti a sé, apparve chiaro che voleva continuare così fino a ridurre le
gambe a due monconi.
«John, cosa ne dici di scendere!» gridò Blay. «Prima di cadere!»
Nessuna risposta. Solo il ronzio acuto dell'attrezzo e i tonfi assordanti di quei piedi sul tappeto.
«John! Basta, adesso! Ti stai ammazzando!»
'Fanculo.
Blay si spostò dietro al tapis roulant e strappò via il cavo dal muro. Il rallentamento improvviso fece inciampare John,
che cadde in avanti, ma riuscì ad aggrapparsi alla consolle. O forse, semplicemente, ci crollò sopra.
Ansimava a bocca spalancata, la testa che ciondolava sul braccio.
Blay avvicinò una panca per i pesi e vi si sedette per riuscire a guardarlo in faccia. «John... cosa cavolo ti prende?»
John lasciò andare la consolle e cadde sul sedere; le gambe avevano ceduto di schianto. Dopo una serie di respiri
affannosi, si passò le mani tra i capelli fradici.
«Parlami, John. Resterà tra noi. Lo giuro sulla vita di mia madre.»
Ci volle un po' prima che John alzasse la testa; quando lo fece, aveva gli occhi lucidi. E non per il sudore o per lo
sforzo.
«Parla; non uscirà da queste mura», sussurrò Blay. «Cosa è successo? Dimmelo.»
Quando alla fine John si decise a parlare, lo fece con gesti confusi, ma Blay riuscì a interpretarli comunque.
Le ha fatto male, Blay. Lui... le ha fatto male.
«Be', sì, lo so. Ho sentito in che stato era Xhex quando...»
John strinse gli occhi con forza, scuotendo la testa.
Nel silenzio carico di tensione che seguì, Blay sentì tendersi la pelle sulla nuca. Oh... merda.
Aveva visto giusto, allora. C'era sotto qualcosa di grave.
«Quanto male?», ringhiò Blay.
Peggio di così non si può, sillabò John.
«Figlio di puttana. Lurido bastardo figlio di puttana. Razza di bastardo schifoso figlio di puttana!»
Blay non era un patito del turpiloquio, ma a volte gli improperi sono l'unica cosa che possiamo offrire alle orecchie
altrui. Xhex non era la sua femmina, ma per lui valeva la regola che non si deve far del male al gentil sesso. Per
nessun motivo al mondo... e mai e poi mai così.
Dio, l'espressione addolorata di Xhex non era solo preoccupazione per John. Era dovuta ai ricordi. Ricordi terribili,
spaventosi...
«John... mi dispiace tanto.»
Altre gocce caddero dal mento dell'amico sopra il tappeto nero, e John si asciugò gli occhi un paio di volte prima di
guardare Blay. Sul suo volto l'angoscia era in lotta con una furia selvaggia.
Più che logico. Con la sua storia personale, quella era una batosta sotto molti punti di vista.
Devo ucciderlo, disse John nella lingua dei segni. Non posso vivere in pace con me stesso, se non lo faccio fuori.
Blay annuì, i motivi della sua sete di vendetta erano ovvi. Un vampiro innamorato con una tragica storia di abusi?
Il destino di Lash era segnato, la sua condanna a morte aveva già la data stampata sopra.
Blay strinse il pugno e tese le nocche. «Qualunque cosa ti serva, qualunque cosa tu voglia, io sto con te. E non dirò
una parola.»
John attese un istante, poi batté il pugno contro quello dell'amico. Sapevo di poter contare su di te, sillabò.
«Sempre», promise solennemente Blay. «Sempre.»
Capitolo 42
Un'oretta dopo la puntatina abortita al secondo piano, la casa di Eliahu Rathboone ripiombò nel silenzio, ma prima
di azzardare un altro tentativo, Gregg attese parecchio, dopo che il maggiordomo fu sceso da basso.
Lui e Holly passarono il tempo non scopando, secondo il loro vecchio modus operandi, ma parlando. E più parlavano,
più Gregg si rendeva conto di non conoscerla per niente. Non aveva idea che i suoi passatempi preferiti fossero
preparare torte di mele e lavorare a maglia, o che la sua aspirazione fosse di passare ai tigì della televisione più
seria... che non era poi questa gran sorpresa, a ben vedere: un sacco di veline e ragazze più o meno facili, nel mondo
dei reality e affini, nutrivano ambizioni più elevate che presentare attrezzi per fare stepping o commentare come si
mangiano gli scarafaggi. E sapeva anche che Holly aveva mosso i primi passi nei notiziari locali, sul mercato di
Pittsburgh, prima di essere licenziata.
Ciò che non sapeva era il vero motivo per cui aveva lasciato quel suo primo impiego. Il direttore generale, un uomo
sposato, si aspettava che Holly si esibisse davanti a un tipo di telecamera diverso, più privato, e quando lei gli aveva
detto di no, lui le aveva dato il benservito, dopo aver posto le condizioni per farla sbagliare in onda.
Gregg aveva visto il nastro del servizio in cui si era impappinata, incasinando tutto. Aveva fatto i compiti: anche se
l'audizione che Holly aveva fatto per lui era andata alla grande, controllava sempre le referenze.
Forse era stato proprio quel nastro a mettergli in testa dei pregiudizi su di lei: bel faccino, davanzale da urlo, ma non
molto altro da offrire.
E quello non era il peggiore dei suoi errori di valutazione. Non aveva mai saputo che Holly aveva un fratello. Che era
handicappato. E che lei manteneva.
Holly gli aveva mostrato una fotografia di loro due insieme.
E quando Gregg le aveva chiesto com'era possibile che lui non sapesse niente del ragazzo, lei aveva avuto l'onestà di
dirgli come stavano le cose: Perché tu avevi messo dei paletti e questo era fuori dai paletti.
Naturalmente lui si era difeso, secondo la classica reazione maschile, ma Holly aveva ragione, questo era il fatto. Lui
aveva tracciato dei confini in modo molto chiaro. Ovvero niente gelosia, niente spiegazioni, niente di stabile e niente
di personale.
Non esattamente l'ambiente ideale per mostrarsi vulnerabile.
Quella consapevolezza lo aveva spinto a stringerla al petto, posandole il mento sulla testa e accarezzandole la
schiena. Appena prima di sprofondare nel mondo dei sogni, Holly aveva farfugliato qualcosa sottovoce. Tipo che
quella era la notte migliore che avesse mai passato con lui.
E questo malgrado gli orgasmi mostruosi che le aveva regalato.
Be', quando gli faceva comodo. C'erano stati molti appuntamenti disdetti all'ultimo momento, messaggi telefonici a
cui non aveva risposto e momenti in cui l'aveva trattata con freddezza, snobbata, respinta, sia verbalmente che
fisicamente.
Dio... che stronzo era stato.
Quando finalmente si alzò per uscire, Gregg le rimboccò le coperte, accese la telecamera a sensori di movimento e
sgattaiolò in corridoio. Tutt'intorno regnava il silenzio.
Risalì il corridoio fino al cartello che segnalava l'uscita e si infilò nelle scale di servizio. Su per i gradini, pianerottolo,
altra rampa di scale, ed eccolo davanti alla porta.
Questa volta non perse tempo a bussare. Tirò fuori un piccolo cacciavite solitamente usato sull'attrezzatura per le
riprese e si diede da fare per forzare la serratura. Fu più facile di quanto pensasse, in realtà. Bastò infilarlo nella
toppa e ruotarlo leggermente e la serratura cedette con uno scatto.
La porta non cigolò, il che lo sorprese.
Ciò che trovò dall'altra parte, invece... gli provocò uno shock della miseria.
Il secondo piano era una specie di enorme caverna buia, con un vecchio assito di legno grezzo e un soffitto spiovente
su entrambi i lati. In fondo c'era un tavolo con sopra un lume a petrolio che tingeva le pareti di un giallo dorato...
oltre a illuminare gli stivali neri di qualcuno seduto appena fuori dalla pozza di luce.
Grossi stivali.
Tutt'a un tratto fu chiaro chi era quel figlio di puttana e cosa aveva fatto.
«Ti ho immortalato su nastro», disse Gregg.
La risatina sommessa che ottenne per tutta risposta gli procurò una potente scarica di adrenalina: bassa e gelida, era il
tipo di suono che fanno i killer appena prima di mettersi al lavoro con un coltello.
«Veramente?» Quell'accento. Che razza di accento era? Non era francese... né ungherese...
Oh, chissenefrega. Al pensiero che quello si era approfittato di Holly, Gregg si sentì più forte e più alto di quanto in
realtà non fosse. «So quello che hai fatto. L'altro ieri notte.»
«Ti inviterei a prendere una sedia, ma come vedi ne ho una sola.»
«Non sto scherzando», disse Gregg facendo un passo avanti. «So cos'è successo con lei. Lei non ti voleva.»
«Voleva il sesso.»
Razza di stronzo del cazzo. «Stava dormendo.»
«Ah sì?» La punta dello stivale dondolava su e giù. «Le apparenze, come la psiche, possono trarre in inganno.»
«Chi ti credi di essere?»
«Il proprietario di questa bella casa. Ecco chi sono. Quello che ti ha dato il permesso di giocare con tutte le tue
telecamere.»
«Be', adesso puoi anche dire addio a tutto quanto. Non ho nessuna intenzione di fare pubblicità a questo posto.»
«Oh, io invece credo che lo farai. E nella tua natura.»
«Tu non sai un cazzo di me.»
«Io penso che sia vero il contrario. Sei tu che non sai... un cazzo, per usare le tue parole... di te stesso. Lei ha detto il
tuo nome, a proposito. Quando è venuta.»
A quella notizia, Gregg si infuriò, tanto che fece un altro passo avanti.
«Io starei attento, se fossi in te», disse la voce. «Non vorrai farti male. Tutti mi considerano pazzo.»
«Chiamerò la polizia.»
«Non ne hai motivo. Adulti consenzienti eccetera eccetera.»
«Lei stava dormendo!»
Lo stivale si piantò per terra. «Non usare quel tono con me, ragazzo.»
Non ci fu il tempo di infiammarsi per quell'insulto: l'uomo si sporse in avanti sulla sedia... e Gregg perse la voce.
Ciò che entrò nel cono di luce non aveva senso. Da una quantità di punti di vista.
Era il ritratto. Quello giù in salotto. Solo che era vivo e vegeto. L'unica differenza era che i capelli, invece che raccolti,
erano sciolti sulle spalle - due spalle larghe il doppio di quelle di Gregg - ed erano rossi e neri.
Oh, Dio... che occhi; scintillanti e color pesca, come l'aurora.
Assolutamente magnetici.
E, sì, anche un po' folli.
«Ti suggerisco», riprese la voce con quello strano accento strascicato, «di uscire da questa soffitta e scendere dalla tua
incantevole signora...»
«Sei un discendente di Rathboone?»
L'uomo sorrise. Sì, be', okay... c'era qualcosa di molto strano nei suoi denti davanti. «Lui e io abbiamo delle cose in
comune, è vero.»
«Gesù...»
«È tempo che tu porti a termine il tuo piccolo progetto.» L'uomo smise di sorridere, il che per certi versi fu un
sollievo. «E un avvertimento, invece del calcio nel sedere che sarei tentato di darti. Dovresti prenderti cura della tua
donna più di quanto tu abbia fatto ultimamente. Lei nutre sentimenti sinceri nei tuoi confronti, sentimenti per cui
non va biasimata e che chiaramente tu non meriti... altrimenti adesso non puzzeresti di senso di colpa. Sei fortunato
ad avere al tuo fianco la donna che desideri, dunque smettila di comportarti da imbecille.»
Gregg non rimaneva scioccato molto facilmente, ma adesso non sapeva proprio cosa dire.
Come faceva quello sconosciuto a sapere tutte quelle cose?
E, Cristo, gli rodeva che Holly fosse andata a letto con un altro... ma aveva detto il suo nome?
«Fai ciao con la manina.» Rathboone alzò la mano e mimò il gesto di un bambino. «Ti prometto che lascerò in pace la
tua donna, a patto che tu la pianti di ignorarla. Adesso vai pure, ciao ciao.»
Con un riflesso automatico che non gli apparteneva, Gregg alzò il braccio e agitò la mano prima che i suoi piedi
facessero dietrofront, cominciando a camminare verso la porta.
Dio, che male alle tempie. Maledizione... perché stava... dove...
La sua mente si bloccò, come se qualcuno avesse cosparso di colla gli ingranaggi.
Giù al primo piano. Giù in camera sua.
Si spogliò e si infilò a letto in boxer, posò la testa dolorante sul cuscino accanto a quella di Holly, poi attirò Holly
contro di sé cercando di ricordare...
Doveva fare qualcosa. Ma che cos...
Il secondo piano. Doveva salire al secondo piano. Doveva scoprire cosa c'era lassù...
Un'altra fitta di dolore gli trafisse il cervello, neutralizzando non solo l'impulso di andare da qualsiasi parte, ma
qualunque interesse per quello che c'era nella soffitta sopra le loro teste.
Chiudendo gli occhi, ebbe la visione stranissima di uno straniero sconosciuto dal volto familiare... poi però crollò
addormentato e tutto il resto perse importanza.
Capitolo 43
Penetrare nella magione dei vicini non pose alcun problema. Dopo averla spiata per qualche tempo senza riscontrare
nulla che suggerisse dei movimenti all'interno delle mura, Darius dichiarò che potevano entrare... e così fecero.
Smaterializzandosi dall'anello di boschi che separava le tue tenute, lui e Tohrment ripresero forma accanto all'ala dove
si trovavano le cucine... dopo di che entrarono, semplicemente, da una robusta porta di legno.
Lostacolo maggiore fu vincere l'opprimente senso di paura.
A ogni passo, a ogni respiro, Darius dovette imporsi di avanzare, mentre il suo istinto gli urlava che si trovava nel
posto sbagliato. Ciononostante si rifiutò di tornare indietro. Non gli restavano altre vie da percorrere e, sebbene la
figlia di Sampsone potesse non trovarsi in quel luogo, in mancanza di altre piste doveva fare qualcosa, altrimenti
sarebbe impazzito.
«Questa casa sembra stregata», farfugliò Tohrment quando si guardarono intorno, nella sala comune della servitù.
Darius annuì. «Ma ricorda che i fantasmi esistono solo nella tua mente, e non sono tra chi alloggia sotto questo tetto.
Vieni, dobbiamo scoprire se ci sono stanze sotterranee. Se gli umani hanno rapito quella poveretta, la terranno
sottoterra.»
Oltrepassarono senza fare rumore l'imponente camino della cucina e le carni appese agli uncini ad affumicare; era
palesemente una casa umana. Il silenzio regnava ovunque, ai piani superiori e tutt'intorno; in contrasto con la dimora
di un vampiro, dove quello sarebbe stato un momento di gran fermento per la preparazione dell'Ultimo Pasto.
Che in quella casa vivesse l'altra razza non era una conferma che la fanciulla non vi fosse tenuta prigioniera... al
contrario, forse, poteva suffragare tale conclusione. Se i vampiri sapevano per certo che
il genere umano esiste, nella periferia culturale umana pullulavano solo leggende sui vampiri... poiché soltanto così gli
esseri con le zanne potevano sopravvivere con più agio. Di tanto in tanto, tuttavia, si verificavano contatti tanto
inevitabili quanto involontari tra coloro che avevano scelto di restare nascosti e coloro che erano dotati dì occhi
indiscreti; tali incontri, rari quanto fugaci, spiegavano i racconti terrificanti degli umani e le loro bizzarre invenzioni di
esseri fantastici, dagli "spiriti" alle "streghe", dagli "spettri" ai "succhiatori di sangue". La mente umana sembrava
affetta da un bisogno irrefrenabile di fabbricare fantasie in assenza di prove concrete, bisogno facilmente comprensibile
data la propensione, tipica di quella razza, a vedere il mondo - e il posto che essa vi occupa - in termini autoreferenziali:
tutto ciò che non collimava con tale visione veniva spinto a forza nella sovrastruttura, anche se ciò significava creare
elementi "paranormali".
E che colpo sensazionale, per una famiglia facoltosa, catturare una prova fisica di tali effimere superstizioni.
Specie se si trattava di una prova incantevole e indifesa.
Impossibile dire cosa avessero osservato, nel tempo, i membri di quella famiglia. Quali stranezze avessero notato nei
loro vicini. Quali differenze razziali fossero inaspettatamente emerse in virtù della vicinanza delle due proprietà.
Darius imprecò sottovoce, pensando che quello era il motivo per cui i vampiri non avrebbero dovuto vivere in
prossimità degli umani. Meglio la separazione. La congregazione e la separazione.
Darius e Tohrment ispezionarono tutto il pianterreno della casa, smaterializzandosi da una stanza all'altra,
spostandosi come le ombre proiettate dalla luna, muovendosi, silenziosi e incorporei, tra i mobili intagliati e gli arazzi,
La loro preoccupazione più grande, il motivo per cui non osavano camminare sul pavimento di pietra, era non svegliare
i cani. Molte dimore erano protette da cani da guardia, una complicazione di cui facevano volentieri a meno. Se in casa
c'erano dei cani, si augurarono che fossero acciambellati ai piedi del letto del padrone.
Volesse il cielo che ciò valesse anche per qualunque altra persona di guardia.
La fortuna era dalla loro parte. Niente cani. Niente guardie. Al meno per quanto potevano vedere, udire o annusare... e
furono anche in grado di localizzare il passaggio che conduceva sottoterra.
Entrambi estrassero delle candele e le accesero; le fiammelle tremolanti illuminarono dei gradini intagliati in fretta e
senza cura nella pietra grezza e dei muri dalla superficie irregolare... tutto ciò lasciava supporre che soltanto i
domestici, e mai i padroni, scendessero li sotto.
A riprova del fatto che lì non alloggiavano vampiri. Nelle dimore dei vampiri gli appartamenti sotterranei erano anche i
più sfarzosi.
Nel sotterraneo la pavimentazione di pietra lasciò il posto a un fondo in terra battuta e l'aria divenne pesante a causa
del freddo e dell'umidità. Via via che avanzavano sotto la grande casa, trovarono magazzini pieni di botti di vino e di
idromele, barili di carne salata e ceste di patate e cipolle.
In fondo, Darius si aspettava di trovare una seconda rampa di scale da cui risalire in superficie. Invece, giunti al termine
del corridoio sotterraneo, non trovarono nessuna porta, soltanto un muro.
Darius si guardò intorno in cerca di tracce per terra o di fessure tra le pietre che indicassero un pannello o un passaggio
segreto. Non trovò nulla.
Per accertarsene, lui e Tohrment fecero scorrere le mani lungo le pareti e sul pavimento.
«C'erano molte finestre ai piani superiori», mormorò Tohrment. «Ma forse, se la tenevano di sopra, hanno tirato le
tende. O magari ci sono delle stanze interne prive di finestre.»
Di fronte a quel vicolo cieco, Darius venne assalito nuovamente dalla paura, dalla sensazione di trovarsi nel posto
sbagliato, al punto che, col respiro corto, sentì un rivolo il sudore sotto le ascelle e lungo la spina dorsale. Notando che
Tohrment si dondolava avanti e indietro, avanti e indietro, ebbe il sospetto che anche lui fosse afflitto da una analoga
trepidazione.
Darius scosse la testa. «Ebbene, pare che quella poveretta non sia qui...»
«Verissimo, vampiro.»
Darius e Tohrment si voltarono di scatto, sfoderando i pugnali.
Ecco spiegata la paura, pensò Darius, guardando ciò che li aveva colti di sorpresa...
La figura avvolta nella lunga veste bianca che ostruiva la via d'uscita non era un umano, ma non era neanche un
vampiro.
Era un symphath.
Capitolo 44
Mentre aspettava fuori dalla sala pesi, Xhex esaminava le proprie emozioni con interesse spassionato. Era come
guardare il volto di un estraneo e notare le imperfezioni, il colorito e i lineamenti solo perché ce l'avevi davanti.
La sua sete di vendetta era stata eclissata da una sincera preoccupazione per John.
Sorpresa!
D'altronde, mai più si sarebbe sognata di vedere una furia simile così da vicino, specie da parte di uno come lui. Era
come se John avesse dentro di sé una belva, che si era liberata ruggendo da una qualche gabbia interiore.
Un vampiro innamorato non è un soggetto con cui scherzare, cavolo.
Perché, inutile prendersi in giro, era quello il motivo della reazione di John... e anche la causa dell'odore penetrante e
speziato che gli aveva sentito addosso da quando era scappata dalla prigione di Lash: a un certo punto, nel corso delle
settimane di quella brutale vacanza, l'attrazione e il rispetto di John nei suoi confronti si erano consolidati,
scivolando verso l'irrevocabile.
Merda. Che casino.
Il rumore del tapis roulant cessò di colpo. Era pronta a scommettere che Blaylock aveva strappato il cavo dal muro.
Buon per lui; lei aveva tentato di far desistere John da quel suicidio a mezzo Nike, ma vedendo che era impossibile
farlo ragionare, si era piazzata di guardia lì fuori.
Non poteva stare lì a guardarlo mentre correva fino a schiattare. Era già abbastanza doloroso ascoltarlo mentre si
infliggeva quella punizione.
In fondo al corridoio, la porta di vetro dell'ufficio si spalancò
e comparve il fratello Tohrment. Vista la luce alle sue spalle, anche Lassiter doveva essere sceso nel centro di
addestramento, ma l'angelo caduto restò indietro.
«Come sta John?» chiese il fratello, avvicinandosi; la sua preoccupazione era evidente nel volto tirato e negli occhi
stanchi, oltre che nella sua griglia emotiva, illuminata nei settori del rimpianto.
Il che quadrava sotto molti punti di vista.
Xhex lanciò un'occhiata alla porta della sala pesi. «Sembrava deciso a cambiare mestiere per diventare un maratoneta,
ma forse ci ha ripensato. O è così, o ha appena distrutto un altro tapis roulant.»
La statura imponente di Tohr la costrinse ad alzare la testa e fu una sorpresa vedere cosa c'era dietro i suoi occhi blu:
quello sguardo rivelava una conoscenza profonda che accese di sospetto i circuiti di Xhex. Nella sua esperienza, gli
sconosciuti che ti guardano così sono pericolosi.
«Come stai?» chiese piano lui.
Strano; non aveva avuto molti contatti con il fratello, ma ogni volta che le loro strade si erano incrociate, lui era
sempre stato particolarmente... be', gentile. Ecco perché lei lo evitava sempre. Era molto più brava a gestire la
brutalità che qualunque forma di tenerezza.
Detto francamente, Tohrment la innervosiva parecchio.
Di fronte al suo silenzio, il volto di lui si contrasse come se fosse rimasto deluso ma non gliene facesse una colpa.
«Okay», disse. «Non insisto.»
Gesù, che stronza. «No, figurati. È solo che non ti conviene sentire la mia risposta, al momento.»
«D'accordo.» Tohrment socchiuse gli occhi, guardando la sala pesi, e Xhex ebbe la netta sensazione che fosse
intrappolato lì fuori proprio come lei, tagliato fuori dal ragazzo che stava soffrendo al di là della porta chiusa. «E così
hai chiamato in cucina perché volevi parlarmi?»
Xhex tirò fuori la chiave che John aveva usato per entrare nella vecchia casa di Tohrment. «Volevo solo ridarti questa
e dirti che c'è stato un problema.»
La griglia emotiva del fratello divenne nera e vuota, tutta buia. «Quale problema?»
«Una delle vetrate scorrevoli è rotta. Bisogna coprirla con un paio di fogli di compensato. Siamo riusciti a riattivare il
sistema di allarme, quindi i sensori di movimento dentro casa sono in funzione, ma c'è una corrente pazzesca. Sarò
lieta di aggiustarla oggi stesso.»
Sempre che John non distruggesse il resto dell'attrezzatura da palestra, consumasse tutte le scarpe da ginnastica o
crollasse a terra stecchito.
«Quale...» Thor si schiarì la voce. «Quale vetrata?»
«Quella nella stanza di John Matthew.»
Il fratello si accigliò. «Era rotta, quando siete entrati?»
«No... è esplosa da sola.»
«Il vetro non esplode senza una ragione.»
Già, e lei ne aveva fornita una ottima a John Matthew. «Verissimo.»
Tohr la guardò e lei sostenne il suo sguardo finché il silenzio non divenne pesante, vischioso come fango. Ma per
quanto Tohrment fosse una brava persona e un ottimo soldato, lei non aveva niente da confidargli.
«Con chi devo parlare per procurarmi del compensato?» chiese.
«Non preoccuparti per quello. E grazie di avermi avvertito.»
Quando il fratello si voltò per tornare in ufficio, Xhex si sentì malissimo... un altro punto in comune con John
Matthew, a quanto pareva. Ma invece di stabilire un record di velocità, lei voleva solo prendere un coltello e tagliarsi
i polsi per allentare la pressione.
Dio, a volte era proprio una lagna. Ma i cilici, oltre a tenere a bada il suo lato symphath, l'aiutavano anche ad
attenuare ciò che non voleva sentire.
Ovvero grosso modo il novantanove per cento delle emozioni.
Dieci minuti dopo, Blaylock mise la testa fuori dalla sala pesi. Teneva gli occhi fissi sul pavimento e le sue emozioni
erano in gran subbuglio. Niente di strano, a nessuno piace vedere un amico che si auto-distrugge, e dover parlare con
la persona che ha fatto precipitare in caduta libera il morale di quel poveraccio non è esattamente il massimo della
vita.
«Senti, John è andato nello spogliatoio a farsi una doccia. L'ho convinto a piantarla di correre come se fosse sul set del
Maratoneta, ma è... Gli serve ancora un po' di tempo, credo.»
«Okay. Lo aspetterò qui in corridoio.»
Blaylock annuì; poi, dopo una pausa imbarazzata, aggiunse, «Adesso vado ad allenarmi.»
Quando la porta si chiuse, Xhex prese armi e giubbotto, avviandosi verso lo spogliatoio. L'ufficio era vuoto, il che
significava che Tohr se n'era andato per la sua strada, senza dubbio a prendere accordi con qualche doggen per un po'
di bricolage da bravo tuttofare.
Il silenzio di tomba diceva chiaramente che non c'era anima viva in nessuna delle aule, in palestra o in clinica.
Scivolando con la schiena lungo la parete, posò il fondoschiena per terra e appoggiò le braccia sulle ginocchia, poi
abbandonò la testa all'indietro e chiuse gli occhi.
Dio, era stremata...
«John è ancora lì dentro?»
Xhex si svegliò di soprassalto, la pistola puntata contro il petto di Blaylock. Vedendolo balzare all'indietro, mise
immediatamente la sicura e abbassò la canna.
«Scusa, le vecchie abitudini sono dure a morire.»
«Ehm, già.» Blaylock agitò l'asciugamano bianco in direzione dello spogliatoio. «John è ancora lì dentro? E passata
più di un'ora.»
Xhex alzò il polso di scatto e guardò l'orologio. «Cristo.»
Si alzò in piedi e socchiuse le porta. Lo scroscio dell'acqua nella doccia non fu un gran sollievo. «C'è qualche altra
uscita?»
«Solo attraverso la sala pesi... che si apre solo su questo corridoio.»
«Okay, vado a parlarci io», disse Xhex, sperando che fosse la cosa giusta da fare.
«Bene. Io finisco di allenarmi. Chiamami, se hai bisogno.»
Xhex spinse la porta ed entrò. Era il classico spogliatoio con file su file di armadietti di metallo beige separate da
panche di legno. Seguendo il rumore dell'acqua, sulla destra, passò davanti a un settore attrezzato con orinatoi,
gabinetti e lavandini dall'aria sconsolata, così soli e abbandonati senza un branco di maschi nudi e sudati che si
scambiavano colpi di salvietta.
Trovò John in uno spazio aperto, con dozzine di soffioni e piastrelle su ogni centimetri quadrato di pavimento, pareti
e soffitto. In T-shirt e pantaloncini, se ne stava seduto contro il muro, a testa china, le braccia penzoloni sulle
ginocchia e l'acqua che gli scorreva sulle spalle poderose e sul torace.
Il primo pensiero di Xhex fu che, fuori in corridoio, lei era nella stessa identica posizione.
Il secondo fu che era sorpresa di vederlo così immobile. La sua griglia emotiva non era l'unica cosa illuminata; anche
quell'ombra dietro di essa ardeva di angoscia. Era come se le due parti di lui vivessero una sorta di lutto, senza
dubbio perché John aveva sofferto o perché aveva assistito a troppe perdite crudeli in questa vita... e forse anche in
un'altra. Lo stato emotivo generato da tutto ciò la terrorizzava. L'abisso tenebroso dentro di lui era così potente da
deformare la sua sovrastruttura psichica... trascinandolo nello stesso inferno dov'era precipitata lei, in quella
maledetta sala operatoria.
Trascinandolo fin sull'orlo della pazzia.
Appena scavalcò il bordo piastrellato della doccia, le venne la pelle d'oca per il gelo creato dai sentimenti di John... e
per la consapevolezza di esserci ricascata. Era come con Muhrder. Anzi, peggio.
Cristo santo, era una fottutissima vedova nera, quando si trattava di maschi di valore.
«John?»
Lui non alzò la testa, anche se non era sicura che si fosse accorto della sua presenza. Era tornato al passato, risucchiato
e prigioniero nella morsa della memoria...
Accigliandosi, si ritrovò a seguire con gli occhi l'acqua che scorreva sotto di lui e scivolava lungo il piano
leggermente inclinato... fino allo scarico.
Lo scarico.
C'era qualcosa, legato a quello scarico. Qualcosa che c'entrava con... Lash?
Nell'abbraccio della solitudine e col sommesso rumore del getto d'acqua in sottofondo, Xhex sguinzagliò il suo lato
cattivo per una buona causa: in gran fretta il suo istinto di symphath si tuffò dentro John, penetrando oltre il suo
territorio fisico, affondando nella sua mente e nei suoi ricordi.
Quando lui alzò la testa a guardarla, scioccato, tutto divenne rosso e bidimensionale, le piastrelle si tinsero di un rosa
acceso, i capelli scuri, bagnati, di John divennero rosso sangue, l'acqua scintillava come champagne rosé.
Le immagini che vide erano tracciate con un calamo di terrore e vergogna: una scala buia in uno stabile non dissimile
da quello in cui l'aveva portata John; lui era un ragazzino gracile e minuto, prima della transizione, costretto da un
fetido umano... Oh. Dio.
No.
Xhex sentì cedere le ginocchia e barcollò... poi si lasciò andare, semplicemente, atterrando sulle piastrelle scivolose,
così di schianto che le ossa scricchiolarono e i denti batterono gli uni contro gli altri.
No... non John, pensò. Non quand'era indifeso, innocente e così solo. Non quando, smarrito nel mondo degli umani,
doveva arrabattarsi per sopravvivere.
Non lui. Non così.
Rimasero seduti lì, a fissarsi l'un l'altra. Col suo lato symphath uscito allo scoperto, Xhex aveva gli occhi rosso fuoco.
John sapeva che gli aveva letto dentro e odiava ciò che aveva scoperto, lo odiava con una furia tale che, saggiamente,
lei tenne per sé ogni pena o commiserazione. Non sembrava arrabbiato per quell'invasione da parte sua, però. Più che
altro avrebbe tanto voluto non dover condividere con nessuno quello schifo.
«Cosa c'entra Lash con quella faccenda?» chiese brusca lei. «Perché occupa ogni angolo della tua mente.»
John spostò gli occhi sullo scarico in mezzo alle docce, e lei ebbe l'impressione che stesse vedendo del sangue
raccogliersi intorno alla griglia di acciaio inossidabile. Sangue di Lash.
Xhex socchiuse gli occhi. Adesso era facile indovinare tutta la storia: Lash aveva scoperto il segreto di John in qualche
modo. E non le serviva il suo lato symphath per sapere come avrebbe sfruttato un'informazione del genere, quello
stronzo.
Lo speaker che annuncia le formazioni delle squadre, prima di una partita di baseball si sarebbe accontentato di un
pubblico più ristretto.
Quando John tornò a guardarla, Xhex sentì una comunanza sconvolgente con lui. Niente più barriere, niente più
timori di essere vulnerabile. Anche se erano tutti e due completamente vestiti, ognuno era nudo di fronte all'altro.
Sapeva benissimo che non avrebbe mai provato niente del genere per nessun altro, maschio o femmina che fosse.
Senza bisogno di parlare, John sapeva tutto ciò che lei aveva passato e tutto ciò che derivava da quel tipo di
esperienza. E lo stesso valeva per lei.
Forse quell'ombra sulla sua griglia emotiva era una sorta di biforcazione della psiche causata dal trauma che aveva
subito. Forse mente e anima si erano coalizzate e avevano concordato di tagliare fuori il passato, relegandolo in fondo
alla sua soffitta mentale ed emotiva. Forse per questo quelle due parti di lui erano così vivide.
Aveva senso. Così come la sete di vendetta che lo animava. In fin dei conti, Lash era intimamente coinvolto nei torti
subiti da entrambi, da John e da lei.
Se informazioni come quella riguardante John capitavano nelle mani sbagliate era un disastro, una cosa terribile
quasi quanto l'orrore subito, perché lo rivivevi ogni volta che qualcun altro veniva a conoscenza della storia. Ecco
perché lei non parlava mai del periodo trascorso alla colonia con suo padre, o di quando era nella clinica degli
umani... o... già...
John alzò l'indice e lo picchiettò di fianco all'occhio.
«I miei sono rossi?» mormorò Xhex. Quando lui annuì, lei si stropicciò la faccia. «Scusa. Forse devo procurarmi un
altro paio di cilici.»
John chiuse il rubinetto e lei lasciò ricadere le mani. «Chi altri lo sa? Di te.»
John si accigliò. Poi sillabò, Blay, Qhuinn. Zsadist. Havers. Una psicologa. Quando scosse la testa, Xhex lo interpretò
come il segno che l'elenco era finito.
«Non dirò niente a nessuno.»
Fece scorrere lo sguardo su quel corpo imponente, dalle spalle ai poderosi bicipiti, alle cosce impressionanti... e si
scoprì a rimpiangere che non fosse così grosso, all'epoca, su quella scala sudicia. Almeno adesso non era più come
quando era stato violentato... anche se questo era vero solo all'esterno. Dentro, aveva tutte le età cui era scampato, il
neonato abbandonato, il bambino indesiderato, l'adolescente solo al mondo... e ora l'adulto.
Che era un indomito guerriero sul campo di battaglia, un amico fedele e, a giudicare da ciò che aveva fatto a quel
lesser nella casa di arenaria e a ciò che senza dubbio voleva fare a Lash, un acerrimo nemico.
In sostanza un bel problema, perché il figlio dell'Omega doveva assassinarlo lei.
Non che dovessero affrontare la questione proprio adesso.
Con l'umidità delle piastrelle che si insinuava nel fondo dei pantaloni e l'acqua che gocciolava giù da John, Xhex
rimase sorpresa da ciò che le venne voglia di fare.
Era assurdo sotto molti punti di vista, e di sicuro era una pessima idea. Ma in quel momento, tra loro, la logica non
giocava un gran ruolo.
Si spostò in avanti, poggiando i palmi sul pavimento scivoloso della doccia. Muovendosi lentamente, prima una
mano e poi un ginocchio, una mano e un ginocchio, andò verso John.
Capì subito quando lui colse il suo odore.
Perché sotto i calzoncini fradici il suo uccello ebbe un fremito e diventò duro.
Quando furono faccia a faccia, puntò gli occhi sulla sua bocca. «Le nostre menti sono già unite. Voglio che la carne
segua il loro esempio.»
Con ciò, si protese in avanti e piegò la testa. Appena prima di baciarlo si fermò, ma non per paura che lui si ritraesse...
dall'odore intenso e speziato che emanava, sapeva che John non voleva tirarsi indietro.
«No, non hai capito niente, John.» Leggendo le sue emozioni scosse la testa. «Tu non vali la metà del maschio che
avresti potuto essere per colpa di quello che ti hanno fatto. Vali il doppio di chiunque altro, perché sei
sopravvissuto.»
Be', la vita ci mette in situazioni che non ci saremmo mai aspettati.
Mai e poi mai, nemmeno nei peggiori incubi vomitati dal suo subconscio, John si sarebbe sognato di digerire l'idea
che Xhex sapesse quanto aveva sofferto prima della transizione.
Per quanto fosse diventato forte e robusto, non si era scordato come era stato debole un tempo. E la minaccia che i
suoi cari, le persone che più rispettava, potessero scoprirlo, resuscitava quella debolezza non una, ma infinite volte.
Eppure eccoli lì, col suo scheletro non solo fuori dall'armadio, ma illuminato da luci stroboscopiche.
E la sua doccia di due ore? Si sentiva ancora morire per quello che Xhex aveva patito... Era troppo doloroso per
pensarci, troppo orribile per non soffermarvisi. Se poi a questo si aggiungeva il suo bisogno di vampiro innamorato
di proteggerla e salvaguardarla? E il fatto che lui sapeva esattamente quant'era spaventoso essere vittimizzati in quel
modo?
Se solo l'avesse trovata prima... se solo si fosse impegnato di più...
Già, ma lei si era liberata da sola, giusto? Non era stato lui a farla scappare... era stato lì con lei, nella fottutissima
stanza in cui era stata stuprata, senza neanche accorgersi che lei era lì.
Era un pensiero quasi troppo terribile per conviverci; la testa gli ronzava al punto che il cervello sembrava un
elicottero in procinto di alzarsi in volo... su, su, per poi allontanarsi e non tornare mai più.
L'unica cosa che lo teneva coi piedi per terra era la prospettiva di uccidere Lash.
Finché quello stronzo era là fuori, vivo e vegeto, John aveva un obiettivo che teneva il tetto sopra la sua casa.
Uccidere Lash era il suo legame con la sanità mentale e con uno scopo ben preciso, la zincatura del suo acciaio.
Un'altra intrinseca debolezza, però, come non vendicare la sua femmina, ed era spacciato.
«John», disse Xhex, nel chiaro tentativo di tirarlo fuori da quell'avvitamento mentale che rischiava di mandarlo in tilt.
Concentrandosi su di lei, John la guardò in quegli occhi rosso fuoco, rammentando che era una symphath. Il che
significava che poteva scavare dentro di lui e spalancare tutte le sue botole interne, liberando i suoi demoni solo per
il gusto di guardarli ballare. Ma non l'aveva fatto, no? Si era insinuata dentro di lui, certo, ma solo per capire come
stava. E alla vista dei suoi lati più oscuri, non aveva esclamato puah, che schifo, puntandogli il dito contro, né si era
ritratta disgustata.
Anzi, si era avvicinata di soppiatto, come una gatta, con l'aria di volerlo baciare.
Abbassò gli occhi sulle sue labbra.
Chi l'avrebbe mai detto, riusciva a reggere quel tipo di contatto. Le parole non bastavano a mitigare la ripugnanza che
provava verso se stesso, ma le mani di lei sulla pelle, la bocca di Xhex sulla sua, il corpo di lei contro il suo... ecco di
cosa aveva bisogno, invece che di parlare.
«Giusto», confermò lei con gli occhi che ardevano, e non solo per via della sua metà symphath. «Ne abbiamo bisogno
tutti e due.»
John le prese il viso tra le mani fredde e bagnate. Poi si guardò intorno. Il momento poteva essere quello giusto, ma il
posto proprio no.
Non avrebbe fatto l'amore con lei su quelle piastrelle dure.
Vieni con me, sillabò, alzandosi e tirandola su in piedi.
Quando lasciarono lo spogliatoio, l'erezione tendeva i pantaloncini da corsa, l'urgenza di accoppiarsi era un ruggito
nel sangue, tenuto a bada dal bisogno di trattarla col massimo rispetto e di darle qualcosa di dolce, al posto della
violenza che aveva subito.
Invece di puntare verso il tunnel per rincasare, svoltò a destra. Neanche morto sarebbe salito in camera sua con lei
sottobraccio e un'erezione grossa come una trave a doppia T . E poi era bagnato fradicio.
Troppe cose da spiegare alla platea permanente offerta dalla casa.
Accanto allo spogliatoio c'era una sala per lo stretching e la riabilitazione motoria, attrezzata con lettini per i
massaggi e una vasca a idromassaggio nell'angolo. C'erano anche un mucchio di tatami azzurri mai utilizzati - i
fratelli trovavano a malapena il tempo di allenarsi nelle arti marziali, figurarsi se ne avevano per giocare a fare le
ballerine con i loro preziosi glutei e coi tendini del ginocchio.
John bloccò la porta con una sedia di plastica e si voltò verso Xhex. Lei girava per la stanza, il suo corpo agile e snello
e l'andatura felina erano meglio di un intero spettacolo di spogliarello, almeno per lui.
John allungò il braccio di lato e spense le luci.
Sopra la porta, l'insegna luminosa rossa e bianca dell'uscita creava una pozza di luce fioca divisa in due dal corpo di
John, la sua ombra alta e scura uno spartiacque che si allungava sul pavimento fino ai piedi di Xhex.
«Dio, quanto ti voglio», disse lei.
Non dovette ripeterlo due volte. Scalciando via le Nike, John si sfilò la maglietta e la lasciò cadere sui materassini.
Poi infilò i pollici nell'elastico dei calzoncini e li abbassò sulle cosce, liberando il pene che si erse con prepotenza. Il
fatto che puntasse verso di lei come una bacchetta da rabdomante non fu un grossa sorpresa... tutto in lui, dal cervello
al sangue, al cuore che batteva all'impazzata, era focalizzato sulla femmina ritta a non più di tre metri di distanza.
Ma non aveva intenzione di saltarle addosso dandoci dentro come un martello pneumatico. No. Anche se aveva già le
palle del colore dei Puffi.
I suoi pensieri smisero di seguire la logica quando Xhex prese il bordo della felpa e, con mossa elegante, la alzò sul
busto, sfilandola dalla testa. Sotto non aveva niente, a parte la bellissima pelle liscia e i seni alti e sodi.
Mentre il suo odore lo investiva con forza, facendolo ansimare, le agili dita di lei andarono alla coulisse dei calzoni
da chirurgo e la sciolsero; con un fruscio, il leggero cotone verde scivolò giù, intorno alle caviglie.
Oh... dio benedetto, adesso era di fronte a lui nello splendore della sua nudità, e le linee del suo corpo erano
stupefacenti: avevano già fatto sesso, ma tutte e due le volte in fretta e furia, travolti dalla passione, perciò non aveva
mai avuto il tempo di guardarla bene...
John batté convulsamente le palpebre.
Per un attimo vide solo i lividi che la deturpavano quando l'aveva trovata, specie quelli all'interno delle cosce. Ora
sapeva che non erano dovuti solo a scontri corpo a corpo...
«Non pensarci, John», disse lei con voce roca. «Io non lo faccio e non dovresti farlo neanche tu. Non... pensarci e
basta. Lui ci ha già portato via anche troppo.»
La gola gli si serrò intorno a un grido di vendetta, che riuscì a soffocare solo perché sapeva che Xhex aveva ragione.
Con un supremo sforzo di volontà, decise che la porta alle sue spalle, quella che aveva bloccato con la sedia, avrebbe
tenuto fuori non solo eventuali passanti della categoria esseri viventi, ma anche i fantasmi dei torti subiti.
Dopo quel momento di intimità avrebbe trovato il tempo di pareggiare i conti.
Sei bellissima, sillabò.
Ma naturalmente lei non poteva vedere le sue labbra.
Allora doveva mostrarglielo.
John fece un passo avanti, poi un altro e un altro ancora. Non fu il solo ad avanzare. Lei gli andò incontro a metà
strada tra il punto A e il punto B; la sua sagoma, incorniciata nell'ombra proiettata dal corpo di lui, era l'unica cosa
che John vedeva.
Quando si fermarono uno di fronte all'altra, il petto di lui pompava con forza come il suo cuore. Ti amo, sillabò nella
lama d'ombra che aveva ritagliato nella luce.
Allungarono le mani nello stesso istante: lui le toccò il viso, lei gli mise le mani sulle costole. Le loro bocche finirono
il viaggio nell'aria immobile, carica di elettricità, le labbra si fusero in un bacio dolcissimo e caldo. Attirandola contro
il petto nudo, John le cinse le spalle con le braccia muscolose, tenendola stretta, baciandola con trasporto sempre
maggiore... e lei lo assecondò, facendogli scorrere i palmi intorno alla vita e poi giù, alla base della schiena.
II pene si piegò in mezzo a loro, la frizione dell'addome contro quello di lei gli inviava vampate di calore su e giù per
la spina dorsale. Ma lui non aveva fretta. Muoveva pigramente i fianchi avanti e indietro, strusciando l'erezione
contro di lei, facendo scivolare le mani sulle sue braccia e sui fianchi.
Affondandole la lingua in bocca, alzò una mano sui corti capelli alla base del collo e lasciò ricadere l'altra dietro la
sua coscia. Sentendosi tirare con delicatezza, lei sollevò la gamba, flettendo i muscoli...
Con un agile saltello accelerò i tempi, alzando anche l'altra gamba e cingendogli la vita. Quando il membro colpì
qualcosa di caldo e bagnato, strappandogli un gemito, John si abbassò sul pavimento tenendola stretta, affondando
con lei sui materassini e facendola allungare sotto di sé.
Staccò le labbra dalle sue e si scostò quel tanto che bastava per far scorrere la lingua sulla sua gola. Succhiò i tendini
del collo, seguendoli finché le zanne, che palpitavano al ritmo dell'erezione, scivolarono sopra la clavicola. Mentre
lui scendeva verso il basso, lei, con le dita affondate tra i suoi capelli, lo teneva giù, a contatto della pelle, guidandolo
verso i seni.
John si ritrasse, torreggiando sopra di lei, facendo scorrere gli occhi sul profilo del suo corpo stagliato contro la luce
della scritta USCITA. I capezzoli erano turgidi, le costole pompavano come mantici e gli addominali scolpiti si
flettevano mentre lei dimenava i fianchi. Tra le cosce, il sesso liscio gli strappò un sibilo muto...
Senza preavviso, lei mise la mano sul pene.
A quel contatto, lui si sbilanciò all'indietro, tanto che dovette allargare le braccia e appoggiarsi sulle mani.
«Dio, quanto sei bello», gemette Xhex.
La sua voce lo spinse ad agire; spostandosi in avanti, liberò il pene dalla sua stretta e si inginocchiò in mezzo alle sue
cosce. Chinò la testa e chiuse le labbra intorno a un capezzolo, titillandolo con la lingua.
Il mugolio di piacere che le sfuggì, quasi lo fece venire sopra di lei; fu costretto a restare immobile per ritrovare il
controllo. Quando la marea dell'eccitazione si ritrasse a sufficienza, ricominciò a succhiarla... facendo scorrere adagio
le mani su torace, vita e fianchi.
Fu lei a guidarlo verso il proprio sesso, in un gesto che la diceva lunga sul suo carattere.
Mise una mano sulla sua e lo portò nel punto preciso in cui entrambi volevano che andasse.
Rovente. Vellutato. Viscido.
L'orgasmo che già premeva nella sua erezione esplose non appena fece scivolare le dita dentro di lei, fermandosi
sulla soglia che moriva dalla voglia di varcare: assolutamente impossibile trattenersi; lei rise di gusto nel sentire sulle
gambe il seme con cui la marchiava.
«Ti piace toccarmi», mormorò.
Lui la guardò negli occhi e, invece di annuire, si portò alle labbra la mano che lei aveva guidato verso la vulva. Nel
vederlo tirare fuori la lingua per leccare le dita coperte dei suoi umori, lei rabbrividì con violenza, inarcandosi sui
materassini, protendendo i seni verso l'alto e spalancando ancora di più le cosce.
Con le palpebre socchiuse e gli occhi fissi nei suoi, lui piantò i palmi ai due lati dei suoi fianchi e si chinò sul suo
sesso.
Forse avrebbe potuto riempirla di baci impalpabili. Forse avrebbe potuto mostrare maggior finezza, stuzzicandola
con la lingua e la punta delle dita.
'Fanculo.
Animato da una smania selvaggia, incontrollabile, si attaccò alla vulva risucchiandola con forza, a fondo,
inghiottendola quasi. L'orgasmo l'aveva inondata di sperma, così, insieme al suo miele assaporò anche quello... e il
vampiro innamorato in lui rimase estasiato da quella combinazione.
Una fortuna, per lui, perché alla fine il suo odore penetrante e speziato l'avrebbe avvolta tutta, dentro e fuori.
Leccando, titillando e penetrando, si accorse vagamente che lei gli aveva buttato una gamba sopra la spalla e si
strusciava contro il suo mento, le labbra e la bocca, aumentando ancora di più la magia del momento, spingendolo a
eccitarla ancora di più.
Xhex venne gridando il suo nome. Due volte.
E lui fu lieto che, pur non avendo voce, le sue orecchie funzionassero a meraviglia.
Capitolo 45
Gesù Cristo, John sapeva il fatto suo. Questo fu l'unico pensiero che le attraversò la mente quando ridiscese sulla
terra, dopo essersi librata in volo grazie all'estasi che le aveva procurato con la bocca. Poi subito venne sospinta di
nuovo verso l'alto. L'odore del desiderio di John le invadeva prepotente le narici, le sue labbra erano deliziosamente
infuocate sulla vulva e la sua erezione, lunga e rovente sulle gambe, la stuzzicava in modo irresistibile...
Lui allungò la lingua penetrandola fino in fondo, facendola impazzire di nuovo. La vampa bagnata con cui la
pervadeva, le carezze, morbide quando venivano dalla sua bocca e ruvide quando venivano dal mento, i cerchi
tracciati dal suo naso contro la sommità della vulva, tutto ciò le fece volare via il coperchio del cervello... una perdita
che fu ben lieta di godere.
Nel mezzo di quel fuoco non c'era nient'altro che John... niente più passato, niente futuro, nient'altro che i loro corpi.
Il tempo ormai era privo di significato, il luogo privo di importanza e le altre persone prive di interesse.
Avrebbe voluto poter restare così, con lui, per sempre.
«Vieni dentro di me», gemette, tirandolo per le spalle.
John alzò la testa, scivolando verso l'alto sopra il suo corpo, l'erezione che premeva delicatamente contro l'interno
delle cosce, sempre più vicina.
Lei lo baciò con trasporto, sfregando la bocca sulla sua, spingendo la mano verso il basso, in mezzo a loro,
guidandolo dove smaniava di sentirlo...
Il corpo imponente di lui si contorse a quel contatto. «Oh, Dio...» sibilò lei.
La punta smussata del pene schiuse la vulva e scivolò dentro
adagio, riempiendola, allargandola. Lei si inarcò per permettergli di entrare completamente e fece scorrere le mani
sulla sua schiena liscia, fino in fondo alla spina dorsale... e ancora più giù, per poter affondare le unghie nelle
natiche.
Sentì i suoi muscoli contrarsi e poi rilassarsi sotto le dita, mentre cominciava a pompare; agitava la testa a destra e a
sinistra sul materassino, mentre lui si spingeva dentro e fuori, dentro e fuori. Era pesante come un'auto sopra di lei, e
il suo corpo era pieno di spigoli... ma, neanche a dirlo, le andava benissimo così: aveva abbastanza curve per
ammortizzarli, quando lui aveva bisogno di spazio, ed era così prossima a venire un'altra volta che i polmoni le
bruciavano comunque per mancanza d'aria.
Incrociando le caviglie dietro le sue cosce, si mosse all'unisono con lui finché i loro corpi sbatterono schioccando
l'uno contro l'altro e i respiri esplosero, poi John sollevò il torso puntando i pugni nel materassino ai due lati del
busto di lei, reggendosi sui muscoli scolpiti delle braccia... per poter pompare più forte.
Il suo volto era una maschera erotica dei lineamenti che tanto spesso lei aveva visto, le labbra ritratte sulle lunghe
zanne bianche, le sopracciglia aggrottate, gli occhi infuocati, la mascella contratta al punto da scavargli le guance. A
ogni spinta, pettorali e addominali si gonfiavano, il sudore sulla pelle luccicava nella penombra. Quella vista fu il
cicchetto finale di quella sbronza fisica, il colpo di grazia che, subito dopo la bomba esplosa dentro di lei, la mise
definitivamente KO.
«Attaccati alla mia vena», gemette. «Fallo... subito.»
Mentre lei rimbalzava dentro un altro orgasmo, John si allungò di slancio verso la sua gola, affondandole le zanne
nel collo e venendo dentro di lei.
Una volta partito non riuscì più a fermarsi, né lei voleva che lo facesse. Continuò a muoversi, a succhiare e a eiaculare
dentro di lei in ondate successive, saturando il suo sesso mentre si nutriva e la possedeva, impetuoso e scatenato.
Ma era quello che lei voleva.
Alla fine, più che fermarsi, crollò sopra di lei. Facendo scorrere le mani sulle sue spalle, Xhex lo tenne stretto mentre
lui leccava pigramente i segni del morso.
A volte per pulire bene qualcosa occorre investirla con un getto di sabbia, passare delicatamente una spugna o uno
straccio non basta a eliminare tutta la sporcizia e il sudiciume. Quello che avevano appena fatto era ben più che una
sabbiatura... ma, a giudicare da come lui era ancora duro, Xhex capì che altro doveva ancora venire.
Alla lettera.
John alzò la testa e la guardò. Aveva uno sguardo preoccupato e le accarezzò i capelli con cautela.
Lei sorrise. «Naa, sto bene. Sto più che bene.»
Un sorriso sornione spuntò sul bel viso di lui. Puoi dirlo forte, sillabò.
«Ehi, calma, bello. Credi di farmi arrossire come una ragazzina grazie alla tua parlantina sciolta?» Lui annuì e lei alzò
gli occhi al cielo. «Tanto perché tu lo sappia, non sono il tipo di femmina in tacchi a spillo che va in delirio solo per
un bacio appassionato.»
John inarcò un sopracciglio, tutto macho al mille per mille. E che fosse dannata se non sentì un formicolio alle
guance.
«Ascoltami bene, John Matthew», disse, prendendolo per il mento. «Non mi trasformerai in una di quelle squinzie
che perdono la testa per il loro amante. Non esiste proprio. Non è nel mio DNA.»
Diceva sul serio... ma appena lui dimenò i fianchi spingendole dentro quell'erezione enorme, lei fece le fusa.
Fece le fusa.
Quel verso le era totalmente estraneo, e se lo sarebbe rimangiato se solo avesse potuto. Invece emise un altro di quei
mugolìi decisamente non da dura.
John chinò la testa sul suo seno e cominciò a succhiare, continuando, chissà come, a pompare con spinte lente e
regolari.
Travolta dal piacere, Xhex gli affondò di nuovo le mani tra i capelli, facendo scorrere le dita tra quelle onde morbide.
«Oh, John...»
A un tratto lui si immobilizzò di colpo, staccò le labbra dal capezzolo e fece un sorriso così largo che fu un miracolo
se non gli saltarono via i denti davanti, come a dire beccata!
«Sei un bastardo», esclamò lei, ridendo.
John annuì, penetrandola un'altra volta fino in fondo.
La stava punzecchiando, le stava dando una piccola dimostrazione di chi era il capo. Era perfetto, proprio perfetto. In
qualche modo la induceva a rispettarlo ancora di più... d'altronde, la forza le era sempre piaciuta, in tutte le sue
forme, compresa quella canzonatrice e provocatoria.
«Non ho intenzione di arrendermi, sai.»
Lui increspò le labbra scuotendo la testa, come a dire, oh, no, certo che no.
Poi cominciò a sfilarsi da lei. Con un gemito gutturale, Xhex gli affondò le unghie nelle natiche. «Dove credi di
andare?»
John rise in silenzio, spalancò le cosce e scivolò verso il basso, fino a ritrovarsi nel punto da cui aveva iniziato a
lavorarsela... con la bocca sopra il suo sesso.
Il suo nome riecheggiò forte nella stanza, rimbalzando contro le pareti piastrellate, mentre ricominciava a darle
esattamente ciò che lei voleva e di cui aveva bisogno.
Ignorare deliberatamente i gemiti e i mugolìi del sesso era un talento in cui Blay stava facendo anche troppa pratica.
Uscendo dalla sala pesi, udì riecheggiare il nome di John attraverso la porta chiusa della sala per la fisioterapia. Dato
il tono e il volume, era chiaro che la causa non era una fitta conversazione.
A meno che Xhex non fosse una meteorologa dilettante e John le stesse facendo delle memorabili previsioni del
tempo.
Buon per loro. Considerato quanto John si era accanito su quei tapis roulant, era una benedizione.
Blay si concesse un secondo per valutare se tornare a casa e decise che, visto che Qhuinn poteva andare avanti
all'infinito, era troppo presto per rientrare in camera sua. S'infilò nello spogliatoio, fece una doccia veloce e prese in
prestito un paio di pantaloni da chirurgo dalla collezione di Vishous. Di nuovo in corridoio, si avviò di buon passo
verso l'ufficio e chiuse bene la porta.
Rapido test dell'udito: non si sentiva volare una mosca; proprio quello che cercava. Purtroppo un'occhiata all'orologio
gli disse che in totale aveva sprecato solo un'oretta e mezzo. E dire che aveva sempre pensato che una bella doccia
fosse una cosa meravigliosa.
Considerate le alternative a sua disposizione, decise di sedersi alla scrivania. Del resto, fare di tutto per non ascoltare
Xhex e John era una questione di decoro. Azzerare il volume di Qhuinn e Layla? Istinto di conservazione.
Molto meglio la prima che la seconda.
Parcheggiando le chiappe nella poltroncina girevole, guardò il telefono.
Saxton baciava alla grande. A-L-LA G-R-A-N-D-E.
Blay chiuse brevemente gli occhi, pervaso da una vampata di calore, neanche gli avessero acceso un falò nello
stomaco.
Allungò la mano verso la cornetta... e la lasciò sospesa a mezz'aria, senza alzarla. Non riusciva a decidersi.
Poi gli tornò in mente Layla, che usciva con tutta calma dal suo bagno per andare da Qhuinn.
Afferrò il ricevitore e fece il numero di Saxton; mentre il telefono squillava, si chiese cosa diavolo gli era saltato in
mente.
«... Pronto...»
Blay si accigliò, raddrizzandosi sulla sedia dell'ufficio. «Cos'hai?» Lunga pausa. «Saxton?»
Sentì un colpo di tosse e un sibilo. «Sì, sono io...»
«Saxton, cosa cavolo succede?»
Seguì un silenzio terribile. «Sai, mi è piaciuto da matti baciarti.» La voce strozzata si tinse di malinconia. «E mi è
piaciuto da matti»
altro colpo di tosse - «uscire con te. Potrei stare a guardarti per un'eternità.»
«Dove sei?» «A casa.»
Blay guardò di nuovo l'orologio. «E dove sarebbe?»
«Vuoi fare l'eroe?»
«È necessario?»
Questa volta la tosse durò molto più a lungo. «Temo... di... dover andare.»
Ci fu un clic e la chiamata venne interrotta.
Con tutti i suoi istinti in allarme, Blay attraversò d'un balzo l'armadio che immetteva nel tunnel sotterraneo e si
smaterializzò oltre i gradini che portavano alla grande casa della confraternita.
Riprese forma davanti a un'altra porta, a un centinaio di metri di distanza.
All'ingresso della Tana, accostò la faccia all'occhio della telecamera e suonò il citofono. «V? Ho bisogno di te.»
Nell'attesa, pregò la Vergine Scriba che Vishous fosse...
Il robusto pannèllo si spalancò di scatto e sulla soglia comparve V, coi capelli bagnati e un asciugamano nero in vita.
In sottofondo si sentiva Empire State of Mind, di Jay-Z, e nell'aria aleggiava l'aroma di finissimo tabacco turco.
«Cosa c'è?»
«Devi trovarmi un indirizzo.»
V socchiuse i gelidi occhi d'argento facendo muovere il tatuaggio sulla tempia sinistra. «Che indirizzo stai cercando?»
«Quello di un civile, a partire dal suo numero di cellulare.» Blay snocciolò le cifre che aveva appena digitato.
V alzò gli occhi al cielo e lo fece entrare. «Un giochetto da ragazzi.»
E così fu. Premette un paio di tasti dei suoi quattro giocattolini e alzò gli occhi dai computer. «Sienna Court,
duemilacentocinque... Dove cavolo stai andando?»
Blay rispose da sopra la spalla, già oltre i divani di cuoio e il televisore maxischermo. «Fuori.»
V si smaterializzò bloccando l'uscita. «Il sole sorgerà tra venticinque minuti.»
«Allora non farmi perdere neanche un secondo.» Blay guardò negli occhi il fratello. «Lasciami andare.»
Era una richiesta non negoziabile; la sua ferma determinazione doveva trasparire dal suo volto, perché V imprecò
sottovoce. «Fai alla svelta, altrimenti non riuscirai a tornare.»
Appena il fratello aprì la porta, Blay sparì nel nulla... e riprese forma in Sienna Court, una strada alberata con edifici
vittoriani di diversi colori. Poi, in un baleno, comparve davanti al 2105; il numero civico, verde scuro con finiture in
grigio e nero, era dipinto su una targa di legno in perfetto stato. La vistosa veranda anteriore e la porta laterale erano
illuminate da lanterne, ma dentro era tutto buio.
Logico. I vetri riflettevano come specchi, quindi all'interno dovevano esserci delle imposte chiuse.
Impossibile entrare da quella parte.
Senza molte alternative a sua disposizione, visto che le imposte alle finestre erano sicuramente rinforzate con lastre
d'acciaio, andò alla porta d'ingresso e suonò il campanello.
La debole luce del sole che già arrivava da est gli scaldava la schiena, anche se i raggi riuscivano a stento a proiettare
ombre. Accidenti, dov'era la telecamera? Ammesso che V avesse beccato l'indirizzo giusto - e V non sbagliava mai doveva esserci un sistema di monitoraggio a circuito chiuso...
Ah, sì, ecco, negli occhi del batacchio a forma di leone.
Sporgendosi in avanti, guardò fisso il muso di ottone bussando energicamente coi pugni chiusi.
«Fammi entrare, Saxton.» Le spalle e la spina dorsale scottavano sempre più; allungando una mano dietro la schiena,
Blay rimboccò la casacca del camice da chirurgo.
Sentendo scattare la serratura e vedendo la maniglia che ruotava, si passò in fretta una mano tra i capelli umidi.
La porta si aprì solo di uno spiraglio; al di là, la casa era avvolta nelle tenebre. «Che cosa ci fai» - colpo di tosse «qui?»
Fiutando l'odore del sangue, Blay si sentì raggelare.
Con una spallata contro i pesanti pannelli di legno si spinse all'interno. «Cosa diavolo...»
La voce di Saxton arretrò. «Vai a casa, Blaylock. Per quanto ti adori, non sono in condizione di riceverti, al momento.»
E chissenefrega, pensò Blay che, spostandosi rapido, chiuse il sole fuori dalla porta.
«Cosa è successo?» Anche se già lo sapeva. D'istinto lo sapeva. «Chi ti ha picchiato?»
«Stavo per farmi una doccia. Ti va di farmi compagnia?» Blay deglutì a fatica e Saxton ridacchiò. «E va bene. La
doccia la faccio da solo e tu ti bevi un caffè. Perché pare proprio che sarai mio ospite per il resto della giornata.»
Ci fu lo scatto della serratura e poi Saxton si allontanò strascicando i piedi... il che lasciava intuire che forse
zoppicava.
Anche se era impossibile vedere Saxton in quel buio pesto, il rumore dei suoi passi si dirigeva a destra. Blay esitò.
Non aveva senso controllare ancora l'orologio. Sapeva che ormai la possibilità di rincasare in tempo era sfumata.
Doveva proprio restare lì per tutto il giorno.
Saxton fece strada verso un sotterraneo, scendendo dei gradini male illuminati. Nella penombra, sui suoi bei capelli
biondi, Blay scorse una macchia scura color ruggine.
«Chi ti ha conciato così?» chiese, avanzando deciso e afferrandolo per il braccio.
Saxton si rifiutò di guardarlo, ma la violenza con cui rabbrividì confermò ciò che la voce aveva già tradito: era stanco
e dolorante. «Diciamo... che per un bel po' dovrò fare a meno dei sigari.»
Il vicolo accanto al locale per fumatori... merda, Blay aveva levato le tende per primo, ma era convinto che Saxton
avesse fatto altrettanto. «Cos'è successo dopo che me ne sono andato?»
«Non ha importanza.»
«Col cavolo che non ce l'ha.»
«Sii gentile, lasciami» - ancora quella maledetta tosse - «tornare a letto. Specie se stai per arrabbiarti. Non mi sento
particolarmente bene.»
Così dicendo, si voltò a guardarlo da sopra la spalla.
Blay non riuscì a trattenere un'esclamazione inorridita.
«Oh... mio Dio», sussurrò.
Capitolo 46
Il sole stava per squarciare il velo dei boschi allorché Darius e
Tohrment presero forma davanti a un piccolo cottage col tetto di
paglia, a parecchie miglia di distanza dal luogo del ratto, dalla magione con esso confinante... e dall'essere dalle
sembianze di rettile che li aveva accolti in quell'umido corridoio sotterraneo.
«Siete sicuro?» chiese Tohrment, spostando la bisaccia sull'altra spalla.
Al momento Darius non era sicuro di niente. In verità, era sorpreso che lui e il ragazzo fossero usciti dalla casa di quel
symphath senza colpo ferire; eppure erano stati accompagnati fuori con tutti i riguardi dovuti a due ospiti regolarmente
invitati.
D'altro canto, i divoratori di peccati non perdono mai di vista il proprio interesse, e Darius e Tohrment erano di gran
lunga più utili da vivi che da morti al padrone di quella casa.
«Siete sicuro?» lo incalzò Tohrment. «Esitate a entrare.»
«La mia esitazione non ha nulla a che vedere con te, ahimè.» Darius avanzò, imboccando il sentiero battuto che
conduceva alla porta d'ingresso, un sentiero creato dal ripetuto passaggio dei suoi stessi stivali. «Non ti farò dormire
sul gelido pavimento di pietra della Tomba. La mia casa è povera, ma ha un tetto e muri bastanti a offrire riparo non a
una, ma a due persone.»
Per un fugace istante, Darius fantasticò di vivere ancora come un tempo, in un castello pieno di stanze, doggen e
suppellettili raffinate, in un sontuoso maniero dove poteva spalancare le porte a familiari e amici, dove poteva ospitare
al sicuro e con le cure migliori tutti i suoi cari.
Forse un giorno avrebbe trovato il modo di riavere tutto ciò.
Quantunque, essendo sprovvisto di familiari e amici, difficilmente era un obiettivo perseguibile con celerità.
Fece scorrere il chiavistello di ghisa e spinse col busto la porta di quercia - la quale, considerate dimensioni e peso, era
più un muro mobile. Una volta entrato insieme a Tohr, accese il lume a petrolio appeso accanto all'ingresso e chiuse la
porta, poggiandovi contro una trave grossa come il tronco di un albero.
La casa era assai modesta: un'unica sedia davanti al focolare e un pagliericcio all'altro capo della stanza. E sottoterra
non c'era molto altro, solo alcune preziose provviste e una galleria segreta che sbucava nel folto della foresta.
«Vogliamo desinare?» suggerì Darius, disponendosi a deporre le armi.
«Sì, signore.»
Il ragazzo depose a sua volta le armi e andò al camino, dove, accovacciatosi, accese la torba, sempre pronta quando il
fuoco era spento. Con la stanza già odorosa di muschio fumante, Darius sollevò una botola nel pavimento di terra
battuta e scese nel sotterraneo dove custodiva vivande e birra, oltre alle sue pergamene. Tornò recando formaggi,
pagnotte e selvaggina affumicata.
Le fiamme del focolare rischiaravano il viso di Tohr, che, scaldandosi le mani, chiese, «Come giudicate l'accaduto?»
Darius raggiunse il giovane e divise il poco che aveva da offrire con l'unico ospite che avesse mai messo piede in casa
sua. «Il destino ci fa trovare strani alleati, tale è sempre stato il mio convincimento. Tuttavia, il pensiero che i nostri
interessi possano coincidere con quelli di uno di quegli... esseri... mi ripugna. D'altro canto, anch'egli mi è apparso
sorpreso e sgomento. Quei divoratori di peccati invero non ci tengono in gran conto, non più di quanto noi facciamo con
loro. Non siamo che ratti ai loro occhi.»
Tohrment bevve un sorso dalla fiasca di birra. «Non sia mai che debba mischiare il mio sangue con il loro... mi
disgustano. Tutti quanti.»
«Ed egli prova la medesima repulsione verso di noi. Che suo figlio abbia ghermito la fanciulla e l'abbia trattenuta anche
solo per un giorno entro le mura della sua dimora lo ha disgustato. È desideroso quanto noi di trovarli entrambi per
ricondurli in seno alla famiglia.»
«Ma perché servirsi di noi?»
Darius sorrise, gelido. «Per punire suo figlio. È la perfetta azione correttiva... far sì che la gente cui la fanciulla
appartiene gli strappi il suo "amore", lasciandolo col fardello della sua assenza, oltre che con la coscienza di essere
stato battuto da esseri inferiori. E se la ri portiamo a casa sana e salva? La sua famiglia si trasferirà altrove,
portandola via con sé, e mai più consentirà che le accada nulla di male. Ella vivrà a lungo sulla terra e il rampollo di
quel divoratore di peccati dovrà saperlo, un giorno dopo l'altro, finché avrà vita. Agire in tal modo è nella loro natura...
e senza di te o senza di me il padre non potrebbe mettere in atto siffatto supplizio dell'anima. Ecco dunque il motivo che
lo ha indotto a svelarci dove andare e cosa avremmo trovato.»
Tohrment scosse la testa, quasi non comprendesse il modo di ragionare dell'altra razza. «Ella sarà rovinata agli occhi
della sua stirpe. La glymera li sfuggirà tutti come appestati...»
«No, non accadrà.» Darius alzò la mano per interromperlo. «Poiché non lo saprà mai. Nessuno lo saprà. Tale segreto
dovrà restare tra me e te. Il divoratore di peccati, in verità, non ha motivo di rivelarlo poiché i suoi simili sfuggirebbero
lui e la sua famiglia... in tal modo la fanciulla sarà protetta dai nefasti effetti della sua sventura.»
«Ma come riusciremo a trarre in inganno Sampsone?»
Darius si portò alle labbra la fiasca e bevve un sorso di birra. «Domani, al calar delle tenebre, ci dirigeremo verso nord
come ha suggerito il divoratore di peccati. Troveremo la fanciulla e la ricondurremo a casa dai suoi genitori, dicendo
loro che reo del misfatto è un umano.»
«E se lei parla?»
Darius aveva considerato quell'eventualità. «Sospetto che, in quanto figlia della glymera, ella sappia bene quanto
rischia di perdere. Il silenzio proteggerà non solo lei, ma anche la sua famiglia.»
Sempre che la fanciulla fosse ancora sana di mente al momento della liberazione. Ma poteva aver perso il bene
dell'intelletto. Che la Vergine Scriba soccorresse l'animo tormentato della poveretta.
«Potrebbe essere un'imboscata», mormorò Tohrment.
«Forse, ma non lo credo. Inoltre non temo un conflitto.» Darius alzò gli occhi sul suo pupillo. «Il peggio che possa
accadere è che io muoia nel tentativo di salvare un'innocente... ed è di gran lunga il modo migliore di andarsene. Se
invece è una trappola, sulla via del Fado ucciderò una moltitudine di nemici, puoi starne certo.»
Il volto di Tohrment s'illuminò di rispetto e reverenza, e Darius ne fu rattristato. Se al posto di un brutale beone avesse
avuto un vero padre, il ragazzo non avrebbe riposto siffatta fiducia in chi conosceva appena.
Né avrebbe dovuto riparare in una dimora tanto modesta.
Darius non ebbe il cuore di farlo notare al suo ospite, tuttavia. «Un altro po' di formaggio?»
«Sì, grazie.»
Al termine del pasto, Darius posò lo sguardo sui pugnali neri appesi dentro i foderi che d'abitudine portava legati al
petto. Aveva lo strano sentore che anche Tohrment nel volgere di breve tempo ne avrebbe ricevuto un paio... il ragazzo
era sagace, volenteroso e dotato di un ottimo istinto.
Darius non lo aveva ancora visto combattere, certo, ma presto o tardi sarebbe accaduto. In quella guerra, accadeva
sempre.
Tohrment aggrottò la fronte alla luce del focolare. «Quanti anni hanno detto che ha la fanciulla?»
Darius si pulì la bocca con una pezzuola e sentì la nuca irrigidirsi. «Non lo so.»
Entrambi si chiusero nel silenzio e Darius intuì che anche Tohrment era stato assalito dal medesimo cruccio.
La sorte poteva avere in serbo un'altra tragica complicazione di cui non avevano alcun bisogno.
Imboscata o meno, si sarebbero diretti a nord fino alla zona costiera verso cui li aveva indirizzati il symphath. Una
volta lì, a un miglio dal piccolo villaggio, sulle scogliere avrebbero trovato il riparo descritto dal divoratore di peccati...
soltanto allora avrebbero scoperto se erano caduti in un tranello.
O se invece erano stati usati per conseguire un intento che li affratellava a quel rettile segaligno.
Darius non era preoccupato, tuttavia. I divoratori di peccati, ancorché infidi, sono schiavi del loro tornaconto... e
vendicativi a scapito finanche della loro stessa prole.
Era uno di quei casi in cui la natura prevale sul carattere: se il secondo ne faceva degli esseri pericolosi, la prima li
rendeva oltremodo prevedibili.
Lui e Tohrment avrebbero trovato quanto cercavano su al nord, in riva al mare. Ne era convinto.
Il dilemma era in quali condizioni sarebbe stata la poveretta...
Capitolo 47
Quando John e Xhex alla fine riemersero dal loro piccolo momento di intimità, la loro prima tappa fu la doccia nello
spogliatoio. E poiché mangiare era fondamentale dopo tutto quell'esercizio, si alternarono e la prima a lavarsi fu
Xhex.
Buffo, pensò John aspettando il proprio turno in corridoio... avrebbe dovuto essere esausto. Invece si sentiva
rinvigorito, vivo, vibrante di potenza. Non si era mai sentito tanto forte.
Xhex uscì dallo spogliatoio. «Tocca a te.»
Cavolo, era sexy da morire coi capelli corti che si arricciavano asciugandosi all'aria, il corpo avvolto nel camice da
chirurgo, le labbra rosse. Sprazzi di quello che avevano appena fatto insieme lo mandarono su di giri e si ritrovò a
camminare a ritroso verso le docce solo per non staccarle gli occhi di dosso.
E, neanche a dirlo, quando Xhex gli sorrise, il suo cuore si spezzò in due: dolcezza e affabilità la rendevano ancora
più incantevole.
Era la sua femmina. Per sempre.
La porta si chiuse tra loro e, sentendo lo scatto della serratura, John cadde in preda al panico, come se Xhex non fosse
solo sparita dalla sua visuale, ma scomparsa del tutto. Che era una follia. Soffocando la paranoia, fece una doccia
veloce e s'infilò un camice da chirurgo, ignorando di proposito quanto stava correndo.
Quando uscì dallo spogliatoio, Xhex era ancora lì; aveva in inente di prenderla per mano e avviarsi verso casa, ma finì
per abbracciarla forte.
Tutti i mortali sono destinati a perdere i loro cari. È la vita. Ma quasi sempre questo dato di fatto è così lontano nella
nostra mente, da essere un'ipotesi e niente di più, una remota eventualità. Ci sono cose che ce lo rammentano, però, e
i "quasi", i "per
un pelo", gli "oh Dio ti prego no", danno uno strattone alla catena a cui siamo attaccati, costringendoci a fermarci ad
ascoltare quello che abbiamo nel cuore. Come quando un brutto mal di testa è solo un'emicrania, o quando un
incidente stradale distrugge completamente la station wagon, ma i seggiolini e gli air bag salvano la vita a tutti i
passeggeri, o quando qualcuno che credevamo perduto per sempre torna all'ovile... queste esperienze ci scuotono nel
profondo e ci fanno venir voglia di aggrapparci al nostro compagno, o alla nostra compagna, per ritrovare
l'equilibrio.
Dio, non si era mai soffermato su quel pensiero prima, ma dal primo battito del cuore in un corpo vitale, una
campana comincia a suonare a morto e l'orologio inizia a correre. Scatta un accordo, che non ci eravamo neanche resi
conto di aver concluso, col destino che ha in mano tutte le carte. Via via che scorrono i minuti, le ore, i giorni, i mesi e
gli anni, la storia viene scritta mentre il nostro tempo si esaurisce, finché l'ultimo respiro segna la fine della corsa e il
momento di calcolare vincite e perdite.
Strano come la consapevolezza della propria mortalità rendesse infiniti momenti come quello con Xhex.
Stringendola a sé, riscaldato ancor più dal suo calore, John ringiovanì fino al midollo, i piatti della sua bilancia
tornarono in equilibrio e il suo bilancio esistenziale tornò decisamente in attivo, per la serie: "la vita vale la pena di
essere vissuta".
Furono separati dalle proteste del suo stomaco.
«Andiamo», fece Xhex, «dobbiamo sfamare la tua bestia.»
Lui annuì, la prese per mano e s'incamminò.
«Devi insegnarmi la lingua dei segni», disse lei quando entrarono in ufficio e aprirono l'armadio con la cancelleria.
«Subito, direi.»
John annuì di nuovo; dentro quello spazio ristretto, Xhex chiuse la porta. Hmm... un'altra occasione di intimità. Porta
chiusa... vestiti comodi...
Il porco in lui valutò lo spazio di manovra a loro disposizione, l'uccello che tirava dentro i calzoni. Se Xhex gli
metteva le gambe intorno alla vita, potevano starci senza problemiLei gli andò vicino e mise la mano sull'erezione, dietro il cotone leggero che gli copriva l'inguine. Alzandosi in punta
di piedi, gli sfregò le labbra sul collo, graffiandogli con una zanna la pelle sopra la giugulare.
«Se andiamo avanti così non arriveremo mai a un letto.» Accarezzandolo, abbassò ancora di più la voce. «Dio, come
sei grosso... Ti ho detto fin dove arrivi dentro di me? Fino in fondo. E bellissimo.»
John cadde all'indietro contro una pila di blocchi di fogli gialli a righe, facendoli scivolare giù dallo scaffale. Cercò
affannosamente di afferrarli prima che toccassero terra, ma lei lo fermò, tirandolo di nuovo su.
«Resta dove sei», disse, mettendosi in ginocchio. «Questa vista mi piace troppo.»
Cominciò a raccogliere quello che era volato sul pavimento, con gli occhi fissi sulla sua erezione... che, naturalmente,
tentò di liberarsi, premendo con forza contro quello che la sottraeva al suo sguardo, alla sua bocca, al suo sesso.
John si aggrappò al bordo di una delle mensole, ansimante, guardando Xhex che lo fissava.
«Credo di aver raccolto tutti i blocchi», disse lei dopo un po'. «Meglio rimetterli a posto.»
Si appoggiò alle gambe di John e lentamente si tirò su, strusciando la faccia contro le sue ginocchia, contro le cosce...
E poi dritta contro il suo uccello, facendo scorrere le labbra sotto di esso. John abbandonò la testa all'indietro, contro
la scaffalatura, mentre lei continuava la sua ascesa, così subito dopo furono i seni ad accarezzarlo in quel punto
elettrico.
Xhex pose fine a quella tortura facendo scivolare al loro posto i blocchi... e strusciando l'inguine contro il suo.
«Mangiamo in fretta», gli bisbigliò all'orecchio.
Giustissimo, cazzo.
Xhex si staccò da lui mordicchiandogli il lobo dell'orecchio, ma John rimase feeeeeermo dov'era: se aggiungeva il
minimo accenno di frizione dei calzoni a quella sex-quazione, rischiava di venire.
Cosa che, normalmente, non era un male, almeno in presenza di Xhex. Ma, ripensandoci, quello non era proprio un
luogo appartato. In qualunque momento uno dei fratelli o delle loro shellan poteva piombare dentro e assistere a una
scena che avrebbe messo tutti in imbarazzo.
Dopo un'imprecazione e qualche serio riposizionamento sotto la cintola, John digitò un codice e fece strada dentro il
tunnel.
«Allora, come si devono mettere le mani per fare la "A"?» chiese Xhex, uscendo dall'armadio e cominciando a
camminare.
Alla "D" sbucarono sotto lo scalone. La "I" li portò in cucina, davanti al frigorifero. La "M" fu il preludio a un paio di
panini... avendo le mani occupate con l'arrosto di tacchino, la maionese, la lattuga e il pane, l'alfabeto non fece molti
altri progressi. Non andò meglio durante il pasto, solo "N", "O" e "P", ma John aveva intuito che Xhex si stava
esercitando mentalmente: con gli occhi fissi su un punto a metà tra loro due, ripassava quello che lui le stava
insegnando.
Imparava alla svelta, e non fu una sorpresa. Mentre pulivano bene tutto, fecero dalla "Q" alla "V" e stavano uscendo
dalla cucina, quando John le mostrò come fare la "X", la "Y" e la "Z"...
«Bene, stavo giusto venendo a cercarvi», disse Z fermandosi di botto sotto l'arcata della sala da pranzo. «Wrath ha
convocato una riunione. Subito. Xhex, ti conviene venire.»
Il fratello si voltò, attraversò trotterellando il mosaico raffigurante un melo sul pavimento dell'atrio e salì lo scalone.
«Il vostro re di solito vi riunisce nel bel mezzo della giornata?» chiese Xhex.
John scosse la testa e insieme, muovendo le labbra e usando la lingua dei segni, dissero, È successo qualcosa.
In fretta seguirono Z, salendo i gradini a due a due.
Al primo piano, la confraternita al gran completo era stipata nello studio di Wrath e il re era seduto sul trono di suo
padre, dietro la scrivania. George era raggomitolato di fianco al suo padrone e Wrath con una mano accarezzava il
testone del golden re-triever mentre con l'altra lanciava per aria un tagliacarte a forma di pugnale.
John rimase in fondo, e non solo perché ormai c'erano solo posti in piedi, dato il numero di colossi nella stanza.
Voleva stare vicino alla porta.
L'umore di Xhex era mutato radicalmente.
Quasi si fosse cambiata d'abito dal punto di vista delle emozioni, era passata da una camicia da notte di flanella a
una cotta di maglia: in piedi accanto a lui, si dondolava avanti e indietro, nervosa, spostando il peso da un piede
all'altro.
E lui si sentiva più o meno allo stesso modo.
Si guardò intorno. Di fronte a lui, Rhage scartò un Tootsie Pop all'uva e V si accese una sigaretta rollata a mano,
mettendo Phury in vivavoce. Rehv, Tohr e Z andavano su e giù, mentre Butch, in pigiama di seta sul divano,
sembrava Hugh Hefner. Qhuinn, appoggiato vicino alle tende azzurro pallido, era chiaramente reduce da una
scopata: aveva le labbra rosse, i capelli recavano le tracce delle dita che li avevano accarezzati e la camicia, mezza
fuori dai calzoni... pendeva sul davanti.
Veniva da chiedersi se cercasse di nascondere un'erezione.
Dov'era Blay? E chi diavolo si era appena sbattuto, Qhuinn?
«Allora, V ha trovato un messaggio nella casella vocale.» Parlando, Wrath faceva scorrere lo sguardo sui presenti,
anche se dietro ai suoi occhiali avvolgenti era completamente cieco. «Invece di perdere tempo in spiegazioni, adesso
ve lo facciamo sentire.»
Con la sigaretta tra le labbra, Vishous fece volare le dita sui tasti della consolle, digitando numeri e password di
accesso alla casella vocale.
Poi John sentì quella voce. La voce stizzosa di quel pezzo di merda.
«Scommetto che non vi sareste mai aspettati di risentirmi.» Il tono di Lash era di sinistra soddisfazione. «Sorpresa,
stronzi, e indovinate un po'? Sto per farvi un favore. Forse vi interesserà sapere che stanotte c'è stata una iniziazione
di massa alla Lessening
Society. In una fattoria lungo la provinciale 149. È successo intorno alle quattro di mattina, per cui se alzate le
chiappe e ci andate appena fa buio, magari li trovate ancora lì a vomitare dappertutto. Un consiglio, mettetevi gli
stivaloni... è un macello. Oh, e dite a Xhex che sento ancora il suo sapore...»
V staccò il vivavoce.
John scoprì le zanne con un ringhio muto, facendo tremare il quadro alle sue spalle.
George uggiolò; Wrath lo tranquillizzò, puntando il tagliacarte davanti a sé. «Avrai modo di dargli una lezione, John.
Lo giuro sulla tomba di mio padre. Però adesso mi servi lucido, chiaro?»
Più facile a dirsi che a farsi. Tenere a freno il bisogno di uccidere era come trattenere un pitbull con una mano dietro
la schiena.
Accanto a lui, Xhex si accigliò, incrociando le braccia sul petto.
«Siamo intesi?» lo incalzò Wrath.
Quando John finalmente fischiò in segno di assenso, Vishous soffiò fuori una nuvola di tabacco turco e si schiarì la
voce. «Non ha lasciato un indirizzo preciso per questo cosiddetto massacro. Ho cercato di rintracciare il numero da
cui ha chiamato, ma non sono approdato a niente.»
«La domanda che mi pongo io», disse Wrath, «è cosa cazzo sta succedendo. Lash è il capo della Lessening Society...
quindi se avesse avuto un tono trionfante, della serie "sono il migliore di tutti", l'avrei capito, ma non è quello che ho
sentito.»
«Ha deciso di cantare.» Vishous schiacciò il mozzicone nel portacenere. «A me è suonata così... anche se non ci
scommetterei le palle.»
Ora che aveva rimesso in gabbia la furia omicida ed era in grado di ragionare a mente fredda, John era propenso a
concordare col fratello. Lash era uno stronzo egoista, capace di pensare solo al suo tornaconto e affidabile come un
serpente a sonagli, ma il fatto era questo: quando non potevi contare sulla moralità, potevi sempre fare affidamento
sul narcisismo, il che rendeva quel bastardo assolutamente prevedibile.
John ne era certo... al punto che gli pareva di aver già vissuto quell'esperienza.
«Possibile che sia stato spodestato?» mormorò Wrath. «Forse il caro paparino ha deciso che suo figlio, alla fin fine,
non è poi così divertente. Oppure il bel giocattolino nuovo e luccicante del Male all'improvviso si è rotto... nella
bizzarra biologia di Lash c'è forse qualcosa che sta saltando fuori soltanto adesso. Voglio che ci mettiamo in moto
pensando che sia un'imboscata...»
Nella stanza si levò un coro generale di consensi per il piano del re, oltre a qualche battutaccia sul culo di Lash e vari
corpi contundenti di notevoli dimensioni: gli stivali numero quarantotto erano i più gettonati, ma non certo i più
creativi.
Per esempio, John dubitava seriamente che Rhage potesse prendere quel bastardo e parcheggiargli la GTO proprio lì
dove non batte il sole. O che volesse farlo.
Miseria, che colpo di scena. E tuttavia non era del tutto sorprendente. .. se quello che avevano ipotizzato era accaduto
per davvero. Era risaputo che l'Omega cambiava Fore-lesser come un voltagabbana cambia bandiera e, se è vero che il
sangue non è acqua, non necessariamente tra il sangue e il Male vince il sangue, per così dire. Se Lash era stato
scaricato, il suo appello ai fratelli perché lo mettessero nel culo a suo padre era una mossa geniale... soprattutto
perché i tesser sono debolissimi subito dopo l'affiliazione e, dunque, incapaci di contrattaccare.
I fratelli potevano fare piazza pulita.
Cristo santo, pensò John. Il destino può farti trovare ben strani alleati.
Ritta vicino a John in uno studio che, se non fosse stato per la scrivania e il trono, si poteva scambiare per il salottino
di una no-bildonna francese, Xhex ribolliva di rabbia.
La voce di Lash che usciva da quel telefono la fece sentire come se le avessero strofinato le viscere con l'ammoniaca;
bruciori e voltastomaco stavano mettendo a dura prova il povero panino al tacchino appena mangiato con le migliori
intenzioni.
E sentire Wrath dare per scontato che sarebbe stato John a vendicarla e a difendere il suo onore, non migliorò la
situazione.
«Allora facciamo irruzione», stava dicendo il Re cieco. «Appena fa buio, tutti quanti andate sulla 149 e...»
«Io ci vado adesso», disse lei, forte e chiaro. «Datemi un paio di pistole e un coltello e vado subito a dare una
controllata.»
Okaaaaaay. Solo lanciando una bomba a mano già innescata in mezzo alla stanza avrebbe potuto attirare maggiore
attenzione.
Mentre la griglia emotiva di John si oscurava con un chiaro "oh no, levatelo dalla testa", Xhex cominciò il conto alla
rovescia prima dell'inevitabile esplosione.
Tre... due... uno...
«E un'offerta davvero gentile», disse il re, assumendo un tono della serie "aduliamo la femmina". «Ma credo sia
meglio...»
«Non potete fermarmi.» Xhex stese le braccia lungo i fianchi... e poi rammentò a se stessa che non stava per attaccarlo
fisicamente. Davvero. Non stava per farlo.
Il sorriso che il re le rivolse era caldo più o meno come il ghiaccio secco. «Io sono il sovrano, qui. Il che significa che
se ti dico di stare buona, tu devi ubbidire e basta, maledizione.»
«E io sono una symphath, non uno dei vostri sudditi. Ma, soprattutto, siete troppo intelligente per mandare i vostri
guerrieri migliori», così dicendo, indicò i fratelli con un ampio gesto del braccio, «incontro a un possibile agguato
teso dal vostro nemico. Io sono sacrificabile... contrariamente a loro. Pensateci. Volete perdere uno di loro solo perché
oggi non vi andava di farmi prendere un po' di sole?»
Wrath fece una risatina secca. «Rehv? Vuoi dire la tua, in qualità di re dei symphath?»
All'altro capo della stanza il suo vecchio capo, nonché caro amico, la fissò con due occhi di ametista che sapevano
anche troppo.
Ti farai ammazzare, le comunicò telepaticamente.
Non cercare di trattenermi, ribatté lei. Non te lo perdonerò mai.
Continua a comportarti così e il perdono sarà l'ultima delle mie preoccupazioni. La prima saranno i tuoi funerali.
Io non ti ho impedito di andare su alla colonia quando ne avevi bisogno. Avevo le mani legate proprio per colpa tua, che
diamine. E adesso vieni a dirmi che non ho il diritto di vendicarmi? Vaffanculo!
Rehvenge serrò la mascella talmente forte che, quando finalmente aprì bocca, Xhex si sorprese che non sputasse fuori
tutti i denti. «Xhex può fare ciò che vuole. Non si può salvare chi rifiuta la scialuppa di salvataggio.»
La collera di Rehvenge parve risucchiare quasi tutta l'aria nella stanza, ma Xhex era talmente determinata che i suoi
polmoni potevano tranquillamente farne a meno.
Le ossessioni sono come l'ossigeno. E, qualunque cosa avesse a che fare con Lash, era benzina gettata sul fuoco che
ardeva dentro di lei.
«Mi servono delle armi», disse al gruppo. «E calzoni di pelle. E un telefono per comunicare.»
Wrath emise un ringhio basso e profondo. Quasi fosse tentato di chiuderla sottochiave malgrado l'autorizzazione di
Rehv.
Xhex avanzò fino alla scrivania del re, ci piantò sopra le mani e si sporse in avanti. «O perdete me o dovete correre il
rischio di perdere loro. Cosa rispondete, Vostra Altezza?»
Wrath si alzò in piedi e, per un attimo, Xhex ebbe la netta sensazione che, malgrado sedesse sul trono, fosse ancora
pericoloso da morire. «Non. Usare. Quel. Tono. In casa mia.»
Xhex inspirò a fondo e ritrovò la calma. «Chiedo scusa. Ma dovete comprendere il mio punto di vista.»
Nel silenzio carico di tensione, Xhex avvertiva la presenza incombente di John... sapeva che, se anche fosse riuscita a
vincere le resistenze del re, poi avrebbe dovuto faticare non poco per aggirare il vampiro sulla porta. Ma la sua
partenza era fuori discussione. Per chiunque.
Wrath si abbandonò sottovoce a una lunga sequela di imprecazioni. «E va bene. Vai. Ma se ti fai ammazzare non sarò
io il responsabile.»
«Non lo siete mai stato, Vostra Altezza. L'unica responsabile sono io... e la corona sul vostro capo o su quello di
chiunque altro non cambierà le cose.»
Wrath si voltò in direzione di V e, quasi ringhiando, disse, «Voglio che questa femmina sia imbottita di armi.»
«Non c'è problema. Ci penso io.»
Seguendo Vishous fuori dallo studio, Xhex si fermò davanti a John. Avrebbe tanto voluto poter giocare una mano
diversa... specie quando lui l'afferrò per il braccio, stringendo il bicipite in una morsa. Ma si era presentata
quell'occasione e poteva approfittarne solo fino al tramonto: se c'erano degli indizi sul luogo in cui si nascondeva
Lash, faceva meglio a usarli subito per beccare quel bastardo. All'imbrunire, John e i fratelli si sarebbero
sguinzagliati nella caccia... e non avrebbero esitato a uccidere il suo bersaglio.
Sì, Lash doveva pagare per quello che le aveva fatto, ma voleva essere lei a riscuotere quel credito: quando si trattava
di seppellire quelli che le avevano fatto del male non la batteva nessuno, era già a quota mille. La vendetta è un
piatto che va servito freddo, si dice, ma lei non vedeva l'ora di portarlo in tavola.
Sottovoce, per non farsi sentire da nessun altro, disse, «Non ho bisogno della tua protezione e sai perfettamente
perché devo fare questa cosa. Se mi ami davvero come pensi, molla questo braccio. Prima che te lo strappi via dalle
mani.»
Vedendolo impallidire, pregò di non essere costretta a usare la forza.
Non fu necessario. John lasciò la presa.
Uscendo dallo studio, Xhex superò V a passo di carica sbraitando da sopra la spalla, «Il tempo stringe, Vishous, datti
una mossa. Mi serve un po' d'acciaio.»
Capitolo 48
Quando Xhex filò via con V, il primo pensiero di John fu di scendere da basso, piazzarsi davanti al portone e
impedirle fisicamente di uscire.
Il secondo fu di andare con lei... anche se così sarebbe finito arrosto, trasformandosi nell'equivalente vampiresco di
un bengala.
Cristo santo, ogni volta che pensava di aver toccato il fondo con lei, qualcuno gli strappava via il tappeto da sotto i
piedi, facendolo atterrare in un posto ancora più terribile e infernale: Xhex si era appena offerta di andare incontro
all'ignoto, di affrontare un'incognita che, per sua stessa ammissione, era troppo pericolosa per i fratelli. E lo faceva
senza rinforzi e senza dargli la possibilità di raggiungerla, se veniva colpita.
Quando Wrath e Rehv gli si avvicinarono, lo studio tornò a fuoco e soltanto allora si accorse che tutti gli altri se
n'erano andati... tranne Qhuinn, che indugiava nell'angolo e fissava tetro il cellulare.
Rehvenge fece un gran sospiro, chiaramente nella stessa barca del cazzo di John. «Senti, io...»
John mosse frenetico le mani: Cosa cazzo ti è saltato in mente di lasciarla andare via così?
Rehv si passò una mano sulla corta cresta da moicano. «A lei ci penso io...»
Non puoi uscire di giorno. Come cavolo pensi di...
«Vedi di cambiare atteggiamento, ragazzino», ringhiò minaccioso Rehv.
Okay. Bene. Proprio la cosa più sbagliata da dire nel momento più sbagliato: John gli andò sotto a muso duro, scoprì
l'artiglieria pesante e gli inviò un pensiero forte e chiaro: È la mia femmina
che sta andando incontro al pericolo. Da sola. Quindi vaffanculo, tu e il mio atteggiamento.
Rehv imprecò, trafiggendolo con due occhi duri. «Stai attento a sparare frasi tipo "la mia femmina"... dammi retta.
Questo per lei è il finale di partita e vuole giocarselo da sola, senza nessuno tra i piedi, non so se mi spiego.»
Il primo impulso di John fu di picchiare quel bastardo, di mollargli un pugno sul muso.
Rehv scoppiò in una risata secca. «Vuoi fare a botte? Okay, ci sto.» Mise da parte il bastone rosso e appoggiò la
pelliccia di zibellino su una poltrona riccamente decorata. «Ma non cambierà un bel niente. Credi che qualcuno possa
capirla meglio di me? La conosco da prima che tu nascessi.»
No, invece, pensò John, per qualche strano motivo.
«Okay, okay, okay...», fece Wrath separandoli. «Basta così, ragazzi. Quello sotto i vostri piedi è uno splendido tappeto
Aubusson. Se lo sporcate di sangue, Fritz mi farà nero.»
«Senti, John, non voglio romperti le scatole», borbottò Rhev. «È solo che so cosa vuol dire volerle bene. Non è colpa
sua se è fatta così, ma per chi le sta vicino è un vero inferno, fidati.»
John abbassò i pugni. Merda, per quanto avesse voglia di litigare, quel figlio di puttana con gli occhi viola forse
aveva ragione.
Senza il "forse". Aveva ragione... John l'aveva imparato a proprie spese. Anche troppe volte.
Che gran casino, sillabò.
«Credo che l'immagine renda l'idea, sì.»
John uscì dallo studio e scese nell'atrio con la vana speranza di convincere Xhex a non andare. Camminando su e giù
fino a consumare il mosaico dell'albero di mele, ripensò all'abbraccio che si erano scambiati fuori dallo spogliatoio.
Come diavolo erano passati da tanta intimità a... questo?
C'era stato davvero quel momento? O era stato il suo stupido lato sentimentale a inventarselo di sana pianta perché
era uno smidollato, innamorato cotto di lei?
Dieci minuti dopo, Xhex e V sbucarono dalla porta segreta sotto lo scalone.
John la guardò attraversare l'atrio. Era come la prima volta che l'aveva vista: pantaloni neri di pelle, anfibi neri,
canotta aderente nera. Aveva in mano un giubbotto di cuoio e addosso un arsenale sufficiente ad armare un'unità
speciale.
Giunta davanti a lui si fermò e, quando i loro occhi si incrociarono, per lo meno gli risparmiò le solite cazzate della
serie Andrà tutto bene. Ma non c'era verso di farla desistere. Nulla di ciò che John poteva dire le avrebbe fatto
cambiare idea... era decisa, glielo si leggeva negli occhi.
Per come stavano le cose adesso, John faticava a credere che lo avesse mai stretto tra le braccia.
Appena V aprì la porta del vestibolo, Xhex si voltò e uscì, senza una parola e senza voltarsi indietro.
Vishous richiuse a chiave il portone e John rimase a fissare i pesanti pannelli di legno, chiedendosi quanto ci avrebbe
messo ad abbatterli a mani nude.
Lo scatto di un accendino fu seguito da una lenta espirazione. «Le ho dato il meglio di tutto. Due calibro quaranta.
Tre caricatori per ognuna. Due coltelli. Un cellulare nuovo. E sa come usarli.»
La grossa mano di V gli calò sulla spalla, stringendola con forza; poi il fratello se ne andò, i pesanti stivali che
scandivano sonoramente il ritmo sul pavimento a mosaico. Un secondo dopo, la porta nascosta da cui era emersa
Xhex si chiuse; V si era infilato nel tunnel per tornare alla Tana.
L'impotenza proprio non faceva per lui, pensò John. Il suo cervello cominciò a lavorare alacremente, come quando
Xhex lo aveva trovato sul pavimento delle docce nello spogliatoio.
«Ti va di guardare un po' la tele?»
Nel sentire quella voce pacata, John si accigliò, voltandosi verso destra. Nella sala del biliardo, Tohr era seduto sul
divano di fronte al televisore maxischermo sopra il caminetto riccamente decorato. Aveva i piedi sopra il tavolino e il
braccio allungato sullo schienale del sofà, col telecomando puntato verso il Sony.
Non guardò John. Non disse altro. Continuò a passare da un canale all'altro.
Scelte, scelte, scelte, pensò John.
Poteva correrle dietro e abbrustolirsi le chiappe. Stare davanti a quel portone come un cagnolino. Scorticarsi vivo con
un coltello. Bere fino a stordirsi.
Dalla sala del biliardo uscì un ruggito soffocato, seguito dalle urla di una folla di gente.
Attirato dal sonoro, John entrò, fermandosi davanti al tavolo da biliardo. Al di là della nuca di Tohr vide Godzilla
che calpestava senza pietà un modellino del centro di Tokyo.
Immagine ispiratrice, in effetti.
John andò al mobile bar a versarsi un Jack Daniel's e poi si sedette vicino a Tohr, poggiando anche lui i piedi sul
tavolino.
Si concentrò sullo schermo televisivo, gustando il whisky e godendosi il calore del fuoco acceso di fronte a lui; a poco
a poco il frullatore che aveva nel cervello rallentò un pochino. Poi un po' di più. E ancora di più.
Sarebbe stata una giornata tremenda, ma almeno non meditava più il suicidio sotto il sole.
Qualche minuto dopo si rese conto che lui e Tohr erano stravaccati sul divano come quella volta, a casa, quando
Wellsie era ancora viva.
Dio, ultimamente era così arrabbiato con Tohr che aveva dimenticato com'era facile stare in sua compagnia, così,
semplicemente; per certi versi sembrava che lo facessero da secoli: loro due insieme, davanti al fuoco del camino,
drink in una mano, stanchezza e stress nell'altra.
Quando Mothra arrivò in volo per uno scontro ala-artiglio col mostro gigantesco, John ripensò alla sua vecchia
camera da letto.
Voltandosi verso Tohr, disse, Ascolta, quando sono passato da casa, ieri sera...
«Xhex me l'ha detto.» Tohr bevve un sorso. «Della vetrata.»
Mi dispiace.
«Non preoccuparti. Quella si può aggiustare.»
Vero, pensò John, voltandosi di nuovo verso il televisore. A differenza di tante altre cose.
Da un angolo in fondo alla stanza Lassiter fece un gran sospiro, neanche qualcuno gli avesse amputato una gamba e
non ci fossero paramedici in vista. «Non avrei mai dovuto cederti il telecomando. Quello è solo un tizio mascherato
da mostro che agita un bastone come se giocasse alla pentolaccia. E dai, mi manca il Maury Show.»
«Quanto mi dispiace.»
«Test di paternità, Tohr. Mi stai impedendo di vedere i test di paternità. È una vergogna.»
«Soltanto per te.»
Tohr non si smosse da Godzilla e John abbandonò la testa all'indietro, contro i cuscini di cuoio.
Pensando a Xhex là fuori, da sola, gli sembrava che lo avessero avvelenato. Lo stress, come una vera e propria tossina
nel flusso sanguigno, gli procurava nausea e vertigini, rendendolo nervoso e agitato.
Ripensò a tutte le stronzate ingenuamente ottimistiche che si era ripetuto come un mantra prima di trovarla: che lui
era una persona matura, che anche se Xhex non lo amava lui poteva lo stesso amarla e fare la cosa giusta e lasciarle
vivere la sua vita e bla, bla, bla.
Già, bella roba. Ne aveva abbastanza di quelle psico-cazzate sulla realizzazione di se stessi; tutta propaganda a buon
mercato che, al momento, lo faceva vomitare.
Non gli andava bene che Xhex se ne stesse là fuori da sola, Senza di lui. Ma, chiaramente, lei non avrebbe ascoltato né
lui né nessun altro.
E c'era da scommettere che si stava affannando per beccare Lash prima del tramonto... quando John finalmente
avrebbe potuto scendere in campo. Da un certo punto di vista non avrebbe do vuto importare chi dei due faceva fuori
quel pezzo di merda... gin, ma lì era la ragione a parlare. Il suo Io più profondo, invece, non tollerava un'altra
debolezza... tipo, be', diciamo, starsene con le mani in mano mentre la sua femmina cercava di uccidere il figlio del
Male rischiando di farsi ammazzare.
La sua femmina...
Ah, ma un momento. Solo perché aveva il suo nome tatuato sulla schiena non significava che lei gli appartenesse...
erano solo delle lettere nere sulla pelle. In realtà, era più lui ad appartenere a Xhex. Era diverso. Molto diverso.
Significava che Xhex poteva andarsene senza troppi problemi.
L'aveva appena fatto, in effetti.
Cazzo. Sembrava proprio che Rehv avesse riassunto la situazione meglio di chiunque altro: nel suo finale di partita,
Xhex non voleva tra i piedi nessuno, a parte a se stessa.
E un paio d'ore di ottimo sesso non avrebbero cambiato le cose.
Né le avrebbe cambiate il fatto che, volente o nolente, lei gli aveva rubato il cuore e se l'era portato via con sé, là
fuori, in pieno giorno.
Qhuinn andò in camera sua e puntò dritto verso il bagno su due gambe sorprendentemente stabili. Prima che venisse
convocata la riunione di emergenza era alticcio, ma il pensiero che la femmina di John fosse uscita in pieno giorno
per andare incontro tutta sola a un casino di proporzioni colossali bastò a spazzare via all'istante ogni residuo di
sbornia.
Ma d'altronde, sulla stessa falsariga, Qhuinn era alle prese con una specie di perversa "offerta due al prezzo di uno".
Anche Blay era là fuori, nel mondo, solo soletto.
Be', non era solo, in realtà, era senza protezione.
L'SMS arrivatogli da un numero sconosciuto aveva chiarito il mistero di dove fosse, e molto di più: Passo la giornata
con Saxton. Torno a casa dopo il tramonto.
Tipico di Blay. Chiunque altro al mondo avrebbe abbreviato il messaggio in una cosa tipo: Oggi da Sax. Torno
stasera.
I suoi SMS invece, erano sempre grammaticalmente corretti. Come se l'idea di deviare dalla lingua più pura gli desse
il prurito.
Blay era proprio buffo. Tutto a modino: prima di mangiare si cambiava, sfoggiando camicie button-down coi polsini
alla francese e pantaloni stirati alla perfezione al posto di calzoni di pelle e T-shirt. Si faceva la doccia almeno due
volte al giorno, di più se si allenava in palestra. Per Fritz la sua stanza era una frustrazione assoluta, perché non c'era
mai niente da mettere in ordine.
A tavola aveva le maniere di un conte, scriveva lettere di ringraziamento capaci di farti venire le lacrime agli occhi e
non imprecava mai e poi mai in presenza del gentil sesso.
Dio... Saxton era perfetto per lui.
A quel pensiero, Qhuinn si sentì mancare, immaginandosi tutte le espressioni forbite che Blay stava chiamando in
soccorso in quel preciso momento, mentre l'altro se lo scopava.
Nessun aveva mai fatto miglior uso dei dizionari della lingua inglese, garantito.
Gli sembrava di aver ricevuto un pugno in testa. Fece scorrere l'acqua fredda nel lavandino e si sciacquò la faccia
finché le guance ebbero un inizio di congelamento e la punta del naso cominciò a perdere sensibilità. Asciugandosi,
ripensò alla scopata che si era fatto con la cassiera in quello studio per tatuaggi.
La tenda che li separava dal resto del negozio era abbastanza leggera da permettergli di vedere con i suoi occhi
spaiati, ma acutissimi, tutto ciò che succedeva dall'altra parte. Tutto... e tutti. Così, quando la tipa gli si era
inginocchiata davanti e lui aveva voltato la testa, aveva guardato fuori... e visto Blay.
Tutt'a un tratto, la bocca che stava trapanando si era trasformata da quella di una sconosciuta a quella del suo
migliore amico e il cambiamento aveva dato ancora più carica al sesso, facendolo passare dal soddisfacimento di un
bisogno generico a qualcosa di incendiario.
Qualcosa di importante.
Qualcosa di erotico e selvaggio, in cui valeva la pena di perdere l'anima.
Ecco perché aveva tirato su la ragazza e l'aveva fatta voltare per prenderla da dietro. Solo che, mentre metteva in atto
la sua fantasia, si era reso conto che Blay lo stava osservando... e questo aveva cambiato tutto. Improvvisamente aveva
dovuto ricordare a se stesso chi si stava sbattendo... ecco perché aveva alzato la testa della ragazza, costringendosi a
guardarla negli occhi.
E non era venuto.
Aveva fatto finta, mentre lei era travolta dall'orgasmo... in realtà la sua erezione aveva cominciato ad ammosciarsi
appena l'aveva guardata in faccia. L'unica consolazione era che lei, chiaramente, non se n'era accorta, essendo bagnata
abbastanza per tutti e due... e comunque, dopo, lui aveva recitato da vero professionista, calcando la mano coi
complimenti, fingendosi tutto soddisfatto e palle varie.
Ma era tutta una bugia.
Quante persone si era scopato così, in vita sua, per la serie "barn barn e adesso scordati di me?" Centinaia. Centinaia e
centinaia... anche se faceva sesso da un anno e mezzo soltanto. Ma con le not tate allo ZeroSum, quando rimorchiava
anche tre o quattro ragazze per volta, si faceva in fretta ad arrivare a certe cifre.
In molte di quelle occasioni c'era anche Blay, naturalmente, lui e il suo amico abbordavano le donne in coppia. Loro
due, di fatto, non erano mai stati insieme, durante quelle orge nei bagni del club... ma c'era stato parecchio
voyeurismo. E fantasie. E magari, ogni tanto, una sega di nascosto, quando il ricordo si faceva troppo vivido.
Almeno da parte di Qhuinn.
Era finito tutto, però, quando Blay ci aveva dato un taglio, rendendosi conto che era gay e che era innamorato. Di uno
a caso: il suo migliore amico.
Qhuinn non approvava la sua scelta. Neanche un po'. Uno come Blay meritava di meglio, molto meglio.
Ma adesso, a quanto pareva, aveva imboccato una strada che gli avrebbe garantito proprio questo. Saxton era una
persona rispettabile. In tutto e per tutto.
Lo stronzo.
Alzò gli occhi sullo specchio sopra il lavandino, ma non vide niente perché era buio pesto, sia in bagno sia in camera
da letto. E meno male.
Perché stava vivendo una bugia, e in momenti come quello ne era talmente convinto da avere la nausea.
Tutti i suoi progetti per il resto dei suoi giorni... oh, progetti fantastici.
Progetti di un futuro così perfettamente "normale".
Che prevedevano una femmina rispettabile, non una relazione a lungo termine con un maschio.
La verità era una sola: quelli come lui, quelli con qualcosa che non andava... tipo, be', un'iride blu e un'altra verde,
tanto per dire... erano disprezzati dall'aristocrazia in quanto prova vivente di un fallimento genetico. Erano motivi di
imbarazzo da tenere nascosti, vergognosi segreti da seppellire: per anni aveva visto sua sorella e suo fratello che
venivano messi sul piedistallo mentre chiunque lo incrociava sulla propria strada si lanciava in strani rituali per
proteggersi dal malocchio.
Perfino suo padre lo aveva odiato.
Quindi non ci voleva uno psicologo con una laurea appesa al muro per capire che lui voleva solo essere "normale". E
sistemarsi con una femmina rispettabile, sempre ammesso che ne trovasse una disposta ad accollarsi un compagno
con un difetto genetico, era essenziale per ottenere quella simpatica etichetta.
Se si fosse messo con Blay non avrebbe mai realizzato il suo sogno di normalità, lo sapeva.
Sapeva anche che bastava una sola scopata e non lo avrebbe lasciato mai più.
Non che i fratelli non accettassero gli omosessuali. Per loro non era un problema... Vishous era stato con dei maschi e
nessuno aveva battuto ciglio, lo aveva giudicato o criticato. Era il loro fratello, V, e basta. E ogni tanto anche Qhuinn
aveva superato quella
linea di confine, così, per gioco; tutti lo sapevano e se ne fregavano.
La glymera non se ne fregava, però.
Ancora gli importava di quei coglioni, e la cosa lo infastidiva. Ora che la sua famiglia era stata massacrata e il nucleo
dell'aristocrazia della razza si era disperso lungo la Costa Orientale, non aveva più contatti con quel branco di stronzi
spocchiosi e ingessati che sembrava avessero un bastone infilato su per il culo. Ma era un cane troppo bene
ammaestrato per dimenticare che esistevano.
Non riusciva a venirne fuori, semplicemente.
Buffo, no? Fuori era un macho tosto, tutto sesso e violenza... ma dentro era una checca fatta e finita.
All'improvviso gli venne voglia di sferrare un pugno allo specchio, anche se rifletteva solo l'oscurità circostante.
«Padrone?»
Al buio, chiuse gli occhi con forza.
Merda, si era scordato che Layla era ancora nel suo letto.
Capitolo 49
Xhex non sapeva con esattezza quale fattoria stesse cercando, quindi si materializzò in un'area boschiva nei pressi
della provinciale 149 e si affidò al fiuto per capire da che parte andare: il vento soffiava da nord e appena colse la
minima traccia Difattiva di borotalco, la seguì, vaporizzandosi a intervalli di un :entinaio di metri attraverso i campi
di granturco innevati, coperti di stoppie e sferzati dai venti invernali.
L'aria primaverile le pizzicava il naso e il sole le scaldava il viso nei punti in cui la brezza non le accarezzava la pelle.
Tutto intorno, alberi scheletrici con un'aureola verde brillante, i timidi germogli attratti allo scoperto dalla promessa
di ore più calde.
Splendida giornata.
Per una carneficina.
Quando la puzza di lesser coprì ogni altro odore, sfoderò uno dei coltelli che Vishous le aveva dato. Ormai era così
vicina da...
Xhex riprese forma all'altezza del filare di aceri seguente e si fermò di colpo.
«Oh... cazzo.»
La fattoria bianca, lungi dall'essere un soggetto adatto per le lettere a mammina, era solo una struttura fatiscente
accanto a un campo di mais, circondata da un anello di pini e cespugli. Meno male che almeno aveva un prato.
Altrimenti le cinque auto della polizia ammassate davanti alla porta d'ingresso non avrebbero avuto abbastanza
spazio per aprire le portiere.
Mascherandosi alla maniera dei symphath, Xhex si avvicinò, non vista, a una finestra e guardò dentro.
Tempismo perfetto: uno degli eroi di Caldwell stava vomitando dentro un secchio.
Oddio, non che quel poveretto non avesse i suoi buoni motivi. La casa sembrava immersa nel sangue umano. No,
anzi, non "sembrava": era tutta coperta di quello schifo, al punto che, pur essendo fuori all'aria aperta, Xhex sentì in
gola il tipico gusto metallico del sangue.
Era come stare nella piscinetta per bambini di Michael Myers o di qualche altro maniaco omicida.
Gli sbirri umani si aggiravano per il salotto e il tinello muovendosi con cautela, non solo perché era una scena del
crimine, ma perché chiaramente non volevano schizzarsi i calzoni con quella porcheria.
Niente cadaveri, però. Neanche uno.
Almeno per quel che si poteva vedere.
In casa c'erano dei lesser in nuce, però. Sedici in totale. Ma Xhex non poteva vederli e nemmeno i poliziotti, anche se,
in base alle sue percezioni, gli uomini li stavano calpestando.
Era stato Lash a nasconderli col suo solito trucchetto?
Cosa cavolo stava tramando? Prima telefonava ai fratelli informandoli del massacro... e poi faceva venire i
piedipiatti? O era stato qualcun altro a chiamare il 911?
Xhex aveva bisogno di risposte...
Mischiato con tutto quel sangue, c'era qualche residuo nero; uno degli agenti ne stava osservando un campione,
accigliato, con l'aria di aver trovato qualcosa di repellente. Già... quella piccola quantità di materiale oleoso non
bastava a spiegare il forte odore dolciastro che lei aveva seguito... dunque doveva supporre che le iniziazioni erano
andate a buon fine, e che quanto si nascondeva lì dentro non era più umano.
Volse lo sguardo attorno, sui boschi dietro e davanti a lei. Che ruolo aveva, in tutto ciò, il golden boy dell'Omega?
Spostandosi di fronte alla fattoria, vide un postino chiaramente impegnato a lottare con un qualche disturbo da stress
post-traumatico mentre rilasciava una dichiarazione a un agente in uniforme.
Il Servizio Postale degli Stati Uniti alla riscossa.
Di sicuro era stato lui a dare l'allarme...
Sempre camuffata, Xhex si limitò a osservare la scena, guardando gli sbirri che si sforzavano di trattenere i conati di
vomito per fare il loro dovere, e aspettando che Lash si manifestasse... o che qualunque altro lesser si facesse vivo.
Meno di un minuto e mezzo dopo comparvero le troupe televisive. Xhex osservò una bionda belloccia recitare la
parte della Barbara Walters dei poveri. Un secondo dopo la fine delle riprese sul prato, la donna cominciò a
tormentare i poliziotti per ottenere qualche informazione e riuscì a seccarli al punto tale che le lasciarono dare
un'occhiata all'interno.
Il che, naturalmente, bastò a metterla subito fuori combattimento.
Quando, da brava femminuccia, la giornalista modello svenne tra le braccia di uno degli agenti, Xhex alzò gli occhi al
cielo e tornò fuori.
Merda. Tanto valeva mettersi comoda. Era piombata lì bella carica, pronta a dare battaglia ma, come spesso accade in
guerra, le toccava temporeggiare fino alla comparsa del nemico.
«Sorpresa!»
Xhex si voltò talmente in fretta che per un pelo non perse l'equilibrio. L'unica cosa che la salvò dal cadere fu il
contrappeso della mano che stringeva il coltello, sollevata in alto, sopra la spalla, pronta a colpire.
«Mi spiace che non abbiamo fatto la doccia insieme.»
Il caffè che Blay aveva preparato per tutti e due gli andò di traverso, mentre Saxton sorseggiava tranquillo dalla sua
tazza. Evidentemente aveva provocato di proposito la reazione che adesso si stava godendo.
«Mi piace da matti sorprenderti», disse.
Tombola, pensò Blay. E naturalmente lo stupidissimo corredo genetico degli individui dai capelli rossi lo fece
diventare paonazzo. Impossibile nasconderlo.
Sarebbe stato più facile infilarsi un'automobile in tasca, tanto era evidente.
«Sai, l'ambiente è importante. Non sciupare troppa acqua eccetera. In perfetto stile ecologista... o nudista, se
vogliamo.»
Saxton, in vestaglia di seta, era appoggiato contro i cuscini di raso del letto mentre Blay era allungato in fondo al
materasso, sopra il piumone supplementare piegato con estrema cura. Il tenue chiarore delle candele, offuscando
linee e contorni, avvolgeva la scena in un alone fantastico.
Neanche a dirlo, in mezzo a tutte quelle coperte e lenzuola color cioccolato, Saxton era bellissimo; i capelli chiari così
folti e ondulati da sembrare scolpiti, anche se non aveva usato né lacca né schiuma. Con gli occhi a mezz'asta e il
petto glabro parzialmente scoperto, era pronto, disponibile... e, a giudicare dalla fragranza che emanava, in grado di
essere ciò di cui Blay aveva bisogno.
Almeno internamente. Il suo aspetto esteriore non era propriamente all'altezza del compito: il volto era tumefatto, le
labbra gonfie, non per un broncio sensuale ma per i pugni di qualche stronzo, e si muoveva con cautela, come se
fosse ancora coperto di lividi.
Il che era preoccupante. A una dozzina di ore dall'aggressione, le sue ferite avrebbero dovuto essere già guarite. Era
un aristocratico, in fin dei conti, il suo sangue era tra i migliori.
«Allora, Blaylock, che cosa ci fai qui?» Saxton scosse la testa. «Non so ancora perché sei venuto.»
«Come avrei potuto non farlo?»
«Ti piace fare l'eroe, eh?»
«Non c'è niente di eroico nell'assistere qualcuno.»
«Non fare il modesto», disse burbero Saxton.
Blay rimase perplesso. Saxton era stato come al solito brillante e leggermente sarcastico per tutta la mattina e il
pomeriggio... ma lo avevano aggredito. In maniera brutale.
«Stai bene?» chiese piano Blay. «Davvero bene?»
Saxton fissò il suo caffè. «A volte trovo difficile comprendere la natura delle persone, sul serio. Non solo nella razza
umana, ma anche nella nostra.»
«Mi dispiace. Per ieri sera.»
«Be', è servito a farti entrare nel mio letto, giusto?» Saxton sorrise per quel poco che poteva, dato che il gonfiore gli
storceva mezza bocca. «Non è esattamente la strada che avevo in mente di imboccare per portarti qui... ma è bello
guardarti al lume di candela. Hai il corpo di un soldato, ma la faccia di un intellettuale. È una combinazione...
inebriante.»
Blay scolò d'un fiato quello che restava nella sua tazza, rischiando di strangolarsi. O forse non dipendeva tanto da ciò
che stava bevendo, quanto da ciò che stava sentendo. «Vuoi che ti versi ancora un po' di caffè?»
«Per adesso no, grazie. Era perfetto," a proposito, e la tua domanda è stata un modo eccellente, per quanto ovvio, di
cambiare discorso.»
Saxton posò tazza e piattino sul comodino con decorazioni in bronzo dorato e si risistemò con un gemito. Per evitare
di guardarlo, Blay posò la tazza sulla cassapanca ai piedi del letto e lasciò vagare lo sguardo per la stanza. Il piano di
sopra era tutto in stile vittoriano, con pesanti mobili di mogano, tappeti orientali e colori ricchi, intensi... come aveva
appreso durante le sue puntatine in cucina. L'atmosfera sottotono improntata a decoro e riservatezza, tuttavia, finiva
davanti alla porta del sotterraneo. Lì sotto era un autentico boudoir, tutto in stile francese, con cassettoni e tavolini
sagomati col piano di marmo ed eleganti tappeti ricamati ad ago. Un'orgia di raso e... disegni a matita in bianco e nero
ili splendidi maschi languidamente allungati, in modo molto simile a Saxton.
Solo, senza la vestaglia.
«Ti piacciono le mie stampe?» chiese malizioso Saxton.
Blay non potè fare a meno di ridere. «Domanda insidiosa.»
«A volte la uso. Sono sincero.» (1)
(1) In inglese, la "collezione di stampe" è l'equivalente italiano della "colle zione di farfalle": un pretesto per invitare qualcuno in casa
propria e fargli delle avance. (N.d.T.)
All'improvviso Blay fu assalito dall'immagine di Saxton che, nudo, faceva l'amore proprio su quel letto, le membra
avviluppate a quelle di un altro.
Controllando furtivamente l'orologio, vide che aveva ancora sette ore da trascorrere lì; non sapeva se augurarsi che
passassero lentamente o in un batter d'occhio.
Saxton abbassò le palpebre e, più che sospirare, rabbrividì.
«Quand'è stata l'ultima volta che ti sei nutrito?» chiese Blay.
Quelle palpebre pesanti si alzarono, liberando un lampo grigio perla. «Ti stai offrendo volontario?»
«Intendevo da una femmina.»
Saxton fece una smorfia, risistemandosi sui cuscini. «È passato un po' di tempo. Ma sto bene.»
«Hai la faccia che sembra una scacchiera.»
«Che cose carine sai dire.»
«Dico sul serio, Saxton. Non vuoi farmi vedere come sei messo sotto la vestaglia ma, dalla faccia, devi essere
dolorante anche in altri posti.»
Tutto ciò che ottenne fu un mmm.
«Adesso chi è che vuole cambiare discorso?»
Ci fu una lunga pausa. «So io chi può nutrirti, Saxton.»
«Hai sottomano qualche femmina?»
«Ti spiace se uso di nuovo il tuo telefono?»
«Accomodati.»
Blay si alzò e andò in bagno; preferiva un po' di privacy perché non aveva idea di come sarebbe andata a finire.
«Potevi usare quello che c'è qui», gridò Saxton, sentendolo chiudere la porta.
Blay uscì dieci minuti dopo.
«Non sapevo che le agenzie di appuntamenti on line fossero così veloci», mormorò Saxton, senza aprire gli occhi.
«Ho i miei agganci.»
«Ah, non ne dubito.»
«Vengono a prenderci qui al tramonto.»
Al che Saxton aprì gli occhi. «Chi? E per andare dove?»
«Ci prenderemo cura di te.»
Saxton inspirò ed espirò con un sibilo. «Stai correndo ancora in mio soccorso, Blaylock?»
«Chiamala compulsione.» Ciò detto, Blay andò a sdraiarsi su una chaise-longue. Tirandosi sulle gambe un voluttuoso
plaid di pelliccia, spense la candela accanto a sé e si mise comodo.
«Blaylock?»
Dio, quella voce. Così bassa e pacata, nella penombra. «Sì?»
«Mi stai facendo fare una pessima figura come padrone di casa.» Seguì un lieve intoppo nel respiro. «Non puoi
dormire là sopra.» «Starò benissimo.»
Silenzio. «Non lo tradirai, se vieni qui a letto con me. Non sono in condizione di attentare alla tua virtù e, anche se lo
fossi, ti rispetto troppo per metterti in una posizione imbarazzante. E poi, un po' di calore non mi dispiacerebbe...
non riesco proprio a scacciare il freddo.»
Blay moriva dalla voglia di fumare una sigaretta. «Non lo tradirei neanche se... succedesse qualcosa tra noi due. Con
lui non c'è niente. Siamo amici, soltanto amici.»
Che poi era il motivo per cui la situazione con Saxton era così maledettamente strana. Blay era abituato a trovarsi di
fronte a quella porta chiusa, quella che lo teneva fuori e lontano dall'oggetto dei suoi desideri. Saxton, invece, gli
offriva un portone spalancato, qualcosa che poteva varcare facilmente... e la stanza, dall'altra parte, era magnifica.
Tenne duro per circa un minuto e mezzo. Poi, con l'impressione di muoversi al rallentatore, spostò di lato la pelliccia
bianca e si alzò.
Vedendolo attraversare la stanza, Saxton gli fece posto, sollevando lenzuola e piumone. Blay esitò.
«Non mordo mica», sussurrò sensuale Saxton. «A meno che tu non me lo chieda.»
Blay si infilò in mezzo a tutto quel raso... e capì all'istante perché le vestaglie di seta sono le migliori. Così lisce e
morbide.
Qualcosa di più nudo del nudo.
Saxton si voltò sul fianco per averlo di fronte, ma poi gemette... di dolore. «Accidenti.»
Si rimise sulla schiena e Blay si ritrovò a imitarlo, allungando il braccio di lato. Quando Saxton si tirò su, Blay infilò
il bicipite sotto la sua testa, a mo' di cuscino, e l'altro ne approfittò, accoccolandosi contro di lui.
Le candele si spensero, una dopo l'altra, tranne quella votiva in bagno.
Saxton rabbrividì e Blay gli andò ancora più vicino, accigliandosi.
«Dio, come sei gelato.» Prendendolo tra le braccia, lo tenne stretto nel tentativo di scaldarlo col proprio corpo.
Rimasero sdraiati così per un tempo infinito... e Blay si ritrovò ad accarezzare quei capelli folti, biondi, perfetti. Era
bello toccarli... così morbidi ed elastici in punta.
Con un profumo speziato.
«Che sensazione divina», mormorò Saxton.
Blay chiuse gli occhi, inspirando a fondo. «Sono d'accordo.»
Capitolo 50
« Cosa diavolo ci fate qui, voi due?» sibilò Xhex abbassando il pugnale.
Trez la guardò come a dire Be'', ovvio, no? «Ci ha chiamato Rehv.»
Al fianco di suo fratello, iAm rimase zitto, come al solito; si limitò ad annuire incrociando le braccia sul petto, come
una quercia che aveva tutte le intenzioni di starsene piantata lì. Le due Ombre gemelle si stavano schermando,
rivelando voci e corpi soltanto a lei.
Per un attimo, Xhex rimpianse la loro discrezione. Difficile sferrare una ginocchiata nelle palle a quei due ficcanaso
quand'erano nella loro forma spettrale.
«Niente abbracci?» mormorò Trez, scrutandola in volto. «È passata una vita dall'ultima volta che ci siamo visti.»
Rispondendogli su una frequenza che umani e lesser non sarebbero stati in grado di sentire, Xhex mormorò, «Gli
abbracci non sono nel mio stile.»
Però poi, imprecando, strinse tra le braccia quei due zucconi. Le Ombre erano notoriamente riservate in fatto di
emozioni, e più difficili da penetrare degli umani e persino dei vampiri, ma Xhex avvertiva il loro dolore per ciò che
aveva passato.
Quando fece per scostarsi, Trez la strinse più forte, rabbrividendo. «Sono... Gesù Cristo, Xhex... credevamo che non ti
avremmo più rivista...»
Lei scosse la testa. «Basta. Per piacere. Non c'è mai un buon momento per certe cose, e questo di sicuro non è il luogo
adatto. Voglio bene a tutti e due, okay, e sono serena. Per cui non parliamone più.»
Be', "serena" per modo di dire. Finché non pensava a John,
che, bloccato in quella grande casa, di sicuro stava impazzendo. Grazie a lei.
Ah, incredibile come la storia si ripete.
«Okay, la smetto prima di scadere nel patetico.» Trez sorrise e le zanne brillarono candide nel volto nero come
l'ebano. «Siamo solo felici di vedere che stai bene.»
«Su questo non ci piove. Altrimenti non sarei qui.»
«Non ne sarei così sicuro», ribatté sottovoce lui, mentre insieme al fratello dava una sbirciata dalla finestra.
«Accipicchia. Qualcuno si è divertito, là dentro.»
Una brezza tesa spazzò il prato, portando con sé una nuova ventata di talco per neonati proveniente da un'altra
direzione; tutti e tre voltarono la testa.
Sul viottolo sterrato davanti alla fattoria passò un'auto che non c'entrava niente con i campi di granturco: una Honda
Civic identica a quella di Fast & Furious, che si era fatta dare una ritoccata in stile Playboy dal chirurgo plastico delle
automobili. Con la carrozzeria verniciata di grigio, rosa e giallo brucia-retina, un alettone posteriore a coda di balena
e uno spoiler anteriore rasoterra, sembrava una ragazza del Midwest scivolata nel porno.
E, sorpresa... il lesser al volante aveva un'espressione che non si accordava per niente con il bolide che stava
guidando. A meno che qualcuno non avesse appena pisciato nel serbatoio della benzina.
«Scommetto le mie calibro quaranta che quello è il nuovo Fore-lesser», disse Xhex. «Lash non lascerebbe mai guidare
una macchina del genere al suo vice. Ho passato quattro settimane con quello stronzo ed era tutto a sua immagine e
somiglianza.»
«Cambio al vertice.» Trez annuì. «Capita spesso, con quelli.»
«Dovete seguire quella macchina», disse lei. «Svelti, statele dietro...»
«Non possiamo mollarti. Ordini nel capo.»
«State scherzando?» Xhex guardò prima la Civic e poi la scena del crimine, poi di nuovo l'alettone a coda di balena
che si allontanava.
«Andate! Dobbiamo vedere dove va...»
«No. A meno che non voglia farlo tu... così la seguiremo insieme a te, giusto, iAm?»
Quando l'altra Ombra annuì, Xhex venne assalita dall'impulso di prendere a pugni il muro contro cui era appoggiata.
«Ma è ridicolo, cazzo.»
«Non direi proprio. Stai aspettando che Lash si faccia vivo e io so che non vuoi solo parlargli. Per cui non esiste che ti
lasciamo qui da sola... e risparmiami le stronzate del tipo "non sei mica il mio capo". Sono affetto da sordità
selettiva.»
A quel punto iAm prese la parola. «E la verità.»
Oh, per l'amor del cielo, pensò Xhex puntando lo sguardo sulla targa di quella ridicola Honda. D'altra parte, se le due
Ombre non fossero state lì, lei non si sarebbe mossa; avrebbe preso nota del numero di targa restando ferma dov'era.
Poteva sempre rintracciarla in seguito.
«Vedi di renderti utile», disse caustica. «E dammi il cellulare.»
«Ordina una pizza! Ho fame», scherzò Trez passandole il Black-Berry. «Sulla mia ci voglio una montagna di salsiccia.
Mio fratello, invece, la preferisce al formaggio.»
Xhex chiamò Rehv, selezionando il numero dalla rubrica perché era il modo più rapido per comunicare coi fratelli.
Quando scattò la casella vocale, lasciò la descrizione particolareggiata dell'auto e il numero di targa, chiedendo a
Vishous di rintracciarla.
Poi attaccò e restituì il telefonino a Trez.
«Niente Domino's, allora?» borbottò lui. «Fanno consegne a domicilio, sai?»
Xhex si accigliò, trattenendo un'imprecazione: aveva scordato che V le aveva dato un cellulare. Merda... non era
lucida come richiedeva una situazione come quella...
«Eccone un altro...» disse iAm.
Xhex spostò gli occhi sulla strada proprio mentre un'auto senza contrassegni si fermava davanti alla casa. Il detective
della Omicidi che smontò dalla macchina era uno che conosceva. José de la Cruz.
Almeno gli umani avevano mandato sul posto un ottimo professionista. Anche se forse non era una bella notizia. In
una situazione come quella, meno l'altra razza ci metteva lo zampino meglio era, e de la Cruz aveva il fiuto e la
tenacia di un segugio.
Accidenti... si preannunciava una luuuuuunga giornata del cavolo. Eh, già, una giornata molto, molto lunga.
Col fiato sul collo delle sue guardie del corpo e gli umani che gironzolavano a vuoto, Xhex cominciò a muovere la
mano destra, formando con le dita le curve e le linee che John le aveva insegnato.
A...
B...
C...
Lash fu svegliato da un gemito. E non del tipo erotico.
Ritrovarsi sdraiato a faccia in giù su un materasso spoglio in quel cesso di casa fu un'altra rottura di palle. La terza
mazzata fu che, quando finalmente si alzò, il suo corpo lasciò una macchia nera.
Una specie di ombra sul pavimento, un riflesso della realtà effettiva.
Cristo santissimo. Era come quel nazista alla fine dei Predatori dell'arca perduta, quello a cui si scioglieva la faccia...
un effetto speciale che, come spiegato negli extra del DVD, era stato ottenuto soffiando aria calda con un ventilatore
su uno strato di gelatina.
Non esattamente il ruolo che aspirava a interpretare nella vita reale.
Uscendo per andare in cucina gli sembrava di trascinare un frigorifero e, chi l'avrebbe mai detto, Plastic Fantastic non
se la passava molto meglio, sdraiata per terra vicino alla porta sul retro. L'aveva prosciugata fino a ridurla a una
specie di vegetale, ma non abbastanza da farla secca, rispedendola dall'Omega.
Bella seccatura. Essere per sempre a un passo dalla morte, con tutto quel dolore e senso di soffocamento, ma anche
con la certezza che la pace eterna dell'Aldilà non sarebbe mai arrivata. Bastava a farti venir voglia di suicidarti.
Risate preregistrate in sottofondo.
D'altro canto, però... lei non lo sapeva, non immaginava che quella sarebbe stata la sua condizione permanente. Forse
era meglio tenerglielo nascosto... sarebbe stata la sua buona azione quotidiana.
Lei riuscì in qualche modo a emettere un gemito patetico, invocando il suo aiuto, ma Lash la scavalcò per andare a
controllare la situazione provviste. Per risparmiare, tornando a casa aveva cenato da McDonald's. Era poco meglio del
cibo per cani, ma almeno era caldo, appena uscito dalla friggitrice.
Il tempo non aveva migliorato la metà di quello che non era riuscito a mandare giù a fine serata, ma lui mangiò
comunque gli avanzi rimasti. Freddi. In piedi, sopra il sacchetto spiegazzato sul piano della cucina.
«Ne vuoi un po'?» chiese alla donna. «Sì? No?»
Lei riuscì solo a supplicarlo con gli occhi iniettati di sangue e la bocca spalancata, bavosa. O... forse non era una
supplica. Sembrava inorridita... malgrado lo stato in cui si trovava quella poveraccia, lui aveva un aspetto talmente
ributtante da farle dimenticare per un attimo la sua agonia.
«Be', e allora, troia? Neanche vedere te mi stuzzica l'appetito, cosa credi?»
Voltandosi dall'altra parte, Lash guardò fuori dalla finestra la giornata di sole e gli venne voglia di mandare tutto
affanculo.
Non avrebbe voluto lasciare la fattoria, ma dormiva in piedi, tanto era distrutto dalla stanchezza... mica poteva
schiacciare un pisolino con tutti quei nemici lì in giro. Doveva scegliere tra una ritirata strategica in vista di un nuovo
attacco e un viaggio nel mondo dei sogni, col rischio di ritrovarsi in bocca la canna di una pistola. O peggio.
Ma almeno il sole era ancora alto nel cielo terso, il che per lui era una bella notizia, perché gli dava il tempo di cui
aveva bisogno. I fratelli non si sarebbero presentati, in una forma o nell'altra, prima che facesse buio, e che razza di
padrone di casa sarebbe stato se non fosse stato lì ad aspettarli?
La troietta leccaculo dell'Omega poteva anche aver dato inizio alla festa, ma sarebbe stato Lash a metterci il punto
finale.
Però gli servivano altre munizioni, e non per le armi.
Prese impermeabile e cappello, si infilò i guanti e scavalcò di nuovo la prostituta. Stava aprendo la porta, quando la
mano rinsecchita della donna scattò verso la sua scarpa, graffiando il cuoio con le dita insanguinate.
Lash la guardò. Non riusciva più a parlare, ma i suoi occhi sporgenti, cerchiati di rosso, dicevano tutto: Aiutami. Sto
morendo. Non posso uccidermi... fallo tu per me.
A quanto pareva aveva superato la ripulsa verso di lui. O forse il fatto che si era coperto aiutava.
In circostanze normali l'avrebbe lasciata lì com'era, ma non riusciva a scacciare il ricordo di quando si era staccato la
pelle della faccia. Stava agendo in base al presupposto che non sarebbe finito come un incubo in perenne
decomposizione, ma se inceve il suo destino fosse stato quello? Se avesse continuato a sciogliersi fino a non riuscire
più a sostenere il proprio scheletro e si fosse ritrovato nella stessa condizione di quella disgraziata... a soffrire in
eterno?
Sfilò un coltello dalla cintura e, quando le si avvicinò stringendolo in mano, lei non si ritrasse: rotolò sulla schiena
offrendogli la carne fresca del petto.
Bastò una pugnalata per porre fine al suo supplizio: con un lampo accecante la donna si dissolse nel nulla, lasciando
solo un cerchio bruciacchiato sul tappeto.
Lash si voltò per uscire...
Ma non fece in tempo a varcare la soglia che rimbalzò all'in-dietro, catapultato contro il muro in fondo, pervaso da un
impeto di forza, mentre delle strane lucine gli lampeggiavano davanti agli occhi.
All'inizio non riuscì a capire cosa diavolo stesse succedendo... ma poi gli fu chiaro: ciò che aveva dato alla prostituta
era tornato da lui.
Allora è così che funziona, pensò, inspirando a pieni polmoni e sentendosi un po' meno moribondo.
Tutto ciò che veniva pugnalato con un'arma d'acciaio era rispedito al mittente, per così dire.
A meno che non arrivasse prima l'arma segreta della confraternita. Butch O'Neal era il tallone d'Achille dell'Omega,
l'unico che, assorbendo dentro di sé l'essenza malefica che animava ogni lesser, era in grado di impedire quel
ricongiungimento.
Avendo appena beneficiato di quella sferzata di energia, adesso Lash comprendeva appieno la minaccia
rappresentata da O'Neal. Se non riuscivi a recuperare tutti i mattoncini del tuo LEGO, alla fine non potevi più
costruire granché... o, peggio, la tua cesta dei giocattoli si svuotava... e poi? Cosa succedeva? Scomparivi?
Già, evitare quel bastardo di Butch era importante. Buono a sapersi.
Lash andò in garage, montò sulla Mercedes e partì, non per andare in quella fattoria a casa del diavolo, ma verso i
grattacieli del centro.
Essendo passate da poco le undici e mezzo del mattino c'era gente dappertutto: completi, cravatte e scarpe eleganti si
fermavano agli incroci in attesa del verde e poi attraversavano la strada proprio davanti ai radiatori delle auto. Che
presuntuosi tutti quegli umani che camminavano trafelati, lo sguardo dritto davanti a sé, come se non esistesse altro
che la riunione, il pranzo o la commissione a tempo perso verso cui stavano correndo. Si credevano così superiori.
Gli veniva voglia di pigiare sull'acceleratore, trasformandoli in tanti birilli del bowling, ma aveva già abbastanza di
cui preoccuparsi e cose migliori con cui impiegare il tempo. La sua meta? Trade Street, il fulcro dei bar e dei locali
notturni. Che, a differenza del distretto degli affari, a quell'ora del giorno sarebbe stata deserta.
Quando tagliò in direzione del fiume, apparve chiaro che le due diverse parti della città funzionavano come lo yin e
lo yang, quanto a follie e apparenze. Al sole, gli alti edifici finanziari, con le loro vetrate e strutture d'acciaio, si
stagliavano scintillanti. La terra dei vicoli bui e delle insegne al neon, invece, sembrava una vecchia battona dopo
una lunga scopata: sporca, sciatta e triste.
E la gente? Il primo quartiere brulicava di individui produttivi, risoluti e volenterosi; il secondo, invece, era già
fortunato se riusciva a mettere insieme più di un paio di barboni, a quell'ora.
Che era precisamente ciò su cui contava lui.
Puntando verso i ponti gemelli di Caldwell, passò davanti a un terreno vuoto delimitato da una rete metallica e
rallentò leggermente. Cristo... lì sorgeva lo Zero Sum, prima di essere ridotto a un cumulo di macerie. Sul cartello
dell'agenzia immobiliare avevano attaccato un adesivo con scritto IN TRATTATIVA.
Eh, già, così è la vita. Lo schifo, come la natura, aborre il vuoto... per cui, se il nuovo club in costruzione su quel lotto
avesse fatto una fine inattesa analoga a quella toccata al locale di Rehv, un altro avrebbe preso il suo posto altrettanto
in fretta.
Un po' come era successo con suo padre. In un batter d'occhio, Lash era stato rimpiazzato da qualcuno che gli andava
a genio, per così dire.
Roba da sentirsi terribilmente superflui, altro che scherzi.
Sotto ai ponti non ci mise molto a trovare quello che cercava, ma di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Le sue
ricerche portarono subito a galla gli umani cenciosi che dormivano dentro cartoni o auto carbonizzate. Quant'erano
simili ai cani randagi: attirati dalla speranza di un po' di cibo, sospettosi per esperienza, minati dalle malattie.
Anche il parallelismo con la scabbia funzionava.
Non era difficile da accontentare, e neanche loro. Nel giro di pochi minuti, sul sedile accanto a lui sedeva una donna
che non la smetteva di fare ooh e ahh non per i sedili di pelle della AMG, ma per il sacchetto di coca che le diede.
Mentre lei ne prendeva un po' col mignolo, aspirandola come neanche un aspirapolvere, Lash guidò fino a una grotta
buia formata dalle massicce fondamenta di calcestruzzo del ponte.
La poveretta non andò oltre la prima sniffata.
Lash le fu addosso in un baleno e, vuoi per il suo bisogno di nutrirsi, vuoi per la debolezza fisica della senzatetto,
riuscì a sottometterla completamente mentre beveva dalla sua vena.
Il suo sangue aveva il sapore dell'acqua sporca con cui si sono lavati i piatti.
Finito di succhiare, scese, girò intorno alla macchina e la tirò fuori per il colletto. Se prima era pallida, adesso era
grigia come il cemento.
Sarebbe morta presto, se già non lo era.
Lash si soffermò un attimo a guardarla in faccia, esaminando le profonde rughe della pelle e i capillari rotti che le
conferivano un rossore malsano. Un tempo era una neonata. Anni prima era venuta al mondo nuova, fresca, intatta.
Il tempo e l'esperienza avevano infierito su di lei, e adesso sarebbe morta come un animale, sola e in mezzo alla
sporcizia.
Dopo averla scaricata, fece per chiuderle gli occhi...
Gesù... Cristo.
Alzò la mano e attraverso il palmo vide il fiume.
Non era più carne marcescente, ma un'ombra scura... nella forma di ciò con cui un tempo scriveva, faceva a pugni e
guidava.
Tirando su la manica dell'impermeabile, vide che il polso era ancora corporeo.
Si sentì rinvigorito da un'ondata di energia, la perdita della pelle non era più motivo di cordoglio, ma fonte di gioia.
Come il padre... così il figlio...
Non sarebbe finito come la puttana che aveva pugnalato, riportandola dentro di sé. Stava diventando come l'Omega,
non era in via di putrefazione... ma di trasformazione.
Scoppiò a ridere. Grasse risate di soddisfazione, filtrate dal petto, salivano gorgogliando in gola e uscivano dalla
bocca. Cadde in ginocchio vicino alla barbona morta, lasciando che il sollievo...
All'improvviso si rovesciò su un fianco, rigettando il sangue marcio che aveva bevuto. Quando i conati si placarono,
si pulì il mento con la mano e guardò il rosso lucido che copriva il contorno spettrale di quella che un tempo era stata
carne.
Non ebbe il tempo di ammirare la sua nuova forma nascente.
Scosso da un conato di vomito violentissimo, venne accecato dalle stelle che gli esplodevano negli occhi.
Capitolo 51
Seduta nei suoi appartamenti privati, Payne guardava il paesaggio dell'Altra Parte. L'erba verde punteggiata da
tulipani e caprifogli arrivava solo fino a un certo punto, prima di essere interrotta da un anello di alberi che
circondavano il prato ondulato. Sopra a tutto ciò, un arco di cielo lattiginoso si stendeva tra le frondose chiome degli
alberi, come il coperchio di un baule-armadio.
Per esperienza personale, sapeva che se camminava fino al limitare della foresta e si sarebbe addentrata nel folto
degli alberi e finita con lo sbucare... nel punto esatto da cui era partita.
Non c'era via d'uscita, tranne che col permesso della Vergine Scriba. Lei sola aveva la chiave della serratura invisibile
e non avrebbe lasciato andare Payne... neppure alla casa del Primale di là, sulla Terra, come le altre erano autorizzate
a fare.
A riprova del fatto che sapeva bene chi aveva generato. Era ben consapevole che, una volta libera, Payne non sarebbe
mai tornata. L'aveva dichiarato la stessa Payne... urlando fin quasi a spaccarsi i timpani.
Ripensandoci, quella sfuriata era stata una vittoria in termini di onestà, ma non certo la migliore delle strategie.
Avrebbe fatto meglio a tenerlo per sé, così forse avrebbe ottenuto il permesso di andare di là, sulla Terra.... per poi
restarci. In fin dei conti, sua madre non poteva costringerla a tornare nel regno delle statue viventi.
Be', almeno in teoria.
Ripensò a Layla, reduce dall'incontro col suo vampiro. La sorella era raggiante di una felicità e di una soddisfazione
che Payne non aveva mai provato.
Il che giustificava l'impellenza di andare via da lì, no? Anche se
ciò che l'attendeva di là, sulla Terra, non risvegliava in lei alcun ricordo della sua breve fetta di libertà, almeno
avrebbe potuto compiere da sola le sue scelte.
Era invero una strana maledizione essere nata eppure non avere una vita da vivere. A meno di uccidere sua madre, lei
era costretta lì, al santuario e, per quanto odiasse la Vergine Scriba, non avrebbe imboccato quella strada. Tanto per
cominciare, non era sicura di poter vincere in un conflitto con lei, e poi... si era già sbarazzata di suo padre. Il
matricidio era un'esperienza che non esercitava su di lei nessun fascino nuovo o particolare.
Ah, il passato, il doloroso, infausto passato. Che sventura essere confinata lì con un futuro infinito e scialbo, oppressa
dal fardello di una storia troppo spaventosa da contemplare. Lo stato di morte apparente in cui era rimasta tanto a
lungo sospesa era un dono misericordioso, a confronto della tortura presente... almeno, in quella sorta di ibernazione,
la sua mente non era in grado di vagare, indugiando su cose che avrebbe preferito non accadessero e cose che non
sarebbe mai riuscita a compiere...
«Gradisci qualcosa da mangiare?»
Payne si voltò a guardare da sopra la spalla. Sulla soglia ad arco della stanza c'era No'One, piegata in un inchino, con
un vassoio in mano.
«Oh, sì, grazie», disse Payne scacciando quelle meste riflessioni. «Non vuoi farmi compagnia?»
«Ti ringrazio infinitamente, ma ti servirò e poi me ne andrò.» La cameriera posò le vivande sul sedile incastonato
nella finestra accanto a Payne. «Quando tu e il re vi affronterete nella lotta, tornerò a prendere...»
«Posso chiederti una cosa?»
No'One si inchinò di nuovo. «Certamente. In cosa posso servirti?»
«Perché non sei mai andata di là, sulla Terra, come le altre?»
Seguì un lungo silenzio... poi No'One si avvicinò zoppicando al modesto giaciglio su cui dormiva Payne. Con mani
tremanti, lisciò e sistemò le lenzuola con cura.
«Non nutro un interesse particolare per quel mondo», rispose da sotto il cappuccio. «Qui sono al sicuro. Là... non
sarei al sicuro.»
«Il Primale è un fratello forte e abile nel maneggiare il pugnale. Non ti accadrebbe nulla di male sotto la sua
custodia.»
La risposta che uscì da sotto il cappuccio fu vaga ed evasiva. «Sulla terra le circostanze possono volgere
improvvisamente al caos e al conflitto. Semplici decisioni generano conseguenze che possono rivelarsi sconvolgenti.
Qui tutto è in ordine.»
Parlava come una superstite dell'incursione che aveva avuto luogo al santuario settantacinque anni prima, pensò
Payne. In quella terribile circostanza, alcuni vampiri giunti dalla Terra avevano oltrepassato la barriera recando con
sé la violenza che sovente si manifestava nel loro mondo.
In molti erano morti o erano rimasti feriti... compreso il Primale dell'epoca.
Payne tornò a volgere lo sguardo sull'orizzonte incantevole e statico del santuario... d'un tratto comprese le ragioni di
No'One, e tuttavia non ne fu conquistata. «L'ordine che regna qui è precisamente ciò che suscita la mia irritazione. Io
aspiro a evitare questo genere di falsità.»
«Non puoi andare via quando lo desideri?»
«No.»
«Non è giusto.»
Payne volse di scatto gli occhi verso la cameriera, ora indaffarata a ripiegare i suoi abiti. «Non mi sarei mai aspettata
di sentirti dire qualcosa contro la Vergine Scriba.»
«Io amo la santissima madre della razza, ti prego di non fraintendermi. Ma essere imprigionati, seppure nel lusso, è
un'ingiustizia. Io ho scelto di vivere qui e ci resterò per sempre... tu, invece, dovresti essere libera di andare.»
«Devo ammettere che ti invidio.»
No'One parve sobbalzare sotto la lunga veste. «Non devi. Mai.»
«Hai ragione.»
Nel silenzio che seguì, Payne rammentò la sua conversazione con Layla, accanto alla vasca dei riflessi. Stesso scambio
di battute, diversa conclusione: allora era stata Layla a invidiare la mancanza di desiderio di Payne in relazione al
sesso e ai maschi. Ora, invece, era il modo in cui No'One si accontentava dell'inerzia ad apparire invidiabile.
Gira la ruota, gira, pensò Payne.
Voltandosi di nuovo verso il "panorama", guardò la distesa erbosa con occhi ostili. Ogni filo d'erba era perfetto e
dell'altezza giusta, tanto che, più che un prato era un tappeto. Un risultato che non si otteneva tosandolo,
naturalmente. E proprio come i tulipani, nelle aiole i fiori si ergevano eternamente sugli steli sottili, i crochi si
schiudevano in permanenza e le rose erano sempre rigogliose di petali, non c'erano parassiti, erbacce o malattie.
Né crescita.
Buffo, all'apparenza sembrava tutto coltivato e invece non era curato da nessuno. Dopo tutto, che bisogno c'era di un
giardiniere quando esisteva una divinità in grado di progettare tutto al meglio... e di mantenerlo così in eterno?
Per certi versi questo faceva di No'One un miracolo: era miracoloso che le avessero consentito di vivere lì e di
respirare la nonaria del santuario, pur non essendo perfetta.
«Io non voglio questo», disse Payne. «Veramente, non lo voglio.»
In assenza di commenti si voltò a guardare... e si accigliò. No'One se n'era andata proprio come era arrivata, senza il
minimo rumore, lasciando l'ambiente migliore grazie al suo tocco attento.
Sentendo montare un grido dentro di sé, Payne capì che doveva ottenere la libertà. O sarebbe impazzita.
Nella campagna fuori Caldwell, Xhex finalmente ebbe la possibilità di entrare nella fattoria, quando, alle cinque del
pomeriggio, la polizia se ne andò. Uscendo, gli sbirri sembravano pronti per una settimana di vacanza più che per
una serata di libertà... sguazzare per ore in un lago di sangue sempre più rappreso farebbe questo effetto a chiunque.
Chiusero tutto a chiave, apposero i sigilli alla porta davanti e a quella di dietro e delimitarono il cortile col nastro
giallo usato sulle scene del crimine. Poi montarono in macchina e partirono.
«Entriamo», disse Xhex alle Ombre.
Smaterializzandosi, riprese forma proprio al centro del salotto insieme a Trez e iAm. Senza bisogno di parlare, i tre si
sparpagliarono, spostandosi con cautela in mezzo a quel macello in cerca di cose ignote agli umani.
Dopo venti minuti di avanti e indietro tra quello schifo appiccicoso al pianterreno e la polvere al primo piano, non
avevano cavato un ragno dal buco.
Maledizione, Xhex percepiva i corpi e le griglie emotive segnate dalla sofferenza, ma erano come riflessi sull'acqua....
non riusciva ad afferrare le forme all'origine di quelle immagini sfuggenti.
«Hai già sentito Rehv?» chiese, alzando un anfibio per vedere fin dove arrivava il sangue. Fino alla tomaia.
Fantastico.
Trez scosse la testa. «No, ma posso richiamare.»
«Non importa. Sarà preso.» Merda, sperava che Rehv avesse ricevuto il suo messaggio e si fosse già messo a caccia di
quella targa.
Ferma nell'ingresso, fece scorrere lo sguardo sul tinello, focalizzandosi sul tavolo tutto bucherellato che chiaramente
era servilo da tagliere.
L'amichetto dell'Omega col macchinone alla Vin Diesel prima o poi doveva tornare indietro per recuperare le nuove
reclute. Così nascoste erano inutilizzabili, perché, ammesso che la loro prigionia funzionasse come la sua con Lash,
non potevano uscire dalla dimensione parallela in cui erano state relegate finché qualcuno non veniva a liberarle.
A meno che non fosse possibile rompere l'incantesimo da lon tano.
«Dobbiamo fermarci ancora un po'», disse. «Per vedere chi al tri arriva.»
Si piazzarono in cucina, girando per la stanza e lasciando orme
fresche e insanguinate sul linoleum pieno di tagli... orme che di sicuro avrebbero mandato in tilt tutti quei poveri
poliziotti.
Amen, si disse Xhex.
Non era un suo problema.
Controllò l'orologio alla parete. Contò i barilotti vuoti, le bottiglie di superalcolici e le lattine di birra. Guardò i
mozziconi di spinello e i residui simili a talco delle piste di coca.
Ricontrollò l'orologio.
Fuori, il sole sembrava aver interrotto la sua discesa, come se il disco dorato temesse di rimanere infilzato nei rami
degli alberi.
In quella pausa forzata della sua caccia, non aveva altro a cui pensare se non John. Adesso di sicuro stava sbattendo la
testa contro il muro, frustrato e demoralizzato, assorto in pensieri che difficilmente sono consigliabili a chi sta per
affrontare il nemico: sarebbe stato incazzato nero con lei, distratto, su di giri nel modo sbagliato.
Ma mica poteva chiamarlo e parlarci. Lui non poteva risponderle.
E quello che lei aveva da dirgli non è il genere di cosa che si può scrivere in un SMS.
«Cosa c'è?» chiese Trez, vedendo che friggeva.
«Niente. Sono pronta a combattere, ma mi manca il bersaglio, tutto qua.»
«Palle.»
«Le chiacchiere stanno a zero, grazie.»
Dieci minuti dopo stava ancora fissando l'orologio alla parete. Oh, per l'amor del cielo, non ce la faceva più.
«Torno al quartier generale della confraternita per una mezz'ora», disse di slancio. «Voi due state qui, per piacere.
Chiamatemi sul cellulare se si fa vivo qualcuno.»
Diede loro il numero e loro ebbero la decenza di non farle domande... d'altronde, le Ombre sono come i symphath
sotto questo aspetto: tendono a sapere cosa frulla in testa alla gente.
«Ricevuto», disse Trez. «Ti diamo uno squillo appena succede qualcosa.»
Xhex si materializzò davanti alla base della confraternita e attraversò la distesa di ghiaia fino ai gradini grandi come
quelli di una basilica. Entrata nel vestibolo, mostrò il viso alla telecamera di sorveglianza.
Un istante dopo Fritz aprì il portone con un profondo inchino. «Bentornata a casa, signora.»
La parola "casa" la fece sobbalzare. «Ehm... grazie», fece, lanciando un'occhiata alle stanze deserte oltre l'atrio. «Salgo
un attimo di sopra.»
«Le ho preparato la stanza che occupava prima.»
«Grazie.» Ma non era lì che era diretta.
Attratta dal sangue di John, corse su per lo scalone puntando verso la sua stanza.
Bussò e attese; non ottenendo risposta, socchiuse la porta sulla camera immersa nell'oscurità e udì lo scroscio ovattato
della doccia. Una striscia di luce obliqua sul tappeto orientale indicava che John aveva chiuso la porta del bagno.
Attraversando la stanza, Xhex si tolse il giubbotto di pelle e lo lasciò sullo schienale di una poltrona. Bussò di nuovo
alla porta del bagno. Senza esitazione. Energicamente.
La porta si aprì da sola, rivelando la nuvola di vapore e la luce soffusa dei faretti incassati sopra la Jacuzzi.
Dietro il vetro del box doccia, John le stava di fronte; l'acqua gli scorreva sul petto, sugli addominali scolpiti e sulle
cosce. Il pene si drizzò in una vistosa erezione non appena i loro sguardi si incrociarono, ma lui non si mosse e non
parve lieto di vederla.
Tutt'altro. Il labbro superiore si ritrasse in un ringhio, e non fu la cosa peggiore. La sua griglia emotiva era
ermeticamente chiusa. La stava bloccando, tagliando fuori, e non era neanche sicura che ne fosse consapevole: non
riusciva a centrare più niente di ciò che prima aveva sempre colto con estrema chiarezza.
Xhex alzò la mano destra e goffamente disse, nella lingua dei segni, Sono tornata.
Lui aggrottò leggermente la fronte. Poi, con padronanza e velocità molto maggiori, mosse le dita per dire: Con
informazioni per Wrath e i fratelli, giusto? Ti senti un'eroina? Complimenti.
Chiuse il rubinetto, uscì dalla doccia e prese una salvietta. Senza
coprirsi cominciò ad asciugarsi, ed era difficile non notare l'erezione che ballonzolava a ogni movimento.
Xhex non avrebbe mai pensato di ritrovarsi a maledire la sua visione periferica.
«Non ho parlato con nessuno», disse.
A quelle parole, John si fermò con l'asciugamano teso sulla schiena, un braccio piegato in alto e l'altro in basso.
Naturalmente quella posa gonfiava i pettorali e tendeva i muscoli sopra il bacino, dando loro il massimo risalto.
Lasciando andare di colpo l'asciugamano, se lo stese sulle spalle. Perché sei venuta qui?
«Volevo vederti.» U dolore nella propria voce le fece rimpiangere di non aver usato la lingua dei segni.
Perché?
«Ero in pensiero...»
Vuoi vedere come me la cavo? Vuoi sapere com'è stato passare le ultime sette ore chiedendomi se eri morta o...
«John...»
Lui afferrò l'asciugamano e lo fece schioccare a mezz'aria, come una frusta, per zittirla. Vuoi sapere come ho affrontato
l'idea che
fossi morta, che stessi combattendo da sola o, peggio, che fossi tornata dov'eri prima? Il tuo lato symphath ha bisogno
di un piccolo diversivo, così, per gioco?
«Dio, no...»
Sei sicura? Non hai i cilici. Forse sei tornata qui solo per soddisfare quel bisogno...
Xhex si voltò di scatto per uscire, sopraffatta dalle emozioni, soffocata dal senso di colpa e dalla tristezza.
John l'afferrò per un braccio e tutti e due finirono contro il muro; tenendola ferma col corpo, lui continuò a muovere
le mani vicino alle loro facce.
Eh, no, cazzo, non puoi scappare. Dopo quello che mi hai fatto passare non puoi scappare via solo perché non te la senti
di affrontare il casino che hai messo in piedi. Io non ho potuto scappare da questa giornata. Mi è toccato stare chiuso
qui, e adesso puoi anche ricambiare il favore. Lei voleva distogliere lo sguardo, ma così non avrebbe più potuto
seguire quello che John stava dicendo con le mani. Vuoi sapere come mi sento? Determinato, cazzo, ecco come mi
sento. Noi due stasera siamo a un punto di svolta. Tu dici che hai il diritto di dare la caccia a Lash? Be', anch'io.
Quello spogliatoio nelle docce, pensò Xhex. Il tradimento di cui non conosceva i particolari, ma che - lo sentiva c'entrava con quello che John aveva subito quand'era più giovane, solo e indifeso.
Ecco la mia proposta, e non è negoziabile. Lavoriamo insieme per trovarlo, prenderlo e ucciderlo. Lavoriamo come una
squadra, il che significa che dove va uno, va anche l'altro. E, alla fine, chi dei due riesce a beccarlo avrà l'onore di farlo
fuori. Ci stai?
Xhex fece un sospiro di sollievo: quella era la risposta giusta, ne fu subito certa. Stare in quella fattoria senza di lui
non le era piaciuto. Le era parso sbagliato.
«Affare fatto», disse.
Il volto di lui non mostrò traccia di sorpresa né soddisfazione... se gli avesse detto di no, John progettava di compiere
un gesto folle o disperato, sospettò Xhex.
Ma poi capì perché era così calmo.
Dopo, ce ne andremo ciascuno per la propria strada. È finita.
Xhex sentì il sangue defluire dalla testa e, d'un tratto, mani e piedi persero sensibilità. Che era una stupidaggine. Ciò
che John le stava proponendo era l'accordo migliore e la soluzione migliore: due guerrieri che collaborano e, una
volta raggiunto l'obiettivo, non hanno più motivo di restare legati.
In realtà, era proprio così che lei aveva immaginato il suo futuro, appena uscita dall'incubo con Lash: ammazzare
quel bastardo e poi porre fine a quel fiasco di vita.
Ma c'era un guaio: i piani, allora così chiari, adesso apparivano confusi, l'itinerario tracciato nella sua mente appena
si era liberata, era oscurato da cose che non c'entravano niente con ciò che aveva in testa, ma c'entravano solo col maschio nudo
che le stava addosso.
«Okay», disse con voce strozzata. «Va bene.»
Stavolta John ebbe una reazione: si rilassò contro di lei e piantò le mani sul muro, ai lati della sua testa. I loro occhi si
incontrarono e Xhex venne pervasa da una vampata di calore.
Dio, la disperazione era come benzina sul fuoco, per lei, quando c'era di mezzo John Matthew... e, da come strusciava
l'inguine contro di lei, lo stesso valeva per lui.
Xhex lo afferrò per il collo. Non fu delicata - e neanche lui -quando lo tirò giù, verso la bocca, premendo con forza le
labbra sulle sue; le lingue, più che incontrarsi, ingaggiarono un duello. All'improvviso sentì un rumore di stoffa
lacerata e si accorse che John le aveva afferrato la canotta strappandola a metà, sul davanti. ..
I seni si ersero contro il petto nudo di lui, i capezzoli sfregavano contro la pelle, il suo sesso smaniava per lui. Al
diavolo la disperazione; il bisogno di sentirlo dentro di sé era più potente, il senso di vuoto, senza di lui, era un
supplizio.
Una frazione di secondo dopo, i suoi calzoni erano per terra.
Con un saltello, gli cinse la vita con le cosce. Abbassò la mano, posizionando il pene contro la vulva e premendo con
forza i talloni contro il suo sedere per avviare la penetrazione. Il membro affondò dentro di lei, che lo accolse
completamente; la spinta, sciolta e sicura, bastò a farla venire, in un orgasmo travolgente.
Cavalcando il proprio piacere, sentì allungarsi le zanne; John smise di baciarla per piegare la testa di lato, scoprendo
la giugulare.
II morso fu dolce. La forza derivante da lui, istantanea.
Xhex bevve avidamente, mentre lui martellava dentro lei, scaraventandola di nuovo giù da quel precipizio,
spingendola verso una folle discesa che, chissà come, non si concluse in un atterraggio violento... e lui la seguì in
quel magnifico balzo senza paracadute, fremendo dentro di lei in preda all'orgasmo.
Dopo una pausa brevissima... John ricominciò a pompare...
No, la stava portando verso il letto, nella stanza buia, entrando e uscendo da lei al ritmo dei suoi passi.
Xhex archiviò ogni sensazione, custodendola in fondo alla mente, rendendo infinito ed eterno quell'attimo grazie alla
forza della memoria. E quando John le montò sopra, fece ciò che lui aveva fatto per lei: offrendogli la vena, si
assicurò che fossero la squadra più potente al mondo.
Partner.
Ma non per sempre.
Capitolo 52
Mentre faceva l'amore con Xhex, John tornò per un attimo col pensiero al momento in cui, in bagno, aveva atteso che
lei approvasse il loro accordo.
Aveva ostentato sicurezza, per la serie "sono io a dettar legge", certo, ma in realtà non aveva nessuna autorità, nessun
potere di influenzarla: Xhex era libera di accettare oppure no, e, se rifiutava, lui non poteva farci niente. Morale della
favola? Non aveva in mano nulla su cui far leva: nessuna potenziale minaccia, nessun ricatto, niente "se le cose
stanno così allora cosà".
Di questo si era reso conto, seduto sul divano della sala del biliardo, fingendo di guardare la televisione insieme a
Tohr. Per tutto il giorno aveva sentito nella testa la voce di Rehvenge come un disco rotto.
Questo per lei è il finale di partita e vuole giocarselo da sola, senza nessuno tra i piedi.
John non era uno sciocco, e non voleva più farsi paralizzare dai sentimenti che provava per lei. Loro due avevano una
missione da compiere e avevano più probabilità di portarla a termine se lavoravano insieme. In fin dei conti non era
un lesser qualunque, quello a cui stavano dando la caccia.
E poi la loro storia era scritta nella lingua della collisione: non facevano che scontrarsi e rimbalzare lontani... solo per
ritrovarsi coinvolti in un altro impatto. Xhex era il suo pyrocant, e lui non poteva far niente per cambiare quel dato di
fatto, però poteva tagliare la fune di quel bungee jumping che lo stava torturando.
Dio, quanto avrebbe voluto che quel suo tatuaggio non fosse permanente. Meno male che, essendo sulla schiena, non
era costretto a guardarlo.
Pace amen. Avrebbero catturato Lash e poi le loro strade si sarebbero divise. E fino ad allora? Be'...
John lasciò andare i pensieri alla deriva, riconnettendosi col sesso e col gusto intenso del sangue di Xhex. Ancora una
volta colse vagamente l'odore che saliva dalla sua stessa pelle, tipico dei vampiri innamorati, ma tagliò fuori quella
realtà. Non aveva intenzione di lasciarsi confondere da quell'intenso aroma speziato. Neanche un minuto di più.
I vampiri innamorati sono dei poveri invalidi senza le loro femmine, verissimo... e un'enorme parte di lui sarebbe
appartenuta per sempre a Xhex. Ma lui voleva continuare a vivere, maledizione. Era un sopravvissuto.
Muovendosi dentro la morsa di Xhex, il membro una verga solida e potente, ben presto venne travolto da un altro
orgasmo che poi si trasmise anche a lei. Staccò la bocca dalla sua vena, leccò i segni del morso e poi si attaccò a uno
dei seni. Spostando la gamba, le allargò ancora di più le cosce, rovesciandosi sulla schiena in modo da stare sotto di
lei.
Xhex gli diede il cambio, poggiando le mani sulle sue spalle, dimenando i fianchi alla base della spina dorsale,
contraendo e rilassando l'addome sodo mentre lo cavalcava. Con un'imprecazione muta, lui si aggrappò alle sue
cosce, stringendo con forza; sentiva i muscoli di lei guizzare sotto la sua presa, ma non si fermò lì. Fece scorrere le
mani più su, fino alla giuntura tra le gambe e il tronco, attratto dal punto in cui il loro corpi si univano.
Infilò il pollice dentro quel cuore carnale e, trovata la sommità del suo sesso, cominciò a sfregarla in senso circolare...
Alla debole luce che filtrava dal bagno, guardò Xhex inarcarsi all'indietro, le zanne affondate nel labbro inferiore per
lo sforzo di non urlare. Voleva dirle di liberare quel grido, ma non ebbe il tempo di commiserare la sua discrezione...
venne con violenza, strizzando le palpebre con forza, scosso dagli spasmi, sotto di lei.
Riprendendo fiato, sentì che Xhex si fermava per respirare a fondo... prima di cambiare posizione.
Quando aprì gli occhi, fu lì lì per venire di nuovo. Xhex si era spostata indietro e adesso era appoggiata alle sue
gambe, in equilibrio sugli stinchi. Con i piedi sollevati sui suoi fianchi, gli offriva uno spettacolo sconvolgente... e
questo prima di cominciare a muoversi. La vista del pene che emergeva, turgido e lucido, dalle pieghe della vulva,
esposto in tutta la sua lunghezza fino al glande, gli regalò un altro orgasmo.
Lei non si fermò.
Lui non voleva che si fermasse.
Voleva guardare ancora da vicino i loro sessi, voleva vedere i suoi capezzoli, il modo il cui lei abbassava il mento e la
forza fluida del suo corpo che lo montava con vigore. Voleva restare prigioniero dentro di lei... per sempre.
Ma era quello il suo problema con lei, e doveva finire lì, subito.
Vennero insieme, con le mani di lui strette sui fianchi snelli di lei e la bocca di lei spalancata per liberare il suo nome
dal fondo della gola.
Dopo, solo respiri ansanti e aria gelida.
Con agilità, lei si districò passandogli una gamba sopra la testa e atterrando sul pavimento accanto al letto, senza il
minimo rumore.
Poi lo guardò da sopra la spalla e la sua spina dorsale si torse in una curva elegante. «Posso usare la tua doccia?»
Quando lui annuì, Xhex si avviò verso il bagno con passi lunghi e sicuri... e malgrado tutto il sesso che avevano
appena fatto, John provò l'impulso prepotente di prenderla da dietro.
Un attimo dopo sentì scorrere l'acqua... poi la voce di lei. «La polizia degli umani ha trovato la scena del crimine.»
Questo lo spinse a scendere dal letto, ansioso di ottenere maggiori informazioni. Quando entrò in bagno, lei si voltò
sotto la doccia, inarcando la schiena per sciacquare via lo shampoo dai capelli.
«Il posto brulicava di sbirri, ma i nuovi iniziati erano nascosti come era toccato a me... gli umani hanno visto solo un
mare di sangue, abbastanza per dipingere di rosso un'intera casa. Nessuna traccia di Lash, ma a un certo punto è
passata una di quelle macchine per le corse clandestine su strada, con al volante uno che puzzava di fragole. Ho
telefonato a Rhev, lasciandogli il numero di targa da passare a Vishous. Appena uscirò di qui andrò a fare rapporto
da Wrath.»
Quando lo guardò, John disse, Torniamo lì appena fa buio.
«Assolutamente.»
Qhuinn si svegliò da solo, avendo rispedito Layla dall'Altra Parte dopo aver fatto qualche altra cosetta insieme a lei.
La sua intenzione era di mandarla via subito, ma l'aveva abbracciata per salutarla e poi, si sa, da cosa nasce cosa...
Lei era ancora vergine, comunque.
Non più del tutto inviolata, ma decisamente ancora vergine... A quanto pareva, al mondo c'erano due persone con cui
non poteva fare sesso. Se andava avanti così, avrebbe finito col fare voto di castità.
Si rizzò a sedere sul letto; gli scoppiava la testa, prova inconfutabile che l'Herradura è un avversario di valore.
Stropicciandosi la faccia, ripensò a quando aveva baciato l'Eletta. Le aveva insegnato a farlo come si deve, le aveva
spiegato come sue-chiare e sfiorare, come aprire la strada alla lingua altrui, come penetrare una bocca quando ne
aveva voglia. E lei imparava in fretta.
Eppure non era stato difficile evitare che le cose gli sfuggissero di mano.
Ciò che aveva soffocato sul nascere l'impulso di spingersi fino in fondo era il modo in cui lei lo guardava. Quando
aveva imboccato l'autostrada di quella "sex-plorazione" per illustrarle i segreti del sesso, credeva che, dopo tutta la
formazione teorica ricevuta al Santuario, Layla volesse solo un corso pratico. Ma da parte dell'Eletta c'era stato subito
molto di più. Avevano cominciato a brillarle gli occhi nel modo tipico degli innamorati, come se lui fosse la chiave
per la porta che la teneva chiusa in se stessa, come se lui soltanto avesse il potere di liberarla.
Come se lui fosse il suo futuro.
Piuttosto paradossale, perché, sulla carta, lei era la sua femmina ideale. Avrebbe potuto addirittura risolvere per
sempre il suo problema di trovare una compagna.
Peccato che il suo cuore non fosse d'accordo.
Per cui, no, non poteva assumersi la responsabilità di realizzare le speranze e i sogni di Layla, non esisteva proprio. E
non sarebbe andato fino in fondo, con lei, non c'era pericolo. Layla si stava già lasciando sedurre da una fantasia, da
un'immagine di lui che non corrispondeva alla realtà... se faceva davvero l'amore con lei, le cose potevano solo
peggiorare: quando si è inesperti è facile fraintendere e scambiare il trasporto fisico per qualcosa di più profondo e
più importante.
È un'illusione che può trarre in inganno anche persone di esperienza.
Come quella tipa al negozio di tatuaggi, per esempio, che gli aveva passato di nascosto il numero di telefono. A lui
non interessava minimamente chiamarla prima, durante o dopo. Non ricordava nemmeno il suo nome... e quel vuoto
di memoria non lo turbava neanche un po'. Qualunque donna pronta a scoparsi uno sconosciuto in un luogo
pubblico e in presenza di altri tre maschi non era una con cui aspirasse ad avviare una relazione.
Era crudele? Sì. Aveva una doppia morale? Usava due pesi e due misure? Assolutamente no: non aveva rispetto
neanche per se stesso, non è che giudicasse con meno disgusto i suoi principi vergognosi e discutibili.
E poi Layla ignorava cosa aveva fatto con le umane subito dopo la transizione... tutto il sesso nei bagni, nei vicoli e
negli angoli bui dei club, tutte quelle porcate grazie alle quali adesso lui sa peva esattamente cosa fare col corpo di
lei.
Con qualunque corpo. Maschile o femminile.
Merda. Questo lo fece pensare a Blay, a come aveva passato la giornata.
Qhuinn armeggiò col telefonino. Richiamando l'SMS che Blay gli aveva inviato da quel numero sconosciuto, lo lesse,
rilesse e rilesse un'altra volta.
Doveva essere partito dal cellulare di Saxton.
Digitato sul suo letto, probabilmente.
Qhuinn buttò il Blackberry sul comodino e si alzò. In bagno tenne le luci spente, perché non gliene fregava un tubo
di vedere come stava coi jeans e la maglietta con cui aveva dormito.
Stropicciato e sexy da paura. Senza il minimo dubbio.
Mentre si lavava la faccia, un lieve ronzio invase la stanza, annunciando che le tapparelle si stavano alzando. Con
l'acqua che gocciolava dal mento e una bomboletta di schiuma da barba in mano, guardò la nuova nottata. Al chiaro
di luna, vide che le gemme delle betulle dal tronco argentato vicino alla finestra si erano schiuse ancora di più, chiaro
indizio che era stata una giornata calda.
Ignorò completamente ogni parallelo con Blay che veniva risvegliato alla sessualità.
Da suo cugino Saxton.
Disgustato da se stesso, mise giù il rasoio e uscì a grandi passi dal bagno. Si fiondò in cucina il più in fretta possibile:
era preoccupato per la salute e la longevità dei suoi nervi ottici, data la pressione barometrica dentro il suo cranio.
Giù nel regno di Fritz si preparò il caffè, mentre i doggen correvano di qua e di là per preparare il Primo Pasto. Meno
male che erano già così indaffarati. A volte, quando ci si sente una merda dentro e fuori, si ha voglia di arrangiarsi da
soli.
In momenti così, l'orgoglio è importante.
Intendiamoci, essendo quella la prima volta che caricava la Krups, dimenticò di aggiungere il caffè macinato, per cui
ottenne solo un bel bricco di acqua bollente.
Un'altra volta con sentimento.
Stava uscendo dalla sala da pranzo con un thermos da campeggio pieno del miracoloso infuso marrone scuro e un
flacone di aspirina, quando Fritz aprì la porta del vestibolo.
Alla vista della coppia che oltrepassò il buon doggen, Qhuinn capì che nel suo immediato futuro la Bayer avrebbe
avuto un posto di primo piano: Blay e Saxton entrarono in casa tenendosi a braccetto.
Per una frazione di secondo, Qhuinn fu lì lì per ringhiare; l'istinto possessivo gli fece venir voglia di saltare
sull'Hummer e parcheggiarlo in mezzo a quei due... finché non si accorse che tutto quel tenersi abbracciati era dovuto
a evidenti motivi di salute. Saxton sembrava incapace di reggersi in piedi e la sua faccia era stata chiaramente usata
come punching-ball.
Adesso Qhuinn ringhiò per un motivo diverso. «Chi cavolo ti ha conciato così?»
Non poteva essere stato un membro della sua famiglia. I parenti di Saxton non avevano problemi con le sue tendenze
sessuali.
«Dimmelo», lo incalzò Qhuinn. E, una volta ottenuta una risposta a quella domanda, Blay doveva spiegargli come
cazzo pensava di poter portare un estraneo non solo nella sede della confraternita, ma nella casa della Prima
Famiglia.
La domanda numero tre, ovvero: Com'è stato?, invece sarebbe rimasta dov'era. In fondo alla sua gola, col rischio di
soffocarlo.
Saxton sorrise. Più o meno. Il labbro superiore non si muoveva bene. «Feccia umana, tutto qua. Non facciamone una
tragedia, okay?»
«Col cazzo. E tu cosa diavolo ci fai qui con lui?» Qhuinn fissò Blay, cercando di non scrutarlo in viso in cerca di segni
di baci. Sulla sua pelle delicata, l'irritazione tipica da sfregamento con le guance barbute di un maschio si sarebbe
vista subito. «Lui non può stare in questa casa. Non puoi portarlo...»
Dalla cima dello scalone, Wrath lo interruppe, la profonda voce baritonale del re riempì l'atrio. «Blay non esagerava,
allora. Ti hanno spaccato il muso, eh, figliolo?»
Saxton si inchinò con una specie di sibilo. «Perdonatemi, Vostra Maestà, se mi presento in questo stato. Siete stato
estremamente gentile ad accogliermi in questa casa.»
«Sei stato corretto con me, quando contava. E io ricambio i favori. Sempre. Ciò detto, se ti azzardi a compromettere in
qualunque modo il mio tranquillo focolare domestico, ti taglio le palle e te le faccio ingoiare.»
Adoro Wrath, pensò Qhuinn.
Saxton si inchinò di nuovo. «Capito.»
Wrath non guardò giù dalle scale, teneva gli occhiali avvolgenti fìssi davanti a sé, quasi ammirasse gli affreschi sul
maestoso soffitto dell'atrio. E tuttavia, malgrado la cecità, non gli sfuggiva nulla. «Qhuinn ha già pronto il caffè,
dall'aroma che sento; bevilo, ti farà bene, e Fritz ti ha preparato una stanza. Vuoi qualcosa da mangiare prima di
nutrirti?»
Prima di nutrirsi? Prima di nutrirsi?
Qhuinn non gradiva essere fuori dal giro, anche quando si trai tava di sciocchezze tipo il menu da servire per cena.
Saxton, la casa della confraternita, Blay e la vena di qualcuno? Non sapere cosa bolliva in pentola gli fece fremere la
punta delle zanne.
Saxton si inchinò un'altra volta. «Siete davvero un padrone di casa molto cortese.»
«Fritz, dagli qualcosa da mettere sotto i denti. L'Eletta dovrebbe arrivare a momenti.»
Allora era la vena di una Eletta?
Cristo, cosa aveva fatto esattamente Saxton per il re? A chi aveva salvato le chiappe?
«E il nostro medico ti visiterà.» Wrath alzò la mano. «No. Sento l'odore della tua sofferenza... è un misto di cherosene
e peperoni. Adesso muoviti. Pensa a rimetterti in sesto, parleremo dopo.»
Mentre Wrath e George facevano dietrofront sulla balconata, Qhuinn si pose sulla scia dell'ospitalità di Fritz,
accodandosi al maggiordomo che guidava la lenta ascesa dello scalone. In cima, l'anziano doggen fece una pausa a
beneficio dell'andatura claudicante di Saxton, sfilando di tasca il fazzoletto per lucidare gli svolazzi di ottone della
ringhiera.
Non potendo far altro che aspettare, a sua volta Qhuinn aprì il flacone con le aspirine e ne tirò fuori una manciata,
notando, attraverso la porta aperta dello studio del re, che John e Xhex stavano parlando con V e Wrath; tutti e quattro
chini sopra una piantina allargata sulla scrivania.
«È una dimora favolosa», disse Saxton, fermandosi a riprendere fiato. Si appoggiava Blay, e sottobraccio a lui stava...
benissimo.
Che miserabile bastardo.
«L'ha fatta costruire il mio padrone, Darius.» Fritz lasciò vagare i vetusti occhi acquosi prima di posarli sul mosaico
raffigurante l'albero di mele, sul pavimento dell'atrio. «Aveva sempre desiderato ospitare qui la confraternita... aveva
concepito questa struttura per soddisfare ogni esigenza dei fratelli. Sarebbe stato così felice.»
«Proseguiamo, allora», disse Saxton. «Sono ansioso di vedere il resto della casa.»
Attraversarono la galleria delle statue, oltrepassando la stanza di Tohr, quella di Qhuinn e quella di John Matthew.
Superata anche la camera di Blay... entrarono in quella lì accanto.
Perché non spingersi un po' più lontano? pensò Qhuinn. Tipo nel seminterrato.
«Le porterò un vassoio con una vasta scelta di pietanze.» Fritz entrò nella stanza e controllò con cura che fosse tutto in
ordine. «Digiti asterisco-uno, se mai le servisse altro prima del mio ritorno, o in qualunque altro momento.»
Con un inchino il maggiordomo uscì, lasciandosi alle spalle un enorme imbarazzo. Che non si attenuò minimamente
quando Blay accompagnò Saxton fino al letto, aiutandolo a mettersi in orizzontale.
Quel figlio di puttana sfoggiava uno splendido completo grigio. Con tanto di panciotto. Qhuinn, coi suoi vestiti a mo'
di sacco a pelo, si sentì uno schifo: gli sembrava di avere addosso dei sacchi dell'immondizia.
Raddrizzando le spalle, in modo da battere nettamente Sax almeno sul piano verticale, disse, «Sono stati quei tizi al
bar per fumatori. Quegli stronzi del cazzo. Giusto?»
Blay si irrigidì e Saxton ridacchiò. «E così il nostro comune
amico Blaylock ti ha detto del nostro appuntamento? Mi chiedevo cosa stesse facendo al telefono nel mio bagno.»
Uh-huh, sbagliato. La deduzione logica, non il verbale della giornata, lo avevano condotto a quella conclusione. Che
cavolo, da Blay aveva ricevuto solo quell'unico SMS. Un misero, striminzito SMS in cui non si degnava neanche di
chiedergli come stava...
Porca. Puttana. Stava davvero facendo la lagna per il galateo telefonico? Era diventato una femminuccia fino a questo
punto?
Uhm... la risposta era un sì grande come una casa, gli mancava solo di mettersi un paio di mutandine sotto i jeans.
«Allora, sono stati loro?» insistette, brusco.
Vedendo che Blay non diceva niente, Saxton sospirò. «Sì, temo che abbiano sentito il bisogno di esprimersi... o per lo
meno lo ha sentito lo scimmione capobranco.» Poi, socchiudendo le palpebre e lanciando un'occhiata a Blay,
aggiunse, «E io sono per il detto "fate l'amore e non la guerra", capisci.»
Dopo quella piccola bomba, Blay si affrettò a colmare il silenzio. «Selena sarà qui tra poco. Ti piacerà, vedrai.»
Grazie a Dio non era Layla, pensò Qhuinn, senza la benché minima ragione...
Il silenzio che seguì era denso come catrame e puzzava di coscienza sporca.
«Posso parlarti?», disse d'un tratto Qhuinn a Blay. «Fuori in corridoio.»
Non era una domanda.
Mentre Fritz arrivava con il vassoio, Qhuinn uscì ad aspettare in corridoio, di fronte a una delle statue muscolose. Il
che lo fece pensare a Blay, nudo.
Svitò il coperchio del thermos e bevve un sorso di caffè, si ustionò la gola e, malgrado, ciò ne mandò giù ancora un
po'.
Dopo che Fritz se ne fu andato, Blay emerse dalla stanza e chiusila porta. «Cosa c'è?»
«Non riesco a credere che tu l'abbia portato qui.»
Blay trasalì, accigliato. «L'hai visto in faccia. Come avrei potuto non farlo? E tutto pesto, non sta guarendo bene e ha
bisogno di nutrirsi. E Phury non permetterebbe mai a una delle sue Elette di presentarsi in un posto qualsiasi della
Terra. Questo è l'unico modo sicuro per farlo.»
«Perché non gli hai trovato qualcun altro? Mica deve per forza essere una Eletta.»
«Come, scusa?» Blay si accigliò ancora di più. «E tuo cugino, Qhuinn.»
«So benissimo qual è il nostro rapporto di parentela.» E anche quanto suonava meschino quello che stava dicendo.
«Solo non capisco perché hai messo in piedi tutto 'sto casino per lui.»
Palle. Sapeva benissimo perché.
Blay si voltò. «Io torno dentro...»
«E il tuo amante?»
Blay si fermò di colpo... impietrito come una delle statue greche, la mano sospesa sopra la maniglia.
«Non sono affari tuoi» rispose, guardandolo da sopra la spalla e scuro in volto.
Nessun rossore in vista; Qhuinn tirò un sospiro di sollievo. «No. Non ci sei andato a letto.»
«Lasciami in pace, Qhuinn. Lasciami... in pace, okay?»
Quando la porta si chiuse alle spalle di Blay, Qhuinn imprecò sottovoce, chiedendosi se sarebbe mai stato capace di
lasciarlo davvero in pace.
Per ora no di sicuro, rispose una vocina nella sua testa. Forse mai.
Capitolo 53
Lash si svegliò con la faccia nella polvere, in mezzo alla sporcizia, e con qualcuno che gli frugava nelle tasche.
Quando cercò di voltarsi, qualcosa di duro lo afferrò per la nuca, tenendolo fermo.
Un palmo. Un palmo umano.
«Prendi le chiavi della macchina!» sibilò qualcuno da sinistra.
Erano in due. Un paio di umani, e tutti e due puzzavano di crack e sudore stantio.
Quando la mano che rovistava si spostò sull'altro lato, Lash afferrò l'uomo per il polso e, con una torsione e un balzo,
cambiò, posto con quel ladro bastardo.
Mentre quello, scioccato, restava a bocca aperta come un pesce fuor d'acqua, Lash scoprì le zanne e gli piombò
addosso dall'alto, addentandogli la pelle rubizza della guancia e staccandola con un morso. Uno sputo veloce, e gli
tagliò la gola.
Grida. Grida assordanti del compare che aveva dato l'ordine di prendere le chiavi...
Ben presto zittite da Lash che, estratto il coltello, lo lanciò contro la schiena in corsa di Mister Gran Furto d'Auto,
infilzandolo in mezzo alle scapole. Quando quel figlio di puttana rovinò per terra, Lash con un pugno colpì alla
tempia l'uomo che gli era montato sopra.
Una volta neutralizzata la minaccia, Lash ricominciò a barcollare, accasciandosi su un fianco mentre considerava
brevemente l'eventualità di rimettersi a vomitare. Non proprio il massimo, come condizione... specie quando l'umano
che aveva accoltellato al volo si mise a grugnire, trascinandosi per terra, deciso ad allontanarsi.
Lash si alzò in piedi con uno sforzo immane e avanzò a fatica,
Ritto sopra quel drogato, gli puntò un piede sul sedere ed estrasse il coltello conficcato nella schiena. Poi lo voltò con
un calcio e alzò il braccio...
Stava per trafiggerlo al petto, quando si accorse che era un pezzo d'uomo tutto muscoli. Vista la frenesia con cui
muoveva gli occhi era chiaro che si faceva di crack, ma essendo ancora abbastanza giovane, le devastazioni della
tossicodipendenza non avevano ancora intaccato la sua massa corporea.
Be', quella era proprio la serata fortunata di quel figlio di buona donna. Grazie a un capriccio del destino e al suo
fisico prestante, era appena passato da cadavere a cavia da laboratorio.
Invece di pugnalarlo al cuore, Lash gli recise i polsi e gli incise la giugulare. Il sangue rosso cominciò a sgorgare,
impregnando il terreno, e l'uomo prese a lamentarsi. Lash guardò l'auto. Gli sembrava lontana chilometri.
Aveva bisogno di energia. Aveva bisogno di...
Trovato.
Mentre le vene dell'umano si prosciugavano, Lash si trascinò fino alla Mercedes, aprì il baule e sollevò il tappetino. Il
pannello che copriva il vano in cui normalmente stava la ruota di scorta venne via con facilità.
Ehilà, sveglia!
Il chilo di cocaina avrebbe dovuto essere tagliato e riconfezionato, prima di essere venduto per strada giorni prima,
ma poi era successo di tutto, per cui era rimasto lì dove lo aveva nascosto Mr D.
Lash pulì il coltello sui calzoni, bucò un angolo del panetto incellofanato e ci infilò la punta della lama. Sniffò la coca
direttamente dall'acciaio inox, tirando prima con la destra e poi con la sinistra delle sue narici inesistenti.
Per sicurezza, diede un altro tiro.
Eeeee... poi un altro ancora.
Inspirò a fondo per la serie "stai buona lì dentro", e la potente sferzata di energia che lo pervase gli salvò il culo,
rinvigorendolo abbastanza da permettergli di tirare avanti anche dopo tutto quel vomitare e quella dormita. Perché
avesse avuto quei problemi era un mistero... Forse il sangue di quella battona era infetto, o forse non era solo il corpo,
ma la sua chimica interna che stava cambiando. In un caso come nell'altro, finché le cose non si stabilizzavano aveva
bisogno della polvere bianca nel bagagliaio.
E funzionava alla grande. Si sentiva benone.
Dopo aver nascosto di nuovo la sua scorta di roba, tornò dallo strafatto di crack. Il freddo non agevolava l'emorragia e
aspettare lì che quello stronzo si dissanguasse non era un'idea brillante, per quanto fossero ben nascosti sotto il
ponte. Sull'onda dell'euforia da coca, andò fino all'umano morto su cui si era avventato come
Hannibal Lecter; gli spalancò il giubbotto lercio e strappò la canottiera che c'era sotto, ricavandone tante strisce della
dimensione di bende.
'Fanculo suo padre.
'Fanculo lo stronzetto.
Si sarebbe fatto un esercito tutto suo. A cominciare da quel bulldog di drogato.
Non ci mise molto a fasciare le ferite sanguinanti dell'umano; poi lo prese in braccio e lo buttò nel baule della
macchina con lo stesso riguardo di un taxista per un bagaglio da quattro soldi.
Uscì da sotto il ponte al volante della Mercedes, guardandosi intorno frenetico. Merda... ogni auto che vedeva, da
quelle sulle strade cittadine al traffico che sfrecciava sull'autostrada, ogni macchina era un'auto civetta della polizia
di Caldwell.
Ne era certo. Erano poliziotti. Umani coi distintivi che spiavano dentro la sua auto. Sbirri, piedipiatti, sbirri,
piedipiatti...
Sulla strada verso la topaia, beccò tutti i semafori rossi di Caldwell; costretto a frenare, tenne lo sguardo dritto
davanti a sé, pregando che tutti i poliziotti davanti e dietro di lui non si accorgessero che aveva a bordo un
moribondo e una caterva di droga.
Troppa fatica dover accostare al ciglio della strada. E poi basta guastafeste, basta rotture di scatole. Finalmente si
sentiva molto meglio, ogni battito cardiaco gli pompava energia nelle vene, gli zoccoli d'acciaio di tutta quella
cocaina gli galoppavano nel cervello, generando una cacofonia di ispirazione creativa...
Un momento. A cosa stava pensando?
Oh, diamine, cosa importava. Mezze idee gli svolazzavano nella mente, progetti si formavano e si disintegravano,
tutti immancabilmente geniali.
Benloise, doveva rintracciare Benloise e ristabilire i contatti con lui. Produrre altri tesser tutti suoi. Trovare lo
stronzetto e rispedirlo all'Omega con una bella pugnalata.
Fottere suo padre come il caro paparino aveva fottuto lui.
Fottere di nuovo Xhex.
Tornare alla fattoria e combattere contro i fratelli.
Soldi, soldi, soldi... gli servivano soldi.
Passando davanti a uno dei parchi di Caldwell, alzò leggermente il piede dall'acceleratore. All'inizio non era proprio
sicuro di quello che stava vedendo, temeva di essersi sbagliato... forse tutta la cocaina che aveva pippato stava
distorcendo la realtà.
Ma invece no...
Ciò che stava accadendo nell'ombra, vicino alla fontana, gli ol-friva l'opportunità che aveva progettato di fabbricare
per se stesso, O di favorire, se necessario.
Lasciò la Mercedes in uno dei parcheggi a pagamento, spense il motore e tirò fuori il coltello. Girò dietro alla AMG
per aprire il bagagliaio, vagamente consapevole di non essere lucido, ma in pieno sballo da cocaina non ci trovava
niente di strano.
John Matthew riprese forma in un folto di pini e cespugli insieme a Xhex, Qhuinn, Butch, V e Rhage. Poco più avanti,
la decrepita fattoria circondata dal nastro giallo della polizia sembrava uscita da Law & Order.
Anche se in realtà, pur con un ottimo lavoro delle telecamere, senza un sistema "tele-olfattivo" tipo Smell-O-Vision o
Odorama, era impossibile farsi un quadro preciso della situazione: malgrado gli acri di aria fresca tutt'intorno,
l'odore di sangue era così forte da spingere chiunque a schiarirsi la gola.
Per coprire a dovere la rivelazione di Lash, i fratelli si erano divisi in due; gli altri piantonavano l'indirizzo collegato
alla targa di quella Civic truccata. Trez e iAm se n'erano appena andati per curare i loro affari, ma erano pronti a
tornare al primo SMS. A sentire loro, non c'era niente di speciale da riferire da quando Xhex se n'era andata, a parte il
fatto che il detective de la Cruz era ritornato e dopo un'ora se n'era andato di nuovo.
John perlustrò con lo sguardo la scena che aveva davanti, concentrandosi sulle ombre più che sugli elementi
illuminati dalla luna. Poi chiuse gli occhi e si affidò all'istinto, dando libero sfogo a quell'indefinibile, invisibile
sensore al centro del suo petto.
In momenti come quello non sapeva perché faceva quello che faceva; l'impulso lo assaliva e basta, la convinzione di
averlo già fatto - con successo - in passato era così forte da risultare innegabile.
Già... sentiva che qualcosa non quadrava... Lì dentro c'erano dei fantasmi. E quella certezza gli rammentò ciò che
aveva avvertito in quella spaventosa camera da letto, dove Xhex era così vicina eppure così lontana. Anche allora
aveva percepito la sua presenza, ma era stato bloccato da qualcosa che gli aveva impedito di stabilire un contatto.
«I corpi sono là dentro», disse Xhex. «Solo che non riusciamo a vederli o a entrare in contatto con loro. Ma, fidatevi...
sono là dentro.»
«Be', allora non stiamo a cazzeggiare qua fuori», disse V, smaterializzandosi.
Rhage seguì il suo esempio, svanendo nel nulla per poi ricomparire dentro la fattoria, mentre Butch scelse un
approccio più laborioso, attraversando di corsa il prato con la pistola lungo la coscia. Guardò dentro dalle finestre
finché V non lo fece entrare dal retro.
«Tu non entri?» chiese Xhex.
John mosse le mani con precisione per permetterle di capire la
lingua dei segni. Hai già riferito quello che c'è là dentro. Io sono più interessato a chi si presenterà alla porta
d'ingresso.
«D'accordo.»
Uno dopo l'altro, i fratelli fecero ritorno.
«Ammesso che Lash non stia solo millantando i suoi successi in materia di affiliazioni, e ammesso che Xhex abbia
ragione...» disse sottovoce V.
«Qui non c'è da ammettere un bel niente», sbottò lei. «Io ho ragione.»
«... allora chiunque abbia trasformato quei poveracci deve tornare indietro.»
«Grazie tante, Sherlock.»
V le scoccò un'occhiataccia. «Ti spiace evitare il sarcasmo, dolcezza?»
John si raddrizzò; con tutto l'affetto che nutriva per il fratello, quel tono non gli garbava per niente.
E Xhex evidentemente era d'accordo con lui. «Chiamami un'altra volta dolcezza e sarà l'ultima parola che dirai...»
«Non minacciarmi, dolc...»
Butch piombò alle spalle di V e gli tappò la bocca con la mano; John, dal canto suo, mise la mano sul braccio di Xhex,
invitandola a calmarsi, mentre fulminava con lo sguardo V. Non aveva mai capito l'ostilità tra quei due, anche se
esisteva da sempre, per quel che ricordava...
Si accigliò. Dopo quell'accenno di lite, Butch guardava per terra, Xhex fissava un albero sopra la spalla di V e V
ringhiava, guardandosi le unghie.
Qui c'è qualcosa che mi puzza, pensò John.
Oh... Gesù...
V non aveva motivo di avercela con Xhex... anzi, lei era proprio il tipo di femmina che solitamente rispettava. A meno
che, naturalmente, lei non fosse andata a letto con Butch...
Era risaputo che nei confronti del suo migliore amico, V era possessivo con tutti tranne che con la shellan dello sbirro.
John si fermò lì con le congetture; preferiva di gran lunga non saperne di più. Butch era fedele al cento per cento alla
sua Marissa, perciò, se era successo qualcosa, tra lui e Xhex... risaliva a un secolo prima. Probabilmente ancora prima
che John la conoscesse... o forse prima della sua transizione.
Era tutta acqua passata.
E poi, non avrebbe dovuto...
Qualunque altro pensiero a riguardo venne provvidenzialmente sviato dall'arrivo di un'auto. Subito tutta la loro
attenzione venne attratta da una macchina che, dai colori, faceva pensare al vestilo che una dodicenne avrebbe potuto
sognare di trovare nell'armadio. Nel 1985, tipo.
Grigio, giallo limone e rosa shocking. No, dai, davvero? Lo trovi davvero fico? Cavolo... ammesso che al volante ci
fosse un non morto, John adesso aveva una ragione di più per uccidere quello stramaledetto stronzo.
«Quella è la Civic truccata», bisbigliò Xhex. «E proprio quella.»
Tutt'a un tratto ci fu un leggero cambiamento di scenario, come se uno schermo fosse calato dall'alto. Per fortuna la
vista si offuscò leggermente solo finché lo scudo protettivo si fu assestato; poi tutto tornò chiaro.
«Ho steso il mhis», spiegò V. «Però che coglione, quello. Quel macchinone è troppo vistoso per queste parti.»
«Macchinone?» sbuffò Rhage. «Ma fammi il piacere. Quello è un macinino con uno spoiler attaccato con lo scotch. La
mia GTO gli farebbe mangiare la polvere, a quello stronzo. In quarta, partendo da fermo.»
Sentendo uno strano rumore alle sue spalle, John si voltò. E così pure i tre fratelli.
«Be', cosa c'è?» Xhex incrociò le braccia sul petto, piccata. «So ridere anch'io, cosa credete. E quella battuta... era
proprio divertente.»
Rhage si illuminò tutto. «L'ho sempre detto che mi stai simpatica.»
Il macinino passò davanti alla casa e poi tornò indietro... solo per girare di nuovo e ripassare per la terza volta.
«Comincio a stufarmi.» Rhage si dondolava avanti e indietro, gli occhi che lampeggiavano come due neon azzurri...
anche la sua bestia, evidentemente, si stava innervosendo e soffiava fuoco dal naso. Il che non era mai un bene.
«Cosa ne dite se salgo sul cofano e trascino fuori dal parabrezza quello stronzo?»
«Meglio mantenere i nervi saldi e tendergli una trappola», mormorò Xhex, togliendo le parole di bocca a John.
Il tizio al volante poteva essere daltonico, quando si trattava di verniciare la sua auto, ma non era un cretino integrale.
Proseguì la sua corsa e, più o meno cinque minuti dopo, proprio quando in pratica Rhage cominciava a manifestare
uno sdoppiamento di personalità per il nervoso, il non morto che aveva fatto avanti e indietro con la macchina sbucò
a piedi dal campo di granturco alle spalle della fattoria.
«Quel ragazzino è un furetto», borbottò Rhage. «Un furetto piccolo e furbo.»
Verissimo, ma il furetto aveva un paio di rinforzi con sé, che vista la stazza non sarebbero mai entrati nella sua auto.
Chiaramente si erano incontrati da un'altra parte e avevano lasciato indietro un'altra macchina.
Dimostrarono scaltrezza anche nella tattica di avvicinamento. Avanzavano senza fretta, scrutando con attenzione il
prato, la casa e i boschi tutt'intomo. Grazie a V, tuttavia, quando adocchiarono il gruppetto di alberi tra cui si
nascondevano i loro nemici, i loro occhi non colsero altro che il paesaggio: il mhis di Vishous era un'illusione ottica
che nascondeva efficacemente l'apocalisse verso cui stava puntando il nemico.
Il terzetto si diresse verso il retro della casa, facendo scrocchiare l'erba gelata e dura sotto gli stivali. Un istante dopo
si udì uno schianto... un vetro in frantumi.
Io mi avvicino, disse John nella lingua dei segni, senza rivolgersi a nessuno in particolare.
«Aspetta...»
La voce di V non lo rallentò minimamente, e neanche le parolacce che si lasciò dietro smaterializzandosi di fianco
alla casa.
Così fu il primo a vedere i corpi, allorché divennero visibili.
Appena il furetto scavalcò una finestra in cucina, la casa tremò e...
Benvenuti sul set di Non aprite quella porta.
Dal soggiorno al corridoio e fino al tinello, c'erano una ventina di tizi stesi per terra, allineati con la testa rivolta verso
il retro della fattoria e i piedi verso la facciata. Bambolotti. Grotteschi bambolotti nudi con la faccia sporca di vomito
nero, che muovevano lentamente braccia e gambe.
John sentì Xhex e gli altri materializzarsi subito dietro di lui, alla finestra, proprio quando il furetto entrò nel loro
campo visivo.
«Cazzarola!» gridò il ragazzino guardandosi intorno. «Sì!»
La sua risata trionfale e sgangherata rasentava l'isterismo... cosa che avrebbe potuto risultare inquietante, se non fosse
stato circondato da sangue e budella di ogni tipo. Date le circostanze, quella risata stridula e lamentosa era un po' una
pizza, un orribile cliché.
Proprio come la macchina di quel bastardo, d'altronde. Molto Vin Diesel.
«Voi siete il mio esercito», gridò ai tizi insanguinati per terra. «Noi regneremo su Caldwell! Alzate le chiappe, è ora di
andare al lavoro! Insieme siamo...»
«Muoio dalla voglia di ammazzare quello stronzetto», bofonchio Rhage. «Se non altro per farlo stare zitto.»
Giustissimo.
Quel coglione si era lanciato in uno sproloquio alla Mussolini, tutto un bla-bla e ancora bla, aria fritta fantastica per
l'ego, ma che, stringi stringi, non significava un accidente. Ciò che contava era la reazione di quei poveri stronzi sul
pavimento ...
Huh. Forse l'Omega aveva scelto bene: i bambolotti si stavano bevendo quelle fregnacce propagandistiche. Gli ex
umani riuniti, dissanguati, macellati, rianimati e adesso senz'anima si mossero,
sollevando il busto da terra, alzandosi faticosamente in piedi per ordine del furetto.
Peccato che sarebbe stata tutta fatica sprecata.
«Al tre», sussurrò Vishous.
Fu Xhex a contare. «Uno... due... tre...»
Capitolo 54
Non appena la notte calò sulla madre terra ammantandola della sua grazia tenebrosa, Darius si smaterializzò dalla
sua modesta dimora per riprendere forma insieme a Tohrment sulla riva dell'oceano. Il "cottage" descritto dal
symphath era in realtà un edificio in pietra di una certa mole e distinzione. L'interno era rischiarato da alcune candele
accese, ma Darius e il suo pupillo, nascosti tra il fogliame rigoglioso, non scorsero alcun segno di vita: nessuno che
passasse davanti alle finestre, nessun latrato di cani da guardia, nessun aroma proveniente dalle cucine sulle ali della
brezza fresca e leggera.
C'erano, tuttavia, un cavallo nel campo e una carrozza accanto alla stalla.
Oltre a un opprimente senso di premonizione.
«Li dentro c'è un symphath», mormorò Darius, scrutando non solo il visibile, ma ciò che si celava nell'ombra.
Impossibile dire se vi fosse più di un divoratore di peccati entro quelle mura, poiché uno solo bastava a creare una
siffatta barriera di paura. E impossibile sapere se fosse il symphath che cercavano.
Almeno finché rimanevano all'esterno.
Darius chiuse gli occhi, lasciando che i sensi penetrassero quanto più possibile la scena davanti a lui, spingendo
l'istinto al di là della vista e dell'udito per cogliere il pericolo.
C'erano volte, invero, in cui confidava più nell'istinto che nella vista; ciò che sapeva essere vero valeva più di ciò che
vedeva.
Sì, avvertiva qualcosa. Entro quelle mura di pietra c'era del movimento convulso.
Il symphath sapeva che erano lì.
Darius rivolse un cenno del capo a Tohrment e, insieme, tentarono di smaterializzarsi dentro il salotto.
II metallo incastonato nella muratura impedì loro di penetrare oltre le solide pareti; furono dunque costretti a
riprendere forma fuori dalla casa, al freddo. Senza perdersi d'animo, Darius alzò il gomito fasciato di cuoio e ruppe il
vetro piombato di una finestra; poi scardinò il telaio, lo gettò via, e s'insinuò all'interno con Tohrment, riprendendo
forma corporea in salotto...
Appena in tempo per scorgere un lampo rosso che s'infilava in una porta interna, verso il fondo della casa. In silenzioso
accordo, lui e Tohrment si lanciarono all'inseguimento, raggiungendo l'uscio proprio allorché scattava la serratura.
Un meccanismo di rame. Impossibile, dunque, sbloccarlo con la forza della mente.
«Fatevi da parte», disse Tohrment alzando la canna della pistola.
Darius balzò di lato mentre nella casa riecheggiava uno sparo, poi con una spallata riuscì ad abbattere la porta.
Le scale, giù di sotto, erano buie, tranne che per una luce fioca.
Scesero lesti i gradini di pietra con un gran rimbombo di stivali, volando sul pavimento in terra battuta, inseguendo la
lanterna... e l'odore di sangue di vampiro che impregnava l'aria.
Nelle vene di Darius tuonava l'urgenza, l'ira guerreggiava con la disperazione. Voleva riportare a casa la fanciulla...
Santissima Vergine Scriba, quanto doveva aver sofferto...
Udirono sbattere qualcosa e, nella galleria sotterranea, si fece buio pesto.
Darius proseguì senza rallentare, allungando una mano contro la parete per mantenere la giusta direzione. Tohrment lo
seguiva dappresso, e la sonora eco dei loro stivali aiutava Darius a individuare il termine del passaggio segreto. Si
fermò appena in tempo, usando le mani per trovare il chiavistello sull'uscio.
Che il symphath non aveva perso tempo a sprangare.
Spalancando i pesanti pannelli di legno, Darius respirò a pieni polmoni una boccata d'aria fresca e più avanti, nell'erba
alta, scorse la lanterna che brillava.
Smaterializxandosi e riprendendo forma più in là, raggiunse il symphath e la vampira vicino alla stalla, bloccando la
loro fuga, tanto che il rapitore fu costretto a fermarsi.
Con mani tremanti, il divoratore di peccati premette un coltello alla gola della prigioniera.
«Fermo o la uccido!» gridò. «La uccido!»
La fanciulla non lottava, non tentava di scappare, non implorava salvezza o libertà. Teneva lo sguardo fisso davanti a
sé, gli occhi spenti. tormentati, nel volto terreo. Al chiaro di luna, più pallida della sua era solo la pelle dei defunti. La
figlia di Sampsone forse aveva un cuore che ancora batteva nel petto, ma la sua anima era già trapassata.
«Lasciala andare», intimò Darius. «Lasciala andare e ti lasceremo vivere.»
«Mai! Lei è mia!»
Gli occhi del symphath brillavano rossi nella notte, palesando la sua natura malvagia, eppure la giovane età e il panico
lo rendevano con tutta evidenza incapace di usare l'arma più potente della sua razza: Darius era pronto a contrastare
un attacco mentale, ma il divoratore di peccati non mise in atto alcuna invasione del suo cranio.
«Lasciala andare», ripetè Darius, «e ti risparmieremo.»
«Ho giaciuto con lei! Mi senti! Ho giaciuto con lei!»
Tohrment puntò la pistola contro il symphath; Darius era impressionato dalla sua calma. La prima volta sul campo,
una prigioniera, un symphath... eppure il ragazzo non appariva turbato da circostanze tanto drammatiche.
Con compostezza e determinazione, Darius tentava di ricondurre alla ragione l'avversario, notando con furore le
macchie sulla camicia da notte della fanciulla. «Se la lasci andare...»
«Nulla di quanto puoi darmi vale più di lei!»
La voce pacata di Tohrment ruppe la tensione. «Se la lasci andare, non ti colpirò alla testa.»
Era una minaccia da tenere in conto, pensò Darius. Certo Tohrment non avrebbe fatto fuoco... troppo rischioso per la
fanciulla, se avesse sbagliato mira anche solo di un briciolo.
Il symphath prese a indietreggiare verso la stalla, trascinando la vampira con sé. «La sgozzo...»
«Se è tanto preziosa ai tuoi occhi», disse Darius, «come ne tollererai la perdita?»
«Meglio morta insieme a me piuttosto che...»
Bum!
Nell'udire lo sparo, Darius lanciò un urlo e balzò in avanti, sebbene non potesse certo afferrare con le mani il proiettile
di Tohrment.
«Che cos'hai fatto!» gridò, mentre il symphath e la fanciulla
si accasciavano al suolo.
Darius traversò il prato e si gettò in ginocchio, pregando che
per levarle
la giovane non fosse stata colpita. Col cuore in gola, fece
di dosso il suo aguzzino...
Il giovane symphath rotolò inerte sulla schiena, gli occhi ormai ciechi fissi al cielo, un foro nero perfettamente circolare
al centro della fronte.
«Santissima Vergine Scriba...» esclamò Darius con un filo di voce. «Che mira.»
Tohrment si inginocchiò. «Non avrei premuto il grilletto se non fossi stato certo.»
Insieme si chinarono sulla fanciulla. Anch'ella fissava il firmamento sopra il loro capo, gli occhi chiari immoti,
sgranati.
Il symphath era dunque riuscito a reciderle la gola?
Darius frugò con lo sguardo la vaporosa camicia da notte un tempo
immacolata. Era macchiata di sangue, in parte rappreso e in parte fresco.
La lacrima che le sgorgò dalle ciglia scintillò argentea al chiaro di luna.
«Siete salva», esclamò Darius. «Siete al sicuro. Non abbiate timore. Non affliggetevi.»
Ella volse lo sguardo su Darius; la sua disperazione appariva gelida come un vento invernale e, come il vento, la isolava
dal resto del mondo.
«Ora vi riportiamo a casa», promise Darius. «La vostra famiglia sar...»
«Avreste dovuto uccidere me invece che lui», disse la fanciulla in un fioco sussurro.
Capitolo 55
Giunta al "tre", Xhex prese forma nel salotto della fattoria, pensando che le preoccupazioni circa un'imboscata erano
fondate... solo che sarebbero stati i lesser a subirla. Affrontò in un corpo a corpo il non morto più vicino, sapendo che
doveva fare in fretta.
In ogni scontro l'elemento sorpresa si può sfruttare ima volta soltanto e lei e la sua squadra erano in chiara inferiorità
numerica, in un rapporto di quattro a uno... e in una situazione in cui era impossibile usare le pistole. I proiettili
vanno a segno solo quando puoi mirare con precisione a dei bersagli statici, e lì non c'era nulla di tutto ciò. Braccia,
gambe e corpi volavano da tutte le parti mentre i fratelli, John e Qhuinn facevano esattamente ciò che stava facendo
lei: scegliere un affiliato a caso e darci dentro alla Bruce Lee.
Col pugnale nella sinistra, Xhex sferrò un gancio destro al non morto che aveva di fronte. Mentre quello si accasciava
contro il muro, esanime, Xhex tirò indietro il braccio, pronta ad affondar- 1 gli la lama in pieno petto...
D'un tratto, Butch l'agguantò per il polso. «Lascia, lo finisco io.»
Piazzandosi tra loro due, Butch puntò gli occhi in quelli del lesser e avvicinò la bocca. Con una inalazione lenta e
regolare, cominciò a estrarre l'essenza dal quel corpo, una nube malefica simile a smog... che si trasferiva dal lesser a
Butch.
«Gesù... Cristo...» esclamò Xhex in un sussurro, mentre il non morto perdeva la forma di un tempo, disintegrandosi in
un mucchietto di cenere ai piedi del fratello.
Barcollando, Butch si appoggiò con la mano al muro, quasi faticasse a reggersi in piedi. «Stai bene...?» chiese Xhex,
afferrandolo per il braccio.
Un fischio acuto di John la spinse a voltare la testa appena in tempo: un altro lesser stava per balzarle addosso, pronto
a usare il coltello a serramanico che stringeva nel pugno. Grazie all'avvertimento di John, Xhex si chinò, lanciandosi
in avanti e afferrandolo per il polso; assumendo il controllo dell'arma, sferrò una pugnalata verso l'alto, centrandolo
sotto le costole.
Lampi luminosi seguiti da uno schiocco assordante.
Avanti il prossimo.
Xhex era in gran forma, veloce sui piedi, rapida con le mani. Pur muovendosi a velocità supersonica e avendo
rispedito al mittente quel lesser, voleva rispettare il ruolo di Butch in quella resa dei conti. Non capiva bene cosa
fosse quel suo numero della serie "cenere alla cenere", ma era pronta a scommettere che si trattava di una fine
speciale per il nemico.
In quell'ottica, prese a pugnalare i lesser dietro alle ginocchia e sulle cosce. Come killer su commissione, era una
maestra nel colpire i suoi bersagli riducendoli all'impotenza, perché spesso aveva un messaggio da riferire, prima del
colpo di grazia. Come previsto, appena si lasciava alle spalle quei corpi mugolanti di dolore, Butch prontamente
arrivava e li inalava, trasformandoli in una polvere finissima.
Facendosi strada tra gli affiliati a furia di colpi e fendenti, Xhex si ritrovò a guardare con un occhio John e... porca
miseria. Era un guerriero di prim'ordine.
All'apparenza specializzato nello spezzare i colli. Era micidiale nel piombare alle spalle del nemico, agguantarlo e
poi con forza bruta...
Il colpo arrivò all'improvviso, centrandola alla spalla e scaraventandola contro il muro; Xhex vide le stelle come nei
cartoni animati, mentre il coltello le sfuggiva di mano.
Il non morto che l'aveva colpita si scagliò in avanti, raccogliendo il pugnale dal pavimento insanguinato del salotto;
poi, brandendolo, si avventò contro di lei.
All'ultimo momento lei scattò a sinistra, così il lesser pugnalò il muro dove poco prima era andata a sbattere e dove la
lama rimase incastrata. Mentre lui tentava di liberarla, Xhex si voltò e lo accoltellò con la sua arma di riserva,
aprendogli un buco nel basso ventre.
«Credevi che non avessi un altro coltello? Razza di idiota», disse, incrociando il suo sguardo scioccato.
Lo colpì alla testa col manico dell'arma e, mentre quello si piegava sulle ginocchia, sfilò l'altro pugnale dall'intonaco,
gettandosi di nuovo nella mischia. Con la casa che risuonava di tonfi e grugniti, Xhex si spostò per vedere se restava
qualche bersaglio libero...
Uno dei non morti stava schizzando fuori dalla porta d'ingresso, nel tentativo di scappare.
Xhex si smaterializzò all'esterno, tagliandogli la strada. Trovandosela davanti all'improvviso, quello si bloccò di
colpo, mulinando le braccia in modo ridicolo come in certe scenette comiche. «No, non hai scusanti», disse
sorridendo Xhex.
Il lesser tornò indietro di corsa... una stupidaggine, perché in casa non c'era nessuno pronto ad aiutarlo... a
sopravvivere, quanto meno.
Xhex si lanciò all'inseguimento, agile e forte a un tempo. Proprio quando il lesser giunse sulla soglia, Xhex balzò per
aria in un placcaggio al volo; afferrandolo per il collo e la spalla lo fece voltare e, sfruttando la combinazione di
traiettoria e potenza fisica, lo trasformò in un punto interrogativo vivente.
Atterrarono con violenza e, nell'impatto, Xhex rimase senza fiato, ma sorrideva.
Dio, quanto le piaceva una bella lotta.
Quando John vide Xhex fiondarsi fuori dalla porta non potè andarle dietro perché aveva un paio di iniziati
appiccicati al sedere. Ma li avrebbe sistemati in un baleno.
Buffo come vedere la tua femmina uscire da sola nella notte ti dava una nuova sferzata di energia...
Non che Xhex fosse la sua femmina.
Buffo come ricordarsi una cosa così ti faceva incazzare come una iena.
Allungando le braccia verso il lesser che aveva davanti, John gli spezzò il collo di netto, all'attaccatura della spina
dorsale, facendo rotolare la testa come una palla da bowling. Peccato non avere il tempo di fare altrettanto con le
braccia e le gambe di quel ba stardo... per poter mettere KO con quei monconi anche il suo compare.
Purtroppo il lesser numero due lo aveva appena agguantato al petto e adesso tentava di stringerlo fino a togliergli il
respiro.
John lo afferrò per i polsi, bloccandolo, poi si voltò e, con un balzo, gli sferrò un calcio orizzontale a mezz'aria.
Caddero a terra a peso morto, con John sopra e il non morto ridotto a fargli da materasso. Impennandosi verso l'alto,
John lo colpì in faccia con la testa, trasformandogli il naso in un geyser.
Un repentino cambio di posizione, e John sollevò in alto il pugno.
Dopo quel secondo colpo, il lesser fu colto da una serie di spasmi: il suo lobo frontale aveva gravi problemi di
trasmissione elettrica, ormai quel bastardo era a KO-landia.
Non avrebbe procurato altri guai, in attesa che Butch lo sistemasse per sempre.
John si lanciò verso la porta fuori dalla quale si era smateria lizzata Xhex, slittando sul sangue che adesso scorreva
rosso ruggine e nero lucido.
Giunto sulla soglia spalancata, si tenne agli stipiti.
Era il placcaggio più spettacolare che avesse mai visto. Il lesser che Xhex stava inseguendo stava tornando di volata
verso la fattoria, avendo evidentemente riconsiderato la sua strategia di fuga; correva come un matto, i piedi nudi che
picchiavano sull'erba ghiacciata. Xhex però stava recuperando terreno, triangolando un'intercettazione possibile solo
perché era più forte e più concentrata dell'ex umano.
John non avrebbe avuto il tempo di intervenire anche se avesse voluto: Xhex balzò per aria come una molla e si
allungò verso il lesser. Lo afferrò per la vita e, ancora in volo, lo fece voltare, incollandolo al suolo e praticando un
taglio così profondo dietro entrambe le cosce che quello si mise a strillare come una femminuccia.
Poi subito si rialzò, pronta a ricominciare...
«John! Dietro di te!»
A quel grido lui si voltò di scatto e si trovò davanti un lesser che, caricando come un toro, lo scaraventò fuori dalla
porta. John atterrò sul fondoschiena, scivolando all'indietro sul lurido vialetto di cemento.
Ecco a cosa serviva portare robusti calzoni di pelle.
A risparmiarti una dermoabrasione completa.
Scocciato di ritrovarsi parcheggiato sul prato con Xhex a fare da spettatrice, afferrò quel bastardo per i capelli e lo
torse in un arco fin quasi a spezzargli la spina dorsale.
Con un ringhio muto, sfoderò le zanne e lo addentò al collo, staccando un bel tocco di anatomia ex umana che sputò
subito fuori, prima di riportare il lesser gorgogliante alla festa trascinato per i capelli. Passando accanto a Xhex, le
rivolse un cenno del capo.
«Prego, non c'è di che», disse lei con un piccolo inchino. «Bella mossa, quel morso.»
John si voltò a guardarla; quella manifestazione di rispetto lo colpì più di quando avesse fatto o potesse mai fare un
qualunque lesser. col cuore gonfio di orgoglio, gli sembrava di volare a mezzo metro da terra.
Che idiota, era proprio cotto...
Il rumore inconfondibile di uno sparo alle sue spalle lo bloccò sul posto.
La detonazione risuonò così vicina che i timpani, più che registrare qualcosa di specifico, sentirono dolore; per una
frazione di secondo si chiese chi aveva fatto fuoco e chi, eventualmente, era stato colpito.
La seconda domanda trovò risposta quando la gamba sinistra cedette sotto il suo peso e lui si abbatté al suolo come
una quercia.
Capitolo 56
Xhex fece volare il coltello una frazione di secondo dopo aver visto il lesser sbucare da dietro l'angolo e puntare una
pistola alla schiena di John.
Il pugnale colmò la distanza in un batter d'occhio, fendendo l'aria e sfiorando l'orecchio di John, al punto che Xhex
pregò un Dio in cui non credeva che non decidesse di voltare la testa per un motivo qualunque.
Nell'istante in cui il non morto premette il grilletto, la lama gli trafisse la spalla, provocando un leggero spostamento
del busto, e il dolore gli fece abbassare il braccio.
Così John si beccò la pallottola nella gamba invece che nel cuore.
Appena vide il suo maschio cadere per terra, Xhex lo scavalcò d'un balzo con un grido di guerra.
Al diavolo Butch O'Neal. Quel bastardo lo avrebbe ucciso lei.
Il lesser armeggiava nel disperato tentativo di sfilarsi il pugnale dalla spalla... almeno finché non la sentì urlare.
Allora guardò verso di lei e si ritrasse inorridito, lasciando intuire che gli occhi rosso fuoco di Xhex fiammeggiavano
e le sue zanne scintillavano al massimo della loro lunghezza.
Xhex gli atterrò davanti e, quando quello si fece piccolo piccolo, alzando le mani per proteggersi il viso e il collo,
rimase immobile: il suo pugnale di scorta restò nel fodero al suo fianco e il terzo in quello agganciato alla coscia.
Aveva altri progetti per il ragazzo.
Usando il suo lato symphath, scavò nel cervello del non morto, scoperchiando i suoi ricordi così che, d'un tratto, lui
venne investito da tutti gli orrori compiuti e da tutte le scelleratezze subite.
Un mucchio di porcherie. Un muuuuuucchio di porcherie. A quanto pareva, aveva un debole per le minorenni.
Be', sarebbe stata una soddisfazione sotto molti punti di vista.
Il lesser crollò a terra urlando e stringendosi le tempie - senza la benché minima possibilità di arrestare quel diluvio e lei lo lasciò soffrire e sguazzare nei suoi peccati; la sua griglia emotiva era illuminata in tutti i settori indicanti
paura, ribrezzo, rimpianto e odio.
Quando cominciò a sbattere la testa contro la tappezzeria lercia, lasciando una macchia nera in corrispondenza
dell'orecchio, Xhex gli piantò un unico pensiero nella mente.
Ce lo piantò come un tralcio d'edera... un tralcio d'edera velenosa, in grado di attecchire nel suo terreno mentale e di
diffondersi fino a infestarlo completamente.
«Sai quello che devi fare», gli disse con una voce profonda, ipnotica. «Sai come uscirne.»
Il lesser abbassò le braccia, scoprendo gli occhi spiritati. Schiacciato dal peso di ciò che Xhex aveva liberato, e reso
schiavo dei suoi ordini, afferrò il manico del pugnale, estraendolo dalla propria carne.
Poi, rivolgendolo nuovamente contro se stesso, lo afferrò con entrambe le mani e contrasse le spalle, pronto ad
affondare la lama con forza.
Xhex lo fermò, paralizzandolo, in modo da potersi inginocchiare accanto a lui. Avvicinò la faccia alla sua e lo guardò
dritto negli occhi, sibilando, «Non devi azzardarti a toccare ciò che mi appartiene. Adesso, da bravo, sbudellati.»
Uno schizzo di sangue nero le imbrattò i calzoni di pelle quando il lesser si affondò la lama nell'addome, tirandola
poi di traverso fino a farsi uno squarcio mostruoso.
Quindi, a un comando mentale di Xhex, quando già rovesciava gli occhi nelle orbite, estrasse l'arma e gliela porse per
il manico.
«Grazie», borbottò lei. Poi lo pugnalò al cuore e, in un lampo, lui svanì.
Xhex ruotò su se stessa, facendo stridere la suola dell'anfibio sul pavimento bagnato.
John la fissava con due occhi non molto diversi da quelli del lesser, talmente sgranati che non si vedevano più le
palpebre.
Xhex pulì la lama del primo pugnale sui pantaloni. «Quanto è grave la ferita?»
Mentre John le mostrava la mano col pollice alzato, in segno di rassicurazione, Xhex si rese conto che la casa era
silenziosa e si guardò intorno. Stavano tutti bene: Qhuinn, che si stava raddrizzando dopo una decapitazione, si voltò
di scatto per controllare come stava John; Rhage, invece, stava arrivando di corsa dalla cucina con Vishous alle
calcagna.
«Chi è stato colpi...» Rhage frenò in velocità, guardando il foro nei calzoni di John. «Caspita, qualche centimetro più
su e più a sinistra e adesso canteresti da soprano, amico.»
V aiutò John a rimettersi in piedi. «Già, ma così almeno avrebbe potuto dedicarsi a lavorare a maglia con te. Avresti
potuto insegnargli a farsi i calzettoni all'uncinetto. Commovente.»
«Se ben ricordo, non sono io quello con la fissa per le cose strane...»
Nel sentire un rantolo proveniente dal salotto Vishous imprecò, precipitandosi al fianco di Butch, che rischiava di
cadere in corridoio.
Oh... cavolo, pensò Xhex, forse doveva rivedere la storia dello "stavano tutti bene". L'ex poliziotto sembrava vittima,
contemporaneamente, di un avvelenamento da cibo, della malaria e dell'influenza suina.
«Ci serve una macchina», disse rivolta a Qhuinn e Rhage. «Lui e John vanno trasportati al quartier generale...»
«Al mio amico ci penso io», ribatté burbero Vishous, facendo da stampella a Butch mentre lo riaccompagnava verso il
divano in salotto.
«E io vado a prendere l'Hummer», disse Qhuinn.
Stava già per voltarsi, quando John picchiò il pugno sul muro per attirare l'attenzione di tutti e a gesti disse, Io posso
ancora combattere. ..
«Tu devi farti vedere dalla dottoressa», disse Xhex.
Le mani di John cominciarono a volare così in fretta che lei non riusciva a seguirlo, ma era piuttosto chiaro che non ci
stava a farsi mettere in panchina solo per quel pezzo di piombo nella gamba.
La discussione venne interrotta da una luce brillante che la spinse a sporgersi di lato per lanciarsi un'occhiata alle
spalle. Ciò che vide chiarì parecchie cose, e non solo quanto era successo nello scontro appena conclusosi: sul divano
sudicio, V stringeva Butch tra le braccia, la testa accostata alla sua, talmente vicino da annullare lo spazio tra loro. In
quell'abbraccio, Vishous brillava da capo a piedi e Butch sembrava trarre da lui la forza per guarire.
L'evidente affetto di V verso l'ex sbirro glielo rese meno antipatico... specie quando lui voltò la faccia e la guardò. Per
una volta la sua maschera di ghiaccio cadde e la disperazione che gli si leggeva negli occhi era la prova che non era
un perfetto idiota. Al contrario, sembrava sentire tutto il dolore del sacrificio di suo fratello per la razza. Uno strazio
che lo divorava vivo.
Oh, e... a quanto pareva Butch era suo. Il che spiegava perché V ce l'avesse tanto con lei. Era geloso che Xhex avesse
avuto un pezzo di ciò che lui aveva tanto desiderato e, per quanto si sforzasse di essere razionale, non poteva fare a
meno di volergliene.
È successo una volta soltanto, però, gli comunicò telepaticamente lei. E poi basta.
Un attimo dopo V annuì, quasi avesse apprezzato quella rassicurazione, e lei ricambiò quel segno di rispetto. Poi
tornò a concentrarsi sui vampiri che aveva davanti. Rhage le aveva dato il cambio, con John, saltando sul treno del
"che cavolo no non puoi continuare a combattere".
«Torno a casa con te, John», intervenne lei. «Torniamo a casa insieme.»
John la guardò negli occhi: la sua griglia emotiva era illuminata come la via principale di Las Vegas.
Xhex scosse la testa. «Io mi atterrò al nostro patto e tu penserai a guarire.»
Ciò detto, rinfoderò i pugnali, incrociò le braccia sul petto e si appoggiò contro il muro, per la serie "ho tutto il tempo
del mondo".
Gli aveva salvato la vita.
Senza il minimo dubbio, Xhex gli aveva restituito il suo futuro prima ancora che lui si rendesse conto che stava per
perderlo: l'unico motivo per cui era ancora vivo era che lei aveva centrato alla spalla quel non morto col suo coltello.
Per cui, sì, le era grato per tutto questo, ma non gli interessava proprio che vestisse i panni della bambinaia o della
crocerossina.
E poi quello non era neanche l'uso migliore e più nobile che potesse fare dei suoi talenti.
John guardò il segno bruciacchiato sul pavimento... ovvero ciò che restava del lesser che gli aveva sparato. Accidenti...
e pensare che Xhex aveva annientato quello stronzo senza neanche toccarlo. Era proprio un'arma prodigiosa, quella
che aveva nella mente. Cazzo, l'orrore sulla faccia di quel bastardo.... E poi aveva fatto harakiri. Cosa diavolo aveva
visto?
Adesso capiva perché i symphath erano temuti e segregati.
Tra quello spettacolino e la presa in cui si era esibita sul prato, John si rese conto che Xhex era esattamente ciò che lui
aveva sempre saputo: una guerriera fatta e finita.
Altro che saperci fare sul campo di battaglia: era una vera e propria risorsa, in guerra. Ecco perché tutti e due
dovevano andare avanti, quella notte, senza perdere tempo a tornare a casa per appiccicare un cerotto sulla sua bua.
Tirandosi su da terra con una spinta, si appoggiò sulla gamba ferita, che ululò di dolore. Ma ignorò quell'urlo... oltre
alla discussione che si scatenò intorno a lui.
Tutte chiacchiere gratuite e inutili. Pareri sulla sua gamba che non valeva neanche la pena di ascoltare.
La sordità selettiva è impagabile.
L'unica cosa che gli interessava era quanti ne avevano ammazzati quella sera. E se avevano beccato il furetto.
Guardando in salotto...
Rhage gli si parò davanti. «Ehi, ciao! Come stai?» Hollywood gli tese la mano. «Lascia che mi presenti. Sono il povero
fesso che ti infilerà a forza dentro l'Hummer del tuo amico Qhuinn, appena arriva. Ho pensato di presentarmi prima
di legarti come un salame e caricarti in spalla come un sacco di patate.»
John lo guardò torvo. Io non vado da nessuna parte.
Rahge sorrise; la sua bellezza incredibile sembrava piovuta dal cielo, ma quello era solo l'aspetto esteriore. Ciò che
aveva dentro veniva dritto dall'inferno... in una situazione come quella. «Spiacente, risposta sbagliata.»
Sto bene...
Quel pezzo di merda, lurido bastardo figlio di puttana si chinò, afferrò la gamba di John all'altezza della ferita e
schiacciò con forza il foro d'entrata del proiettile.
John urlò senza emettere alcun suono e andò giù in caduta libera, atterrando con un tonfo sul pavimento coperto di
sangue. Alzò la gamba cercando di stringere la coscia, come se mostrarle un affetto tardivo potesse convincerla a
calmarsi.
Gli sembrava di avere un pezzo di vetro conficcato nel muscolo.
«Era proprio necessario?» chiese Xhex.
Adesso Rhage non scherzava più. «Vuoi metterti a ragionare con lui? Auguri. E se credi che un lesser non farebbe
altrettanto, sei fuori come un balcone. C'è un foro circolare sul davanti dei suoi calzoni, si vede benissimo, e lui
zoppica. Anche un imbecille capirebbe qual è il suo punto debole. E poi puzza di sangue fresco.»
Quel bastardo probabilmente non aveva tutti i torti, ma Cristo santo...
Era possibilissimo che John fosse svenuto dal dolore, perché la cosa che ricordava subito dopo era il suddetto "povero
fesso", per usare la sua stessa definizione, che lo sollevava per portarlo fuori dalla fattoria.
Eh, no, non esisteva proprio. John si liberò dalla stretta del fratello e tentò di atterrare senza bestemmiare o vomitare.
Con la bocca che mimava ogni sorta di improperio contenente cazzo, oltrepassò zoppicando Butch, che adesso stava
molto meglio, e V, che si era acceso una delle sue sigarette rollate a mano.
Sapeva esattamente dov'era Xhex: dietro di lui, con la mano sulla sua schiena, come se sentisse che era instabile e
poteva cadere da un momento all'altro.
Ma non c'era pericolo. Stringendo i denti con un gran fegato, riuscì a montare sull'Hummer da solo. Certo, quando
Qhuinn partì, John era in un bagno di sudore gelato e non sentiva più né le mani né i piedi.
Sentì Xhex che diceva, «Abbiamo contato i cadaveri.»
Quando si voltò, vide che lo stava guardando. Dio... com'era bella, alla luce distillata del cruscotto. Sul suo volto
magro c'era una macchia nera di sangue di lesser, ma le guance avevano un colorito acceso e gli occhi brillavano di
una luce speciale. Quella sera si era proprio divertita, pensò John. Se l'era goduta alla grande.
Era proprio la femmina ideale, accidenti a lui.
E quanti ne abbiamo fatti fuori? chiese, cercando di distrarre la femminuccia sentimentale che albergava dentro di lui.
«Dodici delle sedici nuove reclute, oltre ai due non morti che abbiamo visto arrivare col furetto. Purtroppo non
abbiamo trovato quel nuovo Fore-lesser... per cui dobbiamo supporre che il bastardelle se la sia svignata appena
abbiamo fatto irruzione, portandosi via un pugno di iniziati. Ah, e Butch ha inalato tutti i caduti, tranne due.»
Almeno uno dei quali è stato sistemato da te.
«A dire il vero tutti e due», precisò X, senza staccare gli occhi dai suoi. «Ti ha dato fastidio? Vedermi... agire in quel
modo?»
Dal tono si capiva che pensava di sì, e che non lo biasimava se era rimasto schifato. Ma si sbagliava.
Lottando contro il dolore alla gamba, John scosse la testa e, con mani ormai fiacche, disse, Hai un potere incredibile. Se
avevo l'aria scioccata... è perché non avevo mai visto in azione una come te.
Il volto di lei si tese in modo quasi impercettibile e Xhex guardò fuori dal finestrino.
Battendole sul braccio, John aggiunse, Era un complimento.
«Sì, scusa... è solo che quel "come te" mi lascia sempre perplessa. Io sono metà e metà, metà symphath e metà vampira,
come dire che non sono né carne né pesce. Non c'è nessuno "come me".» Liquidò il discorso con un gesto reciso della
mano. «Comunque sia... mentre eri svenuto, V è riuscito a entrare col suo cellulare nel database della polizia di
Caldwell. Neanche gli sbirri hanno trovato documenti di identità sulla scena del crimine, quindi non abbiamo in
mano niente, a parte l'indirizzo ricavato dalla targa di quella Civic. Scommetto che...»
Mentre Xhex parlava, John si lasciò scorrere addosso le sue parole.
Sapeva tutto di quel "nessuno è come me".
Era un altro aspetto che li rendeva compatibili.
Chiuse gli occhi rivolgendo una preghiera a chiunque fosse in ascolto, Ti prego, ti scongiuro, smettila di inviarmi
segnali che noi due siamo fatti l'uno per l'altra. Sapeva già tutto per filo e per segno: aveva letto il libro, visto il film,
comprato la colonna sonora, il DVD, la T-shirt, la tazza, il peluche e la guida introduttiva. Conosceva ogni motivo per
cui lui e Xhex avrebbero potuto essere una coppia perfetta.
Ma proprio come era consapevole di tutto ciò che li accomunava, gli era ancora più chiaro perché erano condannati a
restare per sempre separati.
«Stai bene?»
La voce di Xhex era bassa e più vicina e, quando lui socchiuse le palpebre, vide che gli era praticamente seduta in
braccio. Fece scorrere lo sguardo sul suo viso e sul suo corpo raggomitolato, fasciato di cuoio.
Il dolore e la sensazione che il loro tempo insieme stesse per scadere lo spinse a liberarsi di ogni filtro, dicendo ciò
che pensava veramente.
Voglio stare dentro di te, quando arriviamo a casa, disse nella lingua dei segni. Appena mi avranno messo una benda
su questa cazzo di gamba, voglio entrare dentro di te.
Lei era più che d'accordo, lo capì dall'odore penetrante che gli invase le narici.
Finalmente una buona notizia. Oltre al suo uccello, anche il suo morale si stava sollevando.
Capitolo 57
Al primo piano della villa padronale di Eliahu Rathboone, Gregg Winn dovette aprire con due dita la porta della
camera in cui aveva dormito con Holly, pregando di non rovesciarsi sulla gamba il caffè bollente. Aveva le mani
occupate da due tazze piene della bevanda che aveva preparato da solo con la caffettiera a disposizione degli "ospiti"
sulla credenza in sala da pranzo.
Per cui Dio solo sapeva che sapore aveva.
«Serve aiuto?» chiese Holly, alzando gli occhi dal portatile.
«No.» Gregg chiuse la porta con un calcio e si avvicinò al letto. «Ce l'ho fatta.»
«Come sei premuroso.»
«Aspetta di assaggiarlo... col tuo ho dovuto arrangiarmi in qualche maniera», ribatté lui, porgendole quello più
chiaro. «Non avevano il latte intero, che è quello che hai preso ieri a colazione. Così sono andato in cucina a prendere
un po' di panna e un po' di latte scremato e poi li ho mescolati cercando di ottenere il colore giusto.» Annuì in
direzione dello schermo del computer. «Cosa ne pensi di quelle inquadrature?»
Holly guardò dentro la tazza, tenendola sollevata sopra la tastiera del Dell. Allungata sul letto, con la schiena
appoggiata con-t ro la testiera ad analizzare i dati che lo ossessionavano, aveva un'aria sexy e intelligente.
E sembrava non fidarsi di quello che le aveva dato.
«Senti», disse Gregg, «assaggialo... se fa schifo andrò a svegliare il maggiordomo.»
«Oh, non è per il caffè.» Holly chinò la testa bionda e lui la sentì sorseggiare. L' "ahhh" che seguì era più di quanto
avrebbe potuto sperare. «Perfetto.»
Gregg girò intorno al letto e andò a sistemarsi accanto a lei, sopra il piumone. Bevendo un sorso dalla sua tazza,
decise che se la sua carriera televisiva andava a puttane aveva un futuro al banco di uno Starbucks. «Allora... dai,
dimmi cosa ne pensi delle riprese.»
Così dicendo, annuì in direzione dello schermo e di ciò che mostrava: la sera prima la telecamera aveva filmato
qualcuno che attraversava il salotto e usciva dal portone. Poteva essere un cliente che si era alzato per uno spuntino
di mezzanotte, come aveva appena fatto Gregg... peccato che si era smaterializzato attraverso i pannelli di legno. Era
svanito nel nulla.
Come l'ombra fuori dalla camera di Holly, la prima notte. Non che gli facesse piacere ripensarci, a quell'ombra. O al
sogno che lei diceva di aver fatto.
«Non hai ritoccato niente?» chiese Holly.
«No.»
«Dio...»
«Lo so, okay? E il network mi ha appena mandato una e-mail, mentre ero giù da basso. Non stanno più nella pelle; a
quanto pare in Internet sono già impazziti tutti per i promo... dobbiamo solo sperare che quel coso si ripresenti tra
una settimana, quando andremo in diretta. Sei sicura che il caffè va bene?»
«Oh, sì, è... fantastico.» Holly lo guardò da sopra il bordo della tazza. «Sai, non ti ho mai visto così.»
Gregg si appoggiò all'indietro, contro i cuscini; non poteva che essere d'accordo. Difficile dire cos'era cambiato;
comunque dentro di lui c'era stato un cambiamento.
Holly bevve un altro sorso. «Sembri proprio diverso.»
Non sapendo cosa dire, Gregg si mantenne sul terreno lavorativo. «Be', non ho mai pensato sul serio che i fantasmi
esistessero.»
«Ah no?»
«Naa. Sai bene quanto me tutte le aggiustatine che ho dato alle riprese. Ma qui in questa casa... dammi retta, qui c'è
qualcosa, e muoio dalla voglia di salire all'ultimo piano. Ho fatto questo sogno pazzesco in cui salivo di sopra...» Un
mal di testa improvviso interruppe i suoi pensieri; Gregg si massaggiò la tempia, pensando che aveva sforzato troppo
la vista: era stato al computer per settantadue ore di fila.
«Il maggiordomo ha detto che è off limits.»
«Già», fece Gregg. E non voleva contrariare troppo quel tipo. Avevano già un sacco di ottima TV da mostrare, non gli
servivano altre riprese... e non aveva senso tirare troppo la corda. L'ultima cosa che voleva era mettersi nei guai con la
direzione quando ormai erano a un passo dalla messa in onda.
Ed era evidente che Mister Ordine e Pulizia non provava nessuna simpatia per loro.
«Guarda, te lo faccio rivedere... ecco cosa mi lascia più sconcertato.» Gregg fece ripartire il file per riguardare un'altra
volta la figura che spariva attraverso il robusto portone di legno. «E' assolutamente incredibile, giusto? Voglio dire...
hai mai pensato di vedere una cosa così?»
«No.»
Qualcosa nella voce di Holly lo spinse a voltarsi verso di lei. Holly stava guardando lui, non lo schermo, la tazza
stretta sul cuore.
«Cosa c'è?» fece Gregg, controllando se per caso si era rovesciato il caffè sulla camicia.
«A dire il vero... è per il caffè.»
«Retrogusto amaro?»
«No, anzi...» Holly fece una risatina e bevve un altro sorso. «Solo, non avrei mai immaginato che ti ricordassi che tipo
di caffè mi piace, e ancor meno che ti prendessi il disturbo di prepararmelo. Ed è la prima volta che mi chiedi un
parere sul lavoro.»
Gesù... aveva ragione.
Holly si strinse nelle spalle. «E non mi sorprende più di tanto che tu non abbia mai creduto in quello che facevi. Solo,
sono contenta che adesso tu ci creda.»
Incapace di mantenere il contatto visivo, Gregg volse lo sguardo oltre le loro due paia di piedi coperti dai calzettoni,
verso le finestre in fondo alla stanza. Attraverso il pizzo delle tendine la luna si vedeva appena, nient'altro che un
debole chiarore sull'orizzonte buio.
Holly si schiarì la gola. «Scusa se ti ho messo in imbarazzo.»
«Oh... sì... no.» Gregg le prese la mano libera e la strinse forte. «Senti... c'è una cosa che vorrei dirti.»
La sentì irrigidirsi... allora erano in due. All'improvviso anche lui si stava facendo forza.
Gregg si schiarì la voce nel silenzio di tomba. «Mi tingo i capelli.»
Ci fu una pausa carica di tensione... almeno da parte sua. Poi Holly scoppiò in una risata gorgogliante, il tipo di risata
allegra e rilassata che accompagna il senso di sollievo.
Appoggiandosi contro di lui, fece scorrere le unghie tra le onde falsamente scure. «Davvero?»
«Ho le tempie grigie. Molto grigie. Ho cominciato a prendere provvedimenti un anno prima di conoscerti... tocca
restare giovani, a Hollywood.»
«Da chi vai? Perché non ti si vede mai la ricrescita.»
Con un'imprecazione, Gregg scese dal letto e si mise a rovistare fino in fondo alla valigia.
Mostrandole la scatola in questione, farfugliò, «Tintura per capelli Just for Men, per soli uomini. Me li tingo da solo.
Non voglio farmi beccare in qualche negozio di parrucchiere.»
Holly fece un sorriso così largo che le si formarono delle ru-ghette intorno agli occhi. E, chi l'avrebbe mai detto,
Gregg le trovò carine. Conferivano un certo carattere al suo viso grazioso.
Abbassò gli occhi sulla scatola. Guardando il modello sulla confezione, venne assalito da tutta una serie di verità, del
tipo che semplicemente non poteva contrastare e neppure contestare. «Sai una cosa? Odio le T-shirt Ed Hardy. Hanno
dei colori assurdi, roba che ti brucia le retine. E i jeans effetto usato mi danno il prurito... e quei mocassini con la
punta quadrata che porto sempre mi fanno male ai piedi. Sono stufo di essere sempre sospettoso di tutti e di lavorare
per soldi solo per poterli spendere prima di tutti gli altri per comprare cose che l'anno venturo saranno passate di
moda.» Ributtò la tintura per capelli in valigia, contento di poterla finalmente lasciare fuori all'aria aperta, per così
dire. «E quei file al computer? Sono i primi che io e Stan non abbiamo manipolato. Per tantissimo tempo sono stato
una persona fasulla che lavorava per un'industria fasulla producendo roba fasulla. L'unica cosa vera erano i quattrini,
e sai una cosa? Non so se questo fa ancora per me.»
Detto ciò, tornò a letto; Holly finì il caffè, mise da parte computer e tazza e si stese sopra il suo petto.
La migliore coperta che avesse mai avuto, pensò Gregg.
«Cosa ti piacerebbe fare, allora?» chiese Holly.
«Non lo so. Non questo. Be', in realtà questa storia del cacciatore di fantasmi comincia ad appassionarmi, ci sto
prendendo gusto, diciamo. Fare ancora il produttore? Bah.» Guardando la sommità della testa di Holly, non potè fare
a meno di sorridere. «Tu sei l'unica a sapere dei miei capelli da vecchietto.»
E aveva la strana sensazione che il segreto fosse al sicuro, con lei.
«A me non importa», fece Holly, accarezzandogli i pettorali. «E non dovrebbe importare neanche a te.»
«Com'è che non mi ero mai accorto che sei così intelligente?»
Sentì risuonare attraverso il petto la risata di Holly. «Forse perché facevi lo scemo.»
Gregg gettò la testa all'indietro, ridendo di gusto. «Già, forse.» La baciò sulla tempia. «Forse... decisamente. Però
adesso ho chiuso con le scemenze.»
Dio... ancora non sapeva bene cos'era cambiato. Be', tutto.., ma il motivo preciso restava un mistero. Era come se
qualcuno gli avesse dato una raddrizzata, ma non ricordava chi, dove o quando.
Gli occhi gli caddero sul computer e ripensò a quell'ombra misteriosa. Per qualche motivo ebbe la visione di uno
stanzoni-grande e vuoto, che faceva pensare a una caverna, all'ultimo piano di quella casa... e di un uomo enorme
seduto su una sedia con un cono di luce che lo illuminava solo dalle ginocchia in giù.
Poi l'uomo si sporgeva in avanti... nella luce...
Il dolore alla testa gli fece temere che qualcuno gli avesse trafitto le tempie con un punteruolo da ghiaccio, in stile
Basic Instinct.
«Stai bene?» chiese Holly, rizzandosi a sedere. «Ancora la testa?»
Lui annuì, anche se il movimento gli diede il capogiro e il voltastomaco, neanche avesse tracannato del latte andato a
male. «Già. Mi sa che ho bisogno di un nuovo paio di occhiali. Magari addirittura bifocali... mannaggia.»
Holly gli accarezzò i capelli; quando Gregg la guardò negli occhi, il dolore lancinante si placò e lui sentì una strana
sensazione nel petto. Felicità? si chiese.
Sì. Per forza. Perché in tutta la sua vita da adulto aveva sperimentato l'intera gamma delle emozioni... e mai una volta
si era sentito così. Completo. Intero. In pace.
«Holly, sei molto più di quello che pensavo», sussurrò, accarezzandole la guancia.
I begli occhi di lei si velarono di lacrime. «E tu sei diventato proprio come volevo che fossi.»
«Be', allora questo programma ci ha proprio cambiato la vita.» La baciò lentamente. «E io ho il finale perfetto.»
«Davvero?»
Gregg annuì, accostandole la bocca all'orecchio. In un sussurro disse, «Ti amo.»
Era la prima volta che, pronunciando quelle parole... era sincero.
E mentre lei, con la voce rotta dalla commozione, diceva, «Ti amo anch'io», Gregg la baciò e la baciò di nuovo... con la
sensazione di dovere quel momento magico a un fantasma.
Alla fine veniva fuori che il suo Cupido era una grossa ombra con un brutto caratteraccio. Che non esisteva nel
mondo "reale".
D'altra parte... le persone si mettono insieme per i motivi più strani, no? L'importante è che la coppia giusta possa
vivere il suo romantico lieto fine. Le strade per cui i due piccioncini ci arrivano non contano poi tanto, in definitiva.
E poi, adesso poteva smetterla di tingersi i capelli.
Sì, la vita è bella. Specie se spegni l'ego... e nel letto hai la donna giusta per i motivi giusti.
Questa volta non si sarebbe lasciato sfuggire Holly.
E si sarebbe preso cura di lei nel modo giusto, proprio come lei si meritava, per... be', per sempre suonava bene, no?
Capitolo 58
Nella clinica privata della confraternita, Xhex rimase al fianco di John mentre la dottoressa Jane gli faceva una
radiografia alla gamba. Una volta esaminate le lastre, la dottoressa non ci mise molto a concludere che doveva essere
operato... perfino Xhex, malgrado il suo panico abituale per il luogo in cui si trovava, vedeva chiaramente il
problema: il proiettile era troppo vicino all'osso per poter stare tranquilli.
Mentre Jane chiamava Ehlena e poi andava a cambiarsi, Xhex incrociò le braccia sul petto e si mise a camminare
avanti e indietro.
Non riusciva a respirare. E questo anche prima di dare un'occhiata alla ferita alla gamba di John.
Quando lui la chiamò con un fischio sommesso, lei scosse la testa e continuò a camminare in cerchio intorno alla
stanza. Girare davanti a tutti gli armadietti di acciaio inox, con i loro sportelli di vetro e i medicinali in gabbia, non fu
di grande aiuto: alla fine il suo cuore galoppava ancora più veloce, nel petto... martellava talmente forte, alla Bon Jovi,
che i timpani facevano aerobica.
Dio, stava lottando con la propria paura dal momento in cui era entrata lì dentro insieme a John. E adesso che stavano
per tagliarlo e ricucirlo...
Avrebbe perso la testa, cazzo.
Anche se, onestamente... se cercava di usare la logica, era pura follia. Primo, non era lei a dover subire l'intervento,
secondo, lasciargli dentro quel pezzo di piombo non era una buona idea e, terzo... svegliaaaaa... sarebbe stato operato
da una persona che aveva già ampiamente dimostrato di saperci fare con un bisturi in mano.
Brava, complimenti. Peccato che le sue ghiandole surrenali, con
un gestaccio a tutte quelle belle razionalizzazioni, continuarono imperterrite a pompare fiumi di adrenalina.
Le fobie sono uno vero spasso.
Il secondo fischio fu più imperioso; Xhex si fermò davanti a John e lo guardò in faccia. Era tranquillo e rilassato.
Niente isterismi, niente crisi di panico, solo la calma accettazione di ciò che lo attendeva.
Andrà tutto bene, disse nella lingua dei segni. ]ane l'ha già fatto un milione di volte.
Gesù Cristo, dove diavolo era finita tutta l'aria della stanza? si chiese Xhex...
Quasi avesse intuito che la stava perdendo, John fischiò di nuovo e tese la mano, serio.
«John...» Quando non riuscì a tirare fuori niente di coerente, Xhex scosse la testa e ricominciò a camminare su e giù.
Odiava tutto questo. Lo odiava, senza scherzi.
La porta si spalancò e la dottoressa Jane entrò insieme a Eh-lena. Erano nel bel mezzo di una discussione sulla
procedura da seguire e John fischiò per chiamarle. Quando alzò l'indice per indicare che gli serviva un minuto, le due
femmine annuirono e tornarono fuori.
«Merda», esclamò Xhex, «non fermarle. Adesso mi passa.»
Stava andando alla porta per far rientrare la dottoressa, quando una specie di schianto riecheggiò nella stanza.
Temendo che John fosse caduto dal lettino, Xhex si voltò di scatto...
No, aveva sferrato un pugno al tavolo d'acciaio inossidabile, lasciandoci il segno.
Parlami, disse a gesti. Non le faccio tornare finché non parli.
Lei aveva voglia di litigare e il vocabolario per farlo... solo la voce, evidentemente, le mancava. Per quanto si
sforzasse, non riusciva a spiccicare parola.
Fu allora che John spalancò le braccia.
Maledicendosi, Xhex disse, «Adesso mi faccio coraggio. Sarò matura ed equilibrata. Non crederai ai tuoi occhi.
Davvero. Sul serio.»
Vieni qui, sillabò lui.
«Oh... cavolo.» Xhex si arrese e andò ad abbracciarlo.
«Queste cose mediche mi mettono in crisi», disse contro il suo collo. «Nel caso tu non l'abbia notato. Scusa, John...
accidenti, ti deludo sempre, vero?»
Lui la trattenne prima che potesse scostarsi. Tenendola ferma, con gli occhi disse, a gesti, Stanotte mi hai salvato la
vita. Non sarei vivo, adesso, se tu non avessi lanciato quel coltello. Quindi non (' vero che mi deludi sempre... quanto a
questo intervento, io non sono preoccupato e tu non sei costretta a guardare... vai ad aspettarmi su in casa. Finirà alla
svelta. Non tormentarti.
«Non voglio scappare via spaventata.» Muovendosi in fretta, per non dover pensare troppo e impedire anche a lui di
farlo, gli prese la faccia tra le mani e lo baciò con trasporto. «Ma forse aspettare fuori è una buona idea.»
In fin dei conti, mica poteva costringere la dottoressa Jane a interrompersi nel bel mezzo dell'intervento per assistere
una spettatrice fifona con la nausea o il capogiro. O con una commozione cerebrale perché quell'idiota era crollata per
terra svenuta.
Sì, forse è meglio, sillabò John.
Xhex si staccò da lui e, mettendo un piede dopo l'altro, arrivò alla porta e fece entrare Ehlena e Jane. Quando la
dottoressa le passò davanti, Xhex l'afferrò per un braccio.
«Per favore...» Dio, cosa poteva dire?
Jane annuì. «Ci penso io. Non si preoccupi.»
Xhex inspirò a fondo, rabbrividendo. Chissà come diavolo sarebbe riuscita a superare l'attesa, lì fuori in corridoio.
Sapendo come funzionava il suo cervello, col lento scorrere dei minuti si sarebbe immaginata John che urlava in
silenzio per il dolore e la dottoressa Jane che gli amputava tutta la gamba...
«Xhex... le spiace se le do un suggerimento?» disse Jane.
«Spari. In effetti... più che spararmi potrebbe mollarmi un cazzotto. Un bel montante forse mi aiuterebbe a darmi una
calmata.»
Jane scosse la testa. «Perché non resta a guardare?»
«Cosa?»
«Stia qui a guardare quello che faccio, come lo faccio e perché lo faccio. Un mucchio di gente è terrorizzata da medici
e ospedali... per ottimi motivi. Ma le fobie sono fobie, che a scatenarle sia un aeroplano, un dentista o un medico... e
la terapia dell'esposizione funziona. Se si elimina il mistero e la sensazione di non avere il controllo, la paura non ha
più tanta presa.»
«Bell'esempio di logica. Ma cosa succede se svengo?»
«Se le gira la testa può sedersi e uscire quando vuole. Fare domande e guardare da sopra la mia spalla, se se la sente.»
Xhex guardò John, e il suo solenne cenno di assenso segnò il suo destino. Sarebbe rimasta.
«Devo cambiarmi?» chiese con una voce che non riconobbe.
Merda, che roba da ragazzina. Tra un po', senza neanche accorgersene, si sarebbe messa a frignare davanti alle
pubblicità alla tele e a pitturarsi le unghie. E si sarebbe comprata una cazzo di pochette.
«Sì, la voglio in camice. Mi segua.»
Quando tornarono, cinque minuti dopo, Jane la portò al lavandino, le porse una confezione sigillata contenente una
spugna imbevuta di Betadine e le mostrò come lavarsi con cura.
«Ottimo lavoro.» La dottoressa chiuse l'acqua togliendo il piede da un pedale sul pavimento. «I guanti non le servono
perché non deve operare.»
«Ci può giurare. Mi dica, c'è un carrello per le emergenze a portata di mano, nel caso mi venga un coccolone?»
«Lì nell'angolo, e so usare il defibrillatore.» La dottoressa Jane si infilò un paio di guanti azzurri e andò da John. «Sei
pronto? Dovremo metterti sotto sedativo. Visto dov'è il proiettile, dovrò incidere a fondo e non posso farlo senza
anestesia totale.»
Mi addormenti pure, dottoressa, disse John.
La shellan di V gli posò una mano sulla spalla, guardandolo dritto negli occhi. «Ci penso io, non preoccuparti.»
Accigliandosi, Xhex si scoprì a provare un misto di soggezione e rispetto verso Jane. Mostrare tanta sicurezza, data la
posta in gioco, era piuttosto sconcertante: se la dottoressa non faceva bene il suo lavoro, John poteva stare molto
peggio di adesso, ma se l'intervento riusciva sarebbe tornato come nuovo.
Questo sì che è potere, pensò Xhex. Agli antipodi di quello che faceva lei per professione... una lama, nelle sue mani,
era uno strumento ben diverso.
Non c'era nessuna guarigione, nel suo caso.
La dottoressa Jane diede inizio a una radiocronaca in diretta, con voce forte e calma. «In un ospedale umano sarebbe
presente un anestesista, ma voi vampiri tendete a essere molto stabili sotto anestesia... cadete in una specie di letargo.
Non capisco come funzioni, ma mi agevola nel lavoro.»
Mentre Jane parlava, Ehlena aiutò John a levarsi la maglietta e i pantaloni di pelle, che la dottoressa aveva tagliato;
poi stese dei teli azzurri sopra il suo corpo nudo e avviò una flebo.
Xhex cercò di smetterla di guardarsi intorno frenetica, ma con scarsi risultati. C'erano troppe minacce, lì dentro, tutti
quei bisturi, quegli aghi e...
«Perché?» chiese, sforzandosi di reagire. «Questa differenza tra le specie, voglio dire.»
«Non ne ho la più pallida idea. Voi avete un cuore con sei cavità mentre il nostro ne ha quattro. Voi avete due fegati,
noi uno. Voi non vi ammalate di cancro o di diabete.»
«Non ne so molto, sul cancro.»
La dottoressa Jane scosse la testa. «Magari riuscissimo a sconfiggerlo in tutti quelli che ce l'hanno. È una brutta
bestia, glielo dico io. Quello che succede è che si verifica una mutazione cellulare per cui...»
La dottoressa continuò a parlare, ma adesso muoveva le mani sui carrelli di acciaio inossidabile che erano stati spinti
vicino a John, riordinando gli strumenti che doveva usare. Quando rivolse un cenno del capo a Ehlena, quest'ultima
si avvicinò alla testa di John e gli coprì il volto con una mascherina di plastica trasparente.
La dottoressa si avvicinò alla flebo con una siringa piena di un liquido lattiginoso. «Sei pronto, John?» quando lui le
diede l'okay, lei premette lo stantuffo.
John guardò Xhex e le strizzò l'occhio. Poi perse conoscenza.
«Per prima cosa occorre disinfettare», spiegò la dottoressa Jane, aprendo un pacchetto da cui estrasse una spugna
marrone scuro. «Perché non si mette lì, di fronte a me? Questo si chiama Beta-dine, è lo stesso disinfettante con cui ci
siamo lavate le mani, solo che non è sotto forma di sapone.»
Mentre la dottoressa passava la soluzione antisettica intorno alla ferita prodotta dalla pallottola, lasciando sulla pelle
larghe strisce di un marrone rossiccio, Xhex girò intorno al lettino con passo malfermo.
In effetti quella era una posizione migliore. Era proprio accanto a un contenitore arancione per rifiuti biologici... così
se le veniva da vomitare era già a posto.
«Il motivo per cui il proiettile va rimosso è che col tempo potrebbe causare dei problemi. Nel caso di un paziente
meno attivo, potrei lasciarlo dov'è, ma ritengo che con un soldato sia meglio prendere tutte le precauzioni. In più, voi
guarite così in fetta.» La dottoressa buttò la spugna nel contenitore accanto a Xhex. «In base alla mia esperienza con i
vampiri, qualsiasi lesione all'osso guarirà entro domani sera.»
Xhex si chiese se la dottoressa o l'infermiera si rendevano conto che il pavimento sotto i loro piedi dondolava come se
fosse appoggiato sull'acqua. Perché sembrava proprio di stare sul ponte di una nave.
Lanciò una rapida occhiata alle due professioniste: sembravano salde come querce.
«Ora pratico un'incisione», spiegò la dottoressa, chinandosi sulla gamba col bisturi in mano. «Ecco. Quella che vedrà
subito sotto la pelle è la fascia, la membrana esterna più robusta che avvolge i muscoli e tiene insieme quello che
abbiamo dentro. Un umano nella media avrebbe delle cellule adipose tra i due strati, ma John è in splendida forma.
Sotto la fascia c'è il muscolo.»
Xhex si piegò all'altezza della vita, intenzionata a buttare lì un'occhiatina veloce... ma poi rimase ferma così.
Quando la dottoressa Jane praticò un'altra incisione col bisturi, la membrana fibrosa si ritrasse, mettendo in evidenza
i fasci muscolari rosa scuro... con un foro dentro. Osservando il danno interno, Xhex fu assalita dall'impulso di
uccidere da capo quel lesser. Gesù, aveva ragione Rhage. Cinque centimetri più su e più a sinistra e John sarebbe
stato...
Già, meglio non pensarci, si disse, spostandosi per migliorare la visuale.
«Aspirare», ordinò la dottoressa.
Si sentì come un sibilo ed Ehlena infilò nell'incisione un tubicino bianco che risucchiò il sangue rosso di John.
«Ora userò il dito per sondare... a volte toccare con mano è la cosa migliore...»
Xhex finì con l'assistere a tutto l'intervento. Dall'inizio alla fine, dalla prima incisione all'ultimo punto di sutura, con
in mezzo l'estrazione del proiettile.
«... e con questo abbiamo finito», dichiarò la dottoressa Jane più o meno tre quarti d'ora dopo.
Mentre Ehlena bendava la gamba di John e la dottoressa ricalibrava il liquido che gli stavano pompando nelle vene,
Xhex prese la pallottola dal vassoio e la esaminò con attenzione. Era così piccola. Così maledettamente piccola. Ma
capace di provocare devastazioni letali.
«Ottimo lavoro, dottoressa», disse brusca, infilandosi il proiettile in tasca.
«Adesso lo sveglio, così potrà guardarlo negli occhi e avere la conferma che sta davvero bene.»
«Legge nel pensiero?»
La dottoressa alzò su di lei due occhi che sembravano vecchissimi. «No. Ho solo accumulato una grande esperienza
con familiari e amici di pazienti. Lei ha bisogno di vedere gli occhi di John prima di tirare un sospiro di sollievo. E
lui proverà lo stesso sollievo quando la guarderà in faccia.»
John riprese conoscenza circa otto minuti dopo. Xhex lo aveva cronometrato, controllando l'orologio alla parete.
Quando sollevò le palpebre, lei era lì, vicino alla sua testa, e gli teneva la mano. «Ehi... sei tornato.»
Lui era intontito, com'era prevedibile. Ma quello sguardo azzurro vivo era esattamente com'era sempre stato, e il
modo in cui le strinse la mano non lasciava spazio a dubbi... era tornato alla grande.
Il respiro che Xhex non si era accorta di trattenere, lentamente riprese a fluire dai polmoni, un enorme sollievo la tirò
su di morale, neanche il suo cuore fosse partito su un razzo per la luna. La dottoressa Jane aveva avuto ragione a farla
restare. Appena si era lasciata coinvolgere ascoltando, guardando e imparando, il panico era diminuito fino a ridursi
a un lieve fastidio facile da dominare. E poi è affascinante scoprire com'è fatto un corpo.
Okay? sillabò John.
«Sì, la dottoressa ha estratto il proiettile senza problemi...»
John scosse la testa. Tu? Okay?
Porca... miseria, pensò lei. John era proprio una persona di valore.
«Sì», disse brusca. «Sì, sto bene... grazie di avermelo chiesto.»
Guardandolo, si rese conto che non si era soffermata troppo a riflettere come gli aveva salvato la vita.
Aveva sempre saputo di essere brava col coltello, ma mai si sarebbe immaginata che quel talento potesse essere tanto cruciale, come invece si era rivelato alla fattoria in quella
frazione di secondo.
Un battito di ciglia più tardi e... addio John. Per tutti, per sempre.
In eterno.
Il solo pensiero bastò a farla ripiombare nel panico; aveva le mani sudate e il cuore, più che battere, dava i numeri.
Alla fine di tutta quella vicenda ognuno sarebbe andato per la sua strada, lo sapeva... ma non aveva la minima
importanza se pensava a un mondo in cui John non respirava, non rideva, non combatteva e non dispensava
gentilezze a tutti quelli che lo circondavano.
Cosa c'è? sillabò lui.
Lei scosse la testa. «Niente.»
Già, che bugia.
Era tutto.
Capitolo 59
Utilizzarono la carrozza rimasta accanto alle stalle per scortare la fanciulla a casa della sua famiglia. Tohrment salì a
cassetta e impugnò le redini mentre Darius si accomodava all'interno insieme alla fanciulla; si augurava di poterle
recare qualche conforto, pur sapendo di averne ben poco da offrire. Il viaggio era lungo e il rombo degli zoccoli, il cigolio
del sedile e il clangore dei finimenti rendevano difficoltosa ogni conversazione.
Quantunque, Darius sapeva bene che, anche con un mezzo di trasporto silenzioso come un sussurro e immoto come
l'acqua dentro un calice, il loro prezioso carico non avrebbe proferito parola. La figlia di Sampsone aveva rifiutato cibo
e acqua, limitandosi a fissare il paesaggio, mentre galoppavano spediti attraverso campagne, villaggi e foreste, diretti
verso sud.
Darius arguì che il symphath, in qualche modo, le avesse incatenato la mente subito dopo averla catturata, supposto
che la carrozza fosse il mezzo utilizzato dalla coppia per recarsi in quella dimora di pietra... onde evitare il rischio che
lei si smaterializzasse, liberandosi da quegli angusti confini.
Tragico a dirsi, siffatta sortita ora non era da temere, essendo ella così debole... sebbene ciò gli desse da pensare.
L'espressione afflitta e rassegnata della fanciulla lasciava intuire che si sentisse prigioniera, pur avendo ritrovato la
libertà.
Darius era stato tentato di farsi precedere da Tohrment con la buona novella, per annunciare al padre e alla madre che
la loro figliola era stata tratta in salvo, ma non aveva osato. Molte cose potevano ancora accadere lungo il tragitto e
Tohrment gli serviva per condurre la carrozza mentre lui badava alla fanciulla. Umani, lesser e symphath erano una
minaccia costante, dunque sia lui sia Tohr avevano estratto le armi, e tuttavia avrebbe gradito dei
rinforzi. Se solo ci fosse stato un modo per far accorrere gli altri fratelli.,.
Era quasi l'alba allorché il cavallo, stremato, entrò nel villaggio ai margini del quale sorgeva la dimora della fanciulla.
Ella parve aver riconosciuto il luogo poiché alzò la testa e mosse le labbra, spalancando gli occhi colmi di lacrime.
Chinandosi in avanti a mani tese, Darius disse, «Tranquillizzatevi... sarà...»
Quand'ella lo guardò, Darius vide il grido serrato dentro la sua anima. No, sillabò, muta.
Indi si smaterializzò dalla carrozza.
Imprecando, Darius picchiò sulla fiancata col pugno. Non appena Tohrment arrestò il cavallo con gran fragore, Darius
balzò giù...
Non era andata lontano.
Nel campo sulla sinistra comparve il balenare bianco della camicia da notte e Darius la seguì, muovendosi spedito
quand'ella prese a correre. Mancando di vigore, procedeva con passo malfermo, come chi brama disperatamente la fuga
ma è ferito, ed egli la lasciò andare finché potè.
Era stato allora, avrebbe riflettuto in seguito Darius, durante la folle corsa cui la sventurata aveva sottoposto
entrambi, che aveva compreso con certezza: la fanciulla non poteva tornare a casa. Non per ciò che aveva patito... ma
per il frutto del suo calvario.
Quando incespicò e cadde al suolo, non fece nulla per coprirsi il ventre.
Continuò a strisciare per terra, conficcando le unghie nel terreno, ma Darius, semplicemente, non tollerava più la vista
di tali e tanti sforzi.
«Fermatevi», disse, sollevandola dall'erba ghiacciata. «Fermatevi ora...»
La fanciulla lottò con tutte le forze di un cerbiatto, poi giacque immobile tra le sue braccia. In quell'attimo sospeso,
respirava con affanno, col cuore che batteva all'impazzata. Darius vedeva il palpito della giugulare al chiaro di luna,
sentiva il fremito nelle sue vene...
«Non riportatemi là... neppure all'imbocco del viale. Non riportatemi a casa», implorò lei con voce debole, ma ferma e
decisa.
«Non potete dire sul serio.» Con delicatezza, Darius le scostò i capelli dal viso e d'un tratto rammentò le ciocche bionde
intrappolate nella spazzola, in camera sua. Quante cose erano mutate dall'ultima volta che si era seduta davanti allo
specchio della toletta, appre standosi a trascorrere la serata con la sua famiglia. «Avete patito troppo per pensare in
modo lucido. Dovete riposare e...»
«Se mi riportate là, fuggirò di nuovo. Non imponete a mio padre un tale dolore.»
«Voi dovete andare a casa...»
«Io non ho una casa. Non più. Mai più.»
«Non è necessario divulgare quanto è accaduto. Che non sia stato un vampiro a rapirvi ci torna utile, poiché nessuno
saprà mai...»
«Io reco in grembo il figlio del symphath.» I suoi occhi si fecero duri e gelidi. «La notte che mi ha usato violenza è
sopraggiunto il periodo del bisogno e, da allora, non ho più sanguinato come accade alle femmine. Sono incinta di suo
figlio.»
L'ansito inorridito di Darius risuonò nel silenzio della notte, il fiato caldo formò una nuvola di vapore nell'aria fredda.
Ebbene, ciò cambiava tutto, in verità. Se la poveretta portava a termine la gravidanza, c'era la possibilità che la
creatura venuta al mondo passasse per vampiro, ma con tali meticci non v'era certezza. Impossibile prevedere quale lato
del loro essere avrebbe prevalso, potevano pendere da una parte come dall'altra.
Forse, tuttavia, esisteva un modo per implorare la sua famiglia.
La fanciulla si aggrappò ai baveri del pesante cappotto di Darius. «Lasciatemi qui al sole. Lasciatemi alla morte che
tanto agogno. Mi taglierei la gola, se potessi, ma non ho un braccio e una spalla così forti.»
Darius si volse a guardare Tohrment, che attendeva accanto alla carrozza. Facendogli cenno di avvicinarsi, disse alla
fanciulla. «Lasciate che parli con vostro padre. Lasciate che vi spiani la strada.»
«Non mi perdonerà mai.»
«Voi non avete nessuna colpa.»
«Poco importa di chi è la colpa, ciò che conta è l'esito di questa vicenda», ribatté cupa lei.
Tohrment si smaterializzò e riprese forma davanti a loro. «Accompagnala alla carrozza e poi spostatevi tutti e due in
mezzo a quegli alberi» disse Darius, raddrizzandosi. «Io vado da suo padre.»
Tohrment si chinò e, non senza imbarazzo, sollevò la fanciulla tra le braccia. Nella stretta robusta ma delicata del
giovane, la figlia di Sampsone ripiombò nell'apatia in cui aveva trascorso il viaggio di ritorno a casa, gli occhi aperti
ma assenti, la testa ciondolante di lato.
«Abbi cura di lei», si raccomandò Darius, avvolgendola più stretta nell'ampia camicia da notte. «Torno subito.»
«Non temete», lo rassicurò Tohrment, avviandosi attraverso il prato.
Darius rimase un istante a guardarli, poi si lanciò sulle ali del vento, riprendendo forma sui terreni della tenuta di
Sampsone. Andò dritto al portone e picchiò col grosso batacchio a forma di testa di Icone.
Quando il maggiordomo spalancò l'uscio, fu subito chiaro che in casa era in corso qualcosa di terribile. Il suo pallore
era quello della nebbia e gli tremavano le mani.
«Signore! Oh, siate benedetto, entrate, presto.»
Darius varcò la soglia, accigliato. «Cosa è...»
Il padrone di casa emerse dal salottino.., seguito dappresso dal
symphath, il cui figlio aveva innescato quella tragica concatenazione di eventi.
«Cosa ci fate voi qui?» lo apostrofò Darius.
«Mio figlio è morto? Lo avete ucciso?»
Darius sfoderò uno dei pugnali neri che teneva agganciati al petto col manico all'ingiù. «Sì.»
Il symphath annuì reciso, all'apparenza incurante. Dannati rettili. Non nutrivano dunque sentimenti per la loro prole?
«E la ragazza», proseguì il divoratore di peccati. «Che ne è stato di lei?»
Darius, lesto, si protesse la mente con l'immagine di un melo in fiore... I symphath sono in grado di leggere ben più delle
emozioni, e lui era a conoscenza di particolari che non intendeva condividere.
Senza rispondere guardò Sampsone, il quale appariva invecchiato di centomila anni. «E viva. Vostra figlia è... viva e in
buona salute.»
Il symphath fluttuò leggero verso la porta, la lunga veste che strisciava sul pavimento di marmo. «Dunque siamo pari.
Mio figlio è morto e la sua progenie rovinata.»
Sampsone si prese il volto tra le mani; Darius si precipitò dal divoratore di peccati, agguantandolo per un braccio e
bloccandolo appena oltre la soglia. «Non dovevate palesarvi. Questa famiglia ha già sofferto abbastanza.»
«Oh, ma ho dovuto farlo.» Il symphath sorrise. «Le perdite vanno condivise equamente. Il cuore di un guerriero non può
negare siffatta verità.»
«Bastardo.»
Il divoratore di peccati si protese verso di lui. «Preferite forse che la induca a togliersi la vita? È un'altra via che avrei
potuto percorrere.»
«Quella poveretta non ha fatto nulla per meritare tutto ciò. E così pure gli altri membri della sua famiglia.»
«Ah, davvero? Forse mio figlio ha soltanto preso quanto ella gli offrì...»
Darius afferrò il symphath con entrambe le mani e, dopo averlo voltato, lo spinse con forza contro una delle imponenti
colonne che sorreggevano l'enorme peso della magione. «Ora potrei ucciderti.»
Il divoratore di peccati sorrise di nuovo. «Veramente? Io non lo credo. Il vostro onore non vi consente di togliere la vita
a un innocente, e io non ho fatto nulla di male.»
Ciò detto, il divoratore di peccati si smaterializzò, sfuggendo alla stretta di Darius, e riprese forma sul prato laterale.
«Auguro a quella femmina una vita di patimenti. Possa ella vivere a lungo e portare il suo fardello senza grazia. E ora
vado senza altro indugio a occuparmi delle spoglie di mio figlio.»
Il symphath svanì come se non fosse mai esistito... eppure gli strascichi delle sue azioni apparvero evidenti appena
Darius guardò oltre la porta aperta: il padrone di casa stava piangendo sulla spalla del domestico, i due si consolavano
a vicenda.
Darius varcò l'arco del sontuoso ingresso; il rumore dei suoi stivali indusse il patriarca della famiglia ad alzare la
testa.
Sampsone si staccò dal fedele doggen senza curarsi di fermare le lacrime o di celare il suo dolore, e gli andò incontro.
«Vi pagherò», disse, prima che Darius potesse parlare.
«Per cosa?» chiese Darius, accigliandosi..
«Per... portarla via e provvedere a che abbia un tetto sopra la testa», spiegò Sampsone; poi, rivolto al domestico, ordinò,
«Vai ad aprire i forzieri e...»
Darius si fece avanti e strinse in una morsa la spalla di Sampsone. «Cosa dite? Lei è viva. Vostra figlia è viva e
dovrebbe vivere sotto questo tetto e dentro queste mura. Voi siete suo padre.»
«Andate e portatela via con voi. Vi supplico. Sua madre... non sopravviverebbe a tutto ciò. Permettetemi di offrirvi...»
«Siete una sciagura», sibilò Darius, disgustato. «Una sciagura e un disonore per la vostra stirpe.»
«No», ribatté Sampsone. «Lei lo è. Ora e per sempre.»
Sulle prime, Darius restò senza parole per lo sconcerto. Pur conoscendo i valori degradati della glymera, e avendoli
subiti in prima persona, rimase di nuovo scioccato. «Voi e quel symphath avete molto in comune.»
«Come osate...»
«Nessuno dei due ha il cuore di piangere la propria discendenza.»
Darius si avviò alla porta e non si fermò allorché Sampsone gridò, «Il denaro! Permettetemi di darvi il denaro!»
Non fidandosi delle proprie reazioni, Darius si smaterializzò verso la valle boscosa che aveva lasciato qualche minuto
prima. Riprese forma accanto alla carrozza col cuore in fiamme. Essendo stato anch'egli abbandonato, conosceva bene
le tribolazioni di chi è privo di radici e solo al mondo. E tutto ciò senza l'aggiunta del fardello che la fanciulla recava,
letteralmente, dentro di sé.
Malgrado il sole minacciasse già di levarsi all'orizzonte, si concesse un attimo per ricomporsi e formulare ciò che
poteva dire...
Da dietro la tendina al finestrino della carrozza gli giunse la voce della fanciulla. «Vi ha detto di portarmi via, vero?»
In verità, Darius si avvide che non v'era modo di esporre quanto era accaduto sotto una luce più benevola.
Posò il palmo sul legno freddo dello sportello della carrozza. «Mi prenderò cura di voi. Provvederò io ad accudirvi e
proteggervi.»
«Perché... ?» fu il quesito struggente.
«In verità... è cosa buona e giusta.»
«Siete un eroe. Ma colei che volete salvare non si cura del dono che le offrite.»
«Imparerete. Col tempo... imparerete a curarvene.»
Non ottenendo risposta, Darius con un balzo salì a cassetta e afferrò le redini. «Andremo a casa mia.»
Il tintinnio dei finimenti e lo scalpiccio del cavallo sullo sterrato li accompagnarono fuori dai boschi e lungo il tragitto.
Darius prese una strada diversa, tenendosi a distanza dalla dimora di Sampsone, da una famiglia che aveva più a cuore
le aspettative sociali dei vincoli di sangue.
Quanto al denaro, Darius non era ricco, ma preferiva mozzarsi la mano con cui brandiva il pugnale piuttosto che
accettare un solo centesimo da un padre tanto pusillanime.
Capitolo 60
Quando John fece per rizzarsi a sedere sulla lettiga, Xhex l'aiutò e lui rimase sorpreso dalla sua forza: appena sentì la
sua mano in mezzo alla schiena, gli parve che tutto il busto venisse sostenuto.
D'altronde, come lei stessa aveva spesso ripetuto, non era una femmina normale.
La dottoressa Jane cominciò a spiegargli cosa c'era sotto la fasciatura e come regolarsi con l'incisione... ma lui non la
seguiva.
Voleva fare sesso. Con Xhex. Subito.
Era più o meno tutto ciò che sapeva e che gli importava... e quel bisogno carnale era mooolto più che una semplice
erezione in cerca di un garage dove parcheggiare. Non c'è come un incontro ravvicinato con la morte per farti venire
voglia di vivere a pieno ritmo, e fare sesso con la persona che ti piace è il modo migliore per esprimere questa
bramosia.
Appena Xhex colse l'odore del desiderio che evidentemente stava emanando le brillarono gli occhi.
«Devi stare fermo per altri dieci minuti», gli raccomandò la dottoressa Jane, cominciando a mettere i ferri
nell'autoclave. «Poi potrai riposare qui, nel letto della clinica.»
Andiamo, disse John, rivolto a Xhex.
Buttare le gambe giù dal tavolo operatorio gli procurò una fitta lancinante... ahia, che male... John si bloccò per un
attimo, ma il dolore non lo fece recedere minimamente dal suo proposito. In compenso, attirò l'attenzione di tutti i
presenti. Mentre Xhex lo sorreggeva con un'imprecazione, la dottoressa attaccò con la solita solfa della serie "sdraiati
amico"... ma John non aveva intenzione di rimettersi giù.
Non avrebbe una vestaglia da darmi per uscire di qui? chiese nella
lingua dei segni, ben sapendo di avere una vistosa erezione e niente con cui nasconderla.
Quella richiesta diede luogo a un'accesa discussione, ma alla fine Jane alzò le mani in segno di resa come a dire che,
se voleva comportarsi da idiota, lei non poteva impedirglielo. A un suo gesto di assenso, Ehlena scomparve e tornò
con qualcosa di morbido, vaporoso e grande abbastanza da coprirlo... dalla clavicola a, forse, metà coscia. E per di più
rosa.
Era chiaramente la versione intimo-notte di un berretto da somaro, una sorta di vendetta per il suo rifiuto di restare in
clinica. Si poteva supporre che il vestiario da Barbie gli ammosciasse l'erezione... invece, niente da fare.
Davanti a quell'affronto alla sua virilità, il suo uccello tenne duro.
John era quasi fiero di quel bastardo.
Grazie, disse, facendosi scivolare la vestaglia sulle spalle. Tirandola un po', riuscì a chiuderla sul petto e a coprirsi
le vergogne, laggiù in basso. Appena appena.
La dottoressa Jane si appoggiò contro il bancone, incrociando le braccia sul petto. «Non c'è proprio niente che possa
convincerti a restare qui ancora un po'? O a usare le stampelle? O... a
restare ancora un po'?»
Sto bene... comunque grazie.
La dottoressa scosse la testa. «Voi fratelli siete tutti dei gran rompiscatole.»
Non sono un fratello. Ma non
credo che metterò in dubbio la seconda parte della sua affermazione.
D'un tratto, John sentì una fitta che non aveva niente a che fare con la gamba.
«Saggia decisione. E dovresti esserlo. Un fratello, intendo.»
John sollevò il fondoschiena e, con delicatezza, scese dal tavolo, senza perdere d'occhio il davanti della vestaglia. Per
fortuna Miss Leziosa dell'Anno non si aprì, evitando di scandalizzare le signori presenti, e restò chiusa anche quando
Xhex si infilò sotto il suo braccio.
Cavolo... era la stampella migliore che potesse desiderare: mentre camminavano verso la porta sostenne gran parte
del suo peso. Insieme arrivarono fino all'ufficio, s'infilarono nell'armadio e sbucarono nel tunnel.
Dopo neanche dieci metri, John si fermò, fece voltare Xhex in modo da averla di fronte, e poi...
Spense le luci. Tutte quante.
A un suo comando, le lampade fluorescenti sul soffitto si spensero una dopo l'altra, a cominciare dal paio proprio
sopra le loro teste e poi via via tutte le altre, in entrambe le direzioni. Mentre tutto sprofondava nell'oscurità, lui agì
in fretta, e anche lei. Sapevano perfettamente che la dottoressa Jane ed Ehlena erano indaffarate a pulire la sala
operatoria e ne avrebbero avuto per almeno un'altra mezz'ora. E su in casa era in corso l'Ultimo Pasto, quindi nessuno
si stava allenando, stava per scendere ad allenarsi o si stava facendo una doccia nello spogliatoio dopo essersi
allenato.
Avevano una finestra temporale limitata.
Il buio era la chiave.
Malgrado la differenza di statura che, sebbene Xhex fosse alta quasi un metro e ottanta, era di una quindicina di
centimetri, John trovò la sua bocca neanche avesse un riflettore puntato sulle labbra. La baciò con trasporto,
infilandole la lingua in bocca, e lei emise un gemito gutturale aggrappandosi alle sue spalle.
In quel limbo meraviglioso, in quello spazio indefinito che non era né di là né di qua, a un passo dalla strada che
avevano convenuto di percorrere, John liberò il vampiro innamorato che aveva dentro, scatenandosi per cavalcare
l'onda del momento che avevano vissuto alla fattoria...
Il momento in cui il pugnale di Xhex si era staccato dal suo palmo volando nell'aria... e regalandogli altre notti da
vivere.
Fece scivolare il palmo sul suo seno e, trovato il capezzolo turgido, lo sfregò col pollice, smanioso di posare la bocca
dove adesso c'erano le dita. Per fortuna Xhex aveva lasciato il giubbotto e le armi su in casa, nell'atrio, così tra lui e la
sua pelle c'era solo la canotta attillata.
Aveva voglia di strapparla sul davanti come aveva già fatto una volta, ma sarebbe servito solo a placare
momentaneamente il suo appetito finché non fossero approdati alla privacy della sua stanza: invece di ridurla a
brandelli, fece scivolare le mani verso il basso e poi sotto la canotta, quindi la tirò su fino a liberare i seni.
Caaaaazzo... Xhex non portava il reggiseno neanche quando combatteva e, per qualche motivo, John lo trovò eccitante
da morire.
Non che avesse bisogno di afrodisiaci, con lei.
Mentre i loro baci riecheggiavano nel tunnel, John pizzicò i capezzoli pronti per le sue labbra, strusciando l'erezione
contro di lei. E, neanche a dirlo, Xhex colse al volo l'input che lui non si era neanche reso conto di aver lanciato e fece
scorrere la mano lungo il suo addome, fino a...
John gettò la testa all'indietro, la scarica elettrica che gli corse su per la sua spina dorsale così potente da costringerlo
a interrompere il bacio.
Prima che potesse dire Scopami senza pietà, Xhex lo spinse indietro contro il muro del tunnel e gli aprì la
vestaglia. John sentì sulla pelle l'aria fredda. Lei muoveva le labbra sul suo petto, tracciando con le zanne due sentieri
gemelli che facevano fremere ogni nervo del suo corpo... specie quelli in cima all'uccello.
John si lasciò sfuggire un grido silenzioso quando la bocca calda e umida di lei trovò il membro duro e rovente,
scivolando giù sopra di esso, prendendolo tutto in bocca, avviluppandolo nel proprio calore e succhiandolo. Poi, con
un movimento lento e regolare, si ritrasse finché il glande emerse dalle labbra con un lieve schiocco... e lei lo leccò,
girandoci intorno con la lingua. Mentre Xhex se lo lavorava, John teneva gli occhi aperti ma, nell'oscurità che li
circondava, gli sembrava di avere le palpebre abbassate... e, oh, cavolo, la cecità era l'ideale, in quella situazione:
aveva un'immagine molto chiara di come Xhex doveva apparire, in ginocchio davanti alle sue gambe spalancate, la
canotta sollevata sopra i seni, i capezzoli ancora duri e diritti, la testa che andava avanti e indietro, avanti e indietro.
I seni che ballonzolavano a ogni movimento.
Ansimando, John ebbe la sensazione che il suo peso fosse equamente distribuito tra la gamba ferita e quella sana ma,
a parte quello che gli stava facendo Xhex, non sentiva nient'altro. Avrebbe potuto andare a fuoco, che cavolo, per quel
che ne sapeva e che gliene fregava.
Stava andando a fuoco, in effetti... e le fiamme divennero ancora più roventi appena Xhex piegò l'erezione contro il
basso ventre e fece scorrere la lingua fino ai due pesi gemelli sotto il pene. Uno dopo l'altro, li prese in bocca e poi
ricominciò a leccargli l'uccello.
Prese il ritmo e lui non durò a lungo. Leccava e succhiava, leccava e succhiava, leccava...
John inarcò la schiena e venne, picchiando i palmi contro il muro.
Alla fine, la tirò su in piedi e la baciò a lungo e appassionatamente... con una mezza idea di ricambiare il favore...
Xhex gli morse di proposito il labbro inferiore e poi leccò la minuscola ferita. «A letto. Subito.»
Ricevuto.
John riaccese le luci sul soffitto e quasi di corsa tornarono verso casa.
Buffo, la gamba acciaccata non gli diede il minimo fastidio.
Blay rimase fuori dalla stanza che era stata assegnata a Saxton durante e dopo il nutrimento, ma non aveva il
permesso di uscire di casa per ritrovare un po' di serenità. In base all'Antica Legge, il cugino di Qhuinn era
considerato un suo ospite nella residenza della Prima Famiglia e, in quanto tale, il protocollo gli imponeva di restare
dentro casa.
Almeno combattere insieme agli altri gli avrebbe dato un senso di compiutezza, facendo anche passare il tempo più
in fretta.
Dopo l'arrivo di Phury con Selena e le presentazioni di rito, Blay era andato in camera sua e aveva cercato di ritrovare
un po'
di pace rimettendo a posto la stanza. Purtroppo il numero della serie "La Cameriera Perfetta" non era durato più di
due minuti, riducendosi alla sistemazione sul comodino del libro che stava leggendo... e allo spostamento di un paio
di calzini di seta nera dal cassetto dei colorati a quello di sotto.
Uno degli svantaggi di essere ordinati è che non c'è mai granché da fare sul fronte del rassettare.
Si era anche tagliato i capelli da non molto. Le unghie erano a posto. Non aveva neanche il problema dei peli
superflui perché i vampiri, a parte la testa, sono glabri.
Di solito, per ammazzare il tempo, telefonava ai suoi per scambiarsi gli ultimi aggiornamenti, ma con quello che gli
passava per la testa era escluso che chiamasse il numero della casa sicura di famiglia. Come bugiardo faceva pena e
non aveva intenzione di mandare in paranoia mamma e papà saltandosene fuori con una cosa del tipo: ehi, ragazzi,
questa qui ancora non la sapete, ma sono gay... e sto pensando di uscire col cugino di Qhuinn.
Oh, lui è qui, a proposito.
Si sta nutrendo.
Dio, l'idea che Saxton stesse succhiando dalla vena di qualcuno era erotica da matti... anche se la vena era quella di
Selena.
E anche se dentro con loro due c'era Phury. Per senso del decoro più che per proteggere lei, naturalmente.
Per cui no, neanche a parlarne, doveva stare alla larga da quella stanza. Gli mancava solo di eccitarsi davanti a un
pubblico.
Controllò l'orologio. Camminò avanti e indietro. Cercò di guardare la televisione. Prese per un po' il libro che aveva
rimesso a posto.
Ogni tanto la suoneria del cellulare lo avvisava che erano arrivati dei rapporti dal campo di battaglia, nessuno dei
quali l'aiutò a placare la sua irrequietezza. I fratelli inviavano regolarmente dei comunicati per aggiornare tutti in
tempo reale e le cose non stavano andando benissimo: John era stato ferito, perciò lui, Xhex e Qhuinn erano giù alla
clinica con la dottoressa Jane. Il raid alla fattoria era riuscito, ma solo fino a un certo punto... il sospetto Fore-lesser era
ancora latitante e non tutte le nuove reclute trovate sul posto erano state eliminate. L'indirizzo collegato a quell'auto
da corsa truccata non aveva prodotto niente di utile. La tensione era alle stelle.
Blay controllò l'orologio da polso. Poi quello appeso al muro.
E gli venne voglia di urlare.
Cristo, era passato un secolo da quando Saxton e Selena avevano cominciato. Perché nessuno era passato ad
avvertirlo quando avevano finito?
Era andato storto qualcosa? Dopo aver esaminato le sue ferite, la dottoressa Jane aveva detto che Saxton non era in
pericolo di
vita e che nutrirsi lo avrebbe messo sulla via della guarigione...
D'altro canto, se c'era un fratello che poteva andare d'accordo con Saxton, era il Primale. Phury adorava l'opera lirica,
l'arte e le buone letture. Forse quei due si erano messi a chiacchierare, dopo?
A un certo punto, non sopportando più la propria compagnia, Blay scese in cucina, dove i doggen stavano
preparando l'Ultimo Pasto. Cercò di rendersi utile, offrendosi di mettere in tavola i piatti o l'argenteria, di tagliare le
verdure o spennellare di grasso i tacchini che stavano arrostendo... ma i domestici si innervosirono al punto che
preferì rinunciare.
doggen è che qualcuno si offra di dargli una mano, garantito. Per natura, i
doggen non tollerano che chi deve avvalersi dei loro servigi faccia altro che lasciarsi servire... ma non sopportano
Dio, se c'è una cosa che scombussola un
neanche di declinare una richiesta avanzata dalla suddetta persona.
Prima che l'agitazione generale portasse a bruciare la cena e forse addirittura a un suicidio di massa, Blay lasciò la
dispensa e uscì dalla sala da pranzo...
La porta del vestibolo si aprì e si chiuse e Qhuinn attraversò a grandi passi il pavimento a mosaico dell'atrio.
Aveva faccia, mani e calzoni macchiati di sangue... Sangue rosso, fresco e lucido.
Del tipo umano.
Il primo impulso di Blay fu di chiamarlo ad alta voce, ma si trattenne perché non voleva attirare troppa attenzione sul
fatto che, evidentemente, Qhuinn non era al fianco di John.
Non c'erano molti esemplari di
Homo Sapiens, giù nella clinica del centro di addestramento.
E, in teoria, Qhuinn si era appena scontrato con i nuovi iniziati della Lessening Society, il cui sangue era nero.
Blay infilò le scale e lo raggiunse proprio davanti allo studio di Wrath, le cui porte per fortuna erano chiuse. «Cosa
diavolo ti è successo?»
Qhuinn proseguì imperterrito verso la sua stanza. Entrando, fece per sbattergli la porta in faccia.
Eh, no, bello, non ci provare, pensò Blay, infilandosi dentro con una spinta. «Cos'è tutto quel sangue?»
«Non sono dell'umore adatto», bofonchiò Qhuinn, cominciando a spogliarsi.
Buttò il giubbotto di cuoio sul cassettone, si tolse le armi davanti alla scrivania e scalciò via gli stivali a metà strada
dal bagno. La T-shirt, lanciata sopra la spalla, finì sopra una lampada.
«Perché hai le mani sporche di sangue?» lo incalzò Blay.
«Non sono affari tuoi.»
«Che cosa hai fatto?» Anche se ormai aveva la sensazione di saperlo. «Cosa cavolo hai fatto?»
Quando Qhuinn si sporse dentro alla doccia per far scendere l'acqua, i muscoli lungo la spina dorsale si fletterono
sopra la cintola dei calzoni di pelle.
Dio, quel sangue rosso era anche in altri punti, notò Blay, il che lo indusse a chiedersi fin dove si era spinta la
scazzottata.
«Come sta il tuo ragazzo?»
Blay si accigliò. «Il mio... ah, Saxton.»
«Già. "Ah. Saxton."» Dal box doccia cominciò a uscire il vapore; la nebbiolina salì verso l'alto per poi calare in mezzo
a loro. «Come se la passa?»
«Credo che ormai abbia finito di nutrirsi.»
Qhuinn puntò lo sguardo bicolore su un punto dietro la testa di Blay. «Spero che si senta meglio.»
Mentre se ne stavano così, uno di fronte all'altro, Blay dovette massaggiarsi il petto, tanto gli faceva male. «Lo hai
ucciso?»
«Ucciso? Chi?» Qhuinn si mise le mani sui fianchi; i pettorali si gonfiarono e le luci sopra i lavandini diedero risalto
ai capezzoli coi piercing. «Non so di chi parli.»
«Piantala di dire cazzate. Saxton vorrà saperlo.»
«Sei protettivo nei suoi confronti, eh?» Non c'era ostilità in quel commento, solo una insolita rassegnazione. «Okay,
d'accordo. Non ho ucciso nessuno. Ma ho dato a quello stronzo omofobico qualcosa a cui pensare, oltre al cancro alla
gola che gli faranno venire quei sigari. Non ammetto che si manchi di rispetto ai membri della mia famiglia.»
Qhuinn si voltò. «E poi... be', cazzo, che tu ci creda o no, non mi piace vederti sconvolto. Se Saxton fosse rimasto là
mezzo morto anche dopo il sorgere del sole? O se degli umani lo avessero trovato? Tu non ti saresti mai ripreso. Non
potevo non fargliela pagare.>
Dio, proprio tipico di quel figlio di puttana. Fare la cosa sbagliata per un motivo più che giusto...
«Ti amo», sussurrò Blay, così sottovoce che lo scroscio dell'acqua nella doccia sovrastò le parole.
«Senti, ho bisogno di farmi una doccia», disse Qhuinn. «Voglio levarmi di dosso questo schifo. E poi ho bisogno di
dormire.»
«Sì. Okay. Vuoi che ti porti qualcosa da mangiare?»
«Sto bene così. Grazie.»
Prima di uscire, Blay si voltò per un'ultima occhiata. Qhuinn si stava togliendo i calzoni e il suo fondoschiena fece
una comparsa spettacolare.
Con la testa ancora voltata, Blay uscì dal bagno senza incidenti, ma andò a sbattere contro la scrivania e dovette
agguantare al volo la lampada prima che cadesse per terra. Raddrizzandola, tolse la maglietta che ci era atterrata sopra
e, come una checca patetica, si portò il morbido cotone alle narici per respirare l'odore di Qhuinn.
Chiuse gli occhi, stringendosi al petto l'indumento che era stato a contatto della pelle di Qhuinn e ascoltando il
rumore dell'acqua che cadeva in scrosci irregolari mentre l'amico si lavava.
Rimase a lungo così, chissà per quanto, sospeso nel purgatorio della serie "così vicini eppure così lontani". Ciò che lo
spinse a rimettersi in moto fu la paura che Qhuinn lo beccasse e vedesse quant'era smidollato. Rimettendo con
cautela la maglietta sulla lampada, si costrinse ad andare alla porta.
Era più o meno a metà strada quando la vide.
Sul letto.
La fusciacca bianca era rimasta impigliata tra le lenzuola, una striscia di stoffa sgualcita tra le tante.
Spostò gli occhi un po' più su e notò le impronte lasciate da due teste sulla coppia di guanciali vicini. Chiaramente
l'Eletta Layla aveva dimenticato la cintura della veste, quando se n'era andata. Cosa che poteva succedere solo se,
prima, era nuda.
Blay si mise di nuovo la mano sul cuore; il senso di costrizione lo faceva sentire come sott'acqua... con la superficie
dell'oceano lontana, lontanissima, sopra di lui.
In bagno il rubinetto della doccia venne chiuso e si udì il rumore di un asciugamano che sbatteva.
Passando accanto a quel letto logorato dall'uso, Blay uscì.
Era ignaro di aver preso una decisione consapevole, ma i suoi piedi seguivano una direzione ben precisa; era
evidente. Si fermarono due stanze più in là, lungo il corridoio, poi la mano si alzò da sola e bussò piano. Quando udì
una risposta soffocata, Blay aprì la porta. La stanza, dall'altra parte, era buia e aveva un odore divino... mentre se ne
stava fermo sulla soglia, la luce del corridoio proiettò la sua ombra fino ai piedi del letto.
«Tempismo perfetto, se ne sono appena andati.» La voce sensuale di Saxton racchiudeva la promessa di cose che Blay
desiderava. «Sei venuto a vedere come sto?» «Sì.»
Seguì una lunga pausa. «Allora chiudi la porta, che ti faccio vedere.»
Blay strinse la mano sulla maniglia fino a far scrocchiare le nocche.
Poi entrò e chiuse la porta. Scalciando via le scarpe, tirò il chiavistello.
Per non essere disturbato.
Capitolo 61
Dall'Altra Parte, Payne, seduta sul bordo della vasca dei riflessi, guardava il proprio viso nell'acqua immota.
Riconosceva i capelli neri, gli occhi di diamante e i lineamenti marcati.
Sapeva anche troppo bene chi erano suo padre e sua madre.
Poteva enumerare i giorni della sua storia fino a quel momento.
Eppure le pareva di non sapere chi fosse veramente. Per molti versi, più di quanti la confortasse elencare, non era
altro che quell'eco sulla superficie della vasca, un'immagine priva di profondità e di sostanza... che non avrebbe
lasciato nulla di permanente dietro di sé, alla sua dipartita.
Alle sue spalle giunse Layla, che incrociò i suoi occhi nello specchio d'acqua.
In seguito, Payne avrebbe riflettuto che era stato il sorriso di Layla a cambiare tutto. C'era di più, naturalmente... ma
l'espressione radiosa della sorella era ciò che in ultima istanza l'aveva convinta a farsi travolgere dai venti del
cambiamento, la leggera spinta che l'aveva fatta precipitare giù dalla scogliera.
Quel sorriso era reale.
«Salve, sorella», l'apostrofò Layla. «Ti stavo cercando.»
«E, ahimè, mi hai trovata.» Payne si costrinse a voltarsi a guardare l'Eletta. «Ti prego, siediti qui con me. Deduco dalla
tua allegria che il tuo tempo con quel maschio continua sereno.»
Layla si sedette solo un attimo, ma poi l'impeto della sua gioia la spinse a rialzarsi in piedi. «Oh, sì, è così. E proprio
così, sì. Deve chiamarmi quest'oggi, tra breve, e tornerò da lui. Oh, sorella cara, non puoi immaginare... cosa
significhi essere stretta entro un cerchio di fuoco eppure emergerne illesa e sopraffatta dalla felicità. È un miracolo.
Una benedizione.»
Payne si voltò ancora verso l'acqua e guardò il suo riflesso che si accigliava. «Posso rivolgerti una domanda
personale?»
«Naturalmente, sorella.» Layla andò a sedersi di nuovo sul bordo di marmo bianco della vasca. «Qualunque cosa.»
«Pensi di unirti a lui? Non solo di accoppiarti con lui... ma di diventare la sua shellan?»
«Ebbene, sì. Naturalmente. Ma sto aspettando il momento propizio per affrontare l'argomento.»
«Cosa farai... se ti dice di no?» Quando il volto di Layla rimase raggelato, come se lei non avesse mai considerato tale
eventualità, Payne ebbe la sensazione di aver schiacciato un bocciolo di rosa nel palmo. «Oh, accidenti a me... non
intendevo turbarti. Solo...»
«No, no.» Layla inspirò a fondo per farsi forza. «So bene com'è fatto il tuo cuore e in esso non v'è traccia di crudeltà.
Ecco perché sento di poterti parlare in assoluta sincerità.»
«Dimentica ciò che ti ho chiesto, ti prego.»
«Io... noi non abbiamo ancora avuto un vero rapporto», disse Layla fissando la vasca.
Payne inarcò le sopracciglia, sbalordita. Se solo il preludio dell'evento suscitava tanta esultanza, l'atto in se stesso
doveva essere incredibile.
Almeno per una femmina come quella che aveva di fronte.
Layla si strinse le braccia intorno al corpo; senza dubbio stava ricordando la stretta di un paio di braccia molto più
forti. «Io avrei voluto, ma lui si ritrae. Spero... credo che sia perché prima desidera celebrare la nostra unione in modo
consono, con ima cerimonia.»
Payne sentì il peso spaventoso della premonizione. «Attenta, sorella. Tu sei un animo gentile.»
Layla si alzò in piedi, il sorriso ormai mesto. «Sì, è vero. Ma preferisco avere il cuore infranto piuttosto che inviolato,
e so che per ricevere bisogna prima chiedere.»
L'Eletta appariva così sicura e determinata che, all'ombra del suo coraggio, Payne si sentì piccola. Piccola e debole.
Chi era lei? Un riflesso? Oppure una realtà?
D'improvviso si alzò. «Mi permetti di prendere congedo?»
Layla parve sorpresa, ma si piegò in un profondo inchino. «Ma naturalmente. E ti prego di perdonare le mie
farneticazioni, non intendevo offenderti...»
D'impulso, Payne l'abbracciò. «Non mi hai affatto offesa. Non temere. E ti faccio i miei migliori auguri con il tuo
vampiro. Sarebbe fortunato ad averti, in verità.»
Prima che una delle due potesse aggiungere altro, Payne si allontanò, oltrepassando lesta il dormitorio e risalendo
ancora più in fretta la collina che conduceva al Tempio del Primale. Superato quel sacro luogo di accoppiamenti
ormai in disuso, entrò nella corte di marmo di sua madre e percorse tutto il colonnato.
L'uscio di modeste dimensioni che si apriva sugli appartamenti privati della Vergine Scriba non era ciò che ci si
sarebbe aspettati all'ingresso di uno spazio tanto divino. Ma quando tutto il mondo ti appartiene, non hai nulla da
dimostrare, giusto?
Payne non bussò. Dato ciò che si apprestava a fare, la sconvenienza di un'irruzione improvvisa era talmente in fondo
alla lista dei suoi peccati che a stento lo considerava tale.
«Madre», chiamò, entrando nella stanza immacolata e deserta.
Dovette attendere a lungo prima di ottenere risposta; la voce che le giunse era disincarnata. «Sì, figliola.»
«Lasciami andare via di qui. Subito.»
Qualunque conseguenza ricadesse sul suo capo a seguito di quel rinnovato scontro era preferibile a un'esistenza
tanto castrata.
«Buttami fuori», insistette, rivolta alle mura spoglie e alla nonaria. «Lasciami andare. Non tornerò mai più, se è ciò
che desideri. Ma non resterò qui un minuto di più.»
In un lampo luminoso la Vergine Scriba apparve davanti a lei, senza la veste nera che indossava di solito. Payne era
più che sicura che nessuno vedesse mai sua madre com'era veramente, energia senza forma.
Non più brillante, tuttavia. Fioca, ormai, poco più che un'increspatura di calore.
La differenza era impressionante e placò in parte il furore di Payne. «Madre... lasciami andare. Ti prego.»
La risposta della Vergine Scriba tardò ad arrivare. «Mi dispiace. Non posso accontentarti.»
Payne scoprì le zanne. «Che tu sia maledetta, fallo e basta. Lasciami uscire di qui, altrimenti...»
«Non c'è nessun "altrimenti", figliola diletta.» La flebile voce della Vergine Scriba si spense, poi tornò. «Tu devi
restare qui. È il destino che lo impone.»
«Il destino di chi? Il tuo o il mio?» Payne sferzò col taglio della mano quella quiete paralitica. «Perché io qui non vivo
veramente, e che razza di destino è questo?»
«Mi dispiace.»
E quella fu la fine della discussione... almeno per quanto riguardava sua madre. Con una scintilla, la Vergine Scriba
svanì.
«Liberami! Accidenti a te! Liberami!» urlò a squarciagola Payne in quel vasto vuoto candido.
Quasi si aspettava di essere giustiziata seduta stante, ma così la tortura sarebbe cessata, e dove sarebbe stato il
divertimento?
«Madre!»
Non ottenendo risposta, Payne si voltò di scatto. All'inferno; che voglia di scagliare qualcosa... ma non c'era nulla su
cui mettere le mani e la cosa la colpì con una violenza simbolica che trovò voce in un grido nella sua testa: lì non c'era
niente per lei, non c'era assolutamente
niente per lei.
Andò alla porta e scatenò la sua ira scardinandola e scaraventandola dentro la stanza fredda e vuota. Il pannello
bianco rimbalzò due volte prima di scivolare liberamente attraverso quella distesa priva di ostacoli, come un ciottolo
sulla superficie di uno stagno immoto.
Avanzando a grandi passi verso la fontana, Payne udì una serie di scatti e, quando si volse, vide che il portale si era
aggiustato da solo, ricostruendo come per magia i cardini sfondati e ricomponendosi esattamente com'era prima,
senza neanche un graffio.
Sentì montare dentro di sé una furia che la soffocava, facendole tremare le mani.
Con la coda dell'occhio scorse una figura vestita di nero che risaliva il colonnato, ma non era sua madre. Era solo
No'One con una cesta di offerte per la Vergine Scriba, l'andatura claudicante la faceva ondeggiare da una parte
all'altra.
La vista dell'Eletta sventurata ed esclusa rinfocolò ancor di più la sua rabbia...
«Payne?»
Il suono di quella voce profonda le fece voltare la testa: Wrath era fermo vicino all'albero bianco carico di uccellini
variopinti, la sua figura imponente dominava la corte.
Payne si avventò contro di lui, trasformandolo in un bersaglio contro cui sfogarsi. Avvertendo la violenza e la furia
del suo approccio, il re cieco in un batter d'occhio si mise in guardia, forte, preparato e pronto.
Payne gli scaricò addosso tutta la rabbia che aveva in corpo in un vortice inarrestabile, facendo volare calci e pugni
che Wrath respingeva con gli avambracci e schivava chinando il busto e la testa.
Sempre più veloce, più aggressiva e letale, lei continuò ad accanirsi contro di lui, costringendolo a rispondere colpo
su colpo per non rischiare di rimanere gravemente ferito. Il primo pugno poderoso del re la centrò alla spalla,
facendole perdere l'equilibrio... ma Payne si riprese in fretta, voltandosi di scatto con un calcio al volo.
L'impatto sull'addome del re gli strappò un grugnito... almeno finché Payne, dopo un altro mezzo giro su se stessa,
non lo colpi al volto con le nocche. Wrath imprecò, sputando sangue, le lenii scure che volavano via dagli occhi.
«Ma che cazzo, Pay...»
Senza dargli il tempo di terminare il suo nome, lei gli piombò addosso afferrandolo per la vita e trascinando indietro
il suo peso enorme. Non ci fu vera lotta, tuttavia: era uno scontro impari.
Wrath, grosso il doppio di lei, ribaltò facilmente la situazione, staccandosela di dosso e costringendola a voltarsi per
trattenerla, schiena contro petto.
«Che cazzo di problema hai?» le ringhiò all'orecchio.
Con una testata all'indietro, lei lo colpì in faccia e, per una frazione di secondo, lui allentò la presa. Bastò questo a
permetterle di liberarsi. Utilizzando il fisico solido come una quercia di Wrath come una piattaforma da cui spiccare
il volo, Payne...
Sottovalutò lo slancio che si era data. Invece di atterrare perpendicolare al suolo, si sbilanciò in avanti... e in questo
modo prese una brutta storta alla caviglia, ruzzolando su un fianco.
Nel cadere colpì il bordo di marmo della fontana, ma l'impatto fu peggiore che se fosse caduta di piatto.
Il crac della schiena risuonò forte come un grido.
E altrettanto forte fu il dolore.
Capitolo 62
Quando Lash si svegliò nel suo rifugio, alla topaia, la prima cosa che fece fu guardarsi le braccia. Oltre alle mani e ai
polsi, anche gli avambracci adesso erano delle ombre, forme simili allo smog che si muovevano quando diceva loro
di farlo e che a un suo comando potevano essere nient'altro che aria oppure sostenere un peso.
Si rizzò a sedere e, spingendo via la coperta che si era tirato addosso, si alzò in piedi. Come prevedibile, anche i piedi
erano spariti. Il che era un bene, ma... merda, quanto sarebbe durata la metamorfosi? Se il suo corpo aveva ancora una
forma fisica, un battito cardiaco e bisogni come mangiare, bere e dormire, doveva dedurne che non era del tutto al
riparo da pallottole e coltelli.
In più, francamente, con tutti i pezzi che si era perso per strada, lo smaltimento dei rifiuti biologici era un bello
schifo.
Il materasso su cui aveva dormito era diventato il più grande pannolone del pianeta.
Un cigolio dall'esterno lo attirò verso le veneziane; allargò una lamella con le sue non-dita. Attraverso lo spiraglio
guardò gli umani affrontare un altro dei loro miserabili giorni tutti uguali, muovendosi in auto o in bicicletta. Poveri
scemi, con le loro vite piccole e meschine. Alzarsi. Andare al lavoro. Tornare a casa. Lamentarsi della giornata appena
trascorsa. Svegliarsi la mattina dopo per ricominciare tutto da capo.
Nel veder passare una Pontiac, impiantò un pensiero nella mente del guidatore... e sorrise quando la berlina,
sbandando, uscì dalla sua corsia di marcia, salì sul marciapiede e centrò in pieno la villetta a due piani dall'altra parte
della strada. La macchina si schianto a tutta velocità contro una fila di finestre, sfondando i vetri e le intelaiature di
legno, mentre nell'abitacolo si gonfiavano gli airbag.
Meglio di una tazza di caffè, per cominciare la giornata.
Lash si voltò e andò al cassettone, accendendo il portatile che aveva trovato nel bagagliaio della Mercedes. La
compravendita di droga che aveva interrotto tornando a casa era stata proficua: gli aveva fruttato duemila dollari,
oltre a qualche pasticca di ossicodone ed ecstasy e a dodici panetti di crack. Ma soprattutto, Lash aveva fatto cadere in
trance i due spacciatori e il cliente, li aveva fatti salire sulla AMG, li aveva portati fin lì e trasformati in
lesser.
Avevano vomitato tutta notte riducendo il bagno uno schifo, ma sinceramente ormai ne aveva abbastanza di quella
casa e stava meditando di darle fuoco.
Così... adesso disponeva di una squadra di quattro elementi. Nessuno di loro si era offerto volontario, ma dopo averli
dissanguati e riportati in "vita", aveva promesso loro di tutto e di più. E, neanche a dirlo, i tossici che spacciano per
soddisfare la loro dipendenza sono pronti a credere a qualunque cosa. Basta vendergli un futuro... dopo avergli fatto
venire la cacarella.
Cosa che per lui non era affatto un problema. Naturalmente se l'erano fatta addosso dalla paura, quando lo avevano
visto in faccia, ma avevano avuto tante di quelle allucinazioni durante i loro "viaggi" a base di acido, che parlare con
un cadavere ambulante non era del tutto estraneo alla loro esperienza. In più, Lash sapeva essere convincente,
quando voleva.
Peccato che non potesse fargli un lavaggio del cervello permanente. Il trucchetto che aveva messo in atto col
guidatore della Pontiac era il massimo a cui poteva arrivare come potere di influenza su qualcuno: una roba breve,
che non durava più di un paio di secondi.
Libero arbitrio della malora.
Quando il computer fu avviato, Lash entrò nel sito del
Caldwell Courier journal...
Eccolo lì, in prima pagina. Il "Massacro della Fattoria" occupava una quantità di articoli... il sangue, i resti di cadaveri,
gli strani residui oleosi avevano stimolato ogni sorta di descrizione para-letteraria degna del Pulitzer. I cronisti
avevano anche intervistato i poliziotti recatisi sul posto, il portalettere che per primo aveva chiamato il 911, ima
dozzina di vicini di casa di ogni sorta e qualità, e il sindaco... il quale, ovviamente, "faceva appello ai valorosi agenti
del Dipartimento di Polizia locale per risolvere quel terribile crimine contro la comunità di Caldwell."
L'opinione generale era che si trattasse di omicidi rituali. Forse legati a un culto sconosciuto.
Ma quelle erano solo inutili chiacchiere di sottofondo, che oscuravano ciò che stava cercando in realtà...
Tombola. Nell'ultimo articolo trovò un paio di paragrafi in cui si riferiva brevemente che la notte prima qualcuno si
era introdotto sulla scena del crimine. Seppure a malincuore, i "valorosi agenti del Dipartimento di Polizia" avevano
ammesso che una delle autopattuglie del turno di notte, durante il giro di perlustrazione, aveva scoperto che la scena
era stata messa a soqquadro da uno o più soggetti sconosciuti. Si erano però affrettati a puntualizzare che gli
elementi di prova rilevanti erano già stati rimossi in precedenza e che, d'ora in avanti, avrebbero piazzato lì a tempo
pieno un'auto della polizia.
E così i fratelli avevano dato ascolto al suo piccolo messaggio.
C'era andata anche Xhex? Magari aspettando di vedere se lui si faceva vivo?
Merda, si era perso l'occasione di beccarla. E, con lei, anche i fratelli.
Ma aveva tempo. Che diamine, prima o poi tutto il suo corpo si sarebbe trasformato in un'ombra. E allora avrebbe
avuto a disposizione tutta l'eternità.
Controllò l'orologio e si diede una mossa, cambiandosi in fretta. Si mise un dolcevita nero, un paio di calzoni neri e
l'impermeabile col cappuccio. Infilandosi i guanti di pelle e calcandosi in testa il berretto da baseball nero, si guardò
allo specchio.
Sì, vabbè.
Rovistando in giro trovò una T-shirt nera che fece a brandelli, ricavandone delle strisce con cui si avvolse la faccia e
lasciando liberi solo gli occhi senza più palpebre, la cartilagine del naso rimasta e quell'orifizio spalancato che
adesso era la sua bocca.
Meglio. Non un granché. Ma meglio.
La prima tappa fu il bagno, per controllare come se la cavavano le sue truppe. Dormivano della grossa, accasciate sul
pavimento in un intrico di braccia e gambe, le teste abbandonate qua e là... ma erano vive.
Dio, con quelli aveva raschiato il fondo del barile: erano proprio feccia, rifiuti dell'umanità. Se erano fortunati, nel
complesso forse arrivavano a un quoziente intellettivo a tre cifre.
Ma comunque gli sarebbero stati utili.
Lash chiuse ermeticamente la casa, avvolgendola in un incantesimo, e andò in garage. Aprì il bagagliaio della
Mercedes, sollevò il pannello coperto dal tappetino, tirò fuori il pacchetto di coca e, prima di mettersi al volante,
diede una gran sniffata con le sur non-narici.
Buoooooooooon giooooornol Mentre un coro caotico lo accendeva dall'interno, fece retromarcia sul vialetto
d'accesso e uscì dal quartiere, dirigendosi dalla parte opposta rispetto agli sbirri e alle ambulanze sopraggiunti
davanti alla casa di fronte.
Che adesso, al posto del salotto, aveva una di quelle tavole calde in cui i clienti si possono servire da un'ampia
finestra senza sccn dere dall'auto.
Una volta imboccata l'autostrada, in una decina di minuti avrebbe dovuto arrivare in centro, ma col traffico dell'ora di
punta ce ne mise quasi venticinque... anche se, con la frenesia che gli agitava testa e corpo, gli parve di stare
immobile per tutto il tempo.
Poco dopo le nove s'infilò in un vicolo e parcheggiò accanto a un furgone grigio argento. Scendendo, ringraziò Dio
per la coca... adesso gli sembrava di avere un po' di energia. Il guaio era che, se il suo Extreme Makeover non si
concludeva alla svelta, nel giro di qualche giorno avrebbe esaurito tutta la scorta nel baule.
Ecco perché aveva convocato subito quella riunione, invece di aspettare.
E, sorpresa, Ricardo Benloise era puntuale e già nel suo ufficio: la AMG bordeaux in cui lo scorrazzavano in giro era
posteggiata dall'altro lato del furgone GMC.
Lash si avvicinò alla porta di servizio della galleria d'arte e attese vicino alla videocamera. Sì, avrebbe preferito
rimandare di un paio di giorni quel faccia a faccia ma, a parte i suoi bisogni personali, aveva degli spacciatori che si
stavano rimettendo in sesto nel suo gabinetto e doveva procurarsi la merce da fargli vendere per strada.
E poi doveva trasformare altri soldati.
Dopo tutto, lo stronzetto non aveva perso tempo a rimpolpare le file del suo esercito... anche se era impossibile
sapere quante reclute gli erano rimaste, dopo il raid della confraternita alla fattoria.
Mai più si sarebbe immaginato di rallegrarsi che quei figli di puttana fossero micidiali nel loro lavoro. Pensa un po'.
Doveva supporre che il fidanzatino dell'Omega si preparasse a sfornare al più presto un altro manipolo di affiliati. E
dato che il ragazzino era stato uno spacciatore di successo, avrebbe ricominciato a raccattare soldi appena possibile.
Entrambe le cose gli avrebbero fornito le risorse necessarie non solo per combattere i vampiri, ma anche per dare la
caccia a Lash.
Per cui non c'era tempo da perdere. Era fiducioso che lo stronzetto, essendo ancora un pesce piccolo, per il momento
non riuscisse a fissare un incontro con Benloise... ma per quanto sarebbe durata? Le vendite avevano la loro
importanza. L'acume aveva la sua importanza. Se Lash era riuscito a entrare nel giro, poteva riuscirci anche qualcun
altro.
Specie se aveva i talenti speciali di un
Fore-lesser.
Con uno scatto le serrature si sbloccarono e uno degli scagnozzi di Benloise aprì la porta. Alla vista del suo
abbigliamento alla Lady Gaga, il tipo si accigliò, ma si riprese alla svelta. Doveva averne viste di stranezze... e non
solo nello spaccio di droga: gli artisti sono quasi tutti un po' strambi.
«Dov'è il suo documento?»
Lash gli mostrò la patente di guida falsa. «Pronto a finirti su per il buco del culo, stronzo.»
La combinazione di tessera plastificata più voce familiare doveva essere bastata, perché un istante dopo il tizio lo
fece entrare.
L'ufficio di Benloise era al secondo piano, sul davanti, e durante il tragitto nessuno parlò. Lo spazio privato del
narcotrafficante era spoglio come una pista da bowling, solo una sconfinata distesa di parquet nero lucido
culminante in una piattaforma sopraelevata... l'equivalente dei soprattacchi per le scarpe per una scrivania. Benloise
era parcheggiato sopra la pedana, seduto dietro un tavolo di tek lungo come una limousine.
Come molti uomini costretti a raddrizzare bene la schiena per arrivare al metro e settanta scarso, quel bassotto faceva
tutto in grande.
Vedendo arrivare Lash, il sudamericano lo guardò al di sopra delle dita unite in punta e parlò nel suo modo mellifluo
e forbito. «Mi ha fatto molto piacere ricevere la sua telefonata dopo che è mancato al nostro ultimo appuntamento.
Dov'era finito, amico mio?»
«Problemi familiari.»
Benloise si accigliò. «Già, il sangue può essere un guaio.»
«Non sa quanto.» Lash si guardò intorno in tutto quel nulla, localizzando le telecamere nascoste e le porte... che erano
nella stessa posizione dell'ultima volta. «Prima di tutto, ci tengo ad assicurarle che i nostri rapporti d'affari restano la
mia priorità assoluta.»
«Sono molto lieto di sentirglielo dire. Quando non si è presentato a ritirare gli articoli che avevamo pattuito, mi era
sorto qualche dubbio. In quanto mercante d'arte, dipendo dai miei clienti fissi per tenere occupati i miei artisti. E mi
aspetto anche che i suddetti clienti onorino i loro impegni.»
«Capito. Che poi è il vero motivo per cui sono venuto. Mi serve un anticipo. Ho una parete vuota, a casa, che va
riempita con uno dei suoi quadri; oggi, però, non sono in grado di pagarla in contanti.»
Benloise sorrise, mostrando una chiostra di piccoli denti normalissimi. «Non concludo accordi del genere, temo. Deve
pagare le opere d'arte che si porta via. E poi perché si è coperto la faccia?»
Lash ignorò la domanda. «Dovrà fare un'eccezione, nel mio caso.»
«Io non faccio mai eccezioni...»
Lash si smaterializzò, riprendendo forma dietro al sudamericano e puntandogli un coltello alla gola. Con un grido, il
gorilla vicino alla porta fece per estrarre la pistola, ma non c'è molto a cui spa rare quando nella giugulare del tuo
capo sta per aprirsi una falla.
«Ho avuto una settimana tremenda», sibilò Lash all'orecchio di Benloise, «e sono stanco di stare alle regole degli
umani. Sono pienamente intenzionato a non interrompere il nostro rapporto, e lei non si opporrà. Non solo perché è
vantaggioso per entrambi, ma perché, in caso contrario, la prenderò sul piano personale. Apra bene le orecchie, non
può scappare: ovunque si nasconda,
io la troverò. Non c'è porta abbastanza solida da tenermi fuori, non c'è uomo che io non sia in grado di sopraffare,
non c'è arma che lei possa usare contro di me. Queste sono le mie condizioni... un grosso quadro per riempire la mia
parete, e lo porto via subito.»
Una volta scoperti i contatti oltreoceano di Benloise, poteva tranquillamente farlo fuori... ma non doveva essere
precipitoso. Il sudamericano era il collettore attraverso cui la merce confluiva a Caldwell, e questo era l'unico motivo
per cui quel figlio di puttana aveva ottime probabilità di sedersi a tavola a mangiare, qualche ora più tardi.
Invece di vedere un becchino.
Benloise inspirò a fondo. «Enzo, i nuovi pastelli con la yucca dovrebbero arrivare verso sera. Appena arrivano,
imballane uno e...»
«Lo voglio subito.»
«Dovrà aspettare. Non posso darle ciò che non ho. Se adesso mi uccide, non avrà un bel niente.»
Stronzo. Brutto stronzo figlio di puttana.
Lash pensò a quanta droga restava nel baule della Mercedes... e considerò il fatto che già adesso l'euforia da cocaina
cominciava a svanire, lasciandosi dietro solo un gran torpore. «Quando. Dove.»
«Stessa ora e stesso posto di sempre.»
«Va bene. Però adesso me ne porto via un assaggio.» Premette
il coltello contro il collo di Benloise. «E non mi venga a dire che è all'asciutto, perché mi farebbe arrabbiare... e
innervosire. E se mi innervosisco, sono cazzi amari... tanto perché lo sappia.»
Un istante dopo, Benloise mormorò, «Enzo, vai a prendergli un campione del nuovo lavoro dell'artista, sii gentile.»
Il bestione di fronte a Lash sembrava faticare a elaborare qualunque informazione, ma d'altronde vedere uno che
svanisce nel nulla era sicuramente una novità per lui.
«Enzo. Vai. Subito.»
Lash sorrise sotto le sue bende da mummia. «Sì, vedi di sbrigarti, Enzo. Mi prenderò cura io del tuo capo, finché non
torni.»
La guardia del corpo uscì camminando all'indietro, poi si udì il rumore dei suoi stivali giù per le scale.
«E così lei è il degno successore del Reverendo, disse Benloise, in tono teso.
Ah, il nome usato da Rehvenge nel mondo umano. «Già, siamo sulla stessa lunghezza d'onda.»
«Ho sempre pensato che avesse qualcosa di diverso.»
«Pensa che quello stronzo fosse speciale?», bisbigliò Lash, «Aspetti di avermi visto bene.»
Nella grande casa della confraternita, Qhuinn era seduto sul letto, appoggiato contro la testiera. Aveva il telecomando
della TV via cavo in equilibrio su una coscia, l'ennesimo bicchiere di Herradura dall'altra parte e vicino a sé, per
nulla intenzionato a demordere?
Il buon vecchio Capitan Insonnia.
Di fronte a lui il televisore brillava nell'oscurità, acceso sul notiziario del mattino. La polizia aveva trovato l'omofobo
che Qhuinn aveva conciato per le feste nel vicolo accanto al locale per fumatori e lo aveva portato al St. Francis
Hospital. Il tizio si rifiutava di identificare il suo aggressore e di commentare l'accaduto, ma se anche apriva bocca
poco importava. In città c'erano centinaia di figli di puttana vestiti di cuoio, pieni di piercing e di tatuaggi, quindi la
polizia poteva andare a farsi fottere.
In ogni caso, quello stronzo non avrebbe fiatato con nessuno... e Qhuinn era pronto a scommettere le palle che
l'avrebbe anche piantata di menare i gay.
Subito dopo partì un aggiornamento su quello che gli umani avevano battezzato "il Massacro della Fattoria". Il
servizio, in sostanza, non diceva nulla di nuovo, ma in compenso era pieno di iperboli perfette per alimentare
isterismi di massa. Culti! Sacrifici rituali! Restate chiusi in casa quando fa buio!
Il tutto, naturalmente, basato su prove circostanziali, perché la brigata delle uniformi-blu-e-distintivo non aveva in
mano niente di concreto: a parte le conseguenze dell'accaduto... niente cadaveri. E, anche se a poco a poco
cominciavano a filtrare le identità di una valanga di balordi e malviventi scomparsi, erano sempre in un vicolo cieco:
i pochi lesser sfuggiti all'irruzione della confraternita, adesso erano fermamente trincerati nella Lessening Society, e
nessuno dei loro ex amici e parenti li avrebbe mai più visti né sentiti.
Per cui, sì, nella sostanza agli umani restava da fare un grosso lavoro di ripulitura, e non molto altro: al diavolo i
tecnici della scientifica; ciò di cui avevano davvero bisogno era una lavamoquette, una montagna di stracci per
pavimenti e una vasca da bagno piena di sgrassatore universale. Se credevano di poter mai "risolvere" quel crimine, si
stavano solo masturbando le suole delle scarpe e le punte delle penne biro.
Quello che era successo veramente era un fantasma che potevano percepire, ma mai catturare.
Neanche a farlo apposta, andò in onda il promo del nuovissimo speciale in prima serata di
Investigatori del
Paranormale; la telecamera fece una panoramica su una qualche dimora storica, giù al Sud, con degli alberi che
avevano un gran bisogno di una spuntatina alla barba.
Qhuinn buttò giù i piedi dal letto e si stropicciò la faccia. Layla avrebbe voluto tornare un'altra volta ma, quando lo
aveva chiamato, le aveva risposto telepaticamente che era stanco morto e aveva bisogno di dormire.
Non che non avesse voglia di stare con lei, solo che...
Maledizione, lei lo trovava attraente, lo desiderava e a lui chiaramente piaceva il suo corpo. Ma allora perché non la
faceva venire lì e non si accoppiava con lei, realizzando finalmente il suo principale obiettivo esistenziale?
Mentre rifletteva su quel piano, fu assalito da un'immagine del volto di Blay che lo costrinse a esaminare con occhio
freddo e impietoso la trama sfilacciata della sua vita: era tutt'altro che bella e, all'improvviso, trovò intollerabili tutti
quei fili pendenti, che non poteva né tagliare né ricucire insieme.
Si alzò, uscì nella galleria delle statue e guardò a destra. Verso la stanza di Blay.
Con un'imprecazione, andò alla porta da cui era entrato e uscito tante volte quante dalla sua stessa stanza e bussò. Ma
lo fece piano. Invece del suo solito bang-bang-bang, il rumore fu quasi impercettibile.
Nessuna risposta. Provò di nuovo.
Girò la maniglia e si spinse appena oltre la soglia... avrebbe preferito non dover essere tanto discreto. Ma forse
Saxton era lì dentro col suo amico.
«Blay? Sei sveglio?» bisbigliò al buio.
Nessuna risposta... e la mancanza di uno scroscio d'acqua suggeriva che quei due non stavano facendo una
movimentata doccia insieme. Entrando, Qhuinn accese la luce...
Il letto era rifatto, in perfetto ordine, intatto. Sembrava la pubblicità di una rivista, con tutti i cuscini a posto e il
piumone extra piegato come un taco di stoffa in fondo al materasso.
In bagno gli asciugamani erano asciutti, niente condensa sul vetro del box doccia e la Jacuzzi non aveva un solo alone
lasciato dalle bolle del bagnoschiuma.
Assalito da uno stordimento improvviso, Qhuinn uscì dalla stanza e proseguì lungo il corridoio.
Davanti alla camera dove avevano sistemato Saxton si fermò, fissando i pannelli di legno della porta. Ottimo lavoro
di falegnameria; i punti di giuntura tra le assi erano invisibili. Anche chi l'aveva dipinta aveva fatto un bel lavoro, la
superficie era liscia e uniforme, senza segni di pennellate. Bello anche il pomolo di ottone, lucido come una moneta
d'oro nuova di zecca...
Il suo udito finissimo colse un rumore sommesso; Qhuinn si accigliò... finché non capì cosa stava ascoltando.
Soltanto una cosa produceva quel tipo di ritmica...
Barcollando all'indietro, venne infilzato nel fondoschiena dalla statua greca proprio dietro di lui.
Con passo malfermo, avanzando alla cieca, si diresse da qualche parte, da qualunque parte. Giunto davanti allo
studio del re, si voltò a controllare il tappeto su cui aveva camminato.
Nessuna traccia di sangue. Il che, considerato il dolore che sentiva al petto, fu una sorpresa.
Era proprio come se gli avessero sparato al cuore.
Capitolo 63
Xhex si svegliò urlando.
Per fortuna John aveva lasciato accesa la luce in bagno, così lei aveva almeno mezza possibilità di convincere il suo
cervello che il suo corpo si trovava al sicuro: non era tornata in quella clinica, dove gli umani la usavano come una
cavia da laboratorio. Era lì, nella casa della confraternita, insieme a John.
Il quale era saltato giù dal letto e adesso puntava una pistola contro la porta che dava sul corridoio, pronto ad aprirci
un buco.
Tappandosi la bocca con la mano, Xhex sperò vivamente di essersi zittita in tempo, prima di svegliare l'intera casa. Ci
mancava solo che i fratelli si precipitassero lì a chiedere cosa diavolo fosse successo.
Muovendosi silenzioso, John spostò la canna della calibro quaranta verso le finestre con le tapparelle abbassate, e poi
verso cabina-armadio. Quando finalmente abbassò l'arma, fischiò in segno interrogativo.
«Sto... bene», rispose lei, ritrovando la voce. «Solo un brutto...»
Bussarono alla porta, interrompendola. Il colpo risuonò come un'imprecazione in una stanza silenziosa. O come il
grido che si era appena lasciata sfuggire.
Mentre lei si tirava le lenzuola fin sotto al mento, John socchiuse la porta e la voce di Z filtrò all'interno. «Tutto bene,
lì dentro?»
No. Neanche un po'.
Xhex si stropicciò il viso, tentando di riconnettersi con la realtà. Era una parola. Si sentiva come priva di peso e
scollegata, e quel vago senso di ottundimento non l'aiutava certo a tornare coi piedi per terra.
Non ci voleva un genio per capire come mai il suo subconscio aveva rigurgitato quella merda sulla prima volta che
era stata rapita. Restare in sala operatoria mentre John subiva la sua "pallottoleetomia" era stato chiaramente un bocconcino
appetitoso per il suo cervello, e l'incubo era la versione cranica del reflusso gastrico.
Cristo, aveva una crisi di panico, il labbro superiore era imperlato di sudore, le mani si potevano strizzare.
In preda alla disperazione, si concentrò su quello che riusciva a vedere attraverso la porta semiaperta del bagno.
Alla fine furono gli spazzolini da denti sul piano di marmo a salvarla. Ritti nella tazza d'argento tra i due lavandini,
come due comari che avevano avvicinato le teste per spettegolare meglio. Erano tutti e due di John, o almeno così
immaginava, perché in quella casa gli ospiti in generale non erano i benvenuti.
Uno era azzurro, l'altro rosso. Tutti e due con al centro quelle setole verdi che col tempo diventano bianche per farti
capire quando devi sostituirli con uno spazzolino nuovo.
Bello. Normale. Noioso. Forse, se avesse avuto un po' più di quella roba nella vita, adesso non avrebbe cercato il
modo per uscirne. O non avrebbe avuto degli incubi che le trasformavano la laringe in un megafono.
John salutò Z e tornò da lei, lasciando la pistola sul comodino e infilandosi sotto le coperte. Il suo corpo caldo era
liscio e solido, e lei si rannicchiò contro di lui con una naturalezza comune tra gli amanti, o almeno così immaginava.
Ma era la prima volta che la sperimentava con qualcuno.
John tirò indietro la testa per permetterle di vederlo in faccia e sillabò,
Cos'è successo?
«Un sogno. Un sogno orribile. Di quando...» Xhex fece un respiro profondo. «Di quand'ero in quella clinica.»
Lui non la pressò per conoscere i dettagli; si limitò ad accarezzarle i capelli.
Nel silenzio che seguì, Xhex non voleva parlare del passato... specie quando l'ultima cosa di cui aveva bisogno erano
altri echi di quell'incubo. Ma in qualche modo le parole le si formarono in gola, e non riuscì a trattenerle.
«Ho dato fuoco a quella clinica.» Il cuore prese a batterle all'impazzata, al ricordo, ma almeno rammentare l'accaduto
era meno terribile che tornarci in sogno. «E strano... non sono sicura che gli umani pensassero di fare qualcosa di
male... mi trattavano come un animale raro allo zoo, dandomi tutto quello che mi serviva per sopravvivere mentre mi
esaminavano da capo a piedi e mi sottoponevano a un esame dopo l'altro... Be', quasi tutti gli umani erano buoni con
me. Però nel gruppo c'era uno stronzo sadico.» Scosse la testa. «Mi hanno tenuta lì per un mese o due, cercando di
tenermi in vita a furia di trasfusioni di sangue umano, ma dagli indicatori clinici capivano che ero sempre più debole.
Sono riuscita a scappare perché uno di loro mi ha liberata.»
John rotolò sulla schiena e, mettendo le mani nella lama di luce,
disse,
Merda, mi dispiace tanto. Ma sono contento che hai distrutto quel posto.
Xhex rivide mentalmente il viaggio di ritorno sul luogo in cui l'avevano tenuta prigioniera... e le macerie coperte di
fuliggine. «Sì, ho dovuto bruciarlo. Ero libera da un po' quando sono tornata e gli ho dato fuoco... ma non riuscivo a
dormire per colpa degli incubi. Ho appiccato l'incendio dopo che tutti se n'erano andati. Anche se», a quel punto alzò
l'indice, «forse una vittima c'è stata. Una morte atroce. Ma quel figlio di puttana se lo meritava. Io sono una da occhioper-occhio.»
Le mani di John ricomparvero per dire,
Mi pare evidente... e non è affatto una cosa brutta.
Purché non si tratti di Lash, pensò Xhex.
«Ti spiace se ti chiedo una cosa?» Quando John si strinse nelle spalle, lei sussurrò, «La sera che mi hai portata in giro
per la città. Eri mai tornato in qualcuno di quei posti?»
Non proprio. John scosse la testa. Non mi piace soffermarmi sul passato. Io vado avanti.
«Come ti invidio. Io non riesco a liberarmi dalla mia storia.»
E non valeva solo per la clinica o per l'incubo del piccolo nido d'amore di Lash. Per qualche motivo, il fatto di non
essere mai riuscita a integrarsi - nella famiglia in cui era cresciuta, nella più ampia società dei vampiri e neanche in
quella dei symphath - aveva ancora degli echi dentro di lei e la definiva anche quando non ci pensava
consapevolmente. I momenti in cui non si era sentita fuori posto erano stati rarissimi... e, tragicamente, sembravano
coincidere con le sue missioni da killer.
Ma poi pensò al tempo trascorso con John... e corresse leggermente quei calcoli deprimenti. Stare con lui, fare l'amore
con lui, andava benissimo. Ma era una specie di parallelo rispetto alla sua vita di assassina su commissione... in
ultima istanza, non era una cosa salutare per nessuno dei soggetti coinvolti. Bastava vedere cosa era appena successo,
cavolo: si era svegliata urlando ed era stato John ad afferrare la pistola, pronto a fronteggiare il pericolo... mentre lei
recitava la parte della povera femminuccia spaurita col lenzuolo stretto sul suo povero cuoricino spaurito.
Quella non era lei. Neanche un po'.
Dio, essere caduta così facilmente nel ruolo di quella che si fa proteggere... questo la spaventava ancor più degli
incubi che la facevano gridare. Se la vita le aveva insegnato qualcosa, era che è sempre meglio saper badare a se
stessi. L'ultima cosa al mondo che voleva era trasformarsi nella classica femminuccia indifesa e dipendere da
qualcuno. Anche se quel qualcuno era rispettabile, degno e gentile come John.
Anche se... dio, il sesso con lui era strepitoso. Suonava ignobile e un po' volgare metterla in questi termini, ma era la
pura verità.
Quando erano saliti lì in camera, dopo il loro piccolo tète à tète nel tunnel, non si erano neanche presi il disturbo
di accendere la luce. Non c'era tempo, non c'era tempo... tolti i vestiti, si erano buttati sul letto e ci avevano dato
dentro di brutto. Alla fine lei si era addormentata e, qualche tempo dopo, John doveva essersi alzato per andare al
gabinetto e aveva lasciato la luce accesa. Probabilmente per assicurarsi che lei non si sentisse smarrita, se si svegliava.
Perché lui era fatto così.
Con un clic le tapparelle d'acciaio cominciarono ad alzarsi sul cielo buio e, per fortuna, interruppero le sue
elucubrazioni.
Odiava rimuginare. Non serviva mai a niente e la faceva solo stare peggio.
«L'acqua bollente ci chiama», disse, costringendosi ad alzarsi. Il delizioso indolenzimento dei muscoli e delle ossa le
faceva venir voglia di dormire per giorni interi in quel grande letto accanto a John. Magari addirittura per settimane.
Ma non era quello il loro destino, giusto?
Si chinò a guardarlo in faccia nella penombra della stanza. Dopo aver fatto scorrere gli occhi sui suoi bei lineamenti,
non potè fare a meno di alzare una mano e accarezzargli la guancia.
Ti amo, sillabò, al buio.
«Coraggio, andiamo», disse brusca.
Il bacio che gli diede fu una sorta di addio... in fin dei conti, forse quella notte avrebbero finalmente trovato Lash, il
che avrebbe segnato la fine di momenti come quello.
All'improvviso John l'afferrò per le braccia, aggrottando la fronte, ma poi, quasi le avesse letto nel pensiero e sapesse
anche troppo bene come stavano le cose, la lasciò andare.
Quando Xhex si alzò, allontanandosi dal letto, lui la seguì con lo sguardo... si sentiva i suoi occhi addosso.
In bagno, fece scendere l'acqua per tutti e due e andò a prendere qualche asciugamano dall'armadio.
Alla vista del suo riflesso, nello specchio sopra il lavandino, si fermò.
Il suo corpo era lo stesso di sempre, ma pensò alle sensazioni che lo pervadevano quando lei e John facevano l'amore.
Era abituata a pensare al suo fisico come a un'arma e poco più, qualcosa di utile e necessario per portare a termine
certe cose. Lo aveva nutrito e se ne era presa cura come aveva cura delle sue pistole e dei suoi coltelli... perché era così
che salvaguardava la sua funzionalità.
Nelle ore trascorse insieme, John le aveva insegnato una cosa diversa, le aveva mostrato che poteva ricavare un
piacere intenso dalla propria carne. Una cosa che neanche il suo rapporto con Muhrder era riuscito a darle.
Come evocato da quei pensieri, John comparve alle sue spalle; la sua statura e le sue spalle larghe la rimpicciolirono,
allo specchio.
Guardandolo negli occhi, Xhex si mise una mano sul seno e cominciò a sfregarsi il capezzolo, ricordando com'era
sentire lì la mano di lui, la sua lingua, la sua bocca. Il corpo di lui reagì all'istante, l'odore di vampiro innamorato
saturò il bagno, il pene si erse con prepotenza.
Allungando le braccia dietro la schiena, lei lo trasse contro di sé e l'erezione penetrò nel cuneo formato dal suo sesso
e dalle cosce. Spingendo l'inguine contro il suo sedere, John fece scivolare le mani calde intorno alla sua vita,
accarezzandole il ventre. Chinò la testa sulla sua spalla e le zanne brillarono candide quando, con delicatezza, le fece
scorrere sulla sua pelle, fino all'incavo del collo.
Inarcandosi contro di lui, Xhex si allungò per fargli scorrere le dita tra i capelli scuri e folti. Se li era tagliati corti, ma
stavano crescendo e gli stavano bene. Lei li preferiva lunghi, perché era bellissimo sentirli tra le mani, così morbidi e
lisci.
«Vieni dentro di me», disse con voce roca.
John spostò la mano verso l'alto, stringendo il seno che lei aveva accarezzato per lui, poi, infilando il braccio tra i loro
corpi, si piegò leggermente all'indietro e la penetrò. Al tempo stesso fece scorrere le zanne sulla sua gola, fino alla
giugulare.
Non aveva bisogno di nutrirsi, Xhex lo sapeva. Perciò fu stranamente elettrizzata quando le diede un morso, poiché
significava che lo faceva solo perché ne aveva voglia: anche lui la voleva dentro di sé.
Sotto i faretti incassati nel soffitto, Xhex lo guardò mentre la prendeva da dietro, flettendo i muscoli, gli occhi di
fuoco, l'erezione che affondava e si ritraeva, dentro e fuori, dentro e fuori. Guardò anche se stessa. Aveva i seni
turgidi, i capezzoli duri e rosei, non solo perché quello era il loro colore, ma perché lui, durante il giorno, se li era
lavorati con particolare impegno. La pelle era luminosa, le guance in fiamme, le labbra tumide per i baci dati e
ricevuti, le palpebre socchiuse in modo erotico.
John si staccò dalla sua vena e con la lingua rosea leccò i forellini lasciati dal morso, sigillandoli. Voltando la testa,
Xhex gli catturò la bocca con la sua, godendosi l'incontro delle loro lingue, mentre i loro corpi si muovevano
all'unisono.
Ben presto il sesso divenne urgente e sfrenato, non più sensuale, ma potente. I fianchi di John pompavano come
pistoni, i corpi sbattevano l'uno contro l'altro e i respiri ruggivano affannosi. L'orgasmo la investì con una violenza
tale che, se John non l'avesse stretta per le anche, si sarebbe piegata sulle ginocchia, cadendo in avanti. Proprio
mentre veniva, sentì che anche lui stava eiaculando; i suoi spasmi la sommersero in ondate successive che,
propagandosi a partire dall'erezione, la travolsero nel corpo... e nell'anima.
E poi accadde.
Al culmine del piacere, lei cominciò a vedere tutto rosso e piatto... e quando alla fine l'estasi si stemperò, la comparsa
non richiesta del suo lato peggiore fu un campanello d'allarme che inconsciamente si aspettava.
Gradualmente si rese conto dell'umidità e del calore crescenti... dello scroscio dell'acqua, nella doccia... delle migliaia
di punti di contatto tra loro... e che tutto era rosso sangue, nelle sue varie sfumature.
John le prese il volto tra le mani, sfiorandole gli occhi rossi.
«Già, ho bisogno dei miei cilici», disse Xhex.
Lui spostò le mani davanti a lei e a gesti disse,
Ce li ho io.
«Davvero?»
Li ho tenuti da parte. Poi si accigliò. Ma sei sicura di dover...
«Sì», fece lei, adirata. «Sono sicura.»
L'espressione che gli contrasse il volto le ricordò come lo aveva visto quando era balzato giù dal letto, sentendola
urlare: duro, intrattabile, maschio al mille per mille. Se adesso la disapprovava, non poteva farci niente. Doveva
badare a se stessa, e che lui fosse d'accordo o meno con quello che lei faceva per mantenersi su una lunghezza d'onda
"normale" non avrebbe cambiato la sua situazione.
Proprio non erano destinati a stare insieme, per quanto a volte fossero compatibili.
John si sfilò da lei e indietreggiò, facendo scorrere le dita lungo la sua spina dorsale in una sorta di ringraziamento...
e, data la cupa consapevolezza nei suoi occhi, forse anche di addio. Poi si voltò e fece per infilarsi sotto la doc...
«Oh... mio... Dio...»
Con un tuffo al cuore, Xhex lo vide riflesso nello specchio. In cima alla schiena, in una splendida distesa di inchiostro
nero... in una dichiarazione tutt'altro che sussurrata, ma urlata... in un tatuaggio a caratteri cubitali e pieni di
svolazzi...
C'era il suo nome nell'Antico Idioma.
Si voltò di scatto mentre lui rimaneva impietrito. «Quando te lo sei fatto fare?»
Dopo un attimo carico di tensione, John scrollò le spalle e lei rimase stregata da come la scritta si muoveva,
allargandosi per poi tornare a posto. Scuotendo la testa, lui allungò la mano per controllare la temperatura dell'acqua,
poi entrò nel box doccia, misela schiena sotto il getto caldo e afferrò la saponetta, rigirandola tra le mani. Rifiutandosi
di guardarla, le stava inviando un messaggio molto
chiaro: il suo nome tatuato sulla pelle non era affar suo. Che poi era la stessa linea di confine che aveva tracciato lei
con i cilici, no?
Xhex si avvicinò alla porta di vetro che li separava. E bussò energicamente.
Quando, sillabò.
Lui strinse gli occhi con forza, quasi il ricordo lo facesse stare male. Poi, con le palpebre abbassate, lentamente mosse
le mani nella lingua dei segni... e le spezzò il cuore:
Quando ho pensato che non saresti tornata a casa.
John si sbrigò col sapone e lo shampoo, ben consapevole che Xhex
lo fissava al di là del vetro. Voleva aiutarla a superare la sorpresa e tutto il resto, ma visto come stavano le cose tra
loro, non aveva nessuna voglia di fare
harakiri con la spada dei suoi sentimenti.
O con l'ago per tatuaggi, per così dire.
Quando le aveva chiesto dei cilici, lei lo aveva tagliato fuori in modo molto chiaro... e questo lo aveva indotto a
riflettere. Da quando, la sera prima, era rimasto ferito, erano ricaduti nella solita dinamica sessuale, e non c'è come il
sesso per offuscare la realtà. Ma adesso basta, pensò.
Finito di lavarsi, uscì dalla doccia e le passò davanti, prendendo una salvietta dal portasciugamani di ottone e
legandosela in vita. Nello specchio, incrociò i suoi occhi.
Vado a prenderti i cilici, disse.
«John...»
Quando lei non aggiunse altro, John si accigliò. Eccoli lì, a neanche un metro di distanza, ma lontani chilometri.
Quell'immagine riassumeva in due parole la loro situazione
Uscì dal bagno e in camera da letto prese un paio di jeans e se
li infilò. Il giubbotto di cuoio era finito in clinica con lui, la notte precedente, e lì era rimasto, da qualche parte.
A piedi nudi passò davanti alle statue di marmo, scese lo scalone e svoltò l'angolo per infilarsi nella porta nascosta.
Dio... ripercorrere il tunnel fu una batosta tremenda; non faceva che pensare a Xhex e a se stesso insieme, al buio.
Come una femminuccia sperò con tutto il cuore che potessero tornare a quegli istanti sospesi, quando non esisteva
più niente a parte i loro corpi in preda alla passione più travolgente. Lì sotto i loro cuori erano stati liberi di battere
forte... e di esultare.
Maledetta vita reale.
Faceva proprio schifo.
Si stava dirigendo deciso verso l'ingresso del centro di addestramento, quando venne fermato dalla voce di Z.
«Ehilà, John.»
John si voltò, facendo stridere i piedi nudi sul pavimento del
tunnel. Alzò la mano in segno di saluto e il fratello lo raggiunse in poche falcate. Era in tenuta da combattimento, la
canotta attillata e i calzoni di pelle neri erano l'abbigliamento standard che tutti loro avrebbero indossato prima di
uscire un'altra volta a caccia di Lash. Col cranio rasato a zero e le luci del soffitto puntate sulla brutta cicatrice che gli
sfregiava il volto, non c'era da stupirsi che la gente fosse spaventata a morte da lui.
Specie quando socchiudeva gli occhi e contraeva la mascella come in quel momento.
Che succede?, chiese John quando il fratello si fermò di fronte a lui.
Vedendo che tardava a rispondere, John si preparò al peggio pensando, Oh... cazzo, e adesso cos'è successo?
Cosa c'è?, lo incalzò.
Con un'imprecazione, Zsadist si mise a camminare su e giù, le mani sui fianchi, gli occhi fissi a terra. «Non so
neanch'io da dove cacchio cominciare.»
Accigliandosi, John si appoggiò contro il muro del tunnel, pronto a incassare altre cattive notizie. Non riusciva
proprio a immaginare quali potessero essere, ma la vita sa essere dannatamente creativa.
Alla fine Z si fermò e lo guardò. I suoi occhi, di solito di un bel giallo dorato, erano neri come il carbone, come la
pece. Mentre il volto, impallidito, era bianco come la neve.
John si raddrizzò.
Gesù... cos'è successo?
«Ti ricordi tutte le passeggiate che abbiamo fatto nei boschi, tu e io, appena prima della tua transizione... dopo la
prima volta che ti sono saltati i nervi con Lash?» Quando John annuì, il fratello continuò. «Ti sei mai chiesto perché
Wrath ci aveva messi insieme?»
John annuì lentamente.
Sì...
«Non era uno sbaglio.» Gli occhi del fratello erano gelidi e tenebrosi come la cantina di una casa stregata, le ombre
non rappresentavano solo il colore dell'iride, ma ciò che si celava dietro quello sguardo. «Tu e io abbiamo qualcosa in
comune. Capisci quello che sto dicendo? Tu e io... noi due abbiamo qualcosa in comune.»
All'inizio John si accigliò di nuovo, senza capire...
Poi, all'improvviso, fu percorso da un brivido gelido che arrivò fino al midollo. Z...? Un momento, aveva capito male?
Aveva frainteso?
Però poi, chiaro come il sole, ricordò quando si erano parlali, dopo che il fratello aveva letto quello che la psicologa
aveva scritto nella cartella clinica di John.
La vittima di uno stupro ha tutto il diritto di scegliere come affrontare la cosa, perché sono solo
affari suoi e di nessun altro, aveva detto Z. Se non ti va di dire un'altra parola sull'argomento, io non
aprirò bocca.
All'epoca, John era rimasto sbalordito dall'inattesa comprensione del fratello. E dal fatto che Z non sembrava
giudicarlo o vederlo come un debole.
Adesso sapeva perché.
Dio...
Z?
Il fratello alzò la mano. «Non te lo sto dicendo per scioccarti, e di sicuro avrei preferito che non lo venissi mai a
sapere... per motivi che sono certo capirai. Te ne parlo per via dell'urlo che ha cacciato la tua femmina, stamattina.»
John aggrottò le sopracciglia, mentre il fratello ricominciava a camminare avanti e indietro.
«Senti, John, non mi piace quando gli altri ficcano il naso negli affari miei, e sono l'ultima persona al mondo a voler
tirare in ballo cose spiacevoli. Ma quell'urlo...» Z lo guardò in faccia. «Ne ho lanciati troppi per non sapere che razza
di inferno si sta passando per strillare così. La tua ragazza... già normalmente ha qualcosa di oscuro, ma dopo Lash?
Non mi occorrono i particolari... ma posso immaginare che è scossa, come minimo. Che cavolo, a volte, dopo che ti
hanno salvato... è quasi peggio.»
John si stropicciò la faccia con le tempie che cominciavano a martellargli, poi alzò le mani... solo per scoprire che non
aveva niente da dire. La tristezza che lo opprimeva lo aveva lasciato senza parole, ma con uno strano vuoto in testa.
Riuscì solo ad annuire.
Zsadist gli diede una pacca sulla spalla, poi riprese a camminare su e giù. «Conoscere Bella e mettermi con lei... è
stata quella la mia ancora di salvezza. Ma non era l'unica cosa di cui avevo bisogno. Vedi, prima che ci sposassimo,
Bella mi ha lasciato... ha preso e se n'è andata senza spiegazioni. Io sapevo di dover fare qualcosa per mettere la testa
a posto, se volevo avere una possibilità con lei. Così ho parlato con qualcuno di... tutto.» Z imprecò di nuovo,
fendendo l'aria con la mano. «E, no, non era uno dei dottori della clinica di Havers. Era qualcuno di cui mi fidavo.
Qualcuno che faceva parte della famiglia... che sapevo non mi avrebbe giudicato sporco o debole o cose così.»
Chi? sillabò John.
«Mary.» Z espirò. «La shellan di Rhage. Ci vedevamo giù nel locale caldaie, sotto la cucina. Piazzavamo lì due sedie.
Proprio accanto alla caldaia. Mi ha aiutato, ai tempi, e ogni tanto torno da lei.»
John non stentò a capirlo. Mary aveva quel modo di fare calmo e dolce... che spiegava com'era riuscita a domare non
solo il più selvaggio dei fratelli, ma anche la bestia che abitava dentro di lui.
«Quel grido di stanotte... John, se vuoi sposare quella femmina
devi aiutarla. Lei ha bisogno di parlare del suo problema perché altrimenti quella cosa la farà marcire dal di dentro,
poco ma sicuro. Ho appena parlato con Mary... senza fare nomi. Si è laureata in psicologia e ha detto che si sente
pronta a seguire qualche paziente. Se ti capita l'occasione e ti sembra il momento giusto... dillo a Xhex. Dille di
andare a parlare con Mary.» Z sfregò il palmo sul cranio rasato, facendo risaltare con chiarezza gli anellini ai
capezzoli, sotto la canotta nera. «E se vuoi un parere di prima mano, posso giurarti sulla testa di mia figlia che la tua
femmina sarà in ottime mani.»
Grazie, disse John. Sì, glielo dirò sicuramente. Gesù... grazie.
«Non c'è di che.»
D'un tratto, John guardò negli occhi Zsadist.
Mentre si fissavano era difficile non sentirsi parte di un club tutto particolare, a cui nessuno avrebbe mai voluto
iscriversi di sua spontanea volontà. Esserne soci non era una cosa ambita o desiderabile, né un motivo di vanto... ma
era una cosa vera e importante: i superstiti di simili naufragi sono in grado di vedere negli occhi altrui gli orrori di
quelle pericolosissime secche. Era come riconoscere un proprio simile. Erano due persone con lo stesso tatuaggio
nell'anima: lo spartiacque di un trauma che li separava dal resto del pianeta, inaspettatamente avvicinava ancora di
più due anime tormentate.
O magari tre, come in quel caso.
«Ho ucciso la troia che mi ha violentato», disse Zsadist con voce roca. «Ho portato via con me la sua testa quando
sono scappato. Tu ti sei levato questa soddisfazione?»
John scosse lentamente la testa. Mi sarebbe piaciuto.
«Non voglio mentirti. Anche questo mi ha aiutato.»
Seguì un silenzio imbarazzato, carico di tensione, come se nessuno dei due sapesse come premere il tasto di reset per
tornare alla normalità. Poi Z annuì, reciso, e tese il pugno.
John picchiò le nocche contro le sue, pensando, merda, non si può mai sapere che scheletri ci sono nell'armadio di
ciascuno di noi.
Gli occhi di Z tornarono gialli mentre si voltava per tornare verso la porta che lo avrebbe riportato dentro casa, dalla
sua famiglia, dai suoi fratelli. Dalla tasca posteriore dei calzoni, come se ce l'avesse infilato e poi se ne fosse scordato,
spuntava un bavaglino rosa, di quelli che si allacciano col velcro, con sul davanti, in nero, un piccolo teschio con le
tibie incrociate.
La vita continua, pensò John. Qualunque cosa ti abbia fatto il mondo, puoi sopravvivere.
E forse, se Xhex parlava con Mary, poi non avrebbe...
Dio, non riuscì neanche a concludere il pensiero perché temeva di definire la sua exit strategy.
Allungò il passo verso il centro di addestramento, diretto alla clinica, dove trovò il giubbotto, le armi e i cilici.
Prese tutto quanto, col cervello che rimuginava su tante cose... cose del passato e del presente. Rimuginava,
rimuginava, rimuginava...
Rientrato in casa, si fiondò su per lo scalone e in fondo alla galleria delle statue. Appena entrato in camera, sentì
l'acqua che scorreva nella doccia ed ebbe una fugace, vivida visione di Xhex meravigliosamente nuda, bagnata e
coperta di schiuma... ma non andò a raggiungerla. Rifece il letto e posò i cilici in fondo al materasso, poi si cambiò,
infilando la tenuta da combattimento, e uscì.
Non scese per il Primo Pasto.
Si diresse verso un'altra camera da letto, in fondo al corridoio. Bussò alla porta con la sensazione di aver aspettato
anche troppo a fare ciò che stava per fare.
Quando gli aprì, Tohr era ancora mezzo svestito... e chiaramente sorpreso. «Cosa c'è?»
Posso entrare? chiese John.
«Sì, certo.»
Entrando, John fu assalito da uno strano senso di premonizione. Ma con Tohr ce l'aveva sempre avuto... quello, e il
senso di un legame profondo.
Guardò il fratello, serio, pensando al tempo che avevano passato su quel divano, giù da basso, a guardare film di
Godzilla mentre Xhex era fuori a combattere in pieno giorno. Buffo; si sentiva così a suo agio, con Tohr, che stare con
lui era come stare da solo senza la solitudine...
Mi hai seguito, vero? disse di punto in bianco. Eri tu... l'ombra che ho percepito. Al negozio di tatuaggi
e all'Xtreme Park.
Tohr socchiuse gli occhi. «Sì. Ero io.»
Perché?
«Senti, sul serio, so che sai badare a te stesso, non credere...»
No, non è questo. Quello che non capisco è... se stai abbastanza bene da uscire sul campo, perché
non li uccidi? Per... lei. Perché perdi tempo con me?
Tohr imprecò con un sospiro. «Ah, merda, John...» Lunga pausa. Poi, «Non possiamo fare più niente per i morti. Non
ci sono più, è finita. Ma i vivi... dei vivi possiamo prenderci cura. So che inferno hai passato... e stai ancora
passando... ho perduto la mia Wellsie perché non c'ero quando lei aveva bisogno di me... non posso rischiare di
perdere anche te per la stessa ragione.»
Mentre le parole del fratello si spegnevano, John si sentì come dopo un attacco a sorpresa... eppure non era scioccato.
Perché Tohr era così... leale e sincero. Una persona di valore.
«Non fraintendermi», riprese Tohr con una risatina aspra. «Appena ti sarai lasciato alle spalle questa storia di Lash e
quel bastardo sarà morto e sepolto, non darò tregua a quei figli di puttana. Ucciderò lesser in memoria di Wellsie
per il resto della mia vita. Ma il fatto è che mi ricordo... vedi, ho passato anch'io quello che hai passato tu, quando eri
convinto che la tua femmina fosse morta. Per quanto ci si creda equilibrati, si va completamente via di testa... sei stato
fortunato a ritrovare Xhex, ma la vita non torna così in fretta entro binari razionali. E in più, diciamocelo... faresti
qualunque cosa per salvarla, anche beccarti una pallottola in pieno petto. E io posso capirlo, ma preferirei evitarlo, se
possibile.»
Mentre assimilava le parole del fratello, John disse, in automatico,
Lei non è la mia femmina.
«Sì, invece. E ha un senso che voi due stiate insieme. Non sai quanto.»
John scosse la testa.
Non capisco di chi stai parlando, senza offesa.
«Non sempre quello che è giusto è anche facile.»
Allora sì, siamo fatti l'uno per l'altra.
Ci fu un lungo silenzio, durante il quale John ebbe la stranissima sensazione che la vita si stesse riassestando, che gli
ingranaggi sganciati o mancanti fossero tornati a posto.
Eccolo di nuovo, il Club dei Sopravvissuti alla Bufera.
Cristo, con tutta la merda che avevano ingoiato gli abitanti di quella casa, forse V doveva pensare a un disegno che
ognuno di loro poteva farsi tatuare sul didietro. Perché c'era poco da fare: in fatto di mazzate non li batteva nessuno.
O forse la vita è così e basta. Per tutti, sulla faccia della terra. Forse il Club dei Sopravvissuti non è qualcosa che ti
"guadagni", ma semplicemente ci nasci dentro uscendo dal ventre di tua madre. Appena il tuo cuore comincia a
battere ne diventi socio, poi il resto è solo questione di vocabolario: i nomi e i verbi usati per descrivere gli eventi che
scuotono le tue fondamenta e ti fanno volare per aria non sono sempre gli stessi delle altre persone, ma la crudeltà
casuale delle malattie e degli incidenti, l'essere vittima di uomini malvagi e di nefandezze, il crepacuore dovuto alla
perdita di una persona cara, con tutte le sue ferite aperte e cicatrici dell'anima... nella sostanza non cambia nulla, è
sempre la stessa storia.
E il regolamento del club non prevede nessuna clausola di recesso, a meno di suicidarsi.
Il succo della vita, John cominciava a capirlo, non ha nulla di romantico e si può riassumere in tre parole: le disgrazie
succedono.
Però poi si va avanti. Cerchi di proteggere per quanto possibili amici, parenti e la tua compagna o il tuo compagno. E
continui a lottare, anche dopo essere finito KO.
Tiri su il culo da terra, maledizione, e
continui a lottare.
Mi sono comportato malissimo con te, disse John. Mi dispiace.
Tohr scosse la testa. «Perché, io con te? Mi sarei comportato meglio? Non scusarti. Come il mio migliore amico, tuo
padre, mi ha sempre detto: non guardare mai indietro, soltanto avanti.»
Allora ecco da dove gli derivava, pensò John. Quella convinzione ce l'aveva nel sangue.
Ti voglio con me, al mio fianco, disse. Stanotte. Domani notte. Per tutto il tempo che servirà a
uccidere Lash. Fallo con me. Trova quel bastardo con me, con noi.
Era giusto che loro due collaborassero. In fin dei conti, ciascuno con le sue ragioni, erano uniti in quella partita a
scacchi letale: John voleva vendicare Xhex per ovvi motivi. Quanto a Tohr... be', l'Omega gli aveva portato via il
figlio, quando quel
lesser aveva ucciso Wellsie. Adesso il fratello aveva la possibilità di rendergli pan per focaccia.
Vieni con me. Fai questa cosa... con me.
Tohr dovette schiarirsi la voce. «Credevo che non me lo avresti mai chiesto.»
Niente pugno contro pugno, stavolta.
Si abbracciarono, petto contro petto. E, quando si staccarono, John attese che Thor si infilasse una maglietta,
afferrasse il giubbotto e prendesse le armi.
Poi scesero di sotto fianco a fianco.
Come se non fossero mai stati divisi. Come se fosse così da sempre.
Capitolo 64
Le stanze sul retro della grande casa della confraternita avevano il vantaggio non solo di avere la vista sui giardini ma
anche una terrazza al primo piano.
Il che significava che, se eri agitato, potevi uscire a respirare una boccata d'aria fresca prima di affrontare gli altri
abitanti della casa.
Appena le tapparelle si alzarono, Qhuinn aprì la portafinestra vicino al cassettone e uscì nell'aria frizzante della
notte. Si appoggiò coi palmi sulla balaustra, lasciando che le spalle sostenessero il peso del busto. Era in tenuta da
combattimento, in calzoni di pelle e stivali, ma aveva lasciato dentro le armi.
Guardando le aiole battute dal vento e gli alberi da frutto rachitici, non ancora in fiore, sentì la pietra fredda e liscia
sotto le mani, la brezza tra i capelli ancora umidi e i muscoli contratti all'altezza delle reni. Dagli sfiatatoi nel tetto
sopra la cucina saliva un aroma di agnello arrosto e le lampade accese in tutta la casa riversavano la loro calda luce
dorata sul prato e sul patio.
Che paradosso... sentirsi così vuoto perché Blay, finalmente realizzato, provava un senso di pienezza.
La nostalgia calò i suoi occhiali rosa e, attraverso di essi, Qhuinn rivide tutte le serate a casa di Blay, loro due seduti
per terra, ai piedi del letto, a giocare con la PlayStation 2, a bere birra e a guardare video. Avevano cose serie e
importanti da di scutere, allora, cose tipo quello che succedeva al corso di addestraménto, quale videogioco era in
uscita per il natale degli umani e chi era la più sexy tra Angelina Jolie e qualunque altro essere in gonnella.
Angelina vinceva sempre. Lash era sempre una gran testa ili cazzo. E Mortal Kombat era sempre in cima alla
classifica, all'epoca.
Dio, a quei tempi non esisteva neanche Guitar Hero World Tour.
Lui e Blay erano sempre andati d'accordo su tutto, questo era il fatto, e nel mondo di Qhuinn, dove tutti lo odiavano a
morte, avere qualcuno che lo capiva e lo accettava era... come un raggio di sole tropicale al Polo Nord.
Adesso, però, era difficile capire come facevano a essere cosi intimi. Lui e Blay avevano imboccato due strade
diverse... Avendo avuto tutto in comune, una volta, adesso non avevano in comune più niente, a parte il nemico... e,
anche lì, Qhuinn doveva stare appiccicato a John, quindi non è che lui e Blay fossero proprio colleghi.
Merda, il suo lato adulto riconosceva che a volte le cose vanno così, ma il suo lato bambino rimpiangeva quella
perdita più di...
Ci fu un clic e il risucchio di una guarnizione impermeabile che si apriva.
Da una stanza buia che non era la sua, Blay uscì sulla terrazza. Indossava una vestaglia di seta nera ed era scalzo, coi
capelli bagnati per la doccia.
Aveva dei segni di morso sul collo.
Si fermò appena Qhuinn si raddrizzò dalla balaustra.
«Oh... ehi», fece Blay, e immediatamente si voltò, quasi ad assicurarsi che la portafinestra da cui era uscito fosse
chiusa.
Lì dentro c'era Saxton, pensò Qhuinn. Addormentato sopra lenzuola che quei due avevano stropicciato alla grande.
«Stavo tornando dentro», disse Qhinn, indicando col pollice la stanza alle sue spalle. «Fa troppo freddo per restare
qua fuori.»
Blay incrociò le braccia sul petto, guardando il panorama. «Già. Si gela.»
Un attimo dopo si avvicinò alla balaustra e il profumo del suo sapone s'insinuò nelle narici di Qhuinn.
Nessuno dei due si mosse.
Prima di rientrare, Qhuinn si schiarì la gola. «Tutto a posto? Ti ha trattato bene?»
Dio, che voce roca.
Blay inspirò a fondo. Poi annuì. «Sì. E' stato bello. È stato... okay.»
Qhuinn distolse gli occhi dall'amico e, guarda caso, valutò la distanza che lo separava dal patio di pietra sottostante.
Hmm... fare un tuffo ad angelo su quella spianata di ardesia poteva spazzare via dalla sua mente le immagini di quei
due.
Gli avrebbe anche spappolato il cervello come due uova strapazzate, naturalmente, ma era poi così un male?
Saxton e Blay... Blay e Saxton...
Merda, era rimasto in silenzio anche troppo. «Mi fa piacere. Voglio che tu sia... felice.»
Blay non fece commenti; invece mormorò, «Ti è riconoscente, a proposito. Per quello che hai fatto. Anche se ci sei
andato giù un po' pesante, ma... ha detto che sei sempre stato segretamente cavalleresco.»
Ah, sì. Assolutamente. Cavalleresco era il suo secondo nome, coooome no!
Chissà cosa avrebbe pensato, Saxton, se avesse saputo che Qhuinn aveva voglia di trascinarlo fuori di casa per quei
suoi favolosi capelli biondi, e poi magari di stenderlo sulla ghiaia vicino alla fontana e passarci sopra un paio di volte
con l'Hummer.
No, anzi, la ghiaia non era la superficie adatta. Meglio entrare direttamente nell'atrio con l'Hummer e spiaccicarlo lì.
Ci voleva qualcosa di duro, sotto il corpo... come quando si batte una costoletta su un tagliere.
È tuo cugino, per l'amor del cielo, gli fece notare una vocina.
E allora? ribatté la metà più grossa del suo Io.
Prima di sclerare del tutto, sviluppando un disturbo da sdoppiamento della personalità, si allontanò dalla balaustra...
e dal suo impulso omicida. «Be', sarà meglio che vada. Devo uscire con John e Xhex.»
«Scendo tra dieci minuti. Devo solo cambiarmi.»
Guardando il bel viso del suo migliore amico, Qhuinn ebbe la sensazione di conoscere da sempre quei capelli rossi,
quegli occhi azzurri, quelle labbra, quella mascella. E fu proprio in virtù della loro lunga storia in comune che cercò
qualcosa da dire, qualcosa in grado di riportarli al punto di partenza.
Tutto ciò che gli venne in mente fu... Mi manchi. Mi manchi talmente tanto che sto male, ma non so come trovarti,
anche se sei qui davanti a me.
«Okay», disse alla fine. «Ci vediamo al Primo Pasto.»
«Okay.»
Qhuinn mise in moto le chiappe e si avviò verso la portafinestra della sua stanza. Stringendo tra le dita la gelida
maniglia di ottone, la voce gli uscì dalla gola, alta e chiara. «Blay.» «Sì?»
«Cerca di stare bene.»
Adesso fu Blay a parlare con una voce roca che minacciava di spezzarsi. «Sì. Anche tu.»
Perché, naturalmente, "stammi bene" e simili era quello che Qhuinn diceva sempre quando stava lasciando andare
qualcuno.
Qhuinn tornò dentro e chiuse la portafinestra. Muovendosi meccanicamente, prese i foderi con i pugnali, le fondine
con le pistole e il giubbotto di pelle.
Buffo, ricordava a stento quando aveva perso la verginità; ri cordava la femmina con cui era capitato, naturalmente,
ma l'esperienza in sé non gli aveva lasciato un ricordo indelebile. Così come
gli orgasmi che, da allora in avanti, aveva raggiunto e fatto raggiungere. Solo un gran divertimento, grandi sudate e
respiri affannosi, una gran quantità di bersagli colpiti e affondati.
Tutte scopate facili da dimenticare, niente di più.
Scendendo giù nell'atrio, tuttavia, si rese conto che avrebbe ricordato per il resto della sua vita la prima volta di Blay.
Loro due si stavano allontanando già da un po', ma adesso... il filo sottilissimo che ancora li teneva legati, quel
legame sempre più fragile, era stato reciso.
Peccato che la libertà assomigliasse a una prigione, invece che a un orizzonte.
Appena mise piede sul pavimento a mosaico in fondo alle scale, sentì riecheggiare nella testa l'inno vecchio stampo
di John Mel-lencamp, che ai concerti gli spettatori ascoltavano agitando gli accendini; gli era sempre piaciuta quella
canzone, ma non aveva mai veramente capito cosa significava.
Adesso avrebbe preferito che fosse ancora così.
Life goes on... long after the thrill of living is gone...
La vita continua... anche dopo che è passata la gioia di vivere...
Nel bagno di John, Xhex rimase sotto il getto bollente delle doccia, le braccia sul petto, i piedi piantati ai due lati
dello scarico, l'acqua che la colpiva sulla nuca prima di avvolgere le spalle e scorrere giù lungo la spina dorsale.
Il tatuaggio di John...
Maledizione...
Se l'era fatto fare come ricordo in memoria di lei, fissando il suo nome sulla pelle per averla sempre con sé. Non c'era
niente di più permanente, dopo tutto... ecco perché nel corso della cerimonia nuziale i vampiri maschi si facevano
incidere sulla schiena il nome della loro shellan: gli anelli si possono perdere, i documenti si possono stracciare,
bruciare o smarrire. Ma la pelle te la porti dietro ovunque vai.
Cristo, non le era mai fregato un tubo di quelle femmine tutte dolci e a modino, tutte truccate, coi loro bei vestitini e i
capelli lunghi e curati. Anzi, quei simboli tipici della femminilità le erano sempre parsi dichiarazioni di debolezza.
Adesso però, per un attimo, si ritrovò a invidiare la seta, i profumi e tutto il resto. Come dovevano essere fiere,
sapendo che i loro compagni portavano inciso sul proprio corpo l'impegno assunto nei loro confronti, ogni notte
della loro vita, finché campavano.
John sarebbe stato un hellren meraviglioso...
Gesù... cosa diavolo ne avrebbe fatto di quel tatuaggio, al momento di sposarsi? Ci avrebbe fatto incidere sotto il
nome della sua shellan?
Be', non la esaltava l'idea di occupare il posto d'onore sulle sue spalle per il resto della sua vita. No davvero. Neanche
un po'. Perché così faceva la figura della stronza egoista.
Oh, ma un momento, quella era la storia della sua vita.
Uscì controvoglia dalla doccia, si asciugò e passò dall'umido calore del bagno al freddo della camera da letto.
Appena oltre la soglia si fermò. Di fronte a lei, il piumone era stato raddrizzato alla bell'e meglio, il disordine di poco
prima era più o meno tornato a posto.
In fondo al letto c'erano i suoi cilici. A differenza delle coperte, erano stati allineati con cura.
Avvicinandosi, fece scorrere un dito lungo il metallo uncinato. John glieli aveva tenuti da parte... e l'istinto le diceva
che li avrebbe conservati anche se lei non fosse più tornata.
Gran bella eredità da lasciarsi dietro.
Se si fosse trattenuta lì per la notte se li sarebbe messi. Invece si infilò calzoni e canotta e prese armi e giubbotto,
lasciando i cilici dov'erano.
Con tutto il tempo perso a fare la bella statuina sotto la doccia, ormai era in ritardo per il Primo Pasto, quindi andò
direttamente alla riunione nello studio di Wrath. Tutti fratelli, oltre a John e ai suoi amici, erano stipati nella stanza
azzurrina in stile francese... e quasi tutti, compreso George, il cane guida, si aggiravano nervosi.
Mancava solo Wrath. Il che, ovviamente, metteva un freno un po' a tutto.
I suoi occhi cercarono John e, quando lo trovarono, non lo mollarono più, ma a parte un vago cenno del capo nella sua
direzione, lui tenne lo sguardo fisso davanti a sé, guardando solo chi attraversava il suo campo visivo. Al suo fianco
c'era Tohrment, alto e forte. Leggendo la griglia emotiva di entrambi, Xhex ebbe l'impressione che avessero
riannodato un legame che per entrambi significava tantissimo.
II che la rese sinceramente felice. Non sopportava l'idea che John restasse da solo, dopo la sua dipartita, e Tohrment
era il padre che non aveva mai avuto.
Con una violenta imprecazione, Vishous schiacciò nel portacenere una delle sue sigarette rollate a mano.
«Dannazione, dobbiamo andare anche se lui non c'è. Il buio non dura in eterno.»
Phury si strinse nelle spalle. «Però Wrath ci ha dato un ordine impreciso per questa riunione.»
Xhex era propensa a schierarsi con V, e da come John si dondolava avanti e indietro, non era l'unica.
«Sentite, voialtri potete anche aspettare», sbottò a un certo punto. «Ma io esco subito.»
Quando John e Tohr la guardarono, fu assalita da una sensa zione stranissima, come se la caccia a Lash non avesse
riunito solo loro due, ma anche lei c'entrasse qualcosa.
D'altronde, tutti loro avevano dei conti da regolare. Che fosse con la Lessening Society o con Lash nello specifico,
tutti e tre serbavano il genere di rancore che ti fa venire voglia di uccidere.
Sempre pronto a dar voce al buon senso, Tohrment intervenne per spezzare la tensione. «Okay, bene, mi assumo io la
responsabilità di dare il via libera. Evidentemente, Wrath è ancora impegnato col suo piccolo "allenamento" dall'Altra
Parte e di sicuro non vorrebbe vederci sciupare tutta la notte solo per colpa sua.»
Tohr suddivise tutti in più squadre: John, Xhex, Z, lui stesso e i ragazzi sarebbero andati all'indirizzo a cui risultava
immatricolata la Honda Civic, mentre il resto dei fratelli doveva dividersi tra la fattoria e l'Xtreme Park. In un batter
d'occhio il gruppo scese la scalinata, attraversò il vestibolo e uscì dal portone. Poi, uno dopo l'altro, scomparvero
nell'aria gelida...
Xhex riprese forma davanti a un palazzo in centro, nel vecchio quartiere dei mattatoi... oddio, forse palazzo era un
termine troppo fine. L'edificio di mattoni a sei piani aveva finestre strabiche e un tetto cadente che necessitava
dell'equivalente edilizio di un chiropratico... o forse di un'ingessatura. E la fila di pustole vaiolose lungo la facciata,
ne era più che sicura, era dovuta a una raffica di mitragliatrice o forse a un'arma automatica maneggiata da qualcuno
affetto da delirium tremens.
Veniva da chiedersi come avessero fatto, gli umani della Motorizzazione civile, ad accettare quell'indirizzo come
luogo di residenza, quando avevano assegnato la targa a quell'auto. Ma forse nessuno aveva controllato se lo stabile
indicato era agibile.
«Carino», sibilò Qhuinn, sarcastico. «Se vuoi allevare topi e scarafaggi.»
Giriamo sul retro, disse John.
Due vicoli correvano ai lati di quel cesso, e loro, senza un motivo particolare, scelsero a caso quello a sinistra. Lo
attraversarono di corsa, passando davanti ai soliti rifiuti urbani - nulla di nuovo, nulla di straordinario, solo lattine di
birra, carte di caramelle e fogli di giornale. La buona notizia era che sui fianchi di quella catapecchia non c'erano
finestre, non che ci fosse molto da vedere, a parte altri mattatoi e impianti per la macellazione e il confezionamento
delle carni... in più, forse la stabilità della struttura di mattoni era il motivo per cui il tetto non era crollato,
sostituendosi al pavimento.
Xhex correva agile al fianco dei vampiri; insieme giunsero in fondo al vicolo, con rapidità e in un relativo silenzio. Il
retro del fabbricato era solo un altro muro di mattoni rossi con striature di sporcizia metropolitana. L'unica differenza
era che la porta d'acciaio rinforzato si apriva su una piccola area di parcheggio, invece che su una strada.
Niente lesser. Niente pedoni umani. Nient'altro che gatti randagi, asfalto lurido e il lontano ululato delle sirene.
Xhex venne sopraffatta da un senso di impotenza. Maledizione, andare lì o dall'altra parte della città, in quella
ridicola pista da skateboard, oppure a casa del diavolo non cambiava niente: non c'era verso di stanare il nemico. E
avevano così poco su cui lavorare.
«Per l'amor del cielo», borbottò Qhuinn. «Dove cavolo è la festa?»
Già, pensò Xhex, non era l'unica a morire dalla voglia di menare le mani...
D'un tratto sentì come un formicolio diffuso, l'eco di qualcosa che all'inizio non seppe identificare. Guardò il resto
della squadra. Blay e Qhuinn facevano di tutto per non guardarsi. Tohr e John giravano per il parcheggio. Zsadist
aveva tirato fuori il telefonino per riferire agli altri fratelli che erano giunti a destinazione.
Quel richiamo...
Poi capì: sentiva il proprio sangue nelle vene di un altro.
Lash.
Lash non era lontano.
Senza riflettere, girò sui tacchi e partì... prima camminando e poi correndo. Sentì che la chiamavano, ma fermarsi a
spiegare era escluso.
Così come era escluso che riuscissero a fermarla.
Capitolo 65
Dall'Altra Parte, Payne giaceva in una posizione innaturale sul duro marmo, sopraffatta dal dolore... ma solo dalla
vita in su. Gambe e piedi non le facevano male, sentiva solo un formicolio qua e là, che la faceva pensare alle scintille
sopra un fuoco acceso con della legna umida. Il Re cieco era chino sopra il suo corpo spezzato, scuro in volto... ed era
comparsa anche la Vergine Scriba, che con la sua veste nera e la sua luce fioca, fluttuava in cerchio tutt'intorno.
Non fu una sorpresa che sua madre fosse uscita per rimetterla magicamente in sesto. Come la porta che, prima
scardinata, era tornata intatta, la cara mammina voleva che tutto fosse sempre pulito, ordinato e perfetto.
«Io... mi rifiuto», disse di nuovo Payne, stringendo i denti per il dolore. «Non do il mio consenso.»
Wrath si voltò verso la Vergine Scriba, poi abbassò di nuovo lo sguardo su di lei. «Ehm... ascolta, Payne, non è logico.
Non senti più le gambe... è probabile che tu ti sia rotta la schiena. Perché non Le permetti di aiutarti?»
«Non sono un oggetto... inanimato che Lei può manipolare a suo piacimento... così, tanto per capriccio...»
«Payne, sii ragionevole...»
«Io...»
«Così morirai...»
«Allora mia madre potrà guardarmi esalare l'ultimo respiro!» sibilò lei... poi, subito, mugolò di dolore. Sull'onda di
quello sfogo, la coscienza andava e veniva, la vista si appannava e poi tornava a fuoco; solo grazie all'espressione
scioccata di Wrath riusciva a capire se era svenuta oppure no.
«Un momento, Lei è...» Il re, accovacciato, si appoggiò con le
mani al pavimento di marmo per non perdere l'equilibrio. «Tua... madre?»
Payne non si curò che Wrath avesse scoperto la sua vera identità. Non era mai stata in alcun modo fiera di essere la
figlia della fondatrice della razza - anzi, non perdeva occasione per prenderne le distanze - ma ormai che importanza
aveva? Se rifiutava l'intervento "divino" sarebbe passata direttamente nel Fado. Il dolore che sentiva non lasciava
dubbi in proposito.
Wrath si voltò verso la Vergine Scriba. «È la verità?»
Non ottenne nessuna conferma, ma neppure una smentita. E nemmeno un castigo per aver osato offenderla con una
domanda.
Il re guardò di nuovo Payne. «Gesù... Cristo.»
Payne inspirò a fatica. «Lasciaci sole, Re caro. Torna nel tuo mondo a guidare la tua gente. Non hai alcun bisogno
dell'aiuto che può venirti da questa parte o da Lei. Sei una brava persona e un guerriero eccezionale...»
«Non ti lascerò morire», sbottò lui.
«Non hai scelta, non credi?»
«Col cavolo!» Wrath si alzò in piedi di scatto e la guardò truce. «Lascia che Lei ti guarisca! Sei impazzita, maledizione!
Non puoi morire così...»
«Eccome se... posso.» Payne chiuse gli occhi, travolta da un'ondata di spossatezza.
«Fai qualcosa!» gridò il re, ora chiaramente rivolto alla Vergine Scriba.
Peccato che stesse così male, pensò Payne, altrimenti si sarebbe goduta quella dichiarazione di indipendenza finale.
Era giunta sulle ali della morte, ma ce l'aveva fatta. Aveva tenuto testa a sua madre. Tramite quel rifiuto aveva
ottenuto la libertà.
La voce della Vergine Scriba era poco più che un sussurro. «Payne ha rifiutato il mio aiuto. Mi sta bloccando.»
Altro che. Non era arduo crederle: la furia contro sua madre era tale che fungeva da barriera contro qualunque magia
la Vergine Scriba tentasse di mettere in atto per rimediare alla "tragedia" appena compiutasi.
"Tragedia" che, in realtà, Payne vedeva più come una benedizione.
«Ma tu sei onnipotente!» La voce aspra del re suonava come un'accusa... il suo tono convulso era un tantino
sconcertante. Ma d'altronde, lui era un maschio di valore, senza dubbio pronto ad addossarsi la colpa. «Guariscila!»
Ci fu un silenzio seguito da una flebile risposta: «Non posso più toccare il suo corpo... proprio come non posso
toccarle il cuore.»
Se la Vergine Scriba stava finalmente imparando cosa significa essere impotenti, Payne poteva invero morire in pace.
«Payne! Payne, svegliati!»
Lei alzò le palpebre. Wrath era a un palmo dal suo viso.
«Se posso salvarti, me lo permetterai?»
Lei non riusciva a capire perché la considerasse tanto importante. «Lasciami...»
«Se posso, me lo lascerai fare?»
«Ma non puoi.»
«Rispondi a questa cazzo di domanda.»
Era una così brava persona, il fatto che la sua dipartita potesse pesare in eterno sulla coscienza del re era per lei
motivo di afflizione. «Mi dispiace... per questa cosa. Wrath. Mi dispiace. Non è opera tua.»
Wrath si voltò verso la Vergine Scriba. «Permettimi di salvarla. Permettimi di salvarla!»
A quella richiesta perentoria, il cappuccio della Vergine Scriba si alzò da solo; la sua forma, un tempo sfolgorante,
ora non era altro che una misera ombra.
L'aspetto e la voce erano quelli di una bellissima femmina in preda a uno strazio atroce. «Non volevo questo
destino.»
«Quante chiacchiere inutili. Vuoi permettermi di salvarla sì o no?»
La Vergine Scriba alzò gli occhi verso il cielo opaco sopra di lei e la lacrima che le sgorgò dagli occhi atterrò sul
pavimento di marmo come un diamante, rimbalzando con uno sfolgorio e un lampo.
Quell'oggetto incantevole sarebbe stata l'ultima cosa che avrebbe visto, pensò Payne con le palpebre sempre più
pesanti, tanto che non riusciva più a tenerle alzate.
«Per l'amor del cielo», tuonò Wrath. «Permettimi...»
La risposta della Vergine Scriba giunse da una distanza lontanissima. «Non posso più oppormi. Fa' ciò che credi,
Wrath, figlio di Wrath. Meglio saperla lontana da me, ma viva, che morta sul mio pavimento.»
Su tutto calò il silenzio.
Una porta si chiuse.
Poi la voce di Wrath: Ho bisogno di te di là, sulla Terra. Payne, svegliati, mi servi sulla Terra...
Strano. Le sembrava di sentirlo proprio dentro il cranio... ma più probabilmente si era di nuovo chinato sopra di lei e
stava parlando ad alta voce.
«Payne, svegliati. Ho bisogno che tu venga nel mio mondo.»
Con la mente confusa, lei fece per scuotere la testa... ma non le riuscì molto bene. Meglio restare ferma. Immobile.
«Non posso... non ce la faccio...»
Un'improvvisa vertigine le diede il capogiro, i piedi giravano vorticosamente intorno al corpo, la sua mente era
l'epicentro di quel vortice. La sensazione di venire risucchiata verso il basso era accompagnata da una pressione nelle
vene, come se il sangue si stesse espandendo, ma fosse confinato in quello spazio ristretto.
Quando aprì gli occhi, vide una luce bianca sopra di sé.
Allora non si era mossa. Era sempre stesa lì, dov'era sin dall'inizio, sotto il cielo lattiginoso dell'Altra Parte...
Payne si accigliò. No, quello non era lo strano firmamento sopra il santuario. Quello era un... soffitto?
Sì... lo riconobbe... e con la coda dell'occhio scorse dei muri... quattro muri azzurrini. C'erano anche delle luci, anche
se non ricordava di averle mai viste... non erano fiaccole o candele, ma cose che risplendevano senza fiamma.
Un camino. Un... imponente scrittoio e un trono.
Non era stata lei a spostarsi lì; non ne aveva la forza. E Wrath non poteva aver proiettato altrove la sua forma
corporea. C'era un'unica spiegazione. Era stata espulsa da sua madre.
Impossibile tornare indietro; aveva realizzato il suo desiderio. Era libera, per sempre.
Venne sopraffatta da uno strano senso di pace. Poteva essere la calma che prelude alla morte... oppure la
consapevolezza che la lotta era finita. Viva o morta, ciò che per anni l'aveva definita era acqua passata; sgravata da
quel fardello, si librò nuovamente in volo nel suo corpo paralizzato.
Il viso di Wrath entrò nel suo campo visivo; i lunghi capelli neri scivolarono giù dalle spalle, ricadendo in avanti. E in
quel mentre un cane dal manto biondo s'infilò sotto il grosso braccio del re; sul muso mansueto aveva un'espressione
interrogativa di benvenuto, quasi lei fosse un'ospite inattesa, ma molto gradita.
«Vado a chiamare la dottoressa Jane», disse Wrath, accarezzando il fianco del cane. «Chi?»
«Il mio medico personale. Tu resta qui.»
«Come se... potessi andare chissà dove.»
Si udì il tintinnio di un collare, poi il re uscì, la mano su un'imbracatura che lo collegava al bel cane; le zampe
dell'animale produssero una sorta di sommesso ticchettio quando, alla fine del tappeto, toccarono il legno del
pavimento.
Wrath era davvero cieco. E lì, sulla Terra, aveva bisogno degli occhi di qualcun altro per potersi muovere.
Una porta si chiuse, poi Payne non pensò ad altro che al dolore. Galleggiava, resa leggera dall'agonia del suo corpo...
eppure, malgrado l'incredibile sconcerto, si librava sulle ali di una strana serenità.
Senza un vero motivo, notò che l'aria, lì, aveva un buon profumo. Di limone. E cera d'api.
Proprio buono.
Chissà cosa la attendeva. Sarà quel che sarà, pensò. Il periodo che aveva trascorso lì, sulla Terra, era stato tanto tempo
prima e, da come tutto le appariva strano, in un mondo diverso. Però ricordava quanto le era piaciuto. Era tutto
imprevedibile e dunque affascinante...
Qualche tempo dopo la porta si aprì e lei sentì ancora una volta il tintinnio del collare del cane e l'odore intenso di
Wrath. Con loro c'era qualcuno... che Payne non riuscì a identificare. Ma nella stanza c'era un'altra entità, senza alcun
dubbio.
Payne si sforzò di aprire gli occhi... e quasi trasalì.
Accanto a lei non c'era Wrath, ma una femmina... o almeno così sembrava. Il volto era femminile... ma lineamenti e
capelli erano traslucidi e spettrali. Quando i loro sguardi si incontrarono, l'espressione della femmina passò
dall'ansioso allo scioccato. D'improvviso dovette aggrapparsi al braccio di Wrath.
«Oh... mio Dio...» esclamò, aspra.
«E così evidente, dottoressa?» disse il re.
La femmina faticava a parlare; non era certo il genere di reazione che si spera di suscitare in un medico. Payne era
convinta di sapere cos'aveva. Tuttavia, forse non aveva ben chiara la gravità delle sue condizioni.
«Sono...»
«Vishous.»
Nel sentire quel nome, Payne ebbe un tuffo al cuore.
Poiché non lo sentiva da oltre due secoli.
«Per quale motivo parli del mio caro estinto?» chiese con un filo di voce.
Il volto spettrale della dottoressa assunse una forma tangibile, gli occhi verde scuro esprimevano una profonda
confusione, il suo pallore era tipico di chi sta combattendo contro emozioni forti. «Il tuo caro estinto?»
«Il mio gemello... è trapassato nel Fado molto tempo fa.»
La dottoressa scosse la testa, aggrottando le sopracciglia sullo sguardo intelligente. «Vishous è vivo. Io sono sposata
con lui. E vivo e sta bene.»
«No... non può essere.» Payne avrebbe voluto afferrare il braccio della dottoressa. «Tu menti... lui è morto. Da molto
tem...»
«No. E vivo e vegeto.»
Payne non capiva. Lei sapeva che era morto, perduto tra le braccia misericordiose del Fado...
Era stata sua madre a dirglielo. Naturalmente.
L'aveva ingannata per impedirle di conoscere suo fratello? Come si poteva essere tanto crudeli?
D'un tratto Payne scoprì le zanne con un ringhio gutturale, il fuoco dell'ira soppiantò lo strazio. «La ucciderò per
questo. Le riserverò lo stesso trattamento che riservai a nostro padre, lo giuro.»
Capitolo 66
John si lanciò all'inseguimento di Xhex appena la vide staccarsi dal gruppo e iniziare a correre. Non gli piaceva
l'autonomia di pensiero né la direzione che aveva preso... stava puntando verso un vicolo in fondo al quale nessuno
sapeva se c'era un'uscita o un muro di mattoni.
La raggiunse, afferrandola per il braccio per ottenere la sua attenzione. Tutto inutile. Lei non si fermò.
Dove stai andando? cercò di chiederle, ma è difficile comunicare nella lingua dei segni con qualcuno che ti ignora
mentre corri come un fulmine...
Poteva fischiare, ma un fischio era ancora più facile da ignorare, così riprovò ad afferrarla per il braccio, ma lei lo
scrollò via, concentrata unicamente su una destinazione che lui non riusciva a vedere né a percepire. Alla fine le
balzò davanti, tagliandole la strada; poi la costrinse a guardargli le mani.
Dove diavolo stai andando?
«Lo sento... Lash. E vicino.»
John sfoderò il pugnale, sillabando, Dove?
Lei gli girò intorno rimettendosi a correre; John le andò dietro, imitato da Tohr. Quando anche gli altri fecero per
seguirli, John scosse la testa facendo segno di restare dov'erano. Sul campo, poter contare su un appoggio extra, è un
bene, ma in quella situazione troppe armi non erano un vantaggio: lui voleva far fuori Lash, e l'ultima cosa di cui
aveva bisogno erano altre dita pronte a premere il grilletto contro il suo bersaglio.
Tohr però lo capiva, sapeva per istinto perché John doveva vendicare la sua femmina. E Qhuinn doveva seguirlo per
forza. Ma, a parte loro due, nessun altro era il benvenuto alla festa.
John rimase alle calcagna di Xhex... che, quanto a vicoli, sembrava aver scelto bene. La viuzza sconnessa non era un vicolo cieco: proseguiva sulla destra, tra altri magazzini
abbandonati, in direzione del fiume. John capì che ormai erano molto vicini all'acqua quando sentì un forte odore di
alghe e pesci morti e l'aria parve raffreddarsi.
Trovarono la Mercedes AMG nera parcheggiata davanti a un idrante. La berlina puzzava di tesser, Xhex si guardò
intorno, quasi in cerca di direttive, ma John non era in vena di aspettare.
Con un pugno sfondò il parabrezza.
Mentre l'allarme ululava a tutto spiano, guardò dentro l'abitacolo. Sul volante c'era una specie di residuo oleoso e il
cuoio color panna era rovinato da una serie di macchie... quelle nere come l'inchiostro erano sangue di tesser, ne era
più che sicuro... mentre quelle color ruggine erano sangue umano. Gesù, il sedile posteriore era un macello: sembrava
che qualcuno lo avesse lasciato alla mercé di un gatto spastico, in alcuni punti i graffi erano così profondi che si
vedeva l'imbottitura.
John si accigliò, ricordando il periodo passato al centro di addestramento. Lash ci aveva sempre tenuto molto alle sue
cose, dai vestiti che indossava al modo in cui teneva in ordine l'armadietto dello spogliatoio.
Forse quella non era la sua auto.
«Questa è la sua macchina», disse Xhex, appoggiando le mani sul cofano. «Sento il suo odore dappertutto. Il motore è
ancora caldo. Però non so dove sia.»
John ringhiò al pensiero di Lash così vicino alla sua femmina che lei lo riconosceva al fiuto. Lurido bastardo figlio di
puttana...
Proprio quando la collera minacciava di fargli perdere il controllo, Tohr lo afferrò per la nuca, scuotendolo con forza.
«Fai un bel respiro.»
«Dev'essere qui intorno...» Xhex guardò l'edificio di fronte a loro, poi guardò a destra e a sinistra, nel vicolo.
Sentendo un bruciore alla mano sinistra, John alzò il braccio. Stringeva il pugnale talmente forte che il manico
strideva in segno di protesta.
Puntò gli occhi in quelli di Tohr.
«Lo prenderai», sussurrò il fratello. «Non preoccuparti.»
Lash quasi si aspettava che gli uomini di Benloise facessero qualche sciocchezza. Fronteggiava la coppia di gorilla,
separato da loro da una decina di metri di aria fredda, ed erano tutti sul chi va là.
Mentre li squadrava da capo a piedi, sperava che azzardassero un qualche numero alla John Wayne. I due malviventi
avrebbero rappresentato un ottimo acquisto per la sua sempre più folta scuderia. .. conoscevano il traffico di droga e,
sotto Benloise, si erano chiaramente guadagnati i galloni sul campo: c'erano parecchi chili di roba nelle valigette di
metallo che avevano in mano, ma gli umani erano calmi e imperturbabili.
Armati fino ai denti, anche.
Proprio come lui. Maledizione, con tutte quelle pistole e quelle munizioni sembrava di stare a una Fiera delle armi...
si sarebbe sentito molto meglio alla fine della sua metamorfosi, quando i proiettili non gli avrebbero più fatto né
caldo né freddo. Essere un'ombra è meglio che essere in carne e ossa, sempre e comunque.
«Ecco i quadri», disse il tizio sulla sinistra, sollevando le valigette. «Signore.»
Ah, sì, era quello che aveva assistito alla scena in cui aveva minacciato Benloise col coltello alla gola. Ecco spiegato
perché erano tutti e due così gentili.
«Vediamo cosa mi avete portato», mormorò Lash, tenendoli sotto tiro con la sua calibro quaranta. «E tenete le mani
bene in vista.»
I due aprirono in simultanea le valigette per mostrargli il contenuto.
Lash annuì, soddisfatto. «Lasciate qui la merce. Andate.»
Gli umani ubbidirono prontamente; misero giù la droga, indietreggiarono, poi a passo svelto si avviarono nella
direzione opposta, tenendo le mani lungo i fianchi.
Appena svoltarono l'angolo, mentre i loro passi ancora riecheggiavano in lontananza, Lash si avvicinò alle
ventiquattrore e aprì i palmi ridotti a due ombre. A un suo comando i manici si alzarono e i due carichi di coca
levitarono dall'asfalto fin dentro le sue mani...
II suono stridulo dell'allarme di un'automobile gli fece voltare la testa; proveniva dal vicolo dove aveva lasciato la
AMG.
Maledetti umani, pezzi di merda...
Lash si accigliò, rizzando le antenne; il suo istinto individuò ciò che gli era stato portato via.
Lei era lì.
Xhex... la sua Xhex era lì.
Ciò che restava della sua natura di vampiro si ridestò, reclamando a gran voce ciò che reputava una sua proprietà;
Lash si ritrovò a vibrare, finché i suoi piedi non furono liberati dal loro fardello e lui cominciò a muoversi sull'asfalto
sulle ali del vento, sfruttando lo slancio che aveva creato con la mente, invece che con le gambe. Veloce, sempre più
veloce...
Svoltò l'angolo ed eccola lì, ritta vicino alla sua macchina, sexy da morire, in giubbotto e calzoni di pelle. Subito si
voltò verso di lui, come in risposta a un richiamo.
Anche in penombra, Xhex era sfolgorante, l'illuminazione cittadina si focalizzava su di lei come richiesto dal suo
carisma innato. Per la miseria. Era proprio uno schianto, specie in tenuta da combattimento; sentendo fremere lo
spazio vuoto che aveva al posto dell'inguine, Lash abbassò le mani.
C'era qualcosa di duro. Dietro la patta c'era qualcosa... ed era pronto per lei.
Con una scarica di adrenalina migliore di qualsiasi coca, immaginò quanto sarebbe stato divertente possederla in
pubblico. Il suo uccello era tornato, in una forma o in un'altra, il che significava che anche lui era tornato in gioco...
appena in tempo.
Quando Xhex lo guardò negli occhi, Lash rallentò, concentrandosi su chi l'accompagnava. Il fratello Tohrment.
Qhuinn, quell'errore genetico con gli occhi spaiati. E John Matthew.
La platea ideale per una scena in stile Arancia Meccanica.
Favoloso, cazzo.
Lash si chinò a posare le valigette sull'asfalto. Quegli idioti lì con lei erano tutti indaffarati a estrarre vari tipi di armi
da fuoco... ma non la sua Xhex. No, lei era più forte.
«Ehi, piccola», disse. «Ti sono mancato?»
Qualcuno emise un ringhio che gli ricordò il suo rottweiler, ma cosa importava? ora che aveva l'attenzione di tutti
avrebbe approfittato della teatralità del momento. Con la forza del pensiero abbassò il cappuccio dell'impermeabile e
con le mani ormai ridotte a ombre incorporee srotolò le strisce di tessuto nero che gli coprivano il volto.
«Cristo santo...» farfugliò Qhuinn. «Sembri un test di Ror-schach.»
Lash non lo degnò di una risposta, soprattutto perché l'unica di cui gli importava qualcosa era la femmina vestita di
cuoio. Ovviamente lei non si aspettava quella trasformazione. E il modo in cui trasalì? Meglio di un bacio o di un
abbraccio. Disgustarla era piacevole quanto eccitarla... e sarebbe stato ancora più divertente, una volta che se la fosse
ripresa per chiudersi da qualche parte insieme a lei per una bella luna di miele.
Lash sorrise e parlò nella sua nuova voce, migliorata. «Ho tanti di quei progetti per noi due, troia. Naturalmente
dovrai supplicarmi...»
Quella cazzo di femmina sparì.
Nel nulla.
Un momento era lì, accanto alla sua macchina, e un momento dopo al suo posto c'era solo aria. La troia era ancora nel
vicolo, però. La sentiva, anche se non riusciva a vederla...
Il primo sparo arrivò da dietro e lo colpì alla spalla... o meglio non lo colpì. Nell'impermeabile si aprì un buco, ma la
non-carne sottostante non poteva fregarsene di meno... e lui sentì solo la strana eco di una fitta.
Beeeeene. Quel colpo avrebbe potuto fargli davvero male.
Lash voltò la testa, francamente deluso dalla prevedibilità di Xhex e dalla sua pessima mira.
Solo che non era stata lei a fare fuoco. I tirapiedi di Benloise erano spuntati con tanto di rinforzi, e meno male che
sparavano da cani. L'ultima volta che aveva controllato, il suo petto era ancora solido: qualche centimetro più in giù, e
più al centro, e al posto del cuore adesso avrebbe avuto un setaccio.
La rabbia per il sangue freddo di quei fottuti spacciatori lo spinse a formare nel palmo della mano una palla di
energia per la serie "adesso basta stronzi avete chiuso".
S'infilò lesto dentro un androne e scagliò la forza contro gli umani come una palla da bowling; un'esplosione
spettacolare investì quei bastardi, scaraventandoli ai lati del vicolo come tanti birilli e illuminandoli in stile manga.
A quel punto erano sopraggiunti altri fratelli e un po' tutti avevano cominciato a sparare all'impazzata... niente di
che, finché Lash non si beccò una pallottola nel fianco; il dolore lancinante gli trafisse il torace, facendogli rimbalzare
il cuore nel petto. Con un'imprecazione, Lash cadde su un fianco spostando gli occhi sul vicolo.
John Matthew era l'unico rimasto allo scoperto: la squadra dei fratelli aveva cercato riparo dietro la Mercedes, mentre
gli scagnozzi di Benloise si erano trascinati dietro la carcassa arrugginita di una jeep.
John Matthew, invece, se ne stava lì impalato, coi piedi ben piantati per terra e le mani lungo i fianchi.
Quel coglione era un bersaglio coi fiocchi. Centrarlo era quasi una noia.
Lash formò nel palmo un'altra palla di energia gridando, «Così morirai. Garantito come se ti puntassi una pistola alla
tempia, razza di stronzo figlio di puttana.»
John cominciò ad avanzare, scoprendo le zanne, preceduto da una folata gelida.
Per un attimo Lash sentì un formicolio alla nuca, dovuto alla tensione. Assurdo; qualcosa non quadrava. Nessuno
sano di mente gli sarebbe andato incontro così.
Era un suicidio.
Capitolo 67
Piani, piani, piani...
O, in altre parole, cazzate, cazzate, cazzate...
Quando si era dissimulata alla maniera dei symphath, sparendo nel nulla, Xhex aveva un piano perfetto. Nella sua
veste di killer era sempre andata fiera non solo della sua percentuale di successi, ma del fiuto che la guidava nel suo
mestiere, e quella vendetta sarebbe andata a buon fine. Il suo "piano" era di avvicinarsi, non vista, a Lash e tagliargli
la gola, prima di lavorarselo per benino... guardandolo negli occhi e sorridendo, da quella pazza che era.
Primo problemino: cosa cazzo gli era successo dall'ultima volta che l'aveva visto? Quando si era sbendato la testa era
rimasta esterrefatta. La faccia, tutta scarnificata, era un ammasso raccapricciante di ossa e fibre muscolari striate di
nero; i denti, di un bianco accecante, per contrasto sembravano fluorescenti. Neanche le mani erano normali.
Avevano una forma, ma nessuna sostanza. Nelle tenebre della notte... erano solo un'ombra più scura delle altre.
Grazie a Dio era riusciva a sfuggirgli in tempo, anche se forse tutto quel decomporsi era proprio il motivo per cui era
riuscita a evadere dalla sua prigione: sembrava logico supporre che anche i poteri di quel bastardo si stessero
indebolendo.
Vabbè, ad ogni modo... il suo secondo problema, sul terreno dei "piani" era John. Che proprio in quel momento era
fermo in mezzo al vicolo; gli mancava solo un cartello attaccato al petto con scritto SPARAMI QUI.
Impossibile farlo ragionare, questo era più che evidente... se anche avesse ripreso forma vicino al suo orecchio
gridandogli nel cervello, sapeva che non c'era modo di dissuaderlo. Lì, di fronte al nemico, era puro istinto animale,
le zanne scoperte come quelle di
un leone, il corpo proteso in avanti, pronto a sferrargli una mazzata.
Se non si metteva al riparo sarebbe morto, c'era da scommetterci, ma lui sembrava infischiarsene, e il perché era
chiaro: l'odore di vampiro innamorato era più potente di qualunque ringhio; quell'aroma speziato era come un
ruggito che sovrastava ogni altro odore, dal tanfo della città ai miasmi del fiume, al lezzo di tesser che si levava dal
corpo putrescente di Lash.
Lì, ritto in quel vicolo squallido, John era il maschio primordiale che protegge la sua femmina... e tutto ciò che,
proprio per quel motivo, lei aveva sperato di evitare in quella situazione: chiaramente non era interessato alla sua
sicurezza personale, il suo obiettivo prevaleva sul buon senso e sull'addestramento specifico.
Morale della favola? Non sarebbe sopravvissuto alla palla di energia che Lash stava per scagliargli addosso... e quel
dato di fatto cambiava tutto, nel mondo di Xhex.
Nuovo piano. Addio copertura alla symphath. Addio torture e smembramenti. Addio rappresaglia sanguinosa per il
supplizio che aveva patito, addio numero alla Jack lo Squartatore.
Quando riprese forma avventandosi contro Lash, il suo obiettivo era salvare John, non vendicarsi. Perché, alla fine
della fiera, John era l'unica cosa che le importava.
Placcò Lash alla vita nell'istante in cui stava per lanciare la sua palla da KO; pur trascinato a terra con lei, lui riuscì a
correggere il tiro... e colpì John in pieno petto.
L'impatto lo sollevò dal marciapiede, proiettandolo in alto e all'indietro, levandogli quasi gli stivali.
«Bastardo schifoso!» gridò Xhex sulla faccia spolpata di Lash.
Quel figlio di puttana fece scattare le braccia in avanti, agguantandola con una forza incredibile; mentre la voltava,
immobilizzandola sotto di sé sul marciapiede, Xhex sentì in faccia il suo fiato rovente e fetido.
«Beccata», ghignò lui, strusciando l'inguine contro il suo; sentire l'erezione bastò a darle la nausea.
«Vaffanculo!» Con mossa fulminea, Xhex lo centrò sul... be', su quello che passava per un naso, con una craniata che
gli strappò un ululato.
Purtroppo non riuscì a sferrargli altri colpi così diretti, mentre lottavano per il controllo, rotolando per terra in un
intrico di gambe e con quell'orribile erezione premuta contro di lei. Lash l'afferrò per il polso, ma almeno lei riuscì a
tenere l'altro fuori della sua portata.
Così, al momento giusto, infilò la mano in mezzo ai loro corpi avvinghiati, afferrandogli i testicoli e torcendoli con
una forza tale che, se non fosse stato per i pantaloni, glieli avrebbe strappati via di netto.
Lash sibilò un'imprecazione e si irrigidì, a conferma del fatto che nel regno delle tenebre poteva pure essere un
semidio, ma quando lo colpivano nei gioielli di famiglia era decisamente mortale.
Prendendo il sopravvento, Xhex lo rovesciò sulla schiena e gli montò sopra a cavalcioni. «Adesso sono io che ti ho
beccato», gridò.
Mentre lo teneva giù, fu sopraffatta dalla rabbia... invece di pugnalarlo subito, lo afferrò per il collo, stringendolo fin
quasi a soffocarlo.
«Nessuno può fottere quello che è mio», gli ringhiò in faccia.
Un furore selvaggio si dipinse sul volto orrendo di Lash e, in qualche modo, la voce riuscì a filtrare attraverso la
morsa in cui lei gli stringeva la laringe. «Il tuo bello è già stato fottuto alla grande. O non ti ha detto di quell'umano
che...»
Xhex gli mollò un ceffone talmente violento da staccargli un dente. «Non azzardarti a toccare quel tasto...»
«Io tocco quello che cazzo mi pare, dolcezza.»
Detto ciò svanì, dissolvendosi nel nulla... ma non per molto. Un attimo dopo, Xhex venne afferrata da dietro e tirata
con forza contro di lui. Nei secondi sospesi che seguirono, notò vagamente gli umani che gemevano sull'asfalto, poi
Lash la fece voltare per usarla come scudo contro i fratelli.
Xhex non perse tempo a controllare le posizioni di ogni componente della sua squadra dietro la Mercedes, o a
valutare quali armi erano puntate contro lei e Lash.
John era l'unica cosa che contava.
E grazie a Dio, alla Vergine Scriba, o a chiunque era in grado di fare miracoli, lui si stava rizzando a sedere,
scrollandosi di dosso il misterioso incubo stroboscopico che lo aveva mandato a gambe all'aria.
Almeno era vivo.
Probabilmente lei non sarebbe sopravvissuta, ma John... ce l'avrebbe fatta. Sempre che riuscisse a levarsi di mezzo
insieme a Lash.
«Prendimi», sibilò a quel bastardo. «Prendi me e lascia stare loro.»
Sentì un sussurro di metallo contro metallo, poi un coltello a serramanico le comparve davanti al viso, la lama che
scintillava accanto all'occhio, così vicina che riusciva a leggere il nome del produttore.
«Ti piace andare molto sul personale con quelli che fai fuori.» La voce di Lash suonava stranissima, distorta, al punto
che le parole le riecheggiavano nelle orecchie. «Lo so per via di quello che hai fatto a quel fesso di Grady. Gli hai
servito un'ultima cena da leccarsi i baffi... chissà se da vivo la salsiccia gli piaceva quanto da morto.»
La punta del coltello si abbassò, uscendo dal campo visivo di Xhex... che poi la sentì penetrare nello zigomo e
scendere, lentamente.
La brezza era fredda. Il suo sangue era caldo.
Chiudendo gli occhi, riuscì solo a ripetere, «Prendi me.»
«Oh, lo farò. Non preoccuparti.» Xhex sentì qualcosa di bagnato sulla ferita... la lingua di Lash che leccava il sangue
sgorgato. «Ha sempre lo stesso buon sapore...» gridò lui. «Fermi dove siete! Un altro passo avanti e la faccio a fette.»
Spostò la lama contro la gola di Xhex e cominciò a indietreggiare, trascinandola con sé. D'istinto, lei tentò di
insinuarsi nella sua testa, sperando di influenzarlo col suo lato symphath, ma si ritrovò bloccata come davanti a un
muro di pietra. C'era da immaginarselo.
D'un tratto, si chiese come mai Lash non ricorresse al solito trucchetto di sparire nel nulla insieme a lei...
Zoppicava. Si era beccato una pallottola da qualche parte... e adesso che era concentrata al massimo sentiva l'odore
del suo sangue, e lo vedeva brillare sul marciapiede.
Mentre Lash continuava a indietreggiare, quei patetici umani tornarono in vista; sembravano cadaveri, pallidi e rigidi
al punto che Xhex si stupì che potessero fare rumore. La loro auto, pensò. Lash avrebbe tentato di salire insieme a lei
sulla macchina che li aveva portati lì. Era ferito e debilitato, ma la stretta con cui la tratteneva era saldissima, e il
coltello era pronto a colpire.
Xhex guardò John; avrebbe ricordato per sempre il magnifico spettacolo della sua vendetta di guerriero, ne era certa...
Nel sondare le sue emozioni si accigliò. Che... strano. L'ombra che aveva sempre percepito a ridosso della sua griglia
non era più in secondo piano, come una figura marginale... era tangibile e vivida come quello che era sempre stato
l'elemento primario all'interno della sua psiche.
In effetti, quando John guardò in fondo al vicolo, le due parti di lui... divennero una sola.
Dopo essere stato colpito da quella bomba di energia, John era stordito e disorientato, ma si sforzò di far rientrare in
gioco il cervello e in qualche modo riuscì a rialzarsi da terra. Non sentiva più una buona metà del suo corpo, mentre
quella che non aveva perso sensibilità urlava di dolore, ma lui non si curava né dell'una né dell'altra, animato
com'era da una determinazione letale che aveva preso il posto del battito cardiaco come motore della sua forma fisica.
Puntò gli occhi sulla scena davanti a sé, stringendo i pugni e contraendo le spalle. Lash stava usando Xhex come
scudo vivente,
nascondendo dietro di lei tutti i bersagli migliori, mentre la trascinava via.
Il coltello puntato alla gola era proprio sulla sua giugulare. Premuto contro la pelle...
D'un tratto la realtà subì una sorta di deformazione, distorcendosi, la vista gli si appannò e poi tornò chiara, poi di
nuovo perse la presa sul vicolo in cui si trovavano. Battendo frenetico le palpebre, John maledisse i trucchetti che
Lash aveva a sua disposizione...
Ma il problema non era la palla di energia che lo aveva colpito. Era qualcosa dentro di lui... una visione. Una visione
stava emergendo dai meandri della sua mente, spazzando via quello che vedeva nella realtà...
Un campo vicino a una stalla. Nel cuore della notte.
John scosse la testa, sollevato nel vedere di nuovo il vicolo di Caldwell...
Un campo vicino a una stalla. Nel cuore della notte... una femmina che per lui era importante, stretta in una morsa
d'acciaio, con un coltello alla gola.
Poi tornò bruscamente al presente, lì, nel quartiere dei magazzini... dove una femmina molto importante per lui era
stretta in una morsa brutale, con un coltello alla gola.
Oh, Dio... gli sembrava di aver già vissuto quella scena.
'Fanculo... l'aveva già vissuta.
La crisi epilettica lo colpì come sempre, mandandogli in tilt i neuroni e facendolo volare da fermo.
Di solito finiva per terra, ma il vampiro innamorato in lui lo tenne ritto in piedi, infondendogli una forza che veniva
dall'anima, invece che dal corpo: la sua femmina era nelle grinfie di un assassino e ogni cellula del corpo di John
voleva rettificare la situazione nel modo più violento e rapido possibile.
O forse in modo ancora più sanguinoso e veloce.
Infilò la mano dentro al giubbotto per impugnare la pistola... ma, merda, a cosa poteva sparare? Lash aveva messo al
riparo gli organi vitali e la sua testa grottesca era così vicina a quella di Xhex che non c'era spazio per il minimo
errore.
Dentro di sé, John sentì urlare la sua furia...
Con la coda dell'occhio vide alzarsi la canna di una pistola.
Battito di ciglia.
Un campo vicino a una stalla. Nel cuore della notte... una femmina che per lui era importante, stretta in una morsa
d'acciaio, con un coltello alla gola. Una pistola puntata...
Battito di ciglia.
Era di nuovo lì a Caldwell, l'amore della sua vita nelle grinfie del suo nemico.
Battito di ciglia.
Una pistola che faceva fuoco...
Lo sparo, vicinissimo al suo orecchio, per lo shock lo riportò saldamente alla realtà; con un grido muto, John si lanciò
in avanti come se potesse afferrare il proiettile.
No! gridò senza emettere alcun suono. Noooo...
Ma fu un colpo perfetto. La pallottola centrò Lash alla tempia... a pochi centimetri dalla testa di Xhex.
Al rallentatore, John si guardò alle spalle. Col braccio teso davanti a sé, Tohrment stringeva saldamente la calibro
quaranta nell'aria gelida.
Per qualche motivo, né chi aveva sparato né la precisione della mira erano una sorpresa, anche se di colpi così ne
riesce uno su un milione, ringraziando il cielo.
Oh, Dio, lo avevano già vissuto, vero? Proprio... nello stesso identico modo.
Il tempo reale tornò a posto in un lampo e John voltò di nuovo la testa. In fondo al vicolo, Xhex fu fantastica. Appena
vide barcollare Lash, si accovacciò per offrire a Tohrment un bersaglio più grosso e, quando il secondo proiettile
partì, lei era quasi completamente fuori dalla sua traiettoria.
L'impatto numero due fece volare Lash fuori dai suoi preziosi mocassini, facendolo atterrare lungo disteso sulla
schiena.
Scrollandosi di dosso i resti della vertigine di poco prima, John si precipitò verso la sua femmina, divorando la
distanza che li separava, le gambe che pompavano a tutta forza.
Il suo unico pensiero era salvare Xhex, dunque sfoderò l'arma necessaria a compiere l'impresa: il pugnale nero con la
lama lunga quindici centimetri che teneva nel fodero agganciato al petto. Giunto davanti al bersaglio, sollevò il
braccio sopra la testa, pronto a pugnalare il suo nemico rispedendolo dall'...
L'odore del sangue di Xhex cambiò tutto, deviando il fendente.
Oh, Gesù... Quel fottuto bastardo aveva due coltelli. Quello che le teneva puntato alla gola e un altro, che l'aveva
trafitta allo stomaco.
Xhex rotolò sulla schiena, tenendosi il fianco con una smorfia.
Mentre Lash si contorceva, stringendosi la testa e il petto, Tohr accorse con Qhuinn, Blay e gli altri fratelli; tutte le
pistole erano puntate contro il nemico, quindi John non doveva preoccuparsi di proteggersi, mentre valutava i danni.
Si chinò sopra Xhex.
«Sto bene», ansimò lei. «Sto bene... sto bene...»
Col cavolo. Respirava a fatica e la mano che teneva sulla ferita era coperta di sangue fresco.
John cominciò a muovere le mani, frenetico. Chiamo la dottoressa
Jane...
«No!» gridò Xhex, afferrandogli il braccio con la mano insanguinata. «Adesso mi interessa una sola cosa.»
Vedendola puntare gli occhi su Lash, John sentì il cuore battere all'impazzata.
«Butch e V stanno arrivando qui dall'Xtreme Park con la Escalade... porca puttana... abbiamo compagnia.»
John si voltò a guardare. Quattro lesser erano comparsi all'imbocco del vicolo, a riprova del fatto che l'indirizzo sui
documenti di immatricolazione della Civic era giusto, anche se il loro tempismo non poteva essere più sbagliato.
«Ci pensiamo noi», sibilò Z, tornando indietro di corsa insieme al resto del gruppo per fronteggiare i nuovi arrivati.
Una risata attirò l'attenzione di John. Lash sogghignava, l'anatomia terrificante del suo volto si allargò in un sorriso
folle.
«Me la sono scopata, caro il mio John... me la sono scopata di brutto e lei se l'è goduta.»
John fu assalito da una rabbia cieca, il maschio innamorato in lui urlava, il pugnale che aveva in mano si alzò di
nuovo.
«Mi supplicava, John...» Lash respirava a fatica, ma aveva un'aria soddisfatta. «La prossima volta che fai l'amore con
lei... ricordati che l'ho...»
«Non l'ho mai voluto!» sibilò disgustata Xhex. «Mai!»
«Brutta porca», ghignò beffardo Lash. «Questo eri e questo sei rimasta. Porca e mia...»
A un tratto tutto rallentò per John. Tutto. Da come loro tre erano vicini a come il vento soffiava nel vicolo, allo
scontro che si era scatenato a un centinaio di metri di distanza, vicino alla Mercedes.
Gli tornò in mente lo stupro che aveva subito tanto tempo prima, su quella rampa di scale. Si figurò Xhex sottoposta a
una umiliazione e una degradazione simili. Rammentò ciò che Z aveva detto di aver passato. Ricordò ciò che aveva
patito Tohr.
E in mezzo a quei ricordi sentì l'eco di qualcosa di lontano, molto lontano nel tempo, qualcosa legato a un altro
rapimento, a un'altra femmina vittima di abusi, un'altra vita rovinata.
Il volto orripilante di Lash e il suo corpo decrepito, in via di disfacimento, divennero l'incarnazione di tutto ciò: una
rappresentazione tangibile, putrescente, marcescente, di tutto il male del mondo, di tutto il dolore procurato di
proposito, di tutta la crudeltà, il degrado morale e la gioia scellerata.
Di tutte le nefandezze consumate in un attimo, le cui ripercussioni però durano una vita intera.
«Me la sono scopata, caro il mio John...»
John calò con forza il braccio col pugnale, tracciando un arco che fendette l'aria.
All'ultimo istante ruotò il polso, in modo da colpire Lash col manico in pieno viso. Il vampiro innamorato in lui
voleva fargli quello che aveva fatto a quel lesser nella casa di arenaria... infierire su di lui fino alla completa
eviscerazione.
Solo che poi avrebbe mancato la giustizia divina che in così pochi riescono a ottenere. Il torto che aveva subito lui
non era mai stato riparato... quel pezzo di merda umano che lo aveva violentato l'aveva fatta franca. E il torto subito
da Tohr non avrebbe mai potuto essere riparato, perché Wellsie non sarebbe mai tornata.
Z però aveva chiuso la sua partita, aveva ottenuto soddisfazione.
E, perdio, l'avrebbe ottenuta anche la sua Xhex... fosse l'ultima cosa che faceva a questo mondo.
Con le lacrime agli occhi, prese una delle mani insanguinate di Xhex... e la spalancò.
Capovolse il pugnale e le mise il manico nel palmo. Vide un lampo nei suoi occhi mentre le chiudeva le dita
sull'arma e si spostava per aiutarla a sollevarsi e a portarsi a tiro.
Il petto di Lash andava su e giù, la sua gola scarnificata si contraeva a ogni inspirazione ed espirazione. Quando intuì
cosa stava per succedergli, sgranò nelle orbite gli occhi senza palpebre e scoprì i denti nella bocca priva di labbra, un
sorriso degno di un film dell'orrore.
Tentò di dire qualcosa, ma non ci riuscì.
E fu un bene. Aveva già detto anche troppo, fatto anche troppo, nuociuto anche troppo.
Era giunta l'ora della resa dei conti.
John sentì che Xhex, tra le sue braccia, raccoglieva le forze; la guardò togliere anche l'altra mano dalla ferita per
impugnare meglio l'arma. Con lo sguardo che ardeva d'odio, in uno slancio improvviso alzò le braccia in un arco
sopra lo sterno di Lash.
Quel bastardo sapeva cosa lo aspettava, però, e parò il colpo coprendosi il petto.
Oh, diamine, no. John scattò in avanti e lo afferrò per entrambi i bicipiti, lo stese a terra, esponendo la superficie che
Xhex doveva colpire, dandole così la possibilità di prendere la mira con cura.
Lei lo guardò negli occhi; erano lucidi, velati di un rosso rivelatore, le lacrime facevano brillare le iridi: tutto il dolore
che aveva portato nel cuore era in mostra, come la mostruosità di Lash, tutto il fardello sopra e dentro di lei manifesto
in quello sguardo.
John le rivolse un cenno di assenso e il suo pugnale, stretto nelle mani di lei, calò con forza, colpendo Lash dritto al
cuore...
L'urlo del Male riecheggiò tra gli edifici, rimbalzando avanti e indietro, aumentando di volume fino a diventare il
grande Popi accompagnato da un vivido lampo luminoso.
Che rispedì Lash dal suo empio genitore.
Quando lo schiocco e la luce si smorzarono, rimase solo un leggero cerchio bruciacchiato sull'asfalto e un lezzo di
zucchero bruciato.
Le spalle di Xhex si afflosciarono e la lama del pugnale stridette contro il marciapiede, mentre lei cadeva in avanti,
ormai priva di energie. John l'afferrò prima che toccasse terra e lei lo guardò; le lacrime si mescolavano al sangue, sul
suo viso, scorrendo lungo il collo, sopra il palpito che era la sua forza vitale.
John la tenne stretta a sé; la sua testa gli arrivava giusto sotto il mento.
«E morto», singhiozzò lei. «Oh, Dio, John... è morto.»
Avendo le mani occupate, lui potè solo annuire per farle capire che era d'accordo.
Fine di un'epoca, pensò, guardando Blay e Qhuinn impegnati a combattere fianco a fianco con Zsadist e Tohrment
contro i lesser sopraggiunti all'improvviso.
Dio, aveva una stranissima sensazione di continuità. Lui e Xhex si erano brevemente sottratti alla guerra,
concedendosi quella tregua momentanea ai margini del conflitto. Ma la lotta, nei tenebrosi vicoli di Caldwell,
sarebbe continuata senza...
Di lei.
John chiuse gli occhi, affondando il viso nei ricci di Xhex.
Era quello il finale di partita che lei aveva sognato, pensò. Prendere Lash... e poi prendere congedo dalla vita.
Adesso il suo sogno si stava realizzando.
«Grazie», la sentì dire, brusca. «Grazie...»
Contro l'ondata di tristezza che minacciava di travolgerlo, John si rese conto che quella parola era meglio di ti amo. In
realtà, per lui significava molto più di qualunque altra cosa potesse dirgli.
Le aveva dato ciò che voleva. Quando contava veramente, non l'aveva tradita.
E adesso l'avrebbe tenuta stretta mentre il suo corpo diventava sempre più freddo e lei scivolava via dal mondo in cui
lui sarebbe rimasto.
La separazione sarebbe durata più dei giorni che avevano condiviso.
Afferrò il suo palmo sporco di sangue, lo appiattì di nuovo e poi, con la mano libera, sulla sua pelle scrisse, con gesti
lenti e precisi nella lingua dei segni:
T. I. A. M. E. R. Ò. X. S. E. M. P. R E.
Capitolo 68
La morte è sporca, dolorosa e largamente prevedibile... salvo quando non le va di comportarsi bene e decide di
esercitare il suo bizzarro senso dell'umorismo.
Un'ora dopo, quando socchiuse gli occhi, Xhex si rese conto di non essere nelle nebulose pieghe dei Fado... ma nella
clinica della confraternita.
Le stavano sfilando un tubo dalla gola, il fianco le faceva male come se ci avessero conficcato una lancia arrugginita e
da qualche parte, sulla sinistra, qualcuno si stava levando i guanti di lattice.
La voce della dottoressa Jane era bassa. «È andata in arresto due volte, John. Le ho fermato l'emorragia all'intestino...
ma non so...»
«Credo che sia sveglia», disse Ehlena. «Stai tornando tra noi, Xhex?»
Be', a quanto pareva, sì. Stava da schifo e, dopo aver squarciato una grande varietà di stomaci nel corso degli anni,
non riusciva a credere che il suo cuore battesse ancora... però sì, era viva.
Appesa a un filo, ma viva.
Il volto cadaverico di John entrò nella sua visuale; in contrasto col colorito malsano, i suoi occhi azzurri erano
infuocati.
Xhex aprì la bocca... ma tutto ciò che ne uscì fu l'aria nei suoi polmoni. Non aveva la forza di parlare.
Scusa, sillabò.
Lui si accigliò. Scuotendo la testa, le prese la mano e la accarezzò...
Doveva essere svenuta, perché quando si svegliò, John camminava al suo fianco. Ma cosa cavolo... ah, la stavano
trasferendo nell'altra stanza... perché stavano portando dentro qualcun altro...
qualcuno legato a una lettiga. Una femmina, a giudicare dalla lunga treccia nera che penzolava giù di lato.
Le venne in mente la parola pain, dolore (2).
«C'è dolore», mormorò Xhex.
John voltò la testa. Come? sillabò.
«Laggiù... c'è dolore.»
Svenne di nuovo... rinvenne e succhiò il sangue dal polso di John. Poi svenne un'altra volta.
In sogno vide squarci della sua vita lontanissimi nel tempo, risalenti a un'epoca di cui non conservava ricordi
consapevoli. Le immagini scorrevano come in quei film proiettati in volo, sugli aerei, e la trama, drammatica, era
alquanto deprimente. C'erano troppi crocevia dove le cose avrebbero dovuto andare diversamente, dove il destino era
stato più un fastidio che un dono. Il destino è come lo scorrere del tempo, tuttavia, immutabile, inesorabile e
indifferente all'opinione personale degli esseri viventi.
Eppure... mentre la sua mente si agitava sotto il peso schiacciante e la superficie immobile del corpo privo di
conoscenza, Xhex ebbe la sensazione che tutto si era risolto come previsto, che il sentiero su cui si era ritrovata l'aveva
condotta proprio dove doveva andare: da John.
L'aveva riportava da John.
Anche se non aveva senso.
In fin dei conti lo conosceva solo da un anno o poco più, il che non giustificava certo la storia lunghissima che
sembrava unirli.
Ma forse, invece, un senso ce l'aveva. Quando sei sotto morfina, privo di conoscenza, in bilico sull'orlo del Fado... le
cose ti appaiono in modo diverso. E la percezione del tempo cambia, come pure le priorità.
Al di là della porta della sala post-operatoria dove era stata trasferita Xhex, Payne batté convulsamente le palpebre,
cercando di capire dove l'avevano portata. Non c'era nulla in grado di illuminarla, tuttavia. Le pareti della stanza
erano rivestite di piastrelle verdino pallido e c'era un'abbondanza di armadietti e apparecchiature scintillanti. Ma
non aveva la minima idea di cosa significasse tutto ciò.
Per lo meno il trasporto era stato lento, attento e relativamente confortevole. D'altro canto le avevano messo qualcosa
nelle vene per calmarla e alleviare il dolore... una pozione misteriosa per la quale, invero, era grata.
Lo spettro del suo caro defunto, in realtà, la turbava più del malessere fisico e del dilemma circa un suo possibile
futuro lì, sulla
(2) L'inglese pain, "dolore", ha lo stesso suono di Payne.
Terra. La dottoressa aveva davvero fatto il nome del suo gemello? O era un parto della sua mente confusa e
sconvolta?
Lo ignorava. Ma le premeva scoprirlo.
Con la coda dell'occhio vide che in molti erano pronti ad accoglierla, compresa la dottoressa e il Re cieco. C'era anche
una femmina bionda con un volto leggiadro... e un guerriero bruno che gli altri chiamavano Tohrment.
Esausta, Payne chiuse gli occhi; a poco a poco il brusio in sottofondo le conciliò il sonno. Non sapeva per quanto
avesse dormito... ma ciò che la ridestò fu l'improvvisa consapevolezza di un nuovo arrivo in quello spazio silenzioso.
Si trattava di qualcuno che lei conosceva molto bene, e la sua comparsa fu per lei fonte di grande sconcerto, più
ancora dell'allontanamento da sua madre.
Appena aprì gli occhi, No'One le si avvicinò, zoppicando sul pavimento liscio, il volto celato dal cappuccio. Il Re
cieco incombeva minaccioso alle sue spalle a braccia conserte, affiancato dal Del cane biondo e dalla bella regina
bruna.
«Cosa... sei qui?» chiese Payne con voce roca; non riusciva a esprimere con chiarezza ciò che aveva in testa.
L'Eletta appariva molto nervosa, sebbene Payne non sapesse da dove le derivasse tale certezza. Era qualcosa che si
avvertiva, ma non si vedeva, dato che la veste nera copriva No'One da capo a piedi.
«Prendi la mia mano», disse Payne. «Lascia che ti rechi conforto.»
No'One scosse la testa sotto il cappuccio. «Sono io che vengo a recarti conforto.» Payne si accigliò e l'Eletta si voltò
verso Wrath. «Il re mi ha concesso di restare in questa casa per servirti come cameriera.»
Payne deglutì, ma la bocca secca non procurava sollievo alla gola riarsa. «Non servire me. Resta qui... ma servi te
stessa.»
«In verità... c'è anche questo.» La voce flebile di No'One si fece tesa. «Dopo la tua partenza dal Santuario ho
avvicinato la Vergine Scriba... e lei ha accolto la mia richiesta. Tu mi hai ispirato ad agire, come avrei dovuto fare da
lungo tempo. Sono stata codarda... ma ora non più, grazie a te.»
«Ne... sono... lieta...» disse Payne, sebbene le sfuggisse ciò che aveva potuto fare per giustificare tale apprezzamento.
«E sono felice che tu sia qui...»
Con una spinta esplosiva, la porta nell'angolo in fondo si spalancò e un maschio vestito di cuoio nero avvolto in un
nauseabondo lezzo di morte fece irruzione nella stanza, seguito dappresso dal medico personale del re; quand'egli si
fermò di colpo, la femmina spettrale gli posò una mano sulla spalla, come a confortarlo.
Lui puntò su Payne due occhi di diamante. Pur non avendolo mai visto, lei sapeva chi era. Ne era certa come se si
fosse guardata allo specchio.
Le lacrime sgorgarono spontanee, poiché era convinta che egli fosse trapassato. «Vishous», sussurrò disperata. «Oh,
fratello caro...»
In un baleno, lui fu al suo fianco, prendendo forma proprio accanto a lei. Il suo sguardo incredibilmente acuto
indugiò sui suoi lineamenti e Payne ebbe la sensazione che le loro espressioni fossero identiche, come il colore degli
occhi, dei capelli, dell'incarnato: la sorpresa e l'incredulità che la pervadevano erano anche sul volto bello e rude di
lui.
I suoi occhi... oh, i suoi occhi di diamante. Erano gli stessi che aveva lei; le avevano restituito lo sguardo da un
numero infinito di specchi.
«Chi sei?» chiese brusco lui.
D'un tratto, Payne sentì qualcosa nel suo corpo ancora intorpidito... un gravoso fardello che non derivava da ima
ferita fisica, ma da una intima calamità. Che lui non sapesse chi era, che fossero stati tenuti separati da una
menzogna, era una tragedia intollerabile.
La sua voce ritrovò la forza. «Io ho... il tuo stesso sangue.»
«Gesù Cristo...» Lui alzò una mano coperta da un guanto nero. «Mia sorella?»
«Io devo andare», disse la dottoressa con una certa urgenza. «La frattura alla sua spina dorsale va ben oltre le mie
competenze... Devo correre a chiamare...»
«Trova quel dannato chirurgo», ringhiò Vishous, gli occhi ancora piantati in quelli di Payne. «Trovalo e portalo qui...
costi quel che costi.»
«Non tornerò senza di lui. Hai la mia parola.»
Vishous si voltò verso di lei e le catturò la bocca in un bacio veloce quanto carico di passione. «Dio... ti amo.»
II volto spettrale della dottoressa acquistò solidità, mentre si guardavano. «La salveremo, fidati. Torno appena
posso... Wrath ha già dato il suo consenso e Fritz mi aiuterà a portare qui Manny.»
«Sole maledetto. Non manca molto all'alba.»
«In ogni caso ti avrei chiesto di stare qui con lei. Tu ed Ehlena dovete monitorare i suoi parametri vitali e Xhex è
ancora in condizioni critiche. Le affido entrambe alle vostre cure.»
Quando lui annuì, la dottoressa svanì nel nulla; un istante dopo, Payne sentì una mano calda sulla sua. Vishous si era
tolto il guanto e aveva posato il palmo sopra il suo; quel contatto le procurò un sollievo che non avrebbe saputo
definire.
Aveva perso sua madre... ma se riusciva a sopravvivere aveva ancora una famiglia. Lì, sulla Terra.
«Sorella», mormorò Vishous, non come una domanda, ma come un dato di fatto.
«Fratello», gemette lei... prima che la coscienza sfuggisse alla sua presa lasciandola scivolare lontano, alla deriva.
Ma sarebbe tornata da lui. In un modo o nell'altro, non avrebbe mai più lasciato il suo gemello.
Capitolo 69
Xhex si svegliò da sola nella stanza adiacente alla sala operatoria, eppure sentiva che John non era lontano. La voglia
di trovarlo le diede la forza di tirarsi su e buttare le gambe giù dal letto. Mentre aspettava che il cuore la smettesse di
galoppare per lo sforzo, notò di sfuggita che il suo camice era costellato di cuori, piccoli cuoricini rosa e azzurri.
Non riuscì neanche a chiamare a raccolta l'energia necessaria a offendersi. Il fianco le faceva un male cane e la pelle
le prudeva dappertutto. E doveva assolutamente trovare John.
Voltandosi, vide che il tubo della flebo nel braccio era infilato in una sacca agganciata alla testiera di monitoraggio
del letto. Merda. Le avrebbe fatto comodo una di quelle aste che usavano per tenerle appese. L'avrebbe aiutata ad
alzarsi senza perdere l'equilibrio.
Quando finalmente si arrischiò a caricare un po' di peso sui piedi, fu sollevata nel vedere che non cadeva subito a
faccia in giù. Dopo un attimo di assestamento, staccò il flacone con i liquidi e lo portò con sé, complimentandosi con
se stessa per essere una paziente tanto brava e diligente.
Quel coso assomigliava a una borsetta. Forse avrebbe lanciato una nuova moda.
Invece di passare dalla sala operatoria, infilò la porta che dava direttamente sul corridoio. L'esperienza con la
dottoressa Jane e l'intervento di John l'avevano aiutata a superare la sua fobia, ma al momento aveva già abbastanza
problemi; incappare in un'altra operazione era l'ultima cosa di cui aveva bisogno... e Dio solo sapeva cosa stavano
facendo a quella poveretta che avevano portato dentro subito dopo di lei.
Appena oltre la soglia si fermò.
In fondo al corridoio, John era fermo davanti al muro di fronte alla porta a vetri dell'ufficio. Aveva gli occhi fissi
sulle crepe che solcavano il cemento e la sua griglia emotiva era sfocata, al punto che Xhex faticava a percepirla.
Era in lutto.
Non sapeva per certo se lei era viva o morta, eppure gli sembrava di averla già persa.
«Oh... John.»
Lui alzò le testa di scatto verso di lei. Merda, disse a gesti, correndole incontro. Cosa ci fai giù dal letto?
Xhex s'incamminò nella sua direzione, ma lui la raggiunse per primo e fece per prenderla in braccio.
Lei lo trattenne, scuotendo la testa. «No, ce la faccio...»
Proprio allora le cedettero le ginocchia e, se non fosse stato per lui, sarebbe crollata per terra... il che le ricordò
quando, in quel vicolo, Lash l'aveva pugnalata.
Anche allora John le aveva impedito di cadere all'indietro.
Senza il minimo sforzo John la riportò nella sala post-operatoria, adagiandola sul letto e riappendendo il flacone
della flebo.
Come ti senti? le chiese nella lingua dei segni.
Lei lo guardò, vedendolo per ciò che era, il guerriero e l'amante, l'anima perduta e il capo... l'innamorato comunque
pronto a lasciarla andare.
«Perché l'hai fatto?» chiese con la gola serrata. «Là, nel vicolo. Perché hai lasciato che lo ammazzassi?»
John la guardò con i suoi vividi occhi azzurri e, scrollando le spalle, disse, È stata una specie di regalo. Per te era più
importante... chiudere la partita, credo che si dica così. Ci sono già tante cose che non girano per il verso giusto, a questo
mondo, e tu meritavi questa soddisfazione.
Xhex ridacchiò. «Anche se in un modo molto strano... è la cosa più gentile che abbiano mai fatto per me.»
Un lieve rossore gli colorì le guance; in contrasto con la mascella quadrata, era maledettamente attraente. Ma
d'altronde, c'era qualcosa in lui che non lo fosse?
«Allora, grazie», mormorò Xhex.
Be', sai... non sei esattamente il tipo di femmina a cui si possano regalare dei fiori. Il che riduce le alternative a mia
disposizione.
Il sorriso di lei si spense. «Non ce l'avrei mai fatta senza di te. Te ne rendi conto? Sei stato tu a renderlo possibile.»
John scosse la testa. La dinamica non ha importanza. Il lavoro è stato fatto nel modo giusto dalla persona giusta.
Soltanto questo conta.
Xhex ripensò a come John aveva tenuto giù Lash, bloccandolo sul marciapiede per permetterle di colpirlo. Non
avrebbe potuto servirglielo meglio, se non presentandoglielo su un piatto d'argento con una mela in bocca.
Le aveva offerto il suo nemico. Aveva anteposto i suoi bisogni ai propri.
Era quella l'unica costante in tutti i loro alti e bassi. John la metteva sempre al primo posto.
Ora fu lei a scuotere la testa. «Penso che ti sbagli. La dinamica è stata tutto... è tutto.»
John si strinse di nuovo nelle spalle e guardò la porta. Senti, vuoi che faccia venire la dottoressa Jane ed Eh lena? Vuoi
mangiare un boccone? Ti serve aiuto per andare al gabinetto?
Ed eccolo che ricominciava.
Xhex scoppiò a ridere... una volta partita, non riuscì più a fermarsi, anche quando il fianco cominciò a farle un male
del diavolo e lacrime rosse le salirono agli occhi. Sapeva che John la stava guardando come se fosse impazzita e non
poteva biasimarlo. Lei stessa sentiva la nota stridula, isterica, che le usciva di bocca... come prevedibile, poco dopo
non rideva più; piangeva.
Coprendosi il volto con le mani, singhiozzò fino a restare senza fiato, in un'esplosione emotiva impossibile da
contenere o soffocare. Crollò e basta, e per una volta non fece nulla per nasconderlo.
Quando alla fine entrò nella stazione del paese di Cerca-di-do-minarti, non si sorprese minimamente nel trovarsi
davanti una scatola di Kleenex... grazie alla premurosa mano di John.
Tirò fuori un fazzoletto di carta. Poi subito ne prese un secondo e anche un terzo: dopo quello spettacolo, gliene
serviva ben più di uno per darsi una sistemata.
Cavolo, con quelle premesse, forse le conveniva usare direttamente le lenzuola del letto.
«John...» disse, tirando su col naso e tamponandosi gli occhi, cosa che, insieme all'orgia di cuoricini sul camice, era la
conferma ufficiale del suo status di femminuccia. «Devo dirti una cosa. È da tanto tempo che volevo dirtela... davvero
tanto. Troppo.»
Lui rimase perfettamente immobile, senza battere ciglio.
«Dio, è difficile.» E giù a piangere, accidenti. «E incredibile che tre paroline siano così difficili da dire.»
John buttò fuori il fiato con forza, come se qualcuno gli avesse sferrato un pugno al plesso solare. Buffo, si sentiva
così anche lei. Ma a volte, malgrado le ondate di nausea e il terribile senso di soffocamento, bisogna dire quello che
si ha nel cuore.
«John...» Si chiarì la gola. «Io...»
Cosa?, sillabò lui. Dimmelo. Per favore... dillo e basta.
Lei raddrizzò le spalle. «John Matthew... sono proprio una testa di cavolo.»
Lui batté le palpebre e spalancò la bocca fin quasi a scardinarla. «Mi sa che così le parole sono un po' più di tre, eh»,
sospirò lei.
Be', sì... così le parole erano un po' più di tre.
Dio, per un istante aveva... John si costrinse a tornare alla realtà, perché solo nella sua fantasia lei poteva dirgli: io ti
amo.
Non sei una testa di cazzo, hem, cavolo.
Xhex tirò ancora un po' su col naso e quel suono era davvero troppo adorabile. Merda, lei era troppo adorabile.
Appoggiata contro i cuscini, circondata da fazzolettini di carta appallottolati e con la faccia arrossata dal pianto,
sembrava così fragile e incantevole, quasi dolce. Aveva una gran voglia di prenderla tra le braccia, ma sapeva che lei
aveva bisogno del suo spazio.
Da sempre.
«Altro che se lo sono.» Xhex prese un altro fazzolettino di carta, ma invece di usarlo, lo piegò con grande precisione,
prima in due, poi in quattro, ricavandone dei quadrati e poi dei triangoli, fino a ridurlo a un cuneo compatto tra le
dita.
«Posso chiederti una cosa?»
Tutto quello che vuoi.
«Mi perdoni?»
John trasalì. Per cosa?
«Per essere questa specie di incubo testardo, narcisista, ossessivo ed emotivamente represso? E non dirmi che non è
vero.» Tirò di nuovo su col naso. «Sono una symphath. Sono brava a leggere nella testa della gente. Potrai mai a
perdonarmi?»
Non c'è niente da perdonare.
«Non sai quanto ti sbagli.»
Allora sarà che ci sono abituato. Non hai visto con che razza di svitati abito?
Xhex rise; quanto gli piaceva quel suono. «Perché mi sei rimasto sempre vicino, con tutto quello che è successo...?
Aspetta, forse la risposta a questa domanda la conosco. Al cuor non si comanda, giusto?» disse in tono triste.
La voce le si spense in gola.
Con gli occhi fissi sul Kleenex che teneva in mano, Xhex cominciò a disfare il lavoro che aveva fatto, aprendolo,
spianando le pieghe, facendolo tornare com'era prima.
John alzò le mani, pronto a muoverle per dire...
«Io ti amo.» Xhex alzò gli occhi grigio piombo. «Ti amo, e mi dispiace e ti ringrazio», disse con una risatina secca.
«Ma guardami, non sembro una vera signora?»
Il battito del suo cuore era così forte, nella cassa toracica, che John quasi fu tentato di gettare un occhio fuori in
corridoio per vedere se per caso stava passando una fanfara.
Xhex abbandonò la testa all'indietro, sui cuscini. «Tu ti sei sempre comportato in modo corretto con me. Ma io ero
troppo presa dal mio dramma personale per accettare quello che avevo davanti agli occhi sin dall'inizio. O, forse, ero
troppo fifona per affrontarlo.»
John non credeva alle sue orecchie. Quando si desidera qualcosa o qualcuno quanto lui desiderava lei, si rischia
sempre di fraintendere, di interpretare male le parole... anche quando sono nella tua lingua madre.
E il tuo finale di partita? chiese.
Lei inspirò a fondo. «Credo che mi piacerebbe un cambiamento di programma.»
In che senso? Oh, Dio, pensò John, ti prego dì...
«Mi piacerebbe che il mio finale di partita fossimo io e te.» Xhex si schiarì la voce. «È più facile uscire di scena.
Togliersi la vita e farla finita con tutto quanto. Ma io sono una che combatte, John. Lo sono sempre stata. E se mi vuoi
ancora... mi piacerebbe combattere insieme a te.» Gli tese la mano col palmo all'insù. «Allora, cosa ne dici? Ti
piacerebbe impegnarti con una symphath?»
Tombola, cazzo.
John afferrò la mano di Xhex e se la portò alle labbra, baciandola con trasporto. Poi se la mise sul cuore e, mentre lei
la teneva lì, usò la lingua dei segni per dire, Credevo che non me lo avresti mai chiesto, zuccona che non sei altro.
Xhex rise di nuovo e lui si ritrovò a sorridere così estasiato che gli sembrava di avere le guance piene di pallettoni.
Con cautela la attirò contro il suo petto, stringendola delicatamente.
«Dio, John... non voglio rovinare tutto, e ho dei pessimi precedenti.»
Lui si scostò leggermente, accarezzandole i ricci morbidi come la seta. Xhex aveva un'aria così preoccupata... non
voleva che si sentisse così, in un momento come quello.
Faremo funzionare le cose. Adesso e in futuro.
«Lo spero proprio. Merda, non te l'ho mai detto, ma avevo un amante, un tempo... Non era come con te, ma era un
rapporto che andava comunque al di là del semplice fatto fisico. Era un fratello... una brava persona. Non gli avevo
rivelato la mia vera identità. Non era giusto, ma credevo che la cosa non avrebbe avuto conseguenze... e mi sbagliavo
di grosso.» Scosse la testa. «Lui tentò di salvarmi, fece di tutto per riuscirci. Alla fine andò in quella colonia per
riportarmi a casa e, quando scoprì la verità, perse la testa. Abbandonò la confraternita. Sparì. Non so nemmeno se è
ancora vivo. È questo il motivo principale per cui ho contrastato in tutti i modi questa... cosa... tra noi due. Quando ho
perduto Muhrder ho sofferto da morire... e per lui non provavo neanche la metà di quello che provo per te.»
Bene, pensò John. Non che Xhex non ne avesse passate tante... Cristo, no, assolutamente. Ma adesso il loro passato
aveva ancora più senso... e gli ispirava più fiducia nel loro presente.
Mi dispiace molto, ma sono contento che tu me l'abbia detto. Comunque io non sono lui, chiunque fosse questo Muhrder.
Vivremo notte per notte, senza guardarci indietro. Guardiamo avanti. Dobbiamo guardare avanti, tu e io.
Lei rise sommessamente. «Credo che con questo abbiamo finito, quanto a rivelazioni. Ti ho detto tutto quello che so
di me stessa.»
Già, pensò John... come affrontare l'argomento?
Alzò le mani e lentamente disse, Senti, non so se ti senti di farlo, ma c'è una donna, in questa casa, la shellan di Rhage.
È una psicologa e so che alcuni dei fratelli si sono rivolti a lei per chiarire certe cose. Potrei presentartela. E magari
potresti parlarci. È molto in gamba e molto discreta... e chissà che non possa aiutarti col passato, oltre che col futuro.
Xhex fece un respiro profondo. «Sai... è talmente tanto che vivo con delle cose sepolte dentro di me... e guarda dove
mi ha portata. Sono una zuccona, ma non sono scema. Sì... mi piacerebbe conoscerla.»
John si protese in avanti e premette le labbra sulle sue; poi si sdraiò accanto a lei. Il suo corpo era stremato, ma il suo
cuore era vivo di una gioia pura come la luce del sole che ormai gli era negata. Era un povero muto con un passato
tremendo e un lavoro notturno che consisteva nel combattere il Male e massacrare i non morti. E malgrado tutto ciò...
aveva conquistato una ragazza.
Aveva conquistato la sua ragazza, il suo vero amore, il suo py-rocant.
Non si faceva illusioni, naturalmente. La vita con Xhex non sarebbe stata normale sotto molti punti di vista... meno
male che lui non aveva problemi col lato spericolato dell'esistenza.
«John?»
Lui fece un fischio su una nota ascendente.
«Voglio sposarti. Come si deve. Davanti al re e a tutti quanti, tipo. Voglio che sia una cosa ufficiale.»
Be'... a quel punto il cuore di John si fermò.
Si rizzò a sedere e la guardò; Xhex sorrise. «Gesù, che faccia. Cosa c'è? Non pensavi che volessi diventare la tua
shellan?»
Neanche tra un milione di anni.
Lei trasalì leggermente, sorpresa. «E ti andava bene così?»
Era difficile da spiegare, ma quello che c'era tra loro andava al di là di una cerimonia nuziale, di un'incisione sulla
schiena o di uno scambio di promesse davanti a dei testimoni. Non riusciva a spiegare esattamente il perché... ma lei
era il pezzo mancante del suo puzzle, il dodicesimo tassello per completare la sua dozzina, la prima e l'ultima pagina
del suo libro. E per certi versi non aveva bisogno d'altro.
Tutto ciò che voglio sei tu. Non importa come.
Lei annuì. «Be', io voglio il pacchetto completo.»
John la baciò di nuovo, con delicatezza, perché non voleva farle
male. Poi, scostandosi, sillabò, Ti amo. E mi piacerebbe da morire essere il tuo hellren.
Lei arrossì. Incredibile ma vero. E questo lo fece sentire grande come una montagna.
«Bene, allora è deciso.» Xhex gli mise una mano sulla guancia. «Ci sposiamo subito.»
Subito? Nel senso di... subito? Xhex... tu fai fatica a reggerti in piedi.
Lei lo guardò dritto negli occhi e quando parlò la sua voce era struggente... Dio... quanto era struggente. «Allora vorrà
dire che mi terrai su tu, giusto?»
Lui le accarezzò il viso con la punta delle dita. Nel farlo, per qualche arcano motivo, sentì le braccia dell'infinito
cingerli entrambi e tenerli vicini... legandoli per sempre.
Sì, sillabò. Ti terrò su. Sempre. E ti terrò anche sempre nel mio cuore, amore mio.
Baciandola sulla bocca, John pensò che quella era la sua promessa solenne a Xhex. Cerimonia nuziale o meno, quella
era la promessa che faceva alla sua compagna.
Capitolo 70
La tragedia si abbatté su di loro durante un violento temporale invernale e invero non fu affatto come il lungo travaglio
della fanciulla. La sciagura si consumò nel volgere di un attimo... con strascichi che, tuttavia, mutarono il corso delle
loro vite.
«No!»
Al grido di Tohrment, Darius voltò la testa di scatto dalla neonata ancora calda che stringeva tra le braccia nude. Sulle
prime non comprese cosa avesse cagionato un tale allarme. Molto sangue era stato versato durante il parto, ma la
fanciulla era sopravvissuta alla nascita della sua creatura. Darius stava tagliando il cordone ombelicale e si accingeva
ad avvolgere la piccola nelle fasce per mostrarla agli altri...
«No! Oh, no!» Col volto terreo, Tohrment tese le braccia. «Oh, beata Vergine Scriba! No!»
«Perché stai...»
Sulle prime, Darius non comprese ciò che stava vedendo. Il manico del pugnale di Tohrment... sembrava sporgere dalle
lenzuola che coprivano il ventre ancora tondo della fanciulla.
Le pallide mani di lei, ora coperte di sangue, scivolarono lentamente via dall'arma e giacquero lungo i fianchi.
«Me l'ha preso!» ansimò Tohrment. «Dalla cintura... io... È stato un attimo... mi sono chinato a coprirla e... lei ha
sfoderato il... »
Darius riportò lo sguardo sulla fanciulla, che aveva gli occhi fissi sul fuoco nel camino; una lacrima solitaria le solcava
la guancia mentre la luce della vita già l'abbandonava.
Darius rovesciò la tinozza piena d'acqua accanto al letto gettandosi scompostamente verso di lei... per estrarre il
pugnale... per salvarla... per...
La ferita che si era inflitta era mortale, dopo tutto ciò che aveva
patito durante il parto, eppure Darius non potè trattenersi dal lottare per salvarla.
«Non lasciate vostra figlia!» gridò, chinandosi con in braccio la piccola che si contorceva. «Avete dato alla luce una
creatura sana! Alzate gli occhi, alzate gli occhi!»
Il gocciolio dell'acqua che stillava dalla tinozza rovesciata risuonava assordante come una fucilata. Dalla fanciulla
non giunse risposta.
Darius sentiva la bocca muoversi e aveva la sensazione di parlare. .. ma per qualche motivo udiva solo lo stillicidio di
quell'acqua, mentre supplicava la fanciulla di restare lì con loro... per il bene di sua figlia, per la speranza del futuro, per
i legami che lui e Tohrment erano pronti a stringere con lei, così da non lasciarla mai sola a crescere la creatura che
aveva messo al mondo.
Sentendo qualcosa sui calzoni, guardò in giù, accigliato.
Non era acqua, quella che gocciolava sul pavimento. Era sangue. Il sangue della fanciulla.
«Oh, santissima Vergine Scriba...» sussurrò.
La fanciulla aveva compiuto una scelta e segnato il proprio destino.
Il suo ultimo respiro non fu che un fremito, poi la testa le ricadde di lato, gli occhi all'apparenza ancora fissi sulle
fiamme che lambivano i ceppi del camino... quando in realtà non vedeva nulla e sarebbe stata cieca in eterno.
I vagiti della neonata e quel maledetto sgocciolio erano gli unici rumori che Darius udiva nel suo cottage col tetto di
paglia. E fu proprio il pianto lamentoso della piccola a spingerlo all'azione, poiché non c'era più nulla da fare per il
sangue versato o per la vita perduta. Afferrò la copertina lavorata a mano e con cura vi avvolse quella creatura
innocente, stringendola al cuore.
Oh, che destino crudele quello che aveva operato tale miracolo. E ora?
Tohrment alzò gli occhi dal letto insanguinato e dal cadavere sempre più freddo della puerpera, gli occhi che ardevano
di orrore. «Mi sono voltato solo per un attimo... che la Vergine Scriba mi perdoni... ma per un attimo io...»
Darius scosse la testa. Quando fece per parlare non trovò la voce, così posò una mano sulla spalla del giovane e la
strinse con forza per offrirgli conforto. Allorché Tohrment si accasciò su se stesso, i vagiti aumentarono.
La madre se n'era andata. Restava la figlia.
Con quella nuova vita tra le braccia, Darius si chinò ed estrasse dal ventre della fanciulla il pugnale di Tohrment. Lo
mise da parte, poi chiuse le palpebre della sventurata e le coprì il volto con lenzuola pulite.
«Non sarà ammessa nel Fado», gemette Tohrment con la testa tra le mani. «Si è dannata da sola...»
«È stata dannata dalle azioni altrui.» E, tra tutti, il peccato più grave era la codardia di suo padre. «È stata dannata
tanto tempo fa... oh, sorte ria, è stata dannata tanto tempo fa... La Vergine Scriba veglierà su di lei nella morte, ne sono
certo, con un favore che in vita non le è stato concesso.»
Oh... destino crudele... maledetto..., maledetto destino...
Maledicendo la sorte, Darius avvicinò la neonata al focolare, temendo l'aria fredda della stanza. Entrati nel cerchio
caldo del camino, la piccola aprì la bocca cercando disperatamente intorno a sé. In mancanza di alternative migliori,
Darius le offrì il mignolo da succhiare.
Con la tragedia ancora lacerante come un urlo, Darius scrutò quel volto minuscolo, quelle braccine tese verso la luce.
Gli occhi non erano rossi, le piccole mani avevano cinque dita e non sei e le nocche erano normali. Aprì lesto la
copertina per controllare i piedi, la pancia e la testolina... e non trovò traccia della lunghezza anomala del busto e degli
arti caratteristica dei divoratori di peccati.
Il suo petto ruggiva di dolore per la sventurata che aveva portato quella vita in grembo; la giovane era entrata a far
parte dell'esistenza sua e di Tohrment... e, sebbene parlasse di rado e non sorridesse mai, ricambiava il loro affetto,
Darius ne era certo.
Loro tre avevano formato una sorta di famiglia.
E adesso lei aveva abbandonato quell'esserino.
Darius risistemò la coperta intorno alla piccola; quel pezzo di stoffa era l'unico modo, si rese conto allora, attraverso
cui la fanciulla aveva riconosciuto il parto imminente. Lei stessa aveva confezionato la copertina in cui era avvolta la
sua figlioletta. Era stato l'unico interesse che aveva manifestato per la sua gravidanza... forse perché già conosceva
l'esito finale.
Sin dall'inizio sapeva ciò che avrebbe fatto.
I grandi occhi della piccola lo guardarono, le sopracciglia inarcate nello sforzo di concentrarsi; con solenne gravità,
Darius comprese quanto era vulnerabile quel fagottino. Abbandonato tutto solo al freddo, sarebbe morto nel volgere di
poche ore.
Doveva fare la cosa giusta. Nient'altro contava, soltanto questo.
Doveva prendersi cura di lei e trattarla nel migliore dei modi. Aveva iniziato il suo percorso con tutto il mondo contro e
adesso era rimasta orfana.
Santissima Vergine Scriba... avrebbe vegliato su di lei, fosse l'ultima cosa che faceva.
Udendo un fruscio si voltò e vide che Tohrment aveva avvolto il corpo della fanciulla nelle lenzuola e l'aveva presa tra
le braccia.
«Mi prenderò cura di lei», disse il ragazzo. La sua voce non era quella di un ragazzo, tuttavia. Era quella di un adulto.
«Ne avrò... cura.»
Per qualche strana ragione, Darius fu attratto dal modo in cui le sorreggeva il capo, tutto il resto era come svanito: la
mano grossa e forte di Tohrment cullava con delicatezza la defunta come se fosse ancora viva, stringendola al petto
quasi a volerle recare conforto.
Darius si schiarì la gola, timoroso di non riuscire a reggere sulle spalle un tale fardello. Dove avrebbe trovato la forza
per il suo prossimo respiro... il prossimo battito del suo cuore... il prossimo passo?
Aveva fallito. Era riuscito a liberare la fanciulla, ma alla fin fine non l'aveva salvata...
Poi però si fece forza e, rivolto al suo pupillo, disse, «Il melo.»
Tohrment annuì. «Sì. L'ho pensato anch'io. Sotto il melo. La porto lì subito e al diavolo il temporale.»
Non lo sorprese che il ragazzo fosse disposto a sfidare gli elementi per dare sepoltura alla fanciulla. Senza dubbio aveva
bisogno di compiere uno sforzo fisico per alleviare lo strazio del suo cuore. «Sarà allietata dalla fioritura, in primavera,
e dal cinguettio degli uccelli appollaiati sui rami.»
«E la piccola?»
«Ci prenderemo cura anche di lei.» Darius guardò quel faccino. «Affidandola a chi saprà accudirla come merita.»
Non potevano tenerla lì con loro, in verità. Stavano fuori tutta la notte a combattere, e la guerra non si ferma per i
nostri lutti personali... La guerra non si ferma per niente e per nessuno. Inoltre, la piccola necessitava di cose che due
maschi, per quanto benintenzionati, non potevano offrirle.
Aveva bisogno del latte di una madre.
«È già buio?» chiese brusco Darius, vedendo che Tohrment si avviava alla porta.
«Sì», rispose quello levando il catenaccio. «E temo che lo sarà per sempre.»
La porta si spalancò sotto la furia del vento e Darius si curvò per riparare la piccola. Appena le raffiche vennero chiuse
fuori dall'uscio, abbassò gli occhi su quella minuscola nuova vita.
Sfiorandole il volto con la punta delle dita, si figurò con angoscia ciò che gli anni a venire avevano in serbo per lei.
Sarebbero stati più clementi delle circostanze della sua nascita?
Pregò che così fosse. Pregò che la piccola trovasse un maschio di valore in grado di proteggerla, che avesse dei figli e
vivesse nel mondo come una persona normale.
Dal canto suo, avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per consentirlo.
Compreso... darla via.
Capitolo 71
La sera dopo, mentre la notte calava sulla grande casa della confraternita, Tohrment, figlio di Hharm, si armò e prese
il giubbotto dall'armadio.
Non doveva uscire a combattere, eppure gli sembrava di dover affrontare una sorta di nemico. E stava per farlo da
solo. Aveva detto a Lassiter di rilassarsi e farsi un trattamento completo mani-pedicure, o roba del genere, perché ci
sono cose che, semplicemente, dobbiamo fare da soli.
L'angelo caduto si era limitato ad annuire, augurandogli buona fortuna. Come se sapesse esattamente quale prova del
fuoco stava per affrontare.
Dio, la sensazione che nulla lo sorprendesse mai era seccante quasi quanto tutto il resto che lo riguardava.
Il fatto era questo: John era rientrato una mezz'oretta prima e gli aveva comunicato la bella notizia. Di persona. Aveva
un sorriso così largo che rischiava la paralisi facciale, ed era una cosa davvero fantastica.
Merda, la vita è così strana, a volte. E troppo spesso ciò significa che le disgrazie colpiscono le brave persone. Non in
questo caso, però. Grazie a Dio, non questa volta.
Ed era difficile pensare a due persone che lo meritassero di più.
Uscendo dalla sua stanza, Tohr attraversò con