1 Giuseppe Scattolin, Pontificio Istituto di Studi Arabi e d`Islamistica

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1 Giuseppe Scattolin, Pontificio Istituto di Studi Arabi e d`Islamistica
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Giuseppe Scattolin, Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica, Roma
IL CONTRIBUTO DEL SUFISMO AL DIALOGO ISLAMO-CRISTIANO. UNA
PROSPETTIVA CRISTIANA
Relazione presentata al Convegno internazionale Il ruolo del Sufismo e delle confraternite
musulmane nell’islam contemporaneo. Un’alternativa all’islam politico?, Torino, 20-21-22
novembre 2002
1. Introduzione: alcune considerazioni sul dialogo intereligioso 1
1-1. Religione e religioni: identità nella pluralità.
Cercare di comprendere il sufismo, le sue realizzazioni spirituali ed umane, e questo da un
punto di vista cristiano, significa immergersi in pieno nel campo del dialogo interreligioso, anzi si
può dire di entrare nel cuore di tale dialogo. Il sufismo infatti, come ogni altra esperienza mistica, si
propone non come un astratto 'discorso su Dio', come e' il caso del discorso teologico, ma come
un'esperienza di Dio, e cioè in un incontro personale con Lui, un 'faccia a faccia' con l'Assoluto. E
che tale incontro possa portare a situazioni paradossali (nel senso letterale del termine, cioè di ciò
che e' al di là di quanto può essere pensato o immaginato), questo dovrebbe essere un fatto scontato
più che una sorpresa imprevista. Questa e' la realtà che i sufi in Islam, come i mistici di ogni
religione sotto tutti i cieli, hanno puntualmente sperimentato e proclamato.
Prima di entrare nel tema proposto credo sia necessario indicare alcune dimensioni del
dialogo interreligioso, entro cui cercherò di leggere e comprendere l'esperienza sufi.
E' un dato di fatto che nella storia umana noi non troviamo 'la religione', ma 'molte religioni',
e cioè che noi siamo esistenzialmente situati all'interno di una storia composta da una pluralità di
religioni. Quindi il pluralismo religioso e' un dato esistenziale di fatto dell'umanità'. Questo dato di
fatto ha costituito e può costituire un interrogativo per molti, anzi lo dovrebbe essere, a mio parere,
per tutti. Però i 'dati di fatto' della storia umana non possono essere ignorati, ma sono lì per sfidare
la nostra apertura al reale e la nostra comprensione di essa. Tale interrogativo sulla pluralità delle
religioni poi diviene più acuto soprattutto proprio per chi, come il cristiano, il musulmano ed altri,
crede nell'esistenza di una 'rivelazione assoluta' nella storia umana, rivelazione che non e' un
accumulo casuale, ed in fondo contingente, di opinioni religiose, ma un'indicazione precisa sul
destino umano proveniente dalla sua Origine e Fondamento: l'Assoluto stesso. Questo fatto e' della
massima importanza dato che la religione non tocca semplicemente la periferia dell'essere umano,
come e' il caso per altri campi dell'agire umano come la politica, l'economia, l'arte ecc., campi in cui
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la molteplicità di opinioni e' non solo desiderabile ma necessaria. La religione tocca di fatto il
nucleo fondamentale dell'esistere umano, là in cui si tratta del senso definitivo della sua esistenza, e
quindi della sua salvezza o dannazione. E' per tal motivo, credo, che il pluralismo religioso ha
sempre posto e continua a porre dei grossi interrogativi a tutti, ma soprattutto in particolare alle
persone che hanno a cuore proprio 'il fatto religioso', come senso del destino ultimo dell'essere
umano, e di ogni essere umano.
Sulla spinta di tale preoccupazione, più o meno conscia, sono sorti infatti lungo tutta la
storia umana molti tentativi di unificazione del 'fatto religioso', in modo da dare un senso ad una
storia che appare frastagliata e molteplice, e a prima vista contraddittoria. Nella tradizione induista,
ad esempio, si parla volentieri della 'religione perenne' (sanâtana dharma), di cui le altre religioni
non sarebbero che delle espressioni regionali, limitate ad un determinato ambiente culturale; così
pure il Buddhismo parla della 'quiddita' del Buddha' o della 'Buddhita', come principio presente in
tutti gli esseri almeno in stato latente. L'Islam pure ha elaborato l'idea della 'religione naturale' (dîn
al-fitra), come la religione originaria e pura prima di ogni corruzione nel seguito della storia umana.
In particolare nel sufismo (in sufi come al-Hallâj e Ibn 'Arabî) si trova spesso l'idea dell''unita' delle
religioni', idea secondo cui tutte le religioni esprimerebbero fondamentalmente lo stesso messaggio
dell'Unita' Divina di cui l'Islam ne e', ben inteso, la formulazione più esplicita e chiara. Anche nel
Cristianesimo, alcuni padri della Chiesa (vedi Giustino, Agostino) hanno parlato del Cristianesimo
come della 'religione prima', quella data originariamente all'umanità', prima della sua corruzione
nelle varie superstizioni.
In epoca più recente, ai nostri giorni, troviamo molti tentativi di elaborazione di schemi
diversi in cui inquadrare il fenomeno del pluralismo religioso. Si parla di esclusivismo (Karl Barth,
Hendrik Kraemer), secondo cui una sola sarebbe religione la vera, ben inteso il Cristianesimo,
mentre tutte le altre sarebbero false, frutto della hybris umana. Si parla di inclusivismo (Karl
Rahner), secondo cui tutte le religioni avrebbero una loro validità derivata da una di esse, ritenuta
come l'assoluta e la normativa, in questo caso il Cristianesimo. Si parla di un pluralismo in chiave
relativista (John Hicks, Paul Knitter), secondo cui non esiste una religione assoluta ma tutte le
religioni sarebbero ugualmente valide come espressioni particolari e relative di un teocentrismo di
base, che si differenzia secondo i vari contesti culturali.
Ora però molti studiosi sono scettici riguardo a questi 'schemi teologici pre-costruiti'. Ci si e'
accorti infatti che ogni schema e' insufficiente per inquadrare tutta la realtà religiosa umana, così
come si e' manifestata lungo tutta la sua storia: essa rimane una realtà plurale e non riducibile. Il
contesto storico del pluralismo religioso ci obbliga a prendere sul serio 'l'alterità' dell'altro, senza
ridurlo ai nostri schemi a priori, ma nello stesso tempo ci chiama ad uno stato di apertura all'altro,
in un cammino di incontro e comprensione dell'altro: ad un cammino di dialogo.
1-2. L' alterità dell''altro' e la propria identità.
In realtà, occorre forse riconoscere che non esiste un punto di vista assoluto entro cui il
pluralismo religioso umano può essere inquadrato. Ogni punto di vista, anche quello che si pretende
il più universale ed assoluto, quello che cerca di ridurre tutte le differenze e trovare un minimo
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comune denominatore sui cui tutte le religioni possono convenire, anche tale posizione e' sempre un
punto di vista 'particolare'. Il difetto fondamentale infatti di tale visione e' che in essa ogni religione
si trova 'stretta', perché mutilata di alcuni dei suoi elementi essenziali. Come può l'Induismo essere
tale senza il riferimento fondamentale ai Veda, e il Buddismo senza il riferimento all'esperienza di
Budda, e il Cristianesimo senza il riferimento alla persona di Cristo, e l'Islam senza il riferimento
alla figura di Muhammed e al Corano, e così via? Non e' col ridurre le differenze che si facilita un
vero dialogo interreligioso; al contrario e' prendendo le 'differenze' in tutta la loro serietà e il loro
pieno significato che ci si mette sulla via del dialogo. Sembrerebbe lapalissiano, ma spesso si
trascura il fatto che un vero dialogo suppone dei partner diversi, e non già degli omologati tali fin
dal punto di partenza. Quindi i vari tentativi di fondare un dialogo interreligioso sulla riduzione
delle differenze non sembrano abbiano un solido fondamento sia teorico che pratico.
Occorre quindi affermare le diversità. Anzi si deve dire che e' nell'assumere l' 'alterità'' dell'
'altro' in tutta serietà, che uno trova in un certo senso la vera chiave per comprendere la propria
identità. Alterità ed identità non si escludono ne' si elidono, ma si richiamano a vicenda. La
comprensione di sé non e' cancellata ma ampliata attraverso l'apertura all'altro, al diverso. Occorre
avere uno sguardo più olistico dell'esperienza religiosa, e non pregiudizio relativista e riduzionista
di essa. L'esperienza religiosa infatti non e' un quid indifferenziato che viene poi specificato e
configurato secondo forme e modelli diversi derivati da contesti differenti. L'esperienza religiosa e'
un'esperienza vitale, e come tale nasce sempre in un contesto determinato; essa e' come la vita
stessa che non e' statica ma dinamica, cioè un movimento di crescita continua. Così pure
l'esperienza religiosa deve progredire, ampliarsi ed aprirsi ad altre esperienze. Questo e' il segno
della sua vitalità, ed il dialogo e' uno degli ambienti più importanti e dei segni più significativi di
tale vitalità. Prendere sul serio l'alterità dell'altro senza riduzioni non significa nemmeno chiudersi
in una incomunicabilità reciproca. L'esperienza religiosa, e quindi anche quella mistica, si colloca
infatti in uno stesso orizzonte umano che e' determinato dalla nostra comune umanità (la specie
umana), dal nostro comune ambiente esistenziale (l'universo) e dal nostro comune orientamento al
nostro destino ultimo (la trascendenza verso l'Assoluto). Tutte le esperienze religiose, e quindi
anche quelle mistiche, si collocano in tale orizzonte umano comune di cui intendono esserne lettura,
interpretazione ed esplicitazione. C'e' sempre quindi abbastanza spazio umano e spirituale in cui i
credenti delle varie religioni possono muoversi gli uni verso gli altri ed insieme verso la loro meta
ultima in uno sforzo comune di apertura e di comprensione.
Un dialogo serio deve poi trasformare i partecipanti o partners del dialogo; esso deve
allargare i loro rispettivi orizzonti di comprensione ed accettazione, senza tentare di ridurli tutti ad
una stessa identità. La diversità e' necessaria ad un vero dialogo interreligioso; essa non deve fare
paura, ma deve essere accettata proprio come la prova della fedeltà alla identità storica propria di
ogni religione. Ogni religione infatti si colloca di fatto, ed ora più che mai deve collocarsi
coscientemente, in un orizzonte di pluralità di religioni, ed e' lì che deve trovare, o ritrovare, la
propria identità proprio nell'incontro con esperienze religiose diverse dalla sua. Questa situazione di
pluralismo religioso in dialogo e' fra l'altro la vera garanzia della libertà umana proprio nei riguardi
delle scelte fondamentali del proprio destino, e quindi propria nel campo del religioso.
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Occorre quindi accettarci nella nostra pluralità e conoscerci nella nostra diversità, e lì creare
momenti di dialogo, di conversazione e di scambio. Questa mi pare essere la posizione più giusta
per evitare ogni schema precostituito ed imposto. E' proprio partendo dalla propria specificità che
ogni religione deve aprirsi dall'interno verso le altre, e deve in qualche modo assumere in sé il loro
cammino. Solo così le esperienze religiose diverse ci faranno crescere insieme verso un verità più
comprensiva, che non e' frutto di uno schema precostituito, ma di una verità che rimane sempre
aperta alle sorprese dell'Assoluto. L'Assoluto come tale infatti (e questo pure sembrerebbe
lapalissiano) non può essere concepito come un dato statico, ma proprio in quanto Assoluto egli e'
sempre il 'nuovo' in modo assoluto, perché e' colui che trascende ogni schema, ogni formula, ogni
definizione, ogni limite, ma anche perché e' il Veniente che va' al di là di ogni categoria prestabilita.
La Verità e' sempre una 'ri-velazione' (nel senso letterale del termine cioè un 'toglie sempre di
nuovo il velo' dalla Realtà per farla vedere in modo nuovo), e quindi sempre una novità ed una
sorpresa....
E' in tale atteggiamento, io credo, che può aver luogo il vero dialogo, nel senso originale del
termine dià-logos, cioè una parola che passa da me all'altro e dall'altro ritorna a me, ricreandoci e
trasformandoci tutti e due. Il cambiamento non può essere un presupposto al dialogo come uno
schema fissato ed imposto a priori, ma deve essere certamente il risultato di un dialogo fatto 'nella
verità e nell'amore'. Occorre quindi entrare concretamente in conversazione con le altre religioni. Si
troverà nell'atto pratico dell'incontro dialogico che oltre alle differenze c'e' abbastanza spazio umano
e 'divino' per un incontro, una mutua comprensione e scoperta. Ed infine ci si scoprirà tutti come
'pellegrini dell'Assoluto', tutti in cammino verso di Lui, la meta ultima del pellegrinare umano.
1-3. L'Assoluto e i suoi segni: il punto di vista cristiano.
La Chiesa ha fatto un lungo cammino nella comprensione di sé stessa, della verità a lei
affidata in confronto continuo con altre filosofie e religioni. La rivelazione infatti e' concepita ed
accolta nell'esperienza cristiana come l'avvento dell'Assoluto nella storia. Assoluto e storia sono due
termini che nella visione cristiana devono essere tenuti insieme in una tensione mai completamente
risolta : una realtà non annulla l'altra. Tale visione e' espressa in ciò che e' chiamato il mistero
dell'incarnazione del Verbo, in cui c'e' 'unione senza confusione' e di 'distinzione senza separazione',
secondo la forma del Concilio di Calcedonia.
Nel passato ci sono stati momenti in cui il fenomeno del pluralismo religioso veniva
percepito nel mondo cristiano in modo puramente negativo. Così, ad esempio, fu molte volte inteso,
e fino a tempi alquanto recenti, il noto teologumenon: "Extra Ecclesia nulla salus". Una visione
pessimista delle altre religioni (dovuta molto alla teologia di S. Agostino) e, conseguentemente, una
visione esclusivista della salvezza ha dominato a lungo, anche se non totalmente, il pensiero
teologico cristiano. Ora tuttavia, soprattutto alla luce dell'insegnamento del Concilio Vaticano II, la
Chiesa ha assunto una posizione più positiva riguardo alle molteplici religioni che compongono la
storia umana. Essa riconosce esplicitamente che in tutte le religioni e' operativa la presenza dei i
'semi del Verbo' e l'opera dello Spirito', cioè di quello stesso Verbo e di quello stesso Spirito che,
per la stessa fede cristiana, sono entrati in modo definitivo e totale nella storia umana in Cristo.
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La fede cristiana comprende quindi la rivelazione come un evento storico dinamico, che si
realizza attraverso parole storiche varie e diverse, riassunte in fine nella Parola unica di Dio,
secondo la dinamica della rivelazione espressa all'inizio della lettera agli Ebrei: 'Dio che in tanti
modi ha parlato ai padri nel passato.... ha parlato in questi ultimi tempi nel Figlio...' (Ebr. 1, 1). In
questa visione tutta la storia umana deve essere letta come parola di Dio; non ci sono avvenimenti
neutri o indifferenti, soprattutto quando si tratta dei rapporti di salvezza tra Dio e l'umanità'. Nella
visione cristiana quindi ogni religione e' una parola di Dio che come tale deve essere compresa e
accettata. Certo, Gesu' il Cristo rimane nella fede cristiana il segno-cifra assoluto: esso e' la 'Parola
di Dio' rivolta a noi; e' il Dio-con-noi (l'Emmanuele), e' il volto e la presenza del Padre in mezzo a
noi ("Il Padre e' in me ed io sono nel Padre", "Chi vede me vede il Padre", Giov. 14,9). Ma questa
Parola pur nella sua specificità ed unicità uniche non cancella, anzi da' senso e voce a tutte le altre
parole che da essa sono uscite ed ad essa conducono. E' in tale tensione fra la Parola e le parole di
Dio che il cristiano vive la sua fede nell'apertura alle esperienze delle altre tradizioni e storie
religiose.
In questa visione ogni religione e' vista prima di tutto come una testimonianza
inequivocabile del fatto che l'essere umano e' 'quell'essere che e' radicalmente orientato
all'Assoluto'. Ogni religione infatti intende essere nella sua esperienza specifica un'espressione di
tale orientamento radicale dell'essere umano, orientamento che nella fede cristiana e' riconosciuto
come guidato dall'Assoluto stesso attraverso segni e parole che provengono da Lui. Il cammino
umano verso l'Assoluto però, pur passando attraverso dei segni e delle parole, tende al di là di essi,
oltre il tempo e lo spazio, al punto in cui si incontrerà 'faccia a faccia' con l'Assoluto stesso. Anche
il cristiano confessa che ora '... noi vediamo solamente in uno specchio e in enigma' (1 Cor. 13, 12),
e che siamo in attesa della piena visione, del 'faccia a faccia' dell'escatologia.
E' perciò importante dal punto di vista della fede cristiana mettere in luce i segni-cifra che
nella storia interpretano e ci annunciano la presenza dell'Assoluto. Tali segni-cifra rivelano il 'volto
dell'Assoluto', cioè l'Assoluto in quanto rivolto a noi. Ma essendo posti dall'Assoluto, tali segnicifra sono carichi di un senso che va ben oltre la comprensione della pura razionalità umana, essi
infatti sono posti per indicare il cammino umano che va' verso l'Assoluto stesso, fino alla visione
totale del 'faccia a faccia'. In tale cammino identità ed alterita', specificità ed apertura all'altro non
sono annullati, ne' sono semplicemente contrapposti, ma sono vissuti in una tensione dialettica
verso la pienezza della visione in cui 'Dio sarà tutto in tutti' (1 Cor. 15, 28).
E' in questa visione che io mi colloco per avere una comprensione di un'esperienza religiosa
differente dalla mia, quella cioè che l'Islam ha di Dio, o l'esperienza di sé che Dio ha posto
nell'Islam, soprattutto nel grande movimento della mistica islamica o sufismo. Questa esposizione
vuole essere un tentativo di comprensione, in certo senso un 'de-cifraggio', dell'esperienza mistica
dell'Islam, esperienza che, alla luce di quanto detto, non sento estranea alla mia esperienza come
cristiano, ma anzi e' un momento interno della mia esperienza con cui sono chiamato a mettermi in
dialogo e in conversazione.
E' stato detto infatti (R. Panikkar) che l'inter-dialogo, cioè il dialogo fra partners esterni,
deve essere preceduto dall'intra-dialogo, un dialogo che avviene con l'altro nell'intimo di noi stessi.
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E quest'ultimo avviene quando si cerca di far propria, di rivivere in sé, l'esperienza dell'altro.
L'incontro esterno con l'altro, deve essere preceduto da una sim-patia, cioè da un sentire con l'altro,
e da un' empatia, cioè dal sentire l'altro in sé stessi, accogliendolo in noi nella sua alterita'. Senza
tale premessa non si può avere un vero dialogo, questo infatti si riduce (troppo spesso!) ad uno
scambio puramente verbale, senza alcun risultato serio, dato che nessuna parte interessata si apre o
intende aprirsi ad accogliere e ascoltare l'altro nella sua realtà. Il presente lavoro tentativo vuole
essere dunque una proposta di dialogo, e una proposta che e' tanto più seria ed importante in quanto
il dialogo interreligioso tocca il cuore del destino di ogni persona umana, e alla fine dell'umanità'
stessa.
Con tali premesse, intendo prima di tutto proporre uno sguardo sintetico del fenomeno della
mistica islamica, cioè del sufismo, per metterne in luce i suoi momenti più significativi e la sua
struttura interiore secondo quanto emerge dall'autocoscienza degli autori sufi stessi. Quindi intendo
presentare tre campi che sono, a mio parere, di particolare importanza per un incontro ed un dialogo
tra la tradizione islamica e quella cristiana. E' lì che le rispettive visioni specifiche si possono
allargare in un nuovo orizzonte frutto di incontro e di una comprensione nuovi, ma lasciando
sempre l'orizzonte aperto alle sorprese dell'Assoluto, che come abbiamo detto e' la Novita' assoluta.
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2. Il sufismo nella storia, o una fenomenologia del sufismo
2-1. I momenti più significativi della storia del sufismo. 2
“Dio e’ la direzione (qibla) dell’intenzione (niyya),
l’intenzione e’ la direzione del cuore (qalb),
il cuore e’ la direzione del corpo (jism),
il corpo e’ la direzione delle membra,
le membra sono la direzione dell’universo creato (kawn)”
Questo detto, attribuito a Sahl al-Tustarî (m. 283/896), ben esprime la dinamica che ha
mosso tutta la storia della mistica islamica, o sufismo: cioè la tensione verso Dio, tensione che va
dall’esterno verso l’interno, e di lì si trascende in Dio.
Il fondamento primo o il punto di partenza del movimento sufi in Islam deve essere ricercato
prima di tutto nella stessa professione della fede islamica, cioè la testimonianza dell’assoluta Unita’
ed Unicita’ di Dio (tawhîd): ‘Non c’e’ dio se non il Dio (Allâh)’. Tale fede e’ vissuta dai sufi prima
di tutto all’interno delle formulazioni che essa ha ricevuto nel testo sacro dell’Islam, il Corano, al
punto che si può parlare di una vera e propria ‘coranizzazione’ del linguaggio religioso dell’Islam, e
della lingua araba in primo luogo, ma poi anche delle lingue dei popoli che hanno adottato l’Islam
come religione.
a. Il momento ascetico (I-II H/VII-VIII DC). 3
La prima manifestazione del sufismo si ha nel movimento ascetico dei primi secoli
dell’Islam. Tale movimento sorse come reazione alla vita di lusso e di corruzione delle corti dei
califfi e dei principi musulmani, arricchiti dalle recenti conquiste islamiche. Esso rappresentò una
protesta di fedeltà al primitivo messaggio coranico contro la sua mondanizzazione e corruzione
apportate dall’Islam politico delle conquiste e delle guerre. Tipico rappresentante di questo
movimento ascetico fu il grande predicatore di Basra (odierna Bassora in Iraq): al-Hasan al-Basrî
(m. 110/728). Suoi temi preferiti erano: la conversione, la rinuncia al mondo, la scrupolosa
osservanza della legge religiosa, l’esame di coscienza, la paura del giudizio di Dio, la contrizione
continua ecc. Questi temi ascetici verranno ripresi e sviluppati dai sufi dei secoli successivi e
costituiranno una delle tappe fondamentali e un tratto permanente del cammino interiore sufi.
b. La via dell'amore (lI-III H/VIII-IX DC).4
Gia' con il II/VIII sec. il tema dell’amore assoluto per Dio prende sempre più posto nella
mistica islamica fino a divenire uno dei suoi temi centrali. Tipica rappresentante di tale
orientamento fu una donna, la nota mistica Râbi’a al-'Adawiyya (m. 185/801).5 Essa fu la prima fra
i mistici ad esprimere l’esperienza dell’amore assoluto ed esclusivo per Dio solo, amore che esige la
rinuncia radicale ad ogni cosa di questo mondo come pure ad ogni desiderio di ricompensa
(Paradiso) o timore di castigo (Inferno) nell’al di là. "Dio va amato per se stesso e per nessun altro
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fine", questo era il suo ritornello. La formula di fede coranica: "Non c’e’ dio se non il Dio (Allâh)"
si traduce in questa sufi in "Non c’e’ amato (mahbûb) se non il Dio (Allâh)". Famoso rimarrà nella
storia del sufismo il suo poemetto in cui e’ riassunta tutta la sua esperienza di amore per Dio:
Ti amo di due amori (hubb):
uno e' frutto della mia passione.
e uno di cui Tu solo sei degno.
L'amore di passione fa' sì che io mi occupi
del Tuo solo ricordo (dhikr),
escludendo ogni cosa che non sia Tu.
L'amore di cui Tu solo sei degno
sopravviene quando Tu alzi i veli
sicché io Ti veda (ru'ya).
Nessun lode va a me in questo (amore) o in quello,
ma a Te va ogni lode
e in questo (amore) e in quello.
c. La mistica dell’unione (III-IV H/IX-X DC).6
A partire dal III/IX secolo si nota che molti sufi prendono sempre più coscienza che la via
dell’amore, perseguita fino alle sue estreme esigenze, porta necessariamente all’unione: l’amante
non può desiderare che una sola cosa, l’unione con l’Amato, e questa unione e’ tanto più profonda
quanto più e’ grande l’amore che la origina, qual’e’ l’amore di Dio. Temi e speculazioni sull’unione
con Dio, le sue cause ed i suoi effetti, si sviluppano sempre più in questo periodo. Uno dei maggiori
rappresentanti di tale corrente fu senz’altro il sufi e martire al-Husayn b. Mansûr al-Hallâj (m.
309/922).7 Egli ha realizzato un’interessante sintesi fra esperienza personale e speculazione sufi.
Sviluppando il tema dell’uomo creato ad immagine di Dio, al-Hallâj ha evidenziato che l’amore e’
il centro delle relazioni fra Dio e l’uomo, dato che l’amore in Dio e’ "l’essenza della sua essenza".
L’amore poi porta all’unione: l’'io' del sufi viene completamente assorbito da Dio che percepito ora
come l’unico vero agente su tutto ed in tutto. La formula di fede coranica: "Non c’e’ dio se non il
Dio (Allâh)", attraverso la tappa di "Non c’e’ amato se non il Dio", e' divenuta ormai, sulla scorta
delle speculazioni di al-Junayd (m. 298/910), il maestro di al-Hallâj: "Non c’e’ agente (fâ’il) se non
il Dio (Allâh)". Su tale base al-Hallâj potè esclamare “Io sono la Verità-Realta’(haqq)”: espressione
che gli costo’ il martirio da lui accettato come segno supremo della verità della sua esperienza
mistica. Ma si tratta nel caso di al-Hallâj di un vero monismo? Non sembra, anche se così tale
formula fu intesa e come tale condannata dai rappresentanti dell’ortodossia sunnita dell’Islam.
In realtà al-Hallâj portava alle estreme e logiche conseguenze le esigenze dell’amore, ormai
da tempo maturate nei circoli sufi: l’amore vero infatti esige che amante ed amato diventino una
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cosa sola. Per cui nell’ebbrezza di tale esperienza al-Hallâj poteva esclamare in un poemetto
rimasto famoso:
Io sono Colui che amo, e Colui che amo e' me:
siamo due spiriti che abitano un solo corpo.
Se tu mi vedi, vedi Lui:
e se tu vedi Lui, vedi Noi.
Si può affermare inoltre che al-Hallâj non faceva che portare sul piano esistenziale,
sperimentale, proprio il principio che la teologia sunnita dominante aveva affermato, contro i
mu’taziliti, e cioè l’azione assoluta di Dio con la negazione di ogni vero agire da parte della
creatura. Quindi, concludeva logicamente al-Hallâj: “...solo Dio può testimoniare la Sua propria
Unita’, se la creatura volesse fare ciò commetterebbe il peggior dei peccati: l’associazionismo
(shirk)”, che consiste nell’associare qualcosa all’essere o all’azione di Dio, peccato capitale per
l’ordossia islamica. Questo e’ ciò che i sufi chiamano ‘l’associazionismo segreto o l’idolatria
segreta’ da cui non cesseranno di mettere in guardia i comuni credenti, cioè coloro che fanno
apertamente professione di monoteismo (tawhîd), ma in realtà solo a parole: questo infatti può
diventare per essi il più sottile inganno di idolatria.
Per tal motivo, al-Hallâj non cessa di pregare che sia Dio stesso a fargli proclamare la vera
attestazione della sua Unita’ (tawhîd), che non può essere frutto della capacita’ umana:
Fammi uno con Te, o mio Unico,
nella vera attestazione della Tua Unita' (tawhîd):
a ciò nessun sentiero umano può condurre!
Io sono un Reale testimone (haqq),
ma solo il Reale (haqq) e' Reale testimone del Reale,
rivestendosi di Se stesso: fra noi ormai non c'e' più separazione!
Ecco che il tutto si illumina di raggi splendenti,
scintillanti, nel baleno del fulmine.
Cio’ che egli chiede e’ che il suo 'io' sia tolto di mezzo di modo che non rimanga altro che
l’“Io” di Dio, Colui che solo opera tutto in tutti; per cui esclama:
Fra me e Te c’e’ il mio 'io' che fa da intruso,
Togli con il tuo 'Io' il mio 'io' fra di noi due.
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Al-Hallâj ha posto in tal modo, in maniera drammaticamente chiara, la problematica del
vero o autentico tawhîd, come coscienza reale della trascendente Unita’ divina. L’affermazione
dell'Unita’ divina non può essere ridotta ad una proclamazione esterna, quasi si trattasse di
un’unita’ numerica applicata a Dio, come succede per la maggior parte dei comuni credenti. Del
resto al-Junayd (m. 910)8 il maestro di al-Hallâj, aveva già avvertito della aporia del vero tawhîd:
"Quanto più le menti umane si avventurano verso gli estremi limiti del tawhîd tanto più si
avventurano nella perplessita'".9
La vera Unita’ divina infatti implica una presenza trasformante nel cuore stesso dell’essere
umano il quale deve essere in qualche modo assunto nell’auto-proclamazione eterna che Dio stesso
fa’ della propria Unita’. Tale problematica del ‘vero tawhîd’ continuera’ ad essere, anche se non
sempre in modo esplicito, una costante della ricerca sufi nei secoli posteriori al martirio di al-Hallâj.
Eco di essa la si può trovare in un sufi come ‘Abd Allâh al-Ansârî (m. 481/1088), un dotto della più
stretta osservanza sunnita, l’hanbalismo. Egli infatti conclude il suo trattato sufi Le Dimore dei
viandanti con un’affermazione strabiliante per un puro sunnita come lui e che ha dei risolvolti
lasciati in sospeso, inspiegati 10:
Nessuno ha proclamato che l’Uno e’ Uno:
chiunque lo abbia fatto e’ un negatore di Dio.
Chi parla della Sua Unita’ come di una qualita’,
dice delle parole inconsistenti che Lui, l’Uno, rende vane.
Che l’Uno proclami se stesso Uno, questa e’ la professione dell'Unita';
chiunque voglia attribuire a Lui la qualifica di uno, qualifica se stesso di empieta’.
Ma la problematica rimane: come può il sufi entrare in tale atto di proclamazione eterna in
cui ‘l’Uno proclama se stesso Uno’? Da sé stesso, con il proprio sforzo ascetico e l’osservanza della
legge? Oppure per una grazia ed un incontro con Dio stesso a tu per Tu, come al-Hallâj affermava?
Al-Hallâj e’ stato pure uno dei più grandi rappresentati del sufismo che chiameremo
‘estatico’. In esso il sufi cerca un diretto contatto con il ‘Tu’ divino al di là di tutte le mediazioni,
fossero pure le più sacre come il Corano e le pratiche religiose. Dopo di lui, al-Niffarî, sufi iracheno
morto attorno alla IV/X sec., circa quaranta o cinquant’anni dopo al-Hallâj, portera’ alla più alta
espressione tale sufismo estatico.11 Il sommo del suo cammino infatti sufi sta nell’essere rapito da
Dio al di là di ogni mediazione creaturale ed essere posto alla Sua diretta presenza come Suo
commensale. Questa e’ la 'stasi' mistica (waqfa), come egli la chiama, cioè una presenza eterna
dello sguardo reciproco, in cui il sufi si sente appellato direttamente da Dio: “Io ti guardo ed amo
che tu guardi a Me” (M 15, 14). Questa espressione sembra riassumere tutta la semplicita’ e la
profondita’ dell’esperienza di questo solitario sufi iracheno.
Tale tipo di sufismo estatico e’ stato anche il più soggetto alle vessazioni della censura
ufficiale dei dottori della legge islamica al punto che i sufi hanno coniato a proposito noto un
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adagio, frutto di amare esperienze storiche: “Sotto la penna di ogni giudice c’e’ la testa di un sufi
che cade”.
d. Il sufismo sunnita (IV-V/X-XI).12
Dopo la tragedia di al-Hallâj il movimento sufi senti’ il bisogno di riesaminare la propria
esperienza alla luce della tradizione ortodossa islamica, il sunnismo, e di riconciliarsi con essa. In
tale epoca appaiono i primi manuali sul sufismo, trattati e biografie, a tono chiaramente
apologetico: quello cioè di mostrare l’accordo profondo che esiste fra l’esperienza sufi, da tempo
ormai sviluppata in Islam, e la legge islamica, la sharî’a, legge che deve regolare tutto l’essere
umano nel suo credere ed agire. Questa sharî’a aveva ricevuto infatti durante il secolo III/IX la sua
definitiva codificazione nelle quattro scuole di diritto riconosciute in Islam: la hanafîta, la malikîta,
la shafi’îta e la hanbalîta.
Il più importante rappresentante di tale corrente sunnita fu senza dubbio il grande teologo
ash‘arîta Abû Hâmid al-Ghazâlî (m. 505/1111) che, per la sua indiscussa ortodossia, fu
soprannominato 'la prova dell’Islam'.13 Al-Gazâlî intese circoscrivere l’esperienza sufi nei limiti
consentiti dall’ortodossia islamica, condannando tutte le esagerazioni di quei sufi che, come alHallâj, parlano di unione con Dio, intesa nel senso più reale. Si può tuttavia notare in al-Ghazâlî
una certa ambiguita’. Sotto la facciata del rigido ortodosso sunnita, sembra che egli pure celasse un
insegnamento esoterico, mutuato da varie fonti filosofiche (soprattutto neoplatoniche) e religiose
(come filosofia dell’illuminazione, iranismo, gnosticismo ecc.). In molti passi infatti egli continua a
ripetere che non e’ opportuno fare pubbliche certe verità dei sufi, pena la condanna capitale. E’
importante comunque il fatto che al-Ghazâlî, abbia posto l’amore di Dio al sommo del cammino
sufi, che a sua volta rappresenta nel suo pensiero l’apice della vita religiosa dell’Islam.14 Ad ogni
modo, egli si premura a specificare che tale amore può portare solo alla vicinanza (qurb) con Dio,
intesa come imitazione delle qualita’ divine, lontana da ogni tipo di unione con Lui quale era stata
intesa e proclamata da sufi come al-Bistâmî, al-Hallâj ed altri. Al-Ghazâlî infatti specifica: “Cio’
che può essere menzionato [di tali stati] e’ solo la vicinanza (qurb) del servo al suo Signore, il
Potente e Sublime, negli attributi che gli fu comandato di imitare, e nel conformarsi alle qualita’
proprie del suo Signore, tanto che e’ stato detto: "Conformatevi alle qualita’ proprie di Dio".15
e. Nel mare delle manifestazioni divine. (VI-VII/XII-XIII).
Gia’ da tempo, a cominciare dal sec. III/X, molte correnti di pensiero filosofico e religioso
come il neoplatonismo, lo gnosticismo, l’ermetismo, erano entrate a far parte del pensiero islamico.
Ma fu in particolare durante i secoli VI-VII/XII-XIII che la loro influenza apparve in modo più
chiaro anche nel pensiero sufi. Il sufismo venne acquistando sempre più il carattere di un tipo di
speculazione filosofica orientata in maniera più o meno esplicita verso un monismo espresso in vari
modi: il Tutto e’ Uno, solo Dio e’ il Reale-Vero, il mondo e l’universo creato non sono che
l’insieme delle manifestazioni dell’Essenza divina, che, in sè stessa inconoscibile ed inattingibile, si
dispiega in una varietà e molteplicità infinita di manifestazioni a tutti i livelli cosmici e
antropologici. Queste manifestazioni però non possiedono una vera sussistenza autonoma, ma
sussistono in Lui solo; in breve: l'Essere è il Tutto-Uno (vicino all' en kai pan dei neoplatonici). In
12
tale visione, l'essere umano viene sempre più chiaramente concepito come il microcosmo, cioè
come lo specchio di tutti gli attributi divini e il riassunto di tutte le qualità cosmiche. Tale
speculazione raggiunge la sua massima espressione nell'idea dell' 'Uomo perfetto' (al-insân alkâmil) che costituirà l'oggetto delle riflessioni e ricerche dei sufi nei secoli successivi fino ai nostri
giorni.16
Il più insigne rappresentante di questo sufismo filosofico e’ stato senza dubbio il sufi
andaluso (dall’Andalus, la Spagna araba), Muhyî al-Dîn Ibn ‘Arabî (m. 638/1240) che per la
profondita’ e la vastita’ della sua sintesi fu soprannominato 'il supremo maestro spirituale' (alsheykh al-akbar). Attraverso una enorme produzione letteraria Ibn ‘Arabî ha inteso dare la più
completa ed autentica descrizione del mondo delle manifestazioni divine a tutti i livelli: ontologici,
cosmici ed antropologici. Ed infine, conscio della comprensivita’ e profondita’della sua sintesi, egli
non ripiego’ dall’audacia di autoproclamarsi ‘il sigillo della santita’ suprema’, che e’ il più alto
grado del mondo degli gnostici ('ârifûn) in Islam.
Un aspetto importante della visione sufi di Ibn 'Arabî è l'universalismo dell'amore e della
conoscenza degli gnostici. Lo gnostico, nella visione di Ibn ‘Arabî, e’ colui che vede in tutto,
soprattutto nella molteplicita’ delle religioni, il fluire delle manifestazioni divine. In tale visione
anche l’amore sufi diventa un amore cosmico, universale che abbraccia il tutto, perché tutto e’, in
gradi differenti, manifestazione della stessa Essenza divina. Su tale fondamento Ibn 'Arabî poteva
esprimersi in questi versi famosi 17:
Ora il mio cuore e’ capace di accogliere ogni forma:
esso e’ convento dei monaci e tempio degli idoli;
E’ prato delle gazzelle e la Ka’ba del pellegrino,
le tavole della Toràh e il testo del Corano.
Mia religione e’ l’Amore, ovunque portino le sue cavalcature:
l’Amore e’ la mia religione e la mia fede.
Tuttavia tale visione universalistica non ha impedito a Ibn ‘Arabî (contraddizioni della storia
che non devono essere ignorate) di consigliare al suo amico Kayka’ûs II, principe di Konya (l’antica
Iconio), di adottare le più strette misure discriminatorie dettate dalla legge islamica (sharîa) contro i
non musulmani, i cristiani in particolare, basandosi sul testo delle famose ‘Capitolazioni di ‘Umar’,
base di tutta la legislazione islamica in tale campo.18
Questo tipo di sufismo monista ed universalista fu pure la base di ispirazione dei più grandi
poeti sufi, alcuni di loro largamente conosciuti anche in Occidente, come l’egiziano 'Umar Ibn alFârid (m. 632/1235) ed il persiano Jalâl al-Dîn Rûmî (m. 672/1273), il turco Yunes Emre’ (m.
721/1321), e moltissimi altri poeti e scrittori musulmani, che hanno attinto la loro ispirazione da
tale tipo di sufismo a tendenza monista ed universale producendo delle opere di grande livello
13
artistico. E si può aggiungere pure che il sufismo è sempre stato una delle grandi fonti dell'arte
islamica in tutti i campi.
Infine occorre accennare al fatto che l'influenza di Ibn 'Arabî sul sufismo posteriore fino ai
nostri giorni è stata grandissima, tanto che è assai diffusa la tendenza o la moda di considerare il
sufismo di Ibn 'Arabî come la sintesi di tutto il sufismo, anzi come la quintessenza di tutte le
mistiche di tutte le religioni. Questo lo si può notare negli scritti di un dotto sufi contemporaneo
come Hosseyn Nasr, nel suo libro Sufismo.19 Lo stesso si dica anche di molti studiosi occidentali
contemporanei che hanno abbracciato il sufismo come stile di vita e di studio, quali Réné Guénon,
Frithjof Shuon, William Chittick, Michel Chodkiewicz etc.
In realtà questo tipo di sufismo può essere qualificato, a nostro parere, come ‘il sufismo
delle mediazioni’. Esso infatti concentra tutto il suo interesse nella contemplazione e assimilazione
delle manifestazioni divine, cioè nel ‘perdersi nel mare delle manifestazioni divine’ fino ad
identificarsi totalmente con esse: questo sembra infatti l’estremo cui il sufismo di Ibn ‘Arabî può
portare. L'Essenza divina è concepita infatti come sempre e totalmente trascendente il mondo delle
sue manifestazioni; essa rimane per sempre avvolta nel mistero inattingibile della non-conoscenza e
della non-manifestazione. La manifestazioni infatti sono, si può dire, l'Essenza divina quoad nos,
non l'Essenza divina in sè stessa. Questo sufismo può anche essere descritto come un sufismo del
mondo delle essenze che sono viste e descritte nel loro fluire e rifluire eterno dalla loro Sorgente
trascendente, l'Essenza divina. In esso non si percepisce l’esperienza dell’incontro bruciante con il
‘Tu’ divino che trascende tutte le sue manifestazioni e che mai si identifica con esse ne’ mai e’ da
esse condizionato. Quest’ultima sembra essere l’esperienza propria del sufismo estatico professato
da al-Hallâj e al-Niffarî. Contro tale sufismo delle mediazioni al-Niffarî aveva già lanciato la sua
critica radicale descrivendolo, in una interessante riflessione, come un sufismo che e’ ancora velato
alla visione di Dio:
“E mi disse: Io ti guardo ed amo che tu guardi a Me. Ogni atto di manifestare [di creare le
cose] ti vela a Me: la tua anima e’ un velo, la tua scienza e’ un velo, la tua gnosi e’ un velo, i tuoi
nomi sono un velo, la Mia auto-rivelazione a te e’ un velo. Espelli quindi dal tuo cuore ogni cosa, e
espelli la scienza di ogni cosa, e il ricordo di ogni cosa. E tutte le volte che Io manifesto al tuo cuore
qualcosa che si manifesta [nella creazione], rigettala all’inizio del suo manifestarsi: svuota il tuo
cuore per Me, affinche’ tu possa guardare a Me senza fare prevalere nulla su di Me” (M 15, 14).20
Infine, occorre notare che la dottrina di Ibn 'Arabî è stata largamente adottata, in modo molte
volte esoterico, dalle confraternite o ordini o vie sufi (turuq sûfiyya) che costituiscono fino ai nostri
giorni la più visibile manifestazione del sufismo in Islam.
f. Le vie (turuq) mistiche.
Da tempo il sufismo si era venuto organizzando in gruppi di persone che seguivano gli
insegnamenti di qualche famoso maestro spirituale. Ma fu durante i secoli VI-VII/XII-XIII che gli
ordini o le vie sufi conobbero la più grande frioritura. In molti credenti infatti si era fatta strada
l’esigenza di avere una guida spirituale (shaykh), sicura e sperimentata del cammino mistico.
14
Nacquero così ‘le vie’ (in arabo tarîqa/turuq = via/vie), dette a volte confraternite o ordini sufi, che
prendono in genere la loro denominaze dal nome dei loro fondatori.
Queste confraternite sufi si sono venute organizzando attorno ad un maestro, adottando un
determinato ordine o regola di vita, ritmata da particolare pratiche spirituali e da una certo tipo di
vita comune, anche se i loro membri sono per lo più persone sposate, che esercitano un lavoro o una
professione. Col passare del tempo, questi ordini sufi si sono organizzati sempre di più divenendo
importanti centri spirituali in tutto il mondo islamico. Molti di esse inoltre hanno adottato
determinate attività di tipo commerciale e artigianale, e diventarono uno dei mezzi più importanti
per la diffusione dell'Islam nelle più lontane regioni dell'Asia e dell'Africa. Occorre anche notare
che molti ordini sufi assunsero un aspetto militante e militare, dando un forte contributo alle
conquiste militari islamiche in tutti i continenti. Del resto si sa che politica e religione sono state
sempre strettamente unite nella vita pratica dei musulmani lungo tutta la loro storia.
Le confraternite sufi inoltre ebbero, ed hanno, un ruolo molto importante nella educazione,
formazione dei credenti e nella inculturazione dell'Islam nei vari popoli. Si può dire che è attraverso
gli ordini sufi che l'Islam si è adattato alle differenti culture in è penetrato addottandone le
caratteristiche locali: africane, cinesi, indonesiane ecc. Ed è pure attraverso gli ordini sufi che le
varie culture hanno apportato all'Islam i loro colori locali, arricchendo con la varietà delle loro
espressioni una pratica religiosa che è in sè stessa rigidamente regolata da una legge uniforme in
tutto il mondo islamico.
Così, mediante un'efficace organizzazione, gli ordini sufi acquistarono potere e prestigio
tanto da giocare importanti ruoli politici nelle società islamiche. Per tale motivo, i riformisti
musulmani moderni o i 'riformisti' dal secolo XIX in poi hanno preso in genere una posizione ostile
verso i vecchi ordini sufi, causa, secondo loro, dell'arrettratezza mentale e materiale delle società
islamiche.
Recentemente questi ordini sufi sono divenuti pure oggetto di attacco da parte delle correnti
'fondamentaliste' dell'Islam contemporaneo. Quest'ultime si rifanno volentieri alla vecchia polemica
anti-sufi presente nell'Islam fin dal sec. III/IX, epoca in cui appaiono le prime opposizioni al
sufismo da parte dei 'dottori della legge', condanna che è stata ribadita in seguito da molti giuristi
musulmani, in particolare dal patriarcha del fondamentalismo islamico, Ibn Taymiyya (m.
728/1328). E' sulla scorata di tali condanne storiche che queste correnti 'fondamentaliste' vedono
negli ordini sufi e nelle loro pratiche spirituali delle deviazioni (in arabo bid'a, innovazioni)
fuorvianti dalla purezza dell'Islam originario che invece sarebbe stato codificato, secondo loro, nelle
scuole tradizionali della legge islamica o sharî'a. La stretta e letterale applicazione della legge
islamica o sharî'a fà parte degli slogan di tali correnti 'fondamentaliste' dell'Islam contemporaneo.
Non e’ possible dilungarci ulteriormente sulla fenomenologia storica del sufismo. Queste
brevi e generali linee possono dare un’idea della ricchezza, varieta’ e problematicita’ di questo
movimento spirituale dell’Islam. In tale schematica esposizione abbiano voluto mettere in luce
alcuni temi fondamentali che costitutiscono il retaggio permanente del movimento sufi: l'ascesi,
l'amore, l'unione, le manifestazioni divine, l'Uomo perfetto, le vie sufi.
15
2-2. Il sufismo nella sua struttura interiore: le tre tappe.
L’esperienza sufi e’ stata assai presto oggetto di analisi e classificazione nei numerosi
trattati sufi. Ognuno di loro propone un certo numero di tappe in cui essa si attua di cui non e’
possibile darne una descrizione dettagliata.21 Possiamo accennare qui brevemente ad una struttura
fondamentale assai accettata negli ambienti sufi e in cui tutte le altre descrizioni possono essere in
certo modo situate. Il sufi nel suo cammino mistico deve passare per tre stadi o tappe fondamentali:
a.- la legge (sharî‘a): essa è la 'strada' (questo è il senso primo del termine arabo) stabilita e rivelata
da Dio agli uomini e che nessuno quindi può cambiare. La legge (sharî'a) è riassunta nei
cinque pilastri dell'Islam che ogni buon musulmano deve osservare, e il sufi in modo
particolare, scrupulosamente. Questo è il punto di partenza per ogni cammino sufi: nessuno
può pretendere di essere sufi se non osserva la legge divina (sharî'a) rivelata da Dio.22
b.- la via (tarîqa): essa è la 'via' (questo è il senso primo del termine arabo), cioè un metodo di vita,
che il fedele segue per vivere la legge divina secondo le intenzioni più profonde intese da
Dio. In questa tappa prevale lo sforzo ascetico con cui il principiante cerca di purificare il
proprio cuore per renderlo disponibile all'azione di Dio. Questo è uno stadio intermedio, ma
necessario per giungere al fine del cammino sufi.
c.- la Verità-Realta’ (haqîqa): essa e’ la tappa finale e consiste nella ‘scoperta’ o ‘rivelazione’
(fath) della suprema realtà di Dio, termine ultimo di tutti i simboli religiosi. Il sufi quindi e’
chiamato a passare dalla esteriorita’ delle forme all’esperienza personale e viva, al ‘gusto’
(dhawq) della Realtà divina, fonte della vera conoscenza sufi. La storia dimostra che molte
volte tale esperienza porta il sufi ad esperienze ed espressioni che sembrano contraddire la
prima tappa, quella della legge. Questo conflitto, in cui la bianca rosa dell’esperienza
mistica dei sufi e’ stata sovente imporporata con il rosso del loro sangue, secondo una
diffusa immagine-simbolo della loro esperienza, sembra un dato ineliminabile nel mistero
dell’incontro di due libertà: quella dell’uomo e quella di Dio, l’Assoluto. E questa e' una
Liberta' che sempre sorprende e scandalizza coloro che sono legate all'esteriorita' della legge
o dei simboli religiosi.
Altre classificazioni sono a volte adottate, ma questa ha il vantaggio di mettere in risalto la
dinamica interna del Sufismo come movimento di interiorizzazione della legge religiosa,
interiorizzazione che culmina nell'incontro o nell'unione con la Realtà-Verita' Assoluta, Dio (alhaqq). Questa divisione viene fatta corrispondere ai livelli fondamentali dell'essere umano, che,
secondo una comune antropologia sufi, sono: anima (nafs), cuore (qalb) ed intimo segreto, spirito
(sirr, rûh).
Anche per il sufismo rimane assodato che la Realtà-Verita' Assoluta, Dio (al-haqq), non può
essere definita in leggi o formule: essa sorpassa di gran lunga 'quanto l'essere umano può pensare,
16
immaginare, sperare o immaginare'. Ma soprattutto e' chiaro che l'incontro con Lui comporta un
cambiamento radicale della persona umana: i suoi limiti creati sono in qualche modo infranti,
perché il sufi avanza in una realtà illimitata, in un mare di cui non vede le sponde. Quante volte
l'immagine del 'naufragare in tale mare' ritorna nelle espressioni sufi. C'e' chi parla solo di una
vicinanza trasformante (qurb) a Dio (al-Ghazâlî), c'e' chi parla di un annientarsi (fanâ') in Dio (alJunayd), ma c'e' anche chi parla di una inabitazione (hulûl) di Dio nel cuore del suo servo (alHallâj) o di una unione (wahda-ittihâd) con Lui (Ibn 'Arabî). Espressioni queste che hanno molte
volte scandalizzato i rigidi assertori della pura lettera della legge, ma che per i sufi erano solo
balbettamenti per esprimere una realtà che sorpassa ogni espressione umana. La distanza fra
esperienza interiore ed espressione esteriore e' stata vissuta profondamente ed anche
drammaticamente dai sufi come estasi (ex-stasis), ma anche come diastasi (dia-stasis) mistica. Uno
di più originali di essi, al-Niffarî, ha bene espresso tale asintotica tensione fra esperienza, o visione
interiore, ed espressione, o lettera esteriore, nel suo famoso detto: "Quanto più la visione (ru’ya) si
allarga, tanto più l’espressione ('ibâra) si restringe" 23.
17
3. Spazi di dialogo fra mistica cristiana e sufismo
Ogni esperienza mistica e' un'esperienza particolare, profondamente contestualizzata dalla
tradizione religiosa in cui nasce e cresce. Paragonare esperienze talmente differenti tra loro e'
un'impresa estremamente rischiosa. Di fatto, o si equivoca sui termini o si cerca di ridurre il tutto ad
un minimo comune denominatore, concepito in genere come l'esperienza dell'indistinto, al di là di
ogni distinzione di soggetto ed oggetto. Per molti l'esperienza dell'indistinto sembra rappresentare
l'essenza di ogni esperienza mistica, esperienza che verrebbe poi coniugata secondo degli schemi
propri ad ogni tradizione religiosa. Tale concezione minimalista sembra ad ogni modo assai
discutibile: essa assomiglia troppo alla 'notte nera in cui tutte le vacche sono nere' (Hegel). Questa
concezione infatti e' già un'interpretazione e una riduzione delle esperienze mistiche che nella realtà
nascono, crescono e vivono del vissuto di persone concrete. Inoltre questa interpretazione o
riduzione minimalista non e' neutrale, essa corrisponde a dei precisi presupposti ideologici, ad
esempio che Dio non può essere concepito come persona, perché 'persona' sarebbe un concetto
limitato ecc. Pero' non si tiene presente che in tale interpretazione minimalista c'e' il rischio di
ridurre Dio ad quid 'impersonale', se non addirittura 'cosificato' in un'idea 'a-personale'. Mentre
l'Assoluto può, e deve essere pensato, a mio parere, sulla linea del 'personale' come 'soprapersonale', in un'analogia dialettica che punta al di là dei limiti della 'persona' della nostra
esperienza umana.
Tuttavia, invece di inoltrarci in tali discussioni teoriche sull'essenza dell'esperienza mistica,
ci sembra molto più utile cercare quali sono gli spazi comuni in cui le differenti esperienze mistiche
possono mettersi in conversazione e dialogo, ciascuna esprimendo la propria identità in un
atteggiamento di ascolto e apertura verso l'alterita' dell'altro. Analizzando infatti le problematiche
espresse nelle varie esperienze mistiche, si può affermare che tutte si muovono in tre ambiti
generali, che sono in fondo gli ambiti fondamentali dell'esistenza umana in quanto tale, qualsiasi sia
poi la presa di posizione di ogni tradizione mistica a loro riguardo. Questi tre ambiti generali
attraverso cui e in cui passa il cammino mistico sono: le misteriose profondita' dell'anima umana,
l'incognito delle dimensioni del cosmo e l'abisso del mistero di Dio.
3-1. Dalle misteriose profondita' dell'anima umana.
Ogni mistica si presenta anzittutto come un'esperienza del 'se' umano', cioè di ciò che c'e' di
più vero e profondo nell'essere umano. I mistici sono i primi ad affermare che l'essere umano non e'
semplicemente una cosa fra le cose, che esso non può essere ridotto all'insieme dei suoi componenti
fisio-biologici. L'essere umano ha delle profondita' da cui scaturisce la sua vera identità, profondita'
indicate comunemente con il termine 'anima' (psychè, nafs). Sondando le profondita' dell'anima
umana i misitici sono testimoni che questa e' legata misteriosamente, ma realmente alla sua
sorgente prima, l'Assoluto. L'essere umano e' essenzialmente l'essere della trascendenza verso
l'Assoluto: questo e' l'illimitato, non-comprensibile ma sempre presente orizzonte di ogni attivita'
umana in quanto tale, soprattutto nei suoi atti di conoscenza, amore e libertà. Questo assoluto,
18
illimitato Orizzonte e' percepito dall'essere umano come il Mistero trascendente e santo verso cui il
suo cammino e' diretto.
L'essere umano e' stato definito come 'il pellegrino dell'Assoluto'. Egli infatti e' quell'essere
inquieto che nulla appaga. L'essere umano e' quell'essere che porta dentro di sé una domanda di
senso che mai si esaurisce e che continuamente lo incalza. Egli e' quell'essere destinato a
trascendere se stesso. Il suo punto di riferimento e' sempre un orizzonte lontano, al di là di tutto ciò
che da vicino lo circonda. Pur lontano, quell'orizzonte e' una realtà che tutto avvolge ed in tutto e'
presente. L'essere umano si sente inevitabilmente proiettato fra due abissi: o l'elevazione infinita o
la caduta infinita. Egli infatti pur esistendo nei limiti del tempo e dello spazio, aspira continuamente
a qualcosa che li trascende. Come crisalide prigioniera, egli tende a trasmutarsi in un essere nuovo e
libero; come feto fragile ed incompleto, egli si sente destinato ad essere rigenerato in un essere
adulto e perfetto. Sotto ogni punto di vista l'uomo e' quell'essere che e' mosso da un desiderio
profondo, da una sete insaziabile, da una inquietudine radicale che nulla appaga. E questo perché
egli nel profondo del suo essere sa di essere orientato verso l'Assoluto, sia che tale desiderio affiori
esplicitamente alla sua coscienza, sia che esso rimanga implicito nei suoi atti di conoscere, amare e
decidere in libertà e responsabilmente. Questi sono gli accenti, i desideri e le elevazioni che
troviamo nei mistici di tutti i tempi. Questo e' ciò che essi intendono quando parlano delle
profondita' della persona umana, della sua interiorita', della sua anima o del suo spirito.
L'essere umano quindi e’ chiamato a passare per l’intima dinamica che lo muove dal finito
all’infinito, dall’esteriore all’interiore, dal molteplice all’Uno. Proprio la perdita di questa
dimensione spirituale, che e' la dimensione mistica, e’ la causa della profonda crisi dell’uomo
moderno. Questi, nonostante il grande progresso realizzato con le scienze positive, sembra aver
perso il senso della propria esistenza, della sua identità umana. L'uomo moderno infatti si trova in
uno stato di disgregazione, di caduta in un esteriorismo vuoto e sempre più meccanicizzato e
robotico. E' stato detto infatti che: "L'uomo ha creato la macchina, e si e' trasformato in sua
immagine e somiglianza", anzi egli si e' messo a suo servizio.
Invece e' proprio la ricerca spirituale che realizza l'essere umano nel suo profondo facendolo
diventare sempre più umano, cioè facendolo passare dallo stato di 'ominide' (come semplice specie
animale) allo stato di 'umano', come essere cosciente e responsabile del suo destino. E' interessante
notare che la radice indo-europea per designare l'essere umano, *men/man (da cui il tedesco mann,
l'inglese man, il sanscrito mánu, ecc.), denota in primo luogo il pensiero e la coscienza come sua
prima caratteristica: fra tutti gli animali l'uomo si manifesta come quell'essere che 'pensa', che sa',
che ha coscienza del suo esistere.
Far ricuperare quindi all'essere umano la sua dimensione di 'essere-per-la-trascendenza',
come homo viator, cioè come essere orientato, in cammino, aperto all'incontro con l'Assoluto,
rimane uno dei compiti fondamentali delle religioni in generale e dei loro cammini mistici in
particolare. Su questo punto possiamo trovare una larga convergenza fra di essi ed questo può
divenire un fecondo campo di dialogo fra di loro, anche se ciascun cammino mistico segue dei
percorsi specifici alla propria tradizione religiosa. Anche i sufi, i mistici musulmani, hanno lasciato
pagine di riflessioni stupende sulla reale 'vocazione' dell'uomo, come essere orientato
19
essenzialmente a Dio. Al centro della loro riflessione sta' infatti un noto hadith (detto attribuito al
Profeta dell'Islam, Muhammad) che afferma: "Colui che conosce sé stesso (lett. la sua anima),
conosce il suo Signore".24 I sufi infatti hanno sperimentato che nel fondo dell'anima umana c'e' un
passaggio, un'apertura verso il suo Signore, l'Assoluto. Questo hadith, com'e' noto, e' stato il motore
e il centro di ricche speculazioni dei sufi sull'anima umana ed i suoi stati.
a. Il cammino sufi e le sue tappe.
Da tale presupposto il sufismo ha sviluppato un'analisi attenta e dettagliata degli stati
interiori dell'essere umano. L'essere umano infatti non nasce già perfetto, ma deve camminare verso
la sua perfezione attraverso tappe e stadi molteplici. L'idea del cammino (in arabo sulûk), delle sue
tappe (manâzil, maqâmât), dei suoi stati interiori (ahwâl), ha occupato grande parte delle riflessioni
dei sufi. E' qui che si e' innestata in Islam l'idea della 'via mistica' (tarîqa), che si e' poi organizzata
anche esteriormente a tale scopo. C'e' un'immensa letteratuta al riguardo e su questo punto si
trovano facilmente paralleli nelle altre mistiche. Nel Cristianesimo, ad esempio, abbiamo tutta una
vasta letteratura sulle 'scale del paradiso', come pure classica e' rimasta in esso la divisione delle
tappe della vita interiore in via purgativa, via illuminativa, via unitiva. Occorre però sottolineare
che il fine ultimo del cammino mistico non sono gli stati interiori, ma l'incontro, l'unione con
l'Assoluto, unico termine ultimo del peregrinare umano. I grandi maestri mistici di tutte le tradizioni
metteranno sempre in guardia i loro discepoli dal pericolo di cadere nel tranello di scambiare gli
stati interiori con il loro termine ultimo. C'e' qui il rischio di cadere in ciò che i sufi hanno sempre
denunciato come idolatria, cioè 'l'associazionismo nascosto' (al-shirk al-khafî), che consiste nel
mettere qualcosa alla pari, insieme con Dio: questa e' considerata la più grave mancanza nel
cammino sufi.
b. Le dimensioni dell'essere umano.
Il cammino mistico intende realizzare le dimensioni ontologiche fondamentali dell'essere
umano. Nella visione islamica l'essere umano e' qualificato da tre categorie: egli e' 'il servo ('abd),
il vicario o luogotenente (khalîfa) e l'immagine di Dio' (sûra)'.25 L'essere umano e' prima di tutto 'il
servo di Dio' ('abd Allâh), egli e' cioè in assoluta dipendenza da Dio, totalmente relazionato a Lui.
Questo qualificativo non significa uno svilimento dell'essere umano, ma la fonte della sua nobilta'.
Attuando totalmente e coscientemente tale dipendenza assoluta da Dio, l'uomo-servo ('abd) incontra
un Signore che lo onora, facendolo partecipe della sua signoria sulle creature, in forza della quale
l'uomo viene chiamato ad essere il 'vicario o luogotenente (khalîfa) di Dio' sul creato. Ma tutto ciò
e' fondato sul fatto che l'essere umano e' stato creato ad 'immagine (sûra) di Dio'. Egli quindi può e
deve riprodurre in sé i tratti (khuluq) di Dio: "Rivestitevi dei tratti di Dio", e' pure un importante
hadith che e' diventato uno dei punti base del cammino sufi. 26 Tutto ciò infine e' sfociato (ad
esempio nel sufismo di Ibn 'Arabî) nell'elaborazione dell'idea dell'Uomo perfetto (al-insân alkâmil): l'essere umano e' visto come il micro-cosmo, specchio delle qualita' divine e sintesi delle
manifestazioni del Reale-Assoluto (haqq).
Queste speculazioni dei sufi ricordano temi paralleli della mistica cristiana. Anche nella
visione cristiana l'essere umano e' servo-immagine di Dio, incaricato della cura della sua creazione.
20
Allo stesso modo le speculazioni dei sufi sull'idea dell'Uomo perfetto (al-insân al-kâmil) possono
essere messe in parallelo con quelle dei mistici cristiani sulla 'divinizzazione' (theopoiêsis)
dell'essere umano, con beninteso tutte le differenze provenienti dalle differenti visioni di fede.
In conclusione, l'antropologia dei sufi e dei mistici cristiani può offrire ampi spazi per uno
scambio, in si può realizzare una mutua comprensione ed arricchimento, in breve per un reale
dialogo fra di essi. Questi temi poi dovrebbero aprire ampi spazi di una collaborazione concreta
diretta a salvare l'uomo contemporaneo dalla sua disgregazione, e dalla sua robotizzazione sotto la
spinta dell'ideologia dell'attuale consumismo tecnologico.
3-2. Attraverso le incognite dimensioni del cosmo.
L'essere umano e' collocato in un universo che si estende verso dimensioni sempre più
misteriose. E tuttavia e' in esso e attraverso di esso che l'essere umano e' chiamato a realizzare la
sua perfezione. Anche questo punto può divenire un ampio e fecondo campo di scambio e dialogo
fra le due tradizioni mistiche. Ambedue le tradizioni infatti affermano che l'universo non può essere
ridotto a 'semplice materiale' manipolabile a piacere dall'uomo: l'universo e' invecee lo spazio del
cammino umano verso l'Assoluto.
Un maestro sufi contemporaneo, Hussein Nasr, afferma che l’universo nella visione sufi ha
due dimensioni o due aspetti fondamentali: uno mutevole ed uno permanente. L’aver dimenticato
l’aspetto della permanenza di esso per concentrarsi solo sull’aspetto della mutabilita’ e della
sperimentabilita’ empirica e’ stato, secondo Hussein Nasr, il grande sbaglio della scienza moderna.
Questo ha portato ad una visione secolarizzata dell’universo, alla distruzione della sua dimensione
sacra, e come consequenza alla distruzione della dimensione sacra dell’uomo che in esso e’ situato,
fino al punto di smarrirne completamente il senso. Di conseguenza si e’ avuta una caduta totale di
valori, ed un concentrarsi solo sugli aspetti materiali e utilitaristici della natura che ha portato ad
uno smodato sfruttamento delle sue risorse. Le conseguenze di tale atteggiamento si fanno sentire
ormai al punto che anche i secolaristi cominciano ad accorgersi che occorre un progetto di sviluppo
'piu’ umano', basato su di una visione totale ed integrale dell’universo, di cui essi però hanno ormai
perso la chiave di lettura. Per questo occorre ritornare a ciò Hussein Nasr chiama la ‘scienza
qualitativa’ delle grandi tradizioni religiose che da sempre hanno letto l’universo come l’essere
relativo, mutevole, che deve essere necessariamente rapportato all’Assoluto che lo sostiene. Il senso
profondo infatti del relativo e contingente e’ di essere manifestazione dell’Assoluto e Necessario.
E’ solo ricuperando il senso 'spirituale' dell’universo che la scienza moderna potra’ uscire
dal pericolo di divenire fattore di distruzione e non di sviluppo dell’universo, e dell’umanità' in
esso. L’uomo infatti deve ricuperare il profondo senso simbolico della natura, come manifestazione
dell'Assoluto. Nella cosmologia antica ciò era indubbiamente più facile. L'universo era immaginato
come composto da una serie di livelli che si estendevano dalla terra ai cieli, e il tutto era orientato
spontaneamente verso il 'Supremo sedente sul suo trono che tutto sovrasta'. In questa visione il
cosmo esteriore (l'universo) trovava facili paralleli con il cosmo interiore (l'anima umana): l'essere
umano infatti era concepito come il micro-cosmo, specchio-immagine del macro-cosmo. Una
lettura 'spirituale' dell'universo era indubbiamente più facile per gli antichi.
21
Ora però, con i progressi della scienza moderna, tale lettura 'spirituale' dell'universo e' meno
facile. La moderna visione dell'universo ha indubbiamente frantumato l'armonia, i simbolismi ed il
senso della visione antica. Noi fatichiamo ora ad integrare nella nostra spiritualita' la moderna
visione di un universo in espansione-evoluzione, sorto dal Big-bang iniziale, e mosso quasi 'a caso'
da formidabili forze di cui solo ora cominciamo conoscerne la dinamica, senza avere un chiaro
scopo prefisso, anzi secondo alcuni, senza nessuno scopo prefisso. Lassu' non ci sono più cieli
abitati da forme angeliche con influssi benefici o malefici sugli abitanti del pianeta terra, ma solo
ammassi di galassie in rapidissima espansione, agitate dalle quattro forze fisiche fondamentali
(almeno per quanto ora sappiamo), e dirette non si sa dove. Di qui l'interrogativo: che senso ha tutto
questo per la vita spirituale? E' possibile continuare in una dicotomia fra visione scientifica e
visione mistica dell'universo? E' sufficente ripetere nei nostri testi gli schemi cosmologici del
passato, quando orami viviamo in una realtà completamene diversa?
Queste domande richiedono una risposta che rimane in gran parte una sfida formidabile per
tutte le mistiche e le spiritualita' contemporanee. Le soluzioni mitologiche si sa sono una tentazione
permanente, perché più facili ed immediate. Da parte cristiana ci sono stati alcuni tentativi di
risposta, a tali problematiche, il più noto dei quali e' quello del gesuita paleontologo Teillhard de
Chardin (m. 1954 ?). Egli ha cercato una integrazione teorica ed esistenziale fra i dati della scienza
moderna e la visione cristiana dell'universo, sviluppando una mistica 'della terra', partendo cioè dal
cosmo come e' descritto dalla scienza moderna e integrando tale visione scientifica in una adeguata
visione cristiana in cui il Cristo totale che diviene il punto Omega verso cui sale l'evoluzione
cosmica. Teillhard de Chardin e' stato un ispiratore per molte persone in cerca di un'armonia ed una
complementarieta' fra scienza e fede. Tuttavia anche la sua risposta non e' la risposta definitiva alle
domande 'cosmologiche' della spiritualita' contemporanea in confronto con lo sviluppo scientifico
moderno. La ricerca in tale senso deve continuare.
Anche da parte islamica una riflessione simile sembra possibile riprendendo certe
interessanti intuizioni di sufi come Ibn 'Arabî, Jalâl al-Dîn Rûm, ed altri.
In conclusione, anche qui troviamo un campo aperto per un incontro e dialogo fra esperienze
mistiche diverse, in particolare fra quella cristiana ed musulmana, per un impegno comune nella
ricerca di una visione dell'universo che integri i dati della scienza con l'esperienza religiosa. Anche
qui tale dialogo deve maturare in un impegno per una nuova prassi che salvi l'essere umano e il suo
ambiente dalla distruzione del consumismo tecnologico contemporaneo.
3-3. Verso l'abisso del mistero di Dio.
L'Assoluto, termine ultimo delle aspirazioni del cuore umano, per essere veramente
Assoluto non può essere un prodotto dell'uomo stesso: sarebbe un idolo, quindi un inganno ancora
più profondo e radicale. L'Assoluto, termine ultimo del pellegrinare umano, si rivela in ultima
analisi come ciò che vi e' di più indispensabile e necessario all'uomo e, nello stesso tempo, come ciò
che e' più indipendente da lui e che può essere ricevuto solo come libero dono e grazia, al riparo da
ogni presa o manipolazione umana. L'Assoluto infatti resta sovranamente libero di sé stesso: egli si
22
comunica come vuole e dove vuole, senza alcuna previa condizione impostagli da chicchessia.
L'uomo può quindi incontrare l'Assoluto solo là dove l'Assoluto si fa incontrare. Il dramma quindi
della ricerca esistenziale dell'uomo può essere riassunto in questi termini: l'uomo e' quell’essere che
e' alla ricerca del senso profondo e reale del suo esistere, di ciò che vi e' di più indispensabile e
necessario per lui, e tuttavia egli non può raggiungere tale meta ed ottenere tale scopo se non come
assoluto dono e pura grazia. Anche su tale punto troviamo convergenze e consonanze fra le varie
tradizioni mistiche, e fra quella cristiana e islamica in particolare. Noto e' l'apologo di Farîduddîn
'Attar (m. 1221), nel suo libro Parole di uccelli. Quando i trenta uccelli giungono alle porte del
palazzo di Simurgh, l'uccello misterioso della Cina, si sentono rispondere che se essi hanno bisogno
di Lui, Egli non ha bisogno di essi: Dio e' pur sempre l'Autosufficente, indipendente (ghanî) dalle
sue creature e dalle loro richieste.
Ma tale Assoluto, deve per forza rimanere solo un orrizzonte lontano, verso cui l'uomo
proietta la sua esistenza senza nessuna risposta? Non può Egli farsi presente nella storia e svelarsi
esplicitamente al pellegrino umano? E chi può porre previe condizioni al essere ed all'agire
dell'Assoluto? Il cammino verso di Lui, se vuole essere autentica ricerca di Lui, non può essere fatto
che nell'umilta' e nell'attesa di un suo possibile avvento nella storia umana. L'inesausta attesa umana
può essere considerata come l'unico presupposto che Egli stesso ha messo nel cuore dell'uomo per
potersi svelarsi e donarsi a lui. L'esperienza comune di tutti i mistici di tutte le tradizioni religiose
dice che e' necessario uno svuotamento totale dell'essere umano davanti all'Assoluto in modo che
possa essere riempito di Lui solo. I sufi hanno parlato a lungo del fanâ' (annientamento) e per
giungere al baqâ' (sussistenza in Dio), termini che richiamano il 'tutto e nulla' (todo y nada) di tanta
parte della tradizione mistica cristiana.
Ma quando l'Assoluto irrompe nella storia umana, questa allora assume un senso nuovo, una
dimensione particolare: i suoi segni, presi dal mondo creato, si caricano di sensi e orizzonti nuovi,
che trascendono i limiti del creato. I mistici sono coloro che hanno sperimentato ed espresso in
modo più reale questa inesausta tensione fra il creato categoriale e l'Assoluto trascendente. Il vero
mistico, a qualunque tradizione religiosa appartenga, e' colui che ha vissuto nel modo più radicale
tale incontro con l'Assoluto e, come Mose', sul monte Sinai, ne e' stato trasfigurato. E' su tale
esperienza personale che nasce in lui una sensibilita' particolare verso ogni altra esperienza
dell'Assoluto. Questa forse e' la ragione per cui i mistici delle differenti tradizioni religiose hanno
una strana sintonia di sentimenti e una impressionante affinita' di espressioni. Essi si sono infatti
avvicinati alla stessa sorgente ed hanno attinto alla stessa acqua, che contiene in sé tutti i più diversi
sapori.
L'Assoluto quindi viene sperimentato dai mistici nello stesso tempo nella sua trascendenza e
nella sua immanenza, nella sua unita' e molteplicita', nella sua semplicita' e varieta'. Nessuno di tali
aspetti può essere isolato e negato, perché appunto l'Assoluto in quanto tale non può che essere la
coincidentia oppositorum, cioè la sintesi degli opposti, al di là delle distinzioni della ragione
misuratrice e calcolatrice ('aql), come i mistici di tutte le religioni non si stancano di ripetere. Il
mistico a differenza del teologo, non ha paura di immergersi nelle aporie del paradosso che sorpassa
le nostre categorie razionali, e questo perché il mistico e' guidato da una percezione più profonda
23
della realtà. L'Assoluto infatti si presenta sempre come il Mistero che e' compreso tanto in quanto
non e' compreso, perché 'se lo comprendi, non e' Dio' (S. Agostino). Anche questo tema può e deve
diventare un ampio campo di scambio fra le varie tradizioni mistiche.
Nel pensiero islamico il problema della proclamazione dell'unita' di Dio (tawhîd) unita alla
realtà dei suoi attributi ha affaticato a lungo il pensiero dei teologi senza arrivare ad una soluzione
chiara. Credo che solo nei sufi tale problema ha ricevuto una soluzione più reale perché essi non
hanno avuto paura di inoltrarsi nei 'paradossi dell'Uno'. Per il sufi andaluso Ibn 'Arabî, ad esempio,
il sommo della proclamazione dell'unita' di Dio (tawhîd) non e' nell'affermazione di un'astratta
unita' divina (come e' intesa dalla maggior parte dei credenti ed anche dai teologi). Il vero tawhîd
per Ibn 'Arabî consiste infatti nell'affermare l'unita' divina nella molteplicita' delle sue automanifestazioni (tajalliyyât). Queste auto-manifestazioni (tajalliyyât) sono aspetti del Reale
Assoluto (haqq) che e' sempre e nello stesso tempo Uno e molteplice, Creatore e creatura, a seconda
dei punti di vista da cui lo si considera. Il Reale Assoluto (haqq) inoltre non deve essere concepito
come in uno stato statico, ma come un dinamismo inesausto di essere, mosso da una misteriosa
forza originaria trascendente e creatrice: l'Amore (hubb). Il movimento originale per cui l'Essenza
divina ('il tesoro nascosto' del noto hadith) si manifesta in una serie infinta di auto-manifestazioni e'
l'Amore (hubb). In un celebre passo delle sue Perle della saggezza Ibn 'Arabî proclama:
"Il movimento che e' l'esistenza del mondo fu un movimento di amore... Senza tale amore il
mondo non sarebbe venuto all'esistenza; quindi il movimento dal nulla all'esistenza e' il
movimento del Creatore verso di essa... Resta quindi provato che il movimento fu un
movimento di amore, e che quindi non c'e' movimento nell'universo se non in relazione ad
esso".27
Sulla base di tale visione molti sufi hanno sviluppato ardite speculazioni sull'Essere divino,
frutto di particolari esperienze interiori. Alcuni di loro hanno parlato di una misericordia essenziale
(rahma dhâtiyya), e altri di un'amore originario (mahabba asliyya) in Dio stesso, affermando quindi
che la molteplicita' non si trova al di fuori di Dio, ma nell'Essere divino stesso e scaturente da esso.
Basta questi accenni per far vedere come anche qui c'e' un ampio spazio di riflessioni che
potrebbero portare a dei parallelismi straordinari, impensati finora, fra le varie esperienze mistiche,
in particolare quelle delle tre religioni abramitiche.
E' qui che a mio avviso si protrebbe trovare un punto di incontro su di una questione che da
secoli ha diviso e contrapposto cristiani e musulmani con reciproci anatemi e condanne, non solo
teorici: intendo il monoteismo islamico e la Trinita' cristiana che sono stati visti nella controversia
teologica del passato come dogmi che si escludono e si negano senza alternativa. Non si tratta di
annullare le differenze che esistono fra le due tradizioni religiose, ma di capire le problematiche,
simili da molti punti vista, che esistono in esse e che possono portare al superamente di atavici
pregiudizi.
Il problema di fondo che si pone a tutte e due le tradizioni e' il seguente: Dio rimane
necessariamente chiuso nella sua trascendenza, come in un limite invalicabile, oppure Egli e' libero
24
e potente di dare non solamente delle cose e delle qualita', ma di comunicare 'Se' stesso' alle sue
creature? La fede cristiana ha espresso tale esperienza nell'affermazione "Dio e' amore" (1 Gv. 4,
8.16). In tale visione, l'essere-Dio significa in primo luogo non il suo isolamento in un'unita'
trascendente e assoluta, ma la trascendente capacita' di comunicare Se' stesso, proprio Se' stesso, al
di fuori di Se' stesso, in una auto-comunicazione libera sì, ma anche totale. La fede cristiana vede
che la creazione stessa e' in fondo una prima auto-comunicazione che potremmo dire 'esterna' di
Dio. Ma tale auto-comunicazione esterna di Dio ha la sua radice e la sua fonte nell'autocomunicazione interna di Dio da Se' stesso a Se' stesso. Dio infatti e' per essenza comunione, perché
Dio e' in Se' stesso l'eterno Amore, eternamente Amante e Amato; questo e' il fondo del mistero
trinitario. Ed e' proprio per questo che Egli crea, ed proprio per questo che Egli e' e rimane libero e
capace di comunicare non solo delle cose, ma Se' stesso, proprio Se' stesso al di fuori di Se' stesso
alle sue creature che rimangono libere di accettarla o no. Questa e' la radice della 'divinizzazione'
(theopoiêsis) dell'essere umano che i Padri della Chiesa hanno espresso nel noto teologumenon:
"Dio si e' fatto uomo affinche' l'uomo diventi Dio". Questo tema , come e' stato accennato, trova dei
paralleli nelle speculazioni ardite dei molti sufi sull'idea dell'Uomo perfetto (al-insân al-kâmil).
In ogni caso, il problema dell'unita' e della molteplicita' in Dio sta ben al di là della
semplicistica aporia matematica dell'uno e del tre, come e' intesa dai comuni credenti, ed e' stata
fissata nella secolare polemica dei teologi. L'aspetto paradossale dell'unita' divina era stato
intravvisto al di là delle speculazioni dei teologi dalle più profonde ed ardite intuizioni dei sufi.
Questi ultimi infatti hanno intuito che l'abisso dell'Essere divino e ' mosso da un'insondabile
Mistero di 'misericordia e amore essenziali'. Sono questi che hanno mosso il 'tesoro nascosto'
(secondo il noto hadîth), cioè l'Essenza divina, ad espandersi in una serie infinita di automanifestazioni che da Lui partono e a Lui ritornano. Qui si apre certamente un ampio spazio di
dialogo e scambio per una mutua comprensione fra le due tradizioni mistiche, quella cristiana e
quella musulmana.
4. Conclusione: verso delle spiritualita' in dialogo.
A conclusione di tali brevi accenni ai possibili campi di dialogo fra la mistica cristiana e il
sufismo, o meglio tra i mistici cristiani e i sufi, mi pare importante mettere in rilievo l'urgenza di
tale dialogo non solo tra cristiani e musulmani ma anche con le tradizioni mistiche delle altre
religioni senza porre condizioni e limiti. Infatti più che parlare di schemi o teologie di dialogo
occorre che le differenti tradizioni spirituali entrino in un dialogo concreto tra di loro, dialogo in cui
ciascuna si possa presentare con la propria identità ed originalita' ma in un'attitudine de apertura,
accettazione e comprensione delle altre tradizioni mistiche,cioè 'dell'alterita' dell'altro'.
Da molte parti infatti sale un appello urgente ed insistente per un ritorno alla ‘sapientia
perennis’, cioè a quella saggezza umana che e' comune a molte tradizioni religiose dell’umanità’ e
che e’ stata da sempre la linfa vitale della storia umana. E' tale saggezza che e' chiamata ora a dare
un senso alla nostra storia umana contemporanea, storia in cui l'essere umano e' in pericolo di una
25
perdita totale della propria identia', per essere inghittito in una 'robotizzazione' totale. A tale scopo
molte persone spirituali del nostro tempo hanno dedicato tutti i loro sforzi per fare incontrare le
varie tradizioni religiose dell’Occidente e dell’Oriente. Ricordiamo qui, solo a titolo di esempio,
oltre al citato Sayyed Hossein Nasr da parte musulmana, il monaco benedettino Bede Griffiths e il
monaco buddista Thich Nhat Hanh.28 Queste persone hanno dedicato gran parte della loro vita e del
loro lavoro a fare incontrare le spiritualita' delle differenti religioni, convinte che solo così si potra'
salvare l'umanità' del nostro tempo.
Persone come queste sono estremamente necessarie al nostro tempo per far riacquistare
all’uomo tecnologico contemporaneo le dimensioni umane della sua esistenza, dimensioni che
trovano le loro radici in quella ‘sapientia perennis’, che ha ispirato nel passato le sue grandi
tradizioni culturali e religiose dell'umanità'. L’uomo tecnologico e’ urgentemente chiamato ora,
all’inizio del terzo millennio, a ricorreggere la rotta della sua impresa razionalista-scientista e
tecnologica-consumista per creare una profonda sintesi fra scienza e tecnologia da una parte, e
saggezza e sapienza spirituali dall’altra. Questo se egli vuole evitare di andare incontro ad un autoannientamento.
Questo e’ quanto predicano i saggi, i profeti del nostro tempo; e speriamo che le loro voci
non risuonino in vano nei deserti delle nostre citta' tecnologiche.
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Preghiere dei mistici.
Presentiamo qui alcuni testi mistici per far gustare ciò che e' stato detto sopra in modo
teorico.
1. Râbi’a al-’Adawiyya (m.185/801) 29
Amare Dio per se stesso.
O mio Dio!
Tutto il bene che hai decretato per me in questo mondo donalo ai tuoi nemici.
Tutto quello che hai preparato per me in Paradiso donalo ai tuoi amici.;
Io invece non cerco che Te solo”.
“O mio Dio!
Se Ti ho adorato per paura dell’Inferno, bruciami nel suo fuoco.
Se Ti ho adorato per speranza del Paradiso, privami di esso.
Ma se non Ti ho adorato che per Te solo,
non privarmi della contemplazione del Tuo volto.
L’amore perfetto
Ti amo di due amori (hubb):
uno e' frutto della mia passione.
e uno di cui Tu solo sei degno.
L'amore di passione fa' sì che io mi occupi
del Tuo solo ricordo (dhikr),
escludendo ogni cosa che non sia Tu.
L'amore di cui Tu solo sei degno
sopravviene quando Tu alzi i veli
sicché io Ti veda (ru'ya).
Nessun lode va a me in questo (amore) o in quello,
ma a Te va ogni lode
e in questo (amore) e in quello.
2. Dhû l-Nûn al-Misrî (m. 245/859) 30
27
Le creature proclamano l’unicita’ di Dio
O mio Dio,
non ho mai inteso il grido di un animale,
né il fruscio delle fronde degli alberi
né il mormorio dell’acqua
né il soave canto degli uccelli,
né percepito il dolce invito dell’ombra,
o il sibilo del vento,
o il fragore del tuono,
senza constatare che essi testimoniano della Tua Unicità,
che nulla al mondo è uguale a Te,
che Tu domini e non sei dominato,
che Tu sai tutto e niente ignori,
che Tu sei misericordioso e non opprimi con i tuoi rimproveri,
che Tu sei giusto e non commetti ingiustizia,
che Tu sei veritiero e non menti mai.
Il cammino spirituale
O Dio, mettici fra coloro
i cui spiriti sono volati verso il Regno,
per i quali i veli della Maestà sono stati tolti,
che si sono immersi nei fiumi della certezza,
che hanno camminato nei giardini dei tuoi devoti,
che hanno vagato sulla barca dell’abbandono,
che hanno aperto la vela dell’impetrazione del perdono,
che il vento dell’amore ha spinto attraverso i gradi della vicinanza della
gloria fino ai fiumi della retta intenzione,
che hanno lasciato dietro a sé gli atti di ribellione, non portando con sé che
gli atti di obbedienza,
e tutto questo grazie alla Tua misericordia,
o Tu, il più misericordioso dei misericordiosi!
3. Yahyâ Ibn Mu’âdh al-Râzî (m. 258/871) 31
Dio, mio unico sostegno
28
O mio Dio,
il mio argomento presso di Te
è il mio bisogno di Te;
la mia risorsa per venire a Te
è la mia povertà;
il mio mezzo per raggiungerTi
è il dono della Tua grazia per me;
il mio intercessore presso di Te
sono i tuoi benefici per me.
O mio Dio,
come gioire, dato che Ti ho offeso?
come non gioire, dato che Ti ho conosciuto?
come invocarti, dato che sono peccatore?
come non invocarti, dato che Tu sei il Generoso?
Dio, mia unica speranza.
O mio Dio,
mio Signore, mia Speranza,
Tu solo porti a compimento i miei atti.
O mio Dio,
Ti invoco con le parole del mio sperare,
poichè mute sono le parole delle mie azioni.
O Dio,
quanto dolce è l’irrompere della Tua ispirazione
nel profondo dei cuori!
Quanto dolci sono le segrete conversazioni con Te
sulle realtà dell’Invisibile!
O mio Dio,
se il giorno della risurrezione mi chiederai:
“O mio servo, che cosa ti ha attirato in me?”.
risponderò: “Signore, la Tua generosità per me.
E se anche Tu mi facessi entrare
nel Fuoco tra i Tuoi nemici,
anche a loro racconterei che nel mondo
Ti ho amato
29
poichè Tu sei il mio Signore,
Tu sei il mio Bene,
con Te non ho bisogno di altri beni”.
O mio Dio,
se Tu mi salverai, lo farai per la Tua misericordia;
se Tu mi condannerai, lo farai per la Tua giustizia.
Io accetto volentieri qualsiasi stato,
poichè Tu sei il mio Signore
ed io sono il Tuo servo.
Tu sai che io non ho forze
per sostenere il Tuo Fuoco;
né ho meriti
per entrare nel Tuo Paradiso:
non ho altro sostegno che il Tuo perdono.
O mio Dio,
mio Signore, mia Gioia!
La Tua generosità mi ha distratto
dal vedere la malvagità delle mie azioni:
eppure questa è la mia perdizione!
La mia gioia per il Tuo favore mi ha distratto
dal vedere la bontà delle mie azioni:
eppure questa è la mia salvezza!
La mia gioia per Te mi ha distratto
dalla mia gioia per me!
4. Al-Hallâj (m. 309/922)
Labbayka, labbayka: Eccomi a Te, eccomi a Te. 32
(parole che il pellegrino dice arrivando alla meta del suo pellegrinaggio).
Quando, come pellegrino, al-Hallâj si fu avvicinato al territorio sacro prego' così:
Eccomi a Te, eccomi a Te,
mio segreto e mio confidente.
Eccomi a Te, eccomi a Te,
mio fine e mio significato.
30
Io Ti invoco,
no, sei Tu che mi chiami a Te.
Sono io che Ti invoco,
o sei Tu che parli a me, nel mio intimo?
O essenza dell'essenza della mia esistenza!
O termine ultimo del mio agognare!
O Tu, mia parola, mia espressione, mio balbettare!
O Tutto del mio tutto!
Mio udito, mia vista, mia totalita',
Mia totalita' e mie parti!
O Tutto del mio tutto!
Il Tutto del Tutto e' rivestito di mistero,
e il Tutto del Tuo Tutto si e' rivestito del mio spirito!
O Tu!
In Te il mio spirito e' come sospeso,
ormai consumato nell'estasi:
Tu sei il mio pegno in tale ambascia!
Io piango il mio dolore lontano dalla mia patria
per obbedire a Te:
anche i miei nemici partecipano ai miei lamenti.
Vorrei avvicinarmi,
ma la paura mi tiene lontano e tremo
per un desiderio nel profondo del cuore!
O mio Signore,
che fare con un tale Amato
di cui sono perdutamente innamorato?
La mia malattia ha stancato i miei medici,
essi mi dicono:"Fatti curare da Lui con Lui!".
Rispondo:"Gente mia, può uno farsi curare da un male
con il male stesso?".
L'amore per il mio Signore
mi ha logorato, sfinito:
come lamentarmi del mio Signore
al mio Signore?
Certo, io Lo intravvedo e il mio cuore Lo riconosce,
31
ma nulla può esprimerLo,
se non uno sguardo furtivo.
Ah! Guai al mio spirito a motivo del mio spirito!
Guai a me a causa di me!
Io sono l'origine stessa della mia disgrazia!
Sono come un naufrago sommerso in alto mare:
solo le sue dita affiorano per invocare aiuto!
Nessuno può capire ciò che mi e' capitato,
se non Colui che abita al fondo del mio cuore:
Egli conosce il mio male,
da Lui dipende il mio vivere
o il mio morire.
O mia domanda suprema!
Mio sperare! Mio ospite! Vita del mio spirito!
Mia fede! Mia porzione in questo mondo!
Di' a me: "Io ti ho riscattato!
O mio udito e mia vista!
Perche' persistere
nel tenermi lontano?
Per quanto Tu ti nasconda ai miei occhi,
nell'invisibile,
il mio cuore contempla
il Tuo apparire
in distanza, da lontano.
5. Muhyî al-Dîn Ibn ‘Arabî (m. 638/1240).
Invito all’amore 33
O mio diletto, ascolta!
Io sono la realtà del mondo,
il suo centro e la sua circonferenza,
le sue parti ed il suo tutto.
Io sono la volonta’ fissata fra il cielo e la terra,
non ho creato in te la sua percezione
32
se non per essere io stesso oggetto della mia percezione.
Se dunque tu mi percepisci, percepisci te stesso,
ma non riusciresti a percepirmi attraverso te stesso.
E’ attraverso il mio occhio
che tu vedi me e vedi te stesso,
non e’ col tuo occhio che puoi percepirmi.
O mio diletto,
quante volte ti ho chiamato
e tu non mi hai sentito!
Quante volte mi sono mostrato a te
e tu non mi hai visto!
Quante volte mi sono trasformato in soavi effluvi
e tu non te ne sei accorto,
quante volte in cibo squisito
e tu non l’hai gustato!
Perche’ non puoi raggiungermi
attraverso gli oggetti che tocchi,
o respirarmi attraverso i profumi?
Perche’ non mi vedi?
Perche’ non mi senti?
Perche’? Perche’? Perche’?
Per te le mie delizie superano
tutte le altre delizie,
e il piacere che ti procuro supera
tutti gli altri piaceri.
Per te sono preferibile
a tutti gli altri beni.
Io sono la bellezza,
io sono la grazia.
O mio diletto, amami!
Ama me solo, amami d’amore!
Nessuno ti e’ più intimo di me!
Gli altri ti amano per se stessi,
ma io ti amo per te stesso:
e tu, tu fuggi lontano da me!
33
O mio diletto,
tu non puoi trattarmi con equita’:
se tu ti avvicini a me
e’ perché io mi sono avvicinato a te.
Io sono più vicino a te di te stesso,
della tua anima, del tuo respiro.
O mio diletto,
andiamo verso l’unione...
andiamo con la mano nella mano.
Entriamo al cospetto della verità,
che sia lei il nostro giudice
e imprima il suo sigillo sulla nostra unione
per sempre”
6. Jalâl al-Dîn Rûmî (m. 672/1273)
Quando sara’?....34
Quando sara’ che questa gabbia divenga un giardino fiorito,
e degna divenga ch’io vi passeggi in letizia?
Quando questo veleno mortale si fara’ miele
e questa spina pungente sara’ gelsomino?
Quando quella luna di quattordici giorni sara’ stretta al mio seno?
Quando l’invidioso maligno sara’ triste e scornato?
Quando il sole ci proteggera’ coi suoi raggi?
Quando quel cero restera’ nel mio candeliere?
Quando quel liuto di gioia troverà nuovi accordi
e questo orecchio si adattera’ al tan-tan del suo ritmo?
Quando nel campo del cielo avremo raccolti di Luna e di Spica?
Quando la luce di Canopo brillera’ sullo Yemen?
Quando le giare del vino d’amore traboccheranno
e sara’ il momento di saporosi festini e banchetti?
34
Quando il Sîmorgh delle nostre brame arrivera’ dai monti Qâf
e cadra’ nella rete di uno Shiblî e di un Abû l-Hasan?
Quando ogni atomo di pulviscolo diverra’ come un sole
e ogni goccia, per grazia di Dio, diverra’ un Paradiso?
Quando ogni agnello berra’ latte di lupa
e ogni elefante sara’ amico del rinoceronte?
Quando, per la folla delle belle dal volto di luna,
ogni angolo della nostra citta’ diverra’ come regno di Cina?
Quando ogni amante sconvolto e disperato
sara’ immerso nelle gioie d’amore?
Quando la salma dei morti risorgera’ a vita
e sara’ liberata da lenzuoli e sudari?
Quando la sciocca ragione diverra’ fremente follia
e l’intelletto si liberera’ dalla sottomissione ad un corpo?
Quando l’anima e i cuori di centomila folli d’amore
avranno dolce la bocca per il bacio dell’Amato?
Quando verra’ il giorno che l’anima di tutti gli ebbri
diverra’ coppiera di mille gioconde assemblee,
e quell’arido essere che prendeva a gabbo l’amore
famoso per amore diverra’ fra uomini e donne,
e chiunque sia caduto nel pozzo della separazione
troverà una corda che lo guidi in alto alla luce?
Non dir ciò che resta, conservalo ancora nel cuore:
e’ meglio che la Parola si aggiri in quella patria profonda”
7. ‘Abd al-Karîm al-Jîlî (m. 832/1428)
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Le parole dell’Amato all’Amato 35
Alcuni, interpellati dalla parola divina, sentono in se stessi l’invito della Realtà essenziale e
percepiscono tale parola non (come proveniente) da una parte determinata e senza
l’intervento dei sensi; essi la percepiscono con tutto se stessi, non solo con l’udito; e si
sentono dire:
Tu sei il mio amato, tu sei il mio diletto!
tu il mio desiderato e il mio volto nei miei servitori,
tu il mio termine estremo e il mio fine supremo;
Tu sei il mio segreto nei segreti e la mia luce nelle luci,
tu il mio occhio, il mio ornamento,
tu la mia bellezza, la mia perfezione,
tu il mio nome, la mia essenza, il mio attributo e le mie qualita’;
Io sono il tuo nome, la tua forma, il tuo segno, e la tua traccia, o mio diletto!
Tu sei la quintessenza dei mondi, e il fine dell’esistenza e del divenire.
Vieni vicino per contemplarmi, poiche’ mi sono reso vicino a te nella mia esistenza.
Non restare lontano, poiche’ sono io che ho detto:
”Noi siamo più vicini a lui della sua vena giugulare” (C 50, 15)
Non restare limitato nel nome di servo,
poiche’ senza il Signore non ci sarebbe il servo.
Tu mi hai reso manifesto, come io ti ho reso manifesto:
senza il tuo stato di servitore non ci sarebbe il mio stato di Signore.
Tu mi hai fatto esistere, come io ti ho fatto esistere:
senza la tua esistenza non esisterebbe la mia esistenza.
O diletto mio, avvicinati, avvicinati, innalzati, innalzati!
O diletto mio, ti ho voluto come mio attributo, e ti ho fatto per me,
non voler appartenere ad altri che a me,
e non voler che nessun altro che me appartenga a te.
O diletto mio, sentimi negli odori, mangiami nei cibi,
immaginami nelle immaginazioni, pensami nei ragionamenti!
vedimi nelle figure sensibili, toccami nelle cose tangibili,
rivestimi nei vestimenti.
O amato mio, tu sei ciò che desidero,
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tu sei il nominato quando si nomina me,
tu sei il designato per mezzo di me”
Quanto sono dolci le sue espressioni di amore!
Quanto sono soavi le sue carezze di amore!
E’ stato detto:
“Assorbito da Leilâ, sono stato distratto da ogni altra cosa,
tanto che quando incontro una cosa inanimata le parlo
come se parlassi a lei.
Non e’ meraviglia che io rivolga la mia parola ad altri,
anche alle cose inanimate,
la meraviglia e’ che esse mi rispondono!
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Bibliografia
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17. Martini, Carlo Maria, Orizzonti e limiti della scienza - Decima cattedra dei non credenti,
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23. Race, Alan, Christians and Religious Pluralism, London, SCM, 1983.
39
24. Tracy, David, Dialogue with the other, Louvain, Peeters Press, 1990.
N
ote
1 Per la traslitterazione dei nomi arabi abbiamo scelto la piu' semplice di modo che sia accessibile a tutti.
Abbiamo segnato le vocali lunghe che sono importanti per la pronuncia. Coloro che conoscono l'arabo possono
facilmente risalire alla parola originale.
2
Per un ulteriore approfondimento rimando alla mia antologia storica del sufismo: Giuseppe Scattolin,
Esperienze mistiche nell'Islam, EMI, Bologna, vol. I: L'inizio di un cammino, 1994; vol. II: Secoli X-XI, le tappe di un
cammino, 1996; vol. III: Al-Niffarî e al-Ghazâlî, 2000. A questa antologia rimando per molti testi qui riportati.
3
Esperienze mistiche I, pp. 43-47.
4
Esperienze mistiche I, pp. 49-60.
5
Esperienze mistiche I, pp. 54-60.
6
Esperienze mistiche I, pp. 61-132.
7
Esperienze mistiche I, pp. 103-132.
8
Esperienze mistiche I, pp. 93-102.
9
Esperienze mistiche II, p. 16.
10
Esperienze mistiche II, p. 16.
11
Esperienze mistiche III, pp. 15-49.
12
Esperienze mistiche II, pp. 5-16.
13
Esperienze mistiche III, pp. 157-175.
14
vedi il capitolo sull’amore (mahabba), Esperienze mistiche III, pp. 218-244.
15
ibid. pp. 240-244.
16
Una visione generale del tema 'Uomo perfetto' (al-insân al-kâmil) nelle mistica islamica con le prinicipali
riferenze bibliografiche si trova in Giuseppe Scattolin, 'Realization of ‘Self’ (anâ) in Islamic Mysticisim: ‘Umar Ibn
al-Fârid (576/1181-632/1235)' in Annali 56 (1996), Napoli, Istituto Universitario Orientale, 14-32; in modo piu’
completo in id., 'Realization of ‘Self’ (Anâ) in Islamic Mysticism: The Mystical Experience of ‘Umar Ibn al-Fârid', in
Mélanges de l’Université de St. Joseph, Dar El-Machreq (Beyrouth, Liban), Tome IV (1995-1996) 1999, pp. 119-148;
in modo piu’ riassuntivo 'La realizzazione del ‘Sé’ nel misticismo islamico: ‘Umar Ibn al-Fârid (576-632/1181-1235)'
in La critica sociologica 119 (Autunno, 1996) pp. 1-20, e “L’idea dell’uomo perfetto nella mistica islamica” in Atopon
4 (1996) 63-73.
17
Ibn 'Arabî, Tarjumân al-ashwâq, ed. by Reynold A. Nicholson, London, Royal Society, 1911 p. 19; Beirut,
Dâr Sadr, 1966, pp. 43-44; Schimmel, Dimensions p. 271-272.
18
Giuseppe Scattolin, 'Sufism and Islamic Law: a Text of Ibn ‘Arabî (560/1160-638/1240) on the Protected
People (ahl al-dhimma)', in Islamochristiana 24 (1998) 37-55.
19
Sayyed Hossein Nasr, Sufismo, Milano, 1994.
20
Esperienze mistiche III, pp. 90-91.
21
Per questo rimandiamo alla nostra traduzione di un famoso trattato sufi la ‘Risâla qushayriyya’ (Trattato sul
sufismo), Esperienze mistiche, vol. II.
22
Questo punto e’ sottolineato piu’ volte, contro molte tendenze sincretiste contemporanee, anche da Hossein
Nasr, vedi Sufismo, pp. 17-18 . 37-38 . 57-58.
23
Esperienze mistiche, vol. III,. p. 104.
24
Questo hadith, riportato dalla tradizione sufi, non si trova nelle raccolte canoniche di hadith, vedi Wensink,
Concordances, o.c.
25
vedi il mio articolo 'L'uomo in Islam', (di prossima apparizione).
26
Anche questo hadith riportato dalla tradizione sufi non si trova nelle raccolte canoniche di hadith, vedi
Wensink, Concordances, o. c.; vedi il commento di al-Ghazâlî in Esperienze mistiche III, p.241.
27
Fuûs al-hikam, Abû 'Alâ 'Afîfî (ed.), Beirut, 1980, pp. 203-204.
28
vedi Bede Griffiths, A New Vision of Reality - Western Science, Eastern Mysticism and Christian Faith,
Fount, London, 1992 (1989), Thich Nhat Hanh, Insegnamenti sull’amore, Neri Pozza, Vicenza, 1999 (1997).
29
Giuseppe Scattolin, Esperienze mistiche, vol.1 pp. 54-60.
30
ib., pp. 62-68.
31
ib., pp. 74-78.
32
ib., pp. 103-132.
33
Eva de Vitray-Meyrovitch, Anthologie du soufisme, Sindbad, Paris, 1978, pp. 46-47.
34
Rûmî, Poesie mistiche, traduzione di Alessandro Bausani, BUR, Rizzoli, Milano, 1980, pp. 96-98.
35
‘Abd al-Karîm al-Jîlî, Al-insân al-kâmil, Cairo, 1962, p. 39.