affile, graziani, andreotti

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AFFILE, GRAZIANI, ANDREOTTI
Se in Germania qualcuno si azzardasse a commemorare appena con una lapide
Goering o Rommel, verrebbe subito arrestato, gettato in prigione e la chiave verrebbe
invece gettata nella Fossa delle Marianne. Perché ? Perché in quel Paese, finita la
guerra si fece chiarezza con il Processo di Norimberga: da una parte i nazisti
assassini, criminali da impiccare e dall’altra i cittadini che dovevano sapere quali
erano i crimini di chi li aveva guidati per 12 anni.
In Italia niente Norimberga. Eppure di criminali ne abbiamo avuti ! Caspita se
ne abbiamo avuti ! Ma chiarezza, appunto, non è stata mai fatta così che le italiche
genti, ignoranti e smemorate, non sanno proprio cosa è accaduto, chi fu il criminale
persecutore, chi il perseguitato. Ma perché da noi non si è fatta, non dico una
Norimberga ma almeno una Frascati ? Perché i prodi e vigorosi americani avevano
rapporti stretti con il Fascismo e con la Mafia. Lo sbarco in Sicilia fu possibile senza
gravi perdite perché guidato da Lucky Luciano. L’esercito USA avanzava preceduto
da un carro armato su cui sventolava una bandiera azzurra. Era il segno di
riconoscimento di Luciano ai picciotti. Gli yankee debbono passare e basta. E la
mafia siciliana si organizzò perché nessuno si azzardasse a reagire. Poi gli USA
ebbero stretti rapporti con Junio Valerio Borghese (quel delinquente golpista del
1970, ricordate ?). Doveva essere la testa di … ponte che legava esercito USA e
Fascisti. Ma perché ? Perché in Italia, contrariamente a quanto avvenne in Germania,
vi era un forte movimento di resistenza a maggioranza comunista. Se l’Italia fosse
stata liberata in queste condizioni e con i fascisti impiccati, come si sarebbe dovuto
fare (come in Germania del resto), il Paese sarebbe diventato quasi certamente una
Repubblica Popolare. Gli USA, prevedendo questo scenario hanno difeso, sostenuto,
foraggiato i fascisti (questo è il motivo della fucilazione immediata di Mussolini e
gerarchi … gli USA volevano il prigioniero ma i partigiani sapevano di losche
manovre).
Ebbene, tra i criminali fascisti, militari, da impiccare vi era Graziani (insieme a
vari altri, come Roatta, Robotti e Badoglio). Per quanto detto si salvarono, occorreva
mantenere personaggi che avessero esperienza militare da usare eventualmente contro
una sollevazione comunista. E Graziani, uno dei salvati, è stato in questi giorni
commemorato ad Affile con un esborso di 130 mila euro da parte della Regione
Lazio (non si dimentichi che Polverini è una nostalgica di borgata). Ora che Graziani
sia stato nel cuore dei fascisti è evidente a tutti (infatti Francesco Lollobrigida, inutile
assessore ai trasporti della Regione Lazio era lì), pochi sanno che era amico del cuore
di Andreotti con il quale ebbe un abbraccio sensuale nei primi anni Cinquanta proprio
ad Affile. E la Chiesa ? Non poteva mancare. La Chiesa era una corporazione fascista
ed il parroco di Affile, Ennio Innocenti, ha fatto la commemorazione. D’altra parte
Graziani ha firmato insieme a Padre Agostino Gemelli il Manifesto della Razza, e
quindi occorre rendergliene merito.
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Un’ultima considerazione. Anche se i tribunali internazionali non sono stati
fatti funzionare contro i fascisti vi era sempre la legge italiana che aveva inquisito
migliaia di massacratori fascisti. Poi si fece un governo in cui Togliatti era ministro di
Grazia e Giustizia ed a lui si deve l’orrenda amnistia che salvò, ancora, tutti i fascisti.
Chi ha una qualche speranza di cambiamento in questo Paese deve vedersela,
prima che con i nemici e gli avversari, con gli amici o presunti tali.
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Fatta questa premessa, entriamo in dettagli che illustrano le eroiche gesta dei
nostri Badoglio, Graziani e Roatta. Cominciamo con il riportare quanto dice uno
storico importante, Angelo Del Boca. E’ una persona di destra con due caratteristiche
importanti rarissime nei personaggi di destra: è onesto e competente invece di
disonesto ed ignorante.
"Italiani brava gente"?
di Angelo Del Boca
"Deportazioni di massa, bombardamenti con bombe di iprite, campi di
concentramento, rappresaglie indiscriminate, stragi di civili, confisca di beni e
terreni. Le pagine nere dei crimini commessi dalle truppe italiane in Eritrea, Somalia
e Libia. Una politica coloniale all'insegna del mito sugli «italiani, brava gente».
L'Italia repubblicana non ha ancora fatto i conti con l'«avventura coloniale» del
fascismo, favorendo una storiografia moderata o revanscista." I paesi europei che
hanno partecipato alla spartizione dell'Africa, si sono macchiati, tutti, indistintamente,
dei peggiori crimini.
E' un dato suffragato da episodi sui quali esiste, nella memoria e negli archivi, una
documentazione imponente.
Tanto nel periodo della liberaldemocrazia che durante i vent'anni del regime fascista,
il comportamento dell'Italia nelle sue colonie di dominio diretto non fu dissimile da
quello delle altre potenze coloniali. Impiegò i metodi più brutali sia nelle campagne
di conquista che nel periodo successivo, stroncando ogni tentativo di ribellione. Con
l'avvento del fascismo, poi, le condizioni dei sudditi coloniali si fecero ancora più
precarie, soprattutto perché fu messa a tacere in Italia l'opposizione, tanto in
Parlamento che negli organi di informazione. Grazie infine alle più capillari pratiche
censorie, furono tenuti nascosti agli italiani episodi di inaudita gravità, come, ad
esempio, la deportazione di intere popolazioni del Gebel cirenaico, la creazione nella
Sirtica di quindici letali campi di concentramento, l'uso dei gas durante il conflitto
italo-etiopico, le tremende rappresaglie in Etiopia dopo il fallito attentato al viceré
Graziani.
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Quando Mussolini arrivò al potere, la riconquista della Libia era appena
iniziata, mentre sulle regioni centrali e settentrionali della Somalia il dominio italiano
era soltanto virtuale. A Mussolini, più che ai suoi generali, va dunque la
responsabilità di aver adottato i metodi più crudeli per riconquistare le colonie prefasciste e per dare, con l'Etiopia, un impero agli italiani.
a) L'impiego degli aggressivi chimici.
Usati sporadicamente in Libia, nel 1928, contro la tribù dei Mogàrba er Raedàt, e nel
1930, contro l'oasi di Taizerbo, i gas vennero invece impiegati in maniera massiccia e
sistematica durante il conflitto italo-etiopico del 1935-36 e nelle successive
operazioni di «grande polizia coloniale» e di controguerriglia. L'Italia fascista aveva
firmato a Ginevra, il 17 giugno 1925, con altri venticinque paesi, un trattato
internazionale che proibiva l'utilizzazione delle armi chimiche e batteriologiche, ma,
come abbiamo visto, neppure tre anni dopo violava il solenne impegno usando
fosgene ed iprite contro le popolazioni libiche.
In Etiopia le violazioni furono così numerose e palesi da sollevare l'indignazione
dell'opinione pubblica mondiale. Le prime bombe all'iprite furono lanciate sul finire
del 1935 per bloccare l'avanzata dell'armata di ras Immirù Haile Sellase, che puntava
decisamente all'Eritrea, e quella di ras Destà Damtèu, che aveva come obiettivo Dolo,
in Somalia. In tutto, durante il conflitto italo-etiopico del 1935-36, furono sganciate
su obiettivi militari e civili 1.597 bombe a gas, in prevalenza del tipo C.500-T, per un
totale di 317 tonnellate. Altre 524 bombe a gas furono lanciate, tra il 1936 e il 1939,
durante le operazioni contro i patrioti etiopici. Se si aggiunge, infine, che durante la
battaglia dell'Endertà furono sparati dalle batterie di cannoni di Badoglio 1.367
proiettili caricati ad arsine, non si è lontani dal ritenere che in Etiopia siano stati
impiegati non meno di 500 tonnellate di aggressivi chimici.
b) I campi di sterminio.
Con il fascismo le vessazioni nei confronti degli indigeni raggiunsero livelli mai
prima segnalati. Dall'esproprio dei terreni, dalla confisca dei beni dei «ribelli», dal
diffuso esercizio del lavoro forzato, si passò alla deportazione di intere popolazioni e
alla loro segregazione in campi di concentramento, che soltanto la cinica prosa dei
documenti ufficiali aveva il coraggio di definire «accampamenti». Il più noto e
drammatico di questi trasferimenti coatti avvenne in Cirenaica nel 1930, dopo che
Graziani aveva fallito il tentativo di domare la ribellione capeggiata da Omar elMukhtàr. Su ordine del governatore generale Badoglio, il quale era convinto che la
rivolta si sarebbe potuta infrangere soltanto spezzando i legami tra gli insorti e le
popolazioni del Gebel cirenaico, Graziani predisponeva il trasferimento di 100mila
civili dalla Marmarica e dal Gebel el-Ackdar ai campi di concentramento che aveva
fatto costruire nella Sirtica, una delle regioni più inospitali dall'Africa del Nord.
Quando i lager vennero definitivamente sciolti nel 1933, i sopravvissuti erano appena
60mila. Gli altri 40mila erano morti durante le marce di trasferimento, per le pessime
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condizioni sanitarie dei campi (per i 33mila reclusi nei lager di Soluch e di Sidi
Ahmed el-Magrun c'era un solo medico), per il vitto insufficiente e spesso avariato,
per le inevitabili epidemie di tifo petecchiale, dissenteria bacillare, elmintiasi, per le
violenze compiute dai guardiani e per le esecuzioni sommarie per chi tentava la fuga.
I campi di sterminio nella Sirtica non furono i soli. Memore della loro macabra
efficacia, Graziani ne istituì uno anche in Somalia, a Danane, a sud di Mogadiscio.
Secondo Micael Tesemma, un alto funzionario del ministero degli Esteri etiopico, che
fu recluso a Danane per tre anni e mezzo, dei 6.500 etiopici e somali che si
avvicendarono nel campo, tra il 1936 e il 1941, 3.171 vi persero la vita.
Un secondo campo fu istituito nell'isola di Nocra, in Eritrea. Qui le condizioni di vita
erano anche più intollerabili, perché i detenuti erano costretti al lavoro forzato nelle
cave di pietra, con temperature che a volte raggiungevano i 50 gradi. L'alto tasso di
mortalità a Nocra era causato principalmente dalla malaria e dalla dissenteria, poi dal
cattivo nutrimento e dalle insolazioni.
c) Le stragi.
L'intera storia delle conquiste coloniali italiane è punteggiata da stragi e da esecuzioni
sommarie. Ma vi sono episodi che emergono per la loro spiccata gravità. Nella notte
del 26 ottobre 1926, ad esempio, avendo saputo che lo scek Ali Mohamed Nur, un
capo religioso ostile all'Italia, era sfuggito all'arresto e si era barricato con i suoi
seguaci nella moschea di El Hagi, a Merca, una cinquantina di coloni italiani di
Genale, ex squadristi, armati di moschetti e di fucili da caccia, puntò su Merca,
circondò la moschea e trucidò tutti i suoi occupanti, un centinaio di somali. Il
massacro sarebbe stato anche più ingente se, al mattino, a sostituire gli squadristi, che
intendevano liquidare tutta la popolazione indigena della zona, non fossero
intervenuti i reparti dell'esercito.
Dalla Somalia passiamo alla Libia. Nel febbraio del 1930, alla fine delle operazioni
per la riconquista del Fezzan, Graziani spinse un migliaio di mugiahidin, con le loro
famiglie, verso il confine con l'Algeria e poiché non fece in tempo ad intrappolarli,
per due giorni consecutivi lanciò tutti gli aerei a sua disposizione sulle mehalla in
fuga. Fu una carneficina, come testimonia lo stesso inviato de Il Regime Fascista,
Sandro Sandri, il quale assistette ai bombardamenti e mitragliamenti del «gregge
umano composti, oltreché degli armati, da una moltitudine di donne e bambini».
Ma è in Etiopia, nel cristiano e millenario impero del Prete Gianni, che furono
consumati i più orrendi eccidi, alcuni dei quali non ancora studiati a fondo per cui il
numero delle vittime potrebbe ancora aumentare. Cominciamo con le stragi compiute
ad Addis Abeba dopo l'attentato del 19 febbraio 1937 al viceré Graziani. Per tre
giorni, su ordine del segretario federale della capitale, Guido Cortese, fu impartita
agli etiopici, che erano assolutamente estranei all'attentato, una «lezione
indimenticabile». Alla selvaggia repressione presero soprattutto parte camicie nere,
civili italiani ed ascari libici e fu condotta, come riferisce un testimone degno di fede,
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il giornalista Ciro Poggiali, «fulmineamente, coi sistemi del più autentico squadrismo
fascista». Quando, il 21 febbraio, Graziani diramò, dall'ospedale in cui era stato
ricoverato per le ferite subite, l'ordine di cessare la rappresaglia, la capitale era
disseminata di cadaveri. Mille morti, secondo Graziani; da 1.400 a 6.000, secondo le
stime dei testimoni stranieri; 30mila, a sentire gli etiopici.
Cessata la strage in Addis Abeba, la repressione continuò in tutte le altre regioni
dell'impero. Si dava soprattutto la caccia agli indovini e ai cantastorie, ritenuti
responsabili di aver annunciato nelle città e nei villaggi la fine prossima del dominio
italiano in Etiopia. Secondo una relazione del colonnello Azolino Hazon, la sola arma
dei carabinieri passò per le armi, in meno di quattro mesi, 2.509 indigeni. Alle
operazioni repressive partecipò anche l'esercito. Al generale Pietro Maletti venne
infatti affidato l'incarico di punire i religiosi della città conventuale di Debrà Libanòs,
ingiustamente sospettati di aver favorito l'attentato a Graziani ospitando i due
esecutori materiali, gli eritrei Abraham Debotch e Mogus Asghedom. Tra il 18 e il 27
maggio 1937 Maletti portò a termine la sua missione fucilando 449 monaci e diaconi.
Queste cifre le abbiamo desunte dai dispacci che Graziani inviava quotidianamente a
Mussolini, e fino a qualche tempo fa le ritenevamo attendibili poiché Graziani ha
sempre avuto la tendenza a non celebrare, e soprattutto a non ridurre, le cifre della
sua macabra contabilità. Il viceré, infatti, commentando la strage di Debrà Libanòs
non aveva mostrato alcuna reticenza nel sottolineare l'estremo rigore della punizione:
«E' titolo di giusto orgoglio per me aver avuto la forza d'animo di applicare un
provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall'Abuna all'ultimo prete
o monaco».
Ma dovevo sbagliarmi sulle cifre della strage. Due miei collaboratori, Ian L.
Campbell, dell'Università di Nairobi, e Degife Gabre-Tsadik, dell'Università di Addis
Abeba, compivano fra il 1991 e il 1994 alcuni accurati sopralluoghi nelle località in
cui Maletti decimò il clero copto e giunsero alla conclusione, dopo aver intervistato
alcuni superstiti della strage e alcuni testimoni delle operazioni di Maletti, che le cifre
riferite da Graziani erano del tutto inattendibili. In realtà, le mitragliatrici di Maletti
hanno abbattuto a Debrà Libanòs, Laga Wolde e a Guassa, non 449 tra preti, monaci,
diaconi e debteras, ma un numero di religiosi che si aggira tra i 1.423 e i 2.033. Data
la serietà dei due ricercatori e il numero delle testimonianze raccolte, nel 1997
pubblicavo il loro lungo rapporto sul numero 21 di «Studi Piacentini».
Questa non è che una sintesi molto lacunosa dei torti che l'Italia fascista ha fatto alle
popolazioni africane da essa amministrate. Dovremmo infatti anche parlare delle
leggi razziali, che confinavano gli indigeni nei loro ghetti, anticipando di vent'anni i
rigori e gli abusi dell'apartheid sudafricana. Dovremmo ricordare i limiti imposti
all'istruzione, tanto che in settant'anni di presenza italiana in Africa nessun indigeno
ebbe la facoltà e i mezzi per ottenere un diploma o una laurea. Dovremmo infine
ricordare che ai sudditi africani erano riservati soltanto ruoli subalterni, i più modesti
ed umilianti. Un fatto del genere non accadeva nelle colonie africane della Francia e
della Gran Bretagna.
Questi crimini furono accuratamente nascosti agli italiani con tutti gli strumenti di cui
può disporre una dittatura. E se qualche verità filtrava all'estero, ad esempio sui gas
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impiegati in Etiopia, il regime reagiva rabbiosamente sostenendo che un popolo che
stava portando la civiltà in Africa non poteva macchiarsi di tali infamie.
Molti testimoni italiani di stragi o dell'impiego delle armi chimiche si decideranno a
svelare i loro segreti soltanto trenta, quaranta, cinquanta anni dopo gli avvenimenti e
sempre con qualche reticenza. Altri, invece, e sono i più numerosi, non hanno mai
testimoniato sui crimini, perché non li ritenevano tali, ma li consideravano normali
pratiche per tenere a freno popolazioni che giudicavano barbare. Molti, fra costoro,
si sono fatti fotografare in posa dinanzi alle forche o reggendo per i capelli teste
mozze di patrioti etiopici.
Questa macabra, allucinante documentazione fotografica è visibile negli
Archivi storici di Addis Abeba e proviene dagli uffici degli organi giudiziari italiani
scampati alle distruzioni della guerra, o dai portafogli degli italiani finiti prigionieri
degli etiopici alla caduta dell'impero.
Il mito degli «italiani brava gente» cominciò ad affermarsi quando ancora l'Italia era
impegnata in Africa a difendere i suoi territori. Se si sfogliano le riviste coloniali
dell'epoca si nota l'insistenza con la quale il regime fascista cercava di accreditare la
tesi dell'italiano impareggiabile costruttore di strade, ospedali, scuole; dell'italiano
che in colonia è pronto a deporre il fucile per impugnare la vanga; dell'italiano gran
lavoratore, generoso al punto da porre la sua esperienza al servizio degli indigeni. Si
tentava, insomma, di costruire il mito di un italiano diverso dagli altri colonizzatori,
più intraprendente e dinamico, ma anche più buono, più prodigo, più tollerante.
Insomma il prodotto esemplare di una civiltà millenaria, illuminato dalla fede
cattolica, fortificato dalla dottrina fascista. Questo mito sopravviverà alla sconfitta
nella seconda guerra mondiale e impregnerà tutti i documenti che i primi governi
della Repubblica presenteranno alle Nazioni unite o ad altre assise internazionali nel
tentativo, fallito, di salvare, se non tutte, almeno le colonie prefasciste.
Non soltanto resisteva il mito degli «italiani brava gente», ma si impediva con ogni
mezzo che si svolgesse nel paese un sereno e costruttivo dibattito sul colonialismo.
Gli effetti del mancato dibattito sono visibili, come sono palesi i danni arrecati. Il
primo dato negativo è la rimozione quasi totale, nella memoria e nella cultura storica
dell'Italia, del fenomeno dell'imperialismo e degli arbitri, soprusi, crimini, genocidi
ad esso connessi. A 117 anni dallo sbarco a Massaua del colonnello Tancredi Saletta,
a 91 dallo sbarco del generale Caneva a Tripoli, a 67 dall'aggressione fascista
all'Etiopia, l'Italia repubblicana non ha ancora saputo sbarazzarsi dei miti, delle
leggende, delle contraffazioni che si sono formate nel periodo coloniale, mentre una
minoranza non insignificante di reduci e di nostalgici li coltiva amorevolmente e li
difende con iattanza.
Non soltanto è stato contrastato ogni tentativo di aprire un dibattito a livello nazionale
sul colonialismo, che coinvolgesse storici, forze politiche ed opinione pubblica, ma si
è anche tentato, da parte di alcune istituzioni dello Stato, di esercitare il monopolio su
alcuni archivi per impedire che affiorasse la verità, mentre una storiografia di segno
moderato o revanscista favoriva palesemente la rimozione delle colpe coloniali.
A quando i processi postumi ai Badoglio, ai Graziani, ai De Bono, ai Lessona, ai
Cortese, ai Maletti e a tutti gli altri responsabili dei genocidi africani rimasti
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impuniti? A quando la verità nei libri di testo scolastici, che ignorano persino
l'argomento? A quando la proiezione sulla Tv di Stato dell'inchiesta televisiva
«Fascist Legacy» di Ken Kirby e Michael Palumbo sui crimini di guerra italiani
in Africa e nei Balcani? Come è noto, la Rai-Tv acquistò questo filmato dalla
Bbc molti anni fa ma non lo ha mai trasmesso. Perché? Per quali veti? Per quale
ipocrita riserbo? Per quale motivo è ancora proibito proiettare nelle sale Il
Leone del deserto, il film di Akkad che narra l'epopea tragica di Omar elMukhtàr, impiccato da Graziani nel lager di Soluch?
_________________________Perché dopo la guerra su tutto questo sia stato steso un velo di silenzio e
soprattutto perché questi luoghi siano stati totalmente dimenticati dalla memoria
locale e collettiva è uno dei grandi misteri che si unisce a quello della mancata
epurazione di molti gerarchi fascisti che rimasero al loro posto o che addirittura
furono collocati in posti importanti della rinata democrazia. Solo pochi anni dopo la
guerra, nel 1953, Graziani divenne presidente del MSI. Si pensi che da tutti i campi
del centro nord (basta sfogliare la monumentale opera "Il libro della memoria" di
Liliana Picciotto Fargion, ed. Mursia) le persone concentrate in questi campi furono
deportate verso lo sterminio in Germania. Le vicende di questi anni che vedono gli
eredi del fascismo nel governo del Paese insieme a pericolose ideologie mediatiche e
xenofobe e la pericolosa involuzione antidemocratica e anticostituzionale a cui tutti
assistiamo, fa ritornare ossessivamente alla memoria quanto amava dire la filosofa
tedesca Hannah Arendt: "Un popolo che non ha memoria è costretto a ripetere gli
stessi errori del passato". Proprio in un numero di "Internazionale" (21-27 novembre
2003) il corrispondente tedesco di N-Tv e di alcuni canali televisivi pubblici della
Germania, Udo Gumpel, ci ricordava l'assurda storia del cosiddetto "armadio della
vergogna", l'armadio con le ante rivolto contro il muro, scoperto nel 1994 nei locali
del Palazzaccio, il vecchio Palazzo di giustizia romano. In quell'armadio sono stati
sepolti e "archiviati" centinaia di documenti che riguardavano le stragi nazi-fasciste
in Italia. Un armadio, come scrive Gumpel, "che fa vergogna alla giustizia, ma anche
ai mass media", che hanno steso un velo profondo di silenzio. Certo in questa
incredibile dimenticanza, come in questo ritorno ad un passato, che speravamo
estirpato, pesa indubbiamente il ruolo della Chiesa cattolica nel Paese, ieri come oggi.
Come mai la Chiesa affittava senza problemi etici o morali, propri edifici per campi
di concentramento allo Stato italiano (ricordo Agnone, Civitella del Tronto, Isola
Gran Sasso, Roccatederighi,...) o mandava personale ecclesiastico, per lo più suore,
(Alatri o Vo' Vecchio), per lavorare all'interno del campo. Come mai Borgoncini
Duca, nunzio apostolico presso lo Stato italiano, uno dei pochi vescovi fatto cardinale
da Pio XII dopo la guerra, visitava in lungo e largo questi campi. Faceva lo stesso il
nunzio apostolico presso il governo di Hitler ? E perché si preoccupava tanto delle
sorti degli internati in Italia, mentre nei campi di Gonars (si parla di 500 morti), ad
Arbe (1500 morti), in Tessaglia a Larissa (centinaia di morti per malnutrizione, 106
uccisi per rappresaglia), nell'isola di Molat (3500 furono gli internati e anche lì ci
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furono centinaia di morti) nessuno interveniva ? Non risulta peraltro che qualcuno
abbia fatto una stima complessiva dei morti per mano italiana nei campi sotto il
regime fascista. Senza contare, come già scritto, che la Chiesa non mosse un dito per
fermare "il viaggio" verso lo sterminio degli internati nei campi italiani (di cui
conosceva tutte le sedi), presi dai fascisti e dai nazisti in ritirata. Anche da quei luoghi
che erano sedi ecclesiastiche come il seminario estivo di Roccatederighi dove furono
portati alla morte un centinaio di ebrei. Anzi c'è di più come ci ha raccontato la
storica Luciana Rocchi, il vescovo di Grosseto chiese al prefetto democratico della
sua città, gli affitti non pagati dalla fine della guerra in quanto lo Stato italiano non
aveva disdetto l'affitto.
Posate, vasi e aquile d'oro il bottino di guerra
di Graziani
1 giugno 2000
Articolo messo in Rete alle 05:03 ora italiana (03:03 GMT)
COLLEGE PARK (Maryland) - Le 28 casse con il tesoro di guerra del maresciallo
Rodolfo Graziani erano state messe al sicuro: in una stanza della sagrestia della chiesa di
Santa Agnese, in via Nomentana a Roma. Erano piene di quelli che il maresciallo, dalla
sua prigionia a Procida, definisce "ricordi personali e di famiglia". E per i quali, in una
supplica all'ammiraglio americano Ellery Stone, fa "appello al Suo nobilissimo
sentimento di Soldato che non può rimanere insensibile alla voce di un altro sfortunato,
ma sempre onorato, Soldato".
In realtà, oltre ai ricordi di casa Graziani, pignolamente elencati ("tre gagliardetti della
riconquista libica, pergamene riguardanti la Cirenaica, dente di elefante legato in
argento, autografo di D'Annunzio... "), le casse contengono i ricordi di un'altra famiglia:
quella del Negus.
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All'imperatore di Etiopia, infatti, il viceré aveva sottratto vari oggetti e, soprattutto,
l'aquila d'oro massiccio che si trovava, sul suo trono al momento dell'incoronazione.
Un'aquila che gli americani restituirono all'imperatore nel luglio del '45. Gli archivi
declassificati dalla Cia mostrano un incredulo Hailè Selassiè che passa in rassegna il
vasellame, le posate d'argento e le croci copte al momento della loro restituzione.
Nella lettera all'ammiraglio Stone, Graziani si affanna a spiegare l'origine dei due servizi
di posate in argento dorato (uno da 12 persone e uno da 18): sono stati "ricostituiti
acquistando i singoli pezzi da indigeni di Addis Abeba".
CNNItalia.it - Ecco i documenti della Cia su ebrei romani e spie SS - 30 giugno
2000 wysiwyg://17/
http://www.cnnitalia.it/2000/ITALIA/06/30/documentinazi/index.html
Ecco i documenti della Cia su ebrei romani e
spie SS
1 giugno 2000
Articolo messo in Rete alle 02:12 ora italiana (00:12 GMT)
All'interno:
Gli archìvi di College Park "Cinque giorni per avvertire gli ebrei" L'oro degli ebrei
romani "I vestiti di Mafalda e di Ciano" Dialogo sullo sterminio Battute sul forni
crematorl [Borghese e von Fuerstenberg GII italiani nelle fabbriche del Relch
La Cia ha reso pubblici 400 mila documenti che vengono dagli archivi della Oss, i
servizi segreti americani così come erano conosciuti durante la seconda guerra
mondiale
di Riccardo Orizio - Cnnitalia
COLLEGE PARK (Maryland) — I nazisti avevano una insospettabile gola profonda in
Vaticano: il monsignore irlandese O'Flaherty, che rappresentava la Croce Rossa Usa. Gli
agenti segreti delle SS trasferivano grosse somme di denaro tra Milano e Roma grazie al
cardinale Ildefonso Schuster. I servizi segreti nazisti erano in costante contatto con
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aristocratici come Tasilo von Fuerstenberg (il genero del senatore Agnelli) e Junio
Valerio Borghese, in vista di un nuovo Reich senza Hitler. Mussolini ordinava il furto di
opere d'arte per farne poi gentile omaggio a Hermann Goering, in nome dell'amicizia
nazi-fascista. Priebke si occupava probabilmente dell'oro sequestrato agli ebrei romani.
E nelle 28 casse che custodivano il tesoro di guerra del maresciallo Rodolfo Graziani, il
viceré d Etiopia, gli Alleati trovarono piatti e posate provenienti dal palazzo reale di
Addis Abeba e l'aquila d'oro massiccio del trono di Hailè Selassiè.
Gli archivi di College Park
Sono questi alcuni dei nomi e degli episodi che, dopo sei decenni di segreto assoluto,
escono dai 400 mila documenti appena declassifìcati dalla Cia, finalmente riapparsi in
decine di scatoloni di cartone grigio al secondo piano di una palazzina di College Park, a
metà strada tra Washington e Baltimora. Le scatole contengono intercettazioni
"catturate" all'insaputa dei nazisti, diari sequestrati a prigionieri di guerra, interrogatori
di agenti che facevano il doppio gioco. «In molti casi, sono segreti imbarazzanti per gli
Alleati.
Perché, per esempio, Londra non avvertì gli ebrei romani della retata organizzata da
Kappler, la cui preparazione era stata intercettata il 6 ottobre 1943? Perché non cercò di
evitare il loro trasferimento ad Auschwitz?
"Cinque giorni per avvertire gli ebrei"
"Secondo i miei calcoli, dopo la traduzione e vari passaggi burocratici, i vertici
britannici entrarono in possesso di quei documenti intorno all'11 ottobre, quindi con
cinque giorni di preavviso sulla retata. Non hanno agito perché l'intelligence cercava
segreti militari, non si occupava di questioni umanitarie. E poi agire avrebbe voluto dire
far sapere ai tedeschi che le loro comunicazioni erano decifrabili", spiega Timothy
Naftali, storico del Miller Center dell'Università della Virginia.
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Naftali è l'esperto di spionaggio che ha selezionato per conto della Cia i 400 mila
documenti declassificati lo scorso lunedì. Oltre alle intercettazioni ci sono chili di verbali
tratti dagli interrogatori a prigionieri di guerra e rapporti segreti inviati da agenti sul
campo.
L'oro degli ebrei romani
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E' grazie a questi documenti che oggi si sa che la retata dei mille ebrei romani, per
esempio, avvenne con la piena approvazione del maresciallo Rodolfo Graziani. Che una
simile retata era stata prevista per Napoli, ma fallì "causa il clima ostile della città". E
che non fu affidata ai carabinieri perchè considerati dai nazisti "inaffidabili" (Kappler
ordinò che fossero disarmati). Che il clima era già così ostile da obbligare i nazisti a
minacciare gli uomini che rastrellavano gli ebrei di "ritorsioni contro le famiglie" se non
eseguivano gli ordini "in modo conforme". Sempre da questi documenti si sa che
all'inizio d'ottobre del '43 i nazisti confiscarono agli ebrei romani 50 chili d'oro.
13
14
Il comando tedesco di Roma cercò subito di inviare il bottino alla Reichsbank di Berlino.
Il 7 ottobre un telegramma da Berlino dice, enigmatico: "Non abbiamo ancora ricevuto il
camion di Priebke. Sappiamo che è ancora all'ambasciata tedesca. Pregasi investigare".
Cosa trasportava quel camion? L'oro?
Borghese e von Fuerstenberg
I nomi? Il diario di Zimmer spiega che in questa operazione furono coinvolti due
principi: Tasilo von Fuerstenberg, il marito di Clara Agnelli (la figlia del senatore
Giovanni Agnelli), cittadino tedesco di casa a Torino e alla Fiat; e Valerio Borghese, il
comandante della Decima Mas, che "combatte una sua guerra personale contro le
popolazioni slave" ed era pronto anche a negoziare con gli Alleati in funzione anti-russa.
15
Molti protagonisti avevano posizioni ambigue. Come il cardinale Ildefonso Schuster, che
16
aiutava a trasferire denaro tra Milano e Roma per conto - chissà se in modo consapevole
- di agenti nazisti. Altri hanno commesso peccatucci di altro tipo: Graziani aveva
nascosto in una chiesa romana il vasellame d'argento del Negus.
17
Oltre agli oggetti d'arte Graziani aveva nascosto anche documenti ufficiali del fascismo e
documenti militari. Tutti oggetti che il maresciallo chiede in restituzione "a che possa
tramandarli ai miei nepoti perché questi abbiano materia per giudicare realmente chi sia
stato il loro Nonno e sia salva presso di loro la Mia Memoria".
________________________
18
ITALIANI ... BRAVA GENTE
?
Nel sito http://www.criminidiguerra.it/html/DocumentiE.htm vi sono moltissimi
documenti ed articoli che consiglio di andare a vedere. Io ne ho estratti alcuni che
credo siano di immediato interesse. Occorre definitivamente smentire la leggenda
degli italiani brava gente. Occorre dire la verità che è stata sempre nascosta dai
furbetti democristiani per tanti anni ed ora dal revisionismo fascista. Il guaio vero è
stato l'assenza di una Norimberga italiana. Avremmo visto vari personaggi
condannati a morte per crimini di guerra sia per le vergogne che ora andiamo a
vedere sia per quelle già viste di Foibe, sia per altre che vedremo su Grecia,
Albania, ...
http://www.criminidiguerra.it/html/repressionelibia.htm
La repressione dell'esercito italiano durante la
nuova occupazione della Libia
1911 Trattato di Losanna: a conclusione della guerra italo/turca, la Libia restava sotto
l'autorità formale della Turchia che demandava alla amministrazione italiana la sua
autorità sulla fascia costiera tra Zuara e Tobruk.
1913 influenza italiana estesa a tutto il Gebel tripolino con la scusa di prevenire possibili
rivolte.
1914 la resistenza libica costringe gli italiani a ripiegare sulla costa.
1921 discreto stato di pacificazione creato il governatorato di Tripolitania (Volpi)
1927 governatorato di Cirenaica (governatore Teruzzi)
1929 Badoglio governatore unico delle province di Tripolitania e Cirenaica. Attacchi di
capi senussiti guidati da Omar el Muktar, simbolo della resistenza cirenaica, nei
confronti delle nostre truppe.
1930 Graziani vice governatore a Bengasi. Repressione violentissima (deportazioni,
esecuzioni, confino). Viene rioccupato l'entroterra tra Bengasi e Tobruk. Viene costruito
un reticolato di 270 km da Giarba a Giarabub atto a impedire che dall'Egitto arrivassero
rifornimenti di armi, munizioni e cibo ai ribelli senussiti.
19
1931 occupata l'oasi di Cufra. Omar el-Muktar viene catturato e impiccato nel campo di
concentramento di Soluch dopo un processo sommario che non tiene conto dell'età del
prigioniero (73 anni) e del fatto che dovrebbe essere considerato prigioniero di guerra e
non traditore visto che non ha mai percepito stipendi dal governo italiano.Ciò
rappresentò il colpo di grazia della resistenza senussita. Ancora oggi la visione del film
"Il leone del deserto", del regista siriano Mustafà Accad che narra le vicende di Omar dal
punto di vista arabo, è vietato per censura ministeriale.
1934 Badoglio proclama che "la ribellione araba in Cirenaica è stroncata".
Lo stesso Graziani parla di 1641 mugiahidin caduti tra il marzo 1930 e il dicembre del
1931.
Gli aspetti della repressione
Un aspetto della repressione sia in Tripolitania che in Cirenaica fu rappresentato dai
tribunali militari speciali. I processi avvenivano spesso all'aperto in pubblico per
confutare le notizie di esecuzioni sommarie. Gli imputati indigeni venivano il più delle
volte condannati a morte e le sentenze immediatamente eseguite. Le accuse più diffuse
erano quelle relative all'aiuto dato ai ribelli.
A questo proposito Graziani scrive: "Non appena giunge la segnalazione di un arresto in
flagranza di reato, il tribunale parte e la Giustizia scende dal cielo. E questo è diventato
così nornale che quando un aeroplano giunge nel luogo dove è stato commesso un reato
si sente mormorare negli accampamenti la parola tribunale" (in Graziani Cirenaica
pacificata pag. 139).
1930 Deportazioni delle tribù che abitavano il Gebel cirenaico (chiamato anche
Montagna verde per il clima abbastanza temperato e ventilato e perché luogo con
sorgenti d'acqua) e chiusura delle zavie (centri polivalenti senussiti).
Il motivo delle deportazioni era da ricollegarsi alla ripopolazione del Gebel da parte di
coloni italiani.Esodo biblico durato 20 settimane. Delle 100.000 persone ne arrivarono
85.000 (relazione del generale Cicconetti al generale Graziani). Anche i capi di bestiame
furono falcidiati dalla sete, dalla mancanza di foraggio e dalla aviazione che li mitragliò
a volo radente lungo tutto il Gebel per evitare di lasciarli alle bande locali.
Vari episodi di crudeltà tra i quali ricordiamo l'abbandono di 35 indigeni, tra cui donne e
bambini, nel deserto privi di acqua a causa di una rissa scoppiata tra loro; altri morti in
seguito a fustigazioni, altri ancora morti di sete o per la fatica.Per evitare la
sopravvivenza di bande furono avvelenate le "guelte", pozze d'acqua dove si
abbeveravano gli animali, i pozzi d'acqua delle varie tribù, incendiati campi e raccolto
(cfr Ottolenghi,op. cit pag 62 e seg).
20
Badoglio in una lettera a Graziani del 20/6/1930 giustificò le deportazioni
perché"occorre creare un distacco territoriale tra le formazioni ribelli e le popolazioni
sottomesse onde impedire alle seconde di sostentare le prime…. urge far refluire in uno
spazio ristretto lontano dalle loro terre originarie, tutta la popolazione sottomessa, in
modo che vi sia uno spazio di assoluto rispetto tra essa e i ribelli".
In questo modo Graziani cerca di giustificare le deportazioni: "... lasciare le popolazioni
nei loro territori di origine e dare ampia libertà di azione alle truppe per scovare e
annientare i ribelli ovunque si trovassero. Non mi sfuggivano le tragiche conseguenze
cui avrebbe condotto questo metodo perché conoscendo a fondo l'ignoranza delle
popolazioni beduine, e l'opera su di essa compiuta dalla propaganda senussita, ritenevo
che esse sarebbero state indotte a persistere nell'errore e a continuare a rifornire le
masse armate di viveri, uomini, armi, donde sarebbe derivato lo sterminio pressoché
totale delle popolazioni beduine della Cirenaica ...
La seconda via era quella di mettere le popolazioni in grado di non aver contatto con i
ribelli ossia supplire con un intervento coattivo del Governo alla loro ignoranza e
deficiente responsabilità risparmiandole agli orrori della guerra ... sarebbe stato meglio
far sopportare a questa i disagi e le ristrettezze del concentramento ... anziché esporle
allo sterminio. Questo spirito umanitario divenne oggetto di campagna diffamatrice nei
confronti dell'Italia accusata di vilipendio e di offesa alla religione perchè abbatteva i
suoi templi, di atrocità e di ogni genere e perfino del getto dell'alto degli aereoplani di
gente musulmana! Nulla di più spudorato ... Oggi quelle popolazioni a rischio sterminio
sono avviate a raggiungere quel livello di vita civile ed economica che ingentilirà i loro
costumi nobiliterà i loro cuori e costituirà il primo fattore della loro felicità. Marsa el
Brega, Agheila, Sidi hamed el Magrum oggi hanno l'aspetto di piccoli villaggi".
(Graziani in Cirenaica pacificata pag. 304)
Il 31 luglio 1930 l'oasi di Taizerbo viene bombardata con bombe all'iprite.
Cufra, città santa per gli islamici perché sede della Senussia (confraternita sunnita),
considerata da Graziani "centro di raccolta di tutto il fuoriuscitismo libico".
Il 26 agosto Cufra è bombardata e i ribelli inseguiti, verso il confine con l'Egitto.
Graziani parla di 100 uccisi, 14 passati per le armi e 250 prigionieri tra cui donne e
bambini. Il bilancio complessivo è molto più alto.Testimonianza del pilota V. Biano (in
Del Boca Gli italiani in Libia).
"Partiti all'alba ... gli apparecchi riconoscono sul terreno le piste dei ribelli in fuga e le
seguono finchè giungono sopra gli uomini; le bombe hanno scarso effetto perchè il
bersaglio è diluito ma le mitragliatrici fanno sempre buona caccia; mirano ad un uomo
e lo fermano per sempre, puntano un gruppo di cammelli e lo abbattono... il gioco
continua per tutta la giornata ... le carovaniere della speranza diventano un cimitero di
morti.
21
Il 20 Gennaio 1931 Cufra è occupata; seguirono tre giorni di saccheggi e violenze di
ogni tipo fatti dai nostri soldati col tacito assenso dei superiori.
17 capi senussiti impiccati
35 indigeni evirati e lasciati morire dissanguati
50 donne stuprate
50 fucilazioni
40 esecuzioni con accette, baionette, sciabole.
Atrocità e torture impressionanti: a donne incinte squartato il ventre e i feti infilzati,
giovani indigene violentate e sodomizzate (ad alcune infisse candele di sego in vagina e
nel retto) teste e testicoli mozzati e portati in giro come trofei; torture anche su bambini
(3 immersi in calderoni di acqua bollente) e vecchi (ad alcuni estirpati unghie e occhi)
(Ottolenghi op. cit.pag 60 e seg.).
Grande impressione nel mondo islamico. La "Nation Arabe" scrive: "Noi chiediamo ai
signori italiani… i quali ora si gloriano di aver catturato cento donne e bambini
appartenenti alle poche centinaia di abitanti male armati di Cufra che hanno resistito alla
colonna occupante Che cosa c'entra tutto ciò con la civiltà?"
Il giornale di Gerusalemme "Al Jamia el Arabia" pubblica , il 28 aprile 1931, un
manifesto in cui tra l'altro si ricordano "alcune di quelle atrocità che fanno rabbrividire:
da quando gli italiani hanno assalito quel paese disgraziato, non hanno cessato di usare
ogni sorta di castigo ... senza avere pietà dei bambini, nè dei vecchi ...".
Graziani, che riporta il testo in Cirenaica pacificata, lo definisce "infarcito di menzogne
tali che non so se muovano più il riso o lo sdegno".
1933 Balbo sostituisce Badoglio restando in carica sino al 1940.
L'impiego dei gas e delle armi chimiche
Gli aggressivi chimici furono impiegati per la prima volta nella prima guerra mondiale
22
da
Germania,
Austria-Ungheria,
Italia,
Gran
Bretagna
e
Russia.
Il 17 giugno 1925 viene firmato da 25 Stati aderenti alla Società delle Nazioni un trattato
internazionale che proibiva l'utilizzo di armi chimiche e batteriologiche.
Il trattato fu ratificato dall'Italia il 3 aprile 1928.
Tra il 1923 e il 1931 l'aviazione italiana impiegò fosgene e iprite
ANNI
LUOGO
FONTI
CARATTERISTICHE
1924/26
Tripolitania:
accampamenti,
uadi (letti
asciutti di
antichi corsi
d'acqua)
Relazione
Mombelli
(generale)1
politica della terra
bruciata e del terrore
Operazioni 29°
parallelo per
Gifa: oasi a sud unificare
di Nufilia
Tripolitania e
6/1/1928 (Tripolitania) su Cirenaica
popolazioni
(Relazione
Mogarba
generale
Cicconetti2 a De
Bono AUSSME)
Relazione De
Bono sugli "esiti
4/2/28
bombardamenti
in Tripolitania"3
12/2/1928 Hon Uaddan
Diario De Bono
Cirenaica 15 km
Relazione
sud-est dello
governatore
19/2/1928
uadi
Teruzzi4
Engar(Gebel)
Marzo
1929
Zeefran
Heleighima
31/7/1930 Oasi Taizerbo
Relazione
Teruzzi5
Autorizzazione
Badoglio
(Relazione ten.
col. R.Lodi al
RISULTATI
bombardate
150 tende
coniche,
numeroso
bestiame
nuclei armati
intenti a lavori
di semina
10 bombe da 21 kg al
fosgene da 3 aerei
Caproni 111
3 tonnellate bombe
esplosive e all'iprite
36 indigeni e
960 capi di
bestiame
Bombe al fosgene
42 individui
centinaia di
8 quintali di iprite
capi di
bestiame uccisi
300 cammelli
Bombe a gas
numerosi
pastori
24 bombe da 21 kg a
Distruzione
iprite da 4 aerei Romeo bestiame e di
12 bombe da 12 kg e 320 numerosi
da 2 kg con esplosivo
ribelli
23
gen. Siciliani6.
Graziani7.
convenzionale
1
"Relazione Mombelli: Caproni esplorò regione Uadi el Faregh...avvistò e bombardò
grosso attendamento circa 150 tende coniche e rettangolari.Bombardò regione Saunno
con esito visibilmente efficace settantina tende e numeroso bestiame al
pascolo.Bombardò ripetutamente accampamento due chilometri est Garbagniha ...
nonchè ... nuclei armati intenti lavori semina.".
2
"A prova della terribile efficacia dei bombardamenti sta il fatto che basta ormai
l'apparizione dei nostri apparecchi perché grossi aggregati spariscano allontanandosi
sempre più".
3
"Relazione De Bono al ministro delle colonie: 263 Op.UG/Segreto: Stamane come
stabilito quattro Ca 73 e tre Ro hanno bombardato Gife con evidente distruzione. I
quattro Ca 73 sonosi spinti circa settanta chilometri sud Nufilia bombardando anche a
gas circa quattrocento tende....".
4
"Relazione Teruzzi: Gebel. Ieri undici, aviazione Mechili bombardato efficacemente
noto accampamento con bestiame pascolante .... Risulta da fonte attendibile che recenti
bombardamenti eseguiti da aviazione abbiano causato ai ribelli quarantina persone
uccise altrettanti feriti e sessantina cammelli abbattuti...".
5
"Relazione Teruzzi: Sembra che nello Zeefran i ribelli abbiano abbandonato quaranta
tende .... in seguito ripetuti bombardamenti a gas".
6
"Telegramma Badoglio a Siciliani e De Bono "Si ricordi che per Omar el Muchtar
occorrono due cose: primo ottimo servizio informazioni, secondo, una buona sorpresa
con aviazione e bombe a iprite....".
7
"Graziani in Cirenaica pacificata a proposito del bombardamento dell'oasi di Taizerbo
scrive "Fu effettuato il bombardamento con circa una tonnellata di esplosivo ... Un
indigeno, facente parte di un nucleo di razziatori, catturato pochi giorni dopo il
bombardamento, asserì che le perdite subite dalla popolazione erano state sensibili, e
più grande ancora il panico.""
http://www.criminidiguerra.it/html/Itinerari.htm
La guerra di conquista dell'Etiopia:
i crimini sulle popolazioni e l'uso dei gas.
24
Per Africa Orientale italiana si intende quel territorio comprendente Eritrea e Somalia
costituito nel gennaio del 1935 dal fascismo in previsione della guerra con l'Etiopia che,
dopo la conquista italiana. costituirà parte integrante del territorio.
L'Eritrea fu la prima colonia italiana costituita dopo l'acquisto da parte del governo
italiano (1882) della baia di Assab, sul mar Rosso,dalla Società Rubattino che, a sua
volta, l'aveva acquistata dieci anni prima da sultani locali.
La colonizzazione italiana proseguirà nel 1885 con l'occupazione di Massaua che porrà
sempre più in primo piano i rapporti con l'Impero abissinio.
Nel 1886 l'eccidio di Dogali, compiuto dagli Abissini per contrastare l'espansionismo
italiano, ne sarà un esempio.
L'espansionismo italiano continuerà sino ai limiti dell'altopiano etiopico e troverà un atto
significativo nel Trattato di Uccialli che, per il governo italiano ma non per quello
etiope, stabiliva una sorta di protettorato dell'Italia sull'Etiopia.
Dopo l'occupazione del Tigrè, avvenuta nel1893, il colonialismo italiano subisce una
battuta d'arresto con le sconfitta di Amba Alagi, Macallè e Adua.L'Eritrea costituirà la
base delle operazioni del fronte nord, guidate da Graziani, nella campagna di Etiopia.
Negli stessi anni L'Italia allargava la sua influenza verso il Benadir, Merca, Mogadiscio
(Somalia italiana) previ accordi con il Sultanato di Zanzibar.La Somalia diventerà la
base delle operazioni del fronte sud guidate da Graziani, nella campagna di Etiopia.
Nella parte settentrionale gli accordi con l'Impero abissinio stabilivano che tutto
"l'Ogaden restasse all'Abissinia".Fu proprio nell'Ogaden a Ual/Ual, ai confini con la
Somalia italiana, che si verificarono quegli incidenti che fornirono il pretesto per
l'aggressione all'Etiopia. Mussolini, che aveva già deciso l'intervento, tenta di prendere
tempo sul piano internazionale e, nello stesso tempo, di organizzare tempi e modi di
attuazione dell'aggressione.
La campagna militare per la conquista dell'ETIOPIA
Ottobre 1935. De Bono ordina ai 3 corpi d'armata di passare il confine del Mareb
(confine
eritreo)
avendo
come
primo
obiettivo
Adua
e
Adigrat.
L'armamento è considerevole in quanto i centomila uomini che stanno per muoversi
dispongono di 2300 mitragliatrici, 230 cannoni, 156 carri d'assalto. Dall'Eritra sono
anche pronti a decollare 126 aerei.
25
I militari italiani avanzano senza incontrare resistenza. L'aviazione, intanto, bombarda
Adua
e
Adigrat
facendo
numerose
vittime
tra
i
civili.
L'episodio è registrato nel diario di De Bono, che così scrive: "Il Negus ha già protestato
per il bombardamento aereo dicendo che si sono ammazzati donne e bambini. Non
vorranno che si buttino giù dei confetti".
Il 6 Ottobre l'armata italiana entra ad Adua incontrando poca resistenza in quanto Hailè
Selassiè ha scelto la tattica del ripiegamento per portare i nemici al centro del paese,
lontano dai loro centri di rifornimento.
Il ras Sejum, cognato del ras Cassa, a cui il negus aveva affidato il comando delle armate
del nord, ripiega nel Tembien, camminando di notte per sfuggire all'osservazione aerea.
De Bono, intanto, provvede al rafforzamento delle posizioni occupate costruendo strade,
impianti di linee telefoniche, allestendo campi...
Ma il comportamento delle truppe di occupazione si fa subito preoccupante, se De Bono
il 15 Ottobre, alla vigilia dell'occupazione di Axum, scriverà al generale Maravigna
"Allo scopo di evitare che si ripetano ad Axum depredazioni e danneggiamenti come si è
verificato ad Adua, prego disporre che l'ingresso della città sia di massima interdetto ai
militari sia metropolitani che indigeni, disponendo un servizio di vigilanza e
perlustrazione all'interno della città stessa. (ASMAI AOI 181/24)
11 Ottobre. Defezione del degiac (comandante di reggimento) Gugsa, genero
dell'imperatore, che produce effetti morali e militari sulle truppe etiopi.
18 Ottobre. Incontro di De Bono con Lessona, ministro delle colonie, e il maresciallo
Badoglio inviati da Mussolini in Eritrea per relazionare sull'atteggiamento di De Bono,
considerato troppo cauto nel procedere all'avanzata.
Mussolini, infatti, spinge per l'occupazione rapida di Macallè-Tacazzè che, secondo i
suoi
ordini,
deve
avvenire
il
3
novembre.
FRONTE SUD
Ottobre 1935. Graziani ordina subito massicci bombardamenti. Occupate alcune città tra
cui Dolo, Dagnerei, Oddo.
10 Ottobre. Primo bombardamento chimico a Gorrahei, campo trincerato, il più
importante sulla strada di Dagahbùr.
26
2-4-5 novembre. 18 aerei Caproni lanciano 189 quintali di esplosivo, mentre i caccia a
volo radente sparano 13.730 colpi.
"Tutta la zona pare arata dalle bombe: non c'è tratto che non sia sconvolto, ... l'azione
aerea è stata formidabile e le sue tracce lasciano facilmente immaginare quale sia stato
il tormento degli abissini che, pazzi di terrore, non hanno più resistito e sono fuggiti col
loro capo morente." (Luigi Frusci generale in "In Somalia sul fronte meridionale"
Cappelli 1936).
Il capo di cui si parla è il grasmac (comandante di zona) Afeuork che, sebbene ferito, si
rifiuta di lasciare il comando e morirà prima di arrivare all'ospedale di Dagabhur.
11 novembre. Hamanlei attacco etiope. Quattro carri armati Fiat-Ansaldo vengono
distrutti. Perdite italiane.
Graziani è costretto ad aspettare 5 mesi prima di riprendere l'offensiva nell'Ogaden.
FRONTE NORD
De Bono, spinto da Mussolini, riprende l'operazione di conquista di Macallè.
Non trovando resistenza la città viene occupata l'8 novembre. Ma con questa
occupazione la situazione peggiora perché dopo settimane di marcia le armate abissine
provenienti dalle regioni centrali sono giunte a contatto con gli avamposti nemici.
18 novembre. Gli aerei italiani scoprono il concentramento di reparti nemici (formato
dall'armata del ras Cassia, da quella del ras Sejum) e lo bombardano con 45 quintali di
esplosivo.
Gli abissini reagiscono all'offesa aerea e sanno disperdersi in tempo per evitare gravi
perdite.
11 novembre. Mussolini spinge De Bono a marciare su Amba Lagi, ma, di fronte alle
perplessità di De Bono, acconsente ad una "ragionevole sosta a Macallè".
14 novembre. Mussolini comunica a De Bono che ha nominato come suo successore
Badoglio.
28 novembre. Arriva Badoglio.
Con Badoglio la guerra muta carattere diventando guerra di distruzione.
Verranno colpite le città, gli accampamenti, le strade, gli ospedali. Saranno
impiegati per la prima volta i gas asfissianti e l'iprite.
27
A dicembre inizia la controffensiva etiopica: le tre armate etiopiche si stanno
avvicinando a quelle armate italiane.
A sud dell'Amba Aradan si trova l'armata del ras Mulughietà, quella del ras Cassa si
avvia verso il Tembien, mentre quella del ras Immirù ha le sue avanguardie nel Tacazzè.
4 dicembre. Vengono lanciati 45 quintali di bombe sulle colonne di ras Immirù per
rallentarne l'avanzata.
6 dicembre. 76 quintali di esplosivo distruggono la cittadina di Dessiè e le tende della
Croce Rossa. Nonostante ciò gli abissini hanno imparato a camuffarsi e disperdersi e a
metà dicembre sono a contatto con gli italiani su tutto il fronte.
14-15 dicembre. Le avanguardie di ras Immirù attraversano il fiume Tacazzè. Un altro
contingente punta al passo di Dembeguinà dove passa l'unica via di comunicazione con
le linee nemiche con lo scopo di tagliare la ritirata agli italiani.
La sconfitta di Dembeguinà apre a ras Immirù lo Scirè, mentre il ras Cassia invadendo il
Tembiem, minaccia Macallè.
Di fronte a questa delicata situazione Badoglio decide di iniziare la guerra chimica, non
solo per fermare l'avanzata delle truppe ma per terrorizzare le popolazioni.
Dal 22 dicembre al 18 gennaio vengono lanciati sul fronte nord duemila quintali di
bombe, per una parte rilevante caricate a gas tra cui l'iprite (solfuro di etile biclorurato),
che provoca la necrosi del protoplasma cellulare ed è sicuramente mortale.
Testimonianze
Hailè Selassiè dinanzi all'assemblea ginevrina il 30 giugno 1936: "fu all'epoca di
accerchiamento di Macallè che il comando italiano, temendo una disfatta, applicò il
procedimento che ho il dovere di denunciare al mondo. Dei diffusori furono istallati a
bordo degli aerei in modo da vaporizzare, su vaste distese di territorio, una sottile
pioggia micidiale. A gruppi di nove, di quindici, di diciotto, gli aerei si succedevano in
modo che la nebbia emessa da ciascuno formasse una coltre continua. Fu così che, a
partire dalla fine di gennaio 1936, i soldati, le donne, i bambini, il bestiame, i fiumi, i
laghi, i pascoli, furono di continuo spruzzati con questa pioggia mortale. Per uccidere
sistematicamente gli esseri viventi, per avvelenare con certezza le acque e i pascoli, il
comando italiano fece passare e ripassare gli aerei. Questo fu il suo principale metodo
di guerra."
Dottor Schuppler, responsabile dell'ambulanza n.3, in un rapporto al ministro degli
Esteri etiopico: "Ho l'onore di portare a vostra conoscenza che il 14 gennaio 1936, per
la prima volta, delle bombe a gas sono state impiegate dagli aviatori italiani. Queste
bombe hanno ucciso 20 contadini e io ho curato 15 casi di persone colpite dal
28
bombardamento a gas tra cui 2 bambini. Le ustioni sono state provocate dall'iprite,
usata a sud del passo di Alagi".
Dottor Melly, responsabile di una delle ambulanze inglesi: "Tra il 7 e il 22 marzo
allorché questa ambulanza si trovava nella regione dell'Ascianghi, curammo dai due ai
trecento casi di ustioni da iprite. La maggior parte dei gasati era rimasta
momentaneamente accecata. Un gran numero di ustioni presentava un carattere
particolarmente grave, terribile."
M. Junod, delegato Croce Rossa Internazionale, testimonia sul bombardamento all'iprite
sull'aereoporto di Quorum.
FRONTE SUD
Contemporaneamente all'avanzata del ras Immirù a nord, il ras Destà giunge a contatto
con le difese italiane del campo di Dolo.
Graziani decide di utilizzare in modo massiccio l'aviazione, ottenendo da Mussolini
libertà d'azione per l'uso dei gas asfissianti.
Su Neghelli, base di rifornimento per gli etiopi, rovescia 177 quintali di esplosivo e di
gas.
Testimonianza di ras Destà all'imperatore: "Dal 17 dicembre gli italiani gettano anche
bombe a gas, le quali piovono come la grandine... Le lesioni, anche leggere, prodotte da
tale gas gonfiano sempre più sino a diventare, per infezioni delle grandi piaghe".
30 dicembre. Graziani ordina un bombardamento nella zona di Gogorù per colpire lo
stato maggiore del ras Destà. Vengono lanciati da tre Caproni 3.134 chilogrammi di
esplosivo.
Molte bombe colpiscono le tende e gli automezzi di un ospedale da campo svedese con i
contrassegni della Croce Rossa provocando morti e feriti.
La notizia fa il giro del mondo.
La controffensiva di Graziani inizia il 12 gennaio nella battaglia del Ganale Doria che
vede il lancio di 1.700 chilogrammi di gas asfissianti e vescicanti sulle popolazioni
abissine e l'inizio del disfacimento dell'armata etiope; prosegue con la conquista di
Neghelli (20 gennaio) su cui vengono lanciati ben 1.250 quintali di esplosivo. Le armate
del ras Destà, bombardate e irrorate di iprite, tentano di raggiungere il Kenya, ma
verranno annientate nel cosiddetto "vallone della morte".
FRONTE NORD
29
La battaglia dell'Endertà.
Badoglio decide di prevenire l'avversario e dal 19 gennaio inizia la battaglia del
Tembien.
23 gennaio. Ras Cassia telegrafa all'imperatore per invitarlo a protestare presso la
Società delle Nazioni per l'uso di iprite da parte italiana. La battaglia si conclude il 24 e
con essa la controffensiva etiopica.
Hailè Selassiè che aveva il suo quartiere generale a Dessiè decide di cambiare strategia e
di andare incontro ai nemici avanzando verso Quoram. Secondo il negus questa scelta fu
dovuta anche all'uso degli aggressivi chimici da parte italiana.
10 febbraio. Badoglio inizia l'offensiva sull'Amba Aradan durante la quale vengono
sparate molte granate caricate con arsine.
Sull'Amba Aradan vengono catturati due europei al servizio del negus, il medico polacco
Belau e il suo assistente che verranno torturati perché ritrattino la dichiarazione inviata
alla SdN, che denunciavano il bombardamento indiscriminato di Dessiè.
17-18-19 febbraio. Tutti gli aerei disponibili del fronte nord inseguono l'avversario in
rotta, lasciando cadere in una sola giornata 730 quintali di esplosivo. "I piloti
sembravano scatenati. Si era data libertà di volo e di azione chi faceva prima a
rifornirsi partiva, era una gara continua ... Non c'era bisogno di abbassarsi troppo:
ogni spezzone piombava in mezzo a loro seminando la morte. Era una bella lezione per
quelle teste dure" (testimonianza di Vittorio Mussolini in Voli sulle ambe). Il ras
Mulughietà viene ucciso mentre le armate del ras Cassa e del ras Sejum sono avvolti
nella manovra a tenaglia di Badoglio.
Febbraio/marzo. Seconda battaglia del Tembien. L'aviazione scaricherà 1.950 quintali di
esplosivo. Con una manovra di accerchiamento gli italiani riescono ad annientare le
armate abissinie in ritirata che vengono decimate dall'aviazione.
"I gruppi marciavano in pieno disordine ma l'obbligatorietà del percorso lungo la pista,
la strettezza dei guadi, i binari delle pareti dei burroni, contribuivano inevitabilmente a
tenerli addensati in colonna. Anche da mille metri era facile scorgerli. Poi si piombava,
il veicolo imboccava il corridoio delle anguste valli, ne obbediva lo zig zag. Seminava
intanto, sobbalzando agli schianti, il suo carico mortale". (Pavolini "Corriere della sera
", 3/3/1936.)
28 febbraio. Viene occupata Amba Alagi.
30
29 febbraio. Mentre è in corso la seconda battaglia del Tembien, Badoglio attacca
l'ultima armata etiopica del fronte nord, quella del ras Immirù nella battaglia dello Scirè.
Per fiaccare il nemico Badoglio, come di consueto, all'impiego dei caccia e degli aerei da
bombardamento.
2 marzo. Verranno usati per la prima volta i lanciafiamme.
3-4 marzo. Badoglio, vistosi fuggire il grosso dell'esercito del ras Immirù verso i guadi
del Tacazzè, ordina all'aviazione di proseguire da sola la battaglia.
Verranno lanciati 636 quintali di esplosivo e di iprite. Lo stesso Badoglio racconta che
per rendere più completa la distruzione vengono lanciate piccole bombe incendiarie che
trasformano in un solo rogo i fianchi boschivi della valle del Tacazzè rendendo tragica la
situazione del nemico in fuga. I piloti che scendono a volo radente per mitragliare i
superstiti rilevano notevoli masse nemiche abbattute e grande quantità di uomini e di
quadrupedi trasportati dalla corrente.
Intanto il ras Immirù viene inseguito a sud del Tacazzè e i ras Cassa e Sejum si ritirano
su Quorum.
19 marzo. Il negus Hailè Selassiè, raggiunto nel suo quartier generale a Quorum, dal ras
Cassa e dal ras Sejum, decide di avanzare verso gli italiani e di dare battaglia nel loro
campo a Mau Ceu prima che arrivino forze più numerose.
Badoglio, che ancora non sa della decisione del negus, così scrive a Lessona in un
telegramma del 12/3/36: "Se il nemico invece di accettare battaglia nei pressi di
Quorum mi fa uno sbalzo indietro di cento chilometri, portandosi a Dessì, sono fritto.
Allora non rimane che il mio vecchio progetto. Mettere in azione tutta l'aviazione e
cominciare da Addis Abeba a tutti i centri importanti. Tabula rasa. Sono convinto che in
una settimana metteremmo l'Abissinia in ginocchio".
21 marzo. Badoglio apprenderà la decisione del negus e si preparerà alla battaglia di
Mau Ceu.
29 marzo. Mussolini rinnova a Badoglio l'autorizzazione ad usare gas di qualunque
specie (tel n.3652).
30 marzo. La battaglia durerà 13 ore durante la quale gli aerei italiani lanceranno 335
quintali di esplosivo e sparano 6.200 colpi di mitragliatrice.
1 aprile. Hailè Selassiè ordina agli uomini rimasti di ripiegare sulla pianura del lago
Ascianghi dove verranno inseguiti e bombardati senza tregua.
4 aprile. Gli scampati alla battaglia di Mau Ceu verranno bombardati con 700 quintali di
bombe, molte caricate ad iprite. "Per gli aviatori italiani non era più guerra era un
gioco. Quale era il rischio nel mitragliare dei cadaveri e dei morenti i cui occhi erano
31
bruciati
dai
gas?"
(
testimonianza
di
Hailè
Selassiè).
Il giornalista Cesco Tomaselli racconta: "Le bombe esplodono nel fitto degli uomini che
arrancano curvi, tenendo le mani sulla testa come si fa quando si è colti da una
grandinata sui campi."
Molti moriranno per aver bevuto l'acqua contaminata dai gas tossici del lago dell'Endà
Agafarì.
È Hailè Selassiè che racconta l'atroce visione e sottolinea come "sarebbe stato
necessario fissare questa immagine per poterla presentare al mondo e distruggere per
sempre nel cuore degli uomini i propositi di guerra".
FRONTE SUD
L'avanzata di Badoglio preoccupa Graziani di restare escluso dal successo finale; così,
non potendo ancora iniziare l'azione di terra, comunica che inizierà la sua offensiva
aerea su Harar: "Ho ordinato che oggi 30 aerei da bombardamento distruggano
Giggiga... dopo la distruzione di Giggiga distruggerò Harar" (Graziani a Badoglio e
Mussolini 2/3/36).
22-23-24 marzo. 56 apparecchi lanciano 240 quintali di esplosivo.
29 marzo. Bombardata Harar, già dichiarata città aperta, e i cui obiettivi di importanza
militare sono insignificanti. Sulla città verranno lanciati 120 quintali di esplosivo.
Un inviato del Corriere della sera, Mario Massai, che è a bordo di uno degli aerei scrive:
"Per quaranta minuti sono sbocciati sui bersagli, nella massa del colore ocra delle
casette di Harar, mostruosi funghi grigio-scuri per le esplosioni delle bombe di grosso
calibro e sono sprizzate le lingue di fuoco degli incendi. La popolazione, che fin dal
primo avvistamento si era rovesciata in torrenti umani per le strette vie verso l'esterno
della città, ha assistito certo terrorizzata all'impressionante attacco aereo".
Già il 3 marzo Graziani, nella Memoria segreta operativa per l'azione su Harar, tra le
condizioni per la riuscita della azione, poneva il "libero uso di bombe e proiettili a
liquidi speciali per infliggere al nemico le massime perdite e soprattutto per produrne il
completo collasso morale".
9 aprile. Graziani telegrafa a Lessona (sottosegretario alle colonie) per informarlo del
bombardamento a iprite del giorno precedente a Bullalèh, Sassabanèh, Dagahbùr,
Daagamedò, Segàg, Bircùt.
Due giorni dopo Mussolini telegrafa a Graziani ordinandogli di non fare uso di gas, ma
dopo pochi giorni revoca l'ordine.
32
15 aprile. Graziani dà inizio all'offensiva su Harar.
Dopo aver gasato e bombardato per un mese la difesa etiope, Graziani inizia l'attacco da
terra.
Il vescovo cattolico di Harar scrive ai suoi superiori in Francia: "Il bombardamento che
gli italiani hanno fatto contro la città è un atto barbaro che merita la maledizione del
Cielo".
La battaglia dell'Ogaden si concluderà con la conquista delle città precedentemente
bombardate.
FRONTE NORD
26 aprile. Badoglio inizia la marcia verso Addis Abeba.
2 maggio. Hailè Selassiè lascia l'Etiopia per raggiungere l'Europa.
La notizia provocherà gravi disordini e saccheggi ad Addis Abeba. La maggior parte dei
seimila stranieri si rifugia nelle legazioni. Fonti italiane parlano di 600 morti.
Il cronista G.Steer sciverà: "Di quelli che ho visto morti o morenti, non ce n'è uno solo il
cui sangue non ricada sulla testa di Mussolini".
Si sa, infatti, che l'occupazione di Addis Abeba poteva avvenire la notte del 2 maggio e
che il rinvio di tre giorni è da ricollegarsi al desiderio di sfruttare la tragedia in funzione
antietiopica, perché fornisce l'occasione di presentare il popolo etiope semibarbaro e
incapace di gestirsi da solo.
3 Maggio. Badoglio riceve un telegramma da Mussolini: "Occupata Addis Abeba V.E
darà ordine perché: 1) siano fucilati sommariamente tutti coloro che in città o dintorni
siano sorpresi con le armi alla mano, 2) siano fucilati sommariamente tutti i giovani
etiopi, barbari, crudeli, pretenziosi, autori motali dei saccheggi, 3) siano fucilati quanti
abbiano partecipato a violenze, saccheggi, incendi 4) siano sommariamente fucilati
quanti, trascorse 24 ore, non abbiano consegnato armi da fuoco e munizioni."(tel n.
5007)
5 maggio. Badoglio entra in Addis Abeba.
Steer scrive: "Gli italiani istituirono immediatamente la pena di morte per due reati: il
primo riguardava la partecipazione al saccheggio, il secondo il possesso di armi...
Ottantacinque etiopi, accusati di saccheggio, furono giudicati e condannati a morte da
una corte sommaria. Ma le fucilazioni eseguite dai carabinieri sul posto furono molte di
più, ed esse vennero fatte senza alcuna parvenza di processo. Se oggetti che essi
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ritenevano rubati venivano scoperti in un tucul, il proprietario era immediatamente
ucciso. Inquirenti francesi hanno calcolato che almeno 1.500 sono stati liquidati in
questo modo".
FRONTE SUD
9 maggio. Graziani incontrerà Badoglio alla stazione di Dire Daua. Con la stretta di
mano tra i due e l'incontro tra le armate italiane del nord quelle del sud, si conclude
ufficialmente la guerra.
26 maggio. Badoglio lascia definitivamente l'Africa.
Graziani diventa vicerè, governatore generale e comandante superiore delle truppe.
E vediamo un paio di foto:
La testa mozza del degiac, patriota etiopico, Hailú Chebbedè
34
La testa appesa ...
http://www.criminidiguerra.it/html/repressioneimpero.htm
La repressione in Africa Orientale Italiana
(AOI) dopo la proclamazione dell'Impero
Giugno 1936. L'Etiopia resta per quasi due terzi da occupare soprattutto nell'ovest e nel
sud dell'impero.
I focolai di guerriglia sono presenti nello Scioa e lungo la ferrovia Addis Abeba-Gibuti.
Difficoltà anche a causa della stagione delle piogge che blocca i movimenti nelle strade
e rende difficili i rifornimenti.
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Graziani è praticamente assediato ad Addis Abeba, mentre Badoglio è in Italia a
riscuotere premi e onori.
In complesso il periodo da maggio a ottobre ha un carattere prevalentemente difensivo.
Si intensifica la repressione del ribellismo.
Nei primi giorni di giugno Mussolini telegrafa a Graziani i seguenti ordini:
"Tutti i ribelli fatti prigionieri devono essere passati per le armi" (tel n. 6496)
"Per finirla con i ribelli...impieghi i gas" (tel.6595)
"Autorizzo ancora una volta V.E a iniziare e condurre sistematicamente la politica del
terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni complici. (tel n. 8103)
Poggiali, nel suo Diario AOI, scrive a proposito di Addis Abeba: "Intorno alla città vi
sono bande armate e minacciose. Da una settimana si vive sotto l'incubo di un assalto in
grande stile".
L'attacco viene sferrato il 28 luglio.
Nel timore che la popolazione insorga i carabinieri operano arresti di massa di etiopi
adulti e Poggiali afferma: "Probabilmente la maggior parte è innocente persino di
quanto accaduto. Trattamento superlativamente brutale da parte dei carabinieri, che
distribuiscono scudisciate e colpi di calci di pistola".
A questo attacco partecipa il degiac Aberra Cassa secondogenito del ras Hailù che gode
di grande prestigio sia perché di sangue imperiale, sia perché si è distinto come grande
combattente nella battaglia del Tembien e nella difficile ritirata di Mau Ceu. Inoltre gode
dell'appoggio della chiesa copta e in particolare del vescovo di Dessiè, l'abuna Petros.
Coadiuvato dal fratello, dopo i primi rovesci, adotterà una politica temporeggiatrice che
lo isolerà rendendolo preda di Graziani.
L'attacco ad Addis Abeba fallirà, l'abuna Petros portato in piazza verrà giudicato
colpevole da un tribunale militare e giustiziato dai fucili di 8 carabinieri.
Graziani informa Lessona, ministro delle colonie: "La fucilazione dell'abuna Petros ha
terrorizzato capi e popolazione... Continua l'opera di repressione degli armati dispersi
nei boschi. Sono stati passati per le armi tutti i prigionieri. Sono state effettuate
repressioni inesorabili su tutte le popolazioni colpevoli se non di connivenza di mancata
reazione" (telegramma n.1667/8906).
Un altro problema per Graziani è l'occupazione dell'ovest ( in particolare i centri di
Gore, Lechemiti, Gimma, Gambela) che Mussolini vuole al più presto sotto controllo per
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allontanare il pericolo di una eventuale pretesa del governo inglese su quei territori in
quanto confinanti con il Sudan.
Il problema più urgente è Gore dove da maggio si è insediato un governo provvisorio e
dove si sono rifugiati gli uomini del passato regime, gran parte dei Giovani Etiopi, la
metà dei cadetti di Olettae, i soldati del ras Immirù ( il miglior generale di Hailè
Selassiè).
In questo contesto avverrà il rogo di tre aerei italiani da bombardamento, che provocherà
grande ondata di indignazione in Italia, ma nessuna rappresaglia perché il 4 luglio la
Società delle nazioni revoca le sanzioni all'Italia e il problema dell'Ovest non ha più
quella urgenza prima sottolineata.
Dal mese di ottobre Graziani riprende la conquista dell'Ovest, mentre il ras Immirù tenta
di sfuggire all'accerchiamento e nello stesso tempo incita le popolazioni contro gli
italiani: "Gli italiani che contro il loro diritto hanno ucciso i nostri soldati col veleno e
con le bombe, sono forse venuti ora per guardarvi col cuore commosso, per farvi vivere
tranquilli? ... Se gli italiani avessero un cuore buono e sapessero governare, non
avrebbero dovuto combattere per 25 anni a Tripoli ... Gli italiani ci vogliono togliere il
paese che i nostri avi resero prospero..."(ACS Fondo Graziani).
Il ras Immirù si arrenderà il 16 dicembre e verrà confinato in Italia sino al 1943.
Nello stesso periodo vengono uccisi i tre fratelli Cassa.
Il primogenito Uonduossen si arrese alle truppe del generale Pirzo Biroli e subito passato
per le armi. Gli altri due si consegnarono spontaneamente al generale Tracchia contando
sulla garanzia fatta dagli italiani di aver salva la vita; furono arrestati dai carabinieri,
mentre bevevano il caffè nella tenda del generale Tracchia che così comunica la notizia a
Graziani: "Alle 18,35 in Ficcè, sede della loro famiglia e noto covo di rivolta da cui
partirono gli ordini per l'attacco alla capitale, Aberra e il fratello Asfauossen cadevano
sotto il piombo giustiziatore."
L'unico capo etiope ancora in armi era ras Destà che, a fine novembre, dopo aver
abbandonato Sidamo, si ritira al centro in una regione montuosa. Nel dicembre accetta di
avviare trattative con gli italiani ma, la notizia della uccisione dei fratelli Cassa e la
richiesta della sottomissione senza condizioni fatta dagli italiani, fanno fallire le
trattative.
Graziani ordina di bombardare la regione in cui il ras ha trovato rifugio. Si combatte per
una settimana. Il ras, inseguito dall'aviazione e dagli autoblindo, viene nuovamente
attaccato mentre sosta a Goggetti, ma riesce a scappare.
Secondo gli ordini di Mussolini, tutti i capi catturati verranno passati alle armi e lo stesso
villaggio dato alle fiamme.
"È inteso che la popolazione maschile di Goggetti di età superiore ai 18 anni deve
essere passata per le armi e il paese distrutto" (tel 54000).
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Il ras Destà verrà fatto prigioniero nel suo villaggio natale il 24 febbraio da uomini di un
degiac collaborazionista.
Consegnato agli italiani fu impiccato dagli uomini del capitano Tucci.
Sulla "Gazzetta del popolo" del 24 febbraio 1938 Guido Pallotta vice-segretario dei Guf,
commentando la morte del genero dell'imperatore, scrive: "E nello scroscio del plotone
di esecuzione echeggiò la più strafottente risata fascista in faccia al mondo, la sfida più
cocente alle truppe sanzioniste. Schiaffone magistrale che il capitano Tucci menò alla
maniera squadrista sulle guance imbellettate della baldracca ginevrina".
Ma dopo il fallito attentato a Graziani si scatena la reazione ancora più violenta degli
italiani.
17 febbraio 1937. Graziani invita nel suo palazzo di Adis Abeba la nobiltà etiope per
festeggiare la nascita del principe di Napoli e per l'occasione decide di distribuire una
elemosina ad invalidi del luogo (ciechi, storpi, zoppi ).
La testimonianza di un medico ungherese presente, sottolinea la dura rappresaglia
seguita al fallito attentato. Anche le immagini del filmato Fascist legacy della BBC
mostrano come nessun etiope uscì vivo dal cortile dove si teneva la cerimonia.
Una nota dell'ambasciatore USA in Etiopia sottolinea che fatti del genere non si
vedevano dal tempo del massacro degli armeni.
Graziani comunica immediatamente ai governatori delle altre regioni di agire con il
massimo rigore.
Ad Addis Abeba è il federale Guido Cortese che scatena la rappresaglia.
Testimonianza di Poggiali: "Tutti i civili che si trovano ad Addis Abeba hanno assunto il
compito della vendetta, condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo
fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si
trovano ancora in strada... Vedo un autista che, dopo aver abbattuto un vecchio negro
con un colpo di mazza, gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile
dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e innocente".
Vengono incendiati tucul, chiese copte, terreni coltivati, quintali di orzo Anche la chiesa
di San Giorgio viene data alle fiamme "per ordine e alla presenza del federale Cortese".
Ad Addis Abeba 700 indigeni vengono fucilati dopo essere usciti a gruppi dalla
ambasciata britannica dove si erano rifugiati (fatto denunciato dal ministro inglese al
Parlamento il 26/3/37).
Vengono inquinati i terreni con aggressivi chimici, abbattuto il bestiame.
Molti uomini bruciati vivi, altri lapidati o squartati.
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Mussolini con un fonogramma impone che ogni civile sospettato sia fucilato senza
processo.
Il numero esatto delle vittime della repressione è di 30.000 per gli etiopi, tra i 1.400 e i
6.000 per inglesi, francesi e americani.
Graziani il 22 febbraio scrive a Mussolini: "In questi tre giorni ho fatto compiere nella
città perquisizioni con l'ordine di far passare per le armi chiunque fosse trovato in
possesso di strumenti bellici, che le case relative fossero incendiate. Sono state di
conseguenza passate per le armi un migliaio di persone e bruciati quasi altrettanti
tucul" (tel n. 9170).
26 febbraio. Graziani fa fucilare 45 "tra notabili e gregari risultati colpevoli manifesti"
(tel. N.9894 ).
Nei giorni successivi fa fucilare altri 26 esponenti della intellighenzia etiopica, elementi
aperti alla cultura europea. Altri 400 notabili vengono trasferiti in Italia, mentre altri
"elementi di scarsa importanza ma nocivi" con a seguito donne e bambini (tel. Graziani
a Santini n.20650), vengono confinati a Danane dopo un viaggio durato più di 15 giorni
che provocherà morti per stenti, vaiolo e dissenteria.
19 marzo. Graziani scrive a Lessona: "Convinto della necessità di stroncare
radicalmente questa mala pianta, ho ordinato che tutti i cantastorie, gli indovini e
stregoni della città e dintorni fossero passati per le armi. A tutt'oggi ne sono stati
rastrellati e eliminati settanta."(tel. 14440).
21 marzo. Graziani scrive a Mussolini: "Dal 19 febbraio ad oggi sono state eseguite 324
esecuzioni sommarie... senza comprendere le repressioni dei giorni 19 e 20 febbraio"
30 aprile. Le esecuzioni sono passate a 710 (tel. n.22583), il 5 luglio a 1686 (tel
n.33911), il 25 luglio a 1878 (tel. n. 36920) e il 3 agosto a 1918 (tel. n.37784).
Dalla relazione del colonnello Hazon si evince che i soli carabinieri hanno passato per le
armi 2.509 indigeni.
Alcuni episodi raccontati dallo stesso Graziani testimoniano che le esecuzioni
avvenivano spesso senza la minima prova.
14 marzo. Un nucleo di carabinieri, recatosi in una abitazione per arrestare un ricercato,
arresta sia il proprietario che gli 11 indigeni che si trovavano sul posto per non aver
favorito la cattura del ricercato.
Graziani scriverà a Lessona "Data la gravità del fatto li ho fatti passare per le armi" (tel.
n.14150).
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23 aprile. 32 capi amhara e 100 indigeni fucilati per condotta dubbia e Argio bruciata
(tel. Graziani a Lessona n.23313)
25 aprile. 200 amhara arrestati, cacciati dentro una fossa e fucilati.
Poggiali scrive: "Nell'Uollamo un capitano italiano ha fatto razzia di bestiame a danno
di una famiglia indigena. Il capofamiglia denuncia la prepotenza e il capitano uccide
tutta la famiglia compresi i bambini".
A maggio Graziani si vendica del clero copto accusato di connivenza con gli autori
dell'attentato.
Secondo la relazione del generale Maletti, che ha sostituito Tracchia nella repressione
dello Scioa, in due settimane le sue truppe incendiano 115.422 tucul, tre chiese, un
convento, e uccidono 2.523 ribelli, servendosi del battaglione musulmano al posto di
quello eritreo composto in gran parte da copti.
Maletti il 18 maggio accerchia il villaggio conventuale di Debra Libanòs, il più celebre
di Etiopia."Questo avvocato militare mi comunica che ha raggiunto le prove della
correità dei monaci del convento ... Passi pertanto per le armi tutti i monaci compreso il
vicepriore" (tel. di Graziani a Maletti n. 25876)Dopo aver ricevuto da Graziani la conferma della responsabilità del convento
nell'attentato, il 20 maggio, trasferisce in un vallone a Ficcè 297 monaci e 23 laici e li
passa per le armi".
Sono stati risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale d'ordine... Il
convento chiuso definitamente." (tel. Di Graziani Lessona n.23260).
Tre giorni dopo invia un nuovo telegramma a Maletti: "Confermo pienamente la
responsabilità del convento di Debra Libanòs. Ordino pertanto di passare per le armi
tutti i diaconi" (tel. 26609).
In realtà recenti studi hanno fatto salire a 1600 il numero delle vittime del massacro di
Debra Libanos.
Intanto continua l'azione antiguerriglia delle truppe italiane nelle regioni dell'impero
come si deduce dai bollettini inviati al ministero dell'Africa italiana.
I fatti si riferiscono a esecuzioni, rastrellamenti di armi, distruzioni di paesi ostili.
4 aprile. Bruciato il paese di Atzei e il bestiame sequestrato dopo aver accertata la
ostilità degli abitanti contro gli italiani.
12 aprile. Nella regione dei Galla-Sidamo erano stati sequestrati 2.000 fucili, 14
mitragliatrici, 50 pistole; nel territorio di Ambo 6.823 fucili, 16 mitragliatrici, 19 pistole.
40
18 aprile. Occupato e incendiato il villaggio di Eso dopo che erano stati catturati e
eliminati 21 ribelli.
1 maggio. Graziani comunica a Roma che i bombardamenti nel governatorato dell'Harrar
proseguivano.
In agosto scoppia simultaneamente una rivolta in varie parti dell'impero. Per Graziani il
principale capo è Hailù Chebbedè.
Nel settembre del 1937 viene catturato e fucilato; la sua testa infilzata su un palo è
esposta nella piazza del mercato di Socotà e Quoram.
Graziani, alla fine dell'anno, verrà sostituito con il Duca d'Aosta che attuerà una politica
meno repressiva .
http://www.criminidiguerra.it/html/campiafrica.htm
I campi concentramento per i civili nell'Africa
italiana
Campi di concentramento (16 in Libia 1 in Eritrea 1 in Somalia)
Campi di rieducazione (4)
Campi di punizione (3)
Nei campi vennero inviati sia le tribù allontanate dal Gebel el- Achdar sia gli indigeni
appartenenti a tribù seminomadi vaganti attorno alle oasi o all'interno.
I principali campi di concentramento furono Soluch (a sud di Bengasi); Sidi el Magrum
(a ovest di Bengasi) ;Agedabia (a 200 km a ovest di Bengasi) nelle vicinanze della
primitiva sede della Senussia per dare un segnale alla resistenza senussita della forza dei
coloniali italiani;.Marsa el Brega; el Abiar; el Agheila.
Nei campi di rieducazione inviati giovani appartenenti a tribù più evolute per
trasformarli in impiegati utili all'amministrazione coloniale.
Nei campi di punizione tutti coloro che avevano commesso reati o ostacolato
l'occupazione italiana.
Testimonianza di un sopravvissuto Reth Belgassen recluso ad Agheila (cfr Ottolenghi
op. cit.): "Dovevamo sopravvivere con un pugno di riso o di farina e spesso si era troppo
stanchi per lavorare... ricordo la miseria e le botte... Le nostre donne tenevano un
41
recipiente nella tenda per fare i bisogni... avevano paura di uscire rischiavano di essere
prese dgli etiopi o dagli italiani…le esecuzioni avvenivano... al centro del campo egli
italiani portavano tutta la gente a guardare. ci costringevano a guardare mentre
morivano i nostri fratelli. Ogni giorno uscivano 50 cadaveri."
Testimonianza della propaganda fascista "L'Oltremare": "... Nel campo di Soluch c'è
ordine e una disciplina perfetta e regna ordine e pulizia".
Dopo il crollo della dittatura Canevari, che era stato comandante in Cirenaica, scrive:
"Noi non abbiamo mai creato campi di concentramento in Cirenaica ma solo delle
riserve in campi splendidamente sistemati e forniti di tutto il necessario dalle tende ai
servizi idrici ... In tal modo il governo italiano li sottraeva dal dilemma o rifornire i
ribelli o cadere sotto le loro vendette. Dopo la permanenza nei campi, le popolazioni
della Cirenaica tornarono alle loro terre rinnovate dalla scienza e dalla scuola"
La mancanza di volontà nell'ammettere l'esistenza di campi di concentramento in Libia,
fa scrivere nel 1965, nel resoconto di G. Bucco e A. Natoli sulla "Organizzazione
sanitaria in Africa" dal Ministero degli Affari Esteri, che "La maggior parte degli
Auaghir viveva, prima di raccogliersi nella zona di Soluch, nelle zone... del Gebel",
quando invece queste tribù vi erano state deportate.
Motivi di chiusura dei campi
1) riduzione delle rivolte specialmente dopo l'esecuzione di Omar.el-Muktar.
2) coloni italiani già insediati nelle zone assegnate loro del Gebel cirenaico.
3) le popolazioni nomadi e seminomadi non avevano assimilato il tipo di vita sedentario
imposto nei campi.
4) pericolo di epidemie per l'alto numero di individui inviati nei campi.
5) costi eccessivi sia dal punto di vista economico che militare.
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PROVENIENZA
CAMPI DI
LAVORI DEI
CONCENTRAMENTO E/OCARATTERISTICHE
RECLUSI
LIBIA 1930/1933
DEI RECLUSI
NUMERO
NUMERO
RECLUSI
RECLUSI
ALLA
ALL'APERTURA
CHIUSURA
GEBEL EL-ACHDAR E
ZONA ATTORNO
BENGASI (TRIBÙ
SEMINOMADI)
LAVORI
STRADALI E
EDILIZIA
20000
COLTIVAZIONE
TERRA
ALLEVAMENTO
14500
GEBEL EL-ACHDAR
LAVORI
STRADALI E
EDILIZIA
13000
COLTIVAZIONE
TERRA
ALLEVAMENTO
8500
AGEDABIA
NOMADI MOGARBA
LAVORI
EDILIZI
FERROVIARI
9000
COLTIVAZIONE
ALLEVAMENTO
75OO
MARSA EL BREGA
MARABTIN
PROVENIENTI DA
OLTRE 500 KM
MARCIA DI 2 MESI
ALTRI VIA MARE NE
PARTIRONO13200 NE
ARRIVARONO10000
LAVORI
STRADALI
20072
ALLEVAMENTO
EL-ABIAR
TRIBÙ NOMADI
ENTROTERRA DI
BENGASI
COSTRUZIONE
DI STRADE
PASTORIZIA
SOLUCH
EL-MAGRUM
8000
APOLLONIA
628
BARCE
438
AIN GAZALA
426
DRIANA
275
EL NUFILIA
225
DERNA
145
COEFIA-GUARSCIA
145
SIDI CHALIFA
130
SUANI EL TERRIA
100
43
CAMPI DI
DETENUTI
TIPOLOGIA DETENUTI
PUNIZIONE COMPLESSIVI
NOCRA
1895 1930
ERITREA
EL
AGHEILA
1930 LIBIA
3000 UOMINI
SINO AL1910
DELINQUENTI COMUNI
POI DETENUTI POLITICI
TRIBÙ RIBELLI,
NOTABILI SENUSSITI,
30000 UOMINI
DEPORTATI
4500 DONNE
FUGGIASCHI DAI CC
DANANE
1935
SOMALIA
6500UOMINI
500 DONNE
VOLUTO DA GRAZIANI
PER ACCOGLIERE I
COMBATTENTI DELLE
ARMATE DI RAS
DESTA'(FRONTE SUD)
MA POPOLATO DAL 1936
DI NOTABILI DI MEDIO E
BASSO RANGO, DI EX
UFFICIALI DI MONACI
COPTI DI PARTIGIANI
ETC.
CAMPI DI RIEDUCAZIONE NUMERO DI
ANNESSI AI CC
INTERNATI
3175 MUOIONO PER SCARSA
ALIMENTAZIONE, MALARIA
ENTEROCOLITE,MANCANZA DI
IGIENE
SCOPO DEL CAMPO
SOLUCH
500 MASCHI 60
FEMMINE
INSEGNAMENTO PROFESSIONALE
/ECONOMIA DOMESTICA
SIDI EL MAGRUM
200 MASCHI 30
FEMMINE
ARTIGIANATO/ECONOMIA DOMESTICA
AGEDABIA
120 MASCHI 10
FEMMINE
SCUOLA DI AGRICOLTURA E
ORTICULTURA
MARSA EL BREGA
600 RAGAZZI
SCUOLA MILITARE COMANDO TRUPPE
INDIGENE
http://www.criminidiguerra.it/html/bombardagas.htm
I bombardamenti con i gas nell'Africa
Orientale Italiana
DATA
LUOGO
Dembenguinà
22/12/1935
(fronte nord)
FONTI
Diario storico del comando
aereonautica.8°, 9° stormo.
CARATTERISTICHE
6 bombe C 500.T a iprite
(prima azione di
44
sbarramento C)
Tacazzè
George Steer inviato Times
in Etiopia testimonianza di
ras Immirù Hailè
Sellasse.Relazione Dott.
Schuppler, capo ambulanza.
Al ministro degli esteri
etiopico.
Dott.Melly capo ambulanza
inglese.(1)
Dal 23 al
27
dicembre
Telegramma di Hailè Selassiè
60 bombe a iprite
alla Società delle nazioni (2)
Autorizzazione di Mussolini
a Badoglio sull'uso dei gas
telegramma 15081
Risposta di Badoglio "già
29/12/35
adoperato iprite"
Dal 2 al 4 Sokotà; Lago
Diario aereonautico 8° 9°
58 bombe a iprite
gennaio
Ascianghi
stormo
Richiesta di Mussolini a
Badogliodi arrestare i
5 gennaio
bombardamenti (sino alle
1936
riunioni ginevrine)
telegramma 180
Dal 6 al 7 Abbi Addi e guadi Diario storico del comando
45 bombe C 500.T
gennaio
torrente Segalò
areonautico
Dal 12 al
Diario storico del comando
76 bombe " "
19 gennaio
areonautico
Nuova autorizzazione di
19 gennaio
Mussolini telegramma 790
Guadi del Ghevà,
Dal 23 /12 Guadi del Tacazzè Diario storico comando
991 bombeC.500.T
al 23/3
zone di Quoram, areonautico
varie carovaniere.
Diario storico comando
Uso di proietti ad
11/2/36
Amba Aradan
artiglieria
arsine1367(3)
Testimonianza Hailè
aprile
Lago Ascianghi
Selassiè ( 4)
28/12/35
45
1) Steer "Per la prima volta un popolo che si ritiene civilizzato usa i gas tossici
contro un popolo che si ritiene barbaro. A Badoglio... la gloria di questa ardua
vittoria".
Immirù Hailè Sellasse (generale di Hailè Selassiè): "Fu uno spettacolo terrificante...
Era la mattina del 23 dicembre avevo da poco attraversato il Tacazzè quando
comparvero nel cielo alcuni aeroplani... quel mattino non lanciarono bombe ma
strani fusti che si rompevano non appena toccavano il suolo o l'acqua del fiume e
proiettavano intorno un liquido incolore... alcune centinaia dei miei uomini erano
rimasti colpiti... e urlavano per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro
volti si coprivano di vesciche."
Dott. Schuppler: "Ho l'onore di portare a vostra conoscenza che il 14 gennaio 1936
delle bombe a gas sono state usate dagli aviatori italiani. Ho curato 15 casi di
persone... tra cui 2 bambini".
Dott Melly: "Tra il 7 e il 22 marzo ….nella regoine di Ascianghi curammo dai due ai
trecento casi di ustione da iprite..." in (Del Boca I gas di Mussolini, Editori riuniti,
pag. 118 e seg.)
2) "Il 23 dicembre, gli italiani hanno fatto uso contro le nostre truppe, nella regione
del Tacazzè, di gas asfissianti e tossici, ciò costituisce una nuova aggiunta alla lista
già lunga delle violenze fatte dall'Italia ai suoi impegni internazionali."
3) L'arsina agiva sulle mucose e sull'apparato respiratorio con effetti che,a seconda
della concentrazione, potevano essere irritanti o mortali.
4) Molti moriranno per aver bevuto l'acqua contaminata. Il negus davanti l'atroce
visione dei cadaveri dirà: "Sarebbe stato necessario fissare questa immagine per
poterla presentare al mondo..."
DATA
LUOGO
FONTI
Autorizzazione di
Mussolini a Graziani
15/12/35 Somalia (fronte sud)
sull'uso dei gas
telegramma 14551
Diario storico del
24/12/35 Areri
comando dell'aviazione
in Somalia
Diario storico AO
Dagahbur
30 /31/35
Sassabanech Bullaleh Relazione Graziani all
egato 295
Tra il 15 e Malca Dida (Croce Relazione Graziani
CARATTERISTICHE
17 bombe a iprite da 21kg
1 a gas fosgene da 41kg
71 bombe come
rappresaglia per la
uccisione di due aviatori
italiani
46
il 30
dicembre
35
rossa svedese)
Bullaleh (croce rossa
egiziana) Neghelli
(croce rossa
etiopica)*
6 Gennaio
36
12 /1/36
Grande sdegno in
Europa.
Telegramma Mussolini a
Graziani n 029: "Approvo
ma ... evitare le
istituzioni internazionali
della Croce Rossa."
Nuova autorizzazione di
Mussolini a Graziani
tel.334
Relazione Graziani
Diario storico del
Offensiva del Ganale
comando brigata aerea
Doria
6 bombeC.500.T a iprite
18 da 41 kg a fosgene
Diario srorico 31° gruppo
AO
25/1/36
Diario storico del
comando brigata aerea
Diario storico del
Sulle difese abissinie
comando brigata aerea
nella zona di Harar
Relazione Graziani
Sassabanech
Dagahbur
Telegramma di Mussolini
4081con l'ordine di non
fare uso di mezzi chimici
a Graziani
Hamanlei, Bircut,
Relazione Graziani
Gunu, Bullaleh
Nuova autorizzazione
Mussolini tel.n7440
Diario storico del
Sassabaneh
comando brigata aerea
Relazione Graziani
Diario storico del
Bullaleh
comando brigata aerea
Relazione Graziani
16-25/2/36 Uebi Gestro Bale
marzo
8 aprile
10 aprile
20 aprile
27/4
27/4
Dal 24dic
al 27 aprile
10 bombe a iprite da 21 kg
10 bombe C500.T a iprite e
92 da 41 kg a fosgene
49 bombeC500.T34 da 21
kg a iprite 88 da 41 kg a
fosgene
13 bombe C500.T
12 bombe C500,T
36 bombe a fosgene
54 bombe a fosgene
30500kg bombe iprite
13300 kg bombe a fosgene
47
Nell'attacco a Malca Dida restò ucciso il medico svedese Lundstrom, 42 ricoverati,
alcuni dei quali colpiti da iprite, e altri 50 restarono feriti .Gli attacchi si
intensificarono nei mesi successivi e distrussero ambulanze etiopiche a Dagabhur,
Ualdià, Macallè, ospedaletti egiziani, inglesi, svedesi e finlandesi e gli unici due
apparecchi della croce rossa etiopica a Dessì e Quoram.
Gli attacchi aerei non finirono con la proclamazione dell'impero, ma si
intensificarono in molte zone.
PERIODO LUOGO
Dal Maggio Sud/ovest Sidamo
a
Agosto1936 Zona Tacazzè
FONTI
CARATTERISTICHE
Diario storico AOI
Bombe C500T
Telegramma Lessona a
Graziani
n°10724"Autorizzo a
Lasta (roccaforte dei impiegare i gas se li ritenga
Tra il 7 e il fratelli Cassa) zona utile"
Bombe C500T
12 settembre Tacazzè.Villaggi tra
Lalibelà e Bilbolà.
Telegrammi Graziani a
Pirzo Biroli e al comandante
dell'aviazione Pinna
n°15633 e 15756(1)
Diario storico AOI
21/22
Ottobre
Fine
1936/1937
Relazione Gariboldi a
Zone del Monte
Gallina tel n° 077701 24
Bombe C500T
Zuqualà e Debocogio
ottobre "Zona del monte
villaggi rasi al suolo
Debogogio è stata
ipritata.Prudente informare
le truppe operanti.."
Ovest, Uollega,
soprattutto vengono
Diario storico AOI
Bombe C500T
ipritati guadi, torrenti
carovaniere.
Graziani "La rappresaglia deve essere effettuata senza misericordia su tutti i paesi del
Lasta... Bisogna distruggere i paesi stessi perché le genti si convincano della ineluttabile
necessità di abbandonare questi capi... lo scopo si può raggiungere con l'impiego di tutti
i mezzi di distruzione dell'aviazione per giornate e giornate di seguito essenzialmente
adoperando gas asfissianti." in Del Boca op cit pag. 60.
48
http://www.criminidiguerra.it/html/EstradizBBC.htm
La mancata estradizione e l'impunità dei
presunti criminali di guerra italiani accusati
per stragi in Africa e in Europa
Da documenti ritrovati al Ministero del Foreign Office si evince che i governi inglese e
americano adottarono una politica di copertura nei confronti dei criminali di guerra
italiani, per motivi di opportunità politica.
Nella Dichiarazione di Mosca del 1943, gli alleati si impegnavano a perseguire i
criminali di guerra nel paese dove i crimini erano stati commessi. Le Nazioni Unite
istituirono una Commissione di inchiesta con il compito di creare una lista dei criminali
di guerra per facilitare l'azione dei governi in tutto il mondo. In questa lista erano
presenti tra altri Badoglio, Graziani, Roatta, Ambrosi.
Come sottolinea lo storico Michael Palumbo, sulla base di documenti trovati negli
archivi di Washington, Londra e Roma, gli anglo-americani erano a conoscenza della
efferatezza dei crimini italiani e, negli anni che seguirono l'armistizio, coprirono
Badoglio e il suo gruppo perché li ritenevano affidabili per il loro anticomunismo.
Nel settembre del 45, infatti, il tribunale speciale prese in esame il "caso Badoglio" e il
Foreign Office, in un telegramma cifrato spedito all'ambasciatore inglese a Roma, fece
pressioni perchè si intervenisse con Parri, allora Presidente del Consiglio dei ministri,
per evitare o rimandare il processo: "Dovrebbe cercare di portare all'attenzione
dell'onorevole Parri in maniera confidenziale e ufficiosa, il prezioso contributo che
Badoglio ha fornito alla causa alleata, esprimere la speranza che questo contributo
venga sottoposto alla attenzione della corte prima dell'udienza".
Parri rinuncia e il "caso Badoglio" fu abbandonato.
Nel 1946 la Jugoslavia e l'Etiopia protestarono per la mancata estradizione dei criminali
di guerra italiani.
Dall'ambasciata della repubblica popolare federale di Jugoslavia al governo militare
alleato: "Per facilitare il compito delle autorità militari a una lista contenente dati
relativi a 40 criminali di guerra italiani è allegata la richiesta da trasmettere alle
autorità competenti ad autorizzare l'arresto e la consegna al governo jugoslavo dei
criminali in questione. Non un solo criminale di guerra italiano è stato consegnato alle
49
autorità giudiziarie jugoslave e questo nonostante ripetute assicurazioni dateci dal
governo di sua Maestà".
Il Ministero degli Esteri britannico sottolinea le sue preoccupazioni: "L'arresto di alcuni
elementi che hanno occupato alte cariche nel ministero della guerra italiano,
provocherebbe un imbarazzo politico. Queste persone hanno aiutato in maniera
esemplare gli alleati. Arrestarli creerebbe uno shock tale nel governo italiano e
nell'opinione pubblica, che ci procurerebbe molti problemi e causerebbe un grande
scontento."
DaL Rapporto del funzionario del Foreign Office competente per i crimini di guerra:
"La giustizia richiede di consegnare questi individui; motivi di convenienza spingono
nella direzione opposta o almeno a non consegnare quelli che occupano posizioni più
importanti".
Il 26 Aprile 1946 Lord Halifacs da Washington esprime il parere americano: "Il
Dipartimento di Stato considera che la migliore tattica per entambi i governi sia tentare
di guadagnare tempo".
J. Calvin del Foreign Office si disse d'accordo: "Questo mi sembrerebbe un caso in cui
l'interesse di tutti sia di temporeggiare più a lungo possibile".
Viene comunicato alla Jugoslavia di aver bisogno di più tempo.
Anche la diplomazia italiana concorda con questa linea, attuando resistenza passiva alle
richiesta dei paesi esteri.
Il Presidente del Consiglio italiano De Gasperi informa l'ammiraglio E.W. Stone (capo
della Commssione Alleata in Italia), che il Ministero della Guerra "sta provvedendo ad
una severa inchiesta, il cui esito sarà appena possibile portato a conoscenza..." della
stessa; nella risposta l'ammiraglio mostra interesse perchè questo gli consente di
prendere tempo con il governo jugoslavo, che richiedeva insistentemente la consegna dei
criminali di guerra italiani.
Il 6 maggio 1946 il I governo De Gasperi istituisce una commissione d'inchiesta per i
presunti criminali di guerra italiani, con l'obiettivo "di poter giudicare, con i propri
normali organi giudiziari e secondo le proprie leggi, quelli che risultassero
fondatamente accusati da altri stati."
L'11 settembre 1946 De Gasperi comunica a Stone che la Commissione sta per deferire
ala giustizia penale militare quaranta inquisiti con l'accusa "di essere venuti meno, con
gli ordini o nella esecuzione degli ordini stessi, ai principi del diritto internazionale di
guerra e ai doveri dell'umanità, ed in modo particolare ai principi della inviolabilità
degli ostaggi e alla limitazione del diritto di rappresaglia".
50
Il 21 ottobre 1946 Stone comunica alla Delegazione Jugoslava "di non aver competenza
a richiedere al Governo Italiano la consegna dei criminali di guerra in quanto tale
competenza spetta al paese interessato".
1947 Nuova richiesta della Jugoslavia che si appella nuovamente agli inglesi:
"Nonostante i chiari obblighi internazionali il governo britannico e quello americano
hanno dilazionato facendo uso di vari pretesti e ritardato la consegna dei criminali di
guerra italiani; come risultato di questo atteggiamento non uno solo dei 700 criminali
della lista delle Nazioni Unite sui crimini di guerra è stato consegnato alle autorità
jugoslave. Permettere questo stato di cose sta preparando una situazione tale da
minacciare lo sviluppo delle relazioni pacifiche in questa parte d'Europa".
Una settimana dopo l'ammiraglio Stone della Commissione di controllo del Foreign
Office dichiara: "Dal momento che il governo militare alleato è stato smantellato, le
richieste per la consegna degli italiani inseriti nella lista della commissione dei crimini
di guerra, devono essere inoltrate direttamente al governo italiano".
Una scappatoia fu trovata dagli inglesi relativamente al fatto che gli alleati dovevano
prendere in considerazione solo richieste provenienti da canali diplomatici. La
Jugoslavia non aveva l'ambasciata in Italia e non poteva inoltrare richieste.
Il principale interesse inglese era quello di processare italiani responsabili di crimini
commessi contro soldati dell'esercito britannico.
Un caso di questo genere è quello relativo al Generale Bellomo accusato di essere il
responsabile della morte di un prigioniero di guerra britannico ucciso dalle guardie
durante un tentativo di fuga. Bellomo fu l'unico italiano giustiziato dagli alleati,
nonostante gravi irregolarità processuali sottolineate da S. Ray, un corrispondente di
guerra inglese, che seguiva il processo per un giornale nazionale. Ray scriverà al
deputato laburista Igor Thomas: "Sono estremamente turbato; respinto appello del
Generale Bellomo contro sentenza di morte. Ero presente a tutto il processo; non sono
l'unico corrispondente britannico a pensare che il verdetto è contro il peso delle prove,
che le capacità di accusa e difesa non erano eque, che un insufficiente peso è stato dato a
chiare circostanze attenuanti e al buon carattere del Generale. Se colpevole, Bellomo è
personaggio minore confronto a ex fascisti con i quali stiamo trattando. L'importante non
è nostro prestigio ma diritto Bellomo di beneficiare di considerevoli dubbi che io credo
esistano. Sarei grato se tu potessi fare qualcosa".
L'8 settembre 1945 arriva la risposta del Foreign Office alla richiesta di clemenza del
parlamentare laburista I. Thomas.
"I verbali del processo sono stati attentamente studiati dal Foreign Office e mostrano
come il procedimento sia stato effettuato in maniera normale e completamente giusta. Il
generale Bellomo è stato condannato per aver commesso un omicidio particolarmente
vigliacco per il quale non possiamo trovare circostanze attenuanti. Siamo sicuri che lei
51
potrà condividere il fatto che l'effetto, sull'opinione pubblica del paese, di un perdono
ingiustificato di un criminale di guerra, sarebbe altamente indesiderato.
Come sottolinea lo storico M. Palumbo: "La più grande ironia fu quella che gli inglesi
giustiziarono l'unico generale antifascista nello stesso momento in cui stavano coprendo
noti criminali di guerra italiani. Bellomo aveva infatti combattuto i tedeschi a Bari e per
questo aveva ricevuto una medaglia d'argento al valor militare. Non piaceva a Badoglio
perchè dimostrò a quegli italiani che erano scappati, come bisognava combattere i
tedeschi".
Bellomo aveva anche salvato la vita a un prigioniero inglese condannato a morte da
alcuni gerarchi locali per aver ucciso due civili. In quella occasione sostenne che il
prigioniero aveva agito per legittima difesa e quindi non si poteva parlare di crimine di
guerra. Al generale Bellomo fu data l'opportunità di scappare ma rifiutò perchè sarebbe
stato contrario al suo onore di militare .
Nel 1947 continuano le pressioni iugoslave per la consegna dei criminali di guerra.
Il ministro italiano per gli affari esteri chiede a inglesi e americani tramite l'ambasciatore
britannico a Roma che: "Al fine di diminuire le pressioni della Jugoslavia sull'Italia, in
rispetto dell'articolo 45 del trattato di pace, il governo di Sua Maestà e quello degli Stati
Uniti scoraggino ulteriori richieste per la consegna di criminali di guerra italiani,
dichiarando di ritenersi soddisfatti di lasciare il processo e l'eventuale condanna di
coloro che non sono ancora stati arrestati al sistema giudiziario italiano".
L'accordo venne raggiunto 6 settimane dopo e il governo americano accettò di lasciare il
processo di colpevoli di crimini contro militari alleati nelle mani dei giudici italiani. Il
governo inglese seguì l'esempio.
Gli alleati creavano così un precedente che rendeva impossibili ulteriori richieste
iugoslave per oltre 800 criminali inclusi nelle liste delle Nazioni Unite.
Come sottolinea Marian Mushkat, delegato polacco alla commissione Onu per i crimini
di guerra (1946/48): "Gli alleati occidentali sfruttarono la loro posizione preminente in
seno alla commissione per i crimini di guerra e respinsero la maggior parte delle
richieste degli iugoslavi ignorando molti documenti preparati dagli iugoslavi
principalmente perchè il governo di Belgrado era considerato alleato dell'Unione
Sovietica. Un altro pretesto per respingere i dossier preparati dagli iugoslavi fu quello
relativo alla loro mancata compilazione. Questo argomento si rivelò fittizio perchè i
componenti iugoslavi della commissione per i crimini di guerra erano avvocati brillanti
e esperti in diritto internazionale e i fascicoli da loro sottoposti erano ben preparati e
documentati.".
Nella primavera 1948 si tenne ultima seduta della commissione delle Nazioni Unite per i
crimini di guerra.
52
La Commissione decise di esaminare solo 10 casi tra le centinaia preparati dagli etiopi
rappresentati da uno svedese.
Il primo caso da esaminare fu quello di Badoglio accusato di aver usato gas tossici e di
aver bombardato ospedali della Croce Rossa durante la campagna di Etiopia.
Gli inglesi prendono le difese degli italiani.
ROBERT CRAIGE: "Quasi tutta la campagna di Etiopia è stata elaborata da Mussolini
e Graziani. Ho seri dubbi sulle accuse rivolte a Badoglio anche per quanto riguarda
l'uso di gas tossici. Nulla prova il coinvolgimento di Badoglio nella decisione di farne
uso".
RISPOSTA ETIOPE: "A prescindere dal fatto che i superiori abbiano o meno ordinato
di commettere crimini era loro responsabilità sorvegliare i propri sottoposti e prevenire
che i crimini venissero commessi. Il generale giapponese Yamascito venne condannato
in base a questo principio".
NORWAY RYNNING: "Sono quasi certo che Badoglio, come comandante in capo e
responsabile della realizzazione della campagna, debba in qualche modo essere stato
coinvolto nella decisione di usare gas tossici visto che si tratta di una decisione che deve
essere stata presa ad alto livello".
CRAIGE: "Si ma riguardo al bombardamento degli ospedali e delle ambulanze della
Croce Rossa risulta chiaro dal carteggio che vi sono alcuni dubbi sulla volontarietà dei
bombardamenti".
NORWAY: "Questa non era la posizione del governo britannico nel 35-36 quando
respinse qualsiasi argomento avanzato dal ministro degli esteri italiano per discolparsi
del bombardamento di unità mediche inglesi in Etiopia".
IL GOVERNATORE IMPERIALE ETIOPE: "Si è trattato della prima volta nella storia
in cui la Croce Rossa è stata ripetutamente attaccata e questo avvenne quando Badoglio
era il comandante in capo".
Con gli etiopi spalleggiati da Norvegia e Cecoslovacchia il comitato decise di inserire
Badoglio nella lista come criminale di guerra di grado A per l'uso di gas tossici e per gli
attacchi agli ospedali della Croce Rossa.
Il caso Graziani fu meno controverso e fu inserito con il grado A con 9 capi di
imputazione.
Anche gli altri 7 capi fascisti furono inseriti nella lista (De Bono, Lessona, Pirzo Biroli,
Geloso, Gallina, Tracchia, Cortesi).
Gli etiopi organizzarono una loro commissione nazionale sui crimini di guerra.
53
Nel 1949 l'Italia respinse la richiesta etiope per l'estradizione di Graziani e Badoglio.
Il 17 settembre l'ambasciatore etiope a Londra sottopose la questione al Foreign Office
che considerò la richiesta inopportuna e consigliò di desistere.
Così nessun criminale fu mai estradato.
P. Badoglio morì nel suo letto con un funerale di stato.
R. Graziani fu processato da un tribunale militare e condannato il 2 Maggio 1950 a 19
anni di carcere, di cui 13 condonati, per la sua attività legata alla RSI. La pena da
scontare di un anno e otto mesi fu ulteriormente ridotta a quattro mesi per la richiesta
della difesa, subito accolta, di far iniziare la decorrenza della carcerazione preventiva al
1945. Pertanto, quattro mesi dopo la sentenza, il 29 agosto Graziani tornò in libertà
lasciando l'ospedale militare dove aveva trascorso gran parte della durata del processo.
Nel marzo 1953 divenne presidente onorario del MSI. Morì nel 1955 per collasso
cardiaco.
M. Roatta, responsabile di crimini in Jugoslavia, processato dall'Alta Corte di giustizia,
la notte del 4 marzo 1945, nell'imminenza della sentenza, evase con l'aiuto dei servizi
segreti e si recò in Spagna. Rimpatriò nel 1966. (cfr. Franzinelli, in Millenovecento,
Gennaio 2003, pag. 102 e seg.).
C. Geloso e A. Pirzo-Biroli riconosciuti criminali di guerra per la politica repressiva
attuata nelle regioni di cui erano governatori.
S. Gallina, generale, riconosciuto criminale per le violenze, i rastrellamenti, le uccisioni
fatte dalle sue truppe.
G. Cortese, federale, considerato criminale per l'ondata di terrore scatenata ad Addis
Abeba dopo l'attentato Graziani.
R. Tracchia considerato criminale per aver fatto fucilare i fratelli Cassa, dopo aver loro
promesso salva la vita.
Fonte: Fascist Legacy, video-documentario prodotto da BBC, Londra 1990, con la regia
di Ken Kirby e la consulenza storica di Michael Palumbo.
54
http://www.criminidiguerra.it/html/lacommissione.html
La commissione d'inchiesta
per i presunti criminali di guerra italiani
Fu costituita con Decreto il 6 maggio 1946 presso il Ministero della Guerra (poi della
Difesa).
Con questo atto il Governo italiano, come documentato da F.Focardi e L. Klinkhammer,
cercava di evitare che i presunti criminali di guerra italiani venissero consegnati ai
governi esteri, da cui venivano richiesti per essere processati.
Infatti la dichiarazione finale della Conferenza di Mosca del 30 ottobre 1943 prevedeva
che gli italiani che si erano resi colpevoli di crimini nei paesi occupati dovevano essere
"consegnati alla giustizia"; questo fatto era assodato anche per gli stessi diplomatici
italiani che seguivano la questione.
Ma la scelta politica di non consegnare i presunti criminali venne motivata attraverso
un'interpretazione strumentale della dichiarazione di Mosca da parte del Governo De
Gasperi, sostenendo tra l'altro la necessità di svolgere gli eventuali processi in Italia.
Ma il Trattato di pace (nell'art.38 della bozza presentata il 18.7.1946 e nell'art. 45 della
versione definitiva firmata il 10.2.1947) prevedeva che l'Italia arrestasse e consegnasse
ai paesi richiedenti le persone accusate di aver ordinato, commesso o essere stati
complici di crimini di guerra, di crimini contro la pace e di crimini contro l'umanità.
Quindi la ventilata possibilità di sottoporre alla Magistratura italiana militari e civili
italiani accusati di crimini di guerra, non poteva schiacciare il diritto delle nazioni
colpite da azioni crimini attuate dall'esercito italiano.
In più venivano riconosciute responsabilità dei militari italiani anche per quei crimini
contro l'umanità e contro la pace ritenuti addebitabili - secondo l'interpretazione
ufficiale italiana - solo ai nazisti.
Allo scopo di rendere meno attaccabile il rifiuto di consegnare i presunti criminali
richiesti, il Ministro della Guerra Brosio propose di istituire una commissione di
inchiesta strettamente tecnica, per vagliare le accuse ed eventualmente deferire
all'autorità giudiziaria gli inquisiti.
Quindi questa avrebbe dovuto essere composta da alti generali ed ex-ministri della
guerra dei governi succedutisi dopo l'8 settembre 1943.
Il decreto ministeriale istituì quindi una commissione composta da sei avvocati (di cui
tre erano deputati) e tre generali (in rappresentanza delle tre armi: esercito, marina e
aviazione).
55
I tempi di lavoro della commissione
La commissione operò per i primi mesi sotto la presidenza dell'ex-ministro della Guerra
il senatore liberale Alessandro Casati. Nell'autunno del 1946 ne divenne presidente l'exministro dell'Aeronautica il parlamentare Luigi Gasparotto, che poco dopo la lasciò
essendo diventato Ministro della Difesa (da cui dipendeva la Commissione stessa), ma
per diventarne nuovamente presidente a partire dal dicembre del 1947.
Dalla documentazione visionata si è potuto accertare che la commissione proseguiva i
lavori
ancora
nel
luglio
1948.
Nell'agosto dell'anno seguente, mutate le condizioni di politica internazionale, la
Commissione aveva cessato il proprio lavoro.
La Memoria della commissione.
Nell'archivio dello stesso Gasparotto è depositata la premessa e la prima parte della
Memoria redatta dalla Commissione stessa, che illustra l'impostazione sulla cui base
venne svolto il lavoro di analisi delle accuse e della documentazione inviata dal Governo
jugoslavo.
Nella Memoria compaiono ampie giustificazioni per le azioni criminose dei generali
italiani; confrontandole con gli atti di difesa redatti dagli inquisiti (reperiti nello stesso
archivio) si può constatare un'assoluta uguaglianza di motivazioni.
Infatti il documento precisa che la commissione "tenuto nel debito conto il particolare
ambiente in cui le persone indiziate come colpevoli di crimini di guerra ebbero a
svolgere la loro attività".
Singolare è anche la coincidenza dell'analisi della situazione politica e militare fatta della
Commissione con quella che emerge nei documenti redatti dai generali inquisiti, in
particolare nel testo di Orlando e Robotti del novembre 1941 inviato al comandante della
II Armata.
Nella Memoria inoltre viene presentata una ricostruzione storica dell'occupazione
italiana dei territori jugoslavi tra l'aprile 1941 ed il settembre 1943 (ovvero parte della
Slovenia, della Croazia, compresa la Dalmazia, e della Bosnia ed il Montenegro).
Viene tratteggiata un'immagine positiva del ruolo dell'esercito italiano: questo sarebbe
stato ben accolto dalla popolazione (anche perché l'occupazione tedesca era più temuta)
ed avrebbe avuto anche il merito di porre un freno alle terribili violenze degli ustascia
croati.
56
Ma, secondo il documento, questa situazione quasi idilliaca sarebbe gradualmente
mutata e "nell'estate del 1942, in conseguenza della situazione generale e soprattutto
dell'entrata in guerra della Russia, le formazioni ostili assunsero maggiormente
consistenza e migliore organizzazione; fra esse primeggiarono quelle partigiane" filosovietiche.
A questo punto la Commissione ammette che vennero adottati "veri provvedimenti
repressivi, quali l'internamento delle persone sospettate di partecipare alla lotta
partigiana o abitanti nelle vicinanza dei luoghi ove venivano compiuti atti di sabotaggio,
operazioni di rastrellamento a breve e a largo raggio, ed azioni di rappresaglia per atti
compiuti dal nemico in contrasto con le leggi di guerra".
Il documento sostiene che in seguito a "gravi e numerosi … atti di ferocia commessi dai
partigiani contro i militari da essi catturati: … le nostre Autorità dovettero adottare dei
provvedimenti di rigore che, in altre condizioni, si sarebbero dovuti senz'altro
considerare eccessivi".
Quindi la Memoria conclude la parte riguardante la Jugoslavia, ribadendo il ruolo
positivo dei comandanti italiani in quanto i delitti "più atroci, le barbare distruzioni di
interi villaggi e di edifici" sarebbero stati opera dei gruppi etnici in lotta fra loro, mentre
"le nostre Autorità di occupazione" sarebbero intervenute "per assicurare una vita
pacifica alle popolazioni".
E' chiaro dall'analisi di questo documento, che ha guidato l'azione della commissione,
che questa si è fatta interprete delle indicazioni politiche, che emergono anche dai
documenti del Ministero degli Affari Esteri.
Infatti tra i nomi degli italiani richiesti per crimini di guerra figuravano quelli di ufficiali,
funzionari, uomini politici che ricoprivano alte cariche nello Stato italiano, come ha
scritto il ministro Brosio.
Molti generali, indicati nelle liste della Commissione delle Nazione Unite come
criminali di guerra, ricoprivano incarichi nel Ministero della Guerra, addirittura il gen.
Orlando, uno dei teorici e degli artefici della repressione in Slovenia, era stato ministro.
Quindi la Commissione più che d'Inchiesta, sembrava un collegio di difesa per quasi tutti
gli indagati.
Facevano eccezione alcuni, ad esempio gli alti ufficiali del Tribunale Straordinario della
Dalmazia, per cui, leggendo gli atti, si desume che fosse stato deciso il sacrificio forse
ad una condanna a qualche anno di carcere.
Ma queste affermazioni vengono puntualmente contraddette da numerose circolari e
disposizioni emanate dai generali comandanti, che dimostrano senza alcun dubbio, la
feroce volontà repressiva e vessatoria dei comandanti militari nei confronti della
popolazione civile e dei partigiani.
57
Questi documenti erano a disposizione della Commissione, sia direttamente negli archivi
militari italiani sia presso quelli alleati.
Ma un'altra conferma di tutto questo emerge dal diario di un cappellano militare, don
Pietro Brignoli, edito postumo nel 1972, dal titolo Santa messa per i miei fucilati, in cui
lo stesso testimonia le feroci rappresaglie operate dall'esercito italiano; infatti il
sacerdote era inquadrato nel II reggimento (comandante prima col. E.Silvestri, quindi
col. U.Penna) della divisione Granatieri di Sardegna, operante in Slovenia ed in Croazia
tra il maggio 1941 ed il novembre 1942, e prestò assistenza religiosa ai molti ostaggi
civili, e ai pochissimi partigiani catturati, che quasi ogni giorno venivano
sommariamente “giudicati” dal tribunale di guerra del reggimento e subito fucilati;
questo prete, un fervente anticomunista, narra dolorosamente anche del sistematico
incendio di villaggi, della deportazione della popolazione nei campi di concentramento e
dei continui furti operati dagli ufficiali e dalla truppa verso i civili.
Le liste dei presunti criminali di guerra predisposte dalla commissione
11 settembre 1946. In una lettera al Capo della Commissione Alleata Ammiraglio E. W.
Stone, in risposta ad una sua in data 2 maggio 1946, il Presidente del Consiglio De
Gasperi scrive che “la Commissione ha redatto un elenco di quaranta nomi di militari e
civili, contro i quali può essere elevata l'accusa … di essere venuti meno ai principi del
diritto internazionale di guerra e ai doveri dell'umanità”.
23 ottobre 1946. Un primo comunicato della commissione d'inchiesta indicava i nomi di
sei inquisiti: i generali Roatta, Robotti e Magaldi, i ten. col. Sorrentino e Caruso, e
l'ambasciatore Bastianini.
13 dicembre 1946. Un secondo comunicato della commissione indicava altri otto nomi
(fra cui i generali Pirzio Biroli, Gambara e Coturri, e inoltre Giunta e Grazioli.
Dal gennaio al maggio 1947 vennero emessi altri comunicati che indicavano in una
ventina gli inquisiti deferibili al tribunale militare per crimini di guerra.
Nell'archivio Gasparotto sono conservate tre liste di lavoro della commissione
d'inchiesta in cui sono indicati i nomi di militari e civili accusati da paesi esteri di
crimini di guerra e di crimini contro l'umanità:
Situazione al 25 gennaio 1947 12 gennaio 1948 23 marzo 1948
Deferiti
13
28
29 (+1)
Discriminati
23
111
133
58
Sospesi
Totale
7
43
2
141
6
168
Quindi la lista smentisce i dati indicati da De Gasperi a Stone, ridimensionando le cifre.
Come indica la tabella i quaranta nomi in realtà si riducono a tredici presunti criminali di
guerra da deferire al tribunale militare.
La commissione in quasi due anni di lavoro (maggio 1946 - marzo 1948) ha giudicato
deferibili al Tribunale militare solo 29 inquisiti (su 168 accusati esaminati a cui vanno
aggiunti il personale del campo di concentramento di Arbe, ufficiali, sottufficiali e
truppa delle divisioni "Re" e "Zara").
In realtà al gennaio 1948 i criminali di guerra la cui consegna era richiesta al Governo
italiano da paesi esteri erano 295, che devono essere aggiunti ai 1697 compresi nelle liste
delle Commissioni Onu per i crimini di guerra.
Quindi a fronte di 1992 casi segnalati dai paesi che avevano subito l'occupazione
militare italiana e dagli Alleati, la Commissione ne valutò, in base ai documenti citati,
168 e non prese in considerazione le azioni svolte dai militari italiani in Africa (Libia,
Eritrea, Etiopia e Somalia) dove vennero usate bombe a gas e venne praticata una
durissima repressione, attraverso la deportazione in campi di concentramento, torture ed
esecuzioni sommarie anche nei confronti dei civili.
Le conclusioni del Governo
Alla luce di quanto riportato e dei rivolgimenti politici avvenuti tra il 1947 ed il 1948, il
processo contro i 29 deferiti al Tribunale militare non fu mai celebrato. Non solo per i
noti motivi (la Guerra fredda, per cui si ripuliva il passato di nazisti e di fascisti per
utilizzarli nella lotta al blocco sovietico), ma anche perché da parte degli alti generali
italiani (per la maggior parte, i medesimi che comandavano l'esercito monarchico agli
ordini del Comandante Supremo Mussolini) non vi era nessuna intenzione di condannare
i propri colleghi, seppur responsabili di provati crimini efferati.
Infatti l'istruttoria per almeno 26 deferiti dalla Commissione d'inchiesta venne
completata entro il gennaio 1948, ma d'altro canto lo stesso Governo italiano era conscio
della non opportunità di svolgere processi contro presunti criminali di guerra italiani
contemporaneamente a quelli contro i presunti criminali tedeschi (che stavano iniziando
in Italia nei primi mesi del 1948), proprio perché “le accuse che noi facciamo ai tedeschi
sono analoghe a quelle che gli jugoslavi muovono contro imputati italiani”.
Quindi, come scrisse il 20 agosto 1949 il Direttore Generale degli Affari politici del
Ministero degli Affari Esteri, conte Vittorio Zoppi, all'ammiraglio Franco Zannoni, capo
gabinetto del ministro della difesa, “la Commissione d'inchiesta che … non doveva dare
l'impressione di scagionare ogni persona esaminata …selezionò un certo numero di
59
ufficiali che furono rinviati a giudizio … Fu spiccato nei loro confronti mandato di
cattura, ma fu dato loro il tempo di mettersi al coperto … ciò fu fatto con il preciso e
unico intento di sottrarli alla consegna [agli jugoslavi ndr]… Ottenuto questo risultato e
venuto meno le ragioni di politica estera … il Ministero degli Affari esteri considera la
questione
non
più
attuale”.
L'epilogo.
Le conclusioni della questione sono custodite gelosamente negli archivi del Ministero
della difesa, ma si può presumere, alla luce dei documenti analizzati, che i mandati di
cattura siano stati ritirati ed anche i militari rinviati a giudizio per crimini di guerra
abbiano potuto poi concludere (per la maggior parte) la propria carriera nell'esercito
dell'Italia democratica e antifascista.
Il Governo italiano, ex-ministri e gli alti quadri militari della neonata Repubblica italiana
erano consci dei crimini operati dai militari italiani nel corso delle guerre coloniali e nel
II conflitto mondiale e ne avevano le prove documentali.
Ma il Governo ha operato per evitare non solo di consegnare, ma anche di giudicare i
presunti colpevoli delle stragi.
A questo scopo consapevolmente ha rinunciato al diritto/dovere di richiedere la
consegna e di perseguire i militari tedeschi accusati di strage in Italia.
Infatti richiedere la consegna di numerosi presunti criminali tedeschi per processarli in
Italia, avrebbe voluto ammettere il principio e quindi non potersi rifiutare di consegnare i
propri presunti criminali di guerra ad altri paesi richiedenti.
Lo afferma l'ambasciatore italiano a Mosca, Pietro Quaroni, con la piena condivisione
dei dirigenti del ministero stesso, in una lettera al Ministero degli Affari Esteri il 7
gennaio 1946: “… Il giorno in cui il primo criminale tedesco ci fosse consegnato, questo
solleverebbe un coro di proteste da parte di tutti quei paesi che sostengono di aver
diritto alla consegna di criminali italiani”.
Quindi la giustizia sta ancora aspettando, non solo per le vittime delle stragi tedesche,
ma anche per tutti gli innocenti trucidati o mandati a morire da quei generali italiani
primi protagonisti dell'aggressiva vocazione colonialista dello stato italiano.
SI NOTI CHE TRA LE IMPUTAZIONI A GRAZIANI;
BADOGLIO ED ALTRI CRIMINALI NON FIGURANO LE
ATROCITA’ AFRICANE.
60
Direttive di Mussolini per l'aggressione
all'Etiopia [30/12/'35]
Il problema dei rapporti italo-abissini si è spostato in questi ultimi tempi su un piano
diverso: da problema diplomatico è diventato un problema di forza; un problema
"storico" che bisogna risolvere con l'unico mezzo col quale tali problemi furono sempre
risolti: coll'impiego delle armi. [...] Il tempo lavora contro di noi. Più tarderemo a
liquidare il problema e più sarà difficile il compito e maggiori i sacrifici [...] Bisogna
risolvere il problema il più presto possibile, non appena cioè i nostri apprestamenti
militari ci diano la sicurezza della vittoria. Decisi a questa guerra, l'obiettivo non può
essere che la distruzione delle forze armate abissine e la conquista totale dell'Etiopia.
L'impero non si fa altrimenti. [...]
Condizione essenziale, ma non pregiudiziale della nostra azione, è quella di avere alle
spalle un'Europa tranquilla almeno per il biennio 35-36 e 36-37, che dovrebbe essee il
periodo risolutivo. Un'esame della situazione quale si presenta agli inizi del 1935,
permette di prevedere che, nei prossimi anni, sarà evitata la guerra in Europa. [... ] -Per
una guerra rapida e definitiva, ma che sarà sempre dura, si devono predisporre grandi
mezzi. Accanto ai 60 mila indigeni, si devono mandare almeno altrettanti metropolitani.
Bisogna concentrare almeno 250 apparecchi in Eritrea e 50 in Somalia.
Carri armati 150 in Eritrea e 50 in Somalia. Superiorità assoluta di artigieria e di gas. I
60 mila soldati della metropoli - meglio ancora se 100 mila - devono essere pronti in
Eritrea per l'ottobre 35.
Umanità sì, promiscuità no!
Direttive di Mussolini a Graziani per l'impiego dei gas asfissianti.
- Sta bene per azione giorno 29. Autorizzato impiego gas come ultima ratio per
sopraffare resistenza nemico e in caso di contrattacco [27 ottobre 1935]. - Autorizzo
vostra eccellenza all'impiego, anche su vasta scala, di qualunque gas e dei lanciafiamme.
[28 dicembre 1935] - Approvo pienamente bombardamento rappresaglia e approvo fin
da questo momento i successivi. Bisogna soltanto cercare di evitare le istituzioni
internazionali e la croce rossa. [2 gennaio 1936] - Occupata Addis Abeba vostra
eccellenza darà ordini perché: 1] siano fucilati sommariamente tutti coloro che in città o
dintorni siano sorpresi con le armi in mano; 2] siano fucilati sommariamente tutti i
cosiddetti giovani etiopici, barbari crudeli e pretenziosi, autori morali dei saccheggi; 3]
siano fucilati quanti abbiano partecipato a violenze, saccheggi, incendi; 4] siano
sommariamente fucilati quanti, trascorse 24 ore, non abbiano consegnato armi da fuoco
e munizioni. [3 maggio 1936] - Uno straniero mi segnala di aver veduto il giorno 15
aprile a Massaua un sottuficiale della regia marina giocare amichevolmente a carte con
61
un indigeno. Deploro nella maniera più grave queste dimestichezze e ordino siano
evitate. Umanità sì, promiscuità no. [5 maggio 1936].
http://www.romacivica.net/anpiroma/FASCISMO/fascismo14.htm
La guerra di Etiopia (1935)
Gli italiani in Etiopia: l'uso dei gas, la persecuzione degli ebrei libici
di Giovanni De Luna
Le grotte si aprivano nelle rocce sulla destra del fiume profonde, inaccessibili. Per
stanare i guerriglieri occorreva penetrare in stretti cunicoli dove poteva passare un uomo
alla volta, facile bersaglio dei difensori. Si decise di inondarli di gas velenoso. I risultati
furono definitivi e terrificanti. «28 marzo 1936... Sono stato a visitare i campi di
battaglia che si trovano nei pressi di Selaclacà... ciò che mi ha fatto maggiore
impressione è stata la vista di un gruppo di abissini morti in una specie di caverna, ben
nascosta, che sembrava un infido nido difficilmente scovabile. Sono in tutto nove
giovani vite, e sono abbracciate, o meglio afferrate una all'altra in una stretta disperata: il
loro atteggiamento, le loro posizioni, e quel loro aggrapparsi alla terra o al compagno,
mostrano evidente che morirono nel momento istesso che tentavano di fuggire
disperatamente alla morte certa; e caddero così... come se in quel momento un fulmine li
avesse improvvisamente e per sempre fermati e fotografati...». Non sono le grotte di
Tora Bora: siamo in Etiopia, nel 1935 e la testimonianza è quella di un soldato italiano,
Manlio La Sorsa, impegnato nella guerra scatenata dall'Italia fascista contro il regno del
Negus. Pure, le grotte, le armi terrificanti, e soprattutto quei corpi avvinghiati nella
morte ci restituiscono il fondo destoricizzato che ogni guerra porta con sé: dall'Etiopia
all'Afghanistan, dal 1935 al 2001, in un tempo e in uno spazio radicalmente diversi,
sembra che alla fine tutto si riduca a una ciclica ripetizione di gesti, a un frenetico
andirivieni tra il morire e dare la morte. Quella guerra il fascismo la vinse soprattutto
grazie alla superiorità tecnologica, all'uso di armi e di tecniche militari terribilmente
distruttive (i bombardamenti aerei, i gas) anticipando una delle configurazioni tipiche
delle guerre postnovecentesche in cui - («guerra del golfo», Kosovo, Afghanistan) - il
confronto è tra uomini e macchine, con ordigni sofisticati che riescono quasi ad azzerare
le perdite nel proprio campo. La testimonianza del soldato italiano si presta anche a altre
letture più interne alla nostra storia, che chiamano in causa «nodi» irrisolti della nostra
memoria collettiva su cui vale la pena riaccendere i riflettori del dibattito storiografico.
Quella di La Sorsa è infatti solo una delle tante voci raccolte in un libro appena uscito di
Nicola Labanca (Posti al sole. Diari e memorie di vita e di lavoro dalle colonie d'Africa,
Museo storico Italiano della Guerra); un'antologia di grande efficacia che, per la prima
volta, ci restituisce nitidamente gli aspetti soggettivi e autobiografici del nostro passato
coloniale, di quell'inseguimento «al posto al sole» che si protrasse ininterrottamente fino
alla metà del Novecento. Labanca ha pazientemente raccolto lettere, diari, carteggi e
memorie sparse in vari archivi (il fondo più consistente è quello conservato nell'Archivio
62
diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano), una documentazione straripante che lascia
affiorare l'intero universo di quelle centinaia di migliaia di italiani che - tra il 1882 e il
1943 -, in Eritrea, Libia, Somalia, Etiopia, furono coinvolti nel nostro «sogno africano».
Per la maggior parte si tratta di scritti di petit blancs; non i diplomatici, quindi, non i
militari, non quelli che andarono in colonia per assumere cariche istituzionali e
amministrative o per investire grandi capitali, ma tutta la massa di quelli «che si mossero
portando con sé solo se stessi e al massimo le proprie famiglie, con l'ausilio solo delle
proprie braccia da lavoro o del proprio modesto titolo di studio, contadini, piccoli
commercianti, microimprenditori». Furono l'assoluta maggioranza dei nostri coloniali; ai
Censimenti del ventennio risultavano infatti solo un 2% di possidenti e imprenditori e un
5% di professionisti; per il resto, furono in gran parte i ceti medi a lasciarsi coinvolgere
nei nostri progetti di dominio coloniale: in Africa cambiarono il loro nome - diventando
petit blancs, appunto - ma non la propria condizione sociale. L'eccezionalità di questa
documentazione sta proprio nella sua provenienza: tradizionalmente i ceti medi
costituiscono un universo sociale amorfo, abituato a lasciare scarne testimonianze della
sua «piccola storia», pronto a delegare il proprio protagonismo ai poteri forti che
costruiscono la «grande storia». Qui, invece, è come se l'enormità dell'avventura africana
ne stimoli i ricordi, li solleciti a rompere la crosta del loro tradizionale riserbo per
lasciare liberamente fluire passioni, invettive, recriminazioni, entusiasmi, nostalgie.
Lungo questo percorso si incontrano testimonianze che si limitano ad aggiungere
particolari inediti a quanto già si sapeva: ad esempio, il nesso ideologico tra le leggi
contro gli ebrei del 1938 e la pratica di separazione razzista nei confronti della
popolazione indigena avviata nei possedimenti coloniali, in particolare nell'Etiopia
appena conquistata. Così, i ricordi di Arthur Journò ribadiscono questo collegamento.
Siamo nel 1938 e Journò è un giovane ebreo italiano che vive a Tripoli. Il Governatore
della colonia, Italo Balbo, ordina agli ebrei di tener aperti i loro negozi anche il sabato.
Ovviamente i negozi restarono chiusi. A quel punto i fascisti prendono dieci ebrei libici
e decidono per una loro pubblica fustigazione: «in mezzo alla piazza alcuni genieri
dell'esercito avevano eretto un palco abbastanza alto proprio per dare la possibilità a
tutto il popolino di godere dello spettacolo... non so dire quante frustate ogni condannato
ricevette, tenni gli occhi chiusi e sentivo solo i lamenti e i battiti delle mani della gente
che gridava piena di odio».
Altre testimonianze ribadiscono stereotipi razziali, con particolare riferimento alle
donne, («Entrando, l'ingresso è squallido e umido. Un odore strano di erbe e di altre
sostanze non definibili fluttua qui dentro; le abitatrici si avvicinano curiose, timide e
sorridenti. Sembrano tante bestie rare...», Unno Bellagamba, 1935) che esaltano la natura
ferina delle popolazioni nere, in un misto di disprezzo e timori ancestrali. In quasi tutte
domina poi un'autorappresentazione fortemente segnata dalla propaganda colonialista, in
particolare - per quanto si riferisce all'Etiopia - di quella fascista, segnata dal trinomio
«Dio, Patria, Famiglia»: «Dio, andare in Africa significava evangelizzare, essere
missionari, pionieri in terre sconosciute e abitate da popoli primitivi; Patria, assicurare al
proprio paese le materie prime, il lavoro e la possibilità di emigrare, accrescere il
prestigio del nostro popolo; Famiglia, una via più breve e più sicura per realizzare i
sogni della famiglia, significava trovare un impiego al termine della campagna della
conquista coloniale, nella stessa terra africana per la quale avevo arrischiato la vita»,
63
(Angelo Filippi, 1935). Sotto queste esplicite intenzioni affiora, però, anche una realtà
diversa, quasi che quei documenti alla fine parlino «malgrado se stessi». Certamente in
essi incontriamo la guerra, la dimensione epica del «mal d'Africa», l'orgoglio di sentirsi
allo stesso tempo italiani e conquistatori; ma incontriamo anche la vita quotidiana, le
abitudini e le relazioni sociali, mode e comportamenti collettivi e - soprattutto - il lavoro,
tanto lavoro. Camionisti e braccianti, coloni agricoli e commercianti, piccoli artigiani e
impiegati, per tutti la vita in colonia è essenzialmente il lavoro, la fatica, il confronto
assiduo con una natura sconosciuta, poche volte apprezzata per la sua bellezza, più
spesso maledetta per le sue asperità. La centralità del lavoro toglie, alla fine, ogni epicità
a quei ricordi e ci consegna una delle chiavi per spiegare il «mistero» del loro inabissarsi
fino a scomparire dalla nostra memoria collettiva. Per i petit blancs italiani la fine del
sogno africano coincise, infatti, con la rovinosa sconfitta militare dell'Italia fascista. Il
loro ritorno in patria fu traumatico. Nella nuova Italia repubblicana non c'era più nessun
posto al sole da magnificare e difendere. I neofascisti tentarono di cavalcarne
recriminazioni e rimpianti. Anche la Dc lo fece, in un modo tipicamente democristiano,
alimentando cioè una politica puramente assistenziale, con una legislazione che
soddisfaceva tutte le loro richieste economiche, rifiutandone però la dimensione
ideologica e revanscista; si assicurò i loro voti, se non la loro riconoscenza. Alla fine,
quando smisero anche di essere un serbatoio di voti, la loro memoria divenne solo un
oggetto storiografico da studiare.
(La Stampa, 14 gennaio 2002)
______________________-
Fascismo e colonialismo
64
"La donna bianca e l'uomo nero"
norme a cura dell'Istituto coloniale fascista, 1937
Costretti a continui contatti con l'indigeno, bisogna studiarne attentamente la mentalità
per poterlo guidare, senza urti ma con mano sicura, a contribuire utilmente col suo
lavoro ai fini che noi ci ripromettiamo di conseguire. Caratteristica generale del negroide
e del negro dell'Africa equatoriale è la poca disposizione ad un intenso e prolungato
lavoro, un acuto senso della giustizia ed un profondissimo rispetto della forza. La poca
disposizione pel lavoro è logica conseguenza delle scarsissime esigenze di vita dei
popoli primitivi e spesso della facilità con cui essi possono ottenere senza grandi sforzi
tutto quanto serve alla loro esistenza, per l'abbondanza dei frutti della terra e degli
animali, che procurano loro spontaneamente ciò che occorre per il nutrimento, per il
ricovero e per il rudimentale abbigliamento. La giustizia e la forza sono concetti così
radicati nell'animo di tutti i popoli primitivi che devono essere alla base di ogni rapporto
con loro.
http://www.anpi.it/colonie/cirenaica.htm
Le guerre coloniali del fascismo
La Cirenaica
La Cirenaica è la zona più ricca della Libia. L’altopiano del Gebel in particolare, grazie
alla presenza di piogge, offre maggiori possibilità di coltivazione e di allevamento del
bestiame che nel resto del Paese. La vita delle popolazioni seminomadi di religione
musulmana è regolata dalla Senussia, un’organizzazione statuale nata agli inizi
dell’Ottocento. Articolata in numerose "zauie" periferiche, la Senussia ha funzioni sia
politiche che religiose e regola l’attività dei commerci, del pagamento delle decime e
dell’attività amministrativa e giudiziaria. Il carattere fortemente radicato della Senussia
fa sì che in Cirenaica la ribellione alla colonizzazione sia più diffusa e difficile da
sconfiggere perché mimetizzata nel territorio e sostenuta dalla popolazione.
Nel gennaio 1930 il generale Rodolfo Graziani viene nominato vicegovernatore della
Cirenaica e affianca il governatore Pietro Badoglio nell’attuazione della "fase finale"
della repressione della resistenza antitaliana, guidata da Omar al-Mukhtar. Si apre una
guerra senza quartiere: viene attuato un piano di deportazioni delle tribù seminomadi
che appoggiano i ribelli, si ordina di impiccare i capi ribelli catturati, viene emanato un
proclama i cui si afferma che se il nemico non si piega, sarebbe stato sterminato: ogni
cosa sarebbe stata distrutta, le proprietà confiscate, i colpevoli puniti persino nelle loro
famiglie; vengono istituiti tribunali volanti con diritto di morte per reati quali il possesso
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di armi da fuoco o il pagamento di tributi ai ribelli; viene permesso l’utilizzo di
strumenti bombe ad aggressivi chimici, come testimonia un dispaccio di Badoglio al
vicegovernatore Siciliani del 10 gennaio 1930: "Continui rastrellamenti e vedrà che
salterà fuori ancora qualcosa. Si ricordi che per Omar al-Mukhtar occorrono due cose:
primo, ottimo servizio di informazioni; secondo, una buona sorpresa con aviazione e
bombe iprite. Spero che dette bombe le saranno mandate al più presto".
La riconquista della Cirenaica dura circa due anni e si conclude con un impressionante
bilancio di vittime tra la popolazione.
Per togliere ai ribelli ogni sostegno da parte della popolazione, Graziani e Badoglio
decidono che dal 25 giugno 1930 vengano creati dei campi di concentramento vicini alla
costa per le popolazioni del Gebel che avevano dato appoggio alla resistenza antitaliana.
Questi campi non solo rompono ogni legame tra popolazione e ribelli, ma spezzano ogni
possibilità di autosussistenza delle comunità seminomadi. In sei campi principali e una
decina di minori vengono deportate, dopo lunghe marce forzate, tra le 100 e le 120.000
persone, con tutti i loro beni e le loro greggi (circa un milione di animali), costrette a
vivere in aree ristrette, dove le condizioni di vita diventano subito ai limiti della
sopravvivenza. In una lettera a Graziani del 20 giugno 1930 Badoglio scrive: "Bisogna
anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e
popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo
provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma
ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla fino alla fine, anche se
dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica".
Per togliere ai ribelli l’aiuto che proveniva dall’Egitto (dove si sono rifugiati circa
20.000 libici), alle popolazioni della Cirenaica viene proibito ogni tipo di commercio
con l’Egitto. A questo scopo dall’aprile al settembre 1931 viene innalzata una barriera di
filo spinato, alta quattro metri, lungo i 275 chilometri tra il porto di Bardia e l’oasi di
Giarabub, il cui tracciato viene controllato per mezzo di fortini e voli aerei. Inoltre i
santuari locali dei Senussi vengono chiusi, sequestrate le loro rendite e confiscate le loro
proprietà terriere. Viene instaurato un vero e proprio regno del terrore: migliaia di
esecuzioni, villaggi saccheggiati o costretti a piegarsi per fame, rappresaglie selvagge
contro le comunità beduine se uno qualsiasi dei loro membri si univa al nemico.
http://www.tightrope.it/USER/chefare/archivcf/cf19/libia.htm
Libia: un test della "diversità "italiana
Piace al "pacifismo" ed al "riformismo" sottolineare il ruolo "diverso " che l'Italia può
svolgere e già in certa misura svolgerebbe nella difesa della "pace" e della "soluzione
pacifica" dei conflitti internazionali.
66
Nel mondo arabo in particolare la Libia (che tuttavia non è la sola nazione ad avere
goduto di questo privilegio) ha avuto modo di sperimentare direttamente, sulla propria
viva carne, tale "diversità" nel corso della occupazione della Tripolitania ad opera
dell'Italia liberaldemocratica e fascista, durata dal 1911 al 1943.
Abbiamo poco spazio a disposizione per rammentare qualche aspetto di una
"civilizzazione diversa", dal "volto umano" o - come piaceva dire ad inizio secolo ad un
certo nazionalismo - da "nazione proletaria"; contrapposto a quello "predatore" delle
grandi potenze (ohi, com'è vecchia questa menzogna social-sciovinista della "diversità"
italica…). Lo useremo per pubblicare qualche cifra che non vuole essere sostitutiva,
evidentemente, di un'analisi storico-politica, ma fornire solo un parziale promemoria di
una minimissima parte delle atrocità che le popolazioni arabe hanno dovuto subire per
mano del barbaro colonialismo imperialista.
La fonte delle cifre è un censimento libico del 1984. Non ci sono fonti italiane in
materia, poiché la repubblica democratica nata dalla Resistenza, giunta al suo 45° anno
di vita, non ha ancora realmente aperto i propri archivi, peraltro abbondantemente
purgati da "storici" di matrice fascista a cui erano stati affidati in cura…
Il censimento è del 1984 ed è parziale, in quanto riguarda soltanto 100.000 famiglie su
660.000 costituenti l'intera popolazione libica. I casi di "danni" accertati tra queste
persone sono 199.269: 21.123 uccisi dalle truppe di occupazione (tra il 1911 e il 1932);
5.867 assassinati o imprigionati senza alcun processo; 25.738 costretti ad arruolarsi
come ascari e a combattere contro i propri fratelli ribelli o contro le popolazioni
dell'Etiopia; 37.763 internati nei campi di concentramento; 30.091 costretti ad emigrare
nei paesi vicini; 12.058 persone morte a causa di bombardamenti aerei e terrestri o di
mine (fino al 1943); 14.910 mutilate dalle esplosioni di bombe e mine (anche dopo la
seconda guerra mondiale); 30.321 persone che avevano subito danni alle aziende
agricole o perdite di bestiame; 463 denunzie di avvelenamento di pozzi, incendi di
boschi et similia, etc. etc.
Lo storico De Boca, che non è certamente un anti-imperialista neppure con le virgolette,
non contesta affatto questi dati. Al contrario non fa fatica a riconoscere che le cifre
globali, ossia il costo materiale ed umano del banditismo della "diversa" Italia nei
confronti della Libia è stato sicuramente di molto superiore. Gli internati nei campi di
concentramento furono più di 100.000. Il numero dei morti libici trucidati dalle truppe di
occupazione è "di gran lunga superiore" ai 21 mila e passa indicati sopra (alcune
centinaia di migliaia secondo cifre ufficiose). Il territorio libico è stato popolato di alcuni
milioni di mine durante la guerra, e diverse migliaia di libici sono morti e continuano a
morire a causa delle mine. Intere regioni (almeno 3 milioni di ettari) sono state
abbandonate per la stessa ragione. Più di 120.000 capi di bestiame sono saltati sulle mine
nei primi 25 anni del dopoguerra. E poi c'è la ferita ancora aperta dei deportati in Italia a
partire dal 1911, di cui né l'Italia liberaldemocratica, né quella fascista, né quella post
fascista, l'una "diversa" dall'altra e l'una più fetente dell'altra, hanno voluto dire parola.
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Eppure, dice ancora Del Boca in una intervista a "Politica ed economia" (maggio 1988),
negli archivi semi proibiti "c'è, nero su bianco, tutto; compreso l'uso del fosgene, i gas (a
proposito delle armi chimiche! - n.), le deportazioni, i lager, i 270 chilometri di filo
spinato, le atrocità commesse dai Graziani (il Maresciallo fascista politicamente
riabilitato da Andreotti - n.)".
Lontane vicende da ascrivere essenzialmente alla "malattia morale" del fascismo? Niente
affatto! La democrazia le rivendica a pieno, nella sostanza.
Il giudizio globale lasciamolo a Sforza, un liberale ministro dell'Italia democratica,
collega di governo - durante l'unità nazionale"- di Togliatti: "L'Italia democratica ritiene
ingiusto e immeritato che le sia impedito di continuare a perseguire in Africa, secondo i
principi proclamati dall'ONU (notate bene) e nel quadro delle sue istituzioni, l'opera di
CIVILIZZAZIONE che ha intrapresa e perseguita con infiniti sacrifici e con risultati
che il mondo intero ha ampiamente riconosciuto". A quei dì (1947-1949) anche il PCI
sospetto di "doppio binario" e l'URSS sostenevano che la Libia avrebbe dovuto essere
"lasciata" alla… "diversa" Italia…
Vediamo ora alcune foto, iniziando da un gigantesco campo di concentramento italiano
fatto di tende nel deserto:
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Omar El Mukhtar, capo della resistenza libica, dopo l'arresto e prima dell'esecuzione
Tripoli 1943 / Addio all'Africa italiana
La fine dell'impero
Angelo Del Boca
http://www.nigrizia.it/doc.asp?ID=5284
Seguita alla sconfitta di El Alamein, la caduta di Tripoli chiuse un'epoca. A sessant'anni
di distanza, il maggior storico del colonialismo italiano ci ricorda quanto è costato - in
termini di guerra di conquista, eccidi e spoliazioni - il nostro sogno coloniale a Eritrea,
Somalia, Libia ed Etiopia. Negativo anche il bilancio militare ed economico.
I1 23 gennaio 1943, giusto sessant'anni fa, il vice governatore della Libia, Francesco San
Marco, affiancato dal prefetto di Tripoli, il duca Alberto Denti di Pirajno, si recava a
Porta Benito, dove il generale Bernard Law Montgomery aveva posto il suo quartier
generale, e gli consegnava le chiavi di Tripoli.
Nel ricordare il breve discorso del vincitore, Denti di Pirajno, che era, oltre che un alto e
stimato funzionario coloniale, uno scrittore finissimo, così si esprimeva: «Montgomery
non mi piacque, sia perché il vinto non trova mai simpatico il vincitore, sia perché ci
parlava senza guardarci, col capo insaccato fra le spalle rachitiche e lo sguardo
inchiodato al suolo. Ebbi allora l'impressione che con questo atteggiamento volesse
ostentare il poco conto in cui ci teneva e questo, in un conquistatore, mi parve
ingeneroso».
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Il prefetto di Tripoli non era soltanto turbato per il disprezzo che il vincitore della
battaglia di El Alamein ostentava nei riguardi delle autorità italiane. Era anche avvilito
per la mancata difesa di Tripoli, che militari e gerarchi fascisti avevano solennemente
promesso di operare ad oltranza, casa per casa. Ma al momento di mettere in pratica
questi bellicosi propositi - riferiva Denti di Pirajno - «tutti se ne erano andati: i
condottieri che avevano giurato di difendere la città sino all'ultimo mattone, i gerarchi
del "di qui non si passa". L'ultima nave ospedale, dirottata su Zuara, era partita vuota di
feriti, ma stracarica di greche, di aquile, di medaglie».
Con la caduta di Tripoli, ultimo lembo di terra africana ancora presidiato dall'Italia, si
concludeva un'epoca. Finiva la spinta espansionistica che aveva avuto inizio nel 1869
con l'occupazione della baia di Assab, nel Mar Rosso. Crollava l'ultimo pilastro
dell'impero dell'Africa italiana, voluto con ostinazione da Benito Mussolini, con un costo
altissimo di vite umane e di risorse economiche. Dopo settant'anni di presenza italiana in
Africa, il nostro paese usciva definitivamente dal Continente Nero lasciandovi il ricordo
indelebile di stragi, di deportazioni, di devastazioni, di spoliazioni. Inutilmente
Mussolini lanciava il 9 maggio 1943, celebrando l'anniversario della fondazione di un
impero che oramai non c'era più, la parola d'ordine : "Torneremo". Due mesi dopo
cadeva il regime fascista e con esso tutti i miti che aveva creato.
Dogali, Adua, Kars bu Hadi
II bilancio della presenza italiana in Africa non poteva, sotto tutti i punti di vista, essere
più negativo. Sotto il profilo del prestigio militare l'Italia ne usciva malconcia. Alla resa
dei conti, infatti, erano più le sconfitte che i successi. Dogali, Adua, Kars bu Hadi non
erano soltanto brucianti disfatte. Mettevano in evidenza tutti i difetti del tardo
colonialismo italiano: dilettantismo, imprevidenza, iattanza, disprezzo per l'avversario,
eroismo di chi ormai non ha scampo e alla fine preferisce la morte al tribunale militare.
Ad Adua, Oreste Baratieri, con 5mila morti, 2mila prigionieri e la perdita di tutti i
cannoni, si aggiudicava la palma del generale più sconsiderato, più inesperto, più
biasimevole. A Kars bu Hadi, il colonnello Antonio Miani perdeva mille uomini, 5mila
fucili, alcuni milioni di cartucce, 6 sezioni di artiglieria, tutte le mitragliatrici, l'intero
convoglio di rifornimenti e persino la cassa militare. Tante armi, viveri e denaro da
alimentare e rendere vincente la rivolta araba. In pochi mesi i mujaheddin avrebbero
ripreso tutti i territori conquistati dagli italiani in quattro anni di guerre, salvo Tripoli e
poche altre città della costa.
Si faceva così strada la convinzione, negli alti comandi, che, per strappare una sicura
vittoria, fosse necessario mettere in campo uomini e mezzi che fossero almeno il doppio
di quelli schierati dall'avversario. Infatti, memore di Adua, Mussolini impiegava nella
conquista dell'Etiopia armate così possenti e soverchianti come l'Africa non aveva mai
visto. E paventando ancora amare sorprese, ordinava a Badoglio e a Graziani di
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aggiungere alle armi convenzionali anche quella proibita dei gas, violando così gli
accordi internazionali che l'Italia aveva sottoscritto.
Poi, un giorno, per questi condottieri troppo celebrati e persino mitizzati, sarebbe venuto
il momento della verità. Nel giudicare l'operato di Rodolfo Graziani in Africa
settentrionale, nel corso della seconda guerra mondiale, l'addetto militare tedesco a
Roma, Enno von Rintelen, così si esprimeva: «Egli condusse la guerra in Africa come
una campagna coloniale; i suoi avversari non erano però dei nativi, bensì dei soldati
dell'impero mondiale britannico».
Graziani si era costruito tutta la sua fortuna, in Libia e in Etiopia, battendo formazioni di
patrioti male armate, ricche soltanto di un indomito coraggio. Ma posto di fronte ad un
esercito regolare e modernamente equipaggiato, egli rivelava tutti i suoi limiti, perdeva il
controllo di sé stesso e delle sue armate, la sua leggenda si trasformava in una penosa
parodia. E con lui scomparivano dalla scena, uccisi o fatti prigionieri, i Bergonzoli, i
Gallina, i Tracchia, i Pitassi Mannella, che con troppa facilità avevano raggiunto i
massimi gradi nella campagne coloniali. Scompariva anche il generale Pietro Maletti,
che nel 1937, in Etiopia, aveva massacrato duemila monaci e diaconi della città
conventuale di Debrà Libanòs.
Fallimento del fascismo
Se le campagne coloniali non avevano certo aumentato il prestigio dell'esercito italiano,
il bilancio economico si chiudeva in net-ta perdita. Fra i motivi che avevano spinto
l'Italia a partecipare allo "scramble for Africa", c'era stato anche quello di dirottare la
corrente emigratoria, che aveva sempre preferito le Americhe, verso le colonie che
l'Italia si era aggiudicata in Africa. Nella sola Etiopia, Mussolini aveva ipotizzato di
inviare due milioni di contadini senza terre, ma nel 1940, allo scoppio della seconda
guerra mondiale, i coloni insediati sulle migliori terre etiopiche erano soltanto 31mila.
Anche nelle altre colonie, decisamente più povere dell'Etiopia, l'afflusso degli italiani era
stato più che deludente. In settant'anni, di fronte a venti milioni di disperati che avevano
scelto le Americhe, gli italiani che avevano optato per l'Africa erano appena 300mila.
Per rendere più agevole il loro insediamento (non certo per mi-gliorare la sorte dei
nativi), lo stato italiano aveva impegnato forti capitali nella realizzazione di alcuni
progetti. Citiamo, ad esempio, i comprensori di bonifica lungo il Giuba e 1'Uebi Scebeli,
in Somalia; quello di Tessenei in Eritrea; le decine di villaggi agricoli costruiti sul finire
degli anni '30 in Tripolitania e in Cirenaica. Ma i maggiori investimenti Roma li
realizzava in Etiopia.
Per il solo sistema viario, vitale per incrementare i traffici e per spostare rapidamente le
truppe, venivano importati dall'Italia 1.192.000 quintali di cemento, 72.600 quintali di
ferro, 12.319 quintali di dinamite, il tutto gravato dai noli marittimi, dal pesante
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pedaggio del canale di Suez, dai prezzi proibitivi imposti dai "padroncini" per i trasporti
su autocarro.
Osservando, costernato, lo sperpero del denaro pubblico, il ministro degli Scambi e
Valute Felice Guarneri scriveva: «Tutta l'economia dell'impero prosperava in un clima
artificioso, che traeva alimento unicamente dalla trasfusione di beni e ricchezze che la
madrepatria faceva con generosità da gran signora. Era mia profonda convinzione che
noi non avremmo potuto durare a lungo nello sforzo». Si rischiava la bancarotta.
Questo immenso sforzo, realizzato, fra l'altro, tutto a detrimento del Sud dell'Italia, i cui
problemi, nel clima di esaltazione imperiale, venivano ignorati, non sarebbe servito a
nulla. Con l'entrata in guerra dell'Italia, il 10 giugno 1940, l'Africa Orientale Italiana
(Aoi) rimaneva isolata dalla madrepatria e risultava accerchiata da territori in gran parte
amministrati dalla Gran Bretagna. La difesa dell'Aoi non sarebbe durata che diciassette
mesi. Prima ad essere occupata dalle forze alleate era la Somalia, poi l'Eritrea
(nonostante l'accanita resistenza a Cheren) e, per ultima, l'Etiopia. Il mattino del 28
novembre 1941 si arrendevano gli ultimi capisaldi di Ualag, Chercher, Celgà e Gorgorà,
nella regione di Gondar. L'impero voluto da Mussolini non esisteva più.
C'erano altri bilanci da stilare. Eravamo andati in Africa per portarvi la civiltà e il
benessere, perché questo - si diceva all'epoca - era il "fardello" dell'uomo bianco. Ma,
alla resa dei conti, non avevamo portato alcuno sviluppo. Avevamo soltanto adottato una
politica di rapina, che consisteva nel riservare ai coloni italiani le migliori terre e
nell'impedire la creazione di una classe dirigente africana proibendo ai nativi l'accesso
agli studi.
Nel 1950, ad esempio, quando l'Italia ritornava in Somalia con il mandato delle Nazioni
Unite di condurla in dieci anni all'indipendenza, sul paese dei somali gravava ancora la
più buia notte coloniale. I suoi primati erano tutti negativi. Il tasso di analfabetismo
toccava il 99,40 per cento. Nessun somalo era riuscito a diplomarsi o a laurearsi. Su di
una popolazione di 1.242.000 abitanti, soltanto 20mila vivevano in case in muratura,
tutti gli altri in baracche, tende, tucul e arich. C'era un medico ogni 60mila anime e 1.254
postiletto nei dieci ospedaletti distribuiti su di un territorio vasto come una volta e mezza
l'Italia.
400mila morti
C'era, infine, un ultimo e tragico bilancio da compiere. Qual era il costo della presenza
italiana in Africa? Quante vittime avevano mietuto le guerre di conquista, le operazioni
di grande polizia coloniale, le azioni di contro guerriglia, il lancio dei gas sulle
popolazioni civili? Anche se, in questi casi, le stime sono sempre necessariamente
approssimative, si può comunque sostenere che, fra il 1890 e il 1941, sono morti, a causa
dell'espansionismo italiano, circa 400mila fra eritrei, somali, libici ed etiopici. Il paese
maggiormente colpito è stato la Libia, con 100mila morti: questi ultimi sicuri, non
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"approssimativi", schedati uno per uno negli archivi del Libyan Studies Center di
Tripoli.
Il cinquanta per cento morti in combattimento, l'altro cinquanta durante la deportazione
in massa delle popolazioni della Marmarica e del Gebel Akhdar e nei tredici campi di
concentramento costruiti nell'inferno della Sirtica. Per dare un'idea della decimazione
subìta dai libici ricordiamo che, all'epoca, la Libia contava 800 mila abitanti. Come a
dire che un libico su otto ha perso la vita a causa della presenza ostile degli italiani.
L'altro paese che ha pagato un prezzo altissimo nei tentativi di difendere la propria
indipendenza è l'Etiopia di Hailé Selassiè. Anche se la cifra di 760mila morti, fornita alle
Nazioni Unite dalle autorità etiopiche, appare decisamente eccessiva, quella di 300mila
vittime non è molto lontana dalla realtà.
A questa cifra si arriva sommando i caduti militari e civili durante il conflitto
italoetiopico del 1935-36; i patrioti uccisi in combattimento o fucilati dopo un processo
sommario nei cinque anni della guerriglia; i militari e civili (fra questi ultimi, moltissimi
esponenti del clero copto) assassinati in seguito all'attentato a Graziani del 19 febbraio
1937; i confinati deceduti per privazioni ed epidemie nei lager di Danane e di Nocra; i
contadini morti a causa dei patimenti subiti dopo la distruzione dei loro villaggi e il
saccheggio dei loro beni.
Per questi morti e per i danni causati dall'aggressione fascista, l'Etiopia chiese all'Italia
un risarcimento di 184 milioni di sterline. Roma chiuse la partita con 6.250.000 sterline.
Con altri paesi, come la Libia, fu ancora più avara.
L'Italia poteva tornare in Africa, nel dopoguerra, per riparare i suoi torti e per rifarsi una
reputazione. Invece non ha pagato i suoi debiti (o lo ha fatto in maniera insufficiente) e
ha destinato male i suoi aiuti, usando una politica non giusta, non riparatrice, non
lungimirante. Una politica spicciola, povera di fantasia e di vera solidarietà. Una politica
che non ha il senso della storia, che non conserva la memoria del passato.
http://www.pasti.org/delboca2.html
Le infamie del colonialismo italiano in Libia sono state quasi sempre rimosse in Italia.
Anzi, ai responsabili si erigono monumenti. Ecco qualche testo per non dimenticare
L'INFAMIA DELLE DEPORTAZIONI
Da: "Gli italiani in Libia, dal fascismo a Gheddafi"
di Angelo Del Boca, Laterza, 1991, cap. IV
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L'esproprio delle zavie
Proseguendo il riordino organizzativo della colonia e la lotta senza quartiere contro la
Senussia, nella prima decade di maggio del 1930 Graziani adotta un altro provvedimento
particolarmente severo: il raggruppamento coatto delle popolazioni indigene nelle
vicinanze dei presidi italiani. Con questa misura presa contemporaneamente al
razionamento dei viveri, il vice-governatore della Cirenaica confida di disseccare la
principale sorgente che alimenta la ribellione. Ha così inizio la prima, biblica migrazione
dai territori dell'altipiano verso le zone più sicure della costa. Quasi 900 tende Abid
vengono riunite nella piana di Barce; 1400 tende Dorsa intorno a Tolmeta; altre 3600
tende, che prima erano sparse sino a el Mechili, vengono raggruppate fra Cirene e Derna.
Ma non si tratta di un provvedimento definitivo, poiché tanto De Bono che Badoglio
hanno in mente una operazione più vasta e radicale, che porti allo sgombero totale del
Gebel Achdar. Questa di maggio, dunque, è soltanto la prova generale della deportazione
in massa che verrà fatta tra luglio ed agosto.
Si è appena conclusa questa operazione quando Graziani, con il consenso di Badoglio e
di Roma, applica una nuova misura: I'esproprio integrale dei beni mobili ed immobili
delle zavie senussite. Il provvedimento, già allo studio da un paio di anni, era sempre
stato rinviato perché si temeva di turbare la coscienza religiosa delle popolazioni libiche
e di commuovere l'opinione pubblica musulmana (1), poiché le zavie erano, prima che
organi di propaganda politica e di collegamento tra le popolazioni e i ribelli, centri
spirituali ed assistenziali. Le ultime perplessità vengono però a cadere nel maggio del
1930 quando lo scontro con la Senussia si fa totale. « Mai il governo italiano si è trovato
in vera lotta armata di fronte alla Senussia come lo è attualmente; - scrive Badoglio a De
Bono - mai la Senussia ha fatto appello come ora a tutti i suoi aderenti per averne aiuti
materiali e morali al fine di constrastare il nostro dominio; mai è ricorsa a intimidazioni,
a minacce, a violenze di ogni genere per sollevarci contro i nostri sudditi. A questa
decisa azione di ostilità, è giusto e doveroso contrapporre da parte nostra un identico
atteggiamento Le mezze misure non giovano a nulla. Quando si è in guerra, non è lecito
avere degli scrupoli e conservare al nemico le proprietà da cui ricava i mezzi per
continuare la lotta » (2).
Il 29 maggio reparti di carabinieri invadono simultaneamente le sedi di tutte le zavie (3),
traggono in arresto 31 capi zavia e pongono i sigilli sulle proprietà della confraternita. I
capi religiosi sono dapprima confinati in un campo nei pressi di Benina; poi, sembrando
imprudente mantenerli in Cirenaica, il 28 settembre vengono imbarcati sul
cacciatorpediniere Stocco ed awiati ad Ustica (4). Nel bando diramato agli indigeni il 2
giugno, Graziani spiega i motivi del grave provvedimento e soggiunge: « Da oggi siete
tutti liberati dal pagamento della zacat, anzi chi lo farà ugualmente, sarà considerato reo
di tradimento e punito perciò con la morte » (5). Per Omar al-Mukhtàr il colpo è
durissimo. In pochi giorni egli si vede privato prima del sostegno delle popolazioni, poi
del supporto delle zavie, che gli fornivano, con le decime, senti di ogni genere ed
informazioni. Comunque non si abbatte e fa sapere che non concluderà alcuna pace che
sia in contrasto con gli interessi della Senussia e che « combatterà sino alla morte » (6).
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Il patrimonio confiscato è enorme. Si tratta di centinaia di case e di quasi 70 mila ettari
della miglior terra della Cirenaica. Per fare qualche esempio, la sola zavia di Bengasi ha
8 immobili e 2 mila ettari di orti e giardini; quella di Tilimum ha 12 immobili ed una
rendita di 15 mila lire annue nette; quella di Marada possiede 11 giardini e 517 palme
sparse nell'oasi; quella di Tocra 19 immobili; quella di Mrassas 15 mila ettari (7).
Secondo le stime fatte fare da Graziani il reddito annuo delle zavie, escluse quelle di
Giarabub e di Cufra, supera le 200 mila lire, gran parte delle quali finivano nelle casse
della ribellione. « Considero pertanto la chiusura delle zavie - scrive Graziani a Badoglio
il 14 giugno - un provvedimento fondamentale per lo stroncamento della ribellione» (8)
Nel timore, però, che il provvedimento provochi l'indignazione e la collera delle
popolazioni musulmane, Graziani chiede a Mohammed er-Ridà di stilare e di divulgare
un documento a favore della chiusura delle zavie. Il Senusso, ormai incapace di opporsi
alle sempre più frequenti pressioni degli italiani, accetta l'incarico e dirama un
comunicato con il quale sconfessa l'operato dei suoi fratelli Mohammed Idris e Ahmed
esh-Sherif, invita i ribelli a sottomettersi « al caro Graziani », che è « un padre
compassionevole, clemente, misericordioso e giusto » e soggiunge: « Il sequestro dei
beni della Senussia e la loro confisca oggi è un provvedimento giusto, poiché lo hanno
causato i miei fratelli. Essi pertanto sono i responsabili di fronte ai capi della
Confraternita per il male che hanno fatto » (9). A favore della misura si schiera anche il
direttore del giornale bengasino « Berid Barca », Mohammed Mohesci. L'articolo di
questo collaborazionista è quanto di più servile si possa immaginare. Egli definisce le
zavie « consolati del nemico » e si meraviglia che siano state chiuse soltanto ora e non
nel 1923 dopo la abrogazione degli accordi con la Senussia. « La chiusura di queste
zavie - scrive inoltre - mentre sopprime un mezzo non indifferente di connivenza coi
ribelli, ritorna a vantaggio della grande maggioranza dei sottomessi in quanto elimina
una grave causa che dava luogo all'accusa di connivenza. [...] Non esageriamo dicendo
che la parola confisca significa in questo caso liberazione di tali beni religiosi dalle mani
degli usurpatori » (10).
Tolte alla ribellione le principali fonti di finanziamento, Graziani decide di sferrare una
grande offensiva contro i ribelli, convinto di poter ripetere i successi ottenuti in
Tripolitania e di poter mettere una buona volta le mani su Omar al-Mukhtàr. Meditando
sul suo passato fortunato e sul fatto che ha piegato ad uno ad uno tutti i capi della
guerriglia, Graziani scrive: « Siccome io sono stato seme pre un po' mistico [...], sono
stato sempre convinto che questo sia avvenuto non per semplice caso umano, ma per una
volontà ed una ispirazione superiore legittimante in me la certezza che i ' capi ribelli
sarebbero tutti finiti per le mie mani ' » (11). Con queste convinzioni, il 16 giugno 1930
Graziani lancia quasi tutte le forze presenti in Cirenaica contro i duar di Omar che
stanziano nella regione del Fayed, a sud di Cirene. Ma ancora una volta Omar riesce a
sgusciare tra le truppe del colonnello Spatocco, che attaccano da nord, e quelle del
colonnello Maletti, che incalzano da sud. Il rastrellamento dura fino alla fine di giugno,
ma senza alcun risultato apprezzabile.
Il 20 giugno, mentre le operazioni nel Fayed sono ancora in corso, Badoglio invia a
Graziani una lunga lettera con la quale critica duramente l'operato del vice-governatore e
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gli impartisce nuove direttive intese ad imprimere una netta svolta alla lotta contro la
Senussia. « Ho voluto lasciar compiere a V.E. questo primo ciclo operativo senza un mio
diretto intervento, - scrive Badoglio - sia per non intralciare l'opera, sia anche per
corrispondere al desiderio di V. E. che mi ha telegrafato di rimandare la mia venuta costì
a ciclo operativo chiuso. Ma è mio stretto dovere ora intervenire, perché la responsabilità
dell'azione viene direttamente a me, prima di giungere al ministero ».
Chiarito l'ordine delle responsabilità, Badoglio analizza l'azione condotta nel Fayed da
Graziani e tutte le operazioni che l'hanno preceduta a partire dal 1923 per giungere a
concludere « che le manovre chiamate a largo raggio sono sempre fallite e saranno
sempre, finché durano le attuali condizioni, destinate al fallimento ». Due sono le cause
essenziali del ricorrente insuccesso: «Il vigilantissimo servizio di protezione e di
informazione dei ribelli » e la straordinaria abilità di Omar al-Mukhtàr, il quale non si
lascia mai cogliere da « megalomania guerriera » e, « da freddo e sereno valutatore delle
sue forze e delle conseguenti possibilità, rifiuta il combattimento e disperde le sue forze
[...]. Se V.E. esamina la storia di tutte le operazioni, - continua Badoglio, calcando non
poco la mano - vede che sovente abbiamo preso delle greggi, ma non abbiamo mai
inferto colpi severi all'avversario, appunto per la persistenza delle condizioni
suaccennate ».
Se dunque la controguerriglia tradizionale non dà alcun frutto, bisogna adottare, precisa
Badoglio, altri metodi, anche se severissimi o addirittura catastrofici per i libici: «
Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli
e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo
provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma
ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla sino alla fine anche se
dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica ». Per realizzare il distacco territoriale
tra ribelli e sottomessi, prosegue Badoglio, « urge far rifluire in uno spazio ristretto tutta
la popolazione sottomessa, in modo da poterla adeguatamente sorvegliare ed in modo
che vi sia uno spazio di assoluto rispetto tra essa e i ribelli. Fatto questo, allora si passa
all'azione diretta contro i ribelli » (12).
Cinque giorni dopo aver scritto questa lettera, che provocherà la deportazione dal Gebel
di 100 mila arabi, Badoglio si incontra con Graziani ed insieme concertano le modalità
per effettuare l'operazione, che non ha forse precedenti nella storia dell'Africa moderna.
Badoglio non è però il solo responsabile di questa infamia (13). Il ministro De Bono
sollecitava questa misura estrema da tempo e non ci risulta che Mussolini abbia avuto
qualche scrupolo nell'approvarla. Badoglio è soltanto il cervello che ha teorizzato i
vantaggi della deportazione, l'uomo che ha messo in moto l'ingranaggio letale. E' certo,
tuttavia, che egli imbocca la via della repressione più spietata dopo che il suo doppio
gioco è stato smascherato da Omar al-Mukhtàr. C'è indubbiamente, nella sua scelta di un
provvedimento che può condurre, come condurrà, allo sterminio di un popolo, un fatto
personale, un rancore sordo, che spartirà con Graziani. Entrambi non saranno soddisfatti
che quando vedranno il corpo del vecchio Omar oscillare appeso alla forca, nella piana
di Soluch.
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I lager della Sirtica
Il provvedimento di sgombero della Cirenaica non colpisce le popolazioni dell'intero
territorio. Ne sono escluse quelle urbanizzate (circa 50 mila persone), quelle stabili
intorno ai centri costieri (10-15 mila) e inoltre quelle delle oasi dell'interno (5-10 mila),
le prime perché più fidate, le altre perché facilmente controllabili e comunque lontane
dalle regioni dove più viva è la ribellione. Vengono invece deportate tutte le popolazioni
nomadi e seminomadi, per un complesso di 90-100 mila persone, a seconda delle stime
(14). Deciso il 25 giugno, dopo l'incontro a Bengasi tra Badoglio e Graziani, lo
sgombero totale dell'altipiano comincia a compiersi due giorni dopo e il 7 luglio, come
apprendiamo da un telegramma di Badoglio a De Bono, è in pieno svolgimento senza
che Omar al-Mukhtàr vi si possa opporre. Scrive Badoglio: « Gli Auaghir sono tutti
riuniti fra Giardina, Soluch e Ghemines. Ho loro parlato assai severamente ieri mattina.
Domani sarà ultimato il concentramento dei Braasa, Darsa e Abid fra Tolmeta e Tocra.
Martedì si inizierà lo spostamento degli Abeidat. Questo imponente movimento sarà
ultimato verso il 20. [...] La raccolta dell'orzo sull'altipiano sarà terminata con la fine dei
movimenti di concentramento, cosicché nessun indigeno dovrà più trovarsi sull'altipiano,
e chiunque sarà incontrato sarà passato per le armi come ribelle » (15).
Nella stessa giornata del 7 luglio Badoglio emana il foglio d'ordine n. 151 riservato ai
comandanti militari e ai funzionari civili della colonia. Con questo documento, che
rivela un linguaggio nuovo, più scopertamente brutale, Badoglio informa i suoi
collaboratori che la popolazione indigena ha accolto il grave provvedimento « senza
alcuna reazione, anzi con supina obbedienza, come con uguale sentimento aveva subito
il ritiro delle armi. Essa ha perfettamente compreso che la forza è nelle mani del
Governo, non solo, ma che il Governo è deciso a qualsiasi estremo provvedimento pur di
ottenere l'esecuzione perfetta degli ordini impartiti ». Dopo aver raccomandato di
esercitare la massima vigilanza intorno ai campi di concentramento che si stanno
costituendo, « giacché ogni minimo allentamento frustra tutta l'efficacia dei
provvedimenti in corso e prolunga la ribellione», Badoglio precisa come si dovrà d'ora
innanzi combattere l'ultima campagna contro i duar di Omar.
« Bisogna assolutamente bandire il sistema arabo della sparatoria da lontano », scrive
Badoglio. L'avversario va agganciato, va aggredito all'arma bianca. E se riesce a sottrarsi
all'accerchiamento, va subito organizzato l'inseguimento, che non deve conoscere limiti
ed «essere feroce, inesorabile. Deve essere una vera caccia al ribelle nella quale sarà
redditizio ogni atto della più sfrenata audacia » (16).
Tra giugno e luglio viene completata l'evacuazione del primo e del secondo gradino del
Gebel, il che provoca il vuoto intorno ad Omar al-Mukhtàr, ormai costretto a rifornirsi
soltanto in Egitto. Un testimone di questo esodo forzato, Federico Ravagli, lo descrive
con versi assai modesti, che hanno il solo intento di perfezionare il mito di Graziani:
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« D'oltre confine arrivan armi e messi
sul Gebel, dove la rivolta ha sede;
non son le zavie i templi de la fede,
non son fedeli e puri i sottomessi.
Genti, alla costa! », disse: e senza ambagi
un'immonda migrò biblica schiera,
sottratta a l'odio ai morbi ed ai contagi.
E perché un varco sol non fosse aperto,
gettò di ferro un'ispida barriera
da Solum a le soglie del deserto (17).
Completato il trasferimento delle popolazioni dal Gebel alla costa, Graziani si accorge
che il distacco tra sottomessi e ribelli non è però completo. Non è cessato del tutto,
infatti, né il pagamento delle decime, né le fughe dai campi degli uomini validi per
riempire i vuoti dei duar. D'accordo con Badoglio, Graziani applica allora misure più
radicali e, fra queste, il trasferimento dei campi di concentramento nel sud-bengasino e
nella Sirtica, regioni notoriamente fra le più inospitali. « Il paese di el Magrun - riferisce
il giornalista Os. Felici - è sorto sulla terribile piana riarsa, senza una mica d'ombra,
appunto per raccogliere i nomadi. Graziani ha pensato che, a cominciare dal luogo, essi
debbono avere la sensazione precisa del castigo » (18).
Il materiale documentario sulla deportazione delle popolazioni cirenaiche è assai scarso
e quel poco che è finito negli archivi di stato è generalmente reticente. Non c'era, in
realtà, da gloriarsi dell'operazione e questo forse spiega la carenza dei documenti. Per cui
non siamo in grado di descrivere il calvario di tutte le tribù. Disponiamo soltanto di
un'ampia e dettagliata relazione sull'esodo degli Auaghir, grazie alla solerzia del
commissario regionale di Bengasi, Egidi. In base a questo rapporto, apprendiamo che il
27 giugno reparti di carabinieri e di ascari eritrei fanno sgomberare i centri di Tocra, di
Bersis e di Mebni e ne avviano le popolazioni verso il campo provvisorio di Driana, che
dista una cinquantina di chilometri. Dopo una sosta di qualche giorno, il 4 luglio gli
Auaghir riprendono la marcia scortati dagli ascari. Sono alcune migliaia, in grande
maggioranza donne, bambini e vecchi. Al loro seguito 2 mila cammelli, che trasportano
le loro povere masserizie. In coda alla carovana il bestiame della tribù, circa 6 mila capi,
cioè quel poco che si è salvato dalle razzie e dalle controrazzie.
La carovana segue l'itinerario Driana - Sidi Mansur - Benina en-Nauaghia -- Hosc el
Ghetaan -- Ghemines. Forse duecento chilometri, ma per vie impervie ed in regioni
semidesertiche. Sin dai primi giorni di marcia, i più vecchi e i più deboli tendono a
staccarsi dalla colonna. Ma gli ordini sono severissimi. Si legge nella relazione: « Non
furono ammessi ritardi durante le tappe. Chi indugiava, veniva immediatamente passato
per le armi. Un provvedimento così draconiano, fu preso per necessità di cose, restie
come erano le popolazioni ad abbandonare le loro terre e i loro beni. Anche il bestiame
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che, per le condizioni fisiche, non era in grado di proseguire la marcia, veniva
immediatamente abbattuto dai gregari a cavallo del nucleo irregolare di polizia che
avevano il compito di proteggerlo e di custodirlo » (19).
l percorso fra Driana e Ghemines viene compiuto in dodici giorni. Di questa marcia della
morte non sappiamo altro. Nessuno ha tenuto il computo dei ritardatari abbattuti con una
fucilata. Né il commissario regionale di Bengasi, né i capi della tribù degli Auaghir.
Comunque la dimensione è quella dell'eccidio, come vedremo più avanti quando
cercheremo di fare un po' di conti. Ma il calvario non termina a Ghemines. La
destinazione finale è Soluch. Altri cento chilometri di deserto, di pene, di cedimenti, di
morte. E quando gli Auaghir giungono a destinazione, vengono ammassati in un grande
campo circondato da una doppia barriera di filo spinato. Dal quale non usciranno per tre
anni.
Non diversi debbono essere stati i trasferimenti delle altre popolazioni. Ma il primato
della sofferenza spetta senza alcun dubbio agli Abeidat e ai Marmarici, che in pieno
inverno sono costretti a compiere una marcia di 1100 chilometri dalla Marmarica alla
Sirtica. Gli Abeidat e i Marmarici erano stati concentrati nel campo di Ain el Gazala,
nelle vicinanze di Tobruk. Ma non si erano rassegnati, come gli altri, al loro destino ed
avevano deciso di defezionare in massa d'accordo con Omar al-Mukhtàr che agiva nei
dintorni. Il complotto era stato però scoperto nel dicembre del 1930 e sventato. Per
punizione Graziani ordina il trasferimento dei 6500 Abeidat e Marmarici nella Sirtica e
sceglie, per la marcia che dura alcuni mesi, la stagione più inclemente. «Questo energico
provvedimento all'estero fece versare torrenti d'inchiostro e fu condannato come barbaro
- scrive Imerio da Castellanza -. Del resto, riflettendo che le genti della Marmarica sono
nomadi, una marcia un po' più lunga non era poi un castigo sproporzionato allo scopo
che Graziani voleva ottenere, cioè la pacificazione della colonia» (20).
Vediamo ora dove sono dislocati i campi di concentramento. Secondo una relazione di
Graziani del 2 maggio 1931, cioè a trasferimento ultimato, risulta che i lager più
importanti sono concentrati nel sud-bengasino e nella Sirtica. L'accampamento più
grande è quello di Marsa Brega, che raccoglie 21.117 fra Abeidat e Marmarici. Seguono
Soluch, con 20.123 Auaghir, Abid, Orfa, Fuacher e Mogàrba; Sidi Ahmed el Magrun,
con 13.050 tra Braasa e Dorsa; el Agheila, con 10.900 fra Mogàrba, Marmarici e parenti
dei ribelli in armi; Agedabia, con 10 mila persone, di cui non si specifica la tribù; el
Abiar, con 3123 Auaghir. Complessivamente, dunque, questi sei lager raccolgono
78.313 cirenaici (2l). Ai quali vanno aggiunti i confinati nei campi minori di Derna (145
tende), di Apollonia (1354), di Barce (538), di Driana (225), di Sidi Chalifa (130), di
Suani el Terria (100), di en-Nufilia (375) e i due di Bengasi, Coefia e Guarscia (245).
Calcolando quattro persone per tenda, si hanno altri 12.448 confinati, che portano il
totale generale a 90.761 (22). Ma non è finita. Bisogna tenere conto delle persone
abbattute durante le marce di trasferimento e dei morti nei lager, per denutrizione,
malattie e tentativi di fuga, nei primi mesi di prigionia. La cifra totale dei deportati sale
così- a non meno di 100 mila.
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Questa cifra rappresenta esattamente la metà degli abitanti della Cirenaica, se teniamo
per buono il censimento turco del 1911, che dava una popolazione di 198.300 anime
(23). Se si considera che altri 20 mila cirenaici hanno lasciato il paese per rifugiarsi in
Egitto, si deve calcolare che soltanto poche decine di migliaia di persone non hanno
conosciuto i rigori della deportazione e della detenzione. Rigori che provocano un
numero altissimo di decessi. Dalla già citata relazione del commissario regionale di
Bengasi, Egidi, apprendiamo infatti che i reclusi del campo di Soluch scendono, in poco
più di un anno, da 20.123 a 15.830, e quelli di Sidi Ahmed el Magrun da 13.050 a
10.197 (24). Quando le autorità italiane compiono il 21 aprile 1931 il primo vero
censimento, condotto con tecniche moderne, scoprono che gli indigeni sono soltanto 142
mila. In venti anni, in altre parole, la popolazione ddla Cirenaica è diminuita di circa 60
mila unità: 20 mila per l'esodo verso l'Egitto, 40 mila per i rigori della guerra, della
deportazione e della prigionia nei lager. In nessun'altra colonia italiana la repressione ha
assunto, come in Cirenaica, i caratteri e le dimensioni di un autentico genocidio (25).
Entriamo ora in uno dei lager, quello di Sidi Ahmed el Magrun, ed ascoltiamo ciò che ci
riferisce un giornalista fascista, Os. Felici, certo non sospetto di simpatia per i reclusi. «Il
campo ha la forma di castrum romano - scrive -. Ogni lato misura milleduecento metri.
Dentro, vi sono otto quadrati, disposti in maniera che, davanti ad ogni gruppo di due di
essi, vi è altrettanto spazio libero da poter ospitare gli animali. Ogni quadrato conta da
quindici a venti file. Tutto è numerato e specificato. Si sa così quali genti ospitino i
quadrati, divisi l'uno dall'altro da ampie strade, e le file. Vi è il capo del campo, vi sono i
capi quadrato, vi sono i capi fila. Tutti, si badi bene, indigeni » (26).
I tredicimila reclusi di Sidi Ahmed el Magrun vivono in tende, come, del resto, gli
abitanti di tutti gli altri campi. «Che cosa siano le tende non è possibile dire - scrive Os.
Felici -. Le vele marinaresche più provate e rabberciate non avrebbero nulla da invidiare.
Le pezze di Arlecchino sono infinitamente minori delle pezze che la donna beduina
s'industria ad applicare a queste case del deserto»(27). Descritte le abitazioni, Felici si
chiede: «Come mangia tutta questa gente? Parte di essa è tesserata. E la tessera dà diritto
a ritirare ogni dieci giorni tanto orzo in ragione di mezzo chilo a testa»(28). Con razioni
così scarse non si vive. E poiché il governo della Cirenaica non intende sobbarcarsi il
mantenimento dei reclusi, gli uomini validi vengono impiegati nella costruzione di
strade e le donne nella coltivazione di alcuni orti sorti nelle vicinanze dei lager. Altri
confinati badano al bestiame e si muovono scortati da reparti di ascari o di carabinieri.
Anche negli altri campi le condizioni economiche delle popolazioni sono poverissime ed
ogni giorno si combatte per la sopravvivenza. Di questo diffuso malessere c'è traccia
anche nelle relazioni governative, anche se esse, come è ovvio, tendono a celare le vere
dimensioni del dramma. Scrive, ad esempio, il commissario regionale di Bengasi: «Le
condizioni economiche della popolazione di Soluch non sono troppo floride: il
predonaggio con le sue razzie ridusse sensibilmente l'ingente numero di bestiame che,
specie gli Abid e gli Orfa, avevano. L'allontanamento dalle loro terre, tanto opportuno e
necessario per la sicurezza del territorio, ha contribuito, sia pure in misura tenue, a
peggiorare le condizioni»(29). Ben più crudeli ed amare sono le testimonianze dei
sopravvissuti. «Ci davano poco da mangiare - riferisce Reth Belgassem -. Dovevamo
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cercare di sopravvivere con un pugno di riso o di farina e spesso si era troppo stanchi per
lavorare»(30). «Ricordo la miseria e le botte - racconta a sua volta Mohammed Bechir
Seium -. Ogni giorno qualcuno si prendeva la sua razione di botte. E per mangiare
ricordo solo un pezzo di pane duro del peso di centocinquanta o al massimo duecento
grammi, che doveva bastare per tutto il giorno»(31).
Pessime anche le condizioni sanitarie dei lager. A Soluch, per ventimila internati, c'è
soltanto un medico, il quale, per giunta, deve anche badare ai tredicimila reclusi del
campo di Sidi Ahmed el Magrun. A Marsa Brega, dove sono confinati ventunomila
cirenaici, «il servizio sanitario — confessa lo stesso Graziani — è attualmente
disimpegnato da un sezione fissa di sanità, che lavora sotto il controllo del medico di
Agheilat, che si reca a Marsa Brega un paio di volte per settimana»(32). Una
vaccinazione antivaiolosa di massa riesce a bloccare questo flagello, ma non altre
epidemie. Nel marzo del 1933 il commissario regionale di Bengasi, Egidi, avverte
Graziani che a Soluch si sta diffondendo il tifo: «A me e al signor direttore di sanità
sembra che il periodo di attesa caldeggiato da codesta direzione sia superato: il tifo
petecchiale esiste e si estende. Prego codesta onorevole direzione di volermi fornire le
istruzioni ed i mezzi necessari per fronteggiare l'epidemia»(33).
Non bastassero la fame e le epidemie, nei campi i guardiani esercitano ogni sorta di
violenze. Racconta Reth Belgassem, recluso ad el Agheila: «Le nostre donne dovevano
tenere un recipiente nella tenda per fare i loro bisogni. Avevano paura di uscire. Fuori
rischiavano di essere prese dagli etiopi (34) o dagli italiani. Non lasciavamo mai sole le
nostre donne. Le tenevamo chiuse tutto il tempo anche se l'odio dei guardiani era quasi
tutto rivolto agli uomini» (35). Un tentativo di fuga, un atto di ribellione, il rientro
tardivo nei campi sono quasi sempre puniti con la morte. «Le esecuzioni avvenivano
sempre verso mezzogiorno in uno spiazzo al centro del campo e gli italiani portavano
tutta la gente a guardare - riferisce Reth Belgassem -. Ci costringevano a guardare
mentre morivano i nostri fratelli»(36). «Ogni giorno uscivano da el Agheila cinquanta
cadaveri - racconta Salem Omran Abu Shabur -. Venivano sepolti in fosse comuni.
Cinquanta cadaveri al giorno, tutti i giorni. Li contavamo sempre. Gente che veniva
uccisa. Gente impiccata o fucilata. O persone che morivano di fame o di malattia»(37).
Di questa tragica realtà poco trapela in Italia, dove, del resto, si hanno scarse notizie
anche sulla guerra libica, che si trascina, dimenticata, da vent'anni. E quel poco che
trapela passa attraverso il filtro severo della censura o viene deformato dagli organi della
propaganda. Così, per «L'Oltremare», il campo di Soluch è una specie di paradiso dove
fioriscono l'ordine e una disciplina perfetti» e dove «regna ovunque l'igiene e la
pulizia»(38). Anche per Giuseppe Bedendo, il cantore delle gesta di Graziani, i lager
sono istituzioni benefiche, per le quali il vicegovernatore non ha proprio nulla da
vergognarsi, al contrario:
Jè dette da magna, tutto jè dette,
medichi, medicine, garze, benne,
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jè dette stoffe pè fasse le tenne
e jè spedì financo le ricette.
Era concentramento, era galera?
Quello ch'à fatto, no, nun era abbuso! (39).
E pazienza che questi giudizi vengano espressi durante il fascismo. Ma anche dopo il
crollo della dittatura c'è chi, come il generale Canevari, scrive: «Noi non abbiamo mai
creato 'campi di concentramento ' in Cirenaica, ma solo delle ' riserve ' in campi
splendidamente sistemati e forniti di tutto il necessario, dalle tende di lana di cammello
nuove agli impianti igienici, ai servizi idrici, ecc. In tal modo il governo italiano
sottraeva i ' sottomessi ' al tremendo dilemma: o rifornire i ribelli o cadere sotto le loro
vendette, e perciò li salvava anche dalle conseguenze dei loro atti. [...] Dopo la
permanenza negli accampamenti preparati da Graziani, le popolazioni della Cirenaica
tornarono alle loro terre di coltivazione e di pascolo rinnovate dalla scienza e dalla
scuola»(40).
Le scuole e i collegi per i bambini abbandonati sono appunto indicati dalla storiografia
fascista come un innegabile titolo di merito. Nel collegio di Soluch, ad esempio, sono
stati raccolti 375 ragazzi e 125 ragazze. Secondo il commissario Egidi, essi fruiscono di
un «vitto speciale », costituito da tè e pane al mattino; una minestra a mezzogiorno e un
pezzo di pane alla sera; due volte alla settimana un pezzo di carne (41). E' pochissimo,
ma è sempre di più di quello che ottengono gli adulti nei campi. Inoltre i maschi
ricevono lezioni pratiche di agricoltura, mentre le ragazze seguono corsi di taglio e
cucito. «Come marciano e sfilano! — osserva Os. Felici in visita al collegio — E come i
loro esercizi sono perfetti! Perfetti tanto, da parere quasi meccanici. Nel saluto,
nell'andatura, essi hanno un non so che di lievemente caricaturale, come se, più dello
spirito, fossero persuasi della forma di ciò che imparano. Ma quale materia di soldati non
è in questi ragazzi?»(42). Ce n'è molta, infatti. Graziani è il primo ad accorgersene. E
subito moltiplica questi collegi sino a costituirne una dozzina, con 2800 elementi. E
saranno i migliori serbatoi di volontari per i battaglioni libici in via di ricostituzione.
Orfani di ribelli, segregati in collegi-caserme agli ordini di severissimi sottufficiali
dell'esercito italiano, in pochi anni essi perdono ogni legame affettivo e culturale con il
Gebel che li ha generati. Come pazze marionette, essi si esibiscono in perfetti esercizi
ginnici davanti alle autorità e cantano, tra gli altri inni del regime, due preghiere, I'una
dedicata al re, l'altra al duce. La prima dice: «Il nostro Re si chiama Vittorio Emanuele.
E' chiamato anche il Re Vittorioso, perché egli è il capo dell'Esercito che ha vinto i
nemici d'Italia. Egli è molto sapiente, coraggioso, buono. Durante la grande guerra egli
fu alla fronte con i suoi soldati e non ebbe mai paura. Egli vuole bene al suo popolo, lo
aiuta nei suoi bisogni e lo consola nelle sue sventure. Emanuele vuol dire 'mandato da
Dio' e il nostro Re venne proprio mandato da Dio per far grande l'Italia ». Quella
dedicata al duce, dice: «S. E. Mussolini è il grande Capo, il nostro Duce. Duce è chi
guida, chi va avanti per insegnare la strada buona. [...] Ha dato a noi la coscienza del
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nostro destino, l'orgoglio di essere figli d'Italia. Signore, noi ti preghiamo, proteggilo
tu!»(43).
Ancora ieri seguivano trotterellando il cavallo del padre ribelle tra le forre e le foreste
del Gebel. Oggi, di colpo, sono diventati figli d'Italia. E sembrano orgogliosi di esserlo.
Di pregare devotamente per il Re e il Duce. Di essere uguali, o quasi, agli altri ragazzi
della penisola, che cantano le stesse canzoni, che pregano per gli stessi semidei. Hanno
tra i 9 e i 15 anni. Quasi nessuno è stato alla scuola coranica. Sono lavagne pulite sulle
quali si può scrivere di tutto. Di lì a quattro anni, sufficientemente indottrinati, i più
grandicelli sceglieranno con gioia la carriera militare e finiranno in Etiopia, con la
divisione Libia. Saranno delle perfette macchine da combattimento. Dei perfetti galli
assassini. Da Gianagobò a Dagahbur non faranno un solo prigioniero (44). Mentre i
ragazzi imparano ad uccidere, gli adulti, nei campi, ricevono, con il sussidio di minacce
e di botte, un solo insegnamento: quello di sollevare il braccio nel saluto romano. E lo
fanno di continuo, come tanti automi. Os. Felici ne è tanto meravigliato e sconvolto, che
scrive: «Saluti, saluti. E' tutto un sollevamento di braccia nell'atto del saluto romano.
Non ho mai veduto tanti, tanti saluti. Chi siede, si alza e saluta. Ora che scrivo, ho
dinanzi agli occhi come una selva di braccia levate, tutte protese nel saluto romano»(45).
Dopo aver costruito questo universo concentrazionario, che Marie Edith De Bonneuil
definisce «visione da incubo» (46), nonostante la sua sconfinata ammirazione per il
fascismo, Graziani si accorge che, malgrado le misure radicali che ha adottato, Omar alMukhtàr continua a ricevere le decime, seppure in misura minore. La sua attenzione si
appunta perciò sui notabili della Cirenaica sospetti di conservare legami con la Senussia
e il 6 novembre 1930 ordina l'arresto di 120 capi e il loro internamento nel campo di
Benina. Nel comunicare a Badoglio la sua decisione, Graziani dice: «Le popolazioni
potranno così essere realmente governate senza capi e con la diretta influenza dei
commissari, a fianco dei quali saranno messi dei mudir, che cercherò di trovare tra i
vecchi sciumbasci dei battaglioni libici e zaptiè»(47).
Qualche mese dopo, nel maggio del 1931, a repressione quasi ultimata, Graziani rivela
tutta la sua soddisfazione in un documento riservato al ministro De Bono. «I campi sono
ormai sulla via della definitiva sistemazione, — scrive — e mentre assicurano
l'eliminazione della connivenza dei sottomessi con i ribelli, preparano per il prossimo
domani una popolazione più docile ed abituata al lavoro, che sicuramente si attaccherà
per ragioni di interesse ai nuovi territori nei quali è stata trasferita, perdendo l'abitudine
al nomadismo e acquistando i gusti e le esigenze delle popolazioni sedentarie, sulle quali
necessariamente deve fondarsi e svilupparsi il programma di pacificazione e
valorizzazione della Cirenaica»(48). La reclusione nei campi durerà mediamente tre
anni. Gli ultimi lager saranno sciolti nel settembre del 1933. Dei centomila che erano
partiti dal Gebel, ne torneranno a casa sessantamila. Forse di meno.
Si va a Cufra
La creazione dei campi di concentramento e la loro dislocazione lontano dal Gebel, due
fatti che provocano la cessazione del finanziamento locale della ribellione, pongono
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Omar al-Mukhtàr in una situazione di estrema difficoltà. A partire dal luglio del 1930
sempre più frequenti sono infatti i suoi appelli a Mohammed Idris ed ai fuorusciti libici
che vivono in Egitto. Ma il loro aiuto è scarso e comunque insufficiente a mantenere in
armi i duar di Omar, anche se i loro effettivi sono stati drasticamente ridotti. Il
colonnello Nasi li valuta, in questo periodo, tra i 500 e i 600, e soggiunge: «Il profano, o
comunque l'osservatore superficiale, non può non chiedersi come mai 13 mila uomini
non riescano, in quattro e quattr'otto, a farne fuori 500. A questa semplicistica domanda
conviene rispondere altrettanto semplicemente: appunto perché sono solo 500 ribelli,
dispersi, però, in un territorio grande due volte l'Italia. [ ... ] Il nemico principale non è
qui il ribelle, è l'immensità del territorio, la mancanza di strade. In taluni scacchieri la
sete: ecco il solo, grande nemico»(49).
Colpita alla radice, l'organizzazione ribelle deve modificare la propria struttura e la
propria tattica. Omar è infatti costretto a frazionare i duar, a spostarli di continuo, a
tenere le sue forze in potenza senza mai impegnarle seriamente. Come giustamente fa
osservare Nasi, da tempo Omar ha abbandonato la speranza di poter ricacciare gli italiani
alla costa e non intende altro che «dimostrare al mondo che è capace di mantenere in
Cirenaica uno stato di brigantaggio per il quale la vita normale non è possibile e confida
che noi si debba, ancora una volta, scendere a patti» (50). A rendergli la vita difficile da
luglio Graziani gli mette alle calcagna Giuseppe Malta, uno dei giovani colonnelli che
più si sono distinti nella controguerriglia in Tripolitania. Affiancato dai tenenti
colonnelli Piatti e Marone, dai maggiori Lorenzini e Ragazzi e dall'ex capitano turco
Akif Msek, Malta non dà tregua ai ribelli per tutta l'estate e l'autunno del 1930,
battendoli l'8 ottobre all'uadi es-Sània, qualche giorno dopo a Bir Zeitun e il 2 novembre
a Caf el Telem (51).
Le perdite dei ribelli in questi scontri, un centinaio, non sono altissime, ma oramai non ci
sono più a portata di mano i sottomessi a fornire i rimpiazzi. Per rincuorare i suoi
uomini, Omar fa circolare la notizia che i Sef en-Nasser sono in arrivo da Cufra con 500
uomini. Ma a questa storia non crede nessuno. Omar è irrimediabilmente solo, con la sua
fede, la sua ostinazione, i suoi duar che ogni giorno che passa si vanno assottigliando.
Badoglio aveva previsto questa lenta agonia e il 9 settembre 1930 invia a Graziani
questo caloroso plauso: «Dal rapporto settimanale vedo che la caccia ai beduini continua
con risultati notevoli e che i rifornimenti dal confine si fanno sempre più difficili (52).
La linea, dunque, è quella buona. Occorre che tutti si convincano che la nostra divisa è
attualmente: ' non mollare '. Sarà questione di tempo, ma questa volta la ribellione si
esaurirà. Bravo Graziani, continui!» (53).
Mentre Graziani non dà tregua ad Omar al-Mukhtàr, Abd el Gelil Sef en-Nasser e Saleh
el Atèusc, che si sono rifugiati nell'oasi di Taizerbo, cercano di dare una mano ad Omar
compiendo frequenti scorrerie nel sud-cirenaico tra la Sirtica e le oasi di Gialo. L'11
giugno, ad esempio, una quarantina di Mogàrba e di Zueia, comandati dal figlio di Saleh
el Atèusc, si impadronisce a Sneiah Hamed di 200 cammelli. Il 3 luglio, a Udeiat el Hod,
una ventina di Mogàrba al comando di Abd Rabba el Goder compie una nuova razzia.
Ma sono missioni suicide, perché sulle oasi di Gialo veglia il colonnello Maletti, che si è
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creato una fama per i suoi inseguimenti celeri ed implacabili. Comunque Graziani non
sopporta neppure questi colpi di spillo e medita subito un'adeguata rappresaglia.
Come obiettivo sceglie Taizerbo, una grande oasi a 250 chilometri a nord-ovest di Cufra,
dove è convinto si siano concentrati tutti i ribelli fuggiti dalla Tripolitania. I1 31 luglio
quattro apparecchi Romeo, al comando del tenente colonnello Roberto Lordi, partono da
Gialo e puntano sulla lontana Taizerbo. Giunti sull'oasi, che comprende una decina di
nuclei abitati, gli aerei lasciano cadere il loro carico, costituito da 24 bombe da 21 chili
ad iprite, da 12 bombe da 12 chili con esplosivo e da 320 bombe da 2 chili. La stampa
italiana dà molto rilievo al micidiale bombardamento (54), ma tace, ancora una volta,
sull'impiego dei gas, che hanno causato nell'oasi morti ed un indescrivibile panico.
Sugli effetti del bombardamento abbiamo la testimonianza di un libico raccolta il 13
novembre 1930 dal comandante della tenenza dei carabinieri di el Agheila, Vincenzo
Cassone, ed inviata a Roma dal tenente colonnello Lordi. Essa dice: «Come da incarico
avuto dal signor comandante l'aviazione della Cirenaica, ieri ho interrogato il ribelle
Mohammed bu Ali, Zueia di Cufra, circa gli effetti prodotti dal bombardamento
effettuato a Taizerbo. Il predetto, proveniente da Cufra, arrivò a Taizerbo parecchi giorni
dopo il bombardamento e seppe che quali conseguenze immediate vi furono quattro
morti. Moltissimi infermi invece vide colpiti dai gas. Egli ne vide diversi che
presentavano il loro corpo ricoperto di piaghe come provocate da forti bruciature. Riesce
a specificare che in un primo tempo il corpo dei colpiti veniva ricoperto da vasti
gonfiori, che dopo qualche giorno si rompevano con fuoruscita di liquido incolore.
Rimaneva cosi la carne viva priva di pelle, piagata»(55).
In seguito al bombardamento, Abd el Gelli Sef en-Nasser e Saleh el Atèusc, con i loro
uomini, si ritirano su Cufra, decisi a giocare nell'oasi la loro ultima carta prima di
sconfinare in Egitto. Ma anche per Cufra i giorni sono contati. Già il 16 maggio
Badoglio aveva scritto a De Bono: «Cufra sta diventando il centro di raccolta di tutto il
fuoruscitismo libico. Essa inoltre resta ancora a segnare il dominio temporale della
Senussia in casa nostra. Più si ritarda l'occupazione e più la situazione diventerà grave.
Io rivolgo viva preghiera a V. E. affinché voglia insistere presso il Capo del Governo per
avere lo stanziamento occorrente. Occorrono sei milioni. Quando si pensi a quello che è
costata l'occupazione di Giarabub, si deve concludere che la mia richiesta è molto
parsimoniosa» (56).
In attesa del finanziamento, Graziani fa bombardare anche Cufra. Il 26 agosto quattro
Romeo si portano infatti sul grande arcipelago di oasi e, come riferisce Graziani, «due
apparecchi bombardarono el Giof, altri due et-Tat, producendo visibilissimo effetto.
Molte case crollarono. Fu lanciata oltre mezza tonnellata di esplosivo. Successive
informazioni dettero che le perdite subite dalla popolazione non furono gravi, ma il
panico invase tutti, compresi i capi, i quali capirono come il cerchio si incominciasse a
stringere intorno a loro» (57). Un paio di settimane dopo, il 9 settembre, De Bono torna
alla carica con Mussolini per ottenere i sei milioni necessari all'impresa e così giustifica
la richiesta: «Cufra ha assunto, in questo momento, una particolare importanza quale
vero e proprio centro dei traffici che mantengono in vita la ribellione in Cirenaica. A
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Cufra, poi, risiedono, e naturalmente operano, esponenti importanti non soltanto del
senussismo cirenaico, ma anche dell'ormai stroncata ribellione tripolitana. [...] Chiedo
pertanto a V. E. il consenso per eseguire questa operazione militare, che non presenta
rischi e difficoltà, se non dal punto di vista logistico, ma che ha importanza
notevolissima per la soluzione dell'annosa questione cirenaica» (58).
Qualche giorno dopo Mussolini accorda il suo consenso e subito ha inizio la
preparazione dell'impresa, che dura cento giorni e viene affidata al generale Ronchetti, al
quale tocca risolvere un problema logistico mai prima di allora affrontato nel deserto.
Per rifornire le tre colonne che convergeranno su Cufra- egli deve provvedere al
trasporto, con autocarri e cammelli, di ben 20 mila quintali tra viveri, carburanti,
lubrificanti, munizioni e materiali vari. La prima operazione che Ronchetti deve
compiere, intanto, è quella di riconoscere il terreno. Egli fa perciò compiere alcune
ricognizioni dell'itinerario Gialo - Bir Zighen e del percorso Uau el Chebir - Uau enHamus -- Taizerbo. In base ai dati raccolti, si accerta che la colonna principale, che
partirà da Agedabia, avrà davanti a sé un terreno facile, camionabile, per 640 chilometri,
fino ai pozzi di Bir Zighen. Gli ultimi 180 chilometri, invece, presentano maggiori
difficoltà perché al piatto serir si sostituisce una barriera di dune mobili. Anche le altre
due colonne, che partono rispettivamente da Zella e da Uau el Chebir, dovranno
compiere un percorso difficile, ma comunque praticabile. A preparazione ultimata, il
corpo di spedizione risulta composto da 654 nazionali (ufficiali, sottufficiali e truppa) e
da 3321 ascari, con 378 automezzi, una sezione di autoblindate, 7 mila cammelli, 3
cannoni, 70 mitragliatrici e 25 aerei da ricognizione e da bombardamento. Una forza
almeno dieci volte superiore a quella dell'avversario.
A Cufra, intanto, si attende con comprensibile inquietudine l'imminente attacco italiano.
La preoccupazione è tanto più viva in quanto nella città santa del senussismo non c'è la
concordia. Scems ed-Din, che fa parte della famiglia senussita essendo figlio di Ali el
Chattabi, è contrario alla resistenza e vorrebbe andarsene in Egitto con tutta la
popolazione delle oasi. Contrari a questa decisione sono invece il capo locale degli
Zueia, Abd el Hamid bu Matari, i capi dei Mogàrba Saleh el Atèusc e Rhmed bu Sceaeb
e il capo degli Ulad SuIeiman Abd el Gelil Sef en-Nasser. Insieme essi possono disporre
di una mehalla forte di 600 uomini, con una buona dotazione di armi moderne ed un
abbondante munizionamento. Essi sono perciò decisi di dare combattimento agli italiani
alle porte di Cufra, contando sul loro affaticamento dopo il difficile percorso fra le dune
mobili. A rinfrancarli nella loro determinazione, in dicembre giunge a Cufra un messo
latore di una lettera di Ahmed esh-Sherìf con la quale egli investe dei pieni poteri Saleh
el Atèusc e Abd el Gelil Sef en-Nasser. Questo intervento dell'ex Gran Senusso tronca il
di verbio. Scems ed-Din, con alcuni ikhuàn, prende la strada dell'Egitto. Gli altri capi si
preparano a resistere sbarrando le strade di accesso a Cufra (59).
Il 20 dicembre 1930 la colonna principale del corpo di spedizione, che comprende i
reparti del tenente colonnello Maletti e dei maggiori Lorenzini e Rolle, lascia Agedabia
per Gialo, dove giunge, a scaglioni, tra il 22 e il 27. Una furiosa tempesta di sabbia, che
danneggia autocarri e autoblinde, provoca un ritardo di tre giorni, cosicché la colonna
non sarà pronta a ripartire, dopo la revisione delle macchine, che il 31 dicembre. II 9
87
gennaio è ai pozzi di Bir Zighen, mentre le colonne secondarie, partite da Zella e da Uau
el Chebir, raggiungono Taizerbo I'11 gennaio. Commentando questo secondo sbalzo,
Graziani può con orgoglio sostenere che il corpo di spedizione «in 10 giorni attraversò,
con marcia ammirevole per regolarità e disciplina, i 400 km di desolato serir che
separano Gialo da Bir Zighen senza lasciare indietro, nel lungo e non facile percorso, né
un uomo, né una macchina. La perdita si ridusse ad un centinaio di cammelli» (60).
Il 12 gennaio 1931 Graziani si trasferisce in volo da Bengasi a Bir Zighen per assumere
l'effettiva direzione delle operazioni nella fase conclusiva dell'impresa. Due giorni dopo
viene ripresa l'avanzata verso sud. La colonna Maletti, partita da Bir Zighen, e la colonna
Campini, che si è mossa da Taizerbo, marciano su itinerari mano a mano convergenti e
vengono mantenute in contatto dagli aerei. AlI'alba del 19 gennaio, mentre sono in vista
delle prime oasi di Cufra, il loro distacco è quasi annullato. Qualche ora dopo, verso le
10, uno degli aerei in servizio di collegamento avvista la mehalla ribelle, che si è
attestata sul margine settentrionale dell'oasi di el Hauuari, arroccandosi su alcune colline.
II combattimento si accende subito furioso. Maletti cerca di prendere la mehalla tra due
fuochi. I ribelli, dal canto loro, applicando la loro tattica tradizionale, si aprono a
ventaglio e cercano di avvolgere le ali dello schieramento avversario. Ma troppo grande
è la sproporzione tra le forze in campo. Dopo due ore di aspri combattimenti i ribelli
sono costretti a cedere e si ritirano prima nell'oasi di el Hauuari, dove tentano ancora una
breve resistenza, poi verso le oasi maggiori di et-Tag e di el Giof. Ma oramai la loro è
una fuga disordinata che, come vedremo, non si arresterà che in Egitto o nel Tibesti. Sul
terreno hanno lasciato un centinaio di morti, tra i quali il capo degli Zueia, Abd el Hamid
bu Matari. Da parte italiana, due ufficiali e due ascari morti e 16 feriti (61).
Subito dopo ha inizio l'inseguimento dei ribelli, sia da parte di reparti cammellati che
dell'aviazione. In questo implacabile inseguimento, condotto per giorni e giorni e in tutte
le direzioni, poiché i ribelli e le loro famiglie si sono frazionati, si completa la strage dei
difensori di Cufra. Graziani parla di altri 100 uccisi, di 14 passati per le armi e di 250
prigionieri, compresi le donne e i bambini. Ma il bilancio complessivo è molto più alto.
Micidiale, come sempre, l'aviazione, che parte alla caccia con 25 apparecchi. Scrive uno
dei piloti, Vincenzo Biani: «Partiti all'alba da Bir Zighen, gli apparecchi riconoscono sul
terreno le piste dei ribelli in fuga e le seguono, finché giungono sopra gli uomini; le
bombe hanno scarso effetto dato che il bersaglio è estremamente diluito, ma le
mitragliatrici fanno sempre buona caccia; mirano ad un uomo e lo fermano per sempre,
puntano un gruppo di cammelli e li abbattono. [...] II gioco continua per tutta la giornata;
il giorno dopo si ripete; il terzo giorno anche; tutte le possibili vie di ritirata sono
esplorate e battute fino alla distanza di trecento chilometri, fino a quando cioè si può
avvistare l'ultimo fuggiasco. Le carovaniere della sperata salvezza diventano un cimitero
di morti abbandonati, che nessuno penserà mai a sotterrare» (62).
Mentre Graziani e Badoglio (giunto in volo da Tripoli) festeggiano a Cufra il loro
successo (63), gli scampati al combattimento di el Hauuari e al successivo inseguimento
si dirigono in gran parte verso il confine egiziano, gli altri verso il Tibesti e il Borcu.
Saleh el Atèusc, con i suoi uomini e le loro famiglie, raggiunge el Auenat, l'ultima oasi
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con buona acqua in territorio libico, e più tardi i pozzi di el Merga. Da questo momento,
mal consigliato da una guida infida, Saleh el Atèusc, con la sua gente, sbaglia cammino
e comincia ad errare nel deserto alla disperata ricerca di acqua e di cibo. Vaga per 70
giorni cercando invano l'accampamento di nomadi che gli era stato segnalato. «Nel
frattempo — racconta — macellavamo i pochi cammelli rimastici per estrarre dalla loro
vescica quel poco di liquido che vi si trovava, liquido che distribuivamo ai più assetati
per salvarli da una morte sicura. Ben 170 persone hanno trovato la morte per la sete ed i
superstiti sarebbero certamente morti se la provvidenza non ci avesse assistiti
nell'avviarci in una località dove trovammo un sacco di farina, uno di zucchero e the»
(64).
Avvistati finalmente da una pattuglia di soldati inglesi, i ribelli vengono disarmati e
avviati al posto di frontiera di Bu Mungar. In seguito vengono trasferiti in autocarro, su
loro richiesta, nella valle del Mio, a el Minya, dove si accampano nella proprietà di Ali
bey el Masti, grande protettore dei libici fuorusciti. «Dal nostro arrivo in questa località,
— riferisce ancora Saleh el Atèusc — altre 17 persone hanno trovato la morte per forti
diarree provocate indubbiamente dall'abbondanza del vitto consumato dopo un così
lungo periodo di completa privazione» (65). Meno tragica, invece, la peregrinazione di
Abd el Gelil Sef en-Nasser e della sua gente. Anch'essi toccano i pozzi di el Auenat e di
el Merga e poi si perdono nel deserto al confine tra l'Egitto e il Sudan. Ma il loro incubo
dura poco, perché vengono subito rintracciati dalle pattuglie anglo-egiziane ed avviati
anch'essi a el Minya (66).
La notizia che la città santa di Cufra è caduta nelle mani di Graziani e che i suoi
difensori sono stati in gran parte massacrati riempie di dolore e di sdegno le popolazioni
del mondo islamico. Il 9 febbraio 1931 il grande quotidiano del Cairo «Al-Ahràm»
pubblica un articolo dal titolo I martiri della fede, nel quale si afferma, tra l'altro: «Il
bilancio italiano sarà forse arricchito dal denaro che produrranno i beni confiscati ai
senussiti, ma l'onore conta più del denaro ed è più caro dei propri figli» (67). «La Nation
Arabe», dal canto suo, scrive: «Noi chiediamo ai signori italiani [...], i quali ora si
gloriano di aver catturato cento donne e bambini appartenenti alle poche centinaia di
abitanti male armati di Cufra che hanno resistito alla colonna occupante: ' Che cosa
c'entra tutto ciò con la civiltà? ' Nei tempi moderni non sono consentiti questi metodi
medioevali e certo essi non rialzeranno il prestigio del fascismo e dell'Italia agli occhi
del mondo» (68).
In Cirenaica l'occupazione di Cufra produce un'impressione ancora più profonda. Lo
stesso Graziani ammette che «gli indigeni l'hanno vista con animo addolorato per il
carattere squisitamente mistico che quell'oasi conservava». Graziani avanza anche
l'ipotesi che la perdita di Cufra «potrebbe rinfocolare anziché affievolire lo spirito
religioso che infiamma i combattenti del Gebel, tesi in un'ultima volontà di resistenza
pur di mantenere alto il simbolo senussita». Egli è anche convinto che ora gli aiuti
dall'Egitto si riverseranno in misura maggiore sul Gebel, proprio per mantenere viva la
rivolta nell'ultimo lembo di Cirenaica libera. E conclude il suo dispaccio a Badoglio
dicendo: «Mi compete perciò il dovere di reagire subito a qualsiasi senso di ottimismo
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possa ingenerarsi nei riguardi delle conseguenze della recente occupazione che, a mio
parere, rimarranno circoscritte ad un fatto locale, se pur di indubbio valore morale» (69).
NOTE
(1) Il primo cenno all'esproprio delle zavie è contenuto in una lettera di Federzoni a
Teruzzi del 15 giugno 1928. Il ministro chiedeva al governatore di presentargli un
progetto per l'indemaniamento dei beni delle zavie e lo pregava di «togliere
all'indemaniamento il carattere di provvedimento preso in odio alla religione» (ASMAI,
Libia, pos. 150/7, f. 16. Lettera n. 5179). Di studiare il problema veniva dato l'incarico al
capo dell'Ufficio fondiario, il giudice Adolfo Fantoni. Si vedano i suoi rapporti:
Relazione e schema di decreto circa l'acquisizione delle terre al patrimonio della colonia
al fine della colonizzazione, Bengasi, 28 novembre 1928, n. prof. 1019; La natura
giuridica degli auqaf delle zavie senussite della Cirenaica, Bengasi, 11 agosto 1930, n.
prof. 8825 (in DLPA).
2 ASMAI, Libia, pos. 150/7, f. 16. Lettera n. 10891 del 19 agosto 1930.
3 Fatta eccezione per la zavia di Giarabub, poiché la località era riconosciuta luogo santo
anche da molti musulmani che non aderivano alla setta della Senussia. Le zavie erano
49, così distribuite: 3 nella zona di Bengasi, 2 a el Abiar, 2 a Soluch, 8 a Barce, 6 ad
Agedabia, 7 a Cirene, 11 a Derna 4 a Tobruk, 1 a Giarabub e 5 a Cufra.
4 Insieme ai capi zavia fu confinato anche Hassan er-Ridà, sulla cui fedeltà Graziani
nutriva molti dubbi (ASMAI, Libia, pos. 150/8, f. 25. Tel. 2968 del 17 agosto 1930).
5 Cit. in R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 126.
6 ASMAI, Libia, pos. 150/8, f. 29. Graziani a Badoglio, tel. 2055 del 5 giugno 1930.
7 Ivi, pos. 150/7, f. 15. Fernando Valenzi, Relazione sull'accertamento del patrimonio
delle zavie senussite in Cirenaica, 14 aprile 1931.
8 Ivi, pos. 150/8, f. 25. Lettera n. 2230.
9 Ivi, pos. 150/7, f. 16. Allegato ad una lettera di Graziani a Badoglio, n. 2143, del 7
giugno 1930.
10 Ibidem. L'incarico di predisporre l'accertamento del patrimonio delle zavie e il loro
assorbimento da parte del demanio della colonia fu affidato al consigliere di Corte
d'Appello Fernando Valenzi.
11 R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 149.
12 ACS, Carte Graziani, b. 1, f. 2, sottof. 2.
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13 Il 1° luglio 1930 Badoglio inviava a De Bono una lunga relazione con la quale lo
metteva al corrente delle decisioni che aveva preso riguardo la deportazione degli
indigeni. In questo documento, che ripete ed amplia le considerazioni fatte nella lettera a
Graziani del 20 giugno, Badoglio, tra l'altro, tracciava un ritratto di Omar al-Mukhtàr
particolarmente positivo: «La ribellione si impernia su di un uomo che gode di
un'autorità e di un prestigio assoluti. Omar al-Mukhtàr non divide il suo potere con
alcuno. Ha solo luogotenenti devoti e disciplinati. Non è quindi possibile adoperare il
solito sistema di incunearsi tra le gelosie, le rivalità, gli odi, che sempre esistono quando
vi sono capi diversi. In tutti i momenti ed in ogni circostanza la sola sua ferma volontà
detta legge. E' abilissimo come comandante e come organizzatore (ACS, Carte Graziani,
b. 1, f. 2, sottof. 2).
14 Per un accurato studio sulle deportazioni e la vita nei lager, si veda G. Rochat, La
repressione della resistenza in Cirenaica, cit., pp. 155-89.
15 ASMAI, Libia, pos. 150/21, f. 90. Tel. 146, riservatissirno personale.
16 Ivi, pos. 150/22, f. 98.
17 F. Ravagli, Alba d'impero, cit., p. 59.
18 Os, Felici, Terra nostra di Cirenaica, Sindacato italiano arti grafiche Roma 1932, pp.
4344.
19 ASMAI, vol. V, Inventari e supplementi, pacco 5. Commissariato regionale di
Bengasi, Relazione sugli accampamenti, 28 luglio 1932, p. 4.
20 Imerio da Castellanza, Orizzonti d'oltremare, Berruti, Torino 1940, pp. 133-34.
21 ASMAI, Libia, pos. 150/22, f. 98. Graziani a De Bono, rapporto n. 1058 del 2 maggio
1931.
22 R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., cartina annessa alla p. 104.
23 Secondo uno studio eseguito dal colonnello Enrico De Agostini nel 1922-23, gli
abitanti della Cirenaica erano 185.400. Evans-Pritchard dava una cifra leggermente
superiore, che si avvicinava a quella del censimento turco. Secondo un'altra valutazione
(Annuario statistico italiano 1928), gli abitanti erano 225.000.
24 Relazione sugli accampamenti, cit., pp. 13 e 24.
25 Lo stesso flagello si abbatté sul bestiame, che era la principale risorsa della Cirenaica.
Rochat calcola che perirono il 90/95 per cento degli ovini, caprini e cavalli e l'80 per
cento dei bovini e dei cammelli (G. Rochat, La repressione della resistenza in Cirenaica,
cit., p. 161). Uno dei rari funzionari che cercò di contenere la furia distruttrice di
Graziani fu il commissario Giuseppe Daodiace. Nel chiederne il rimpatrio, Graziani così
scriveva al MAI: «La forma mentis del dottor Daodiace era inveterata nei vecchi sistemi
91
ed egli è stato sempre da me violentato perché seguisse i nuovi. Mai naturalmente ho
detto quale sforzo mi sia costato incanalare la volontà del funzionario in questione ai
metodi nuovi da me attuati e da lui non approvati». «Che io non li approvassi - scriveva
Daodiace a Brusasca il 7 gennaio 1951 - risulta dalle tante e ripetute mie proteste, scritte
ed orali, per il fatto che non si facevano mai prigionieri in occasione di scontri fra le
nostre truppe e i ribelli e si fucilavano anche donne e bambini. Non posso precisare in
che anno, un gruppo di zaptiè, ai quali era stato ordinato la fucilazione di 36 fra donne e
bambini di un attendamento, si presentò a me per protestare, facendomi conoscere che se
fosse loro stato impartito nuovamente un ordine consimile avrebbero preferito disertare»
(AB, b. 44, f. 236).
26 Os. Felici, op. cit., p. 44. L'autore fa intendere che si trattava di guardiani estratti dalla
stessa popolazione di reclusi. Ma non era così. Si trattava invece di libici che già
avevano servito come ascari nell'esercito italiano.
27 Ivi, p. 45.
28 Ibidem.
29 Relazione sugli accampamenti cit., p. 20.
30 E. Salerno, Genocidio in Libia, SugarCo, Milano 1979 p. 90.
31 Ivi, p. 99.
32 ASMAI, Libia, pos. 150/22, f. 98. Graziani a De Bono, rapporto
33 ACS, Carte Graziani, b. 4, f. 8, sottof. 8. Relazione di Egidi al Governo della
Cirenaica, 6 marzo 1933. Migliaia di detenuti furono colpiti anche da deperimento
organico, da oligoemie, da dissenteria bacillare e da elmintiasi.
34 Il testimone allude agli ascari reclutati in Africa Orientale. Tra di essi, infatti,
numerosi erano gli etiopici delle regioni settentrionali.
35 E. Salerno, op. cit., p. 91.
36 Ivi p. 90.
37 Ivi p.95
38 «L'Oltremare», n. 4, aprile 1931, p. 151.
39 G. Bedendo, Le gesta e la politica del generale Graziani, Edizioni generali CESA,
Roma 1936, p. 196.
40 E. Canevari, op. cit., pp. 334-35. Ma il resoconto più reticente ed avvilente sui campi
è quello di Giuseppe Bucco e Angelo Natoli, autori di L'organizzazione sanitaria
92
nell'Africa Italiana, della serie L'Italia in Africa, edito nel 1965 dal ministero degli Affari
Esteri. Gli autori non accennano mai ai campi di concentramento, ma li gabellano come
attendamenti spontanei. Si legga, ad esempio, che cosa scrivono del famigerato lager di
Soluch (p. 316): «La maggior parte degli Auaghir transumanti viveva, prima di
raccogliersi nella zona di Soluch, nelle zone carsiche e boscose del Gebel». Il corsivo è
nostro.
41 Relazione sugli accampamenti, cit., pp. 21-22.
42 Os, Felici, op. cù., p. 47.
43 Ivi, pp. 48-49.
44 A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. La conquista dell'impero, cit., pot
666-80.
45 05. Felici, op. cit., pp. 44-45.
46 «L'Illustration», 4 novembre 1933: Vers la farouche Senoussi, p.312.
47 ASMAI, Libia, pos. 150/22, f. 98. 3D. 3912 del 4 novembre 1930 Nello stesso
telegramma Graziani consigliava di non inviare i nuovi arrestati ad Ustica, perché l'isola,
già zeppa di deportati libici, rischiava di diventare un covo di intrighi.
48 Ivi. Rapporto n. 1058, cit.
49 Guglielmo C. Nasi, La guerriglia e l'impiego delle truppe in Cirenaica, in Governo
della Cirenaica, Organizzazione marciante, Pavone, Bengasi 1931 p. 56.
50 Ivi, p. 57.
51 In uno di questi scontri cadeva Fadil bu Omar, luogotenente di Omar al-Mukhtàr e
suo consigliere più ascoltato.
52 Il traffico con l'Egitto si svolgeva in questo modo. I ribelli conducevano il bestiame
razziato o di loro proprietà verso il confine e, qui giunti, barattavano con i
contrabbandieri oppure con fuorusciti libici il loro bestiame in cambio di tè, tabacco,
farina, indumenti, armi e munizioni. Ad un dato momento, il ministro italiano al Cairo,
Cantalupo, avvertì Graziani che, da notizie in suo possesso, alcuni contrabbandieri
sbarcavano viveri ed armi sulla costa della Cirenaica. Graziani promosse un'indagine,
per poi affermare che la notizia era falsa (ASMAE, Libia, b. 5, f. 6).
53 Cit. in Luigi Goglia, Fabio Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all'impero,
Laterza Roma-Bari 1981, p. 352.
54 Si veda, ad esempio, Sandro Sandri, L'esplorazione e il bombardamento di Cufra
«Gazzetta del Popolo», 14 settembre 1930.
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55 Cit. in E. Salerno, op. cit., pp. 60-61.
56 ASMAI, Libia pos. 150/ó, f. 14. Lettera n. 1148, riservatissima. Si era anche tentato
di inviare un intermediario a Cufra per invitarne gli abitanti ad arrendersi senza
combattere, ma De Bono non era convinto delI'efficacia di questa operazione e infatti fu
lasciata cadere (ivi. De Bono a Badoglio, tel. 3591 dell'a giugno 1930).
57 R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 170.
58 ASMAI, Libia, pos. 150/ó, f. 14. Lettera n. 66641.
59 Anche Mohammed Idris aveva inviato un suo corriere a Cufra per sconsigliare Scems
ed-Din di evacuare l'oasi (ASMAE, Libia, b. 1, f. 8. Telespr. 24293/1139 del 20
dicembre 1930).
60 R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 192.
61 Graziani riconobbe il valore dell'avversario. Scrisse: «La mehalla ribelle [...] pur
essendosi trovata di fronte a forze molto superiori di quelle contro le quali riteneva di
cover combattere, si batté con audacia ed accanimento singolari e non cedette se non
quando si vide irreparabilmente sopraffatta e quando capì che se avesse insistito sarebbe
stata presa fra due fuochi e totalmente annientata» (R. Graziani, Cirenaica pacificata,
cit., p. 201). Si vedano, per l'impresa di Cufra, anche il libro di Dante Maria Tuninetti, II
mistero di Cufra, Calcagni, Bengasi 1931; e l'articolo di Giorgio Menzio, Come
giungemmo a Cufra, «Nuova Antologia», marzo 1937.
62 V. Biani, op. cit., pp. 243-44
63 Graziani non lesinò negli autoelogi. Scrisse che «l'occupazione di viva forza dell'oasi
di Cufra rappresenta la più grande operazione sahariana che sia stata mai compiuta». E
ancora: «In questa impresa, si assomma lo sforzo dei capi e dei gregari, sforzo
eroicamente compiutosi nel silenzioso sacrificio del deserto, e che deve essere cantato ed
esaltato come fonte inesauribile di forza e di bellezza morale» (R. Graziani, Cirenaica
pacificata, cit., pp. 203 e 205).
64 ASMAE, Libia, b. 1, f. 8. Cantalupo a MAE, telespr. 1551/482 dell'8 maggio 1931. Il
racconto di Saleh el Atèusc fu raccolto da un informatore egiziano al soldo della nostra
legazione al Cairo.
65 Ibidem. Quando la carovana di Saleh el Atèusc fu avvistata e portata in salvo dal
funzionario inglese ed esploratore M. P. A. Clayton, era ridotta a 37 persone. Clayton
salvò anche la carovana guidata da Mohammed Mittah. Secondo i calcoli dell'esploratore
inglese, i libici persero nel deserto alcune centinaia di uomini. Per i suoi salvataggi,
Clayton ricevette una decorazione (cfr. «Bourse Egyptienne» del 4 giugno 1931). Nel
1941 il maggiore Clayton guiderà i primi raid contro le basi italiane della Cirenaica.
66 ASMAE, Libia, b. 1, f. 3. Cantalupo a MAE, telespr. 1960/615 del 12 giugno 1931.
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67 La traduzione dell'articolo in ASMAE, Libia, b. 1, f. 7.
68 «La Nation Arabe» n. 2, febbraio 1931: L'impérialisme italien en Tripolitaine.
L'occupation de Koufra.
69 ASMAI, Libia, pos. 150/ó, f. 14. Tel. 270 del 30 gennaio 1931.
http://www.pasti.org/salerno.html
Le infamie del colonialismo italiano in Libia sono state quasi sempre rimosse in Italia.
Anzi, ai responsabili si erigono monumenti. Ecco qualche testo per non dimenticare
BOMBARDAMENTI E GAS
Il presente scritto costituisce il terzo capitolo del libro "Genocidio in Libia: le atrocità
nascoste dell'avventura coloniale (1911-1931)" di Eric Salerno, SugarCo Edizioni,
Milano 1979
Si potrebbe definire un «falso per omissione» il volume firmato da Vincenzo Lioy e
curato dal «Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa» , dedicato
alle operazioni dell'Aeronautica in Eritrea e in Libia. Il libro fu pubblicato nel 1964 e ad
un primo esame sommario poteva apparire come un tentativo di fornire, con un minimo
di obiettività, una traccia di quanto era stato compiuto dalle forze aeree italiane in due
momenti della conquista coloniale. Il tono spesso enfatico e trionfalistico, l'apologia
dello strumento militare, infastidivano ma non sembravano intaccare una certa «onestà»
storica dell'autore. Le operazioni di ricerca dei dor (i gruppi armati di ribelli) in Libia, gli
avvistamenti compiuti dagli aerostati prima e dagli aeroplani poi, i bombardamenti che
crescevano d'intensità con l'intensificarsi della guerra ma soprattutto con la crescita
dell'arma aeronautica, sono puntualmente registrati. Meno spazio, viceversa, è stato
concesso dall'autore a spiegare contro chi, in Libia, l'Arma aeronautica stava realmente
combattendo: la parola ribelli finisce per essere un termine anonimo ed insignificante
quando non viene collocato nel contesto che l'ha generato. Altri autori certamente non
sospetti, come lo stesso Graziani riconoscevano come il ribelle libico era, in certe fasi
della storia della Resistenza, l'intera popolazione del paese. Uomini, donne e bambini
aiutavano chi combatteva con le armi e lo sostenevano non solo nascondendolo dai
rastrellamenti ma anche attraverso un appoggio logistico e morale. Era una lotta di
popolo quella che per anni ha paralizzato l'esercito italiano in Libia. E riconoscere
questo particolare fondamentale, mettere l'accento su di esso, doveva apparire a
Vincenzo Lioy come un'arma a doppio taglio: significava riconoscere che in molti casi,
forse nella maggioranza dei casi, gli aviatori italiani gettarono le loro bombe su
concentramenti di civili e non, invece, su gruppi di soli armati. Il problema - quello delle
gravi omissioni - non è, però, questo. La verità, che poteva trasparire da una lettura
accorta di certi libretti apologetici di regime e balzare agli occhi dai racconti freddi e
quasi distaccati, ma resi fumosi dal passare degli anni, dei superstiti libici, è invece
emersa da una ricerca negli archivi del Ministero degli esteri. Ed altri dati sono
probabilmente nascosti negli archivi militari.
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Quasi più grave della stessa azione coloniale e fascista in Libia è la constatazione che la
penna censoria dello storico «democratico» , incaricato di fornire un quadro il più fedele
possibile di quanto di negativo e di positivo c'era nel passato coloniale dell'Italia, ha
volutamente nascosto all'Italia repubblicana una realtà spesso feroce. Una realtà che
sarebbe stata giudicata ugualmente feroce allora, come viene giudicata tale oggi. La
Libia fu per l'Arma aeronautica italiana ciò che Guernica fu in Spagna per la Luftwaffe
di Hitler: un campo vivo su cui sperimentare le ultime tecniche della guerra. Per
preparare altre guerre ed altre conquiste. Le prove di ciò esistono negli archivi italiani
ma furono totalmente - e volutamente - ignorate dal Comitato per la documentazione
dell'Opera dell'Italia in Africa.
L'Italia con la sua aeronautica riuscì a stabilire in Libia alcuni record. Per la prima volta
nel mondo aeroplani e dirigibili furono impiegati a scopo bellico. Per la prima volta un
apparecchio volò di notte per una missione di guerra. Sotto i titoli a piena pagina dei
giornali che fornivano un primo elenco delle vittime italiane della battaglia di
Sciara-Sciat, il 25 ottobre 1911, c'era un collage fotografico che raffigurava i volti di
cinque aviatori militari che avevano appena raggiunto Tripoli. «Il Messaggero»
raccontava che:
«Il campo di lancio per gli aeroplani è stato improvvisato in un campo di sofsa (il
trifoglio per foraggio che vien coltivato nell'oasi dei dintorni di Tripoli, vicino al mare) a
ridosso del cimitero degli ebrei a Bab Isdid» .
E poi questo brano così «romantico» :
«Uno dopo l'altro, con delle grandi tende verdi, sono innalzati gli hangars, i quali
sembrano dei grandi padiglioni eretti per accogliervi un'elegante colonia di bagnanti...» .
Gli aerei erano piccoli, imparavano a stare in volo, potevano caricare ancora solo
modeste quantità di bombe. E gli attacchi contro le linee degli arabi o dei turchi
sembravano efficaci a livello psicologico più che materiale. I primi anni della guerra,
dunque, furono per l'Arma aeronautica una specie di rodaggio. Un rodaggio che valeva
sia per le macchine che per gli uomini. E che avrebbe lasciato spazio e tempo allo
sviluppo di armi sempre più micidiali e a tecniche di bombardamento più precise.
Le alterne vicende della guerra libica fecero sì che cinque o sei anni dopo il suo inizio
erano entrati in servizio aerei nuovi, più grandi e tecnicamente più capaci di svolgere il
ruolo bellico al quale erano stati predisposti. Le azioni militari assunsero contorni
diversi. Tra il maggio e l'agosto del 1917, ad esempio, furono eseguite in Tripolitania un
centinaio di azioni offensive con il lancio di bombe incendiarie «sui campi di orzo dei
ribelli, con mitragliamenti nelle oasi di Zanzur, Sidi ben Adem, Fonduc ben Gascir,
Fonduc Scrif, Gedida, Agelat, Sormen, Punta Tagiura, Zavia, Azizia» . I campi dei
ribelli intorno a Zanzur e a Zavia erano stati bombardati anche nel mese di aprile con
1270 chilogrammi di liquido incendiario oltre a 3600 chili di alto esplosivo. La politica
italiana nei confronti dei ribelli era già da allora quella della «terra bruciata» .
96
Distruggendo i campi d'orzo si costringevano i «ribelli» , armati e non, ad abbandonare
la lotta e a disperdersi verso zone dove sarebbe stato più facile sottometterli.
Con l'aggravarsi della situazione politico-militare le autorità italiane furono costrette ad
ammettere la crescente difficoltà per le formazioni italiane di imporsi alla popolazione
libica. Le azioni militari e quelle dell'Aeronautica in particolare, assumevano toni
sempre più «incisivi» . Dal 1924 al 1926 gli aerei avevano l'ordine di alzarsi in volo per
bombardare tutto ciò che si muoveva nelle oasi non controllate dalle truppe italiane. Non
si trattava di azioni militari contro altre forze armate, regolari o ribelli che fossero, bensì
di bombardamenti indiscriminati della popolazione civile per fiaccarla e tentare di
dividerla dagli uomini in armi.
Nel notiziario politico inviato al governo della Tripolitania il 26 febbraio 1924 dal
generale Mombelli ctè solo un breve accenno ad una di queste operazioni:
«Caproni esplorò regione Uadi el-Faregh fino Bir Yaggadia, avvistò e bombardò a
Giocch el Meter grosso attendamento circa centocinquanta tende coniche e rettangolari.
Bombardò regione Saunno con esito visibilmente efficace settantina tende coniche e
numeroso bestiame al pascolo. Bombardò ripetutamente accampamento due chilometri
est Bir Garbagniha di cui notiziario precedente nonché, nuclei armati scorti regione
el-Gren Zauiet ed Gtafia et-Tumbia intenti lavori semina» .
Non c'è bisogno di commentare questa breve nota. Lo stesso Mombelli, il 17 maggio
1926, inviava al Ministero delle colonie una lunga relazione in cui spiega come le forze
armate a sua disposizione fossero impegnate a conseguire una serie di obiettivi come
«impedire raccolta orzo da parte ribelli e distruggere vasti seminati esistenti nel Gebel
meridionale» . Le descrizioni non mancano:
«...aviazione assolse assai bene compito collegamento segnalando obiettivi alle colonne
operanti e compiendo bombardamenti. Così mattino giorno sette Caproni di Apollonia
bombardava greggi lungo uadi el Greihat e lanciava bombe incendiarie sulle messi di
uadi Mekeughina. Pomeriggio giorno otto apparecchi di Merg spezzonavano e
mitragliavano efficacemente accampamenti in fuga nello uadi Scebeicha, affluente del
basso Sammalus. Ribelli risposero al fuoco colpendo ripetutamente apparecchi. Mattino
seguente aviazione Merg bombardò accampamenti presso Gadir Bu Ascher e anche in
questa occasione velivolo fu colpito da pallottola. Caproni di Apollonia mattino nove
bombardava accampamenti e bestiame a sud Gasr Remtaiat. Durante volo osservatori
hanno rilevato vasti incendi delle messi provocati dalle nostre colonne e hanno raccolto
indicazioni di seminati ancora intatti che costituiranno obiettivo ulteriori operazioni...» .
La politica della «terra bruciata» , del terrore, aveva spinto migliaia di uomini, donne e
bambini a lasciare la Libia, chi verso la Tunisia e l'Algeria, chi in direzione del Ciad o
dell'Egitto. I morti e i feriti non si potevano contare. E i bombardamenti diventarono più
violenti, più scientifici e, come si è detto, anche «sperimentali» . Così come Guernica fu
sperimentale per l'aviazione nazista, l'Arma aerea italiana si servì della guerra di Libia
per prepararsi alla successiva conquista dell'Etiopia.
97
Gife è un punto sulla carta geografica della Libia. Una piccola oasi situata tra la costa
mediterranea, a sud di Nufilia, e la catena dei monti Harugi. Un'ampia conca di alcuni
chilometri di diametro nella quale, quando è stagione delle piogge, si formano alcuni
stagni che in caso di piogge abbondanti assumono l'aspetto di veri e propri [aghetti. Nel
1928 erano in corso le cosiddette «operazioni del 29° parallelo» , una vasta azione
bellica che aveva tre scopi principali dichiarati: unificare la Tripolitania e la Cirenaica
divise dalla ribellione delle popolazioni della Sirtica, occupare militarmente una catena
di oasi - Socna, Zella, Marada, Augila, Gialo - sul 29° parallelo e tentare di consolidare
l'effettivo dominio politico militare italiano sui territori a nord. Senza la riuscita di
questo sforzo militare sarebbe stato impossibile tentare la rioccupazione del Fezzan e poi
la riconquista della Cirenaica (mai in pratica sottomessa al dominio italiano) e lo
schiacciamento della lotta di liberazione. Il 6 gennaio 1928 De Bono inviava al
Ministero delle colonie questa breve relazione:
«263 Op. U.G./Segreto/Novità giorno/Marce colonne proseguono regolarmente.
Stamane, come stabilito, quattro Ca 73 e tre Ro hanno bombardato Gife con evidente
distruzione. I quattro Ca 73 sonosi spinti circa settanta chilometri sud Nufilia
bombardando anche a gas circa quattrocento tende. Apparecchi fatti segno tiro di
fucileria tutti rientrati base Sirte prima ore undici. Collegamento fra le tre colonne
effettuato» .
Nel volume sull'opera dell'Aeronautica questo episodio è raccontato in poche righe, ma
dell'uso dei gas non si fa menzione. Eppure l'estensore del libro si è servito degli stessi
documenti che abbiamo potuto consultare negli archivi del Ministero degli esteri e dai
quali risulta, nonostante omissioni e lacune, l'uso sistematico di gas — proibiti dalla
Convenzione di Ginevra — contro la popolazione civile della Libia. Esiste anche un
altro racconto dei fatti di Gife. Non è ufficiale. Fa parte di Ali sul deserto, di Vincenzo
Biani, un volume di ricordi di guerra presentato in termini elogiativi dal maresciallo
Balbo:
«Una spedizione di otto apparecchi fu inviata su Gifa, località imprecisata dalle carte a
nostra disposizione, che erano dei semplici schizzi ricavati da informazioni degli
indigeni; importante però per una vasta conca, ricoperta di pascolo e provvista di acqua
in abbondanza. Ma senza oasi e senza case: un punto nel deserto.
«Fu rintracciata perché gli equipaggi, navigando a pochi metri da terra, poterono seguire
le piste dei fuggiaschi e trovarono finalmente sotto di se un formicolio di genti in
fermento; uomini, donne, cammelli, greggi; con quella promiscuità tumultuante che si
riscontra solo nelle masse sotto l'incubo di un cataclisma; una moltitudine che non aveva
forma, come lo spavento e la disperazione di cui era preda; e su di essa piovve, con
gettate di acciaio rovente, la punizione che meritava.
«Quando le bombe furono esaurite, gli aeroplani scesero più bassi per provare le
mitragliatrici. Funzionavano benissimo. «Nessuno voleva essere il primo ad andarsene,
perché ognuno aveva preso gusto a quel gioco nuovo e divertentissimo. E quando
finalmente rientrammo a Sirte, il battesimo del fuoco fu festeggiato con parecchie
bottiglie di spumante, mentre si preparavano gli apparecchi per un'altra spedizione.
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«Ci si dava il cambio nelle diverse missioni. Alcuni andavano in ricognizione portandosi
sempre un po' di bombe con le quali davano un primo regalo ai ribelli scoperti, e poi il
resto arrivava poche ore dopo. In tutto il vasto territorio compreso tra El Machina,
Nufilia e Gifa i più fortunati furono gli sciacalli che trovarono pasti abbondanti alla loro
fame» .
Ogni pagina di questo libro è intrisa del clima di razzismo che sembrava, allora, aver
coinvolto tutti. Non è un semplice racconto di esperienze militari truci come ogni
avventura bellica, bensì un'apologia della violenza fascista - spesso negata dallo Sesso
regime - nei confronti di un popolo che il Biani, come altri militari e politici, riteneva
inferiore. In un certo senso Ali sul deserto è un'opera ingenua che tradisce con la loro
esaltazione certi segreti come quello dell'uso dei gas.
«Al di sotto era un brulicar di gente che fuggiva in tutte le direzioni, invano cercando un
rifugio; ché la terra s'era tramutata, d'un attimo, in un campo di mine fatte saltare da una
misteriosa potenza, folle e distruttrice. «Si vedevano le bombe staccarsi dalle fusoliere,
in frotte quelle piccole da due chili, isolate le altre più grandi da dodici chili; rotolar giù
disordinatamente fino a che non avevano trovato l'equilibrio della traiettoria, e poi
precipitare come saette sui cumuli della gente e sugli ammassi di tende; con una tale
precisione che sembrava seguissero l'attrazione magnetica del bersaglio. «Gli occhi degli
aviatori, raccolta la visione dello spettacolo, riprendevano la fissità scrutatrice della
indagine fredda, quando si trattava di guidare di nuovo la propria macchina sul folto
della massa nemica. «Una fila di tende fu spazzata via da una folata di morte e i loro
cenci si confusero a brandelli di carne sulla terra chiazzata di rosso. «Un branco di
cammelli, colpiti in pieno, si abbatterono al suolo sull'orlo di un burrone, precipitando
dentro, l'uno sull'altro. Da quella massa informe ancora agitata dai contorcimenti della
rapida agonia, un rivolo di sangue allagò il fondo della valle, come allo zampillare d'una
improvvisa sorgente. «Arrivava su fino in alto l'odore acre delI'esplosivo bruciato, e
l'aria stessa era tutta in sommovimento. Gli scoppi si ripercuotevano sulle ali con sussulti
e sobbalzi che mettevano a dura prova i muscoli dei piloti... «Una carovana di un
centinaio di cammelli, terrorizzati dalle prime esplosioni, si erano allontanati in gran
fretta, dondolando sulle groppe i loro carichi malfermi, ma due Romeo, che li avevano
visti, volsero da quella parte. «Il primo passò sputando addosso alle bestie una spruzzata
di pallottole che nella maggior parte andarono a vuoto, poi l'arma s'incantò e non volle
più saperne di sparare. «Il pilota si arrampicò per aria lasciando libero il campo al
compagno che sopraggiungeva, rasente a terra, dalla coda verso la testa della carovana,
mettendo a segno un intero caricatore sui fianchi dei cammelli. «Molti stramazzarono a
terra scoprendo i ventri obesi e annaspando nell'aria con le zampe lunghissime, unico
mezzo a loro disposizione per dire che erano dispiacenti di morire. Ma nessuno li
compianse. «Il Primo Romeo, anzi, riparato il guasto della mitragliatrice, ricalò giù e
fece poco più lontano un altro mucchio di cadaveri» .
Ali sul deserto ci ha fornito una traccia, labile e precisa sull'uso dei gas proibiti dalla
convenzione di Ginevra e da tutti gli altri accordi internazionali:
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«Una volta furono adoperate alcune bombe ad yprite, abbandonate dal tempo di guerra
in un vecchio magazzino ed esse produssero un effetto così sorprendente che i bersagliati
si precipitarono a depositare le armi» .
In effetti l'uso del gas non costituì un episodio isolato: esso faceva parte di un piano
preciso e sistematico. I risultati delle incursioni aeree furono attentamente studiati per
conoscere non solo il numero delle vittime che esse provocavano e gli effetti immediati
prodotti dalla morte chimica, ma anche per conoscere gli eventuali effetti ritardati su
coloro che venivano sfiorati dai gas. E' un particolare, questo, sconosciuto della guerra di
repressione - o non sarebbe il caso ora, di definirlo «di sterminio» ? - attuata da Graziani
per conto del governo fascista di Roma contro la popolazione della Tripolitania, del
Fezzan e della Cirenaica. Sono eloquenti questi brani tratti da una lunga relazione
firmata dal generale Cicconetti ed indirizzata a De Bono alla fine del gennaio 1928.
L'alto ufficiale afferma che «la maggior parte degli aggregati Ghedafa-Orfellini e
Fergiani sono a noi sottomessi» e che i «Mogarba Reedat, colti alla sprovvista dalla
nostra impetuosa avanzata sono fuggiti disordinatamente dopo aver subito ingenti
perdite di uomini e di materiali» . Gli Orfella, come i Mogarba, non si erano mai
realmente sottomessi ai conquistatori italiani. I primi, di origine berbera, nomadi della
Sirtica di Socna e del Fezzan, avevano accettato un compromesso con le autorità italiane
allo scopo - ciò si è dimostrato evidente in seguito - di impedire che il governo arrivasse
a presidiare il territorio orfellino. Abd en Neby Belker, uno dei capi degli Orfella, nel
1923 si schierò decisamente contro i tentativi italiani di occupare il paese di Beni Ulid.
Secondo Graziani gli elementi dissidenti erano divisi in due nuclei l'uno di un centinaio
di armati a seguito dei fratelli Sef en Nasser di Brach; l'altro, di circa duecento fucili,
seguiva Abd en Neby Belker. I Mogarba, anche essi nomadi della Sirtica, si dividono in
due rami: Mogarbet es Reedat e Mogarbet es-Sciamach. In una relazione dello Stato
maggiore della Tripolitania (1930) si afferma che:
«...i Mogarba, anche nel passato, non solo non si sottomisero al nostro Governo, ma ci
opposero valida resistenza nel marzo 1914, sostenendo contro le nostre truppe il
combattimento di Nufilia; mantennero poi sotto assedio lo stesso presidio fino a che, per
intervenute trattative, quest'ultimo non si ritirò a Sirte (novembre 1914)» .
Nel 1926 la popolazione Mogarba era dislocata lungo il uadi Faregh (i Sciamach) e nella
Choscia (i Reedat). «Ribelli» erano gli armati e l'intera popolazione «civile» , donne e
bambini. Si trattava di un popolo che resisteva all'esercito italiano e non un nucleo di
guerriglieri isolato e privo del supporto popolare. Le operazioni militari italiane, e
soprattutto, quelle eseguite dall'Aeronautica assumevano proprio per questo fattore i
contorni di un genocidio programmato. L'uso sistematico dei gas è dimostrato dai
documenti in cui viene inoltre sottolineata l'efficacia dei bombardamenti. Il generale
Cicconetti, nella sua relazione, spiega infatti:
«a) che le perdite in uomini sono certamente di gran lunga superiori a quelle segnalate le
quali si riferiscono solo ai caduti contati sul terreno e non tengono conto dei feriti che
non possono essere mancati né di quelli caduti in seguito agli effetti micidiali dei
bombardamenti aerei e agli effetti non considerati né accertabili subito dei gas. «A prova
100
della terribile efficacia dei bombardamenti sta il fatto che basta ormai l'apparizione dei
nostri aerei perché grossi aggregati spariscano allontanandosi sempre più. «b) che anche
per il bestiame, a quello catturato e distrutto dalle mitragliatrici va aggiunto quello
colpito dai gas e dalle bombe degli aerei e che è finora incalcolabile. Le plaghe
bombardate non hanno ancora potuto essere visitate e solo quando lo saranno potremo
dire l'ultima parola» .
Nella maggior parte delle relazioni e dei telegrammi inviati dalla colonia al ministero si
tende ad utilizzare la parola generica di «ribelli» per indicare le vittime delle azioni
militari. In alcuni casi però la distinzione fra armati e popolazione civile sembra passare
inosservata attraverso le maglie di ciò che costituiva, evidentemente, una forma di
censura. Il governatore della Cirenaica Teruzzi, in una delle sue note quasi quotidiane al
Ministero delle colonie parla dell'uccisione di due uomini e di quattro donne nel corso di
un bombardamento sul Gebel, la zona montagnosa dove si trovavano allora la
maggioranza degli accampamenti dei nomadi, e di risultati molto efficaci ottenuti
durante altre azioni dello stesso genere nella zona.
Non viene specificato il tipo di ordigno lanciato dagli aerei, cosa, invece, che fu fatta il 4
febbraio 1928 dal governatore della Tripolitania De Bono, nelI'informare i suoi superiori
che nella stessa giornata «come già preannunciato» tutti i Caproni disponibili si erano
portati in volo a sud di Gifa (Gife). I ribelli avevano già levato il loro accampamento e
«con cammelli carichi erano già in movimento verso sud-est. «Sono stati bombardati con
circa tre tonnellate di esplosivo e bombe iprite con evidenti risultati...» . Un'altra
operazione dello stesso tenore fu comunicata da Teruzzi il 12 febbraio:
«Gebel. Ieri undici aviazione Mechili bombardato efficacemente noto accampamento
con bestiame pascolante due chilometri ovest uadi Tamanlu. Risulta da fonte attendibile
che recenti bombardamenti eseguiti da aviazione abbiano causato ai ribelli quarantina
persone uccise altrettanti feriti e sessantina cammelli abbattuti...» .
Sette giorni più tardi - come informava ancora Teruzzi - una pattuglia di Caproni 73
dell'aviazione di Bengasi sganciava otto quintali di gas iprite su un accampamento di un
centinaio di tende e «numeroso bestiame» nella regione che si trova quindici chilometri a
sud-est del uadi Engar. «Sembra» , aggiunge Teruzzi, «che nello Zeefran Heleighima
ribelli abbiano abbandonato quaranta tende, di cui venti coniche, in seguito ripetuti
bombardamenti gas» .
Nel 1930 troviamo la firma di Badoglio sotto un telegramma inviato da Roma a Siciliani
a Bengasi e per conoscenza a De Bono, ministro delle colonie. Riferendosi alla
situazione in Cirenaica Badoglio ammonisce: «si ricordi che per Omar el Muchtar
occorrono due cose: primo, ottimo servizio informazioni, secondo, una buona sorpresa
con aviazione e bombe iprite. Spero che dette bombe Le saranno mandate al più presto» .
Le bombe arrivarono. E furono usate in modo sempre più massiccio ed indiscriminato.
C'è in Cirenaica pacificata, uno dei volumi con i quali il generale Graziani volle
giustificare la sua azione repressiva e rispondere alle accuse di genocidio della
101
popolazione libica che già all'epoca gli venivano rivolte, un breve capitolo sul
bombardamento di Taizerbo avvenuto il 31 luglio 1930, sei mesi dopo l'esortazione di
Badoglio all'uso dell'iprite. Nella lingua dei tebù, una delle numerose tribù camitiche
africane, Taizerbo sta per «sede principale» . Oggi i tebù abitano più a sud, nelle
montagne del Tibesti parte in Libia, parte in Ciad, ma una volta essi avevano a Taizerbo
la sede del loro sultanato. Situata duecentocinquanta chilometri a nord-ovest di Cufra,
l'oasi è lunga venticinque-trenta chilometri, larga dieci ed è solcata nel mezzo da un
avvallamento che contiene stagni salmastri e saline. All'epoca dell'intervento italiano vi
si trovavano gruppi di palme, tamerici, acacie, giunchi e vi sorgevano una decina di
nuclei abitati. Per la conquista di Cufra sede della Senussia, centro spirituale della
resistenza antiitaliana Taizerbo era considerata un'oasi di grande importanza strategica.
Scriveva Graziani:
«Per rappresaglia, ed in considerazione che Taizerbo era diventata la vera base di
partenza dei nuclei razziatori il comando di aviazione fu incaricato di riconoscere l'oasi e
- se del caso - bombardarla. «Dopo un tentativo effettuato il giorno 30 - non riuscito, per
quanto gli aeroplani fossero già in vista di Taizerbo, a causa di irregolare funzionamento
del motore di un apparecchio - la ricognizione venne eseguita il giorno successivo e
brillantemente portata a termine. «Quattro apparecchi Ro, al comando del ten. col. Lordi,
partirono da Giacolo alle ore 4.30 rientrando alla base alle ore 10 dopo aver raggiunto
l'obiettivo e constatato la presenza di molte persone nonché un agglomerato di tende.
«Fu effettuato il bombardamento con circa una tonnellata di esplosivo e vennero
eseguite fotografie della zona. «Un indigeno, facente parte di un nucleo di razziatori,
catturato pochi giorni dopo il bombardamento, asserì che le perdite subite dalla
popolazione erano state sensibili, e più grande ancora il panico» .
Vincenzo Lioy, l'autore del volume sul ruolo dell'aviazione in Libia, riprese senza
modificarla di una virgola la versione riferita da Graziani nel suo libro. Ma Graziani
aveva tralasciato l'importante particolare dell'uso di grandi quantità di iprite ed aveva
omesso di riportare una relazione agghiacciante che gli era pervenuta qualche mese dopo
sugli effetti del bombardamento. Questa relazione, regolarmente archiviata, era
ugualmente a disposizione dello storico Lioy quando fece la sua ricerca. Da un rapporto
firmato dal tenente colonnello dell'Aeronautica, Roberto Lordi, comandante
dell'aviazione della Cirenaica (rapporto che Graziani inviò al Ministero delle colonie il
17 agosto) si apprende che i quattro Ro erano armati con 24 bombe da 21 chili ad iprite,
da 12 bombe da 12 chili e da 320 bombe da 2 chili. Stralciamo dalla relazione la parte
che si riferisce all'avvicinamento e al bombardamento di Taizerbo.
«...in una specie di vasta conca s'incontra il gruppo delle oasi di Taizerbo. Le palme, che
non sono molto numerose, sono sparpagliate su una vasta zona cespugliosa. Dove le
palme sono più fitte si trovano poche casette. In prossimità di queste, piccoli giardini
verdi, che in tutta la zona sono abbastanza numerosi; il che fa supporre che le oasi siano
abitate da numerosa gente. Fra i vari piccoli agglomerati di case vengono avvistate una
decina di tende molto più grandi delle normali e in prossimità di queste numerose
persone. Poco bestiame in tutta la conca. II bombardamento venne eseguito in fila
102
indiana passando sull'oasi di Giululat e di el Uadi e poscia sulle tende, con risultato
visibilmente efficace» .
II primo dicembre dello stesso anno il colonnello Lordi inviò a Roma copia delle notizie
sugli effetti del bombardamento a gas effettuato quel 31 luglio sulle oasi di Taizerbo
«ottenute da interrogatorio di un indigeno ribelle proveniente da Cufra e catturato giorni
or sono» . E' una testimonianza raccapricciante raccolta materialmente dal comandante
della Tenenza dei carabinieri reali di el Agheila.
«Come da incarico avuto dal signor comandante l'aviazione della Cirenaica, ieri ho
interrogato il ribelle Mohammed bu Alì, Zueia di Cufra, circa gli effetti prodotti dal
bombardamento a gas effettuato a Taizerbo. «II predetto, proveniente da Cufra, arrivò a
Taizerbo parecchi giorni dopo il bombardamento, e seppe che quali conseguenze
immediate vi sono quattro morti. «Moltissimi infermi invece vide colpiti dai gas. «Egli
ne vide diversi che presentavano il loro corpo ricoperto di piaghe come provocate da
forti bruciature. «Riesce a specificare, che in un primo tempo il corpo dei colpiti veniva
ricoperto da vasti gonfiori, che dopo qualche giorno si rompevano con fuoruscita di
liquido incolore. Rimaneva così la carne viva priva di pelle, piagata. «Riferisce ancora
che un indigeno subì la stessa sorte per aver toccato, parecchi giorni dopo il
bombardamento, una bomba inesplosa, e rimasero così piagate non solo le sue mani, ma
tutte le altre parti del corpo ove le mani infette si posavano. «Oltre a quelle sopradette
non ha saputo fornire alcuna altra notizia» .
Secondo l'Enciclopedia Americana l'iprite puo provocare malattie ereditarie ed i suoi
effetti si potrebbero riscontrare, perciò, non solo nelle persone direttamente colpite dai
bombardamenti ma anche nei loro discendenti. La Treccani afferma che l'iprite (prese il
nome dalla città francese di Ypres nelle cui vicinanze fu lanciata per la prima volta dai
tedeschi nel 1917) attacca tutte le cellule con le quali viene in contatto, distruggendole
completamente. Non solo agisce sulle mucose, ma anche sulla pelle producendo
infiammazioni vesciche e piaghe assai difficili a guarire. Più violentemente (è sempre la
Treccani che lo specifica) agisce sulle mucose degli occhi e, quando venga respirato il
suo vapore, sulle vie polmonari. Se con la respirazione i vapori d'iprite entrano nel
circolo sanguigno, distruggono i globuli rossi, producendo rapidamente la morte. Non c'è
dubbio che l'effetto dei gas sulla popolazione libica, priva peraltro di qualsivoglia
possibilità di ricorrere a moderne cure mediche, doveva essere micidiale.
L'uso dell'iprite, che doveva diventare un preciso sistema di massacro della popolazione
civile in Etiopia qualche anno più tardi, fu certamente uria scelta sia militare che politica
come i bombardamenti della popolazione civile in Libia doveva corrispondere a scelte di
colonizzazione ben precise. L'Italia fascista era pronta ad inviare in Libia migliaia di
coloni che avrebbero potuto coesistere con la popolazione locale soltanto se questa
avesse non solo accettato di sottomettersi all'autorità di Roma, ma soprattutto di
modificare radicalmente la propria esistenza nomade ed «anarchica» . L'Italia,
comunque, aveva scelto per la Libia una forma di colonizzazione basata sulla gestione
delle ricchezze della terra attuata direttamente da coloni italiani con lo sfruttamento, ove
fosse possibile, di manodopera locale. Per Graziani, che aveva carta bianca sul terreno, e
103
per i dirigenti politici e militari che da Roma lo spronavano a concludere al più presto
una «conquista» cominciata quindici anni prima, la decisione di servirsi di gas tossici
non poteva prescindere dalla consapevolezza che essi, colpendo in modo particolare la
popolazione civile, avrebbero finito per distruggere, almeno in parte, quella forza-lavoro
locale che un giorno, altrimenti, si sarebbe potuta mettere a disposizione dei coloni
italiani. Probabilmente, nascosti negli archivi, giacciono ancora i documenti che
potranno dimostrare - come già sembrano fare quelli finora reperiti - la non casualità
della scelta italiana di utilizzare i gas tossici in Libia.
Molto tempo era passato da quel lontano 1911 quando i primi aviatori italiani atterrarono
in Libia, avanguardia di un'arma che con il passare degli anni si sarebbe affinata e
ingrandita. Dal novembre 1929 alle ultime azioni del maggio 1930 l'aviazione della
Cirenaica eseguì secondo fonti ufficiali ben 1605 ore di volo bellico lanciando 43.500
tonnellate di bombe e sparando diecimila colpi di mitragliatrice. Le fonti, però, non
precisano quante tonnellate di bombe erano cariche di iprite.
__________________________
Dattiloscritto di pp. 26, parzialmente numerate, senza data né firma, ad uso dei
comandi dell’Aeronautica in Africa Orientale, come da timbro a inchiostro sulla
prima di copertina e altre pagine interne. Corredato da tre fotografie.
Istruzione sulla bomba C. 500 T.
E’ diviso in parti:
I. Istruzione sul funzionamento, conservazione ed impiego della spoletta "T" per bomba
C-500 T.
II. Caratteristiche e norme d’impiego della bomba C-500 T.
III. Conservazione manipolazione della bomba C-500 T.
IV. Tavole di tiro della bomba C-500 T e tabella di graduazione della spoletta "T" per
detta bomba
V. Appendice: rilievo della direzione del vento al suolo e della quota del bersaglio.
[...]
[p.10]
La bomba C-500 T. è stata realizzata con lo scopo di permettere il tiro da alta quota con
aggressivo liquido, contro bersagli di vaste dimensioni.
104
Essa è munita della spoletta "T" la quale, come specificata nella I^ Parte, è congegnata in
modo tale da provocare l’esplosione della bomba prima che questa raggiunga il suolo.
L’esplosione genera una pioggia di aggressivo liquido che va a depositarsi sul terreno
sotto forma di gocce di varia grandezza (più grosse al centro della zona colpita, più
piccole ai bordi).
L’area irrorata da ogni singola bomba e la concentrazione dell’aggressivo sull’area
stessa, dipendono, come è ovvio, dalla intensità del vento dal suolo e d’altezza di
scoppio della bomba.
Per un’altezza di scoppio sul terreno che si aggiri sui 250 metri e per vento al suolo
d’intensità compresa fra i 3 e i 9 m/s, si può considerare che l’area efficacemente colpita
dall’aggressivo vari tra i 50.000 e gli 80.000 mq. Distribuiti in un ellisse molto allungata
il cui asse maggiore, (disposto secondo la direzione del vento) può avere lunghezza dai
500 agli 800 m., ed il cui asse minore può avere una lunghezza dai 100 ai 200 metri.
[...]
[pp.11-12]
Circa l’efficacia dell’aggressivo liquido si può dire che esso agisce principalmente per
contatto delle goccioline sulla pelle degli individui colpiti. Il contatto ha luogo anche
attraverso gli indumenti di qualsiasi natura essi siano (lana, tela, cuoio, ecc) se chi li
indossa, appena si accorge di essere colpito, non abbia l’avvertenza di liberarsene. I
vapori sono dannosi solo in forti concentrazioni, concentrazioni che è difficile ottenere
mediante l’impiego della bomba C-500.
L’effetto dell’aggressivo liquido non è immediato. I primi sintomi si manifestano dalle 6
alle ore 12 dopo che l’individuo è stato colpito. Dopo 12-24 ore si manifestano le prime
lesioni che, se la superficie colpita è grande, sono gravissime e che, ad ogni modo sono
di lentissima guarigione anche se la superficie colpita è piccola.
La persistenza dell’aggressivo sul terreno, varia a seconda della natura di quest’ultimo
ed aseconda [sic] della temperatura dell’aria. [...]
Tenendo conto delle caratteristiche della bomba C-500 e delle proprietà dell’aggressivo
in essa contenuto si possono trarre le seguenti norme generali a carattere orientativo,
sulla scelta dei bersagli e sulle modalità d’azione, norme che dovranno di volta in volta
essere applicate a seconda delle esigenze che la particolare situazione richiede.
1. Scelta dei bersagli
L’azione dell’aggressivo liquido è sempre diretta a colpire esseri animati (agglomerati di
persone o di bestie).
L’obiettivo animato può essere colpito direttamente facendo cadere su di esso la pioggia
di aggressivo, od indirettamente facendo cadere la pioggia di aggressivo su una zona di
105
terreno che esso certamente ed entro breve tempo dovrà attraversare [meno di 24 ore].
[...]
In questo caso è da tener presente che, quando l’odore dell’aggressivo sia noto al
nemico, questo potrà evitare di attraversare la zona infestata allungando magari il suo
percorso di marcia. In tale caso si sarà solo causata al nemico una perdita di tempo, cosa
questa che può però avere, in particolari condizioni, qualche importanza.
[...]
[13]
Non sarebbe razionale, salvo in rari casi, impiegare contro piccoli nuclei quantità di
aggressivo sia pure modeste perché pochi uomini potrebbero facilmente porsi in salvo
dalla nube aggressiva portandosi sopravvento e soprattutto perché non si usufruirebbe
del grande vantaggio offerto dall’azione portata con bombe C-500 di poter cioè colpire
vastissime zone senza che nessuno degli esseri animati in esse contenuti possa sfuggire
all’azione dell’aggressivo.
(Archivio dell’ Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Aeronautica, Fondo AOI, cart.
176, fasc.1.)
Vediamo una documentazione fotografica su questa bomba:
106
la bomba
107
sotto un bombardiere
un bombardamento con queste bombe su un villaggio
108
un poco di morti
un volto sfigurato dall'iprite
109
http://www.intermarx.com/ossto/osstomenu.html
Il genocidio italiano in Cirenaica, 1930-1931[1]
di Matteo Dominioni
La conquista della Libia negli anni si dimostrò ben più difficile di quanto si era
propagandato. Anche durante gli avvenimenti bellici molte cose non si vennero a sapere,
soprattutto in patria, per via di un distacco, cercato ed ottenuto nei fatti, tra il fronte e la
patria. Tale distacco emerge prepotentemente nel momento in cui il conflitto si tramutò
da nazionale, fatto da un esercito regolare di massa con gossi apparati per la creazione
dell'opinione pubblica, in coloniale, fatto da volontari, coloni e mezzi militari più
evoluti. Agli inizi del 1930 si stava ultimando, dopo un ventennio di guerra, la conquista
della parte occidentale della Libia, la Tripolitania, mentre ad oriente, Cirenaica, era in
atto uno scontro tra fascisti e patrioti libici che durò più a lungo e fu più intenso negli
scontri.
In gennaio il generale Graziani, sulla scia della popolarità e degli agganci seguiti alla
conquista della Tripolitania, viene nominato vicegovernatore della Cirenaica e insieme a
Badoglio diventa uno dei personaggi chiave della fase finale, quella risolutiva. Per farci
un'idea del loro operato è sufficiente ricordare, per ora, che il primo diede vita ai
"tribunali volanti" con diritto di morte per reati quali possesso di arma da fuoco o
pagamento di tributi ai ribelli; il secondo propose l'utilizzo di strumenti terroristici, quali
le bombe ad aggressivi chimici per stroncare la resistenza libica[2].
Il fronte opposto era occupato dalla Senussia, organizzazione statuale dei seminomadi di
religione musulmana. Nata agli inizi dell'ottocento, si basava su di numerose zauie,
luoghi periferici del controllo politico, e allo stesso tempo religioso, che regolavano
l'attività dei commerci, del pagamento delle decime e dell'attività amministrativa e
giudiziaria in una società di numerosi duar, accampamenti talvolta militarizzati, sparsi
per l'altopiano del Gebel.
I fascisti compresero che per rompere i legami organizzativi della resistenza dovevano
eliminare la Senussia come fattore di mantenimento dell'ordine feudale. In un territorio
come quello del Gebel però non era accettata l'invasione di stranieri che poteva mettere a
repentaglio il delicato equilibrio ecologico, in relazione alla densità demografica, che si
era instaurato. L'altopiano presentava maggiori possibilità di coltivare e allevare
bestiame soprattutto per la presenza di piogge senz'altro maggiori che nella parte
occidentale del paese. Tale fertilità tuttavia veniva messa in discussione dall'arrivo di
nuove genti che non avevano minimamente intenzione di mantenere il naturale ordine
delle cose della natura ma di colonizzare e portare un altro mondo fondato sul dominio e
non sul rispetto della natura.
110
L'invasione fu vista come annientamento delle proprie risorse e di conseguenza della
propria esistenza. Resistere significava tentare di sopravvivere, farsi soggiogare era, agli
occhi dei libici, come andare incontro a un suicidio perchè avrebbe rotto il naturale
rapporto di equilibrio con la natura e con esso la vita stessa. Chiarendo tale
atteggiamento della maggioranza della popolazione locale, che non deve essere colto
solamente nell'omogeneità delle posizioni data la numerosa eterogeneità delle culture di
origine tribale, è possibile comprendere il forte attaccamento per l'indipendenza che
portò tutta la popolazione a collaborare coi ribelli ed a pagare di persona.
Di fronte ai colonizzatori si presentava un problema di non poco conto: la zona più ricca
della Libia, la Cirenaica, era quella che presentava una ribellione diffusa e difficile da
sconfiggere perchè mimetizzata nel territorio e soprattutto perchè godeva dell'appoggio
della popolazione. Non dev'essere trascurato il ruolo della dirigenza della resistenza che,
grazie soprattutto all'opera di Omar al-Mukhtar, fu in grado di impiegare un efficiente
sistema informativo e un veloce reclutamento delle forze.
I fascisti decisero un'azione radicale sulla collocazione geografica delle etnie per mezzo
di movimenti coatti di popolazione. A partire dal 25 giugno 1930 si decise per la
creazione di campi di concentramento che dovevano contenere le popolazioni del Gebel
che avevano dato maggiore appoggio alla resistenza. Furono immuni alla detenzione le
popolazioni già sottomesse e quelle stanziate al di fuori del Gebel. Lo scopo era quello
di rompere ogni legame tra ribelli e popolazione ma anche di rompere ogni possibilità di
autosussistenza delle comunità. Lo stesso Badoglio, cosciente di cosa stava andando a
fare, dice: "Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà
dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata
tracciata e noi dobbiamo perseguirla fino alla fine anche se dovesse perire tutta la
popolazione della Cirenaica"[3].
Quanti furono i deportati dal Gebel ai campi limitrofi alla costa? Giorgio Rochat giunge
ad una stima, per approssimazione, di 100/120.000 persone, praticamente tutta la
popolazione del Gebel. Tuttavia, anche operando in modo così radicale, non si
raggiunsero gli obiettivi prefissati cosicchè a fine agosto fu deciso di muovere
nuovamente i campi in zone costiere perchè i legami tra Senussia e popolazione non
erano venuti meno. Furono inasprite le sanzioni verso i detenuti e irrigidite le norme
riguardanti la detenzione. All'interno dei campi vigevano condizioni precarie per la
mancanza di cibo e di risorse; ci furono epidemie di tifo a cui difficilmente si riuscì a
porre rimedio per l'assoluta mancanza medici - due per 60.000 detenuti - e di strumenti
basilari, anche semplici pentole, per sterilizzare vesti e vettovagliamenti. Il disinteresse
dei fascisti si tramutò in una filantropia che si concretava nel trasmettere, forzatamente,
ai locali una sorta di etica del lavoro. Venivano negati i mezzi di produzione (terra e
bestiame) ma allo stesso tempo si ricercava di inserire (sussumere) i locali in lavori di
natura propriamente capitalistica.
La popolazione del Gebel, una volta rinchiusa, divenne versatile serbatoio di forza
lavoro a basso prezzo da inserire nelle innumerevoli opere pubbliche (soprattutto strade)
che andavano di pari passo coll'occupazione. Ai lavoratori veniva dato un salario tre
volte inferiore a quello degli italiani che li metteva su di un piano di subordinazione ed
111
allo stesso tempo li privava gradatamente degli strumenti e delle conoscenze nei lavori
tradizionalmente sviluppati. Alle donne venivano dati telai e materie prime da impiegare
nella fattura di tappeti e tessuti. Lo scopo era inserire gradatamente la popolazione entro
un rapporto sociale legato al salario e alla produzione per l'accumulazione e non per
l'autoconsumo. Tuttavia tali iniziative erano destinate a fallire, perchè i fascisti volevano
ricreare in maniera coatta comunità artificiali di autosussistenza, senza rendersi conto
che la precedente distruzione dell'autosussistenza formatasi attraverso pratiche graduali
socialmente e culturalmente accettate impediva poi di ricreare mondi artificiali
funzionanti in tale realtà perchè ad essa estranei.
Fu imposto un vero e proprio modo di produzione altro. Se le popolazioni erano in
precedenza occupate nell'allevamento del bestiame e nell'agricoltura, ora venivano
impiegate nella costruzione di opere edili o nella pesca. L'imperialismo italiano fu
innanzi tutto esportazione di un modo di produzione che andò a destrutturare i rapporti
sociali precedenti.
Un altro modo per spezzare i legami tradizionali della società libica fu l'eliminazione del
90-95% del bestiame tra gli anni 1930-1931. In una società dedita alla pastorizia, oltre
che all'agricoltura e al commercio, venivano messi in discussione i requisiti minimi di
approvvigionamento delle popolazioni del Gebel. Un ultimo provvedimento fu infine
utilizzato per fare terra bruciata attorno ai ribelli di Omar al-Mukhtar: la proibizione del
commercio con l'Egitto, dove circa 20.000 libici che si erano rifugiati erano certamente
interessati a dare man forte ai patrioti. Più tardi, allo scopo di porre fine al contrabbando
che avveniva per mezzo di piccole spedizioni su cammelli, i fascisti decisero di costruire
un reticolato lungo 270 km lungo la direttrice Bardia-Giarabub. Dall'aprile a settembre
1931 fu costruito tale recinto largo qualche metro e impenetrabile perchè controllato per
mezzo di fortini e voli aerei.
Una volta depredato il Gebel, per il lungo e per il largo, agli italiani non restava altro che
porre fine alla resistenza in un ambiente finalmente immune, dove i rastrellamenti
risultarono efficaci a tale scopo. I ribelli non avevano più la possibilità di muoversi in
maniera discreta ed era venuta meno la precedente copertura delle popolazioni. Gli
esploratori al servizio degli italiani tallonavano i ribelli passando informazioni
tempestive ai comandi per un pronto intervento. L'accerchiamento dei ribelli veniva fatto
in maniera tale da presidiare eventuali vie di fuga. In caso di fuga intervenivano
l'aereonautica e la cavalleria per inseguire in maniera più stringente il nemico.L'arresto
di Omar al-Mukhtar avvenne nel settembre del 1931 e l'esecuzione della condanna a
morte, già decisa in sede extragiudiziaria, si tenne, secondo macrabo rito colonialfascista, sulla pubblica piazza. Il 9 dicembre si riunirono i rimanenti oppositori
all'occupazione e decisero per la resa. L'uccisione di Omar al-Mukhtar apparve come
l'episodio definitivo di una serie che aveva portato a un veloce indebolimento della
Senussia.
Una volta intacccate, come si è visto, le basilari strutture della produzione, dei commerci
e dell'amministrazione, la vittoria era totale . Furono distrutti non solo i caratteri
propriamente endogeni della società senussita, ma anche quelli esogeni come il rapporto
tra densità demografica-popolazione. E totale fu anche il dominio, che fu subito da tutta
112
la popolazione nonostante i ribelli in armi fossero tra i 600 e gli 800, con variazioni a
seconda del dor che veniva coinvolto negli scontri.
Risulta enorme la sproporzione nel perseguire i ribelli e i loro fiancheggiatori: i secondi
pagarono molto di più, primo perchè erano marginalmente coinvolti nelle battaglie,
secondo perchè perirono in maggior numero. Si tenga conto del fatto che l'amnistia per i
ribelli entrò in vigore prima della chiusura dei campi che andarono in contro a tale sorte
proprio a causa della contraddizione per cui non si potevano perseguire le popolazioni
anziché i diretti responsabili dei fatti.
Secondo fonti italiane i morti tra i ribelli per il periodo 1923-1931 sarebbero stati 6.500
ma c'è un vizio di forma in tali dati, che sono presi da materiale di parte. Altri sono i
numeri macabri che emergono tenendo conto dell'esistenza dei campi, delle malattie, dei
trasferimenti e dell'impoverimento arrecato alle popolazioni. Prendendo in
considerazione valutazioni e censimenti della popolazione, effettuati prima e dopo la
guerra dalle autorità coloniali, si ha la conferma di una impressionante diminuzione
demografica nella Cirenaica. Da dati del 1928 gli abitanti sarebbero stati 225.000,
mentre dal censimento del 1931 risulterebbero essere 142.000 compresi gli italiani e i
nuovi immigrati. Tenendo conto di quanti fuggirono dal Gebel verso l'Egitto (10-15.000
persone) e del tasso di incremento demografico, il genocidio fascista dovuto alla
repressione sarebbe di circa 45-50.000 persone che crescono fino a 70.000 se ai dati
italiani si sostituiscono quelli dell'antropologo Evans-Pritchard[4] .
"Questo non è l'unico genocidio della storia delle conquiste coloniali, se ciò può
consolare qualcuno, ma è certo uno dei più radicali, rapidi e meglio travisati dalla
propaganda e dalla censura"[5].
Una volta che la ribellione fu vinta le popolazioni non poterono tornare nei luoghi
d'origine sul Gebel che erano destinati, essendo le zone più fertili, agli italiani. I libici
subirono così la radicale modifica dei principali aspetti della vita materiale e non solo: in
quanto seminomadi furono rinchiusi in riserve, dove essere sfruttati come manodopera
semplice.
GRECIA 1943: quei fascisti stile SS
Domenikon come Marzabotto. Oltre 150 uomini fucilati per
rappresaglia. Ora un documentario alza il velo sulle stragi del
nostro esercito. Occultate.
di Enrico Arosio da l'Espresso n° 9 del 6 marzo 2008
113
I partigiani avevano fatto fuoco dalla collinetta, quando il convoglio aveva rallentato in
curva, a un chilometro dal Villaggio di Domenikon. Erano morti nove soldati italiani.
Dunque i greci andavano puniti: non i partigiani, i civili, Domenikon andava distrutta.
Per dare a tutti «una salutare lezione», come scrisse poi il generale Cesare Benelli, che
comandava la divisione Pinerolo. «Qui al villaggio, prima, i soldati italiani venivano per
un'ora o due, flirtavano con le donne, poi se ne andavano. A Elassona avevano fidanzate
ufficiali. Erano dei dongiovanni», racconta un contadino davanti alla cinepresa. Prima,
sì. Non il 16 febbraio 1943. Quel giorno gli italiani brava gente si trasformarono in
bestie.
L'eccidio di Domenikon, la piccola Marzaabotto di Tessaglia, è un crimine italiano
dimenticato. In stile nazista, solo un po' meno scientifico. Fu il primo massacro di civili
in Grecia durante l'occupazione, e stabilì un modello. Il primo pomeriggio gli uomini
della Pinerolo circondarono il villaggio, rastrellarono la popolazione e fecero un primo
raduno sulla piazza centrale. Poi dal cielo arrivarono i caccia col fascio littorio. Scesero
bassi, rombando, scaricando le loro bombe incendiarie. Case, fienili, stalle bruciarono tra
le urla delle donne, i muggiti lugubri delle vacche. Gli italiani gliel'avevano detto,
raccontano i vecchi paesani: «Vi bruceremo tutti». Il maestro, che capiva la nostra
lingua, avvertì: «Mamma. Ci ammazzano tutti». Molti non avevano mai visto un aereo.
Al tramonto, raccontano i figli degli uccisi, le famiglie di Domenikon furono portate
sulla curva dei partigiani. Dopo esser stati separati dalle donne, tra pianti e calci, tutti i
maschi sopra i 14 anni, fu ordinato, sarebbero stati trasferiti a Larisa per interrogatori.
Menzogna. All'una di notte del 17 gli italiani li fucilarono nel giro di un'ora, e i contadini
dovettero ammassarli in fosse comuni. «Anche mio padre e i suoi tre fratelli», ricorda un
vecchio rintracciato da Stathis Psomiadis, insegnante e figlio di una vittima che si è
dedicato alla ricostruzione dell'eccidio, indicando la collina di lentischi e mini. La notte e
l'indomani i soldati della Pinerolo assassinarono per strada e per i campi pastori e
paesani che si erano nascosti: fecero 150 morti.
È tutto ricostruito nel documentario "La guerra sporca di Mussolini", diretto cl Giovanni
Donfrancesco e prodotto dal! GA&A Productions di Roma e dalla televisione greca Err,
che andrà in onda il 14 marzo su History Channel (canale 405 di Sky), La Rai si è
disinteressata al progetto. Il film, che riapre una pagina odiosa dell'Italia fascista, si basa
su ricerche recenti della storica Lidia Santarelli. La docente al Centre for European and
Mediterranean Studies della New York University, parlarndo con "L'espresso" di
Domenikon e dei massacri italiani in Tessaglia, Epiro, Macedonia, li definisce "un buco
nero nella storiografia". Che cosa sa il grande pubblico della campagna di Grecia di
Mussolini ? Ricorda il presidente Ciampi, le commosse rievocazioni della tragedia di
Cefaalonia, il generale Gandin e la divisione Acqui, le emozioni cinematografiche di
"Mediterraneo" e del "Capitano Corelli", con gli italiani abbronzati, generosi. portati a
fraternizzare. Una proposta di legge (Galante e altri) presentata alla Camera il 24
novembre 2006 per istituire una Giornata della memoria delle vittime del fascismo
accenna all'eccidio di Domenikon; ma è un'eccezione.
114
Italiani brava gente? Per nulla. «Domenikon», dichiara la Santarelli nel film, «fu il primo
di una serie di episodi repressivi nella primavera-estate 1943. Il generale Carlo Geloso,
comandante delle forze italiane di occupazione, emanò una circolare sulla lotta ai ribelli
il cui principio cardine era la responsabilità collettiva. Per annientare il movimento
partigiano andavano annientate le comunità locali» . L'ordine si tradusse in
rastrellamenti, fucilazioni, incendi, requisizione e distruzione di riserve alimentari. A
Domenikon seguirono eccidi in Tessaglia e nella Grecia interna: 30 giorni dopo 60 civili
fucilati a Tsaritsani. Poi a Domokos, Farsala, Oxinià. Le autorità greche segnalarono
stupri di massa.
Civili trucidati dagli italiani per rappresaglia
Azioni di cui praticamente non esistono immagini, memorie sepolte negli archivi
militari. il comando tedesco in Macedonia arrivò a protestare con gli italiani per il
ripetersi delle violenze contro i civili. Nel film il diario del soldato Guido Zuliani
racconta di rastrellamenti e torture. Il capo della polizia di Elassona, Nikolaos Bavaris,
scrisse una lettera di denuncia ai comandi italiani e alla Croce rossa internazionale: «Vi
vantate di essere il Paese più civile d'Europa. ma crimini come questi sono commessi
solo da barbari». Fu internato, torturato, deportato in Italia. La figlia: "Un incubo".
Gli italiani imitarono i tedeschi, ma senza la loro tecnica. Nel campo di concentramento
di Luisa, a nord di Volos dove nacque Giorgio de Chirico, furono fucilati per
rappresaglia oltre mille prigionieri greci. Molti morirono, ricorda "La guerra sporca di
Mussolini", di fame. denutrizione, epidemie. Le brande con i materassi di foglie di
granturco erano infestate dalle pulci. L'occupazione (sino al settembre '43 gli italiani
amministrarono due terzi della Grecia, un terzo i tedeschi) si caratterizzò per le
prevaricazioni continue ai danni di innocenti. La Tessaglia era il granaio greco.
L'esercito italiano eseguiva confische, saccheggi, sequestri. Introdotta la valuta di
occupazione, il mercato nero andò alle stelle. La razione di pane si ridusse a 30 grammi
al giorno. Il film mostra abitanti di Atene morti di
115
Bambini vittime della carestia ammassati in ospedale ad Atene nel 1941
fame gettati come stracci agli angoli delle strade. «Nel solo inverno 1941», ricorda la
professoressa Santarelli a "L'espresso", «da carestia indotta dall'amministrazione italiana
fece tra i 40 e i 50 mila morti. Nell'intero periodo morirono di fame e malattie tra i 200 e
i 300 mila greci. Un altro capitolo poco studiato è la prostituzione: migliaia di donne
prese per fame e reclutate in bordelli per soddisfare soldati e ufficiali italiani». Nel 1946
il ministero greco della Previdenza sociale, nel censire i danni di guerra, calcolò che 400
villaggi avevano subito distruzioni parziali o totali: 200 di questi causati da unità italiane
e tedesche, 200 dai soli italiani.
116
La Grecia rimossa ci costringe a riflettere. Come dice nel film lo storico Lurz
Klinkhammer, il massimo studioso di atrocità tedesche in Italia: «La leggenda del bravo
italiano non è completamente inventata. Ciò che è inventato è che tale immagine fosse
l'aspetto dominante nell'occupazione di quei territori». I generali Geloso e Benelli altro
non fecero che applicare le linee guida del generale Roatta in Jugoslavia, che teorizzò la
strategia «testa per dente». Klinkhammer dichiara che le fucilazioni italiane in Slovenia,
nella provincia di Lubiana. ebbero le stesse dimensioni delle fucilazioni tedesche in Alta
Italia dopo l'8 settembre. Oltre 100 mila slavi transitarono per i campi di concentramento
italiani in Jugoslavia. Nell'isola di Rab, di cui il film mostra cadaveri scheletrici, morì il
20 per cento dei prigionieri. Klinkhammer usa per l'esercito di Mussolini, ricordando i
crimini in Etiopia e Cirenaica con l'impiego di gas contro i civili, il termine "programma
di eliminazione". E se dopo il 1945 Badoglio e Graziani furono i primi due criminali di
guerra elencati dalle autorità etiopi, per la Grecia e i Balcani furono sollevate analoghe
richieste per i generali Roatta, Ambrosio, Robotti e Gambara.
Fucilazione di civili in Slovenia
A Londra la Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra ricevette una lista
con più di 1.500 segnalazioni di criminali di guerra italiani. Perché tutto andò
insabbiato? Ecco un'altra rimozione nazionale. Nel 1946 era cambiato tutto: l'Europa
spaccata in due tra Alleati e blocco sovietico. L'Italia di De Gasperi rientrava nella
strategia di compattamento occidentale contro Stalin. Il nostro governo rifiutò la
consegna dei responsabili di atrocità alla Grecia. Mentre De Gasperi istituiva una
commissione d'inchiesta, chiedeva a Washington di temporeggiare. Stessa richiesta da
Lord Halifax per il governo britannico, pur vicino alla Grecia, dove infuriava la guerra
civile tra monarchici e comunisti. In breve: l'Italia rinunciò a chiedere estradizione e
117
processo per i criminali nazisti (ricordate "l'armadio della vergogna"), la Grecia fece lo
stesso con l'Italia. La Guerra fredda fu la pietra tombale alle richieste di giustizia (vedere
intervista a Filippo Focardi qui sotto).
Domenikon oggi è un paesino circondato dalla macchia, da ginepri, cardi e rosmarini. I
tramonti lo tingono di rosa come nel 1943. I patrioti come Stathis Psomiadis hanno
cercato di sollevare il velo dell'oblio, e questo documentario è un tributo agli innocenti.
la realtà però è amara. Domenikon, riconosciuta città martire nel 1998, non è diventata
memoria collettiva, come da noi Marzabotto. Molti greci non conoscono queste vicende.
Perché già nel 1948, con la rinuncia del governo a chiedere l'estradizione dei criminali
italiani, la questione si chiuse. I processi non furono mai istruiti. Anni dopo anche il
Tribunale di Larisa archiviò il caso. E di Domenikon resta la memoria di pochi, gente
semplice, poco rnediatica, come si dice oggi. E un tramonto rosa malinconico. Sopra il
villaggio, sopra la giustizia e la storia.
IN NOME DELLA REALPOLlTIK
colloquio con Filippo Focardi
Perché di Domenikon e dei massacri italiani in Grecia ancora oggi non si sa nulla?
Risponde lo storico Filippo Focardi dell'Università di Padova.
«Ci si lavora in pochi, più o meno dal 2000. Si è studiata abbastanza l'Africa orientale,
poco la Jugoslavia e la Grecia. Domenikon è a tutti gli effetti una strage sconosciuta».
Esiste una differenza tecnica tra strage italiana e strage tedesca?
«La differenza sostanziale, rispetto a Marzabotto, sta nel fatto che gli italiani trucidarono
solo i maschi sopra i 14 anni. Klinkhammer parla del "codice maschile della guerra". Se
vogliamo, Domenikon è paragonabile alla strage tedesca di Civitella Valdichiana, estate
1944».
Perché gli alleati protessero l'Italia dalle richieste sui crimini di guerra?
«Primo motivo: lo status internazionale dell'Italia, che si differenziò dalla Germania
dopo 1'8 settembre con il riconoscimento della cobelligeranza. Tutti i partiti italiani,
dalla Dc al Pci, già dal maggio 1944, chiesero che i criminali di guerra fossero giudicati
e puniti in Italia. Secondo: la politica degli angloamericani nella logica nascente della
Guerra fredda. La Gran Bretagna, che era intenzionata a punire gli italiani per i crimini
contro i prigionieri inglesi, col governo Attlee finì per proteggere Badoglio e la sua
cerchia. Washington era impegnata a procrastinare, circa le richieste greche e jugoslave,
118
dopo l'occupazione di Tito della Venezia Giulia, e gli inglesi si avvicinarono alle
posizioni Usa anche per non indebolire il governo italiano. Nel 1946, in vista del trattato
di pace, si impose una politica di stallo, con accordi diplomatici riservati».
Temporeggiò anche il governo De Gasperi rispetto all'estradizione dei criminali nazisti .
«Infatti. I criminali di guerra tedeschi processati in Italia, tra il 1947 e il 1962, furono
pochissimi: appena 13 sentenze. Il nostro governo volle evitare un'ondata di
procedimenti contro i tedeschi anche per proteggere i criminali italiani da un effetto
boomerang. In Francia vi furono centinaia di processi, in Olanda oltre 200, in Danimarca
77. In Italia non si ebbero sentenze capitali, l'ergastolo a Kappler, Reder e a un
contumace. E anche Mischa Seifert arriva tardi».
Le stesse autorità greche si arresero presto.
«Che io ricordi, l'unico criminale italiano processato dai greci fu Giovanni Ravalli, del
servizio informazioni della divisione Pinerolo, coinvolto nelle repressioni antipartigiane.
Arrestato. giudicato dal tribunale di Atene. condannato all'ergastolo nel 1946. si salvò
perché era stato compagno di scuola di Francesco Bartolotta, capo di gabinetto di De
Gasperi: grazie all'azione del governo italiano fu graziato dal re nel 1950. Nella memoria
collettiva greca i crimini italiani furono oscurati da due fattori: prima dalle atrocità
tedesche, poi dalla sanguinosa guerra civile».
E. A.
___________________________-
1939, mille morti in una foiba
Etiopia: quella strage fascista
mai raccontata
dal nostro inviato PAOLO RUMIZ
(Da Repubblica del 22 maggio 2006)
119
ADDIS ABEBA
FUCILATI dopo la resa o avvelenati con i gas nella grotta dove si erano rifugiati. Mille morti, come
minimo. Peggio di Marzabotto, perché non fu rappresaglia. Peggio di Srebrenica perché
morirono anche donne, vecchi e bambini. Unico paragone possibile, le foibe, ma con
un'esecuzione concentrata in un unico luogo. Le prove di un efferato crimine italiano
riemergono in Etiopia, 70 anni dopo la proclamazione dell'impero, gettano luce sinistra su
un conflitto che la nostra memoria ancora rimuove o traveste da scampagnata coloniale. Le
ha trovate in queste settimane Matteo Dominioni, 33 anni, dottore di ricerca dell'università
di Torino. Prima le carte, documenti inoppugnabili. Poi le ossa umane, nella grotta
dell'infamia, ancora avvolte da fosche leggende. La conferma definitiva di quanto avvenne
in quelle ore tra il 9 e 1'11 aprile 1939. Tutto comincia per caso, con un pacco di telegrammi
dimenticati in un faldone dal titolo «Varie» all'ufficio storico dello Stato maggiore dell'Esercito.
Dentro, un manoscritto senza firma, con una mappa della zona di Debra Brehan, 100 km a
Nord di Addis Abeba, nell'alto Scioa. Il contenuto, confermato da altri documenti, è
agghiacciante.
UNA carovana di «salmerie» dei partigiani di Abebè Aregai, leader del movimento di
liberazione, si è rifugiata in una grotta dopo essere stata individuata dall'aviazione
italiana, e non accenna ad arrendersi pur essendo circondata da un numero soverchiante
di uomini. La sproporzione è totale: le «salmerie» della resistenza etiope sono in
prevalenza vecchi, donne e bambini, parenti degli uomini in armi, che garantiscono la
cura dei feriti e il sostentamento dei partigiani alla macchia (ad Adua, mezzo secolo
prima, dietro ai 100 mila combattenti e'erano 80 mila persone di supporto).
120
La grotta ed alcuni poveri resti
L'ordine dei Duce è perentorio: stroncare la ribellione che perdura sulle montagne a tre
anni dall'ingresso di Badoglio ad Addis Abeba. Ma stavolta stanare i ribelli è
impossibile, così il 9 aprile la grotta viene attaccata con bombe a gas d'arsina e con la
micidiale iprite che devastò le trincee della Grande Guerra.
L'Italia ha firmato il bando internazionale di queste armi letali, ma ormai le usa in grande
stile su autorizzazione di Mussolini. Nella grotta il «bombardamento speciale» — gli
eufemismi sulle bombe intelligenti si inaugurarono allora — è portato a termine dal
«plotone chimico» della divisione Granatieri di Savoia, da sempre ritenuta una delle più
«nobili» delle nostre Forze Armate.
La notte dopo, una quindicina di ribelli armati tenta una sortita e riesce a scappare. Molti
cadaveri vengono gettati fuori dalla grotta. Gli altri muoiono avvelenati o si arrendono
all'alba del giorno 11. Ottocento persone, si legge nel documento, che il mattino stesso
vengono fucilate, «d'ordine del Governo Generale». Come dire del generale Ugo
Cavallero o dello stesso Amedeo di Savoia, pure lui di nobile reputazione. Un massacro,
contro ogni norma della convenzione di Ginevra. Ma non è finita. Dentro c'è chi resiste
ancora — uomini, donne e animali — e i nostri chiedono i lanciafìamme per
«bonificare» l'antro, ramificatissimo. I meticolosi telegrammi degli alti comandi sono
istantanee dall'inferno. «Si prevede che fetore cadaveri et carogne impediscano portare at
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termine esplorazione caverna che in questo sarà ostruita facendo brillare mine. Accertati
finora 800 cadaveri, uccisi altri sei ribelli. Risparmiate altre 12 donne et 9 bambini.
Rinvenuti 16 fucili, munizioni et varie armi bianche». La prevalenza di inermi disarmati
tra i ribelli è ormai chiara. In quegli stessi giorni, in un'altra grotta della zona, ne
vengono uccisi 62, di cui due donne. Ma vengono «risparmiate 62 donne et 58 bambini»,
poi sono «catturati 33 muli, 3 cavalli et 23 asini denutriti dal lungo digiuno», e
successivamente altri «27 uomini, 16 donne e 4 bambini».
Le prove, schiaccianti, entrano nella tesi di dottorato di Dominioni. Ma mancano ancora
i riscontri sul terreno, così il ricercatore organizza un blitz col supporto dell'Istituto
Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia. Va in Africa dove viene
accompagnato dal giovane studioso etiope Johnatan Sahle. Siamo a fine aprile, in tempo
per evitare le grandi piogge equatoriali. La mappa trovata allo Stato maggiore consente
di individuare facilmente la zona, a un giorno di macchina dalla Capitale, in un terreno
crivellato di grotte e punteggiato di chiese copte, attorno alla cittadina di Ankober, 2600
metri di quota, alta sulle valli dei fiumi Uancit e Beressà.
La zona di uno dei numerosi crimini della brava gente italica
E' dai preti dei villaggi che arrivano le prime conferme («non ottocento, ma migliaia di
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morti») e l'indicazione delle strada giusta, fino al paesino di Zemerò, e poi — per altri 30
chilometri fuori pista — fino al villaggio di Zeret, una ventina di tukul in pietra e paglia,
180 metri a picco sopra la bocca dell'inferno. Il nome della grotta dice già tutto:
Amezegna Washa, antro dei ribelli. Sotto, il fiume Ambagenen, che vuoi dire Fiume del
Tiranno. All'imboccatura, lo stesso muretto protettivo descritto nei rapporti dell'esercito
italiano. La gente del posto ha già elaborato magicamente l'evento, racconta che gli
scheletri trovati davanti alla grotta sono «caduti dal cielo come monito» e poi sono stati
spostati nella chiesa di Jigem, ora irraggiungibile perché infestata di briganti.
Dentro la caverna non c'è più andato nessuno, da allora. Si dice che sia piena di spiriti,
pronti a spegnerti la candela con un soffio per inghiottirti nel buio. Ma Dominioni ha una
dotazione di torce elettriche che nessun Grande Spirito può toccare, così molti giovani
del villaggio si fanno coraggio e decidono di accompagnarlo nella caverna, in una
missione scientifica che per loro diventa esorcismo. Dentro, un labirinto, in parte
impercorribile. Ma bastano i primi cento metri alla luce incerta delle torce per dare
conferme. «Ossa dappertutto — racconta il ricercatore — quattro teschi, di cui uno con
addosso la pelle della schiena; proiettili, vestiti abbandonati, ceste per il trasporto delle
granaglie». E poi rocce annerite, forse dai bivacchi (ma era difficile che i ribelli
accendessero fuochi il cui fumo li segnalasse all'aviazione italiana) o forse dai
lanciafiamme.
Gli italiani, raccontano i figli e i nipoti di chi vide, calarono verso l'imboccatura della
grotta dei pesanti bidoni che poi furono fatti esplodere con i mortai. Era quasi certamente
l'iprite, il gas che corrode la pelle e brucia le pupille. E ancora: chi non fu fucilato, fu
buttato nel burrone sotto la grotta. «Fu colpa degli ascari, le truppe indigene inquadrate
nell'esercito italiano» è l'obiezione ricorrente di fronte ai massacri in Abissinia. «Ma gli
ascari - ribatte Dominioni - non si muovevano mai senza l'ordine di un ufficiale bianco.
La ferocia di queste repressioni era anche il segno dell'esasperazione dei fascisti di fronte
alla resistenza degli etiopi. La rabbia per un controllo incompleto del territorio».
No, il camerata Kappler non fu peggio di noi. Il governatore della regione di Gondar,
Alessandro Pirzio Biroli, di rinomata famiglia di esploratori, fece buttare i capitribù nelle
acque del Lago Tana con un masso legato al collo. Achille Starace ammazzava i
prigionieri di persona in un sadico tiro al bersaglio, e poiché non soffrivano abbastanza,
prima li feriva con un colpo ai testicoli. Fu quella la nostra «missione civilizzatrice»?
L'Africa per noi non fu solo strade e ferrovie. Fu anche il collaudo del razzismo finito
poi nei forni di Birkenau. Negli stessi anni, un altro personaggio con la fama di
«buono»— Italo Balbo governatore della Libia — fece frustare in piazza gli ebrei che si
rifiutavano di tenere aperta la bottega di sabato.
Quanti perfidi depistaggi della coscienza. «Ambaradan», per esempio. Da noi è una
parola che fa ridere; vuoi dire «allegra confusione». Ma quando sai cosa accadde nella
battaglia dell'Amba Aradam, montagna fatale dell'Etiopia, quel termine sembra coniato
apposta per coprire l'orrore. Migliaia di tonnellate di iprite per stanare i nemici arroccati
nelle grotte, cioè morte orrenda, inflitta vigliaccamente con sofferenze inaudite.
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Badoglio fece agli etiopi ciò che Saddam fece ai Curdi. Solo che Saddam è alla sbarra, e
l'Italia non ha risposto dei suoi crimini.
«C'è bisogno di parlarne — spiega Dominioni—il vuoto storico e morale da riempire è
enorme. A ottobre sarà la prima volta che italiani ed etiopi dibatteranno insieme ad un
convegno, a Milano, sull'Africa orientale italiana sotto vari aspetti, organizzato
dall'Insmli. Prima non s'era fatto mai». La cosa, ovviamente, dà fastidio. Chissà che agli
etiopi non venga in mente di chiederci danni di guerra, cosa che finora non hanno fatto».
«Gli etiopi non hanno mai capito perché l'Italia ha voluto quella guerra dopo
innumerevoli trattati di pace, fratellanza e promesse di coesistenza pacifica» va giù duro
il professor Abebe Brehanu, uno dei massimi storici di Addis Abeba. «E che sia chiaro
— insiste — la vostra non fu una colonizzazione, ma una semplice invasione, contro
tutti i trattati internazionali. Un atto di illegalità totale di cui ci chiediamo ancora il
senso».
ALCUNE CONCLUSIONI DEDICATE AI BIPEDI
IMPLUMI ACEFALI
Non sono altro che alcune informazioni fondamentali per persone
pensanti ma, appunto, occorre essere pensanti. Come sappiamo i fascisti
non lo sono e danno giudizi senza mai preoccuparsi di informarsi. Il loro
cervello è piccino e vi sono pochi neuroni, tutti disastrati, molti zoppi e
quindi non in grado di trasferire informazioni. Bisogna accarezzarli e dir
loro sempre sì, in fondo sono come cagnolini sempre obbedienti al
padrone.
Riguardo al sindaco di Affile, Ercole Viri, probabilmente non sa chi
era anche Almirante. Per ricordarglielo parto un poco indietro nel tempo.
Quando Milano cadeva perché i partigiani la stavano via via
occupando tutta, Almirante scappò dal palazzo del potere in cui era
rifugiato, si travestì da partigiano con il foulard rosso al collo e scappò
verso il Sud d’Italia. Ora, o Mussolini era un quaquaraquà oppure ciò che
diceva aveva un senso. Ricordate il Se avanzo seguitemi e se indietreggio
uccidetemi ! ? Ebbene i partigiani che lo hanno catturato non hanno fatto
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altro che rendere onore alle sue volontà, lo hanno ammazzato anche perché
scappava con varie casse d’oro degli italiani verso la Svizzera. Un altro
fuggiasco era proprio Almirante, un noto massacratore della RSI che
firmava manifesti che condannavano alla fucilazione tutti coloro che
avessero collaborato con la Resistenza. Fu Terracini che cercò di farlo
arrestare ma un Parlamento imbelle fatto di democristiani e fascisti in
doppio petto lo ha impedito. Fare un monumento ad Almirante ed
intestargli una piazza può essere iniziativa solo di un paesino sperduto di
una Repubblica delle Banane. Occorre inviare giornalisti e fotografi e
fotografare alcuni strani abitanti della Repubblica.
In questa Repubblica delle banane il Presidente è appeso ad una liana
e si dondola senza sapere nulla del mondo in cui vive. Così Graziani
sarebbe una brava persona ? Uno assolto dal crimine di collaborazionismo
con i tedeschi. Bravo l’umano sulla liana ! E’ uno che sa tante cose ! Solo
che Graziani non ha commesso crimini contro l’umanità perché ha
collaborato con i tedeschi ma per altro, per moltissimo altro che in queste
pagine è raccontato. Può darsi che ad un fascista le cose dette non facciano
impressione, infatti sono crimini contro l’umanità e non contro quelli della
Repubblica delle banane.
Ma il sindaco che tra un’oscillazione ed un’altra della liana adocchia
qualche notizia ci racconta di foibe e massacro degli italiani d’Istria.
Poverino, non ne azzecca una. Ma poiché occorre salvare dal degrado tanta
persona occorre raccontargli come stanno le cose.
FOIBE: GLI ASSASSINI RECLAMANO LA
MEMORIA
www.fisicamente.net
Tanti anni fa, nel 1945, le brigate di Tito in Jugoslavia, si liberarono dal nazifascismo
senza alcun intervento di qualche potenza esterna. Da soli, dopo anni sulle montagne
e soggetti alle violenze criminali degli occupanti sostenuti da una Chiesa fascista,
quella di Beato Stepinac, riuscirono a cacciare gli occupanti. Chi erano in dettaglio
questi ultimi ? Tedeschi ed italiani che misero in piedi 22 campi di concentramento
per sterminare i serbi, gli zingari, gli ebrei, i gay, ... ogni persona che puzzasse di
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antifascismo o risultasse diversa. Da questa operazione che tra gli italiani era guidata
da generali e da ladri come Gelli che si addestrava alla professione rubando lingotti
d'oro alla Banca di Belgrado.
Nei campi di sterminio nazisti e fascisti, dove si veniva ammazzati anche da una
mazza spaccapietre che ti colpiva sul cranio sfondandolo, furono fatte fuori 800 mila
persone gettate in fosse comuni (vedi: http://www.fisicamente.net/MEMORIA/index-612.htm ,
http://www.fisicamente.net/MEMORIA/index-299.htm,
http://www.fisicamente.net/MEMORIA/index-52.htm).
La
Jugoslavia ebbe nella Seconda Guerra Mondiale ben 1 milione e 400 mila morti civili
(e 300 mila militari), l'11 per cento della popolazione. E l'Italia, uno dei Paesi che
aveva scatenato i massacri, solo 400 mila morti di cui 80 mila civili per un totale
dello 0,9 per cento della popolazione (sempre furbi !).
Mano a mano che avanzava la sconfitta dei criminali, i tedeschi si ritirarono verso
Nord mentre gli italiani scapparono verso Ovest inseguiti dalle brigate di Tito furiose
per i 4 anni di crimini e violenze che avevano dovuto subire. I primi italiani li
incontrarono in Istria e nei territori ex italiani della Dalmazia. La furia era
incontenibile e gli italiani erano tutti uguali, tutti nemici acerrimi da sterminare. Ne
presero a caso, li gettarono, alcuni ancora vivi, in fosse carsiche presenti nel
territorio, le foibe. In totale questo secondo orrore comportò secondo la maggioranza
degli storici dagli 8 mila ai 10 mila ammazzati.
Questi i fatti che la retorica bolsa degli italiani brava gente non ha mai voluto
riconoscere, Solo pochi storici ne hanno scritto ma le cose che documentavano non
avevano alcuna risonanza perché gli italiani continuavano ad essere brava gente. A
questa retorica si è associato anche Napolitano quando ha esaltato in modo
commosso le vittime che sarebbero state della barbarie degli jugoslavi. Vi fu la
protesta del Presidente della Slovenia ma Napolitano aveva ed ha certezze incrollabili
che discendono dalle amicizie anticomuniste dei tempi miglioristi. E la storia non è
maestra di nulla con i fondamentalisti.
I fascisti, la loro parte più ottusa (quasi tutti), esaltano la festa del 10 febbraio.
Eppure grazie ad altri storici come Del Boca abbiamo appreso delle stragi che i nostri
fulgidi eroi al comando di Roatta, Graziani ed altri banditi hanno fatto in Africa. I gas
che ammazzavano insieme all'Iprite, un napalm allo stato brado, contro popolazioni
inermi per dare un impero al Duce esercitandosi nel razzismo mai morto in quei
banditi (poveri diseredati italiani potevano e possono finalmente sentirsi superiori a
qualcuno ...).
Quindi tutti felici e tra memorie e contromemorie non ve n'è mai una che ricordi il
sacrificio di migliaia di partigiani che hanno ridato la libertà (oggi gravemente offesa)
a questo Paese.
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Ma noi stiamo vivendo in diretta un falso continuo giornaliero e quindi non dobbiamo
stupirci. Cosa è altrimenti la telenovela dell’ex buon Presidente del Consiglio che è
vittima di magistrati cattivi ? Mai nessuno ha avuto tanti processi come me, dice ! Ma
nessuno gli dice che forse è perché mai nessuno con tanti crimini da verificare si è
azzardato ad assumere il potere.
Ed ora sindaco, se impara la lezione può scendere dalla liana. Altrimenti resti
pure lì, ce ne faremo una ragione e continueremo la nostra grama vita senza il suo
pendolare. Un’unica avvertenza non spenda i soldi pubblici per sciocchezze m pensi
ad un asilo, ad un ambulatorio, a cose utili a tutti … Ma già, da lassù lei non è in
grado di vedere ….
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