luca raffini
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La democrazia deliberativa come risposta alla crisi della partecipazione? Luca Raffini 1. Mutamento della politica e sperimentalismo partecipativo istituzionale I cittadini non partecipano più come qualche decennio fa. L’orizzonte sociale e politico, in un contesto di individualizzazione delle esperienze di vita, si chiude nella sfera privata e alimenta un’ipertrofia della dimensione pubblica. I partiti perdono sempre più la loro funzione di raccordo tra cittadini ed istituzioni e soffrono una crisi di consenso e di partecipazione. La crisi delle organizzazioni di rappresentanza, e quindi dei soggetti chiamati a svolgere una funzione di intermediazione tra società ed istituzioni, si riflette in un crescente distacco delle istituzioni dai cittadini, indebolendone legittimità e capacità di governo. Non si tratta di un incipit originale. Al contrario, queste prime righe costituiscono una premessa comune a molti articoli e libri dedicati al tema della partecipazione, raffigurando un quadro comune a tutte le democrazie avanzate ma che in Italia trova una sua declinazione particolare, per via delle peculiarità del suo percorso di difficile e incompleta democratizzazione. Il crollo del Muro di Berlino ha favorito lo scongelamento delle tradizionali ideologie ed eroso le basi del voto e delle forme di partecipazione legate all’appartenenza. Queste sono state - insieme a quelle clientelari storicamente molto forti in Italia, e si sono cristallizzate in subculture territoriali che hanno garantito una integrazione politica e sociale “particolare” che ha compensato la debolezza della cultura democratica e il mancato sviluppo di una “religione civile” (Bollati 1983, Tullio Altan 1995). L’erosione delle ideologie e delle appartenenze, più che a un’unificazione nazionale mai pienamente compiuta, ha favorito una prepotente riemersione del mai sopito particulare, che si esprime politicamente nel trasformismo, nel clientelismo, nell’utilizzo del pubblico a fini privati. Tutti fenomeni che si sono fusi nel determinare una degenerazione partitocratica della democrazia italiana e il conseguente clima di sfiducia nei confronti di partiti che, paradossalmente, aumentano il proprio potere nello Stato al tempo stesso che perdono risorse nella società, in termini di consensi e di membership. “Mani Pulite” ha costituito il detonatore che ha radicalizzato la crisi dei partiti e la delegittimazione del ceto politico, e, agendo congiuntamente allo scongelamento della frattura politica che, sin dal dopoguerra ha creato nel nostro paese le basi per una “democrazia bloccata”, ha determinato uno sconvolgimento del sistema politico italiano. Ciò ha teoricamente aperto la strada alla costruzione di una fase politica nuova, fondata sullo sviluppo di nuovi soggetti politici, sulla riconfigurazione dei rapporti tra cittadini e istituzioni e delle forme della rappresentanza, sulla trasformazione dei processi di legittimazione del ceto politico. Al tempo stesso, nei fatti, ha riportato al centro del dibattito l’irrisolta questione della debole integrazione nazionale e della fragilità della pratica democratica, al punto che la scomparsa o la trasformazione dei partiti della prima repubblica ha visto la nascita di partiti regionalisti, populisti e personalisti, che hanno caratterizzato la traiettoria della cosiddetta “seconda repubblica”. A venti anni di distanza da quella fase, la fase di transizione non sembra ancora terminata, e gli assetti politici e istituzionali sono tutt’altro che definiti, così come la configurazione dei partiti. La lunga – e non conclusa – fase di transizione ha comportato profondi mutamenti nel circuito della rappresentanza e, più in generale, nelle forme di raccordo tra società e sistema politico. La scomparsa dei partiti di massa e la delegittimazione del ceto politico si sono riflessi nella ricerca di leader forti e riconosciuti, sia a livello locale sia a livello nazionale e nello spostamento del consenso dai politici di professione verso personalità provenienti dalla società civile. L’indebolimento del ruolo dei soggetti politici collettivi conduce a una percezione di “svuotamento” della politica, che trova completamento nel progressivo spostamento delle sedi decisionali dagli 1 organi elettivi verso altre dimensioni - per esempio gli organismi sovranazionali, non direttamente legittimati - e nella progressiva riduzione dei margini di intervento politico a favore del mercato. Il declino della partecipazione, sembra costituire un naturale corollario di una generale depoliticizzazione della società. A ben vedere il quadro odierno si è via via arricchito e articolato, acquisendo una crescente complessità. Più che di una scomparsa della politica, possiamo parlare oggi di una sua trasformazione qualitativa, che comporta una radicale ridefinizione dei significati e delle forme della partecipazione. Se partecipare significa attivarsi, individualmente o collettivamente, in una pluralità di forme (più o meno convenzionali) per contribuire a trasformare la società (Raffini 2011), il minore tasso di partecipazione al voto, la minore iscrizione a partiti e sindacati e l’atteggiamento di critica nei confronti delle istituzioni non si traducono necessariamente in una minore attivazione generale dei cittadini, ma in uno spostamento del loro interesse, della loro passione, della loro energia, verso nuovi spazi e nuovi strumenti. Associazioni, movimenti, comitati, sempre più riescono ad intercettare le istanze partecipative, in particolare dei giovani, a scapito dei soggetti politici tradizionali. Il “cittadino critico” (Norris 1999), interessato alla politica ma svincolato dalle ideologie e non deferente verso l’autorità, non manifesta la sua adesione ai valori democratici esprimendo consenso verso le istituzioni, ma, al contrario, esprimendo il suo dissenso, in nome di una piena democratizzazione della società, soprattutto quando ritiene che la politica istituzionale sia autoreferenziale e non rappresenti i reali bisogni dei cittadini. L’ampliamento della possibilità di informazione - anche grazie alle nuove tecnologie digitali - e l’aumento delle risorse cognitive e culturali dei cittadini aprono la possibilità di una forma di partecipazione che compie il distacco dalle liturgie e dai riti di appartenenza propri del partito di massa, per ricomporsi in forma individualizzata e pluralizzata. Si dice a proposito che i cittadini, oggi, si orientino sempre di più verso forme di partecipazione single-issue, se non single-event. Oggi si può fare politica anche al di fuori dei confini del sistema politico, per esempio attraverso pratiche come il consumerismo politico. Più che di crisi della politica possiamo quindi parlare di crisi della politica istituzionale, quale conseguenza di uno “sfasamento culturale” (Loader 2007), di un’incapacità di comunicazione e di interazione tra mondi che sembrano a volte parlare lingue diverse: quello della “politica dal basso” e quello della politica istituzionale, coincidente con il circuito della rappresentanza e i suoi attori: i partiti, l’arena elettorale, le istituzioni rappresentative. La crisi della politica istituzionale “ricomprende, ad un tempo, la crisi di rappresentazione, come crisi della vita pubblica, la crisi del sistema rappresentativo, ossia di quell’assetto di collegamento stabile tra cittadini e governanti che ha provocato una crisi del parlamento e dei partiti, e la crisi di rappresentatività, ossia di corrispondenza tra rappresentanti e rappresentati, che determina apatia e astensionismo elettorale” (Sampugnaro 2011, p. 20; cfr. Melchionda 2005). A livello di opinione pubblica, il crescente divario tra i bisogni e gli interessi dei cittadini e le dinamiche autoreferenziali di riproduzione delle élite al potere ha preso la forma di un movimento di protesta contro la “casta” e di un crescente sentimento antipolitico (Mastropaolo 2005), che possiamo genericamente definire come un atteggiamento critico nei confronti della politica come spazio istituzionale di governo della società. L’antipolitica si nutre dell’idea che vi sia un ormai insanabile divorzio tra i problemi, i bisogni e le richieste dei cittadini e le dinamiche autoreferenziali dei partiti e dei rappresentanti eletti, in altre parole tra la quotidianità della vita sociale e le dinamiche del sistema politico, che svuota di significato il principio di rappresentanza. Tale sentimento può assumere una forma passiva o attiva. Nel primo caso si esprime nella forma di apatia, disinteresse, qualunquismo. Nel secondo caso non afferma un rifiuto della politica tout court, ma di un particolare assetto della politica, dei suoi attori, delle sue modalità, e assume, in particolare, un connotato antipartitico, contrapponendo alle degenerazioni del sistema partitico la politica “vera”, sviluppata nell’ambito della società civile. L’antipolitica intesa come antipartitismo, ovvero la sfiducia nei confronti dei politici di professione e del sistema partitico, cui si contrappone la “vera democrazia” dei cittadini auto2 organizzati ha trovato oggi piena espressione nell’affermazione del Movimento 5 stelle (M5S), che ha il suo punto di riferimento nella figura di Beppe Grillo. Il M5S esprime una piena delegittimazione nei confronti dei partiti, della loro struttura, dei loro processi di selezione del ceto politico, della prassi di gestione del potere da parte degli eletti, e delle forme di finanziamento della politica. Si autodefinisce un “non-partito”, privo di strutture gerarchiche e che pone al centro la deliberazione dei cittadini online. I programmi del movimento, a livello territoriale, sono definiti dagli iscritti ai meet-up, i gruppi locali di discussione, cui i rappresentanti eletti nelle istituzioni sono rigidamente vincolati, al punto di essere sottoposti a verifica del proprio operato e ad eventuale sfiducia con scadenza regolare. Ciò in coerenza con l’idea che gli eletti non debbano essere politici di professione, ma cittadini candidati in base al proprio curriculum e alla propria integrità morale e penale, che debbano rimanere in carica per un periodo limitato, e che debbano considerarsi “dipendenti” dei cittadini. Si tratta di una concezione del ruolo del partito e degli eletti che solleva delicate questioni, in merito alla natura del vincolo di rappresentanza, all’autonomia della politica, al ruolo stesso dei partiti e dei loro leader. Rimandando ad altri contributi per un’analisi delle contraddizioni, delle aporie e delle problematicità connesse alla costruzione di un partito-non partito (Fornaro 2012), e alla caratterizzazione del M5S come ambito di sperimentazione di nuove forme di democrazia o come fenomeno populista (Miani 2007), ciò che interessa in questa sede è che una simile proposta politica ha, a partire dalle elezioni amministrative del 2010, ottenuto un crescente consenso, al punto di esprimere un proprio sindaco in una città come Parma e di diventare il primo partito in Sicilia, nelle elezioni regionali del 2012, raccogliendo un ampio consenso da parte di cittadini sfiduciati nei confronti dei partiti tradizionali. Ma quali sono le dinamiche che hanno condotto i partiti politici ad essere considerati, da protagonisti fondamentali della vita democratica di un paese, a organizzazioni chiuse ed autoreferenziali, la cui azione costituisce un vincolo, più che una risorsa? La risposta la troviamo nel processo di trasformazione dei partiti (Viviani 2011), da partiti di massa, ancorati ad un’ideologia e a una base forte di riferimento, a partiti “pigliatutto” (Kircheimer 1979), che si rivolgono cioè a tutti i cittadini e nel mutamento organizzativo dei partiti verso la forma del “partito leggero”. I partiti di massa erano organizzazioni radicate nella società, che si definivano per una forte identità collettiva, di classe o religiosa, e che, anche grazie alle associazioni collaterali, modellavano la vita sociale e politica dei propri iscritti “dalla culla alla tomba”. Ancora prima che strumento di selezione dei rappresentanti, erano agenti di socializzazione, costruttori di identità e strumenti di integrazione. Il superamento di questa forma partito a favore del partito “pigliatutto” si ha a seguito dei processi di mutamento sociale, e in particolare con il crollo delle ideologie, l’individualizzazione, la pluralizzazione e la crescente complessità sociale, la riduzione del voto di appartenenza e (teoricamente) l’affermazione del voto di opinione, che hanno spinto i partiti non più a identificarsi con un segmento della società, ma a competere per il voto di tutti i cittadini. La caratterizzazione dei partiti come organizzazioni che, in una logica di mercato, si contendono il voto degli elettori, infatti, afferma la centralità della strategia dell’exit su quella della voice (Hirtshmann 1970). Secondo la logica dell’exit, chi non è soddisfatto della proposta politica di un partito o ne è deluso, ha la libertà di votare per un altro partito, mentre la logica della voice prevede che il partito sia l’ambito della discussione, del confronto e anche del conflitto tra idee diverse, pur all’interno di una visione generale della società condivisa. Il risultato dell’ipertrofia degli spazi di espressione della voice ha condotto a una diluizione delle differenze, in nome della massimizzazione del consenso. Ma ha prodotto anche un altro fenomeno. Concependosi come concorrenti nel mercato politico, i partiti vivono una progressiva diminuzione della membership, dei quadri intermedi e dei militanti, al punto che nel “cartel party” (Kats, Mair 2002, 126) lo stesso partito finisce per coincidere con i leader, che affermano un rapporto diretto con gli elettori, tramite i mass media. Ciò altera profondamente il ruolo dei partiti quali strumento di mediazione e di raccordo tra società ed istituzioni, ponendo il problema di una crisi del loro ruolo istituzionale. Sempre meno radicati a livello di base, i partiti hanno spostato il proprio baricentro verso la dimensione istituzionale. I “party on the ground” diventano “party in public office” (ivi), i cui 3 legami con il territorio sono sempre più ridotti. A fronte di un indebolimento del proprio radicamento nella società, la gestione del potere diventa un obiettivo funzionale alla propria sopravvivenza, prima che una risorsa per governare e trasformare la società. Ciò al punto di abbandonare la funzione di mediazione sociale per diventare delle sorti di semi-agenzie statali (Raffini, Viviani 2011). È compiendo questa trasformazione che i partiti sempre meno assolvono la loro funzione di anello di congiunzione tra società e istituzioni, di aggregazione e filtro delle domande sociali e di loro trasformazione in un disegno organico di rappresentanza (Pizzorno 1996) e ancor meno si pongono come spazio di discussione aperta ai cittadini. Si crea dunque un vuoto tra cittadini e istituzioni politiche, che è colmato da imprenditori della protesta e da leader populisti, che si appellano cioè alla loro capacità di porsi in connessione con i cittadini e di rappresentarne i veri bisogni. Ma le risposte populiste danno sfogo ai sentimenti antipolitici in una forma che aggrava ancor di più lo sfibramento del dibattito pubblico. Populismo e antipolitica colmano il vuoto di rappresentanza offrendo ai cittadini solo l’illusione di un ritorno della politica, coprendo il vuoto creatosi nel circuito della rappresentanza con simulacri di partecipazione, ma contribuiscono nei fatti ad aggravare lo scenario postdemocratico (Crouch 2003), definito da un indebolimento della presenza dei partiti nella società e del loro appiattimento sul versante istituzionale, dell’erosione dei legami verticali con la base e dell’aumento delle relazioni opache tra leader politici e leader economici, della disaffezione politica dei cittadini. L’agire congiunto dei processi sopra descritti converge nel determinare la crisi del dibattito pubblico, vero e proprio luogo costitutivo della democrazia, sottraendo ai cittadini, soprattutto a quelli meno dotati di risorse, gli strumenti di dibattito e di mobilitazione. Una società complessa e differenziata, incapace di offrire strumenti collettivi di integrazione politica, si espone al rischio di un’atomizzazione sociale, che riserva l’accesso all’arena politica a chi è capace di autorappresentarsi, e quindi a una minoranza dei cittadini. Diventa, in poche parole, una società democraticamente povera. Vale la pena riportare quanto scrive Viviani a proposito: “Una società di questo tipo non fa a meno della politica, ma richiede alla politica stessa una nuova capacità di rappresentanza collettiva. Una democrazia esposta alla polverizzazione degli intermediari tradizionali non può, infatti, difettare di forme di aggregazione e di rappresentanza degli interessi, di culture politiche, di organizzazioni territoriali di partecipazione, della formazione e del ricambio della classe dirigente. Nonostante il lamento della crisi, ancora nessuno ha dimostrato come è possibile il funzionamento di una democrazia senza i partiti. Affermazione che non equivale al dato per cui la democrazia deve essere ‘dei partiti’, e la partecipazione unicamente strutturata ‘dai partiti’. La sfera pubblica riaperta, sia nelle dinamiche di accesso verticale alla sfera decisionale, sia in quelle orizzontali di partecipazione politica, si è arricchita, anche in Italia, di nuove forme e contenuti dell’agire collettivo. Tuttavia, perché continua a crescere il dato della sfiducia nei confronti dei partiti? In Italia, come nel resto delle democrazie europee, la crisi dei partiti porta con sé il paradosso di soggetti al contempo troppo deboli nella società e troppo forti nelle attribuzioni di potere. E al tempo stesso si chiede non solo la democrazia dei partiti, ma la democrazia nei partiti” (cfr. Raffini, Viviani 2011, p. 28). È proprio come risposta proattiva alla parabola postdemocratica che osserviamo, da anni, una crescente volontà riformatrice da parte di partiti ed istituzioni, impegnati nella costruzione di nuovi canali di confronto, comunicazione e partecipazione che riescano a invertire il circuito dell’antipolitica, riportando la centralità della “buona politica”. Gli strumenti utilizzati a tal proposito sono le primarie (Gelli, Bolgherini 2011), a livello dei partiti e una pluralità di strumenti di democrazia partecipativa e deliberativa, a livello amministrativo (Freschi, Raffini 2010). Le prime hanno la funzione di riattribuire ai cittadini la sovranità in merito alla selezione del ceto politico (sia per quanto riguarda la classe dirigente dei partiti sia in merito alla definizione delle candidature). Gli strumenti della democrazia partecipativa e deliberativa si pongono l’obiettivo di aprire nuovi canali di coinvolgimento dei cittadini nella definizione delle scelte amministrative, integrando quindi il principio della rappresentanza con forme di partecipazione diretta ai processi decisionali. 4 È nostra opinione che se la questione principale da ridefinire è quella della connessione tra politica dal basso e circuito della rappresentanza e della partecipazione dei cittadini alla definizione dell’agenda e del programmi politici, sia le primarie sia i processi di partecipazione amministrativa possono innescare dinamiche virtuose ma nessuno di questi strumenti, se non integrato in un disegno più ampio, può rappresentare una soluzione, e anzi, in entrambi i casi gli strumenti possono servire un ampliamento della partecipazione ma anche strategie di controllo. Le primarie si concentrano sulla scelta dei leaders, più che sulla costruzione dell’agenda politica - per quanto ovviamente la scelta dei candidati sia legata al programma da loro espresso – e possono favorire una “partecipazione atomizzata” (Hopkin 2001) e di facciata, che consente ai leader di rafforzare il controllo sul partito, al tempo stesso costruendo consenso (Sampugnaro 2011). Anche i processi di partecipazione amministrativa, come vedremo, presentano questo duplice volto, in quanto la loro attivazione può favorire la costruzione del consenso sulle scelte di governo da parte delle amministrazioni, consentendo loro di imbrigliare la partecipazione spontanea in forme maggiormente controllabili. Al di là di questo possibile uso degli strumenti per scopi strumentali, appare evidente che, proprio in quanto promossi dalle amministrazioni, questi si pongono a valle del confronto tra programmi di governo e di selezione dei rappresentanti, ovvero in una fase in qui strategie, priorità e linee programmatiche di base sono già state definite. Se l’elaborazione dei programmi non è avvenuta in modo partecipato, la realizzazione di processi di partecipazione da parte delle amministrazioni non colmerà questa lacuna, in quanto la partecipazione sulla definizione delle policy è diversa dalla partecipazione alla definizione dell’agenda politica prima delle elezioni. Le primarie e i nuovi strumenti di partecipazione amministrativa svolgono una serie di funzioni tradizionalmente svolte dai partiti: il confronto e il dibattito pubblico, l’integrazione degli interessi, la formulazione di progetti e proposte di governo, la selezione del ceto politico, ma né le primarie né i processi di partecipazione ai processi decisionali possono sostituire il ruolo dei partiti, ed in particolare la partecipazione dei cittadini alla definizione dei modelli di società. In questa sede approfondiremo le virtù e i limiti dei processi di democrazia partecipativa e deliberativa di tipo istituzionale, a partire dalla premessa che l’introduzione di questi processi, in questa fase politica, può contribuire in maniera importante alla generazione di dinamiche virtuose, ma a patto che questi non siano caricati di finalità e di significati che non possono rispettare. I processi di partecipazione e deliberazione possono creare canali di coinvolgimento non mediato alle istituzioni, ampliare gli spazi di dibattito e di confronto tra i cittadini e tra questi e gli amministratori, intercettare le richieste e i bisogni dei “cittadini critici” e in generale dei cittadini impegnati in forme di partecipazione dal basso, ricreare quindi la connessione tra politica istituzionale e politica dal basso, favorire dinamiche virtuose di creazione di capitale sociale e di sviluppo di una cultura politica partecipativa. Ma quanto queste proposte riformatrici riescono ad intercettare le richieste e i bisogni espressi dai “cittadini critici” e quanto rispondono ad esigenze interne alle amministrazioni e ai leader dei partiti? Quanto sono finalizzate alla governabilità e quanto all’attivazione di processi genuinamente partecipativi? Quanto realmente riescono a riconnettere istituzioni e società? E soprattutto, possono essere pensati come strumenti di riforma della politica nel lungo periodo, e quindi come strumenti integrabili a titolo organico in una nuova prassi di governo, o sono sperimentazioni di breve periodo, utili per sperimentare nuove modalità di partecipazione in un contesto di crisi degli strumenti tradizionali? Nel presente capitolo si cercherà di dare alcune risposte a queste domande, fornendo un bilancio sintetico delle esperienze realizzate e indicando a quali condizioni l’apertura di nuovi canali di partecipazione e deliberazione riesce a favorire una virtuosa dinamica di reciproco apprendimento tra cittadini e istituzioni, che consenta ai primi di esprimere la loro voce e di cooperare attivamente al governo del proprio territorio, alle seconde di accrescere la legittimità e di approdare a decisioni più efficaci. 5 2 L’evoluzione della governance locale in Italia La crisi dei partiti e degli assetti istituzionali della prima repubblica alimenta un crescente clima di protesta antipolitica che sfocia in un vasto movimento di opinione che, negli anni Novanta, chiede profonde riforme istituzionali, in chiave antipartitocratica. La Legge 241/1990 di riforma le autonomie locali e l’elezione diretta del Sindaco (Legge 81/1993), fanno da preludio alla stagione dei “nuovi comuni” (Catanzaro et al. 2002). Ne consegue un nuovo stile di governo, fondata sulla centralità della figura del sindaco, che svela presto i limiti di una “illusione decisionista” (Paci 2008), che, in nome dell’efficacia dell’azione di governo, acuisce la sensazione di una chiusura degli spazi democratici. Si fa strada la consapevolezza della necessità, da parte delle istituzioni, di introdurre nuove forme di raccordo con i cittadini e la società civile, che possano compensare l’indebolimento delle funzioni tradizionalmente svolte dai partiti, creando inediti canali di mediazione tra il ceto politico e i nuovi soggetti collettivi che sempre più si rivelano in grado di intercettare la partecipazione sociale e politica: associazioni, movimenti, comitati di quartiere. Si sperimentano quindi strumenti innovativi, che attribuiscono agli amministratori locali un ruolo diverso rispetto a quello del decisore solitario, trasformandoli in “registi” di inedite forme di governance territoriale allargata (Bobbio 2002, Vicari 2001)1, in linea con l’impulso dato dalla riforma dell’Articolo V della Costituzione, che pone una forte enfasi sul principio di sussidiarietà, sia verticale (cioè sulla devoluzione di poteri verso i livelli amministrativi più vicini ai cittadini) sia orizzontale (promuovendo le virtù di un’amministrazione condivisa tra istituzioni, soggetti privati e terzo settore). La questione della necessità di rivitalizzare la democrazia tramite nuovi strumenti di coinvolgimento di cittadini e stakeholders trova spazio, nello stesso periodo, in una serie di documenti prodotti da organismo sovranazionali, dalle Nazioni Unite alla OCSE. Dalla Banca Mondiale al FMI. A livello europeo documenti di riferimento in tal senso sono il Libro bianco per una governance europea (2001) e, in seguito, il Piano D per la democrazia, del 2007, che pone le fondamenta per un pieno utilizzo delle potenzialità offerte dalla rete per implementare processi di consultazione e di partecipazione online (Bozzini 2010). Gli esiti delle prime sperimentazioni implementate in Italia hanno tuttavia condotto a esiti limitati, sul piano della qualità e della quantità della partecipazione quanto sul piano dell’impatto sul processo decisionale. Strumenti come i Piani strategici ed i Patti territoriali non sono riusciti a scostarsi significativamente dai tradizionali strumenti di concertazione, si sono rivolti prevalentemente alla partecipazione degli stakeholders. Il coinvolgimento è risultato selettivo, ha intercettato i portatori di interesse ma non i cittadini comuni. Con il nuovo millennio inizia la sperimentazione di strumenti di partecipazione finalizzati al coinvolgimento di un pubblico più ampio, quali le Agende 21 locali e i Bilanci Partecipativi. Quest’ultimi si propongono di integrare i canali della democrazia rappresentativa con spazi di partecipazione diretta dei cittadini, cui si dà la possibilità di decidere sull’allocazione di una parte del bilancio comunale, tramite un processo fondato su momenti di discussione, definizione delle 1 Il paradigma della governance indica uno spostamento della legittimità delle decisioni dall’input (una decisione è legittima perché il decisore politico è legittimato ad assumere la decisione) all’output (una decisione è legittima se efficiente/efficace), dalle procedure ai risultati, ossia, dalla legittimazione democratica dei decisori alla valutazione dell’efficienza e dell'efficacia delle singole decisioni (Bifulco 2008). La governance apre nondimeno la porta ad un terzo tipo di legittimità, quella di tipo processuale, per cui a determinare la legittimità delle decisioni contribuisce la qualità del processo, ovvero la sua inclusività e la sua qualità interattiva (Sharpf 1999). In seno a questo paradigma sembra schiudersi dunque la possibilità di una democrazia in cui il principio della rappresentanza si arricchisce di nuove possibilità di coinvolgimento diretto di una pluralità di soggetti, dagli stakeholder ai cittadini comuni, che contribuiscono al governo della società attivandosi in forma diretta e con modalità innovative in processi di decision-making allargati, interattivi ed orizzontali. Ciò comporta un mutamento radicale del ruolo e del funzionamento dei governi locali. Questi, secondo il principio della sussidiarietà verticale, sono oggi il terminale di prossimità di una governance multilivello, che a sua volta, secondo il principio della sussidiarietà orizzontale, coinvolge soggetti pubblici, privati e del terzo settore, aprendo la porta a una partecipazione diretta ai processi decisionali di tutti i soggetti interessati. 6 priorità e voto. A fronte dell’entusiasmo che ha accompagnato la loro sperimentazione, gli esiti concreti delle esperienze avviate sono stati tuttavia deludenti, e al momento di tracciare un bilancio possiamo affermare che salvo poche felici eccezioni, l’introduzione di simili pratiche partecipative non è riuscita nel realizzare l’ambizioso obiettivo di integrare i tradizionali canali della democrazia rappresentativa con forme di democrazia partecipativa. Rimandando ad altri studi per una riflessione approfondita sulla stagione dei BP (Sintomer, Allegretti 2009), è utile sintetizzare i loro principali elementi di debolezza. 1) Sul piano dei partecipanti, l’incapacità di coinvolgere se non una minoranza della popolazione (generalmente attorno all’1% della popolazione), solitamente già socialmente e politicamente attiva, e in particolare le difficoltà ad attrarre le categorie tradizionalmente meno inclini ad esprimere pubblicamente la propria voce, quali donne, giovani, immigrati. Il metodo della “porta aperta” (Bobbio, Pomatto 2008), che si limita cioè ad aprire uno spazio a tutti i cittadini interessati, finisce per favorire processi di “autoselezione”, il cui esito è la sovra rappresentazione del seguente profilo: anziano, maschio, di istruzione media o medio-alta, politicamente attivo. 2) Sul piano della qualità dell’interazione, la scarsa attenzione posta sulla strutturazione dei processi e sulle tecniche di facilitazione, finisce per ricondurre l’esperienza ad un assemblearismo classico, in cui i partecipanti più abituati a parlare in pubblico riescono a influenzare l’andamento delle discussioni, spesso introducendo atteggiamenti strumentali (le associazioni più grandi portano all’assemblea i loro soci per orientare le decisioni, ecc). Gli esiti del processo infine, sono determinati a seguito del tradizionale meccanismo del voto, cui partecipano, in molti casi, anche cittadini che non hanno preso parte alle assemblee, contribuendo così ulteriormente ad attenuare il principio della partecipazione diretta. 3) Un’importante problematica riguarda infine il versante politico-amministrativo. Raramente l’apertura del canale partecipativo è frutto di un investimento condiviso da parte dell’amministrazione, e non di rado si verificano contrasti se non forme più o meno velate di boicottaggio da parte di assessori, consiglieri, dirigenti, timorosi di subire una perdita di potere. L’incapacità di adeguare le strutture amministrative, sul piano procedurale e comunicativo, alle esigenze di un percorso di partecipazione che richiederebbe trasparenza, apertura, dialogo, non contribuisce a rendere la partecipazione una prassi piuttosto che un’eccezione. 4) Infine, lo stesso principio cu sui si fonda il BP ne costituisce un limite. Riservando la partecipazione alla definizione delle priorità riguardo una quota ristretta del bilancio comunale, solitamente in materia di investimenti straordinari (la realizzazione di un parco pubblico, delle piste ciclabili, di un centro giovani, ecc), il BP non apre la partecipazione alle scelte strategiche di un comune, e non tocca, per esempio, la definizione degli investimenti ordinari (anche per via delle crescenti riduzioni ai bilanci che vincolano le spese ai capitoli fondamentali). Nei casi più critici, la separazione tra strategia partecipativa su una dimensione e prosecuzione delle più tradizionali pratiche di governo (spesso poco trasparenti) su altre, spesso più rilevanti, rischia, oltre che ottenere scarsi effetti sul piano pratico e simbolico, di alimentare la sensazione di un ricorso strumentale alla partecipazione, come espediente retorico che sposta l’attenzione dalle reali sedi decisionali. In anni ancora più recenti è fiorita una nuova stagione di sperimentalismo, che si è dotata di strumenti più raffinati, con l’ambizioso obiettivo di coniugare obiettivi che in molte occasioni sono sembrati porsi in contraddizione: efficacia e legittimità delle decisioni; inclusività e qualità dell’interazione. La parola chiave che caratterizza il nuovo orizzonte delle sperimentazioni è “deliberazione”. Si può parlare a proposito della diffusione di strumenti partecipativo-deliberativi (Freschi, Raffini 2010). 3 Verso una governance partecipativo-deliberativa? Si parla di “governance partecipativo-deliberativa” per denotare un parziale ripensamento degli obiettivi seguiti e un radicale rinnovamento degli strumenti adottati. I principi chiave della 7 governance (partenariato, sussidiarietà, orizzontalità) si sposano con quelli della partecipazione e dell’empowerment dei cittadini, singoli ed associati, e l’obiettivo della massima inclusività si integra con quello della qualità deliberativa dell’interazione, per servire l’ambizioso progetto di una “amministrazione a più voci” (Bobbio 2004). Ciò a partire dal principio che per governare società complesse siano necessarie forme di coinvolgimento dei cittadini al di là del principio della delega, e che per favorire una interazione positiva tra soggetti portatori di interessi, punti di vista, culture e valori diverse, siano necessari nuovi metodi di confronto. Deliberare, nel senso qui adottato, non significa decidere, come in italiano corrente si è abituati a pensare (il termine deliberare evoca l’immagine del giudice che, deliberando, esprime una decisione vincolante), ma, secondo il significato inglese del termine, significa pervenire a una opinione (che può trasformarsi in decisione) in forma collettiva, a seguito di un processo dibattimentale in cui ogni partecipante espone le proprie ragioni e ascolta quelle degli altri, in condizioni di libertà e di uguaglianza. Una comunicazione libera e non distorta favorisce una reciproca trasformazione delle opinioni iniziali. In una “situazione discorsiva ideale” non sono le pretese di potere o gli interessi di parte a determinare l’esito del confronto, ma “la forza della migliore argomentazione” (Habermas 1994). L’ideale deliberativo è lontano dal trovare applicazione nella politica reale, in cui le logiche prevalenti sono quelle del potere, della strumentalità, dello scontro tra interessi precostituiti e non conciliabili. L’obiettivo perseguito è introdurre spazi reali di deliberazione, in cui cioè i partecipanti discutano apertamente tra di loro, formando una visione il più possibile completa del tema oggetto di discussione, della diversità di opzioni, interessi, conoscenze e punti di vista. Ciò al fine di superare la tradizionale concezione della democrazia come un “gioco a somma zero” (in cui, tramite il meccanismo della maggioranza, tra due o più opzioni ne vince una), per affermare un “gioco a somma positiva”, in cui cioè l’esito del processo rappresenta una sintesi avanzata degli interessi e dei punti di vista in gioco, che si trasformano nel corso stesso del processo. Facendo riferimento alle categorie concettuali proposte da Elster, si tratta di “integrare”, piuttosto che di “aggregare” gli interessi (Elster 1986). Sul piano sociologico, una concezione integrativa della democrazia la fa pensare come uno strumento di (ri)costruzione della comunità politica e di perseguimento del bene comune, laddove una concezione aggregativa della democrazia, che equipara la politica ai meccanismi del mercato, si fonda su un’idea di società composta di individui singoli, animati da interessi prefissati e che interagiscono strumentalmente con gli altri per massimizzare il proprio interesse. Si implementano inedite “arene deliberative” (Bobbio 2002), spazi circoscritti e protetti, la cui strutturazione, unitamente al ricorso a raffinati metodi di facilitazione, ha l’obiettivo di favorire dinamiche genuinamente deliberative. Per capire il principio sottostante a questi nuovi strumenti possiamo prendere ad esempio il percorso di pensiero che ha portato all’ideazione di uno di questi, il Sondaggio Deliberativo (SD). Alle radici del Sondaggio Deliberativo, ideato dallo scienziato politico statunitense James Fishkin (1991), vi è una critica all’utilizzo costante dei sondaggi da parte del ceto politico per tastare il polso all’opinione pubblica, avere un quadro delle preferenze dei cittadini e avere in anticipo un’idea sul livello di gradimento di un’eventuale decisione politica. I sondaggi, infatti, strumento principe di raccordo tra cittadini e leaders politici nel contesto della politica mediatizzata, raccolgono le opinioni irriflesse dei cittadini, che nella maggioranza dei casi esprimono un parere senza avere una piena conoscenza delle opzioni possibili e che sono chiamati a scegliere tra opzioni mutualmente esclusive, senza avere la possibilità di dialogare con gli altri cittadini e confrontare le diverse opinioni. Il sondaggio diventa per questa via uno strumento che si presta a manipolazioni e a semplificazioni, al servizio di uno stile di governo populista, che mira cioè ad ottenere il consenso e non a promuovere reali processi di elaborazione politica pubblica. Fiskhin, si è chiesto cosa succederebbe se i cittadini, invece che contattati nella forma tradizionale, fossero posti nelle condizioni di fondare il proprio giudizio su una conoscenza approfondita della materia e avendo la possibilità di discutere apertamente tra loro: i risultati cambierebbero? O confermerebbero quanto emerso nel sondaggio tradizionale? Lo strumento del Sondaggio Deliberativo (o Sondaggio Informato) risponde a questo 8 interrogativo. Un campione rappresentativo di cittadini viene selezionato e sondato, secondo il metodo tradizionale. Un sottogruppo del campione è quindi chiamato a prendere parte a un evento deliberativo, cui i partecipanti si presentano dopo avere ricevuto e letto dei documenti di approfondimento, selezionati in modo di offrire una rappresentazione fedele dei punti di vista in gioco. Nel corso dell’evento i partecipanti, (solitamente 500-1000) si dividono in tavoli composti da circa dieci persone, in cui, assistiti da un facilitatore, possono dibattere tra di loro (ciò perché una reale dinamica deliberativa non può prendere forma in platee troppo ampie, in cui, inevitabilmente, solo una minoranza di partecipanti prenderà la parola, mentre la maggioranza adotterà un comportamento passivo). I momenti di deliberazione si alternano a momenti in cui gli esperti presentano i loro diversi punti di vista. Al termine dell’evento, della durata di uno o due giorni, i partecipanti sono invitati a votare nuovamente rispondendo alle stesse domande contenute nel primo sondaggio. Generalmente i risultati divergono in maniera significativa rispetto al sondaggio iniziale. Per fare un esempio, un campione di cittadini danesi – convocati da un gruppo di ricercatori in seguito al referendum nazionale in cui la maggioranza si era espressa contro l’ingresso nell’Euro – a seguito di un sondaggio deliberativo hanno trasformato la propria opinione rispetto a quella che avevano prima di iniziare la discussione, al punto che, sostengono i realizzatori dell’evento, se tutti i cittadini danesi avessero scelto sulla base di una conoscenza di tutti gli elementi utili per valutare, e a seguito di un processo deliberativo, la Danimarca avrebbe oggi l‘Euro come moneta (Andersen, Hansen 2007). Strumenti come il Sondaggio Deliberativo permettono ai decisori di arricchire i propri elementi di valutazione, e ai cittadini - non solo a chi partecipa direttamente - di allargare le proprie conoscenze. La pubblicizzazione dei risultati degli eventi realizzati, infatti, offre anche ai cittadini non coinvolti la possibilità di vedere come altri cittadini siano approdati, grazie alla deliberazione, a opinioni diverse rispetto a quelle iniziali. Il principio sottostante al SD è comune ad una pluralità di strumenti, accomunati dal loro tentativo di arricchire la qualità democratica arricchendone la dimensione deliberativa. Possiamo ora sintetizzare le principali virtù che nella letteratura vengono solitamente associate ai processi partecipativo-deliberativi (Pellizzoni 2005; Giannetti 2006): 1) Una virtù cognitiva. La deliberazione pubblica rende possibile un ampliamento delle informazioni su cui fondare un giudizio, permette a tutti i punti di vista di confrontarsi e di trasformarsi reciprocamente. Sul piano sociologico possiamo dire che aiuta, se non a superare, ad attenuare il problema della razionalità limitata. Rende in definitiva possibile un arricchimento informativo sia dei cittadini sia delle istituzioni, di tematizzare le esternalità delle decisioni, di confrontare le alternative anticipando in questo modo i possibili conflitti che possono derivare da decisioni assunte in altra forma. 2) Una virtù civica. In un contesto segnato dall’erosione del capitale sociale, la reciproca conoscenza favorisce la generazione di legami fiduciari. La partecipazione favorisce la ricostruzione di un senso di comunità, non nella forma esclusiva dei localismi, ma in forma aperta e solidale, coinvolgendo tutti gli attori del territorio nell’elaborazione di progetti condivisi. Spinge a superare le reciproche chiusure, promuovendo il confronto e l’interazione positiva tra la diversità. La partecipazione deliberativa promuove un allargamento dell’orizzonte individuale, costruisce modelli relazionali che fuoriescono dall’individualità ponendosi così al servizio di un “fare società” che assume la forma della trasformazione comune, nella gestione condivisa delle scelte che riguardano il proprio territorio. Il riavvicinamento tra cittadini e politica assume così la forma di una pratica politica intesa come vivere quotidiano. 3) Una virtù democratica. I processi partecipativo-deliberativi offrono un canale integrativo che permette di esprimere la propria voce a chi non lo fa nei canali tradizionali, alle minoranze, e in generale a chi, per via delle scarse risorse culturali, economiche e 9 sociali, è posto al margine della politica. Una decisione preceduta da un processo di deliberazione pubblica sul piano teorico, non è solo ‘migliore’, nel senso che è più efficace, ma è più legittima. Coinvolgendo tutti i destinatari di una decisione, dovrebbe anche avere l’effetto di prevenire il conflitto, soprattutto quando espressione delle sindromi NIMBY – Not in My Back Yard e LULU – Locally Unwanted Land Use (Della Porta, Piazza 2008): altro obiettivo rilevante, dal momento che sempre più le decisioni riguardanti l’utilizzo del territorio sono oggetto di violenti e durevoli conflitti, che finiscono per diventare ingestibili, aumentando, peraltro, i costi economici e sociali delle opere realizzate. In Italia il ricorso ai processi partecipativo-deliberativi (Pecoriello e Rispoli 2007; Bobbio e Pomatto 2008) ha visto un particolare protagonismo delle amministrazioni regionali e locali di centro-sinistra, che hanno visto in questi strumenti la possibilità di ricostruire in modo nuovo il legame tra istituzioni, cittadini comuni e soggetti attivi nella partecipazione dal basso, a fronte di un progressivo venir meno del ruolo di cerniera e di sintesi del partito tra istituzioni locali e società civile e del rischio di erosione del capitale sociale, in territori in cui la voglia di partecipare non è venuta meno, ma non trova adeguati canali per esprimersi (Floridia 2008). Non è un caso che le prime regioni Italiane a dotarsi di una’apposita Legge che disciplina i nuovi strumenti partecipativi-deliberativi, siano state le regioni a subcultura rossa, caratterizzate da un tradizionale tessuto civico, ma che è oggi a rischio di sfaldamento. La Toscana nel 2007 ha approvato la legge 69/2007, Norme sulla promozione della partecipazione alla elaborazione delle politiche regionali e locali. La stessa legge è stata approvata al termine di un articolato processo di coinvolgimento di cittadini, esperti e stakeholders, che si è dipanato tramite assemblee aperte, seminari, incontri sul territorio, e che ha avuto il suo momento centrale in un Electronic Town Meeting (ETM) che ha visto la partecipazione di circa 400 cittadini, la maggioranza iscritta volontariamente, una minoranza coinvolta tramite sorteggio tra i cittadini toscani (Freschi, Raffini 2008). La legge toscana costituisce sicuramente un modello di riferimento a livello italiano ed europeo. I primi anni di sperimentazione hanno condotto alla realizzazione di decine di processi di partecipazione a livello locale, rendendo la Toscana il cuore della sperimentazione partecipativodeliberativa in Europa. Anche la regione Emilia-Romagna ha adottato una propria legge (L. 3/2010). Allo stesso anno risale la legge umbra (14/2010). 4. Gli strumenti della deliberazione L’impetuoso sperimentalismo partecipativo sviluppatosi nell’ultimo decennio potrebbe indurre a trovare analogie con la stagione partecipativa degli anni sessanta-settanta. In realtà i fenomeni di cui parliamo sono assai diversi. Nel primo caso la partecipazione nasce da un movimento dal basso, che rivendica la costruzione di spazi partecipativi segnati dall’informalità e dalla spontaneità, cui le istituzioni e i partiti rispondono con una stagione di riforme. Al contrario, i processi partecipativi di cui parliamo oggi nascono proprio dalla constatazione che una quota crescente di cittadini, in particolare i giovani, è ridotta all'apatia e alla passività, mentre le minoranze attive si pongono spesso in conflitto con i luoghi e gli attori della partecipazione istituzionale. È a fronte di questo scenario che le istituzioni rispondono proponendo strumenti di natura top-down, disegnati, da un lato, per stimolare la partecipazione dei cittadini silenti, dall’altra per convogliare i molteplici ruscelli di una partecipazione frammentata, che si dipana attraverso una pluralità di soggetti collettivi scarsamente dialoganti. È in questo senso che si parla di “partecipazione strutturata” per indicare un “insieme articolato e strutturato di fasi di lavoro e di confronto e inclusione dei vari soggetti, e con l’ausilio di varie tecniche e approcci” (AA.VV 2009, 22). Gli strumenti proposti sono raffinati, nella struttura e nel funzionamento, e richiedono apposite professionalità e competenze, al punto da suggerire, dopo la stagione dei politici di professione e quella dei professionisti/tecnici l’ingresso in una terza fase, quella dei “professionisti della 10 partecipazione” (cfr. Raffini, Viviani 2011), che non intervengono nei processi quali portatori di conoscenze sul tema oggetto del confronto, ma apportandovi le migliori tecniche per favorire il contributo attivo di tutti i soggetti interessati e competenti sul tema. Proprio la crescente professionalizzazione e la crescente sofisticazione degli strumenti hanno alimentato una letteratura critica, che intravede il rischio di una tecnicizzazione del processo democratico, e quindi di un processo di depoliticizzazione piuttosto che lo sviluppo di una nuova cultura politica democratica. Prendendo sul serio questa critica, chi si accosta a questi dispositivi per promuovere la quantità e la qualità del coinvolgimento dei cittadini, deve prestare attenzione affinché l’enfasi posta sugli strumenti non prenda il sopravvento sull’attenzione ai contenuti e agli obiettivi sostanziali. La necessaria conoscenza delle tecniche e degli strumenti servirà quindi per disegnare il percorso di partecipazione migliore in base all’oggetto da porre in discussione, agli obiettivi del processo, ai soggetti coinvolti, ecc. Il ventaglio delle tecniche e degli strumenti oggi a disposizione delle amministrazioni che vogliono aprire le porte a cittadini e soggetti collettivi di vario genere è assai variegato. Per orientarsi è opportuno prima di tutto distinguere tra diversi livelli di coinvolgimento dei cittadini, in termini di cessione di potere. Facendo riferimento alla tipologia proposta dall’OCSE (2001), possiamo individuare tre livelli. 1) L’informazione. Si tratta di una relazione unidirezionale che vede i cittadini come ricettori passivi. Si tratta nondimeno di un elemento chiave della democrazia, e che costituisce il presupposto di ogni eventuale forma di attivazione da parte dei cittadini. 2) Consultazione. È una relazione bidirezionale, che prevede quindi che i cittadini esprimano le proprie opinioni e le indirizzino all’amministrazione. I contenuti espressi dai cittadini potranno essere utilizzati ai fini del processo decisionale, ma non sono vincolanti. 3) Partecipazione. Prevede un partenariato tra cittadini e amministratori, e quindi un coinvolgimento attivo dei primi nei processi decisionali, fermo restando che, nel contesto della democrazia rappresentativa, la responsabilità della decisione rimane completamente dell’amministrazione. Solo in questa ultima fattispecie vi è una forma di empowerment dei cittadini, ovvero di attribuzione diretta di potere, ma le modalità e le forme di realizzazione di questo principio possono assai variare. Uno degli elementi di differenziazione principale riguarda l’equilibrio che si crea tra principio dell’inclusività e principio deliberativo, dal momento che il primo, come approfondiremo più in dettaglio, spesso nella pratica si pone in conflitto con il secondo. Gli strumenti pensati per massimizzare l’avvicinamento all’ideale deliberativo stabiliscono delle barriere all’ingresso, in modo da selezionare una platea il più possibile “deliberante”. Altri strumenti privilegiano il criterio della massima inclusività, sono quindi aperti alla partecipazione di tutti gli interessati, e concedono, anche nello stile di partecipazione, un certo livello di deviazione dell’ideale deliberativo, ammettendo per esempio i claims conflittuali. Tra partecipazione e deliberazione vi è un trade-off: per cui il perseguimento di un massimo criterio di apertura porterà inevitabilmente a rinunciare al perseguimento di una deliberazione in senso forte. Più in dettaglio, tra gli aspetti principali che definiscono i diversi strumenti vi sono i seguenti: 1) Criterio di selezione dei partecipanti. Sondaggi Deliberativi, Giurie di Cittadini, Electronic Town Meeting prevedono una selezione dei partecipanti tramite campionamento statistico della popolazione. L’obiettivo è ricreare artificialmente un “minipubblico” (Goodin, Dryzek 2006), ovvero una platea di cittadini comuni, che siano uno spaccato della società, in modo da coinvolgere anche i cittadini che in altre condizioni non parteciperebbero. Altri strumenti, come i Dibattiti Pubblici, gli Open Space Technology, i Bar Camp, sono aperti a tutti gli interessati. 2) Target. A seconda del tema oggetto del processo, il target di riferimento può essere l’intera cittadinanza o una categoria specifica (giovani, studenti, commercianti, ecc). Vi sono processi rivolti ai cittadini, che solitamente prevedono una partecipazione a titolo individuale, e processi rivolti agli stakeholders, ovvero a tutti i soggetti che hanno un interesse in gioco, a vario titolo. 3) Livello di strutturazione. Alcuni strumenti prevedono una strutturazione rigida, che incanala 11 la discussione su tracce di discussione prefissate, che prevedono una precisa suddivisione dei tempi e determinano anche la collocazione spaziale dei partecipanti. È il caso dell’Electronic Town Meeting (Aicardi, Garramone 2011), in cui i partecipanti sono assegnati a dei tavoli, e sono invitati a non muoversi durante l’intero evento, mentre altri fanno della destrutturazione e dell’informalità l’elemento qualificante. Esemplare in tal senso è l’Open Space Technology (Aicardi, Garramone 2009). Nato dall’intuizione del suo ideatore, Howen, che nei convegni e nelle riunioni di lavoro la massima creatività emerge durante la pausa caffè, in cui i partecipanti possono discutere liberamente e informalmente, si ispira a un massimo criterio di informalità. I partecipanti, dopo una breve introduzione da parte del facilitatore, sono liberi di proporre i temi da discutere e di divedersi in gruppi, che producono un report della discussione sviluppata. I partecipanti possono cambiare gruppo quando vogliono e i gruppi possono sciogliersi e riunirsi liberamente. 4) Dimensioni. Le Giurie di Cittadini, il cui funzionamento prende ispirazione del modello delle giurie popolari del tribunale, prevede un numero ristretto di persone coinvolte, al fine di rendere possibile un’interazione in profondità. Altri dispositivi, come il Dibattito Pubblico francese (Debàt Public2, Fourniau, Tafere 2010), avvalendosi di assemblee e della rete quale luogo di scambio di informazioni e opinioni, non pongono limiti al numero di persone coinvolte, che possono d’altra parte avere livelli diversi di coinvolgimento, da una piena attivazione a un semplice ruolo di spettatore passivo. Altri strumenti, come ETM e SD, coinvolgono un numero di partecipanti relativamente elevato (da 200 a 1000 o anche di più) ma la suddivisione in tavoli consente di sviluppare la deliberazione in gruppi ridotti. 5) Modalità di facilitazione. La presenza di facilitatori, che gestiscono il processo in tutte le sue fasi e che guidano le dinamiche interattive durante gli eventi, è un elemento che contraddistingue i processi partecipativo-deliberativi, differenziandoli dal tradizionali metodo assembleare. Dai punti precedenti risulta tuttavia evidente che il ruolo dei facilitatori può essere più o meno visibile e più o meno stringente. Ciò non significa che anche nei processi più informali il ruolo dei facilitatori non sia fondamentale ai fini della riuscita dell’evento. 6) Obiettivi del processo. Se il tipo di recepimento dei risultati del processo è stabilito a priori dal soggetto che lo promuove, diverso è l’outcome prodotto dai diversi dispositivi. In particolare, la distinzione è tra strumenti finalizzati a indirizzare i partecipanti verso un’opinione condivisa, o comunque maggioritaria (ad esempio tramite lo strumento del voto), e strumenti che non ambiscono a determinare una sintesi, ma il cui obiettivo è raccogliere tutti i punti di vista, maggioritari e minoritari, da raccogliere in un report. 7) Utilizzo delle nuove tecnologie. L’utilizzo delle tecnologie digitali costituisce una straordinaria risorsa al fine di stimolare la partecipazione. Se, in ogni caso, l’utilizzo delle NTIC è fondamentale ai fini della comunicazione del processo, prima, durante e dopo, alcune metodologie prevedono un utilizzo delle tecnologie digitali anche ai fini del singolo evento, integrando la partecipazione online con quella offline, o proponendo spazi di deliberazione online. Anche in questo caso, la scelta di come utilizzare le nuove tecnologie deve essere effettuata valutando il pubblico di riferimento, a partire dal suo livello di alfabetizzazione digitale. La scelta di uno o dell’altro deve quindi rispondere ad un’attenta analisi del tema trattato (per esempio un tema caratterizzato da un forte conflitto deve essere affrontato diversamente da uno su cui il conflitto è minore), dell’obiettivo (produrre decisioni o opinione, perseguire il consenso o la massimizzazione dei punti di vista), del tipo di partecipanti (cittadini comuni, scarsamente informati, o esperti, persone più o meno abituate ad esprimersi in pubblico). Infine, all’interno di un percorso più ampio, è auspicabile integrare diversi strumenti, da utilizzare in diverse fasi del processo e a seconda del tipo di partecipanti. 2 Il Dibattito Pubblico è un processo di partecipazione e deliberazione regolata da un’apposita Commissione nazionale, e che si attiva in occasione della realizzazione di grandi opere sul territorio. Nel prosieguo dell’articolo, per non confondere lo specifico strumento del Dibattito Pubblico con il riferimento generico al dibattito pubblico, si ricorrerà alla denominazione francese Debàt Public. 12 5. Limiti e potenzialità della democrazia deliberativa nella pratica Secondo una concezione deliberativa della democrazia, il dibattito pubblico non è un optional, ma una componente costitutiva della democrazia, in quanto la deliberazione è “strumento inclusivo e medium comunicativo della democrazia” (Pellizzoni 2005, 22). Il tema della preservazione e della costruzione ex novo di spazi deliberativi è questione ancor più centrale al momento che al deterioramento della deliberazione nell’ambito della sfera pubblica si aggiunge un indebolimento del ruolo degli organi istituzionali preposti alla deliberazione (le assemblee legislative) a favore di un rafforzamento degli esecutivi, associata ad uno spostamento della sede decisionale verso questi ultimi, parallelamente ad una riduzione del ruolo dei partiti quali strumenti di connessione tra deliberazione “micro” delle assemblee legislative e deliberazione “macro” dei cittadini nella sfera pubblica. Partendo da queste premesse, riescono i dispositivi partecipativo-deliberativi a riportare l’accento sulla dimensione deliberativa e per questa via a rivitalizzare la democrazia rappresentativa arricchendola di nuovi strumenti? O, piuttosto, si inseriscono nei trend di mutamento delle forme democratiche non alterandone sostanzialmente il senso “postdemocratico” (Crouch 2003)? Detto in altre parole, l'implementazione di questi strumenti contribuisce a ricostruire l'”anello mancante” tra cittadini e istituzioni (Mastropaolo, Scuccimarra 2008), o, piuttosto, contribuisce a realizzare uno scenario di “tecnopolitica” (Rodotà 1997), in cui, cioè, i nuovi strumenti di partecipazione e consultazione sono utilizzati dalle istituzioni, quali strumenti di costruzione simbolica del consenso, implementando operazione di market-testing (Papadopulos, Warin 2007), rispondendo più alle esigenze di costruzione del consenso e di controllo della società da parte del ceto politico che alle richieste di partecipazione dal basso? Sotto questo riguardo, la problematizzazione proposta da Arnstein (1969) nella sua celebre scala della partecipazione risulta ancora oggi molto attuale. Alla base della sua scala, infatti, la Arnstein non pone uno stato di “non partecipazione” intesa semplicemente come assenza di iniziative, ma una non partecipazione che assume la forma di manipolazione o di azione “terapeutica” da parte dell’amministrazione. La manipolazione, o l’intervento sedativo nei confronti del conflitto, si ha quando si sviluppano azioni formalmente destinate a promuovere la partecipazione, ma che servono in realtà fini strumentali, traducendosi di fatto in forme di controllo3. 6. Come valutare i processi partecipativo-deliberativi. L’adozione di innovativi strumenti di partecipazione non è la panacea che risolve tutti i limiti delle democrazie contemporanee, ed è bene essere consapevoli che se il ricorso a questi strumenti può produrre effetti positivi, se male applicati, o peggio ancora se utilizzati strumentalmente, i risultati ottenuti possono essere assai ridotti, se non provocare effetti perversi, riducendo la quantità e la qualità complessiva della partecipazione. Ciò perché una “cattiva partecipazione” frustra le aspettative di chi vi prende parte e deteriora, piuttosto che migliore, i rapporti fiduciari tra istituzioni e cittadini. Che la democrazia reale abbia sempre visto uno squilibrio tra una maggioranza di cittadini comuni e una minoranza di cittadini attivi non è una novità, ma un elemento di fondo che le dinamiche odierne tendono a radicalizzare, rischiando di generare nuove dinamiche di esclusione e di marginalità, e quindi una dualizzazione tra cittadini interessati e più o meno attivamente impegnati (generalmente chi è più dotato di risorse culturali, economiche e sociali) e una maggioranza di cittadini che, non trovando riferimenti in partiti e sindacati e sempre più inattivi 3 La non partecipazione si distingue da una categoria intermedia, definita “tokenism”, che può assumere la forma di informazione o di consultazione. La partnership si pone al confine tra tokenism e partecipazione in senso stretto. I livelli più alti di partecipazione, caratterizzati da un livello massimo di empowerment dei cittadini, sono la cessione di potere e l’autogoverno. 13 anche a livello elettorale, si trova completamente priva di voce. L’introduzione di dispositivi partecipativo-deliberativi su singoli temi permette di attrarre cittadini interessati sul tema specifico oggetto del processo ma che non sono interessati a prendere parte a discussioni politiche di ordine generale. A fronte di una percezione delle assemblee politiche come “inconcludenti” e sede di “inutili chiacchiere” e come vetrine dei politici, e delle riunioni di partito come luoghi di perseguimento di interessi di parte, piuttosto che degli interessi collettivi, percepire un legame diretto tra il tempo e l’energia profusa in un evento partecipativo e un risultato chiaro, può contribuire a ricostruire legami di fiducia ed a favorire una rinascita della passione per la politica attiva, intesa come partecipazione alla cosa pubblica. La valutazione degli esiti di un singolo strumento va d’altra parte sempre inserita nel contesto in cui si situa, ovvero nel percorso di partecipazione più ampio, che può prevedere diversi strumenti di coinvolgimento, rivolti a target diversi, con finalità distinte e in momenti diversi del percorso. A sua volta, il percorso partecipativo complessivo, sia che riguardi una singola policy o che affronti temi più astratti e generali, come la pianificazione strategica o la costruzione di scenari futuri, è immerso in un sistema deliberativo avente come poli le assemblee elettive, da un lato, la sfera pubblica generale e mediatica, dall’altro, passando per le sfere pubbliche settoriali, comprese quelle conflittuali (animate da comitati e movimenti) È in questo sistema più ampio che i processi partecipativo-deliberativo si inseriscono, ed è quindi tra i diversi centri e le diverse dinamiche che vi prendono forma che si devono analizzare le connessioni, al fine di potere avere una valutazione complessiva della capacità di contribuire a un potenziamento e a un miglioramento qualitativo della partecipazione complessiva. Se, infatti, un evento partecipativo si pone in isolamento rispetto alle altre arene di partecipazione, istituzionali o non, per quanto ben congegnato sia il suo disegno deliberativo, le sue capacità di impatto, sia sul piano decisionale che sul piano culturale e civico, sono deboli. La valutazione dell'inserimento dell'arena deliberativa nel sistema politico più ampio, in “entrata” (ovvero la sua connessione con la sfera pubblica generale, in cui tutti gli attori politici interagiscono, ognuno portandovi il suo linguaggio e i suoi repertori di partecipazione) e in “uscita” (la connessione con il processo decisionale) è quindi altrettanto importante della valutazione della sua composizione interna (chi partecipa, con quale modalità, che strutturazione ha il processo, che dinamiche interattive attiva). Analizzare il rapporto tra le singole arene di deliberazione e il contesto politico più ampio significa riflettere criticamente sull’impatto, oltre che sulla singola policy, sulla più ampia dimensione della politics (Freschi, Raffini 2010, Citroni 2010). La valutazione, ex-ante, in itinere ed ex-post è un elemento essenziale per evitare rischi e per fare in modo che lo sperimentalismo democratico contribuisca realmente a una “democratizzazione della democrazia” che ponga il principio della partecipazione come prassi ordinaria di governo4. Come suggeriscono Rower e Frewer (2004), la valutazione deve riguardare la questione della rappresentatività e dell'inclusione, la trasparenza e l'indipendenza del processo, l'interattività e la qualità deliberativa. Al tempo stesso si deve valutare l'outcome del processo, indagandone l’accettazione e la risonanza pubblica, l'influenza sul pubblico e l'impatto sociale in senso più ampio, oltre all’impatto sul processo decisionale. Porre al centro della strutturazione e della valutazione dei processi partecipativo-deliberativi il loro inserimento nel sistema politico significa considerare la dimensione della comunicazione legata in maniera organica alla dimensione della partecipazione. La comunicazione costituisce l’altra gamba della partecipazione, una si sostiene grazie all’altra e un processo di partecipazione non fondato su una comunicazione ampia, completa, nonché interattiva non può dirsi tale. La stessa valutazione del processo, da parte degli organizzatori ed eventualmente di soggetti terzi, acquista valore se prevede una forma di valutazione da parte degli stessi partecipanti, le cui critiche, suggerimenti e proposte possono rendere possibile un aggiustamento del processo in corso d’opera, pur non alterandone i principi ispiratori e gli obiettivi. 4 É il fine che orienta in maniera esplicita la legge regionale toscana. 14 7. Le principali criticità emerse dalle sperimentazioni La valutazione “interna” del processo verte su due dimensioni – l’inclusività e la qualità deliberativa del confronto – e sulla non facile conciliazione tra questi due criteri. Il criterio dell’inclusività si misura in base alla capacità di garantire il pieno accesso di tutti i punti di vista, gli interessi, le conoscenze esistenti sul tema oggetto del processo. Affinché tale criterio sia rispettato sono necessari un attento monitoraggio a monte del processo e un’efficace campagna di comunicazione, sia specifica, rispetto ai diversi soggetti coinvolti, sia generale, volta a dare pubblicità tra la cittadinanza. Prima di avviare il processo è quindi necessario chiarire in maniera precisa il target del processo, e quindi gli stakeholders che si vogliono coinvolgere. Questi possono essere organizzazioni di categoria, movimenti e associazioni, la cittadinanza coinvolta dalla realizzazione di un’opera o dall’assunzione di una decisione di qualsiasi genere che abbia un impatto sul territorio. Poiché i diversi soggetti che prendono parte all’arena non hanno le stesse risorse, sia in termini di potere, sia in termini di abilità e di competenze comunicative la qualità del processo deliberativo dipende dalla capacità dei facilitatori di attenuare le disparità e di favorire un dibattito il più possibile in condizioni di libertà ed uguaglianza. Abbiamo visto che molti strumenti partecipativo-deliberativi prevedono la partecipazione di un campione statisticamente o sociologicamente rappresentativo della popolazione, una sorta di “minipopolo”, che includa quindi anche la casalinga, il giovane, il disoccupato, l’immigrato, ovvero coloro che solitamente sono più restii ad esprimere la propria voce. Ciò al fine di allargare la platea dei soggetti coinvolti, al di là di chi ha un interesse immediato, e in particolare degli interessi organizzati e dei cittadini politicamente attivi. Il coinvolgimento di cittadini estratti a campione vuole contribuire a restituire al cittadino comune un ruolo da protagonista” ed è al tempo stesso funzionale all'attivazione di un processo genuinamente deliberativo, in cui cioè si presume che i partecipanti, non entrando nell'arena con opinioni forti sull'argomento, siano più propensi a formare la propria opinione tramite il processo deliberativo. Nella letteratura sulla deliberazione si distingue, infatti, tra una deliberazione “calda”, su temi cioè oggetto di interesse diretti e forti, e quindi per natura più soggetti al conflitto (si pensi alla questione dell’alta velocità) e una deliberazione “fredda”, che, vertendo su questioni astratte, meno direttamente legate agli interessi particolari, si prestano maggiormente ad una discussione aperta e orientata alla ricerca del consenso. Nel primo caso è più facile che vi siano soggetti collettivi organizzati (comitati dei cittadini, parti sociali, ecc) che sono portatori di interessi e punti di vista prefissati che non sono disposti a mediare e a diluire nel confronto deliberativo. Nel secondo caso è più facile che i partecipanti non agiscano nell’arena in forma strumentale, ma calandosi nei panni del “deliberante”. In tutti i casi un cittadino “comune”, non politicamente attivo, ha preferenze meno strutturate e forti, anche perché meno interessato e quindi meno informato, ed è maggiormente incline a trasformare le proprie opinioni. Sotto questo punto di vista, come acutamente sottolinea Mutz (2006), il cittadino “attivo”, e soprattutto la figura del “militante”, dotato di preferenze forti, non è un buon “deliberante”, spassionato, aperto, libero da pregiudizi, mentre tali caratteristiche sono presenti al massimo livello nel cittadino non informato e non interessato, che, ceteris paribus, è più facilmente influenzabile e modellabile. I cittadini più interessati alla politica e più competenti spesso non sono neutrali ma “partisans”, animati dalla passione e dall’identificazione con un’ideologia, una campagna, un obiettivo, un singolo progetto. Questa distinzione riporta ancora una volta alla tensione tra partecipazione e deliberazione, dal momento che, paradossalmente, chi più partecipa è meno propenso alla deliberazione. L’inclusione di cittadini comuni, non interessati alla politica, e contestualmente la limitazione del ruolo dei soggetti attivi, è considerata, da attivisti di movimenti e comitati di cittadini, strumentale, e finalizzata alla “sterilizzazione” della partecipazione dal basso e, in generale, ispirata ad una “depoliticizzazione” della partecipazione (Mutz 2006; Freschi, Raffini 2008, p. 292), che ottiene l’effetto di ridurre i reali spazi di partecipazione, sostituendovi un simulacro. La risposta che 15 si dà a un impoverimento degli spazi di partecipazione non sono, infatti, progetti e azioni finalizzate a favorire l’attivazione dei cittadini nel lungo periodo, ma processi a chiamata, che si chiudono nello spazio di poche ore. In questo modo si corre il rischio di effettuare degli esperimenti di democrazia in laboratorio, piuttosto che dei laboratori di democrazia, in cui si sperimentano cioè dinamiche innovative di coinvolgimento che si aspira ad affermare come prassi ordinaria. La massima esposizione a questa critica si ha quando si decide di adottare uno strumento fondato sulla selezione casuale dei partecipanti per affrontare un tema caratterizzato da profondo conflitto, soprattutto se il processo deliberativo su questa base impostato non è integrato da strumenti aperti all'inclusione di tutte le voci, comprese quelle conflittuali. Nel caso Toscano, è quanto è avvenuto quando si è scelto di impostare un processo di partecipazione avente per oggetto la costruzione di un pirogassificatore, a Castelfranco di Sotto, mediante una Giuria di Cittadini composta di cittadini estratti a sorte (cfr. Pomatto, Ravazzi 2012). In questo caso, si è avverato ciò che è stato ampiamente sottolineato dalla letteratura, ovvero che i promotori sono stati contestati e accusati di non promuovere una partecipazione reale, a favore di processi artificiali e caratterizzati da forme più o meno velate di manipolazione (Regonini 2005; Giannetti 2007; Papadopoulos, Warin 2007). Una possibile soluzione per conciliare il coinvolgimento di cittadini comuni e attivisti, il pieno accesso di tutti i punti di vista e il perseguimento di una dinamica deliberativa, è quella di optare per dispositivi che integrino la partecipazione di cittadini comuni e soggetti organizzati, a costo di “abbassare” il livello di qualità deliberativa (è il caso del Debàt Public), o di integrare la partecipazione del “minipopolo” con adeguati strumenti che permettano a tutti i soggetti interessati di esprimere la propria voce nell'ambito del processo. Eventi come i Sondaggi Deliberativi o gli Electronic Town Meeting, se non inseriti in percorsi più ampi, non possono considerarsi in sé “partecipativi”, ma, piuttosto, “parenti stretti dei sondaggi di opinione, da cui si distinguono per lo spazio riservato alla discussione ma di cui si accolgono la base giustificativa, che riposa sulla legittimazione della scienza quale istituzione preposta alla produzione di sapere sociale” (Pellizzoni 2007, pp. 104). In questo senso possono essere utilizzati come strumenti di misurazione del consenso verso le proposte politiche dell’amministrazione, con l’effetto di “non aggiungere nulla agli strumenti democratici tradizionali e magari incrementare esclusione, disuguaglianza e manipolazione” (ivi), contribuendo a veicolare una “rappresentazione meramente simbolica della partecipazione dei cittadini, che risponde a una rinnovata e più sofisticata strategia del consenso” (Della Porta 2008, p. 21). La critica al ricorso ai processi partecipativo-deliberativi come strumenti di controllo, piuttosto che di partecipazione reale, spinge gli osservatori più critici a leggere lo sviluppo di tali pratiche non come una risposta alla deriva postdemocratica e tecnocratica veicolata dal neoliberismo, ma come una sorta di compimento di una dinamica di restringimento degli spazi di partecipazione, tipica proprio del neoliberismo (Moini 2012). Secondo questa prospettiva, gli spazi di partecipazione - ed in particolare in relazione alla definizione dell’agenda e alla elaborazione delle priorità, - si restringe e si concentra in arene non democratiche, ma le amministrazioni compensano il deficit democratico con l’apertura di spazi, in cui in realtà la cessione di potere è limitata e controllata, più simbolica che effettiva, e comunque non in modo da mettere in dubbio gli orientamenti di fondo: l’arretramento del pubblico a favore del privato in primo luogo. Quanto può definirsi partecipativa una strategia che non permette di mettere in discussione gli orientamenti di fondo e non favorisce un reale confronto sui modelli di società e sulle priorità di governo? Sotto questo aspetto, il grado effettivo di apertura dei processi implementati, sia rispetto alla pluralità di interessi e punti di vista, sia rispetto ai partecipanti, è una questione centrale da approfondire criticamente. In particolare, un punto centrale è l’apertura nei confronti del conflitto, o, ancora di più, della sua valorizzazione come elemento vitale della democrazia, purché non assuma forme violente o rifiuti il dialogo. La questione del raccordo tra la singola arena e il contesto politico più ampio, forse ancor più del carattere inclusivo e deliberativo delle dinamiche interne appare, insomma, cruciale. Una buona premessa affinché il processo avviato non si isoli, ma si radichi nel contesto politico 16 in cui si colloca, è quello dell'apertura alla partecipazione sin dalle fase iniziali, in cui si sceglie il tema da affrontare e gli strumenti da adottare. Un esempio positivo, in tal senso, è offerto dal percorso partecipativo adottato dalla giunta regionale toscana per definire la legge sulla partecipazione, che se si è concluso con una chiusura del dialogo con un segmento dei comitati e dei movimenti, che hanno deciso di non prendere parte agli incontri partecipativi non condividendo le scelte dell’amministrazione, ha reso possibile una dinamica di trasformazione reciproca dei punti di vista iniziale tra promotori e ampi settori della società civile (Freschi, Raffini 2008). Il valore democratico dei processi di partecipazione risiede nella capacità di porsi in dialogo con la società, sia in uscita sia in entrata. La connessione con i cittadini e con la sfera pubblica generale e con tutti i settori che la compongono, è quindi un prerequisito che orienta la costruzione del percorso stesso. Costruire in maniera non aperta e partecipata un evento di partecipazione è una contraddizione. Come osserva Mastropaolo (2008, p. 19): “la vera partita, a questo livello, si svolge [...] nell'anticamera del forum deliberativo, vale a dire nei luoghi – spesso tutt'altro che pubblici – in cui si definiscono le modalità si selezione di quella parte di cittadinanza che concretamente darà vita ai processi di partecipazione”. Se il processo stesso non si radica, ma si isola dal mondo partecipativo che lo circonda, si corre il rischio di realizzare “una forma banalizzata e 'discretamente depoliticizzata' di prassi deliberativa”. É infine fondamentale mantenere un costante rapporto di interconnessione tra le dinamiche deliberative generate nel processo così creato e la sfera pubblica più ampia, e quindi con l'intera cittadinanza. La comunicazione, prima, durante e dopo i processi implementati, è fondamentale affinché questo possa produrre effetti virtuosi e una dinamica di reciproco arricchimento istituzioni e cittadini. Una comunicazione efficace e intesa come parte fondante del processo, fa in modo che lo stesso non sia organizzato in maniera chiusa ma partecipata, che tutti gli interessati possano contribuirvi, che chi non vi prende parte in prima persona possa seguirlo ed eventualmente attivarsi in una seconda fase, che al termine del processo le dinamiche di confronto non si interrompano ma continuino a svilupparsi. In una parola, la comunicazione orizzontale e aperta è ciò che rende un processo realmente partecipativo, perché la comunicazione stessa è partecipazione. Anche se i setting deliberativi adottati sono orientati ad attenuare le disparità di risorse tra i partecipanti, a favorire l’espressione di tutte le voci e a promuovere un'attitudine genuinamente deliberativa, non è possibile garantire che al suo interno vi sia uno specchio fedele della società, in tutte le sue sfumature, anche quando l'impostazione adottata ha perseguito un duplice criterio di coinvolgimento dei cittadini comuni (mediante sorteggio) e dei cittadini attivi (prevedendo strumenti aperti all'inclusione di tutti i soggetti interessati). Sul piano dei cittadini comuni perché, come evidenziato dalle ricerche, anche praticando il campionamento statistico il principio della rappresentatività statistica o sociologica è un’ideale che nella realtà è solo parzialmente avverato. Non tutti i cittadini invitati a partecipare accettano di farlo, e la maggiore ritrosia da parte di giovani, immigrati, soggetti culturalmente, socialmente e politicamente marginali, individui meno istruiti, alterano il profilo dei partecipanti (Cellini, Mete, Raffini 2010), a favore dei cittadini più istruiti e socialmente centrali, nonché di quelli politicamente più vicini alle istituzioni promotrici. Sul piano dei cittadini attivi per via dei meccanismi formali ed informali di chiusura sopra descritti, ma anche perché vi sono soggetti, solitamente i portatori di istanze conflittuali, che possono decidere di non prendere parte al processo. L'attività di questi gruppi al di fuori dell'arena istituzionale può trasformarsi in un vero e proprio boicottaggio del processo deliberativo istituzionale (Carson 2006; Giannetti 2007). Non è sempre possibile trovare un punto di accordo tra soggetti diversi, che esprimono una concezione diversa della partecipazione, e i cui rapporti sono in alcuni casi compromessi da rotture profonde (è il caso, spesso, dei comitati contro le grandi opere e le amministrazioni locali). Questa ultima problematizzazione, relativa alla semplice constatazione che per quanto ampia e variegata, la platea di cittadini coinvolti in singoli processi partecipativo-deliberativi non potrà mai 17 coincidere con l'intera cittadinanza, ci riporta a un'ultima, fondamentale, questione, quella del raccordo tra rappresentanza e partecipazione diretta. Si tratta di un elemento di particolare delicatezza, soprattutto al momento di definire quanto e come i risultati emersi da un evento partecipativo devono o possono essere recepiti da amministratori eletti da un numero di cittadini assai maggiore di quelli che partecipano al processo e cui sono legati da un vincolo di rappresentanza. Gli strumenti partecipativo-deliberativi non si pongono in alternativa alla dimensione rappresentativa, ma si propongono di integrarla e di rivitalizzarla. Il canale della rappresentanza, per quanto indebolito e soggetto a sfide, resta ancora il cardine della democrazia, e rimane il canale più universale di espressione della sovranità popolare. La strada da seguire per evitare conflitti e tensioni tra le due dimensioni è integrandole in modo organico e coerente in una prassi amministrativa che stabilisca in modo chiaro obiettivi e criteri di recepimento dei processi di partecipazione. 8. Come conciliare partecipazione e deliberazione, inclusione e interattività? Un orientamento operativo per la strutturazione dei processi deliberativo-partecipativi Possiamo ora provare a sintetizzare alcune regole da seguire affinché un processo partecipativodeliberativo raggiunga i suoi obiettivi di arricchimento della democrazia, innescando dinamiche virtuose sul piano politico, civico, culturale e sociale. - Avere ben chiaro in mente chi coinvolgere. A tal fine è opportuno effettuare una attenta ricognizione degli interessi in gioco, delle esternalità negative, di tutti gli stakeholders e di tutti i cittadini in vario modo interessati al tema oggetto del dibattito. È opportuno riflettere su quali strumenti eventualmente adottare per coinvolgere soggetti differenziati e a quali strumenti ricorrere per fare dialogare questi diversi soggetti. Nel caso dei soggetti più deboli si dovrà individuare misure per favorirne il coinvolgimento. In generale, l’integrazione di strumenti diversi, sia online sia offline, consentirà un maggiore coinvolgimento. - Disegnare e avviare il percorso di partecipazione sia dalle prime fasi del processo decisionale, ovvero non quando il processo è avviato al punto tale che alcune scelte di fondo sono da considerarsi irreversibili. Si tratta di una condizione esplicitamente sottolineata nella legge Toscana sulla partecipazione. Un buon percorso partecipativo si fonda su una condivisione dello stesso processo di costruzione con i cittadini. - Stabilire obiettivi chiari e regole e tempi certi. Quando si chiede ai cittadini di investire tempo ed energie in un percorso condiviso deve essere chiaro sin da subito quali sono gli obiettivi de processo, come questo è strutturato e quando si concluderà. L’incertezza, l’improvvisazione, o peggio ancora una voluta ambiguità frustrano le aspettative di chi è coinvolto, con il risultato di incrinare i rapporti di fiducia verso l’istituzione promotrice. I processi possono prevedere diverse fasi e diversi strumenti che si collocano lungo quattro diversi gradini: 1) Informazione 2) Consultazione 3) Compartecipazione alle decisioni 4) Empowerment dei cittadini. I processi possono contemplare le quattro dimensioni o fermarsi alle prime. Ciò che è importante è che sia sempre chiaro quale è il livello di coinvolgimento richiesto e quale è il rapporto tra outcome del percorso partecipativo e processo decisionale. - Investimento politico condiviso e piena cooperazione non solo a livello politico, ma anche degli uffici comunali e di tutta la macchina amministrativa. Spesso si avviano processi che si propongono di cambiare la cultura politica dei cittadini ma che non svolgono un adeguato processo di sensibilizzazione e di formazione all’interno della stessa PA Al contrario, il coinvolgimento interno è un elemento essenziale di riuscita, e il lavoro da svolgere all’interno dell’amministrazione è altrettanto importante di quello svolto all’esterno. - Comunicazione costante e calibrata prima, durante e dopo il processo. Una comunicazione efficace favorisce la consapevolezza delle opportunità che si aprono e permette a tutti i soggetti del territorio di valutare se e come prendere parte ai processi attivati. La 18 comunicazione costante del processo alla cittadinanza permette inoltre di mantenere il contatto con chi non vi è direttamente coinvolto, ma che può seguirne le fasi ed eventualmente decidere di parteciparvi attivamente quando vuole, ma in generale ad evitare il rischio, sopra largamente analizzato, che uno strumento ideato per allargare la partecipazione diventi nella realtà uno strumento artificiale di partecipazione in vitro, non comunicante ed isolato dalla partecipazione “spontanea”, con l’effetto di creare palette e barriere, piuttosto che di abbatterle. La comunicazione è una componente essenziale della partecipazione, non un optional. Del resto, se assumiamo come riferimento una scala della partecipazione fondata su diversi livelli di coinvolgimento, passivo e attivo, ogni passo in avanti sulla scala perde senso se non si basa su quelli precedenti, con l’effetto di rimanere sospeso in aria. Il primo livello è quindi l’informazione, che permetta a tutti i cittadini di essere a conoscenza dei progetti in corso e delle proposte dell’amministrazione. Solo se le informazioni sono ben accessibili e fornite in maniera chiara chi è interessato può attivarsi in forme più attive. Il secondo livello è la comunicazione, ovvero un’interazione tra amministratori e cittadini, che possono utilizzare una serie di strumenti per dialogare. La comunicazione interattiva rende i cittadini non solo ricettori passivi ma produttori di informazioni e di contenuti. Ad un livello ancora superiore di attivazione si pone la consultazione strutturata (di cittadini singoli e gruppi), tramite la quale i cittadini hanno la possibilità di esprimere le proprie preferenze ai decisori e di indirizzare proposte. Un ruolo ancora più ampio ai cittadini viene attribuito dai processi il cui scopo è giungere a una decisione condivisa tra i diversi soggetti che vi prendono parte, per esempio nella forma della progettazione partecipata. Il massimo livello di empowerment si ha quando l’amministrazione cede una quota di potere ai cittadini, che possono gestire autonomamente un progetto. Un percorso che si pone il solo obiettivo di ampliare l’informazione, perseguendo un ampliamento della trasparenza, se ben realizzato, può contribuire in maniera significativa al miglioramento della qualità democratica della PA. Al contrario, un processo partecipativo formalmente orientato all’empowerment dei cittadini, ma non fondato su una solida base sul piano della comunicazione, non è un buon processo di partecipazione e può produrre effetti negativi. - Coinvolgimento di competenza adeguate. Realizzare un processo partecipativo senza averne le competenze e in forma improvvisata è peggio che non realizzarlo. Affidarsi a figure professionali adeguate è fondamentale al fine di realizzare tutti gli obiettivi che contribuiranno alla riuscita di un processo: efficace comunicazione, sensibilizzazione, coordinamento, coinvolgimento di tutti gli stakeholders, sensibilizzazione interna alla PAL, facilitazione del processo, ecc. Non di meno, un obiettivo di medio e lungo termine è che si diffonda all’interno della stessa PAL una cultura partecipativa e un’adeguata struttura organizzativa La diffusione di una professionalità adeguata all’interno della PAL farà n modo che le istituzioni non debbano sempre dipendere da consulenti esterni e che la partecipazione, da evento una tantum, diventi prassi ordinaria di governo. - Non perdere mai di vista il contesto politico più ampio in cui si inserisce il singolo processo, perché obiettivo di quest’ultimo è integrare e rafforzare la qualità complessiva della democrazia, sul piano culturale e politico, nella dimensione della legittimazione e dell’efficacia delle decisioni. A conclusione di questa riflessione, è utile tornare a riflettere sulla domanda che avevamo lasciato aperta al termine del paragrafo introduttivo, relativa alle funzioni e ai significati dei processi partecipativo-deliberativi istituzionali. In questo contributo abbiamo sostenuto con convinzione l’idea che l’introduzione di processi di partecipazione e deliberazione possa arricchire i processi decisionali e innescare dinamiche virtuose tra cittadini e istituzioni. Al tempo stesso abbiamo affermato che questi non possano considerarsi sostitutivi dei processi di deliberazione e di partecipazione nell’ambito della società, e quindi al di fuori delle istituzioni. Tanto meno, l’implementazione di processi partecipativi e deliberativi da parte delle amministrazioni può sostituire il processo sociale di definizione delle visioni della società e la loro traduzione in 19 programmi di governo e nella scelta degli amministratori. Si tratta di due dimensioni diverse, e la loro sovrapposizione, che troppo spesso si tende ad osservare nelle retoriche adottate dagli amministratori e nei contributi scientifici, rischia di non giovare all’obiettivo di una democratizzazione complessiva della società. Per realizzare questo obiettivo, la riforma partecipativa delle istituzioni non può prescindere da un ripensamento della funzione dei partiti, quali luoghi primari della partecipazione, riaffermandone il ruolo di ponte tra società e istituzioni, di luoghi di dibattito e di definizione di modelli alternativi di società, e in generale dall’analisi delle forme e degli attori della sfera pubblica nella società tardomoderna. I processi partecipativo-deliberativi realizzati in ambito istituzionale sono oggi utilizzati come strumento centrale per ridefinire il rapporto tra governanti e governati, ma la loro stessa definizione di “sperimentazioni” o di “laboratori” sottolinea il loro porsi come strumenti di passaggio, più che come risposte definitive, nel quadro dell’obiettivo ambizioso di una “democratizzazione della democrazia” quale pratica che innervi la società in tutte le sue dimensioni, non fermandosi al confine tra sfera politica e sfera privata. Quando diciamo che la partecipazione dei cittadini non può essere confinata alle pratiche partecipativo-deliberative istituzionali, intendiamo quindi dire che vi è una pluralità di luoghi della partecipazione, a partire dalla famiglia, dalla scuola al luogo di lavoro, alle organizzazioni della società civile, in cui la partecipazione si afferma come pratica quotidiana. Un’istituzione fondamentale è in tal senso la scuola, luogo in cui i giovani apprendono ad essere cittadini, se si offre loro un ambiente di comunicazione e di partecipazione attiva, trattandoli come interlocutori attivi e non come mero soggetti passivi di trasmissione di conoscenza. Non vi è democrazia senza una cultura partecipativa da parte dei cittadini, e questa non si costruisce in laboratorio, ma nella pratica quotidiana. Bibliografia AA.VV. (2009), Comunicare partecipazione. Uno studio per una strategia comunicativa integrata a supporto dei processi inclusivi, Manuali, Regione Emilia-Romagna, 4. 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