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La democrazia deliberativa come risposta alla crisi della partecipazione?
Luca Raffini
1. Mutamento della politica e sperimentalismo partecipativo istituzionale
I cittadini non partecipano più come qualche decennio fa. L’orizzonte sociale e politico, in un
contesto di individualizzazione delle esperienze di vita, si chiude nella sfera privata e alimenta
un’ipertrofia della dimensione pubblica. I partiti perdono sempre più la loro funzione di raccordo tra
cittadini ed istituzioni e soffrono una crisi di consenso e di partecipazione. La crisi delle
organizzazioni di rappresentanza, e quindi dei soggetti chiamati a svolgere una funzione di
intermediazione tra società ed istituzioni, si riflette in un crescente distacco delle istituzioni dai
cittadini, indebolendone legittimità e capacità di governo.
Non si tratta di un incipit originale. Al contrario, queste prime righe costituiscono una premessa
comune a molti articoli e libri dedicati al tema della partecipazione, raffigurando un quadro comune
a tutte le democrazie avanzate ma che in Italia trova una sua declinazione particolare, per via delle
peculiarità del suo percorso di difficile e incompleta democratizzazione. Il crollo del Muro di
Berlino ha favorito lo scongelamento delle tradizionali ideologie ed eroso le basi del voto e delle
forme di partecipazione legate all’appartenenza. Queste sono state - insieme a quelle clientelari storicamente molto forti in Italia, e si sono cristallizzate in subculture territoriali che hanno
garantito una integrazione politica e sociale “particolare” che ha compensato la debolezza della
cultura democratica e il mancato sviluppo di una “religione civile” (Bollati 1983, Tullio Altan
1995). L’erosione delle ideologie e delle appartenenze, più che a un’unificazione nazionale mai
pienamente compiuta, ha favorito una prepotente riemersione del mai sopito particulare, che si
esprime politicamente nel trasformismo, nel clientelismo, nell’utilizzo del pubblico a fini privati.
Tutti fenomeni che si sono fusi nel determinare una degenerazione partitocratica della democrazia
italiana e il conseguente clima di sfiducia nei confronti di partiti che, paradossalmente, aumentano il
proprio potere nello Stato al tempo stesso che perdono risorse nella società, in termini di consensi e
di membership.
“Mani Pulite” ha costituito il detonatore che ha radicalizzato la crisi dei partiti e la
delegittimazione del ceto politico, e, agendo congiuntamente allo scongelamento della frattura
politica che, sin dal dopoguerra ha creato nel nostro paese le basi per una “democrazia bloccata”, ha
determinato uno sconvolgimento del sistema politico italiano. Ciò ha teoricamente aperto la strada
alla costruzione di una fase politica nuova, fondata sullo sviluppo di nuovi soggetti politici, sulla
riconfigurazione dei rapporti tra cittadini e istituzioni e delle forme della rappresentanza, sulla
trasformazione dei processi di legittimazione del ceto politico. Al tempo stesso, nei fatti, ha
riportato al centro del dibattito l’irrisolta questione della debole integrazione nazionale e della
fragilità della pratica democratica, al punto che la scomparsa o la trasformazione dei partiti della
prima repubblica ha visto la nascita di partiti regionalisti, populisti e personalisti, che hanno
caratterizzato la traiettoria della cosiddetta “seconda repubblica”. A venti anni di distanza da quella
fase, la fase di transizione non sembra ancora terminata, e gli assetti politici e istituzionali sono
tutt’altro che definiti, così come la configurazione dei partiti.
La lunga – e non conclusa – fase di transizione ha comportato profondi mutamenti nel circuito
della rappresentanza e, più in generale, nelle forme di raccordo tra società e sistema politico. La
scomparsa dei partiti di massa e la delegittimazione del ceto politico si sono riflessi nella ricerca di
leader forti e riconosciuti, sia a livello locale sia a livello nazionale e nello spostamento del
consenso dai politici di professione verso personalità provenienti dalla società civile.
L’indebolimento del ruolo dei soggetti politici collettivi conduce a una percezione di “svuotamento”
della politica, che trova completamento nel progressivo spostamento delle sedi decisionali dagli
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organi elettivi verso altre dimensioni - per esempio gli organismi sovranazionali, non direttamente
legittimati - e nella progressiva riduzione dei margini di intervento politico a favore del mercato. Il
declino della partecipazione, sembra costituire un naturale corollario di una generale
depoliticizzazione della società.
A ben vedere il quadro odierno si è via via arricchito e articolato, acquisendo una crescente
complessità. Più che di una scomparsa della politica, possiamo parlare oggi di una sua
trasformazione qualitativa, che comporta una radicale ridefinizione dei significati e delle forme
della partecipazione.
Se partecipare significa attivarsi, individualmente o collettivamente, in una pluralità di forme
(più o meno convenzionali) per contribuire a trasformare la società (Raffini 2011), il minore tasso di
partecipazione al voto, la minore iscrizione a partiti e sindacati e l’atteggiamento di critica nei
confronti delle istituzioni non si traducono necessariamente in una minore attivazione generale dei
cittadini, ma in uno spostamento del loro interesse, della loro passione, della loro energia, verso
nuovi spazi e nuovi strumenti. Associazioni, movimenti, comitati, sempre più riescono ad
intercettare le istanze partecipative, in particolare dei giovani, a scapito dei soggetti politici
tradizionali. Il “cittadino critico” (Norris 1999), interessato alla politica ma svincolato dalle
ideologie e non deferente verso l’autorità, non manifesta la sua adesione ai valori democratici
esprimendo consenso verso le istituzioni, ma, al contrario, esprimendo il suo dissenso, in nome di
una piena democratizzazione della società, soprattutto quando ritiene che la politica istituzionale sia
autoreferenziale e non rappresenti i reali bisogni dei cittadini. L’ampliamento della possibilità di
informazione - anche grazie alle nuove tecnologie digitali - e l’aumento delle risorse cognitive e
culturali dei cittadini aprono la possibilità di una forma di partecipazione che compie il distacco
dalle liturgie e dai riti di appartenenza propri del partito di massa, per ricomporsi in forma
individualizzata e pluralizzata. Si dice a proposito che i cittadini, oggi, si orientino sempre di più
verso forme di partecipazione single-issue, se non single-event. Oggi si può fare politica anche al di
fuori dei confini del sistema politico, per esempio attraverso pratiche come il consumerismo
politico.
Più che di crisi della politica possiamo quindi parlare di crisi della politica istituzionale, quale
conseguenza di uno “sfasamento culturale” (Loader 2007), di un’incapacità di comunicazione e di
interazione tra mondi che sembrano a volte parlare lingue diverse: quello della “politica dal basso”
e quello della politica istituzionale, coincidente con il circuito della rappresentanza e i suoi attori: i
partiti, l’arena elettorale, le istituzioni rappresentative.
La crisi della politica istituzionale “ricomprende, ad un tempo, la crisi di rappresentazione,
come crisi della vita pubblica, la crisi del sistema rappresentativo, ossia di quell’assetto di
collegamento stabile tra cittadini e governanti che ha provocato una crisi del parlamento e dei
partiti, e la crisi di rappresentatività, ossia di corrispondenza tra rappresentanti e rappresentati, che
determina apatia e astensionismo elettorale” (Sampugnaro 2011, p. 20; cfr. Melchionda 2005).
A livello di opinione pubblica, il crescente divario tra i bisogni e gli interessi dei cittadini e le
dinamiche autoreferenziali di riproduzione delle élite al potere ha preso la forma di un movimento
di protesta contro la “casta” e di un crescente sentimento antipolitico (Mastropaolo 2005), che
possiamo genericamente definire come un atteggiamento critico nei confronti della politica come
spazio istituzionale di governo della società. L’antipolitica si nutre dell’idea che vi sia un ormai
insanabile divorzio tra i problemi, i bisogni e le richieste dei cittadini e le dinamiche
autoreferenziali dei partiti e dei rappresentanti eletti, in altre parole tra la quotidianità della vita
sociale e le dinamiche del sistema politico, che svuota di significato il principio di rappresentanza.
Tale sentimento può assumere una forma passiva o attiva. Nel primo caso si esprime nella forma di
apatia, disinteresse, qualunquismo. Nel secondo caso non afferma un rifiuto della politica tout
court, ma di un particolare assetto della politica, dei suoi attori, delle sue modalità, e assume, in
particolare, un connotato antipartitico, contrapponendo alle degenerazioni del sistema partitico la
politica “vera”, sviluppata nell’ambito della società civile.
L’antipolitica intesa come antipartitismo, ovvero la sfiducia nei confronti dei politici di
professione e del sistema partitico, cui si contrappone la “vera democrazia” dei cittadini auto2
organizzati ha trovato oggi piena espressione nell’affermazione del Movimento 5 stelle (M5S), che
ha il suo punto di riferimento nella figura di Beppe Grillo. Il M5S esprime una piena
delegittimazione nei confronti dei partiti, della loro struttura, dei loro processi di selezione del ceto
politico, della prassi di gestione del potere da parte degli eletti, e delle forme di finanziamento della
politica. Si autodefinisce un “non-partito”, privo di strutture gerarchiche e che pone al centro la
deliberazione dei cittadini online. I programmi del movimento, a livello territoriale, sono definiti
dagli iscritti ai meet-up, i gruppi locali di discussione, cui i rappresentanti eletti nelle istituzioni
sono rigidamente vincolati, al punto di essere sottoposti a verifica del proprio operato e ad
eventuale sfiducia con scadenza regolare. Ciò in coerenza con l’idea che gli eletti non debbano
essere politici di professione, ma cittadini candidati in base al proprio curriculum e alla propria
integrità morale e penale, che debbano rimanere in carica per un periodo limitato, e che debbano
considerarsi “dipendenti” dei cittadini. Si tratta di una concezione del ruolo del partito e degli eletti
che solleva delicate questioni, in merito alla natura del vincolo di rappresentanza, all’autonomia
della politica, al ruolo stesso dei partiti e dei loro leader. Rimandando ad altri contributi per
un’analisi delle contraddizioni, delle aporie e delle problematicità connesse alla costruzione di un
partito-non partito (Fornaro 2012), e alla caratterizzazione del M5S come ambito di
sperimentazione di nuove forme di democrazia o come fenomeno populista (Miani 2007), ciò che
interessa in questa sede è che una simile proposta politica ha, a partire dalle elezioni amministrative
del 2010, ottenuto un crescente consenso, al punto di esprimere un proprio sindaco in una città
come Parma e di diventare il primo partito in Sicilia, nelle elezioni regionali del 2012, raccogliendo
un ampio consenso da parte di cittadini sfiduciati nei confronti dei partiti tradizionali.
Ma quali sono le dinamiche che hanno condotto i partiti politici ad essere considerati, da
protagonisti fondamentali della vita democratica di un paese, a organizzazioni chiuse ed
autoreferenziali, la cui azione costituisce un vincolo, più che una risorsa?
La risposta la troviamo nel processo di trasformazione dei partiti (Viviani 2011), da partiti di
massa, ancorati ad un’ideologia e a una base forte di riferimento, a partiti “pigliatutto” (Kircheimer
1979), che si rivolgono cioè a tutti i cittadini e nel mutamento organizzativo dei partiti verso la
forma del “partito leggero”. I partiti di massa erano organizzazioni radicate nella società, che si
definivano per una forte identità collettiva, di classe o religiosa, e che, anche grazie alle
associazioni collaterali, modellavano la vita sociale e politica dei propri iscritti “dalla culla alla
tomba”. Ancora prima che strumento di selezione dei rappresentanti, erano agenti di
socializzazione, costruttori di identità e strumenti di integrazione. Il superamento di questa forma
partito a favore del partito “pigliatutto” si ha a seguito dei processi di mutamento sociale, e in
particolare con il crollo delle ideologie, l’individualizzazione, la pluralizzazione e la crescente
complessità sociale, la riduzione del voto di appartenenza e (teoricamente) l’affermazione del voto
di opinione, che hanno spinto i partiti non più a identificarsi con un segmento della società, ma a
competere per il voto di tutti i cittadini. La caratterizzazione dei partiti come organizzazioni che, in
una logica di mercato, si contendono il voto degli elettori, infatti, afferma la centralità della strategia
dell’exit su quella della voice (Hirtshmann 1970). Secondo la logica dell’exit, chi non è soddisfatto
della proposta politica di un partito o ne è deluso, ha la libertà di votare per un altro partito, mentre
la logica della voice prevede che il partito sia l’ambito della discussione, del confronto e anche del
conflitto tra idee diverse, pur all’interno di una visione generale della società condivisa. Il risultato
dell’ipertrofia degli spazi di espressione della voice ha condotto a una diluizione delle differenze, in
nome della massimizzazione del consenso. Ma ha prodotto anche un altro fenomeno. Concependosi
come concorrenti nel mercato politico, i partiti vivono una progressiva diminuzione della
membership, dei quadri intermedi e dei militanti, al punto che nel “cartel party” (Kats, Mair 2002,
126) lo stesso partito finisce per coincidere con i leader, che affermano un rapporto diretto con gli
elettori, tramite i mass media. Ciò altera profondamente il ruolo dei partiti quali strumento di
mediazione e di raccordo tra società ed istituzioni, ponendo il problema di una crisi del loro ruolo
istituzionale.
Sempre meno radicati a livello di base, i partiti hanno spostato il proprio baricentro verso la
dimensione istituzionale. I “party on the ground” diventano “party in public office” (ivi), i cui
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legami con il territorio sono sempre più ridotti. A fronte di un indebolimento del proprio
radicamento nella società, la gestione del potere diventa un obiettivo funzionale alla propria
sopravvivenza, prima che una risorsa per governare e trasformare la società. Ciò al punto di
abbandonare la funzione di mediazione sociale per diventare delle sorti di semi-agenzie statali
(Raffini, Viviani 2011). È compiendo questa trasformazione che i partiti sempre meno assolvono la
loro funzione di anello di congiunzione tra società e istituzioni, di aggregazione e filtro delle
domande sociali e di loro trasformazione in un disegno organico di rappresentanza (Pizzorno 1996)
e ancor meno si pongono come spazio di discussione aperta ai cittadini.
Si crea dunque un vuoto tra cittadini e istituzioni politiche, che è colmato da imprenditori della
protesta e da leader populisti, che si appellano cioè alla loro capacità di porsi in connessione con i
cittadini e di rappresentarne i veri bisogni. Ma le risposte populiste danno sfogo ai sentimenti
antipolitici in una forma che aggrava ancor di più lo sfibramento del dibattito pubblico. Populismo e
antipolitica colmano il vuoto di rappresentanza offrendo ai cittadini solo l’illusione di un ritorno
della politica, coprendo il vuoto creatosi nel circuito della rappresentanza con simulacri di
partecipazione, ma contribuiscono nei fatti ad aggravare lo scenario postdemocratico (Crouch
2003), definito da un indebolimento della presenza dei partiti nella società e del loro appiattimento
sul versante istituzionale, dell’erosione dei legami verticali con la base e dell’aumento delle
relazioni opache tra leader politici e leader economici, della disaffezione politica dei cittadini.
L’agire congiunto dei processi sopra descritti converge nel determinare la crisi del dibattito
pubblico, vero e proprio luogo costitutivo della democrazia, sottraendo ai cittadini, soprattutto a
quelli meno dotati di risorse, gli strumenti di dibattito e di mobilitazione.
Una società complessa e differenziata, incapace di offrire strumenti collettivi di integrazione
politica, si espone al rischio di un’atomizzazione sociale, che riserva l’accesso all’arena politica a
chi è capace di autorappresentarsi, e quindi a una minoranza dei cittadini. Diventa, in poche parole,
una società democraticamente povera.
Vale la pena riportare quanto scrive Viviani a proposito:
“Una società di questo tipo non fa a meno della politica, ma richiede alla politica stessa una
nuova capacità di rappresentanza collettiva. Una democrazia esposta alla polverizzazione degli
intermediari tradizionali non può, infatti, difettare di forme di aggregazione e di rappresentanza
degli interessi, di culture politiche, di organizzazioni territoriali di partecipazione, della formazione
e del ricambio della classe dirigente. Nonostante il lamento della crisi, ancora nessuno ha
dimostrato come è possibile il funzionamento di una democrazia senza i partiti. Affermazione che
non equivale al dato per cui la democrazia deve essere ‘dei partiti’, e la partecipazione unicamente
strutturata ‘dai partiti’. La sfera pubblica riaperta, sia nelle dinamiche di accesso verticale alla sfera
decisionale, sia in quelle orizzontali di partecipazione politica, si è arricchita, anche in Italia, di
nuove forme e contenuti dell’agire collettivo. Tuttavia, perché continua a crescere il dato della
sfiducia nei confronti dei partiti? In Italia, come nel resto delle democrazie europee, la crisi dei
partiti porta con sé il paradosso di soggetti al contempo troppo deboli nella società e troppo forti
nelle attribuzioni di potere. E al tempo stesso si chiede non solo la democrazia dei partiti, ma la
democrazia nei partiti” (cfr. Raffini, Viviani 2011, p. 28).
È proprio come risposta proattiva alla parabola postdemocratica che osserviamo, da anni, una
crescente volontà riformatrice da parte di partiti ed istituzioni, impegnati nella costruzione di nuovi
canali di confronto, comunicazione e partecipazione che riescano a invertire il circuito
dell’antipolitica, riportando la centralità della “buona politica”. Gli strumenti utilizzati a tal
proposito sono le primarie (Gelli, Bolgherini 2011), a livello dei partiti e una pluralità di strumenti
di democrazia partecipativa e deliberativa, a livello amministrativo (Freschi, Raffini 2010). Le
prime hanno la funzione di riattribuire ai cittadini la sovranità in merito alla selezione del ceto
politico (sia per quanto riguarda la classe dirigente dei partiti sia in merito alla definizione delle
candidature). Gli strumenti della democrazia partecipativa e deliberativa si pongono l’obiettivo di
aprire nuovi canali di coinvolgimento dei cittadini nella definizione delle scelte amministrative,
integrando quindi il principio della rappresentanza con forme di partecipazione diretta ai processi
decisionali.
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È nostra opinione che se la questione principale da ridefinire è quella della connessione tra
politica dal basso e circuito della rappresentanza e della partecipazione dei cittadini alla definizione
dell’agenda e del programmi politici, sia le primarie sia i processi di partecipazione amministrativa
possono innescare dinamiche virtuose ma nessuno di questi strumenti, se non integrato in un
disegno più ampio, può rappresentare una soluzione, e anzi, in entrambi i casi gli strumenti possono
servire un ampliamento della partecipazione ma anche strategie di controllo. Le primarie si
concentrano sulla scelta dei leaders, più che sulla costruzione dell’agenda politica - per quanto
ovviamente la scelta dei candidati sia legata al programma da loro espresso – e possono favorire
una “partecipazione atomizzata” (Hopkin 2001) e di facciata, che consente ai leader di rafforzare il
controllo sul partito, al tempo stesso costruendo consenso (Sampugnaro 2011).
Anche i processi di partecipazione amministrativa, come vedremo, presentano questo duplice
volto, in quanto la loro attivazione può favorire la costruzione del consenso sulle scelte di governo
da parte delle amministrazioni, consentendo loro di imbrigliare la partecipazione spontanea in
forme maggiormente controllabili. Al di là di questo possibile uso degli strumenti per scopi
strumentali, appare evidente che, proprio in quanto promossi dalle amministrazioni, questi si
pongono a valle del confronto tra programmi di governo e di selezione dei rappresentanti, ovvero in
una fase in qui strategie, priorità e linee programmatiche di base sono già state definite.
Se l’elaborazione dei programmi non è avvenuta in modo partecipato, la realizzazione di
processi di partecipazione da parte delle amministrazioni non colmerà questa lacuna, in quanto la
partecipazione sulla definizione delle policy è diversa dalla partecipazione alla definizione
dell’agenda politica prima delle elezioni.
Le primarie e i nuovi strumenti di partecipazione amministrativa svolgono una serie di funzioni
tradizionalmente svolte dai partiti: il confronto e il dibattito pubblico, l’integrazione degli interessi,
la formulazione di progetti e proposte di governo, la selezione del ceto politico, ma né le primarie
né i processi di partecipazione ai processi decisionali possono sostituire il ruolo dei partiti, ed in
particolare la partecipazione dei cittadini alla definizione dei modelli di società.
In questa sede approfondiremo le virtù e i limiti dei processi di democrazia partecipativa e
deliberativa di tipo istituzionale, a partire dalla premessa che l’introduzione di questi processi, in
questa fase politica, può contribuire in maniera importante alla generazione di dinamiche virtuose,
ma a patto che questi non siano caricati di finalità e di significati che non possono rispettare.
I processi di partecipazione e deliberazione possono creare canali di coinvolgimento non
mediato alle istituzioni, ampliare gli spazi di dibattito e di confronto tra i cittadini e tra questi e gli
amministratori, intercettare le richieste e i bisogni dei “cittadini critici” e in generale dei cittadini
impegnati in forme di partecipazione dal basso, ricreare quindi la connessione tra politica
istituzionale e politica dal basso, favorire dinamiche virtuose di creazione di capitale sociale e di
sviluppo di una cultura politica partecipativa.
Ma quanto queste proposte riformatrici riescono ad intercettare le richieste e i bisogni espressi
dai “cittadini critici” e quanto rispondono ad esigenze interne alle amministrazioni e ai leader dei
partiti? Quanto sono finalizzate alla governabilità e quanto all’attivazione di processi genuinamente
partecipativi? Quanto realmente riescono a riconnettere istituzioni e società? E soprattutto, possono
essere pensati come strumenti di riforma della politica nel lungo periodo, e quindi come strumenti
integrabili a titolo organico in una nuova prassi di governo, o sono sperimentazioni di breve
periodo, utili per sperimentare nuove modalità di partecipazione in un contesto di crisi degli
strumenti tradizionali?
Nel presente capitolo si cercherà di dare alcune risposte a queste domande, fornendo un
bilancio sintetico delle esperienze realizzate e indicando a quali condizioni l’apertura di nuovi
canali di partecipazione e deliberazione riesce a favorire una virtuosa dinamica di reciproco
apprendimento tra cittadini e istituzioni, che consenta ai primi di esprimere la loro voce e di
cooperare attivamente al governo del proprio territorio, alle seconde di accrescere la legittimità e di
approdare a decisioni più efficaci.
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2 L’evoluzione della governance locale in Italia
La crisi dei partiti e degli assetti istituzionali della prima repubblica alimenta un crescente clima
di protesta antipolitica che sfocia in un vasto movimento di opinione che, negli anni Novanta,
chiede profonde riforme istituzionali, in chiave antipartitocratica. La Legge 241/1990 di riforma le
autonomie locali e l’elezione diretta del Sindaco (Legge 81/1993), fanno da preludio alla stagione
dei “nuovi comuni” (Catanzaro et al. 2002). Ne consegue un nuovo stile di governo, fondata sulla
centralità della figura del sindaco, che svela presto i limiti di una “illusione decisionista” (Paci
2008), che, in nome dell’efficacia dell’azione di governo, acuisce la sensazione di una chiusura
degli spazi democratici.
Si fa strada la consapevolezza della necessità, da parte delle istituzioni, di introdurre nuove
forme di raccordo con i cittadini e la società civile, che possano compensare l’indebolimento delle
funzioni tradizionalmente svolte dai partiti, creando inediti canali di mediazione tra il ceto politico e
i nuovi soggetti collettivi che sempre più si rivelano in grado di intercettare la partecipazione
sociale e politica: associazioni, movimenti, comitati di quartiere.
Si sperimentano quindi strumenti innovativi, che attribuiscono agli amministratori locali un
ruolo diverso rispetto a quello del decisore solitario, trasformandoli in “registi” di inedite forme di
governance territoriale allargata (Bobbio 2002, Vicari 2001)1, in linea con l’impulso dato dalla
riforma dell’Articolo V della Costituzione, che pone una forte enfasi sul principio di sussidiarietà,
sia verticale (cioè sulla devoluzione di poteri verso i livelli amministrativi più vicini ai cittadini) sia
orizzontale (promuovendo le virtù di un’amministrazione condivisa tra istituzioni, soggetti privati e
terzo settore).
La questione della necessità di rivitalizzare la democrazia tramite nuovi strumenti di
coinvolgimento di cittadini e stakeholders trova spazio, nello stesso periodo, in una serie di
documenti prodotti da organismo sovranazionali, dalle Nazioni Unite alla OCSE. Dalla Banca
Mondiale al FMI. A livello europeo documenti di riferimento in tal senso sono il Libro bianco per
una governance europea (2001) e, in seguito, il Piano D per la democrazia, del 2007, che pone le
fondamenta per un pieno utilizzo delle potenzialità offerte dalla rete per implementare processi di
consultazione e di partecipazione online (Bozzini 2010).
Gli esiti delle prime sperimentazioni implementate in Italia hanno tuttavia condotto a esiti
limitati, sul piano della qualità e della quantità della partecipazione quanto sul piano dell’impatto
sul processo decisionale. Strumenti come i Piani strategici ed i Patti territoriali non sono riusciti a
scostarsi significativamente dai tradizionali strumenti di concertazione, si sono rivolti
prevalentemente alla partecipazione degli stakeholders. Il coinvolgimento è risultato selettivo, ha
intercettato i portatori di interesse ma non i cittadini comuni.
Con il nuovo millennio inizia la sperimentazione di strumenti di partecipazione finalizzati al
coinvolgimento di un pubblico più ampio, quali le Agende 21 locali e i Bilanci Partecipativi.
Quest’ultimi si propongono di integrare i canali della democrazia rappresentativa con spazi di
partecipazione diretta dei cittadini, cui si dà la possibilità di decidere sull’allocazione di una parte
del bilancio comunale, tramite un processo fondato su momenti di discussione, definizione delle
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Il paradigma della governance indica uno spostamento della legittimità delle decisioni dall’input (una
decisione è legittima perché il decisore politico è legittimato ad assumere la decisione) all’output (una decisione è
legittima se efficiente/efficace), dalle procedure ai risultati, ossia, dalla legittimazione democratica dei decisori alla
valutazione dell’efficienza e dell'efficacia delle singole decisioni (Bifulco 2008). La governance apre nondimeno la
porta ad un terzo tipo di legittimità, quella di tipo processuale, per cui a determinare la legittimità delle decisioni
contribuisce la qualità del processo, ovvero la sua inclusività e la sua qualità interattiva (Sharpf 1999). In seno a questo
paradigma sembra schiudersi dunque la possibilità di una democrazia in cui il principio della rappresentanza si
arricchisce di nuove possibilità di coinvolgimento diretto di una pluralità di soggetti, dagli stakeholder ai cittadini
comuni, che contribuiscono al governo della società attivandosi in forma diretta e con modalità innovative in processi di
decision-making allargati, interattivi ed orizzontali. Ciò comporta un mutamento radicale del ruolo e del funzionamento
dei governi locali. Questi, secondo il principio della sussidiarietà verticale, sono oggi il terminale di prossimità di una
governance multilivello, che a sua volta, secondo il principio della sussidiarietà orizzontale, coinvolge soggetti pubblici,
privati e del terzo settore, aprendo la porta a una partecipazione diretta ai processi decisionali di tutti i soggetti
interessati.
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priorità e voto.
A fronte dell’entusiasmo che ha accompagnato la loro sperimentazione, gli esiti concreti delle
esperienze avviate sono stati tuttavia deludenti, e al momento di tracciare un bilancio possiamo
affermare che salvo poche felici eccezioni, l’introduzione di simili pratiche partecipative non è
riuscita nel realizzare l’ambizioso obiettivo di integrare i tradizionali canali della democrazia
rappresentativa con forme di democrazia partecipativa. Rimandando ad altri studi per una
riflessione approfondita sulla stagione dei BP (Sintomer, Allegretti 2009), è utile sintetizzare i loro
principali elementi di debolezza.
1) Sul piano dei partecipanti, l’incapacità di coinvolgere se non una minoranza della
popolazione (generalmente attorno all’1% della popolazione), solitamente già socialmente e
politicamente attiva, e in particolare le difficoltà ad attrarre le categorie tradizionalmente meno
inclini ad esprimere pubblicamente la propria voce, quali donne, giovani, immigrati. Il metodo della
“porta aperta” (Bobbio, Pomatto 2008), che si limita cioè ad aprire uno spazio a tutti i cittadini
interessati, finisce per favorire processi di “autoselezione”, il cui esito è la sovra rappresentazione
del seguente profilo: anziano, maschio, di istruzione media o medio-alta, politicamente attivo.
2) Sul piano della qualità dell’interazione, la scarsa attenzione posta sulla strutturazione dei
processi e sulle tecniche di facilitazione, finisce per ricondurre l’esperienza ad un assemblearismo
classico, in cui i partecipanti più abituati a parlare in pubblico riescono a influenzare l’andamento
delle discussioni, spesso introducendo atteggiamenti strumentali (le associazioni più grandi portano
all’assemblea i loro soci per orientare le decisioni, ecc). Gli esiti del processo infine, sono
determinati a seguito del tradizionale meccanismo del voto, cui partecipano, in molti casi, anche
cittadini che non hanno preso parte alle assemblee, contribuendo così ulteriormente ad attenuare il
principio della partecipazione diretta.
3) Un’importante problematica riguarda infine il versante politico-amministrativo. Raramente
l’apertura del canale partecipativo è frutto di un investimento condiviso da parte
dell’amministrazione, e non di rado si verificano contrasti se non forme più o meno velate di
boicottaggio da parte di assessori, consiglieri, dirigenti, timorosi di subire una perdita di potere.
L’incapacità di adeguare le strutture amministrative, sul piano procedurale e comunicativo, alle
esigenze di un percorso di partecipazione che richiederebbe trasparenza, apertura, dialogo, non
contribuisce a rendere la partecipazione una prassi piuttosto che un’eccezione.
4) Infine, lo stesso principio cu sui si fonda il BP ne costituisce un limite. Riservando la
partecipazione alla definizione delle priorità riguardo una quota ristretta del bilancio comunale,
solitamente in materia di investimenti straordinari (la realizzazione di un parco pubblico, delle piste
ciclabili, di un centro giovani, ecc), il BP non apre la partecipazione alle scelte strategiche di un
comune, e non tocca, per esempio, la definizione degli investimenti ordinari (anche per via delle
crescenti riduzioni ai bilanci che vincolano le spese ai capitoli fondamentali). Nei casi più critici, la
separazione tra strategia partecipativa su una dimensione e prosecuzione delle più tradizionali
pratiche di governo (spesso poco trasparenti) su altre, spesso più rilevanti, rischia, oltre che ottenere
scarsi effetti sul piano pratico e simbolico, di alimentare la sensazione di un ricorso strumentale alla
partecipazione, come espediente retorico che sposta l’attenzione dalle reali sedi decisionali.
In anni ancora più recenti è fiorita una nuova stagione di sperimentalismo, che si è dotata di
strumenti più raffinati, con l’ambizioso obiettivo di coniugare obiettivi che in molte occasioni sono
sembrati porsi in contraddizione: efficacia e legittimità delle decisioni; inclusività e qualità
dell’interazione. La parola chiave che caratterizza il nuovo orizzonte delle sperimentazioni è
“deliberazione”. Si può parlare a proposito della diffusione di strumenti partecipativo-deliberativi
(Freschi, Raffini 2010).
3 Verso una governance partecipativo-deliberativa?
Si parla di “governance partecipativo-deliberativa” per denotare un parziale ripensamento degli
obiettivi seguiti e un radicale rinnovamento degli strumenti adottati. I principi chiave della
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governance (partenariato, sussidiarietà, orizzontalità) si sposano con quelli della partecipazione e
dell’empowerment dei cittadini, singoli ed associati, e l’obiettivo della massima inclusività si
integra con quello della qualità deliberativa dell’interazione, per servire l’ambizioso progetto di una
“amministrazione a più voci” (Bobbio 2004). Ciò a partire dal principio che per governare società
complesse siano necessarie forme di coinvolgimento dei cittadini al di là del principio della delega,
e che per favorire una interazione positiva tra soggetti portatori di interessi, punti di vista, culture e
valori diverse, siano necessari nuovi metodi di confronto.
Deliberare, nel senso qui adottato, non significa decidere, come in italiano corrente si è abituati
a pensare (il termine deliberare evoca l’immagine del giudice che, deliberando, esprime una
decisione vincolante), ma, secondo il significato inglese del termine, significa pervenire a una
opinione (che può trasformarsi in decisione) in forma collettiva, a seguito di un processo
dibattimentale in cui ogni partecipante espone le proprie ragioni e ascolta quelle degli altri, in
condizioni di libertà e di uguaglianza. Una comunicazione libera e non distorta favorisce una
reciproca trasformazione delle opinioni iniziali. In una “situazione discorsiva ideale” non sono le
pretese di potere o gli interessi di parte a determinare l’esito del confronto, ma “la forza della
migliore argomentazione” (Habermas 1994). L’ideale deliberativo è lontano dal trovare
applicazione nella politica reale, in cui le logiche prevalenti sono quelle del potere, della
strumentalità, dello scontro tra interessi precostituiti e non conciliabili. L’obiettivo perseguito è
introdurre spazi reali di deliberazione, in cui cioè i partecipanti discutano apertamente tra di loro,
formando una visione il più possibile completa del tema oggetto di discussione, della diversità di
opzioni, interessi, conoscenze e punti di vista. Ciò al fine di superare la tradizionale concezione
della democrazia come un “gioco a somma zero” (in cui, tramite il meccanismo della maggioranza,
tra due o più opzioni ne vince una), per affermare un “gioco a somma positiva”, in cui cioè l’esito
del processo rappresenta una sintesi avanzata degli interessi e dei punti di vista in gioco, che si
trasformano nel corso stesso del processo. Facendo riferimento alle categorie concettuali proposte
da Elster, si tratta di “integrare”, piuttosto che di “aggregare” gli interessi (Elster 1986). Sul piano
sociologico, una concezione integrativa della democrazia la fa pensare come uno strumento di
(ri)costruzione della comunità politica e di perseguimento del bene comune, laddove una
concezione aggregativa della democrazia, che equipara la politica ai meccanismi del mercato, si
fonda su un’idea di società composta di individui singoli, animati da interessi prefissati e che
interagiscono strumentalmente con gli altri per massimizzare il proprio interesse.
Si implementano inedite “arene deliberative” (Bobbio 2002), spazi circoscritti e protetti, la cui
strutturazione, unitamente al ricorso a raffinati metodi di facilitazione, ha l’obiettivo di favorire
dinamiche genuinamente deliberative. Per capire il principio sottostante a questi nuovi strumenti
possiamo prendere ad esempio il percorso di pensiero che ha portato all’ideazione di uno di questi,
il Sondaggio Deliberativo (SD).
Alle radici del Sondaggio Deliberativo, ideato dallo scienziato politico statunitense James
Fishkin (1991), vi è una critica all’utilizzo costante dei sondaggi da parte del ceto politico per
tastare il polso all’opinione pubblica, avere un quadro delle preferenze dei cittadini e avere in
anticipo un’idea sul livello di gradimento di un’eventuale decisione politica. I sondaggi, infatti,
strumento principe di raccordo tra cittadini e leaders politici nel contesto della politica mediatizzata,
raccolgono le opinioni irriflesse dei cittadini, che nella maggioranza dei casi esprimono un parere
senza avere una piena conoscenza delle opzioni possibili e che sono chiamati a scegliere tra opzioni
mutualmente esclusive, senza avere la possibilità di dialogare con gli altri cittadini e confrontare le
diverse opinioni. Il sondaggio diventa per questa via uno strumento che si presta a manipolazioni e
a semplificazioni, al servizio di uno stile di governo populista, che mira cioè ad ottenere il consenso
e non a promuovere reali processi di elaborazione politica pubblica.
Fiskhin, si è chiesto cosa succederebbe se i cittadini, invece che contattati nella forma
tradizionale, fossero posti nelle condizioni di fondare il proprio giudizio su una conoscenza
approfondita della materia e avendo la possibilità di discutere apertamente tra loro: i risultati
cambierebbero? O confermerebbero quanto emerso nel sondaggio tradizionale?
Lo strumento del Sondaggio Deliberativo (o Sondaggio Informato) risponde a questo
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interrogativo. Un campione rappresentativo di cittadini viene selezionato e sondato, secondo il
metodo tradizionale. Un sottogruppo del campione è quindi chiamato a prendere parte a un evento
deliberativo, cui i partecipanti si presentano dopo avere ricevuto e letto dei documenti di
approfondimento, selezionati in modo di offrire una rappresentazione fedele dei punti di vista in
gioco.
Nel corso dell’evento i partecipanti, (solitamente 500-1000) si dividono in tavoli composti da
circa dieci persone, in cui, assistiti da un facilitatore, possono dibattere tra di loro (ciò perché una
reale dinamica deliberativa non può prendere forma in platee troppo ampie, in cui, inevitabilmente,
solo una minoranza di partecipanti prenderà la parola, mentre la maggioranza adotterà un
comportamento passivo). I momenti di deliberazione si alternano a momenti in cui gli esperti
presentano i loro diversi punti di vista. Al termine dell’evento, della durata di uno o due giorni, i
partecipanti sono invitati a votare nuovamente rispondendo alle stesse domande contenute nel
primo sondaggio. Generalmente i risultati divergono in maniera significativa rispetto al sondaggio
iniziale. Per fare un esempio, un campione di cittadini danesi – convocati da un gruppo di
ricercatori in seguito al referendum nazionale in cui la maggioranza si era espressa contro l’ingresso
nell’Euro – a seguito di un sondaggio deliberativo hanno trasformato la propria opinione rispetto a
quella che avevano prima di iniziare la discussione, al punto che, sostengono i realizzatori
dell’evento, se tutti i cittadini danesi avessero scelto sulla base di una conoscenza di tutti gli
elementi utili per valutare, e a seguito di un processo deliberativo, la Danimarca avrebbe oggi
l‘Euro come moneta (Andersen, Hansen 2007).
Strumenti come il Sondaggio Deliberativo permettono ai decisori di arricchire i propri elementi
di valutazione, e ai cittadini - non solo a chi partecipa direttamente - di allargare le proprie
conoscenze.
La pubblicizzazione dei risultati degli eventi realizzati, infatti, offre anche ai cittadini non
coinvolti la possibilità di vedere come altri cittadini siano approdati, grazie alla deliberazione, a
opinioni diverse rispetto a quelle iniziali. Il principio sottostante al SD è comune ad una pluralità di
strumenti, accomunati dal loro tentativo di arricchire la qualità democratica arricchendone la
dimensione deliberativa.
Possiamo ora sintetizzare le principali virtù che nella letteratura vengono solitamente associate
ai processi partecipativo-deliberativi (Pellizzoni 2005; Giannetti 2006):
1) Una virtù cognitiva. La deliberazione pubblica rende possibile un ampliamento delle
informazioni su cui fondare un giudizio, permette a tutti i punti di vista di confrontarsi e
di trasformarsi reciprocamente. Sul piano sociologico possiamo dire che aiuta, se non a
superare, ad attenuare il problema della razionalità limitata. Rende in definitiva
possibile un arricchimento informativo sia dei cittadini sia delle istituzioni, di
tematizzare le esternalità delle decisioni, di confrontare le alternative anticipando in
questo modo i possibili conflitti che possono derivare da decisioni assunte in altra
forma.
2) Una virtù civica. In un contesto segnato dall’erosione del capitale sociale, la reciproca
conoscenza favorisce la generazione di legami fiduciari. La partecipazione favorisce la
ricostruzione di un senso di comunità, non nella forma esclusiva dei localismi, ma in
forma aperta e solidale, coinvolgendo tutti gli attori del territorio nell’elaborazione di
progetti condivisi. Spinge a superare le reciproche chiusure, promuovendo il confronto e
l’interazione positiva tra la diversità. La partecipazione deliberativa promuove un
allargamento dell’orizzonte individuale, costruisce modelli relazionali che fuoriescono
dall’individualità ponendosi così al servizio di un “fare società” che assume la forma
della trasformazione comune, nella gestione condivisa delle scelte che riguardano il
proprio territorio. Il riavvicinamento tra cittadini e politica assume così la forma di una
pratica politica intesa come vivere quotidiano.
3) Una virtù democratica. I processi partecipativo-deliberativi offrono un canale integrativo che
permette di esprimere la propria voce a chi non lo fa nei canali tradizionali, alle
minoranze, e in generale a chi, per via delle scarse risorse culturali, economiche e
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sociali, è posto al margine della politica. Una decisione preceduta da un processo di
deliberazione pubblica sul piano teorico, non è solo ‘migliore’, nel senso che è più
efficace, ma è più legittima. Coinvolgendo tutti i destinatari di una decisione, dovrebbe
anche avere l’effetto di prevenire il conflitto, soprattutto quando espressione delle
sindromi NIMBY – Not in My Back Yard e LULU – Locally Unwanted Land Use
(Della Porta, Piazza 2008): altro obiettivo rilevante, dal momento che sempre più le
decisioni riguardanti l’utilizzo del territorio sono oggetto di violenti e durevoli conflitti,
che finiscono per diventare ingestibili, aumentando, peraltro, i costi economici e sociali
delle opere realizzate.
In Italia il ricorso ai processi partecipativo-deliberativi (Pecoriello e Rispoli 2007; Bobbio e
Pomatto 2008) ha visto un particolare protagonismo delle amministrazioni regionali e locali di
centro-sinistra, che hanno visto in questi strumenti la possibilità di ricostruire in modo nuovo il
legame tra istituzioni, cittadini comuni e soggetti attivi nella partecipazione dal basso, a fronte di un
progressivo venir meno del ruolo di cerniera e di sintesi del partito tra istituzioni locali e società
civile e del rischio di erosione del capitale sociale, in territori in cui la voglia di partecipare non è
venuta meno, ma non trova adeguati canali per esprimersi (Floridia 2008).
Non è un caso che le prime regioni Italiane a dotarsi di una’apposita Legge che disciplina i
nuovi strumenti partecipativi-deliberativi, siano state le regioni a subcultura rossa, caratterizzate da
un tradizionale tessuto civico, ma che è oggi a rischio di sfaldamento. La Toscana nel 2007 ha
approvato la legge 69/2007, Norme sulla promozione della partecipazione alla elaborazione delle
politiche regionali e locali. La stessa legge è stata approvata al termine di un articolato processo di
coinvolgimento di cittadini, esperti e stakeholders, che si è dipanato tramite assemblee aperte,
seminari, incontri sul territorio, e che ha avuto il suo momento centrale in un Electronic Town
Meeting (ETM) che ha visto la partecipazione di circa 400 cittadini, la maggioranza iscritta
volontariamente, una minoranza coinvolta tramite sorteggio tra i cittadini toscani (Freschi, Raffini
2008).
La legge toscana costituisce sicuramente un modello di riferimento a livello italiano ed
europeo. I primi anni di sperimentazione hanno condotto alla realizzazione di decine di processi di
partecipazione a livello locale, rendendo la Toscana il cuore della sperimentazione partecipativodeliberativa in Europa. Anche la regione Emilia-Romagna ha adottato una propria legge (L.
3/2010). Allo stesso anno risale la legge umbra (14/2010).
4. Gli strumenti della deliberazione
L’impetuoso sperimentalismo partecipativo sviluppatosi nell’ultimo decennio potrebbe indurre
a trovare analogie con la stagione partecipativa degli anni sessanta-settanta. In realtà i fenomeni di
cui parliamo sono assai diversi. Nel primo caso la partecipazione nasce da un movimento dal basso,
che rivendica la costruzione di spazi partecipativi segnati dall’informalità e dalla spontaneità, cui le
istituzioni e i partiti rispondono con una stagione di riforme. Al contrario, i processi partecipativi di
cui parliamo oggi nascono proprio dalla constatazione che una quota crescente di cittadini, in
particolare i giovani, è ridotta all'apatia e alla passività, mentre le minoranze attive si pongono
spesso in conflitto con i luoghi e gli attori della partecipazione istituzionale. È a fronte di questo
scenario che le istituzioni rispondono proponendo strumenti di natura top-down, disegnati, da un
lato, per stimolare la partecipazione dei cittadini silenti, dall’altra per convogliare i molteplici
ruscelli di una partecipazione frammentata, che si dipana attraverso una pluralità di soggetti
collettivi scarsamente dialoganti. È in questo senso che si parla di “partecipazione strutturata” per
indicare un “insieme articolato e strutturato di fasi di lavoro e di confronto e inclusione dei vari
soggetti, e con l’ausilio di varie tecniche e approcci” (AA.VV 2009, 22).
Gli strumenti proposti sono raffinati, nella struttura e nel funzionamento, e richiedono apposite
professionalità e competenze, al punto da suggerire, dopo la stagione dei politici di professione e
quella dei professionisti/tecnici l’ingresso in una terza fase, quella dei “professionisti della
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partecipazione” (cfr. Raffini, Viviani 2011), che non intervengono nei processi quali portatori di
conoscenze sul tema oggetto del confronto, ma apportandovi le migliori tecniche per favorire il
contributo attivo di tutti i soggetti interessati e competenti sul tema.
Proprio la crescente professionalizzazione e la crescente sofisticazione degli strumenti hanno
alimentato una letteratura critica, che intravede il rischio di una tecnicizzazione del processo
democratico, e quindi di un processo di depoliticizzazione piuttosto che lo sviluppo di una nuova
cultura politica democratica. Prendendo sul serio questa critica, chi si accosta a questi dispositivi
per promuovere la quantità e la qualità del coinvolgimento dei cittadini, deve prestare attenzione
affinché l’enfasi posta sugli strumenti non prenda il sopravvento sull’attenzione ai contenuti e agli
obiettivi sostanziali. La necessaria conoscenza delle tecniche e degli strumenti servirà quindi per
disegnare il percorso di partecipazione migliore in base all’oggetto da porre in discussione, agli
obiettivi del processo, ai soggetti coinvolti, ecc.
Il ventaglio delle tecniche e degli strumenti oggi a disposizione delle amministrazioni che
vogliono aprire le porte a cittadini e soggetti collettivi di vario genere è assai variegato. Per
orientarsi è opportuno prima di tutto distinguere tra diversi livelli di coinvolgimento dei cittadini, in
termini di cessione di potere.
Facendo riferimento alla tipologia proposta dall’OCSE (2001), possiamo individuare tre livelli.
1) L’informazione. Si tratta di una relazione unidirezionale che vede i cittadini come ricettori
passivi. Si tratta nondimeno di un elemento chiave della democrazia, e che costituisce il
presupposto di ogni eventuale forma di attivazione da parte dei cittadini.
2) Consultazione. È una relazione bidirezionale, che prevede quindi che i cittadini esprimano le
proprie opinioni e le indirizzino all’amministrazione. I contenuti espressi dai cittadini
potranno essere utilizzati ai fini del processo decisionale, ma non sono vincolanti.
3) Partecipazione. Prevede un partenariato tra cittadini e amministratori, e quindi un
coinvolgimento attivo dei primi nei processi decisionali, fermo restando che, nel contesto
della democrazia rappresentativa, la responsabilità della decisione rimane completamente
dell’amministrazione.
Solo in questa ultima fattispecie vi è una forma di empowerment dei cittadini, ovvero di
attribuzione diretta di potere, ma le modalità e le forme di realizzazione di questo principio possono
assai variare.
Uno degli elementi di differenziazione principale riguarda l’equilibrio che si crea tra principio
dell’inclusività e principio deliberativo, dal momento che il primo, come approfondiremo più in
dettaglio, spesso nella pratica si pone in conflitto con il secondo. Gli strumenti pensati per
massimizzare l’avvicinamento all’ideale deliberativo stabiliscono delle barriere all’ingresso, in
modo da selezionare una platea il più possibile “deliberante”. Altri strumenti privilegiano il criterio
della massima inclusività, sono quindi aperti alla partecipazione di tutti gli interessati, e concedono,
anche nello stile di partecipazione, un certo livello di deviazione dell’ideale deliberativo,
ammettendo per esempio i claims conflittuali. Tra partecipazione e deliberazione vi è un trade-off:
per cui il perseguimento di un massimo criterio di apertura porterà inevitabilmente a rinunciare al
perseguimento di una deliberazione in senso forte.
Più in dettaglio, tra gli aspetti principali che definiscono i diversi strumenti vi sono i seguenti:
1) Criterio di selezione dei partecipanti. Sondaggi Deliberativi, Giurie di Cittadini, Electronic
Town Meeting prevedono una selezione dei partecipanti tramite campionamento statistico della
popolazione. L’obiettivo è ricreare artificialmente un “minipubblico” (Goodin, Dryzek 2006),
ovvero una platea di cittadini comuni, che siano uno spaccato della società, in modo da coinvolgere
anche i cittadini che in altre condizioni non parteciperebbero. Altri strumenti, come i Dibattiti
Pubblici, gli Open Space Technology, i Bar Camp, sono aperti a tutti gli interessati.
2) Target. A seconda del tema oggetto del processo, il target di riferimento può essere l’intera
cittadinanza o una categoria specifica (giovani, studenti, commercianti, ecc). Vi sono processi
rivolti ai cittadini, che solitamente prevedono una partecipazione a titolo individuale, e processi
rivolti agli stakeholders, ovvero a tutti i soggetti che hanno un interesse in gioco, a vario titolo.
3) Livello di strutturazione. Alcuni strumenti prevedono una strutturazione rigida, che incanala
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la discussione su tracce di discussione prefissate, che prevedono una precisa suddivisione dei tempi
e determinano anche la collocazione spaziale dei partecipanti. È il caso dell’Electronic Town
Meeting (Aicardi, Garramone 2011), in cui i partecipanti sono assegnati a dei tavoli, e sono invitati
a non muoversi durante l’intero evento, mentre altri fanno della destrutturazione e dell’informalità
l’elemento qualificante. Esemplare in tal senso è l’Open Space Technology (Aicardi, Garramone
2009). Nato dall’intuizione del suo ideatore, Howen, che nei convegni e nelle riunioni di lavoro la
massima creatività emerge durante la pausa caffè, in cui i partecipanti possono discutere
liberamente e informalmente, si ispira a un massimo criterio di informalità. I partecipanti, dopo una
breve introduzione da parte del facilitatore, sono liberi di proporre i temi da discutere e di divedersi
in gruppi, che producono un report della discussione sviluppata. I partecipanti possono cambiare
gruppo quando vogliono e i gruppi possono sciogliersi e riunirsi liberamente.
4) Dimensioni. Le Giurie di Cittadini, il cui funzionamento prende ispirazione del modello
delle giurie popolari del tribunale, prevede un numero ristretto di persone coinvolte, al fine di
rendere possibile un’interazione in profondità. Altri dispositivi, come il Dibattito Pubblico
francese (Debàt Public2, Fourniau, Tafere 2010), avvalendosi di assemblee e della rete quale
luogo di scambio di informazioni e opinioni, non pongono limiti al numero di persone coinvolte,
che possono d’altra parte avere livelli diversi di coinvolgimento, da una piena attivazione a un
semplice ruolo di spettatore passivo. Altri strumenti, come ETM e SD, coinvolgono un numero
di partecipanti relativamente elevato (da 200 a 1000 o anche di più) ma la suddivisione in tavoli
consente di sviluppare la deliberazione in gruppi ridotti.
5) Modalità di facilitazione. La presenza di facilitatori, che gestiscono il processo in tutte le
sue fasi e che guidano le dinamiche interattive durante gli eventi, è un elemento che
contraddistingue i processi partecipativo-deliberativi, differenziandoli dal tradizionali metodo
assembleare. Dai punti precedenti risulta tuttavia evidente che il ruolo dei facilitatori può essere
più o meno visibile e più o meno stringente. Ciò non significa che anche nei processi più
informali il ruolo dei facilitatori non sia fondamentale ai fini della riuscita dell’evento.
6) Obiettivi del processo. Se il tipo di recepimento dei risultati del processo è stabilito a priori
dal soggetto che lo promuove, diverso è l’outcome prodotto dai diversi dispositivi. In particolare, la
distinzione è tra strumenti finalizzati a indirizzare i partecipanti verso un’opinione condivisa, o
comunque maggioritaria (ad esempio tramite lo strumento del voto), e strumenti che non ambiscono
a determinare una sintesi, ma il cui obiettivo è raccogliere tutti i punti di vista, maggioritari e
minoritari, da raccogliere in un report.
7) Utilizzo delle nuove tecnologie. L’utilizzo delle tecnologie digitali costituisce una
straordinaria risorsa al fine di stimolare la partecipazione. Se, in ogni caso, l’utilizzo delle NTIC è
fondamentale ai fini della comunicazione del processo, prima, durante e dopo, alcune metodologie
prevedono un utilizzo delle tecnologie digitali anche ai fini del singolo evento, integrando la
partecipazione online con quella offline, o proponendo spazi di deliberazione online. Anche in
questo caso, la scelta di come utilizzare le nuove tecnologie deve essere effettuata valutando il
pubblico di riferimento, a partire dal suo livello di alfabetizzazione digitale.
La scelta di uno o dell’altro deve quindi rispondere ad un’attenta analisi del tema trattato (per
esempio un tema caratterizzato da un forte conflitto deve essere affrontato diversamente da uno su
cui il conflitto è minore), dell’obiettivo (produrre decisioni o opinione, perseguire il consenso o la
massimizzazione dei punti di vista), del tipo di partecipanti (cittadini comuni, scarsamente
informati, o esperti, persone più o meno abituate ad esprimersi in pubblico). Infine, all’interno di un
percorso più ampio, è auspicabile integrare diversi strumenti, da utilizzare in diverse fasi del
processo e a seconda del tipo di partecipanti.
2
Il Dibattito Pubblico è un processo di partecipazione e deliberazione regolata da un’apposita Commissione nazionale,
e che si attiva in occasione della realizzazione di grandi opere sul territorio. Nel prosieguo dell’articolo, per non
confondere lo specifico strumento del Dibattito Pubblico con il riferimento generico al dibattito pubblico, si ricorrerà
alla denominazione francese Debàt Public.
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5. Limiti e potenzialità della democrazia deliberativa nella pratica
Secondo una concezione deliberativa della democrazia, il dibattito pubblico non è un optional,
ma una componente costitutiva della democrazia, in quanto la deliberazione è “strumento inclusivo
e medium comunicativo della democrazia” (Pellizzoni 2005, 22). Il tema della preservazione e della
costruzione ex novo di spazi deliberativi è questione ancor più centrale al momento che al
deterioramento della deliberazione nell’ambito della sfera pubblica si aggiunge un indebolimento
del ruolo degli organi istituzionali preposti alla deliberazione (le assemblee legislative) a favore di
un rafforzamento degli esecutivi, associata ad uno spostamento della sede decisionale verso questi
ultimi, parallelamente ad una riduzione del ruolo dei partiti quali strumenti di connessione tra
deliberazione “micro” delle assemblee legislative e deliberazione “macro” dei cittadini nella sfera
pubblica.
Partendo da queste premesse, riescono i dispositivi partecipativo-deliberativi a riportare
l’accento sulla dimensione deliberativa e per questa via a rivitalizzare la democrazia rappresentativa
arricchendola di nuovi strumenti? O, piuttosto, si inseriscono nei trend di mutamento delle forme
democratiche non alterandone sostanzialmente il senso “postdemocratico” (Crouch 2003)?
Detto in altre parole, l'implementazione di questi strumenti contribuisce a ricostruire l'”anello
mancante” tra cittadini e istituzioni (Mastropaolo, Scuccimarra 2008), o, piuttosto, contribuisce a
realizzare uno scenario di “tecnopolitica” (Rodotà 1997), in cui, cioè, i nuovi strumenti di
partecipazione e consultazione sono utilizzati dalle istituzioni, quali strumenti di costruzione
simbolica del consenso, implementando operazione di market-testing (Papadopulos, Warin 2007),
rispondendo più alle esigenze di costruzione del consenso e di controllo della società da parte del
ceto politico che alle richieste di partecipazione dal basso?
Sotto questo riguardo, la problematizzazione proposta da Arnstein (1969) nella sua celebre
scala della partecipazione risulta ancora oggi molto attuale.
Alla base della sua scala, infatti, la Arnstein non pone uno stato di “non partecipazione” intesa
semplicemente come assenza di iniziative, ma una non partecipazione che assume la forma di
manipolazione o di azione “terapeutica” da parte dell’amministrazione. La manipolazione, o
l’intervento sedativo nei confronti del conflitto, si ha quando si sviluppano azioni formalmente
destinate a promuovere la partecipazione, ma che servono in realtà fini strumentali, traducendosi di
fatto in forme di controllo3.
6. Come valutare i processi partecipativo-deliberativi.
L’adozione di innovativi strumenti di partecipazione non è la panacea che risolve tutti i limiti
delle democrazie contemporanee, ed è bene essere consapevoli che se il ricorso a questi strumenti
può produrre effetti positivi, se male applicati, o peggio ancora se utilizzati strumentalmente, i
risultati ottenuti possono essere assai ridotti, se non provocare effetti perversi, riducendo la quantità
e la qualità complessiva della partecipazione. Ciò perché una “cattiva partecipazione” frustra le
aspettative di chi vi prende parte e deteriora, piuttosto che migliore, i rapporti fiduciari tra
istituzioni e cittadini.
Che la democrazia reale abbia sempre visto uno squilibrio tra una maggioranza di cittadini
comuni e una minoranza di cittadini attivi non è una novità, ma un elemento di fondo che le
dinamiche odierne tendono a radicalizzare, rischiando di generare nuove dinamiche di esclusione e
di marginalità, e quindi una dualizzazione tra cittadini interessati e più o meno attivamente
impegnati (generalmente chi è più dotato di risorse culturali, economiche e sociali) e una
maggioranza di cittadini che, non trovando riferimenti in partiti e sindacati e sempre più inattivi
3
La non partecipazione si distingue da una categoria intermedia, definita “tokenism”, che può assumere la
forma di informazione o di consultazione. La partnership si pone al confine tra tokenism e partecipazione in senso
stretto. I livelli più alti di partecipazione, caratterizzati da un livello massimo di empowerment dei cittadini, sono la
cessione di potere e l’autogoverno.
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anche a livello elettorale, si trova completamente priva di voce.
L’introduzione di dispositivi partecipativo-deliberativi su singoli temi permette di attrarre
cittadini interessati sul tema specifico oggetto del processo ma che non sono interessati a prendere
parte a discussioni politiche di ordine generale. A fronte di una percezione delle assemblee politiche
come “inconcludenti” e sede di “inutili chiacchiere” e come vetrine dei politici, e delle riunioni di
partito come luoghi di perseguimento di interessi di parte, piuttosto che degli interessi collettivi,
percepire un legame diretto tra il tempo e l’energia profusa in un evento partecipativo e un risultato
chiaro, può contribuire a ricostruire legami di fiducia ed a favorire una rinascita della passione per
la politica attiva, intesa come partecipazione alla cosa pubblica.
La valutazione degli esiti di un singolo strumento va d’altra parte sempre inserita nel contesto
in cui si situa, ovvero nel percorso di partecipazione più ampio, che può prevedere diversi strumenti
di coinvolgimento, rivolti a target diversi, con finalità distinte e in momenti diversi del percorso. A
sua volta, il percorso partecipativo complessivo, sia che riguardi una singola policy o che affronti
temi più astratti e generali, come la pianificazione strategica o la costruzione di scenari futuri, è
immerso in un sistema deliberativo avente come poli le assemblee elettive, da un lato, la sfera
pubblica generale e mediatica, dall’altro, passando per le sfere pubbliche settoriali, comprese quelle
conflittuali (animate da comitati e movimenti) È in questo sistema più ampio che i processi
partecipativo-deliberativo si inseriscono, ed è quindi tra i diversi centri e le diverse dinamiche che
vi prendono forma che si devono analizzare le connessioni, al fine di potere avere una valutazione
complessiva della capacità di contribuire a un potenziamento e a un miglioramento qualitativo della
partecipazione complessiva.
Se, infatti, un evento partecipativo si pone in isolamento rispetto alle altre arene di
partecipazione, istituzionali o non, per quanto ben congegnato sia il suo disegno deliberativo, le sue
capacità di impatto, sia sul piano decisionale che sul piano culturale e civico, sono deboli.
La valutazione dell'inserimento dell'arena deliberativa nel sistema politico più ampio, in
“entrata” (ovvero la sua connessione con la sfera pubblica generale, in cui tutti gli attori politici
interagiscono, ognuno portandovi il suo linguaggio e i suoi repertori di partecipazione) e in “uscita”
(la connessione con il processo decisionale) è quindi altrettanto importante della valutazione della
sua composizione interna (chi partecipa, con quale modalità, che strutturazione ha il processo, che
dinamiche interattive attiva). Analizzare il rapporto tra le singole arene di deliberazione e il contesto
politico più ampio significa riflettere criticamente sull’impatto, oltre che sulla singola policy, sulla
più ampia dimensione della politics (Freschi, Raffini 2010, Citroni 2010).
La valutazione, ex-ante, in itinere ed ex-post è un elemento essenziale per evitare rischi e per
fare in modo che lo sperimentalismo democratico contribuisca realmente a una “democratizzazione
della democrazia” che ponga il principio della partecipazione come prassi ordinaria di governo4.
Come suggeriscono Rower e Frewer (2004), la valutazione deve riguardare la questione della
rappresentatività e dell'inclusione, la trasparenza e l'indipendenza del processo, l'interattività e la
qualità deliberativa. Al tempo stesso si deve valutare l'outcome del processo, indagandone
l’accettazione e la risonanza pubblica, l'influenza sul pubblico e l'impatto sociale in senso più
ampio, oltre all’impatto sul processo decisionale.
Porre al centro della strutturazione e della valutazione dei processi partecipativo-deliberativi il
loro inserimento nel sistema politico significa considerare la dimensione della comunicazione legata
in maniera organica alla dimensione della partecipazione. La comunicazione costituisce l’altra
gamba della partecipazione, una si sostiene grazie all’altra e un processo di partecipazione non
fondato su una comunicazione ampia, completa, nonché interattiva non può dirsi tale.
La stessa valutazione del processo, da parte degli organizzatori ed eventualmente di soggetti
terzi, acquista valore se prevede una forma di valutazione da parte degli stessi partecipanti, le cui
critiche, suggerimenti e proposte possono rendere possibile un aggiustamento del processo in corso
d’opera, pur non alterandone i principi ispiratori e gli obiettivi.
4
É il fine che orienta in maniera esplicita la legge regionale toscana.
14
7. Le principali criticità emerse dalle sperimentazioni
La valutazione “interna” del processo verte su due dimensioni – l’inclusività e la qualità
deliberativa del confronto – e sulla non facile conciliazione tra questi due criteri. Il criterio
dell’inclusività si misura in base alla capacità di garantire il pieno accesso di tutti i punti di vista, gli
interessi, le conoscenze esistenti sul tema oggetto del processo. Affinché tale criterio sia rispettato
sono necessari un attento monitoraggio a monte del processo e un’efficace campagna di
comunicazione, sia specifica, rispetto ai diversi soggetti coinvolti, sia generale, volta a dare
pubblicità tra la cittadinanza. Prima di avviare il processo è quindi necessario chiarire in maniera
precisa il target del processo, e quindi gli stakeholders che si vogliono coinvolgere. Questi possono
essere organizzazioni di categoria, movimenti e associazioni, la cittadinanza coinvolta dalla
realizzazione di un’opera o dall’assunzione di una decisione di qualsiasi genere che abbia un
impatto sul territorio. Poiché i diversi soggetti che prendono parte all’arena non hanno le stesse
risorse, sia in termini di potere, sia in termini di abilità e di competenze comunicative la qualità del
processo deliberativo dipende dalla capacità dei facilitatori di attenuare le disparità e di favorire un
dibattito il più possibile in condizioni di libertà ed uguaglianza.
Abbiamo visto che molti strumenti partecipativo-deliberativi prevedono la partecipazione di un
campione statisticamente o sociologicamente rappresentativo della popolazione, una sorta di
“minipopolo”, che includa quindi anche la casalinga, il giovane, il disoccupato, l’immigrato, ovvero
coloro che solitamente sono più restii ad esprimere la propria voce. Ciò al fine di allargare la platea
dei soggetti coinvolti, al di là di chi ha un interesse immediato, e in particolare degli interessi
organizzati e dei cittadini politicamente attivi.
Il coinvolgimento di cittadini estratti a campione vuole contribuire a restituire al cittadino
comune un ruolo da protagonista” ed è al tempo stesso funzionale all'attivazione di un processo
genuinamente deliberativo, in cui cioè si presume che i partecipanti, non entrando nell'arena con
opinioni forti sull'argomento, siano più propensi a formare la propria opinione tramite il processo
deliberativo. Nella letteratura sulla deliberazione si distingue, infatti, tra una deliberazione “calda”,
su temi cioè oggetto di interesse diretti e forti, e quindi per natura più soggetti al conflitto (si pensi
alla questione dell’alta velocità) e una deliberazione “fredda”, che, vertendo su questioni astratte,
meno direttamente legate agli interessi particolari, si prestano maggiormente ad una discussione
aperta e orientata alla ricerca del consenso. Nel primo caso è più facile che vi siano soggetti
collettivi organizzati (comitati dei cittadini, parti sociali, ecc) che sono portatori di interessi e punti
di vista prefissati che non sono disposti a mediare e a diluire nel confronto deliberativo. Nel
secondo caso è più facile che i partecipanti non agiscano nell’arena in forma strumentale, ma
calandosi nei panni del “deliberante”. In tutti i casi un cittadino “comune”, non politicamente attivo,
ha preferenze meno strutturate e forti, anche perché meno interessato e quindi meno informato, ed è
maggiormente incline a trasformare le proprie opinioni.
Sotto questo punto di vista, come acutamente sottolinea Mutz (2006), il cittadino “attivo”, e
soprattutto la figura del “militante”, dotato di preferenze forti, non è un buon “deliberante”,
spassionato, aperto, libero da pregiudizi, mentre tali caratteristiche sono presenti al massimo livello
nel cittadino non informato e non interessato, che, ceteris paribus, è più facilmente influenzabile e
modellabile. I cittadini più interessati alla politica e più competenti spesso non sono neutrali ma
“partisans”, animati dalla passione e dall’identificazione con un’ideologia, una campagna, un
obiettivo, un singolo progetto. Questa distinzione riporta ancora una volta alla tensione tra
partecipazione e deliberazione, dal momento che, paradossalmente, chi più partecipa è meno
propenso alla deliberazione.
L’inclusione di cittadini comuni, non interessati alla politica, e contestualmente la limitazione
del ruolo dei soggetti attivi, è considerata, da attivisti di movimenti e comitati di cittadini,
strumentale, e finalizzata alla “sterilizzazione” della partecipazione dal basso e, in generale, ispirata
ad una “depoliticizzazione” della partecipazione (Mutz 2006; Freschi, Raffini 2008, p. 292), che
ottiene l’effetto di ridurre i reali spazi di partecipazione, sostituendovi un simulacro. La risposta che
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si dà a un impoverimento degli spazi di partecipazione non sono, infatti, progetti e azioni finalizzate
a favorire l’attivazione dei cittadini nel lungo periodo, ma processi a chiamata, che si chiudono
nello spazio di poche ore. In questo modo si corre il rischio di effettuare degli esperimenti di
democrazia in laboratorio, piuttosto che dei laboratori di democrazia, in cui si sperimentano cioè
dinamiche innovative di coinvolgimento che si aspira ad affermare come prassi ordinaria.
La massima esposizione a questa critica si ha quando si decide di adottare uno strumento
fondato sulla selezione casuale dei partecipanti per affrontare un tema caratterizzato da profondo
conflitto, soprattutto se il processo deliberativo su questa base impostato non è integrato da
strumenti aperti all'inclusione di tutte le voci, comprese quelle conflittuali. Nel caso Toscano, è
quanto è avvenuto quando si è scelto di impostare un processo di partecipazione avente per oggetto
la costruzione di un pirogassificatore, a Castelfranco di Sotto, mediante una Giuria di Cittadini
composta di cittadini estratti a sorte (cfr. Pomatto, Ravazzi 2012). In questo caso, si è avverato ciò
che è stato ampiamente sottolineato dalla letteratura, ovvero che i promotori sono stati contestati e
accusati di non promuovere una partecipazione reale, a favore di processi artificiali e caratterizzati
da forme più o meno velate di manipolazione (Regonini 2005; Giannetti 2007; Papadopoulos,
Warin 2007).
Una possibile soluzione per conciliare il coinvolgimento di cittadini comuni e attivisti, il pieno
accesso di tutti i punti di vista e il perseguimento di una dinamica deliberativa, è quella di optare per
dispositivi che integrino la partecipazione di cittadini comuni e soggetti organizzati, a costo di
“abbassare” il livello di qualità deliberativa (è il caso del Debàt Public), o di integrare la
partecipazione del “minipopolo” con adeguati strumenti che permettano a tutti i soggetti interessati
di esprimere la propria voce nell'ambito del processo.
Eventi come i Sondaggi Deliberativi o gli Electronic Town Meeting, se non inseriti in percorsi
più ampi, non possono considerarsi in sé “partecipativi”, ma, piuttosto, “parenti stretti dei sondaggi
di opinione, da cui si distinguono per lo spazio riservato alla discussione ma di cui si accolgono la
base giustificativa, che riposa sulla legittimazione della scienza quale istituzione preposta alla
produzione di sapere sociale” (Pellizzoni 2007, pp. 104). In questo senso possono essere utilizzati
come strumenti di misurazione del consenso verso le proposte politiche dell’amministrazione, con
l’effetto di “non aggiungere nulla agli strumenti democratici tradizionali e magari incrementare
esclusione, disuguaglianza e manipolazione” (ivi), contribuendo a veicolare una “rappresentazione
meramente simbolica della partecipazione dei cittadini, che risponde a una rinnovata e più
sofisticata strategia del consenso” (Della Porta 2008, p. 21). La critica al ricorso ai processi
partecipativo-deliberativi come strumenti di controllo, piuttosto che di partecipazione reale, spinge
gli osservatori più critici a leggere lo sviluppo di tali pratiche non come una risposta alla deriva
postdemocratica e tecnocratica veicolata dal neoliberismo, ma come una sorta di compimento di
una dinamica di restringimento degli spazi di partecipazione, tipica proprio del neoliberismo (Moini
2012). Secondo questa prospettiva, gli spazi di partecipazione - ed in particolare in relazione alla
definizione dell’agenda e alla elaborazione delle priorità, - si restringe e si concentra in arene non
democratiche, ma le amministrazioni compensano il deficit democratico con l’apertura di spazi, in
cui in realtà la cessione di potere è limitata e controllata, più simbolica che effettiva, e comunque
non in modo da mettere in dubbio gli orientamenti di fondo: l’arretramento del pubblico a favore
del privato in primo luogo. Quanto può definirsi partecipativa una strategia che non permette di
mettere in discussione gli orientamenti di fondo e non favorisce un reale confronto sui modelli di
società e sulle priorità di governo?
Sotto questo aspetto, il grado effettivo di apertura dei processi implementati, sia rispetto alla
pluralità di interessi e punti di vista, sia rispetto ai partecipanti, è una questione centrale da
approfondire criticamente. In particolare, un punto centrale è l’apertura nei confronti del conflitto,
o, ancora di più, della sua valorizzazione come elemento vitale della democrazia, purché non
assuma forme violente o rifiuti il dialogo.
La questione del raccordo tra la singola arena e il contesto politico più ampio, forse ancor più
del carattere inclusivo e deliberativo delle dinamiche interne appare, insomma, cruciale.
Una buona premessa affinché il processo avviato non si isoli, ma si radichi nel contesto politico
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in cui si colloca, è quello dell'apertura alla partecipazione sin dalle fase iniziali, in cui si sceglie il
tema da affrontare e gli strumenti da adottare. Un esempio positivo, in tal senso, è offerto dal
percorso partecipativo adottato dalla giunta regionale toscana per definire la legge sulla
partecipazione, che se si è concluso con una chiusura del dialogo con un segmento dei comitati e
dei movimenti, che hanno deciso di non prendere parte agli incontri partecipativi non condividendo
le scelte dell’amministrazione, ha reso possibile una dinamica di trasformazione reciproca dei punti
di vista iniziale tra promotori e ampi settori della società civile (Freschi, Raffini 2008).
Il valore democratico dei processi di partecipazione risiede nella capacità di porsi in dialogo
con la società, sia in uscita sia in entrata. La connessione con i cittadini e con la sfera pubblica
generale e con tutti i settori che la compongono, è quindi un prerequisito che orienta la costruzione
del percorso stesso. Costruire in maniera non aperta e partecipata un evento di partecipazione è una
contraddizione. Come osserva Mastropaolo (2008, p. 19): “la vera partita, a questo livello, si svolge
[...] nell'anticamera del forum deliberativo, vale a dire nei luoghi – spesso tutt'altro che pubblici – in
cui si definiscono le modalità si selezione di quella parte di cittadinanza che concretamente darà
vita ai processi di partecipazione”. Se il processo stesso non si radica, ma si isola dal mondo
partecipativo che lo circonda, si corre il rischio di realizzare “una forma banalizzata e
'discretamente depoliticizzata' di prassi deliberativa”.
É infine fondamentale mantenere un costante rapporto di interconnessione tra le dinamiche
deliberative generate nel processo così creato e la sfera pubblica più ampia, e quindi con l'intera
cittadinanza.
La comunicazione, prima, durante e dopo i processi implementati, è fondamentale affinché
questo possa produrre effetti virtuosi e una dinamica di reciproco arricchimento istituzioni e
cittadini. Una comunicazione efficace e intesa come parte fondante del processo, fa in modo che lo
stesso non sia organizzato in maniera chiusa ma partecipata, che tutti gli interessati possano
contribuirvi, che chi non vi prende parte in prima persona possa seguirlo ed eventualmente attivarsi
in una seconda fase, che al termine del processo le dinamiche di confronto non si interrompano ma
continuino a svilupparsi.
In una parola, la comunicazione orizzontale e aperta è ciò che rende un processo realmente
partecipativo, perché la comunicazione stessa è partecipazione.
Anche se i setting deliberativi adottati sono orientati ad attenuare le disparità di risorse tra i
partecipanti, a favorire l’espressione di tutte le voci e a promuovere un'attitudine genuinamente
deliberativa, non è possibile garantire che al suo interno vi sia uno specchio fedele della società, in
tutte le sue sfumature, anche quando l'impostazione adottata ha perseguito un duplice criterio di
coinvolgimento dei cittadini comuni (mediante sorteggio) e dei cittadini attivi (prevedendo
strumenti aperti all'inclusione di tutti i soggetti interessati).
Sul piano dei cittadini comuni perché, come evidenziato dalle ricerche, anche praticando il
campionamento statistico il principio della rappresentatività statistica o sociologica è un’ideale che
nella realtà è solo parzialmente avverato. Non tutti i cittadini invitati a partecipare accettano di
farlo, e la maggiore ritrosia da parte di giovani, immigrati, soggetti culturalmente, socialmente e
politicamente marginali, individui meno istruiti, alterano il profilo dei partecipanti (Cellini, Mete,
Raffini 2010), a favore dei cittadini più istruiti e socialmente centrali, nonché di quelli
politicamente più vicini alle istituzioni promotrici.
Sul piano dei cittadini attivi per via dei meccanismi formali ed informali di chiusura sopra
descritti, ma anche perché vi sono soggetti, solitamente i portatori di istanze conflittuali, che
possono decidere di non prendere parte al processo. L'attività di questi gruppi al di fuori dell'arena
istituzionale può trasformarsi in un vero e proprio boicottaggio del processo deliberativo
istituzionale (Carson 2006; Giannetti 2007). Non è sempre possibile trovare un punto di accordo tra
soggetti diversi, che esprimono una concezione diversa della partecipazione, e i cui rapporti sono in
alcuni casi compromessi da rotture profonde (è il caso, spesso, dei comitati contro le grandi opere e
le amministrazioni locali).
Questa ultima problematizzazione, relativa alla semplice constatazione che per quanto ampia e
variegata, la platea di cittadini coinvolti in singoli processi partecipativo-deliberativi non potrà mai
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coincidere con l'intera cittadinanza, ci riporta a un'ultima, fondamentale, questione, quella del
raccordo tra rappresentanza e partecipazione diretta. Si tratta di un elemento di particolare
delicatezza, soprattutto al momento di definire quanto e come i risultati emersi da un evento
partecipativo devono o possono essere recepiti da amministratori eletti da un numero di cittadini
assai maggiore di quelli che partecipano al processo e cui sono legati da un vincolo di
rappresentanza.
Gli strumenti partecipativo-deliberativi non si pongono in alternativa alla dimensione
rappresentativa, ma si propongono di integrarla e di rivitalizzarla. Il canale della rappresentanza, per
quanto indebolito e soggetto a sfide, resta ancora il cardine della democrazia, e rimane il canale più
universale di espressione della sovranità popolare. La strada da seguire per evitare conflitti e
tensioni tra le due dimensioni è integrandole in modo organico e coerente in una prassi
amministrativa che stabilisca in modo chiaro obiettivi e criteri di recepimento dei processi di
partecipazione.
8. Come conciliare partecipazione e deliberazione, inclusione e interattività? Un orientamento
operativo per la strutturazione dei processi deliberativo-partecipativi
Possiamo ora provare a sintetizzare alcune regole da seguire affinché un processo partecipativodeliberativo raggiunga i suoi obiettivi di arricchimento della democrazia, innescando dinamiche
virtuose sul piano politico, civico, culturale e sociale.
- Avere ben chiaro in mente chi coinvolgere. A tal fine è opportuno effettuare una attenta
ricognizione degli interessi in gioco, delle esternalità negative, di tutti gli stakeholders e di
tutti i cittadini in vario modo interessati al tema oggetto del dibattito. È opportuno riflettere
su quali strumenti eventualmente adottare per coinvolgere soggetti differenziati e a quali
strumenti ricorrere per fare dialogare questi diversi soggetti. Nel caso dei soggetti più deboli
si dovrà individuare misure per favorirne il coinvolgimento. In generale, l’integrazione di
strumenti diversi, sia online sia offline, consentirà un maggiore coinvolgimento.
- Disegnare e avviare il percorso di partecipazione sia dalle prime fasi del processo
decisionale, ovvero non quando il processo è avviato al punto tale che alcune scelte di fondo
sono da considerarsi irreversibili. Si tratta di una condizione esplicitamente sottolineata
nella legge Toscana sulla partecipazione. Un buon percorso partecipativo si fonda su una
condivisione dello stesso processo di costruzione con i cittadini.
- Stabilire obiettivi chiari e regole e tempi certi. Quando si chiede ai cittadini di investire
tempo ed energie in un percorso condiviso deve essere chiaro sin da subito quali sono gli
obiettivi de processo, come questo è strutturato e quando si concluderà. L’incertezza,
l’improvvisazione, o peggio ancora una voluta ambiguità frustrano le aspettative di chi è
coinvolto, con il risultato di incrinare i rapporti di fiducia verso l’istituzione promotrice. I
processi possono prevedere diverse fasi e diversi strumenti che si collocano lungo quattro
diversi gradini: 1) Informazione 2) Consultazione 3) Compartecipazione alle decisioni 4)
Empowerment dei cittadini. I processi possono contemplare le quattro dimensioni o fermarsi
alle prime. Ciò che è importante è che sia sempre chiaro quale è il livello di coinvolgimento
richiesto e quale è il rapporto tra outcome del percorso partecipativo e processo decisionale.
- Investimento politico condiviso e piena cooperazione non solo a livello politico, ma anche
degli uffici comunali e di tutta la macchina amministrativa. Spesso si avviano processi che si
propongono di cambiare la cultura politica dei cittadini ma che non svolgono un adeguato
processo di sensibilizzazione e di formazione all’interno della stessa PA Al contrario, il
coinvolgimento interno è un elemento essenziale di riuscita, e il lavoro da svolgere
all’interno dell’amministrazione è altrettanto importante di quello svolto all’esterno.
- Comunicazione costante e calibrata prima, durante e dopo il processo. Una comunicazione
efficace favorisce la consapevolezza delle opportunità che si aprono e permette a tutti i
soggetti del territorio di valutare se e come prendere parte ai processi attivati. La
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comunicazione costante del processo alla cittadinanza permette inoltre di mantenere il
contatto con chi non vi è direttamente coinvolto, ma che può seguirne le fasi ed
eventualmente decidere di parteciparvi attivamente quando vuole, ma in generale ad evitare
il rischio, sopra largamente analizzato, che uno strumento ideato per allargare la
partecipazione diventi nella realtà uno strumento artificiale di partecipazione in vitro, non
comunicante ed isolato dalla partecipazione “spontanea”, con l’effetto di creare palette e
barriere, piuttosto che di abbatterle. La comunicazione è una componente essenziale della
partecipazione, non un optional. Del resto, se assumiamo come riferimento una scala della
partecipazione fondata su diversi livelli di coinvolgimento, passivo e attivo, ogni passo in
avanti sulla scala perde senso se non si basa su quelli precedenti, con l’effetto di rimanere
sospeso in aria. Il primo livello è quindi l’informazione, che permetta a tutti i cittadini di
essere a conoscenza dei progetti in corso e delle proposte dell’amministrazione. Solo se le
informazioni sono ben accessibili e fornite in maniera chiara chi è interessato può attivarsi
in forme più attive. Il secondo livello è la comunicazione, ovvero un’interazione tra
amministratori e cittadini, che possono utilizzare una serie di strumenti per dialogare. La
comunicazione interattiva rende i cittadini non solo ricettori passivi ma produttori di
informazioni e di contenuti. Ad un livello ancora superiore di attivazione si pone la
consultazione strutturata (di cittadini singoli e gruppi), tramite la quale i cittadini hanno la
possibilità di esprimere le proprie preferenze ai decisori e di indirizzare proposte. Un ruolo
ancora più ampio ai cittadini viene attribuito dai processi il cui scopo è giungere a una
decisione condivisa tra i diversi soggetti che vi prendono parte, per esempio nella forma
della progettazione partecipata. Il massimo livello di empowerment si ha quando
l’amministrazione cede una quota di potere ai cittadini, che possono gestire autonomamente
un progetto. Un percorso che si pone il solo obiettivo di ampliare l’informazione,
perseguendo un ampliamento della trasparenza, se ben realizzato, può contribuire in maniera
significativa al miglioramento della qualità democratica della PA. Al contrario, un processo
partecipativo formalmente orientato all’empowerment dei cittadini, ma non fondato su una
solida base sul piano della comunicazione, non è un buon processo di partecipazione e può
produrre effetti negativi.
- Coinvolgimento di competenza adeguate. Realizzare un processo partecipativo senza averne
le competenze e in forma improvvisata è peggio che non realizzarlo. Affidarsi a figure
professionali adeguate è fondamentale al fine di realizzare tutti gli obiettivi che
contribuiranno alla riuscita di un processo: efficace comunicazione, sensibilizzazione,
coordinamento, coinvolgimento di tutti gli stakeholders, sensibilizzazione interna alla PAL,
facilitazione del processo, ecc. Non di meno, un obiettivo di medio e lungo termine è che si
diffonda all’interno della stessa PAL una cultura partecipativa e un’adeguata struttura
organizzativa La diffusione di una professionalità adeguata all’interno della PAL farà n
modo che le istituzioni non debbano sempre dipendere da consulenti esterni e che la
partecipazione, da evento una tantum, diventi prassi ordinaria di governo.
- Non perdere mai di vista il contesto politico più ampio in cui si inserisce il singolo processo,
perché obiettivo di quest’ultimo è integrare e rafforzare la qualità complessiva della
democrazia, sul piano culturale e politico, nella dimensione della legittimazione e
dell’efficacia delle decisioni.
A conclusione di questa riflessione, è utile tornare a riflettere sulla domanda che avevamo lasciato
aperta al termine del paragrafo introduttivo, relativa alle funzioni e ai significati dei processi
partecipativo-deliberativi istituzionali. In questo contributo abbiamo sostenuto con convinzione
l’idea che l’introduzione di processi di partecipazione e deliberazione possa arricchire i processi
decisionali e innescare dinamiche virtuose tra cittadini e istituzioni. Al tempo stesso abbiamo
affermato che questi non possano considerarsi sostitutivi dei processi di deliberazione e di
partecipazione nell’ambito della società, e quindi al di fuori delle istituzioni. Tanto meno,
l’implementazione di processi partecipativi e deliberativi da parte delle amministrazioni può
sostituire il processo sociale di definizione delle visioni della società e la loro traduzione in
19
programmi di governo e nella scelta degli amministratori. Si tratta di due dimensioni diverse, e la
loro sovrapposizione, che troppo spesso si tende ad osservare nelle retoriche adottate dagli
amministratori e nei contributi scientifici, rischia di non giovare all’obiettivo di una
democratizzazione complessiva della società.
Per realizzare questo obiettivo, la riforma partecipativa delle istituzioni non può prescindere da un
ripensamento della funzione dei partiti, quali luoghi primari della partecipazione, riaffermandone il
ruolo di ponte tra società e istituzioni, di luoghi di dibattito e di definizione di modelli alternativi di
società, e in generale dall’analisi delle forme e degli attori della sfera pubblica nella società tardomoderna.
I processi partecipativo-deliberativi realizzati in ambito istituzionale sono oggi utilizzati come
strumento centrale per ridefinire il rapporto tra governanti e governati, ma la loro stessa definizione
di “sperimentazioni” o di “laboratori” sottolinea il loro porsi come strumenti di passaggio, più che
come risposte definitive, nel quadro dell’obiettivo ambizioso di una “democratizzazione della
democrazia” quale pratica che innervi la società in tutte le sue dimensioni, non fermandosi al
confine tra sfera politica e sfera privata. Quando diciamo che la partecipazione dei cittadini non può
essere confinata alle pratiche partecipativo-deliberative istituzionali, intendiamo quindi dire che vi è
una pluralità di luoghi della partecipazione, a partire dalla famiglia, dalla scuola al luogo di lavoro,
alle organizzazioni della società civile, in cui la partecipazione si afferma come pratica quotidiana.
Un’istituzione fondamentale è in tal senso la scuola, luogo in cui i giovani apprendono ad essere
cittadini, se si offre loro un ambiente di comunicazione e di partecipazione attiva, trattandoli come
interlocutori attivi e non come mero soggetti passivi di trasmissione di conoscenza.
Non vi è democrazia senza una cultura partecipativa da parte dei cittadini, e questa non si costruisce
in laboratorio, ma nella pratica quotidiana.
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