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Doppio
Sogno
di Gianluca Morozzi
Se c’è una cosa che ho imparato in trentanove anni e dieci mesi è questa:
quando ci si addormenta in riva al mare e si fanno due sogni uno dopo l’altro,
uno dei due sogni prima o poi si avvera. Qualche volta, entrambi.
Una volta mi sono addormentato su una sedia a sdraio. Nel bel mezzo della
spiaggia di Marina di Ravenna, nell’estate dei mondiali di Francia, dopo uno di
quei baccanali moderni noti come happy hour, all’ottantanovesima birra o giù
di lì.
A dormire in spiaggia dopo l’ottantanovesima birra, sappiatelo, lo iodio si
combina col malto e il luppolo che fermentano nei vostri corpi dormienti. E
si aprono degli strani portali nella mente.
Ci si collega a quello che gli aborigeni australiani chiamano Tempo dei sogni.
Si diventa quello che un rabbino definirebbe Ro-eh ha-nolad, Colui che vede
cosa porta il futuro. E quando si fanno due sogni, uno si avvera. Come minimo.
Io avevo fatto questi due sogni, quella notte: nel primo sogno ero in una sala
affollata, con un po’ di capelli in meno ma con uno sguardo pacificato e soddisfatto in più, rispetto al me stesso dell’estate dei mondiali di Francia. Ero in
piedi davanti a una fila di lettori dagli occhi luccicanti, tutti in attesa di farsi
firmare il mio romanzo La tempesta.
Nel secondo sogno ero allo stadio Dall’Ara, spettatore tra gli spettatori, e tutta
la squadra del Bologna era festante e in tripudio al centro del campo. Un giocatore con la fascia di capitano stava alzando una coppa, accanto a un altro
giocatore che nel sogno, con la consapevolezza tipica dei sogni, sapevo essere
un noto fuoriclasse. In quel momento di trionfo onirico, mentre una pioggia
di coriandoli rossi e blu copriva tutto il resto della squadra, nel sogno erano
apparsi i nomi in sovrimpressione.
Sotto il capitano, il nome Giacomo Cipriani. Sotto il riconosciuto fuoriclasse,
il nome Mourad Meghni.
Poi era sorta l’alba sulla spiaggia di Marina di Ravenna, e il vento freddo mi
aveva sputato fuori dal sonno. I netturbini ripulivano la sabbia dai cocci di
bottiglia, mentre faticosamente mi rialzavo in piedi con i due sogni a turbinarmi in testa.
E la domanda: chi diavolo sarebbero Cipriani e Meghni?
Nell’estate dei mondiali di Francia, in quell’estate del ’98, non avevo pubblicato alcun romanzo intitolato La tempesta. Non avevo pubblicato neanche
un romanzo non intitolato La tempesta. Non avevo pubblicato niente, se non
cinque raccontini sparpagliati su introvabili riviste. Cinque, nell’arco di un decennio.
In quell’estate, il centravanti del Bologna non era il misterioso Giacomo Cipriani ma il biondissimo e altissimo svedese Andersson. E il trequartista non
era l’altrettanto ignoto Mourad Meghni, ma il piuttosto celebre Roberto Baggio. Almeno, lo era stato fino a poche settimane prima, prima di passare all’Inter.
Mentre uscivo dalla spiaggia, con le articolazioni corrose dall’umidità e l’impulso di vomitare ottantanove birre tra gli ombrelloni, avevo mentalmente
annotato quei sogni.
Uno dei due, lo sapevo, si sarebbe avverato.
Se non tutti e due.
Nei mesi successivi, era successo questo. Che avevo iniziato a buttar giù un
romanzo intitolato Salamanca, la storia di un viaggio catartico verso la città
spagnola di Salamanca, appunto, con un’amica ultracattolica, un sosia misterioso di Luciano Ligabue, quattro bellissime gemelle spagnole, e una torbida
rete di produttori di film porno. Non un gioiello sfavillante della narrativa
italiana, detto tra noi.
Il romanzo stava nascendo su un vecchissimo computer che mio padre aveva
recuperato dalla spazzatura, un computer talmente vecchio da non consentire neppure un classico salvataggio su disco fisso. Ogni volta che terminavo
la mia furibonda seduta di scrittura, dovevo salvare il lavoro in un dischetto
nero. Che riponevo subito con cura in un cassetto.
In un giorno esaltante e glorioso, lo stesso in cui il Bologna aveva annunciato
l’acquisto del centravanti Nicola Ventola, avevo finito il terzultimo capitolo
del mio ponderoso romanzo. In questo capitolo, dopo un’accorata conversazione notturna nella Plaza Mayor di Salamanca, l’amica ultracattolica confessa al protagonista di essere innamorata del suo buffo e brutto amico Ciccio.
(Non era un gioiello sfavillante della narrativa italiana. Già l’ho detto.)
A capitolo finito, come ogni giorno, avevo estratto il dischetto dal computer.
Quel giorno faceva caldo.
Le mie mani erano sudate.
Molto sudate.
Forse erano stati i pensieri su Nicola Ventola, forse le mani sudate, forse un
intervento degli dei. Mentre ancora ero seduto davanti al computer, in pratica,
il dischetto mi era scivolato dalle dita.
Di puro istinto, avevo chiuso le ginocchia per bloccare il dischetto. E, bloccandolo di scatto tra le ginocchia, l’avevo rotto in due.
Il dischetto con l’unica copia esistente del mio romanzo. Rotto in due.
Quand’ero rinvenuto, avevo cercato di ragionare razionalmente.
Potevo scrivere il romanzo da capo, certo. Ribattere. Tutto. Dall’inizio. A memoria.
Tutto.
Dall’inizio.
Oppure, potevo iniziare un nuovo romanzo.
Nei mesi ancora successivi, invece, era successo questo.
Giacomo Cipriani, giovanissimo centravanti proveniente dalla Primavera del
Bologna, si era manifestato nella sua incarnazione fisica in una partita di coppa Uefa. Alla sua prima manifestazione concreta e non onirica aveva segnato
un sensazionale gol da trenta metri.
Intanto che elaboravo il nuovo romanzo, qualche mio racconto cominciava
a vedere la luce sulle riviste letterarie. In uno di questi racconti debuttava un
personaggio noto come l’Orrido, che in seguito mi avrebbe portato fortuna.
Chi sa chi è l’Orrido capisce di cosa sto parlando.
Chi non sa chi è l’Orrido, be’, non c’è di che preoccuparsi. Si può vivere benissimo senza sapere chi è l’Orrido, si possono leggere le pagine seguenti
senza sapere chi è l’Orrido, il sole continuerà a splendere, le stagioni continueranno ad alternarsi e le maree seguiranno il loro corso senza che voi sappiate
chi è l’Orrido.
Non preoccupatevi. Portate pure stancamente avanti le vostre miserande vite.
Dopo sei mesi in prestito a Lecce per fare esperienza, Cipriani tornava a Bologna come riserva del nuovo centravanti argentino Julio Cruz. Proprio mentre
io terminavo il mio primo romanzo Despero.
A un certo punto, succedevano le seguenti due cose.
Cruz sbagliava un rigore a Torino, calciando altissimo e malissimo.
E l’editore Giorgio Pozzi, della casa editrice Fernandel, si dichiarava molto
interessato alla pubblicazione di Despero.
Poi succedevano le seguenti altre due cose.
Che poche ore prima di una sconfitta con la Roma e dell’ennesima prestazione spettrale di Cruz, l’editore Giorgio Pozzi mi consegnava il contratto editoriale.
E che una settimana dopo col Milan, Cipriani giocava al posto di Cruz.
E segnava due magnifici gol.
Sei mesi dopo, poco prima che il mio romanzo Despero raggiungesse le librerie, le ossa complicate di Giacomo Cipriani si spezzavano. In modi molto
complessi e difficili da decifrare per i comuni mortali.
Intanto che tra i tifosi si parlava a mezza bocca di un prodigioso talento francese che germogliava nelle giovanili del Bologna, un fuoriclasse di nome Mourad Meghni.
E un anno e mezzo dopo, mentre ancora i medici cercavano di incollare le
ossa complicate di Cipriani, succedeva quest’altra cosa qui. Che io me ne stavo
seduto e nervoso in un angoletto della piazza principale di Fano, non lontano
dalla libreria in cui di lì a poco avrei presentato il mio terzo romanzo Dieci
cose che ho fatto ma che non posso credere di aver fatto, però le ho fatte. Me
ne stavo in un angolo con una radiolina fisicamente fusa all’orecchio, incapace
di credere a quello che comunicavano i cronisti.
Le voci della radiolina raccontavano di una partita del Bologna in casa del
Como, ultimo e già retrocesso in serie B. Di un gol del Como, di un secondo
gol del Como, di un terzo gol del Como. E di un piccolo lampo, uno squarcio
nel buio. Un bellissimo gol di Mourad Meghni, entrato in campo al posto di
uno di quegli undici dementi che si stavano facendo ridicolizzare dagli ultimi
in classifica.
Non era servito a molto, quel gol. Un’ora dopo avevo presentato il mio terzo
libro a un attento gruppetto di lettori di Fano, avevo parlato della struttura
del romanzo, del personaggio di Raul come filo conduttore esterno, dell’altro
personaggio di Zelda Bussolari come filo conduttore interno, avevo parlato di
queste e di altre cose, e avevo fatto tutto questo avendo in testa un rumore di
fondo che diceva cinque a uno per il Como, cinque a uno per il Como, cinque
a uno per il Como.
A diventare scrittori, guardate, si riescono a fare le cose più incredibili.
Cipriani era andato in prestito al Piacenza e poi alla Sampdoria, a vedere se a
cambiare aria gli si saldavano le ossa. Con la Sampdoria aveva giocato contro
il Bologna. E ci aveva fatto gol. Naturalmente.
Il giorno dopo, il mio quinto romanzo Blackout era stato acquistato da un
grosso editore. Guanda, per l’esattezza.
Cipriani era tornato a Bologna, con le ossa di nuovo solide e sane.
Il gracile Meghni si era notevolmente irrobustito. Era pronto a sfidare mediani
e terzini.
A giugno 2004, Blackout aveva visto la luce per Guanda.
Tutte le stelle si erano allineate.
La stagione che avrebbe preso il via nel settembre di quell’anno, non c’era
dubbio, avrebbe visto realizzarsi quei due famosi sogni.
O almeno, uno dei due.
E in un sabato d’inizio autunno si erano verificati tre concomitanti eventi,
solo apparentemente sconnessi tra di loro.
A metà pomeriggio, durante la trasmissione Amici di Maria de Filippi, il famoso scrittore Aldo Busi, che conduceva la rubrica Amici dei Libri aveva magnificato la granitica compattezza narrativa di Blackout.
Nel momento in cui il grande scrittore magnificava la granitica compattezza
narrativa di Blackout, peraltro usando parole un po’ migliori di queste, io vagolavo per le strade di Cremona cercando indicazioni per il centro storico.
Quel sabato pomeriggio, due ore dopo l’annunciazione urbi et orbi della
granitica compattezza narrativa eccetera eccetera, avrei dovuto presentare
Blackout alla libreria Feltrinelli di Cremona. Altre due ore dopo, allo stadio
Dall’Ara, si sarebbe giocata Bologna-Roma. In anticipo al sabato sera.
Il giorno in cui la Lega Calcio aveva deciso di anticipare al sabato sera Bologna-Roma per esigenze televisive, dopo aver masticato fiele per la concomitanza col mio impegno cremonese. Le avevo pensate tutte per riuscire a
raggiungere lo stadio. Presentazione del libro dell’indecente durata di nove
minuti. Volata Cremona-Bologna ai duecento all’ora. Combinazione di treni
ultrarapidi e ponte aereo. Niente. Non c’era modo di combinare la presentazione del mio libro con quella stramaledetta partita.
Rassegnato, avevo dato precisi incarichi alle mie spie all’interno della curva.
Traducendo, avevo istruito Martina -la mia ragazza, in quello scorcio di ventunesimo secolo- incaricandola di mandarmi precisi e dettagliati sms ad ogni
variazione di risultato.
Mentre il famosissimo scrittore leggeva in tv alcune pagine di Blackout, io
incastravo la mia macchina su un marciapiede di Cremona, scendevo, bevevo
un caffè. Facevo due passi per il centro. Telefonavo ad altre spie per farmi
riportare le precise parole del grande Aldo Busi. Con un largo sorriso, entravo
in un altro bar per festeggiare. Alle sei del pomeriggio, infine, ero entrato alla
Feltrinelli.
Subito, una ragazza della libreria mi aveva accolto dicendo “Ma cos’è successo oggi pomeriggio? Avevamo una pila alta così del tuo libro, qui, vicino alla
cassa, e in mezz’ora la pila è scesa di due terzi”.
Il mio sorrisone, a quel punto, si era allargato fino al cielo.
Alle otto di sera, dopo aver firmato l’ultima copia di Blackout, avevo spento la
modalità Scrittore di cui ha parlato la televisione proprio questo pomeriggio,
e acceso la modalità Tifoso del Bologna lontano dallo stadio causa anticipo,
vacca d’un giuda.
Così avevo girato freneticamente da un bar all’altro, nella sarabanda dell’ora
del tardo aperitivo. Entravo in un bar, alzavo gli occhi a cercare un televisore,
di quelli che stanno abitualmente in una mensola sopraelevata del locale. In
qualunque bar c’è un televisore che il sabato sera attira gli sguardi degli appassionati di calcio sugli anticipi, Empoli e Siena, Livorno e Reggina, non importa, basta che ci siano ventidue giocatori e un pallone e gli sportivi da bar si
radunano sotto lo schermo.
Ma quella sera a Cremona, per ostracismo, per motivi religiosi, per ripugnanza
istintiva verso i colori primari giallo, rosso, blu, quella sera, dicevo, a Cremona,
nessun televisore di nessun bar era collegato con lo stadio Renato Dall’Ara.
Che fare?, mi ero domandato alle venti e quarantacinque. Saltare sulla mia
macchina priva di autoradio e correre verso Bologna come un pazzo, il cellulare sul sedile del passeggero, l’occhio pericolosamente inclinato verso il cellulare stesso? O sedermi con calma in un bar, ordinare un paio di birre, appoggiare il cellulare sul tavolino e aspettare gli eventi?
Avevo saggiamente optato per la seconda soluzione.
Mi ero seduto a un tavolino d’angolo, avevo poggiato il cellulare sul tavolo,
avevo ordinato una birra. Tutto intorno a me sciamava una moltitudine di
ragazzotti cremonesi mentalmente lontanissimi da Bologna-Roma, psicologicamente scollegati dal ballottaggio tra Cipriani e Tare o dal duello tra Nastase
e Totti. Parte di quella moltitudine, per statistica, doveva aver passato il pomeriggio davanti alla tv. Avevano visto la copertina di Blackout sullo schermo,
qualcuno magari si era incuriosito, qualcuno poteva aver detto Be’, sembra
interessante ‘sto romanzo, com’è che si intitola?
E tutti quanti loro, la piccola percentuale di curiosi, la percentuale più grande
di spettatori, la percentuale ancor più grande che aveva passato il pomeriggio
a palpeggiare la fidanzata o a testare le sospensioni della macchina nuova, mi
ruotavano intorno ignari del mio dramma calcistico. Senza capire certe mie
espressioni indecifrabili, nei momenti in cui il display del cellulare s’illuminava.
Perché io, nel mio dramma calcistico, ero sprofondato nel sottodramma chiamato Martina.
Io, vi giuro, conosco le regole della lingua italiana. Sono uno scrittore. Non
badate al quel trascurabile evento capitato in quarta liceo, quando sono stato
rimandato in italiano. I miei temi, senza dubbio alcuno, erano troppo avanti
sui tempi. Gli artisti troppo avanti sui tempi non vengono capiti.
Al di là del fatto che l’insegnante d’italiano di certo aveva grossi problemi di
natura personale, nuziale e psicologica, oltre che a un pessimo rapporto con i
figli eroinomani, forse, e varie forme di schizofrenia e manie di persecuzione.
L’indicibile baldracca.
Per cui, ripeto, conosco le regole della lingua italiana, e so quando e come
posso violarle. Non voglio risalire all’anacoluto manzoniano. So come e quando posso violarle, tutto qua.
Tuttavia, non sono uno di quelli che si mette a fare le pulci a tutti. Se qualcuno a cui svelo il mio status di scrittore mi dice in tono di scusa Eh, io non
leggo, se avrei più tempo leggerei di più, oh, mica lo afferro per la collottola
urlando “Si dice Se avessi più tempo, avessi, ignorante, zotico, vattene, non ti
voglio sentire, mi dai fastidio, mi avveleni l’aria”. Niente di tutto questo.
Anche nel campo dei brevi messaggi di testo, meglio noti come sms, non mi
comporto mica da purista. Se mi arriva un messaggio che dice Ke fccm x il
compl del Ciccio? mica mi getto sul marciapiede urlando e sbavando. Ho familiarità coi nuovi linguaggi. Anch’io glisso su qualche accento, ogni tanto, nel
comporre un messaggino.
Tuttavia, il linguaggio cifrato di Martina necessita spesso di una stele di Rosetta. Ricaricabile. Con tariffa convenienza. Tipo Christman Card.
Il primo messaggio di Martina, in verità, era stato chiaro e foriero di esultanza
a pugno chiuso sotto il tavolino: un sms come Pass di Loca gol di Meghni 1-0
non dà adito ad alcuna interpretazione. Passaggio di Locatelli, gol di Meghni,
Bologna uno Roma zero, tutto splendidamente chiaro.
Anche il secondo messaggio, Super Loca gran gol di Cippo evvai, nonostan-
te lo scivolamento dalla fredda cronaca del primo messaggio all’esaltazione
incontrollata del secondo, era chiaro e limpido. Locatelli era in grande serata,
dopo Meghni era andato in gol anche Cipriani, e il Bologna conduceva due a
zero a metà del primo tempo. La serata sembrava mettersi al meglio.
Dopo, però, la concitazione della partita che si giocava a molti chilometri da
quel bar aveva annebbiato la sua mente. Martina aveva cominciato a sovrapporre differenti piani temporali, e a scivolare in un linguaggio quantomeno
equivocabile.
Col mio secondo boccale ancora pieno per metà, i ragazzi del bar di Cremona
avevano visto il mio cellulare che s’illuminava, il mio volto che si accendeva e
subito dopo si rabbuiava, la mia fronte che vistosamente s’increspava.
Di fronte al misterioso messaggio Anc Meghni rig net su Cippo e Cippo
espulso.
Ora, l’ho già detto, sono avvezzo ai nuovi linguaggi, al linguaggio degli sms, al
linguaggio dei blog, alle nuove frontiere della scrittura, sono avvezzo a tutto.
Ma un messaggio di questo tenore, consentitemi, qualche dubbio d’interpretazione me l’aveva lasciato. Mi sembrava di capire che Meghni avesse segnato di nuovo e che ci fosse stato un netto fallo da rigore su Cipriani, ma che
per qualche arcano motivo Cipriani stesso fosse stato espulso. Ma perché? E
quando? Dopo l’assegnazione del rigore? Avevamo segnato, e poi Cipriani era
stato espulso? Al posto dell’assegnazione del rigore? Non avevamo segnato e
in più Cipriani era stato espulso? E a pensarci bene: quell’anc Meghni voleva
dire che aveva segnato ancora Meghni o, per qualche inversione cronologica
del messaggio, che anche Meghni era stato espulso?
Incapace di reggere la tensione, avevo telefonato a Martina.
Martina, sappiatelo, è una donna. Forse l’avrete intuito dal nome di battesimo,
e dall’averla definita la mia ragazza dell’epoca.
Martina non ha molte delle caratteristiche che spesso vengono attribuite alle
donne, non si ferma davanti alle vetrine, sa guidare, non perde due ore per vestirsi. In compenso, come buona parte delle donne, è solita ficcare il proprio
cellulare nel fondo della borsa. Laddove il contenuto della borsa stessa soffoca e rende inudibile la suoneria, nel mezzo di una curva urlante di passione.
Al ventiduesimo squillo avevo rinunciato. Per riprovarci, inutilmente, dopo il
successivo messaggio Ke str, esp anche Zagor.
A quel punto, di fronte a un primo tempo concluso in vantaggio per due a
zero o per tre a zero ma concluso anche in nove uomini contro undici per
l’espulsione di Cipriani e Zagorakis, se non in otto contro undici in caso di
espulsione di Meghni, avevo ordinato un’altra birra. Molto forte.
Forse per sadismo di Martina, il messaggio Gol di Totti era stato comprensibile e chiaro.
Martina, avevo scoperto quella sera, aveva il senso del drammatico.
Quando le birre sul tavolo erano diventate sette, quando i camerieri avevano
cominciato ad accatastare le sedie sui tavoli, quando mi ero convinto che per
qualche strano motivo Bologna-Roma si fosse conclusa ai supplementari e ai
rigori a oltranza, cosa abbastanza improbabile per una partita di campionato,
solo allora la mia spia in curva si era ricordata di chiamarmi. E confermarmi il
tre a uno per il Bologna, due gol di Meghni, uno di Cipriani. Espulsi Cipriani
stesso e il greco Zagorakis.
Felice per la vittoria, non l’avevo neppure insultata. Mi ero alzato dal tavolino
barcollando, e avevo lasciato soddisfatto la città di Cremona.
In autogrill, mentre bevevo un doppio caffè per contrastare la birra, avevo
tirato un paio di somme. La mia carriera di scrittore stava decollando. La carriera di Cipriani e Meghni, anche quella stava decollando.
I miei sogni, tutti e due, si stavano facendo di sostanza concreta.
Sono passati più o meno sei anni, da quella sera di Cremona.
Le ossa complicate di Cipriani si sono disunite varie volte e sono state varie
volte saldate. Dopo aver giocato nel Bologna un totale di tre ore in due stagioni è finito al Rimini e poi alla Spal, dove sta facendo discrete figura in Lega
Pro. La serie C.
Meghni è andato in prestito al Sochaux e ha fatto pena e schifo. È tornato al
Bologna, che in quel momento era in serie B, e in un anno di serie B è riuscito
a snervare anche i mattoni dello stadio. Poi è andato alla Lazio a scaldare panchine e tribune. È già quasi un ex giocatore, in pratica.
L’undici marzo di quest’anno, per il mio quarantesimo compleanno, simbolicamente comincerò a scrivere La tempesta.
Che un sogno su due, almeno, si realizzi.
Che ora, a trentanove anni e dieci mesi, dopo una notte in spiaggia, mi sveglierei claudicante e azzannato dai reumatismi. E se devo massacrarmi la
schiena per far realizzare un sogno su due, deve valerne davvero la pena.