Fuerteventura di Ezio Tarantino Da alcuni anni

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Fuerteventura di Ezio Tarantino Da alcuni anni
Fuerteventura
di Ezio Tarantino
Da alcuni anni posseggo una casa in multiproprietà a Fuerteventura, nelle
Isole Canarie, precisamente a El Habito, un complesso residenziale a sud-ovest di
Majanicho, nella parte nord dell’isola, di fronte all’oceano. È mia per quindici giorni
l’anno, non sempre gli stessi, se voglio posso scegliere quali, sempre in alta stagione,
che comincia a metà aprile e finisce a metà ottobre. Ogni anno, in gennaio, posso o
prenotare le mie due settimane, o fare a cambio con il proprietario di un’altra casa in
multiproprietà in qualunque altra parte del mondo.
Majanicho è un piccolo agglomerato di casette basse di pescatori, bianche,
non belle, né caratteristiche, disposte senza nessun criterio, come se qualcuno le
avesse appoggiate lì per un po’, al buio, e poi se ne fosse dimenticato. Per arrivare a
El Habito bisogna prendere la strada che da Majanicho, attraversando il deserto
vulcanico, porterebbe a Lajares, ma dopo neppure un chilometro bisogna girare a
destra, giungere ad una rotatoria perfettamente inscritta in un cratere, prendere a
sinistra e continuare per un altro paio di chilometri, più o meno. Dopo qualche altra
svolta obbligata e rotatorie che condurrebbero, se prese nel verso sbagliato, ad altre
rotatorie nel mezzo del nulla, si è arrivati.
El Habito non è neppure tanto vicino al mare. Si può dire che sia proprio in
mezzo al deserto. Per arrivare al mare bisogna infatti tornare indietro a Majanicho, e
poi da lì esplorare le brulle coste dell’oceano. O avventurarsi a piedi, o con animali
da soma (se ce ne fossero) verso la costa settentrionale, in teoria più vicina, ma
collegata solamente da un sentiero.
A El Habito ci sono piccole piscine e una decina di campi da tennis, ma
nessuno ci va mai. O c’è troppo caldo o c’è troppo vento. Qui le villette sono disposte
lungo un reticolo di strade, come spine di una lisca di un pesce arcaico unite fra loro
da un numero imprecisato di rotatorie (c’è una infinità di rotatorie, nell’isola di
Fuerteventura ‒ a pensarci bene, guardandola dall’alto è proprio l’intera isola a
somigliare al fossile di un grosso pesce preistorico). C’è molto vento, il cielo è
vastissimo, l’aria sottile. Non c’è ombra di vegetazione. Quindi non c’è ombra in
assoluto.
Il posto che più gli assomiglia è l’area 51, nel deserto del Nevada. Dove si
incontrano gli alieni.
Ammetto di aver acquistato la mia porzione di appartamento rispondendo ad
una telefonata. La voce della ragazza era così seducente che era impossibile non
accettare il suo invito. Non mi stupì nemmeno il luogo dell’appuntamento: il palazzo
dello sport dell’EUR, a Roma. L’idea di una generale kermesse finalizzata alla
realizzazione di un sogno (farsi la casa al mare) mi sembrava una bella cosa. Mi
presentai quindi il giorno e all’ora che mi aveva indicato la ragazza. Come avevo
immaginato, altre centinaia di sedotti, con famiglie al seguito, si avvicendavano ai
tavolini degli operatori, disseminati ovunque, sugli spalti e sul parquet: c’era nell’aria
il rimbombo eccitante prodotto dalla simultanea stipula a poco prezzo di contratti
finalizzati all’acquisto di un pezzetto di multifelicità.
Allora avevo un po’ di soldi da parte. Non molti. Non avrei potuto comprarci
nulla né di ricreativo né di remunerativo, e non mi dispiacque l’idea di trovarmi un
posto sicuro dove poter riposare in primavera o in estate, o da scambiare, se lo avessi
voluto, con un qualsiasi altro posto al mondo. Arrivai lì già convinto e non stetti
troppo tempo a discutere i dettagli. Tutta quella gente che come me stava
pianificando le proprie vacanze da qui all’eternità era la prova della giustezza del mio
progetto.
Fuerteventura era (è) un nome che attirerebbe chiunque. Fa venire voglia di
abbandonare tutto, vendere il superfluo tenendo solo lo stretto necessario: una scelta
di vita radicale. Anche solo per quindici giorni all’anno. Bisogna essere disposti a
sopportare il vento, il silenzio, il caldo umido, e il rumore dell’oceano. E a non fare
nulla di divertente per tutto il periodo che si trascorrerà laggiù. Non c’è nulla da fare,
anche perché arrivando la sera a Corralejo (il comune più vicino dove poter trovare
alberghi frequentati da gruppi turistici organizzati, poiché a Majanicho non c’è nulla)
significherebbe, per far ritorno a casa, dover poi attraversare il deserto la notte,
rischiando seriamente di andare a fare compagnia agli scheletri di utilitarie che
arrugginiscono ai bordi della carretera. Majanicho e Corralejo distano infatti, in linea
d’aria, non più di sei chilometri, ma non esiste una strada che le colleghi, e occorre
necessariamente passare per Lajares, riprendere la FV 101 che arriva da La Oliva,
finendo con il percorrerne più di venti.
Solo che quando firmai il contratto, sulla base di un dépliant dove il mio
appartamento era raffigurato circondato da un cielo profondamente azzurro come il
mare calmo sullo sfondo, attraversato da candide vele, non trovai nessun riferimento
all’arido suolo circostante, né alle rigide condizioni climatiche, né soprattutto alle
attività ricreative. Solo un nome, Fuerteventura, anzi due: Fuerteventura e Canarias.
Una garanzia. Enormi spiagge dorate, l’oceano calmo, le acque trasparenti dai colori
tropicali.
Dicevo: all’inizio dell’anno sono libero di cambiare la mia villetta a El Habito
con una qualsiasi altra proposta scovata nell’immenso catalogo online della W** in
una qualsiasi altra parte del globo. Ma non lo faccio mai. No, fino ad ora non ne ho
mai approfittato. Da quindici anni il due di gennaio, prima con una lettera, poi con
una telefonata, poi con un SMS, quindi con la posta elettronica, e ora direttamente
compilando un modulo online blocco il periodo che mi spetta e trascorro quindici
giorni, in luglio, a El Habito. Anche se non posso dire che mi piaccia. Mi ci sono
abituato e ormai la sento come casa mia, non un posto di vacanza, ma un posto che
mi appartiene a prescindere da quello che io stesso possa pensare. Un fatto
ineluttabile come sopportare l’odore di formaggio rancido nell’androne del mio
palazzo a Cinecittà, provocato dalla salumeria accanto al mio portone.
Lo scorso anno un manifesto affisso su una porta del piccolo aeroporto di El
Matorral mi ha convinto a comprare un villa con piscina privada a Rojo del Curias,
nella nuova lottizzazione formata da grappoli di microcostruzioni a schiera chiamata
Residencial Tamaragua, in calle Esparraguera, alle spalle delle distese di sabbia del
Parque Natural Dunas.
Avevo letto in internet che affittandola avrei potuto chiedere sette-ottocento
euro a settimana, in alta stagione, niente male. Più che altro cercavo un modo per
trascorrere il tempo, dal momento che raccogliere caracorillos sulla spiaggia alla
lunga mi stava annoiando. Così come andare con la jeep giù al faro bianco e rosso di
El Cotillo, e a guardare i ragazzi del kyte-surf e le bambine danesi andare su e giù per
le dune seguite a distanza da genitori nudi e tolleranti. Avere una casa di proprietà mi
avrebbe obbligato ad averne cura, a controllare che l’acqua, il gas, la luce, la donna
delle pulizie, gli scarafaggi, stiano ognuno dove deve stare, almeno uno o due giorni
prima dell’arrivo del nuovo ospite. O dei nuovi ospiti (le villas sono pensate per due
o tre persone, ma se posso esprimere una opinione personale anche contro i miei
interessi occorre essere magri).
Andando a firmare l’atto notarile, a Santa Cruz de Tenerife, ho avuto un
piccolo incidente di macchina. Stavo andando a Morro del Jable, l’estrema punta a
sud dell’isola, per prendere il traghetto. Ci sono due modi per arrivare laggiù da La
Oliva, da dove devo per forza passare per andare in qualsiasi posto che non sia
Corralejo: arrivati a calle Generalissimo Franco, si può prendere o per la costa
meridionale, strada più bella ma più lunga, o tirare giù diritto per la FV 10, girare a
Tefia, prendere la FV 207 per una trentina di chilometri fino all’incrocio con Llanos
de la Conceptiòn e da lì per altri trenta chilometri di su e giù, tornanti e valli, colline e
crateri abissali e nulla arido e tortuoso arrivare al Municipio de Pajara, da dove si
prende la FV 617 fino a raggiungere, dopo la consueta serie di rotonde, la FV 2, che
corre lungo tutta la costa meridionale, che va percorsa per circa venti chilometri.
All’inizio della FV 617, appena superato l’arco vuoto del vecchio Municipio de
Pajara (una porta sul niente alle spalle, un rudere superstite di un terremoto), una
macchina proveniente da un sentiero alla mia sinistra si è immessa nella carreggiata
senza fare neppure il tentativo di fermarsi. Avevo i riflessi rallentati dal caldo e dalla
luce. L’ho presa nello sportello lato passeggero. Un tonfo secco, come rigonfio di
aria, e l’auto ha capottato sull’altro lato della strada, alzando una nuvola di polvere
che l’ha nascosta alla vista per qualche secondo.
Sono sceso dalla jeep e mi sono avvicinato con cautela. Il fumo si stava
diradando svolazzando nel silenzio arroventato. L’aria brillava caustica in ogni
possibile orizzonte.
Il motore al minimo della jeep borbottava, mentre dall’altro lato della strada
non proveniva nessun suono, né meccanico né umano. Mi avvicinai allo sportello
ammaccato, che scintillava verso il cielo. Sbirciai dentro. Due figure di donna si
dimenavano senza costrutto ma non parevano aver subito molti danni. Erano
silenziose e concentrate, ma i loro movimenti, forse per districarsi dalle cinture di
sicurezza e dall’air bag, erano del tutto inadatti a trovare una soluzione. Provai a
forzare la portiera. Ma prima andai a spegnere il motore della mia jeep.
Rimasi fermo nel vento che scrutava la mia capigliatura per liberarla dalla polvere.
Restò solo il silenzio e una sensazione di perdita. Forzai di nuovo lo sportello.
All’interno le due donne, una di circa sessant’anni con un taglio sulla fronte e l’altra,
quella alla guida, più giovane, bruna, con un top nero sulla pelle abbronzata, mi
fissavano stordite e timorose. Inermi, ora. Finalmente la portiera si aprì, coprendo un
arco inservibile verso l’alto. Era impensabile che le due donne uscissero di lì. Come
pure pretendere che lo facessero dalla parte opposta, visto che era schiacciata
sull’asfalto screpolato. Non rimaneva che provare a restituire all’auto la sua
dimensione orizzontale. Richiusi la portiera, la donna più anziana disse no no, ma io
feci cenno di aspettare. Mi guardai attorno. Se non ci fosse stata la scocciatura della
targa me ne sarei andato, ma loro avrebbero sicuramente chiamato la polizia
municipale per farmi rintracciare, e in un posto dove una strada è intitolata al
Generalissimo Franco questo non apriva prospettive esaltanti.
Cominciai a tirare in giù con forza. Mi tolsi la camicia, ero sudato. Tirai un
paio di volte e la macchina, una Punto nuovo modello, sobbalzò su se stessa e poi
piombò a terra schiacciandosi sulle ruote bucate. Allora aprii la portiera ed aiutai la
prima donna a scendere porgendole la mano e aspettando che lei facesse il resto, ma
quella non cooperava.
Non volevo farle capire che non ero spagnolo, sebbene fosse molto probabile
che anche loro non lo fossero. Quella più giovane esortò la mamma? amica? a
scendere, e si innervosì presto. Erano tedesche, o perlomeno il tedesco era la lingua
che parlavano. La donna anziana zoppicava un po’, l’altra aveva un paio di graffi
sull’avambraccio e poco più. Soffiai l’aria che mi rimaneva e mi spolverai i bermuda.
Raccattai la camicia che avevo poggiato in terra e la indossai guardando le punta dei
miei sandali. Ero pronto ad andarmene, non volevo storie e il mio traghetto stava per
partire.
La donna giovane mi squadrò stupefatta. Era chiaro che avendo avuto la
peggio automaticamente pretendeva di avere ragione, malgrado la dinamica
dell’incidente non lasciasse dubbi. Volevo andarmene. Avrei potuto chiamare
l’ambulanza, questo sì, ma non potevo fare davvero di più. Ok? Ok? dedicai un ok ad
ognuna e feci per andare via. Ambulance? Hospital? Have a mobile? Need
something? Stavo facendo davvero il massimo, ma quelle rimanevano immobili,
senza neppure ringraziarmi. Sentivo il caldo rosicchiare l’ossigeno, e il vento stordire
i pensieri. Chiamo l’ambulanza, ripetei in spagnolo e in inglese. Un carro attrezzi! Ve
lo chiamo… Cosa volevano da me? Volevano difendersi da una minaccia che io non
mi sognavo di portarle? Erano stupite dalla mia indifferenza? Volevano conoscere il
motivo del mio tollerante desiderio di finirla lì?
Porsi una mano per salutarle, ma loro si guardarono negli occhi, liberando il
campo visivo dei rispettivi capelli. Chiesi per l’ennesima volta, in inglese, con molta
calma se desiderassero che chiamassi l’ambulanza. Sentivo che stavano preparando
una versione concordata dell’accaduto. Si aspettavano le mie scuse, era chiaro, si
aspettavano che io offrissi loro un passaggio, è probabile. Non potevo saperlo visto
che continuavano a tacere stupefatte. Erano diventate un elemento del paesaggio. Più
che altro non c’era altro intorno, e la loro presenza, a parte la mia, giustificava secoli
di evoluzione biologica.
Il silenzio ci intrappolò di nuovo. Eravamo fermi lì da tre minuti e io
continuavo a non capire, loro continuavano a tacere. Buttai un occhio sull’arco del
vecchio Municipio de Pajara riempito dal cielo azzurro e le pietre color ocra che lo
circondavano da ogni lato. La donna più giovane, il cui top nero aderiva sulla pelle
abbronzata in modo vistoso, fece un cenno di disappunto e di sorpresa. Non era
davvero quello che si aspettava. La donna più anziana fece due passi indietro. Io
guardai l’ora, sconsolato e mi avviai verso la jeep, senza voltarmi. Hei, disse la donna
giovane. Con i gesti mi scusai cercando di farle capire come gli eventi stessero ormai
precipitando.
Le rocce davanti al vecchio arco del Municipio de Pajara ribollivano di una
eruzione ancora viva, un sommovimento eterno, robusto, tecnicamente ineccepibile.
Mi allontanai dalla macchina, riluttante, seguito da una coda di pensieri che volevano
venire in mio aiuto. Mi avvicinai al ciglio della strada e fissai una di quelle pietre,
residuo di una enorme tragedia naturale.
Pensai al momento in cui chissà quale dei crateri che avevo costeggiato lungo
la tortuosa FV 207 quella mattina, milioni di anni fa aveva lanciato nello spazio
intorno a sé i suoi detriti profondi, la sua livida rabbia bollente. Il ronzio del nulla
gravitava intorno all’arco del Municipio de Pajara e le zanzare cominciavano a
crepitare esauste.
Le due donne mi guardavano come si guarda uno scienziato impegnato in
gesti incomprensibili alla maggior parte delle persone, ed era esattamente il modo in
cui mi osservavo io stesso.
Ehi, disse di nuovo la più giovane, ma ormai era tardi, erano quindici anni che
nessuno mi rivolgeva la parola a Fuerteventura. Mi chinai e raccolsi una pietra, lunga
circa mezzo metro, friabile ma compatta, e tagliente sul bordo. Mi voltai e non vidi
niente, ma c’era tutto. Percepivo la lotta furiosa degli elementi, la rivelazione arcaica
dell’imminenza della fine: fa un rumore strisciante, più di un sibilo, meno di uno
scroscio e non emette suoni articolati, si lacera nella sorpresa, vermina raggrumando
acidi, grassi, sangue naturalmente, in un silenzio post-monitore che è specchio, non
propulsore né propellente né arma né viscido rancido cromato limbo delle speranze
secche come frutti ruvidi per il troppo sole e amari e gonfi di terra, asciutti, scavati da
un insetto più furbo, lustro e rapido, esattore e vile, esangue per natura arrovellato in
un errore di rotta strenue esemplare della capacità reattiva naturale ad ogni stimolo
coatto, vorticoso e tenace, come un colpo recapitato da un destino che ha scritto il
copione una sola volta, sicuro di milioni di repliche che finiscono tutte allo stesso
modo, con il niente della sera, con il silenzio impaurito di un bambino che ha
sbagliato per l’ennesima volta l’appuntamento con la stima dei suoi genitori, e ha
isolato nel libro della sua storia futura un circoletto da colorare dentro e fuori con il
sangue color del tramonto, sottraendolo ai ricordi per farne benzina per gli incubi
istruttori degli incendi di rabbia, e in fondo colpire o non colpire a questo punto è lo
stesso, però farlo bene è solo rispettare un’istruzione ben calibrata. Danzare sul
baratro, piangere, giocarsi per un niente tutta la vita.
Hei, ripeté, ma ormai era tardi.