processo del lavoro - Dipartimento di Giurisprudenza

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SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE
PER LE PROFESSIONI LEGALI
MATERIALE LEZIONE DEL 15 MAGGIO 2014
DOTT.SSA ELENA BOGHETICH
IL SISTEMA DI ALLEGAZIONI E PROVE NEL PROCESSO DEL LAVORO
NULLITÀ DEL RICORSO
Nel rito del lavoro la valutazione di nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per
mancanza di determinazione dell’oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi
di fatto e delle ragioni di diritto sulle quali questa si fonda, ravvisabile solo quando attraverso
l’esame complessivo dell’atto sia impossibile l’individuazione esatta della pretesa dell’attore e
il convenuto non possa apprestare una compiuta difesa, implica una interpretazione dell’atto
introduttivo della lite riservata al giudice del merito, censurabile in cassazione solo per vizi di
motivazione. (Cass., lav., 8 febbraio 2011 n. 3126; 16 gennaio 2007, n.820; Cass. lav., 27 marzo
2005, n. 5879; Cass. lav., 27 agosto 2004, n. 17076. Cass. lav., 23 marzo 2004, n. 5794; Cass. lav.,
10 novembre 2003, n. 16855)
Nel rito del lavoro il ricorrente deve - analogamente a quanto stabilito per il giudizio ordinario dal
disposto dell’art. 163, n. 4, c.p.c. - indicare ex art. 414, n. 4 c.p.c. nel ricorso introduttivo della lite
gli elementi di fatto e di diritto posti a base della domanda. In caso di mancata specificazione ne
consegue la nullità del ricorso, da ritenersi però sanabile ex art. 164, comma quinto, c.p.c. (norma
estensibile anche al processo del lavoro). Corollario di tali principi è che la mancata fissazione di un
termine perentorio da parte del giudice, per la rinnovazione del ricorso o per l’integrazione della
domanda, e la non tempestiva eccezione di nullità da parte del convenuto ex art. 157 c.p.c., del vizio
dell’atto, comprovano l’avvenuta sanatoria della nullità del ricorso dovendosi ritenere raggiunto lo
scopo ex art. 156, comma secondo, c.p.c. La sanatoria del ricorso non vale, tuttavia, a rimettere in
termini il ricorrente rispetto ai mezzi di prova non indicati né specificati in ricorso, sicché il
convenuto può eccepire, in ogni tempo e in ogni grado del giudizio, il mancato rispetto da parte
dell’attore della norma codicistica sull’onere della prova, in quanto la decadenza dalle prove
riguarda non solo il convenuto (art. 416, terzo comma, c.p.c.), ma anche l’attore (art. 414, n. 5,
c.p.c.), dovendo ambedue le parti, in una situazione di istituzionale parità, esternare sin dall’inizio
tutto ciò che attiene alla loro difesa e specificare il materiale posto a base delle reciproche istanze,
alla stregua dell’interpretazione accolta da Corte Cost. 14 gennaio 1977, n. 13. (Cass. SU, 17
giugno 2004, n. 11353; conforme: Cass. lav., 23 dicembre 2004, n. 23929, che precisa che, in
questo caso, ai fini dell’identificazione dell’oggetto della domanda [la cui impossibilità produce
comunque l’inammissibilità della domanda stessa] il giudice di merito deve prendere in
considerazione ogni elemento risultante dagli atti e dai documenti di causa, proveniente sia
dall’attore che dal convenuto, e può anche chiedere chiarimenti alle parti)
In senso contrario, parte della dottrina nonché una consistente parte della giurisprudenza di merito
e, recentemente, la Sezione lavoro, hanno, invece, rilevato l'incompatibilità del meccanismo della
rinnovazione/integrazione della domanda nulla con il sistema delle preclusioni anticipate
(Montesano-Vaccarella, Vallebona, Franza; Trib. Venezia 2 maggio 2006, MGL Rep., 2006, 200;
Trib. Nola 13 giugno 2006 in www.iussit.it 13.11.2006; Trib. Napoli 5 settembre 2005; Trib.
Genova 1 aprile 2005; Trib. Roma 10 febbraio 2005, n. 6528; Trib. Ferrara 28 aprile 2005, MGL
Rep, 2005, 132; Trib. Parma 6 novembre 2001, GI, 2002, 1046 con nota di VULLO; con riguardo
alla giurisprudenza di legittimità, cfr. Cass. 28 maggio 2008, n. 13989, Cass. 27 maggio 2008, n.
13825). Si è, invero, osservato che i meccanismi di rinnovazione o integrazione previsti dall'art. 164
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c.p.c., nel caso di vizi attinenti all'editio actionis, presupporrebbero una struttura del processo non
solo articolato in più udienze, ma anche tale da prevedere una successiva integrazione degli atti
iniziali, laddove il rito del lavoro è costruito sul presupposto della totale completezza degli atti
introduttivi e, quindi, sulla possibilità del suo esaurimento in un'unica udienza; dunque, far
rinnovare o far integrare un ricorso carente significherebbe, in realtà, far nascere un processo
totalmente nuovo da innestare sul tronco del precedente. Anche la giurisprudenza di merito
sottolinea la specialità del rito del lavoro, rito che conserva, anche dopo la riforma introdotta dal
decreto legge n. 35 del 2005 (convertito in legge n. 80 del 2005), apprezzabili differenze rispetto al
processo civile ordinario. In particolare, viene affermato che l'art. 420 c.p.c. (che detta una
compiuta disciplina della prima udienza) non contiene una previsione analoga a quella contenuta
nei primi due commi del novellato art. 183 c.p.c. (differimento dell'udienza), tenuto, anche, conto
della scelta consapevole del legislatore che in sede di modifica dell'intero impianto del codice di rito
(le modifiche introdotte dal decreto legge n. 35 del 2005 partono dall'art. 133 c.p.c. e giungono fino
all'art. 709 bis), ha ritenuto — a fronte della consolidata prassi giudiziaria nel senso della
declaratoria di nullità con sentenza definitiva per nullità insanabile ed assoluta dell'atto introduttivo
— di non intervenire esplicitamente nel senso della applicabilità dell'art. 164, quinto comma, c.p.c.
al rito del lavoro. Viene rilevato, inoltre, che — premessa la netta distinzione tra onere di
allegazione ed onere della prova, essendo il primo logicamente precedente al secondo ed operando,
il secondo, solamente quando i fatti allegati sono ritenuti sufficienti — l'applicazione dell'art. 164
c.p.c. risulterebbe dannosa nei confronti del ricorrente, soprattutto nelle ipotesi di domanda nulla
per omissione della causa petendi: avendo, infatti, le Sezioni Unite ribadito con fermezza la
preclusione ai mezzi di prova nonostante la possibilità di integrazione del ricorso, ne conseguirà una
inevitabile sentenza di rigetto nel merito della domanda.
Va segnalato che Cass. 27 maggio 2008, n. 13825 (il cui tenore è ripreso da Cass. 28 maggio 2008,
n. 13989), nella misura in cui espone che il ricorso “privo dell'esatta determinazione dell'oggetto
della domanda o dell'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto (…) è affetto da nullità
insanabile che il giudice è tenuto a dichiarare preliminarmente senza possibilità di scendere
all'esame del merito”, sembrerebbe rimeditare la soluzione adottata dalle Sezioni Unite. Invero,
queste due pronunce della Cassazione (a differenza della sentenza 5 febbraio 2008, n., 2732, che ha
ribadito la regola della nullità insanabile del ricorso senza “misurarsi” con la pronuncia delle
Sezioni Unite) hanno tentato di ricomporre il contrasto: da una parte, hanno riaffermato la soluzione
della insanabilità dell’atto nullo, rilevabile d’ufficio, ma dall’altra hanno precisato che il caso
esaminato era differente da quello sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite perché gli elementi di
fatto e di diritto posti a base delle domanda non erano individuabili neanche attraverso un esame
complessivo dei ricorso e della documentazione allegata. Insomma, la Suprema Corte sembrerebbe
circoscrivere la portata applicativa della pronuncia delle Sezioni Unite (ossia l’ipotesi della
sanabilità) alle ipotesi di mera insufficienza degli elementi costitutivi della domanda (a differenza
della assoluta omissione). La prospettiva, peraltro, continua a suscitare dubbi: ribadendo la regola
dell’insanabile nullità del ricorso in caso di assoluta omissione ex art. 414, nn. 3 e 4, c.p.c., ma
ammettendo l’applicazione dei meccanismi di rinnovazione e integrazione dell’atto per
l’allegazione comprensibile ma lacunosa, il nuovo indirizzo si espone a critiche più severe (Frasca),
incentrate sul tenore letterale dell’art. 164 c.p.c., facendosi rilevare come si voglia escludere
l’applicazione del comma 5 (ossia della regola della sanabilità del vizio) proprio e solo per l’ipotesi
contemplata espressamente dalla norma (comma 4, cioè nel caso di assenza o assoluta incertezza
dell’oggetto della domanda e nella mancata esposizione dei fatti). Appare, infatti, più conforme al
testo normativo individuare una ipotesi di nullità del ricorso in caso di mancanza del petitum e della
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causa pretendi e, invece, un caso di rigetto nel merito della domanda a fronte della insufficienza (ma
individuabilità) di questi elementi.
ECCEZIONI IN SENSO STRETTO E MERE DIFESE
L’eccezione di prescrizione costituisce un eccezione in senso stretto e va proposta, nel rito del
lavoro, a pena di decadenza, nella memoria difensiva di cui all’art. 416 c.p.c. (Cass. lav., 8 marzo
2001, n. 3375)
La controeccezione di interruzione della prescrizione non costituisce «eccezione in senso stretto» e
pertanto può essere rilevata d’ufficio dal giudice in qualunque stato e grado del processo sulla base
delle prove ritualmente acquisite agli atti. L’attore di fronte all’eccezione di prescrizione non può
considerarsi titolare di alcuna posizione soggettiva diversa da quella dedotta in giudizio, ma
semplicemente è in grado di contrapporre all’eccipiente un fatto dotato di efficacia interruttiva.
L’interesse a giovarsi di questo atto - ha affermato la Corte - è compreso nell’interesse sottostante il
diritto azionato, né certo potrebbe sottostare ad una distinta azione costitutiva; il legislatore collega
immediatamente l’effetto interruttivo ai fatti previsti dagli artt. 2943 e 2944 c.c. onde l’eccezione
non amplia i termini della controversia ma concorre a realizzare l’ordinamento giuridico nell’orbita
della domanda, su cui il giudice deve pronunciarsi tota re perspecta, ossia prendendo in
considerazione d’ufficio gli atti interruttivi; spetta dunque a lui di decidere la questione di
prescrizione, ritualmente introdotta dal convenuto attraverso l’eccezione di cui all’art. 2938 c.c.,
tenendo conto del fatto, anche dedotto in giudizio prima dell’eccezione, idoneo a produrre
l’interruzione, qualora l’attore abbia affermato il proprio diritto ritualmente e rettamente
provandone sussistenza e persistenza. (Cass. SU, 27 luglio 2005, n. 15661; successivamente, in
senso conforme, Cass. n. 4238/2011, Cass. n. 16542/2010, Cass. n. 2468/2006)
ONERE DI CONTESTAZIONE SPECIFICA DEI FATTI AFFERMATI
DALL’ATTORE
Nel rito del lavoro, il difetto di specifica contestazione dei conteggi elaborati dall'attore per la
quantificazione del credito oggetto di domanda di condanna, allorché il convenuto si limiti a negare
in radice l'esistenza del credito avversario, (a) può avere rilievo solo quando si riferisca a fatti, non
semplicemente alle regole legali o contrattuali di elaborazione dei conteggi medesimi, e sempre che
si tratti di fatti non incompatibili con le ragioni della contestazione sull'"an debeatur"; (b) rileva
diversamente, a seconda che risulti riferibile a fatti giuridici costitutivi della fattispecie non
conoscibili di ufficio, ovvero a circostanze dalla cui prova si può inferire l'esistenza di codesti fatti,
giacché mentre nella prima ipotesi la mancata contestazione rappresenta, in positivo e di per sè,
l'adozione di una linea incompatibile con la negazione del fatto e, quindi, rende inutile provarlo, in
quanto non controverso, nella seconda ipotesi (cui può assimilarsi anche quella di difetto di
contestazione in ordine all'applicazione delle regole tecnico - contabili) il comportamento della
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parte può essere utilizzato dal giudice come argomento di prova "ex" art. 116, secondo comma, cod.
proc. civ.; (c) si caratterizza, inoltre, per un diverso grado di stabilità a seconda che investa fatti
dell'una o dell'altra categoria, perché, se concerne fatti costitutivi del diritto, il limite della
contestabilità dei fatti originariamente incontestati si identifica con quello previsto dall'art. 420,
primo comma, del codice di rito per la modificazione di domande e conclusioni già formulate,
mentre, se riguarda circostanze di rilievo istruttorio, trova più ampia applicazione il principio della
provvisorietà, ossia della revocabilità della non contestazione, le sopravvenute contestazioni
potendo essere assoggettate ad un sistema di preclusioni solo nella misura in cui procedono da
modificazioni dell'oggetto della controversia (Cass.S.U. n. 761/2002; successivamente, in senso
conforme, Cass. n. 4051/2011, Cass. n. 21106/2009, Cass. n. 28381/2005).
Nel processo del lavoro, le parti concorrono a delineare la materia controversa, di talché, ove i fatti
costitutivi del diritto dedotto dal ricorrente non siano oggetto di specifica contestazione da parte del
resistente (costituito), i fatti stessi sono da considerare esistenti, incontrovertibili, poiché restano
estranei alla materia del contendere ed al conseguente potere di accertamento del giudicante. Tale
principio è applicabile anche nel giudizio di secondo grado, avendo l’appellato, pur non
soccombente, l’onere di riproporre la contestazione, in modo espresso, con la memoria di
costituzione. (Cass.lav., 3 marzo 2006, n.4668; Cass. lav., 5 aprile 2004, n. 6663; Cass. lav., 5
marzo 2004, n. 4556)
In relazione alle opzioni difensive del convenuto occorre distinguere il potere di allegazione da
quello di rilevazione, posto che il primo compete esclusivamente alla parte e va esercitato nei tempi
e nei modi previsti dal rito in concreto applicabile (pertanto sempre soggiacendo alle relative
preclusioni e decadenze), mentre il secondo compete alla parte (e soggiace perciò alle preclusioni
previste per le attività di parte) solo nei casi in cui la manifestazione della volontà della parte sia
strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva (come nel caso di
eccezioni corrispondenti alla titolarità di un’azione costitutiva), ovvero quando singole disposizioni
espressamente prevedano come indispensabile l’iniziativa di parte (quale, per la prescrizione, l’art.
2938 c.c.), dovendosi in ogni altro caso ritenere la rilevabilità di ufficio dei fatti modificativi,
impeditivi o estintivi - e, a maggior ragione, l’inesistenza di fatti costitutivi - ove risultino dal
materiale probatorio legittimamente acquisito. Peraltro, il difetto di specifica e tempestiva
contestazione da parte del convenuto può avere rilievo, nelle controversie soggette al rito del lavoro,
solo quando si riferisca a fatti non incompatibili con le ragioni della contestazione generica della
pretesa avversaria, rendendo inutile la prova dei fatti costitutivi della domanda non conoscibili
d’ufficio dal giudice, mentre non rileva, ai fini della tempestività della contestazione, la tardività
della costituzione in giudizio, in quanto può configurarsi una preclusione (argomentabile dal
sistema) alla contestabilità soltanto sul presupposto - non ravvisabile nel solo fatto della contumacia
- di un atteggiamento originario di non contestazione. (Cass. lav., 28 novembre 2003, n. 18263)
Il sistema di preclusioni su cui fonda il rito del lavoro (come il rito civile riformato) comporta per
entrambe le parti l’onere di collaborare, fin dalle prime battute processuali, a circoscrivere la
materia controversa, evidenziando con chiarezza gli elementi in contestazione; ne consegue che
ogni volta che sia posto a carico di una delle parti (attore o convenuto che sia) un onere di
allegazione (e di prova), il corretto sviluppo della dialettica processuale impone che l’altra parte
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prenda posizione in maniera precisa rispetto alle affermazioni della parte onerata, nella prima
occasione processuale utile (e perciò nel corso dell’udienza di cui all’art. 420 c.p.c., se non ha
potuto farlo nell’atto introduttivo), atteso che il principio di non contestazione, derivando dalla
struttura del processo e non soltanto dalla formulazione dell’art. 416-bis c.p.c., è applicabile,
ricorrendone i presupposti, anche con riguardo all’attore, ove oneri di allegazione (e prova) gravino
anche sul convenuto. (Fattispecie in tema di licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica del
lavoratore). (Cass. lav., 5 marzo 2003, n. 3245)
L’attore può essere esonerato dall’onere di provare i fatti costitutivi della domanda o se il
convenuto tiene un comportamento omissivo, nel qual caso la non contestazione dei fatti
costituisce, quale inadempimento dell’onere processuale previsto dall’art. 416, comma terzo, c.p.c.,
un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio,
ovvero se la parte che avrebbe interesse a negare quei fatti li abbia esplicitamente ammessi ovvero
abbia impostato il proprio sistema difensivo su circostanze e argomentazioni logicamente
incompatibili con il disconoscimento di un fatto che, ricorrendo tali condizioni, può ritenersi
pacifico tra le parti; il giudice che assume la qualità incontroversa dei suddetti fatti ha il dovere di
specificare la natura della causa che conferisce ai fatti tale qualità (omissione o non contestazione),
nonché la fonte processuale di tale qualificazione. (Cass. lav., 14 gennaio 2004, n. 405)
ART. 420 BIS (ART. 64 DLgs n.165 del 2001). AMBITO DI APPLICAZIONE
DELLA NORMA
Il canone costituzionale della ragionevole durata del processo, coniugato a quello dell’immediatezza
della tutela giurisdizionale, orienta l’interpretazione dell’art. 420-bis c.p.c. nel senso di ritenere che
tale disposizione trovi applicazione solo nel giudizio di primo grado e non anche in quello
d’appello. Tale opzione interpretativa è in sintonia con le scelte del legislatore delegato (d.lgs.n. 40
del 2006) che, più in generale, ha limitato la possibilità di ricorso immediato per cassazione avverso
sentenze non definitive rese in grado d’appello, lasciando invece inalterata la disciplina
dell’impugnazione immediata delle sentenze non definitive rese in primo grado. . (Cass. lav., 1°
marzo 2007, n. 4834)
INDICAZIONE DEI MEZZI DI PROVA: DEPOSITO DEI DOCUMENTI
Nel rito del lavoro, in base al combinato disposto degli artt. 416, terzo comma, c.p.c., che stabilisce
che il convenuto deve indicare a pena di decadenza i mezzi di prova dei quali intende avvalersi, ed
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in particolar modo i documenti, che deve contestualmente depositare - onere probatorio gravante
anche sull’attore per il principio di reciprocità fissato dalla Corte costituzionale con la sentenza n.
13 del 1977 - e 437, secondo comma, c.p.c., che, a sua volta, pone il divieto di ammissione in grado
di appello di nuovi mezzi di prova - fra i quali devono annoverarsi anche i documenti -, l’omessa
indicazione, nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti, e l’omesso deposito
degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei
documenti stessi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o
dall’evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione
(ad esempio, a seguito di riconvenzionale o di intervento o chiamata in causa del terzo); e la
irreversibilità della estinzione del diritto di produrre i documenti, dovuta al mancato rispetto di
termini perentori e decadenziali, rende il diritto stesso insuscettibile di reviviscenza in grado di
appello. Tale rigoroso sistema di preclusioni trova un contemperamento - ispirato alla esigenza della
ricerca della «verità materiale», cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro, teso a
garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare
riconoscimento - nei poteri d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova,
ai sensi del citato art. 437, secondo comma, c.p.c., ove essi siano indispensabili ai fini della
decisione della causa, poteri, peraltro, da esercitare pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle
parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse. (Cass. SU, 20 aprile
2005, n. 8202; successivamente, in senso conforme, Cass. n. 12847/2010, Cass. n. 2577/2009, Cass.
n. 18884/2008)
Nel rito del lavoro, i mezzi istruttori, preclusi alle parti, possono essere ammessi d’ufficio, ma
suppongono, tuttavia, la preesistenza di altri mezzi istruttori, ritualmente acquisiti, che siano
meritevoli dell’integrazione affidata alle prove ufficiose. Peraltro, l’indisponibilità, che consente la
produzione tardiva di documenti suppone che, al momento fissato, a pena di preclusione o
decadenza, per la loro produzione, fosse oggettivamente impossibile disporne, trattandosi di
documenti la cui formazione risulti, necessariamente, successiva a quel momento. Ne esulano,
pertanto, le certificazioni che, pur avendo per oggetto circostanze di fatto quali, con riferimento a
prestazioni assistenziali, i requisiti socio-economici al fine dell’accesso all’assegno di invalidità,
preesistenti a quel momento, siano state formate, tuttavia, solo successivamente (Nella specie, la
S.C. ha confermato la decisione della corte territoriale che aveva ritenuto prodotta tardivamente, nel
corso del giudizio di appello, la prova documentale circa il possesso, da parte del ricorrente, dei
requisiti socio-economici al fine della prestazione assistenziale richiesta). Cass. lav., 27 luglio 2006,
n. 17178)
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