racconti minimi - Lorenzo Moneta

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racconti minimi - Lorenzo Moneta
Racconti Minimi 1994-2006
Lorenzo Moneta
[email protected]
mob. +39 338 7142000
Due Treni Bianchi E Verdi
“Voglio un dolcetto”
“Non puoi averlo”
“Perché? Voglio un dolcetto”
“Perché dormono tutti. Tutti.”
Ricordo tutto di quell’incredibile notte.
Avevo pensato per anni a come sarebbe stato, alle sensazioni che avrei
provato. Uno scrittore crede di poter immaginare tutto. Si è talmente esercitato nella
costruzione mentale di ogni possibile evento, di ogni dialogo, di ogni accento nelle
parole, che ha la presunzione di credere che tutto sia prevedibile come in uno dei
racconti che scrive.
Non è così.
“Sara? Sara?”
“Non c’è, stai buono. Non è qui. Dormi.”
“Come, non è qui? Dov’è?”
“E’ a casa”
“Certo che è a casa. Sara?”
“Non è qui. Non c’è nessuno qui, tranne noi.”
Solo qualche anno fa le cose erano diverse. Non c’erano malattie a scandire
il conto alla rovescia della nostra separazione. Non c’era l’improvviso concretizzarsi
delle paure di abbandono. C’era un rapporto normale, di quelli in cui ti dici tutto, e in
faccia, perché non ti preoccupi di quando l’altra persona non ci sarà più, e non filtri le
tue parole come un giorno vorresti aver fatto.
Solo qualche anno fa era iniziato il periodo in cui ogni volta che salutavo papà,
sembrava l’inizio di una serie di saluti definitivi. Rimaneva, nonostante i Ciao, i Stammi
bene, i A domani, qualcosa nell’aria di struggente, di inespresso, da togliere il fiato.
Rimaneva la voglia di corrergli dietro, prima che infilasse la ventiquattrore malandata
nella Rover malandata, prima che vi salisse con le prime tracce di fatica malcelata, prima
che accendesse il motore, e dirgli Scusa, papà, volevo dirti che il bene di tutto il mondo
non basta a esprimerti quello che provo.
Naturalmente, ovviamente non lo feci quella volta né lo feci mai altre volte,
perché non si fa, non ci è stato insegnato, non siamo abituati a questo. Lo tenni per me,
vergognoso come un bambino, assolutamente certo che la vita mi avrebbe presentato
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un milione di altre occasioni eclatanti in cui dirglielo.
“Sara? Sara. Perché i miei figli sono così sxfhcsdsfjgyui…”
“Come? Così cosa? Senti, dormi, papà.”
Forse le occasioni per dirglielo erano ridotte per via del suo terribile
carattere. Era come se tutto il suo modo d’essere respingesse l’affetto che provavo per
lui, o perlomeno le sue manifestazioni. Come una barca che naviga in un mare agitato, e
si avvicina al porto, e ogni avvicinamento la può portare a fracassarsi sul molo oppure
a entrare e salvarsi, così ero io, avaro di tentativi, e lui, attraente come un faro, nella
burrasca della mia vigliaccheria.
“Voglio alzarmi.”
I dottori erano stati chiari. Non ci si alza. “Con il fegato in quelle condizioni,
deve stare assolutamente immobile”, avevano detto guardandoci con severità, e come
sottointeso c’era un rimprovero. Ci eravamo sentiti in grande colpa, mio fratello ed io.
La notte prima, Andrea e papà l’avevano passata facendo su e giù dal letto alla sedia a
rotelle. Papà non aveva avuto pace. Appena sdraiato, non respirava. Seduto, non ce la
faceva. Sette volte, in tutta la notte. Andrea mi aveva fatto promettere di non fare la
stessa cosa. “Lo devi far stare giù”, aveva detto. “Va bene”, avevo risposto, risoluto.
“Voglio alzarmi.”
Era solo mezzanotte.
“Papà, non cominciamo. Hai sentito il dottore.”
“Me ne frego. Voglio alzarmi.”
Con il cuore in gola, completamente senza il controllo della situazione, avevo
suonato l’allarme. L’infermiera era arrivata e aveva acceso la luce grande, inondando
la stanza di un bagliore freddo che aveva svegliato l’altro paziente. “Cosa succede,
vogliamo dormire?”
“No, signorina” aveva detto papà con il suo peggior tono, “Non vogliamo
dormire, mi devo alzare.”
Avevamo provato a tenerlo giù, e lui, con una forza che non ci aspettavamo,
ci aveva scansati e si era alzato a sedere sul letto, ma non riusciva a tenersi puntato
sulle mani. Lo guardavo con una pietà infinita, chiedendomi il perché di quel puntiglio, di
quella necessità assurda, mentre spingeva i tricipiti fiacchi contro il materasso.
Alla fine era arrivato il dottore. Aveva scambiato qualche parola con papà.
Recitava la parte del dottore arrabbiato, e papà quella del paziente che ha fatto il
cattivo, ora che finalmente l’avevamo messo a sedere. Ora che aveva vinto lui. Quando
rimanemmo soli, papà fu lucido per l’ultima volta. Mi guardava con occhi terribili, come
se l’avessi tradito. “Siete impazziti? Perché non mi facevi alzare?”
Ancora non capivo. Non potevo capire.
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“Sara? Sara?”
Solo mezz’ora dopo. Papà era di nuovo a letto. La luce notturna colorava tutto
di rosa.
“Mamma non è qui. Cosa vorresti dirgli, papà? Che vuoi un dolcetto?”
“Ma quale dolcetto? Lo sai cosa voglio dirgli. Mi hai sentito, prima.”
Avevo sentito che io e Andrea siamo così sxfhcsdsfjgyui. E questo mi bastava.
Un quarto d’ora dopo aveva di nuovo voluto alzarsi. Provai ad impedirglielo,
ricominciò ad agitarsi. “Non posso respirare così, lo capisci?” Lo capivo, ma sapevo
anche che ogni volta che si alzava in piedi, riduceva la sua vita di qualche ora.
Lo feci ruotare sul letto e gli misi i piedi a terra. Si appoggiò a me e contammo
fino a tre. Al tre era in piedi, e mi scansava, perché odiava doversi appoggiare a qualcuno,
anche se stava a malapena in piedi. Lo feci ruotare su se stesso, poi lo misi a sedere sulla
sedia a rotelle. Rimase così, occhi chiusi, seduto nel cuore della notte, in silenzio, con
l’unico rumore i peti del vicino. Poi volle rimettersi a letto. Si alzò e ripeté al contrario i
movimenti fino a tornare sdraiato.Tutta l’operazione durò venti minuti, e la ripetemmo
un sacco di volte. Non so quante, ma molte più di sette. Alla fine spegnevo la luce, mi
sedevo e bevevo un sorso di Schweppes, amara, dolce e calda. Lui ed io ogni volta più
sfiancati.
Non so quale di queste volte fu quella in cui capii. Ci misi molto: dovevano
essere le quattro. Aspettavo con ansia di vedere l’alba attraverso la serranda ma non
arrivava. La stanza era bollente e io puzzavo. Nonostante la Schweppes avevo la gola
arida. Papà alzò per l’ennesima volta il braccio cercando qualcosa a cui appoggiarsi e
sporse i piedi fuori dal letto. Mi preparai per cominciare da capo. E capii.
Capii la sua personale lotta. Capii che non avevo capito niente. Capii che per
lui non era importante allungare di qualche ora la vita, ma vincere la malattia che l’aveva
vinto. Proprio perché non poteva, si alzava. Se gli avessero detto che era meglio alzarsi
ogni tanto, sarebbe rimasto inchiodato a quel maledetto letto.
La malattia l’avrebbe comunque annientato, ma lui non le avrebbe dato la
soddisfazione di aspettarla immobile.
“Sei pronto, papà?” avevo detto alzandomi di scatto.Avevo preso delicatamente
i piedi gonfi, l’avevo girato sul letto. “Ecco, giusto, papà”, dicevo. “Gliela facciamo vedere
noi, a quella stronza”, dicevo mentre contavo fino a tre e hop, lui si alzava sempre con
più fatica, sempre più appoggiandosi a me, e a me sembrava di avere sempre meno forze
ma non importava, non era importante, non contava niente, lui era di nuovo in piedi con
gli occhi chiusi e io dicevo “Bravo, papà, gliel’hai fatta vedere ancora a quella stronza”
e lui ogni volta riusciva a fare una cosa in meno, e parlava sempre meno, mentre non
riusciva più ad alzarsi dalla sedia, poi non riusciva più a sedercisi, infine nemmeno ad
alzarsi dal letto.
Rimanemmo così, l’ultima volta. Essendo inverno, la luce era arrivata solo alle
sette e mezza. L’ospedale si svegliava. Le infermiere del turno mattutino ci trovarono
seduti uno accanto all’altro, lui che forse dormiva, e mi aiutarono a rimetterlo sdraiato,
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esausto com’era lui e sfiancato dalla nottata io.
Spalancai la finestra, era una giornata piovosa. Dal nostro piano, altissimo su
un lato boscoso della città, aprii la mia vista su un ponte della ferrovia metropolitana,
due treni bianchi e verdi, uguali, si incrociavano al centro esatto del ponte e io rimasi
incantato dalla geometrica perfezione del creato.
Per papà, 28/5/1935 – 18/2/2005
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Voi Siete Qui
- La chiave non entra, dico.
- Non c’è la serratura, dice Laura.
E’ vero. Al suo posto c’è un buco nel legno. Manca anche la placca di ottone.
Provo con il chiavistello sotto: questo si apre. Spingo la porta.
I miei hanno traslocato. C’è voluta una sola giornata. Hanno atteso una vita
e poi hanno traslocato in una giornata. Come raccontava quel tizio su Fiesta, che
era andato in rovina in due modi, lentamente e poi improvvisamente. Così hanno
traslocato i miei. Prima lentamente e poi di colpo. Ora è sera. Mi sembra che sia un
errore essere tornato qui, a casa loro.
- Micia non è venuta a salutarci.
- Sarà nascosta nella stanza degli armadi.
- Anche se non ci sono più gli armadi?
- Sai come sono i gatti, dice Laura. - Loro si legano al territorio, più che ai
padroni.
Avanziamo nell’ingresso buio. Un foglio prende a danzare davanti ai nostri
piedi come uno spettro. La luce della torcia lo illumina, poi Laura dirige il fascio verso
la finestra spalancata. Infine illumina il lampadario.
- Corrente staccata, dico.
- La accendo.
Laura entra nello sgabuzzino, si sente un tlac e si illumina una delle stanze
verso la cucina.
Accendo la luce su uno spettacolo desolante. A terra, mucchi di cose in attesa
di essere scelte, o scartate, come clandestini della memoria.Alle pareti, l’alito dei quadri.
Mai un lampadario è stato più impietoso. Mi viene l’istinto di tornare alla penombra di
quando siamo entrati, ma non spengo la luce.Voglio andare fino in fondo.
- Più che un trasloco, sembra una fuga di ricercati, dice Laura. A me non da la
stessa impressione. Lei vede in quella serie di oggetti buttati la scelta frettolosa di chi
deve scappare; io, la cura meticolosa di chi sta selezionando il passato che merita di
sopravvivere. So chi li ha lasciati così.
Appare Micia dal corridoio. Guarda come guarda lei di solito quando torniamo
dalle vacanze, o quando arrivano sconosciuti: sporta a metà oltre l’angolo tra ingresso
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e corridoio, incerta. Micia sta male. Tra due mesi non ci sarà più. Ha passato con noi
dodici anni, non sopravvivrà al trasloco.
- Povera, povera Micia - dice Laura inchinandosi lentamente per non
spaventarla. - Ti abbiamo lasciata sola soletta ma adesso, vedi, siamo tornati. Ora ti
portiamo via.
Micia è una gatta difficile. Timidissima. Nonostante tutto il tempo, ancora non
si fida del tutto. Di Laura sì, però. Dal primo giorno. A patto che si avvicini lentamente.
Laura in questo è brava. Si avvicina piano alle persone, le accarezza all’improvviso sotto
il collo, lascia che si abbandonino al suo amore.
- Micia! - la chiamo come al solito. La mia voce rimbalza qualche volta per le
pareti nude, per l’assurda mancanza dei mobili, per l’aria vuota come non lo è stata
mai.
- Guardala, quant’è sospettosa, sussurra Laura.
- Diamole da mangiare, risponde la mia voce per tutte le stanze.
La cucina è in fondo al corridoio a elle. Lo percorriamo con Micia che ci segue
a coda in su. C’è ancora vento, vento di corrente per i corridoi e le stanze. Vento di
abbandono, del tipo che circonda la nave mentre affonda.
In cucina devo stare attento a come aprire il rubinetto, perché non c’è più
nemmeno il lavandino. Riempio la ciotola di Micia, la quale ci si avventa non appena la
poso a terra. La sete della malattia. La svuota in pochi minuti. Una ciotola che in genere
le basta una settimana.
- Che sete aveva, dice Laura.
Osservo Micia che si fa carezzare la testa come mai si è lasciata fare. Laura le
canticchia una specie di ninna nanna. Le lascio sole.
Giro per la casa con la ferma intenzione di assorbire più dettagli e odori
possibili. Sento di doverlo a qualcuno. Non a me, che ormai non vivevo in questa
casa da tanto tempo. Non alle cose, che continuo a trovare in mucchi ordinati tra i
pavimenti e le pareti. A qualcos’altro. A qualcun altro.
Un’immagine di questa mattina. Un’evacuazione. Non ci sono sostantivi
migliori di questo.
I trasportatori. Rumeni, silenziosi, gentili. Fratelli, padri, cugini, tutti nella
stessa impresa di traslochi. La mia diffidenza iniziale; la loro professionalità, la rapidità;
vergognarmi della mia diffidenza cronica. Le parole tra loro - pochissime. La bottiglia
d’acqua che gli ho portato, i bicchieri di plastica. Il grazie detto con un cenno del mento.
Portavano via le scatole a una velocità tale da non lasciarci a volte nemmeno il tempo
di chiuderle. Una me l’hanno tolta mentre la battezzavo col pennarello LIBRI, la I finale
è diventata uno svolazzo.
I loro scarponi pesanti. Il rimbombo per i corridoi. Micia nascosta come al
solito sotto il letto dei miei. Il fracasso tutto attorno a lei. Il letto - rifugio di una vita,
autentica presenza immota e rassicurante - che all’improvviso si solleva: la fine della
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sicurezza. La fuga in un’altra stanza.
Osservo un mucchio tra quelli della stanza di mio fratello. Quaderni, penne
scariche, vecchio calendari di musicisti anni Ottanta. Cerco di pensare a quando quelle
cose erano nuove: all’aria fiammante della biro appena comprata, alla gioia di aver
trovato l’ultimo calendario disponibile di quel gruppo pop. Ascolto il silenzio della casa
interrotto solo dalla nenia lontana di Laura. Tento di assorbire quanti più dettagli di
quel silenzio di vuoto, e mi accorgo senza particolare originalità che la casa è ancora
più enorme del solito, così vuota. Peggio che vuota: vuota con ciarpame. Ciarpame che
fino a ieri non era ciarpame. Erano cose. Cose con una loro dignità di cose. Ora sono
ciarpame. Perché l’uomo ha il potere di infondere la vita nelle cose che ama. E’ il nostro
amore a renderli testimoni unici della nostra storia oppure ciarpame. E il ciarpame,
quello sì, è peggiore del peggior vuoto.
Un’altra immagine di stamattina. Il viavai dei trasportatori. Il vento che
cominciava a correre tra le stanze, non più imbavagliato dalle tende. Io, mio fratello,
mia cognata e Laura, a riempire scatoloni. Rotoli di scotch per pacchi che finivano uno
dietro l’altro. Mio padre a guidare i rumeni verso i camion o verso la cantina come un
vigile urbano scocciato e stanco.
E in mezzo a tutto il caos, mia madre. Mia madre, accovacciata, che con le sue
mani da pianista, delicatamente, meticolosamente, sceglie tra un miliardo di minuscoli
oggetti - portastuzzicadenti, portachiavi, santini, campioncini di profumi ormai dissolti
- cosa conservare e cosa no. Posso rivedere la scena, ora che la casa è tremendamente
vuota e diversa dalla mattinata concitata e assurda: tutto attorno a mia madre un
finimondo di mobili spostati, di camion che aspettano in doppia fila, e noi, tutti insieme,
che le mettiamo fretta, che la spingiamo a buttare l’inessenziale, senza sapere che
siamo noi a decidere il nostro personale essenziale.
Alla casa. Ecco a chi lo devo. Non posso perdere nemmeno un dettaglio, devo
registrare tutto. Devo ricordare, anche se ora è doloroso.
Aspettiamo l’ascensore sul pianerottolo. Micia se ne sta buona nella gabbia.
Laura ondeggia sulle gambe e intanto guarda su, canticchia qualcosa.
- Cosa c’è, mi chiede piano.
- Vorrei tornare piccolino, dico dopo un po’.
- Per restarci?
- Per ricominciare.
Ora siamo a casa nostra. Domani dovremo aiutare i miei a svuotare gli
scatoloni pieni di scritte sbaffate. Dobbiamo dormire. Nel buio, ascolto il respiro da
bambina di Laura. Ogni tanto si sente un sospiro più leggero: Micia che dorme sul
piumone, ai nostri piedi, e ogni tanto sogna. Nel buio avverto la stanchezza crollarmi
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giù dalle spalle, e il sonno prendere il suo posto.
Ma come ultimo pensiero, non posso fare di meno di rivedere il pianerottolo.
Il neon che di recente ha sostituito la meravigliosa lampada ad incandescenza. La
bottoniera in ottone e bachelite rimpiazzata da una in alluminio e plastica. Il palazzo
degli anni Venti gestito dai nuovi lupi della società di amministrazione come un capanno
industriale.
C’era un cartello alle nostre spalle. Una pianta dell’edificio con le vie di fuga,
stampato e attaccato tanto per obbedire ad una normativa. Ho osservato la freddezza
con cui il disegno tentava di evocare i pianerottoli e le scale dov’ero cresciuto. Ho
studiato la trasparenza già graffiata del plexiglas. Ho seguito quei percorsi a pennarello
con un sorriso, trovandoli inutili e sbagliati. E ho pensato che da quella casa non avrei
mai voluto trovare vie di fuga, nemmeno se ci fosse stato un incendio. Ho pensato che
di tutti i posti del mondo, quello l’avrei scelto anche per morire.
Il cartello diceva: “VOI SIETE QUI”. Non gli ho creduto. Forse, lui era lì.
Indicava un punto della casa dove avremmo dovuto essere. In confronto ai luoghi della
memoria, quello che indicava lui era il meno esistente.
(marzo 2005)
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Barbe-A-Papa’
Questa cazzo di sala d’aspetto è la peggiore che abbia mai visto, cazzo, giuro
che non ne ho mai vista una così fetente.
Sto in questa sala d’aspetto di questo cazzo di ospedale di trastevere perché mi
ci ha portato laura che chissà come cazzo le è venuta questa idea stronza, proprio non
lo so, so soltanto che è fredda e c’è gente che apre la porta ogni tanto, ma mica entra o
esce, è solo che a quanto pare non sono il solo a pensare che questa sala d’aspetto del
cazzo è la peggiore in assoluto, puoi leggerlo nelle facce di quelli che aspettano insieme
a noi, che anche loro non ne hanno mai vista una peggiore, e così ogni tanto qualcuno
va alla porta e la apre ma poi sul più bello li vedi che ci ripensano per qualche motivo
oscuro e rientrano e intanto io mi sono ciucciato lo spiffero del cazzo.
Insomma a laura è venuto questa specie di sospetto, capite, dice che da un
po’ di tempo ha poca fame, si ammala in continuazione e prende raffreddori e mal
di gola come fossero rondini a primavera, cazzo, poi sono mesi che ha una febbre
stronza tipo trentaseienove trentasette, che cazzo, che i primi tempi io le dico che
porcatroia ti lamenti, sai che febbre, uau, ti manderei io a lavorare ai mercati alle quattro
quattroemezzo con trentanove come ce l’avevo l’anno scorso, fatto sta che però sono
mesi che ce l’ha e poi questo si riflette sul nostro equilibrio coniugale e quindi il
risultato è che la libido è diminuita e insomma per usare parole povere a casa ormai si
scopa poco e male che neanche sotto la naja, per cui dico ma che cazzo, sembra che
c’hai il marchese a ripetizione, e lei dice ninni voglio fare, dice, il test, dice, che io manco
sapevo che fosse gratis per cui lì per lì le dico ma tu sei scema, e lei s’incazza e mette
il muso e alla fine le dico sì anche perché ormai ha preso appuntamento e prima che
capisca che è gratis mi sono già incazzato e non voglio comunque che butti i soldi già
spesi anche perché li potevamo usare per una spada come dico io e per mezz’ora in
allegria.
Insomma sto qui che tento di leggere il giornale ma non ci riesco perché
sono troppo incuriosito, voglio dire, sono circondato da questi tizi, è la prima volta che
ne vedo tanti tutti insieme, di quelli, voglio dire, mi sono spiegato, di quelli là, e m’ero
sempre domandato che faccia avessero, e forse me li ero immaginati in un altro modo,
come nei film, ma invece sono tutti dolciegabbana con questi cazzo di look da bravi
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ragazzi coi loro maglioncini neri a vu e i pantaloni a tubo grigi e le scoppolette di lana
tipo robertdeniro dei poveri, che se qualcuno si azzarda a darsi la mano porcozio gliela
taglio.
Poi c’è questo tavolino di ferro e plastica in mezzo, no? proprio da poliambula
del cazzo, e noi attorno su queste sedie di ferro dure e fredde da obitorio di merda,
seduti spalle al muro per non far venire la tentazione nessuno, capite, fatto sta che
nessuno si guarda in faccia, nessuno riesce a dire una parola e se qualcuno parla è
perché è venuto con l’amico tipo me e laura e lo fa comunque a bassavoce, e c’è
questa specie d’aria di penitenza, cazzo, non la reggo, tutti a cacarsi sotto e a pregare
come se stessero facendo il sorteggio per chi deve andare al muro, poi ognuno c’ha il
suo bravo numeretto come se dovesse fare la visita ketchup, checkup o come cazzo si
chiama, metti dal dentista o dallo specialista, e poi ci sono i soliti opuscoletti ipocriti
del cazzo del ministero, di quelli che portano sfiga e fanno vedere questi ragazzini felici
che saltano come rane e guardano nell’obiettivo e ti fissano, ma che cazzo si fissano?
ti fissano e ti dicono smetti finché sei in tempo, ma che cazzo ne sanno loro, nelle loro
casette di merda con la famiglia che gli paga tutto, magari pure la coca, che cazzo ne
sanno, madonna come sto male sono tre giorni che i soldi sono finiti e alla usl del cazzo
manco il vimclorex di merda ti danno, altro che metadone, porcozio, io e laura non
sappiamo se c’abbiamo più fame o più voglia di farci, fatto sta che finalmente chiamano il
suo nome e lei sembra che si svegli da chissà che sogno, si scuote e per un attimo trema
e io la guardo e mi viene uno strano ricordo come tante altre volte, sapete, perché
quando sei sotto ti vengono in continuazione queste immagini del cazzo da chissà dove
nel cervello, ricordi vicini e lontani e belli e brutti senza un cazzo di senso, che so, metti i
più belli o i più brutti, fatto sta che mentre si alza e mi lascia la sua giacca di pelo di gatto,
me la ricordo improvvisamente la prima volta che l’ho vista, dava i fucili a piombini al
luneur, sapete di quelli per vincere i pelusc del cazzo, era un giorno che faceva freddo e
c’eravamo solo noi, una tristezza, io stavo con un paio di amici miei e insomma avevamo
scherzato e io le avevo offerto uno zucchero filato rosa e lei m’aveva spiegato che in
francia o chissaddovecazzo lo chiamavano barbapapà, ah sì, avevo detto io, come quel
pupazzo brutto?, e io avevo riso e lei m’aveva guardato e il mese dopo già ci bucavamo
insieme e insomma dividevamo le cose migliori della vita.
Adesso siamo fuori del poliambula del cazzo, i froci stanno dentro a rodersi,
aspettano il loro turno, laura piange e io la sgrido e dico checcazzo c’hai da piangere, stai
buona, lei non smette e mi dice ninni stringimi, lo faccio e le prometto che domenica la
porto a anzio al mare a vedere i pescherecci e se alzo qualche lira le offro pure i fritti in
una di quelle trattorie del porto, e penso che non ho nemmeno capito se oggi le hanno
preso il sangue o dato il responso.
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Monopoli
Racconto vincitore di Scrittura Fresca - Enzimi 1997
Il peso del mio corpo sui talloni - ecco cosa. La pressione dei chili sul malleolo,
e sulla sottile striscia di muscolo che lo ricopre, e poi sulla pelle che lo riveste e lo
separa dalle scarpe e dal suolo di tutto il mondo. Quella sensazione di gravità e di
doppio schiacciamento verticale, quel senso di linea di demarcazione tra due poli in
opposta spinta - il mio peso da una parte e l’universo dall’altra.
“Io ho provato, sinceramente, a capirti.”
Poi l’attrito tra le vene e il sangue che ci passa dentro. Quel senso di ruvidezza
interna, quel continuo passare due strati di velluto uno contropelo all’altro, come se il
sangue non riconoscesse le pareti dei suoi naturali corridoi e le vene opponessero una
resistenza passiva al suo scorrere.
“Ammetterai anche tu che ci ho provato. Ma mi ascolti?”
“Certo. Sicuro che ti ascolto”, rispondo.
La lingua in bocca. Quella presenza costante di qualcosa di liscio e ruvido
contemporaneamente tra il palato e i denti, qualcosa di inutile, di ingombrante, o forse
di utile ma comunque invadente, senza possibilità di fuggirne, di rinunciarvi; il senso
di non-scelta, di fastidiosa rassegnazione. Tento di immaginare come sarebbe bello
baciarsi solo a labbra, senza la volgarità eccitante della liscezza umida del contatto,
senza la prevaricazione di due organi interni inventati per tutt’altro, buoni solo a rubare
sensazioni e a impoverirle.
Lei sospira. Non sembra crederci molto.Accarezza il dorso gelato del bicchiere
pieno di succo d’ananas.
“Erano anni che tentavo di fartelo capire, che ti dicevo che i tuoi problemi
avrebbero potuto diventare i nostri problemi.”
La durezza delle unghie contrapposta alla sensibilità dei polpastrelli. Il
contrasto tra l’assoluta insensibilità quasi plastica e la gamma di sensazioni elettriche,
perfettamente distinguibili, messe a confronto diretto, quasi grottesco, una a ridicolizzare
l’altra: l’accessorio rapido e sottile, la lama che abbiamo in dotazione per usi spesso
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rozzi e pratici; e il miracolo della natura, quel piccolo mare di canali e nervature che
ricopre le dita e che ci permette di distinguere il liscio dal ruvido, la tela incrostata
di vernice secca a rilievo dalla verniciatura metallizzata, la carta pergamena dal legno
laccato, la vernice pastosa che incolla il pennello dalla zigrinatura della lima.
“Erano anni che ti sentivo attaccare troppo alla nostra storia, che ti dicevo di
creare spazi tuoi e basta.”
Così si comincia a perdere il contatto con sé stessi, così si comincia a sfaldarsi
e a prendere le distanze e a creare vuoti. Le cose normali si staccano dallo sfondo e
prendono contorni propri, vita propria, significato; diventano prepotentemente cose
che altrimenti non noteremmo, che pretendono la nostra attenzione. Ora capisco che
l’insicurezza e la mancanza d’amore personale arrivano al punto che ci odiamo dentro,
che vorremmo avere altri corpi, altri caratteri; altri passati da maledire.
“Erano anni che ti sentivo troppo attaccato, troppo vicino. E ho capito che non
ero la cosa più bella che avevi, ma la sola cosa bella della tua vita. Mi capisci? Capisci cosa
intendo? O pensi ancora ai fatti tuoi?”
“No, ti ascolto invece. Senti, ma tu ci pensi mai al fatto di avere una lingua in
bocca? Voglio dire, non ti da fastidio?”
Lei accarezza ancora il dorso del bicchiere. Non beve l’ananas. Io invece ho
finito la mia birra. Mi è sembrato che il sapore forte e amaro e dolciastro e gelato mi
anestetizzasse la lingua, la rimettesse al suo posto di organo interno.
“Io non mi sento scelta. Con tutto il tuo amore, con tutte le tue premure, mi
sembra di essere un tuo premio, più che una tua fatica conquistata. E questo mi soffoca,
capisci?”
“Io non posso restare solo” dico. “Non ne sono capace.”
Lei avvicina una mano alla mia, vorrebbe forse accarezzarla; invece ci ripensa
e torna a accarezzare il bicchiere, con un gesto distratto. Poi ci ripensa ancora, me la
accarezza.
“Bisogna saper vivere da soli, anche se non è detto che bisogna vivere da soli.”
E io ricordo quella volta che stavo in fila all’università e dovevo immatricolarmi
e era settembre e faceva caldo, l’enorme stanza della segreteria era piena di gente
e non si respirava. Avevo fatto amicizia con altri ragazzi che erano euforici di stare
lì, finalmente lontani dalla maturità e dalle campanelle e dalle merendine e dalle
giustificazioni e dalle assenze e dai temi in classe e dalle seghe in bagno, ed ero lì, e
per desiderio di associazione e di emulazione dicevo anch’io che schifo che schifo, ma
dentro di me pensavo che il liceo era stato bello, cristosanto, era stato bello, e felice
come lo ero stato lì non lo sarei stato mai più perché io adoravo la campanella e tute
le altre cose e pensavo anche che tutta quella libertà del muoversi da soli e del gestirsi
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e dell’organizzarsi non l’avrei mai apprezzata.
Lei si alza e mi saluta. Tento di decifrare il suo ultimo sguardo: non ci riesco.
Mi sembra che l’unico momento in cui sia mai stato in grado di decifrare qualcosa sia
stato un giorno in cui ho giocato a Monopoli, solo per sostituire momentaneamente
un amico in una partita, e non mi importava davvero nulla di vincere o di perdere, e
tuttavia ho vinto perché ho letto negli occhi degli avversari la paura di perdere, o forse
quella ben peggiore di vincere; di battere qualcuno. Forse quella di ritrovarsi da soli con
la miglior parte di se stessi.
(1997)
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Interruzione di Gravidanza
e accompagniamo Dario allo Spallanzani dove Eleonora è ricoverata perché
deve abortire la macchina di Alessandro scivola silenziosa nel traffico del lungotevere
di questa città bollente e millenaria, aria calda entra dal finestrino come phon in faccia;
un gruppo chiamato Offspring sta suonando qualcosa da qualche parte nell’autoradio,
il frastuono mi confonde e
Dario che indossa una maglietta bianca con su scritto ALICE IN CHAINS da un
lato e DIRT dall’altro che ha l’aria preoccupata che però non è molto diversa dall’aria
che ha sempre, noi che non parliamo molto per tutta la durata del viaggio tranne
qualche volta per fare discorsi senza senso come Michele che ora chiede a Alessandro
qualcosa a proposito di uno stage di kung fu, io di un concerto dei Quicksand al Circolo
degli Artisti, Alessandro che non risponde con quella sua aria che
prima ancora che Alessandro si metta a cercare un parcheggio per l’auto
Dario gli chiede Ale, fammi scendere qui direttamente davanti all’entrata dell’ospedale,
che sta su un viale alberato di platani scuri che fanno mille riflessi il sole acido ci passa
attraverso e scotta sulla pelle; Alessandro accosta e aspetta che Dario scenda poi
Michele passa al posto davanti e forse
perché dopo aver parcheggiato in mezzo a due macchine molto troppo vicine
tra loro e in un posto molto lontano dall’ ospedale ci incamminiamo e a un certo punto
passiamo un bar e forse dovremmo portarle qualcosa dico tipo delle caramelle o huh
qualcosa del genere e gli altri
nel bar che è vuoto e caldo, la signora alla cassa ci vede entrare e chiama
qualcuno, dopo un minuto arriva un signore su cinquaranta che ci sorride e ci chiede
cosa vogliamo, noi che indichiamo quella che nella vetrina ci sembra la cosa migliore
se non addirittura l’unica cosa possibile da regalare e cioè una scatola di caramelle di
vari gusti con una foto piena di fiori sul davanti e io mi chiedo perché tutte le scatole
di caramelle di marche sconosciute hanno dei fiori e non dei frutti sul davanti; provo
a chiederlo ai ragazzi una volta usciti dal bar una volta che il barista ci ha messo circa
mezz’ora per fare un pacco storto e misero e solo Michele per non imbarazzarmi
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risponde guardandomi e sorridendo così che
nell’atrio poi Alessandro si informa chiedendo ad alta voce dove si pratichi
“l’interruzione di gravidanza”, così la chiama, e una grossa infermiera che sta leggendo
Grazia e che pensavo ci avrebbe squadrati dai capelli agli alluci attraverso il dna invece
risponde laconicamente al primo piano senza nemmeno distogliere lo sguardo dal
nuovo marito di Stephanie di Monaco
piano superiore che è bianco e vagamente odoroso di etere e orina nessun
cartello ci indica dove si faccia “l’interruzione di gravidanza” per cui io e Michele
seguiamo senza obiezioni Alessandro con le caramelle in mano che chiede informazioni
a un’altra infermiera, questa che va di fretta per cui nemmeno lei ci squadra dalla testa
ai piedi come pensavo, che ci indica una porta verso la fine del corridoio una accanto
alla quale qualcuno ha lasciato delle bombole a ossigeno molto alte tutte scrostate
e ci dirigiamo lì; lungo il corridoio incrociamo questa ragazzina seduta su una panca
di plastica troppo bianca che regge un braccio con una benda e una signora grassa e
sudata che deve essere la madre e che non ci nota neppure perché sta litigando con
un’infermiera dall’aria occupata, mentre passiamo posso sentirla dire sì signora, sì, ma
non penso che stia capendo molto di quel che le dice e noi allora
fuori della porta Alessandro bussa leggermente e la voce di Dario da dentro
dice avanti
in una stanza con due larghe finestre spalancate le serrande a metà che danno
sul traffico lento di viale Trastevere, caldo e scorregge d’auto entrano e stordiscono
otto letti in tutto e sono tutti rifatti ordinatamente, solo nell’ultimo in fondo
accanto a una delle finestre c’è Eleonora sdraiata con una gamba fuori delle coperte,
Dario seduto sul suo letto si volta mentre entriamo e ci
Eleonora la vedo non si volta se non di poco e è l’ultima cosa normale che
faccia, da questo momento si comporta come se non fosse successo nulla, non sembra
nemmeno stanca, chissà
Alessandro che è il primo a raggiungerla che si china la abbraccia e la bacia, lei
che si alza seduta e lo abbraccia ma non sembra con grande entusiasmo, e poi io che
penso boh non sembra rendersi conto che poteva anche non farcela, e faccio anche
altri pensieri miei che
Alessandro resta abbracciato a lei a lungo, gli sta dicendo paroline all’orecchio
e Dario si alza dal letto per farli parlare tranquillamente e viene da noi
io che sono il secondo io che le do la scatola di caramelle e la bacio e
improvvisamente non so che dire, mi ero preparato una specie di discorso ma il fatto
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che nessuna infermiera ci abbia squadrato dalla testa ai piedi e che Eleonora sembri
normale mi hanno fatto dimenticare tutto così non dico niente poi
Michele è l’ultimo e lui scherza sempre, prima di baciarla si ferma un attimo ai
piedi del letto e dice qualcosa di spiritoso che la fa ridere al suo modo sguaiato e poi
si avvicina e la abbraccia e la bacia, Michele che fa sempre così quando è imbarazzato,
infatti poi si volta e si mette da una parte e non dice più niente, solo giochicchia con i
piedi nelle scarpe da astrobasket bianche e verdi
finiti i convenevoli e non sappiamo più che dire, rimaniamo qualche secondo in
silenzio noi quattro in piedi e lei seduta sul letto così le dico aprila e allora lei sembra
ricordarsi della scatola e la apre; Dario torna a sedersi sul suo letto e la scruta mentre
con gesti troppo normali toglie il fiocco e strappa la carta che
cioccolatini dice lei osservando i fiori della scatola, caramelle la corregge
Alessandro, lei apre la scatola e osserva le piccole cartine colorate disposte
ordinatamente così fa per offrircele ma Alessandro dice prima tu che ne hai bisogno
con quel che hai passato, e lei
poi io aggiungo sì infatti, te le abbiamo portate apposta perché pensavamo di
trovarti più, huh, dico e improvvisamente non mi vengono le parole ma nessuno sembra
accorgersene tanto che per un momento mi sembra di non aver detto nulla e quindi la
frase resta in loop a svolazzare nell’aria
Dario che guarda Alessandro e dice le hanno fatto una flebo apposta per
tirarle su i cosi, gli zuccheri e Alessandro annuisce con aria seria seria mentre scarta
una caramella dal colore verde e poi, si perde parecchio in sudore e anche in sangue,
dice a conferma, ecco
fuori quell’autobus che passa rumorosamente e per un attimo stiamo in
silenzio convinti di non poterci sentire, poi Dario che si alza per chiudere una finestra
ma Eleonora lo ferma, fa così caldo dice, si passa la mano piena di lentiggini sulla fronte
bianca poi tra i capelli rossi infine si fa vento con la mano
che proprio mentre sto per rilassarmi lei e Alessandro cominciano una strana
discussione su una loro amicizia in comune che non conosco e la cosa sembra essere
molto divertente perché ridono e ride anche Dario ma al suo solito modo tranquillo,e
ora lui non sembra molto preoccupato, ha l’aria di sempre e guarda Eleonora e ogni
tanto le tiene la mano fino a che lei si stufa e gliela lascia, io mi innervosisco e devo stare
in piedi perché seduto sto peggio non so non chiedetemi
vorrei giuro vorrei saper fumare in questi casi ma non ho mai imparato
semplicemente non sono capace anche se c’è stato un periodo in cui ci ho provato
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giuro ci ho provato perché ero sicuro che era bello ma forse non ero troppo convinto
e inoltre sedevo in cerchi di persone dalla finta aria annoiata mossa solo dalla voglia
di farsi cose e quindi di piacere e come loro mi convincevo che era l’unica cosa che
desideravo fare e aspiravo lentamente da cilindrini di carta e tabacco ma l’unico effetto
che ottenevo era il senso di raschiamento sulla gola
Raschiamento
si raschia il feto giù dall’utero, sta spiegando Alessandro, con un una specie di
cucchiaio e sapete Alessandro è studente di medicina e sta spiegando a Dario che già
lo sa come funziona “l’interruzione di gravidanza”, Dario come al solito annuisce e ogni
tanto fa sì con la testa, poi una strana piega della sua maglietta crea la scritta ALIHAINS
e io
mezzora più tardi ce ne andiamo, mezzora di inferno, Dario sta baciando
Eleonora, poi tocca a Alessandro il quale le ricorda che avevano deciso di andare
a correre la mattina presto e Eleonora dice occhei e lo bacia; io sono concentrato
sull’insegna di un negozio di fronte alla finestra di Eleonora ha una lettera rotta la
acca e per uno strano motivo che non riesco a definire mi entra in testa continuo a
fissarla fino a quando devo salutare Eleonora e anche mentre la bacio non riesco a non
pensarci, lei mi bacia ma capisce qualcosa e mi guarda e chiede va tutto bene? no dico
io, e lei mi dispiace, è per il bambino? e io
la guardo sconcertato, di colpo tornato in me; no dico, assolutamente e tento
di essere almeno un po’
lei non sembra credermi perché mi fissa dritto negli occhi scrutandomi e così
mi mette a disagio per cui mi scosto, uffa
Michele è sempre l’ultimo dice solo ciao Eleonora e la bacia ma si vede che
lei sta ancora pensando a me perché lo bacia distrattamente così che Dario la crede
stanca e ci fa segno con gli occhi di uscire da
momento prima di passare la porta Eleonora mi chiama e io torno indietro
al suo letto e una volta lì senza esitare un attimo con uno strano colore degli occhi mi
dice comunque guarda che non era tuo, e mentre
mentre esco camminando sul pavimento di marmo freddo opaco sento Dario
parlare con Alessandro di un gruppo che non conosco e io mi sorprendo a pensare a
una volta tanto tempo fa che avevo trovato un piccolo uccello caduto dal nido in mezzo
a un brutto parco dietro casa mia e pensando di poterlo salvare lo avevo messo più
in alto possibile su una pietra sotto l’albero, e lui stava immobile, era vivo appena, non
reagiva. La madre cantava da un ramo, tra le foglie.
(1994)
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Voci
Guidavo nel traffico pigro del sabato mattina. Il cielo era di un azzurro
sconvolgente, come liquido. L’aria di febbraio era fredda e asciutta, di montagna. Dallo
scappamento delle auto brillava un vapore bianco di gelo.
Mia madre e io avevamo appuntamento con una coppia per mostrare loro
la casa che volevamo dare in affitto. C’erano piccoli lavori da fare, come spolverare i
mobili e dare aria alle stanze, per cui eravamo partiti in anticipo, ma il traffico ci aveva
rallentati parecchio.
Finalmente eravamo arrivati e avevamo trovato un posto per l’auto proprio
davanti al portone di alluminio e vetro del semplice edificio dalla facciata gialla. Mia
madre aveva cominciato a ricordarmi le cose già dette centomila volte sul fatto che la
zona era nata come area di edilizia popolare negli anni trenta, ma che era stata distrutta
per metà dai bombardamenti degli americani.
“Io qui ci sono nata e cresciuta”, mi diceva, “con l’unica eccezione del periodo
in cui eravamo sfollati fuori Roma.” Quella casa per lei era zeppa di ricordi, perché
l’aveva lasciata trentacinque anni prima e successivamente era stata abitata dalla famiglia
del fratello, il quale era divorziato pochi anni prima lasciandola sotto forma di alimenti
alla moglie.
“Spero che Loredana abbia lasciato in ordine il bagno” disse mia madre
entrando nell’oscurità dell’androne. “Siamo parecchio in ritardo”. Non le risposi. Stavo
portando un piccolo mobile di legno antico su per le scale, un oggetto preso da casa
nostra per completare l’ arredamento della casa.
Loredana era la moglie di mio zio. Negli anni successivi al divorzio si era
aggrappata con tenacia alla casa che aveva tanto odiato perché reputava troppo piccola,
fino a quando con un accordo eravamo tornati in possesso della casa di famiglia.
Mentre posavo il mobile nell’ingresso, mia madre si guardava attorno già in
preda a una sottile inquietudine, come se la vedesse per la prima volta. Era una casa
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indubbiamente piccola, con un ingresso dal quale partivano tutti gli ambienti: una cucina
senza porta, una camera da letto, un soggiorno e il bagno dal quale arrivava puzza di
chiuso. Mia zia ci aveva abitato fino alla settimana prima, e sul lavandino erano state
lasciate parecchie cose abbandonate, come spazzolini scoloriti, tubetti di dentifricio
schiacciati e pantofole rotte. Tutta la casa era in penombra.
Mia madre cominciava a spostare delle piccole scatole piene di strani oggetti
con un piede, e io la aiutavo. Cercava in una busta uno spolverino, e mentre terminavo
di far ordine tra gli oggetti imballati di mia zia, lei cominciava a spolverare qua e là con
la sua consueta energia.
Fu dopo qualche attimo che la vidi cambiare. Qualcosa in lei faceva perdere
colpi alla sveltezza, alla fluidità con la quale in genere passava da un lavoro a un altro
in casa nostra. Qualcuno, dalle camere, dalla posizione di certi mobili, dalla luce che
squarciava le tende dall’esterno e colpiva una parete bianca, la stava chiamando,
chiamava il suo nome e la distraeva. Lei negava dentro di sé, pensava che non fosse
possibile udire quelle voci, e ricominciava a lavorare con energia doppia, ma lo faceva
per convincersi, e tornava a distrarsi.
“Loredana è stata tremenda” diceva a un tratto. “Non si è fidata un attimo di
me. Fino a quando non ha visto i soldi.”
Non rispondevo neanche stavolta. Spostavo un piccolo ficus benjamin verso il
balcone della cucina. Pensavo ai fatti miei.
“E il bello è che di lei mi sono dovuta fidare ciecamente, io.” Poi sentiva una
voce chiamarla. La vedevo girare la testa di scatto verso la porta della stanza da letto. Si
muoveva in quella direzione, ma poi scuoteva la testa e tornava a spolverare.
“Lo sai” diceva, “che la cucina era chiusa con una parete di vetro smerigliata
fatta da nonno? C’era qui e qui una parete, e qui la porta...”
Mentre mi ricordava queste cose per l’ennesima volta, mi accorgevo che mia
madre sentiva di nuovo quel bambino chiamarla. Stavolta era quasi certa di aver sentito
la voce, distinta, limpida e allegrona, provenire dalla camera da letto.
Allora si accostava alla porta. La vedevo sorridere a quel bambino, e a altri
come lui, corsi in quella stanza a trovarla attraverso gli anni, e a ricordarle la sua vita
di bambina.
Si era fermata sullo stipite, con lo spolverino in mano. Poi era entrata. Sorrideva.
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Qualcosa la distrasse: si girò verso di me. Si scosse subito e riprese a spolverare.
“Quanti ricordi” diceva, appena turbata. “Hai ancora quella lista? Devi
ricordarmi un paio di cose. Devo portare altri cuscini per le sedie della cucina. Poi
bisognerà spazzare tutta la casa, sai?”
“Ci penso io” dicevo, e cercavo la scopa e il raccoglimmondizia. Li trovai dietro
il mobile del gas.
“Bisognerà anche dare una lavata a questi pavimenti, sai?” diceva da lontano.
Ero tornato da lei con la scopa. Era ferma e fissava i suoi piedi. Presi a guardarla,
incuriosito. Non capivo cosa stesse facendo. Metteva i piedi su una delle mattonelle
bianche e arancioni, poi spostava un piede verso l’esterno incrociandolo con l’altro, il
quale poi si portava a sua volta all’esterno e il tutto si concludeva con un saltino. Aveva
l’aria di un gioco.
“Oddio” diceva con un’aria a metà tra l’incantato e il divertito. “Mio padre mi
insegnava qui l’one-step, anche se era invalido.”
Rideva. Faceva il primo passo, poi il secondo, un doppio passo e poi il saltino. Si
muoveva come una bambina cresciuta giocando alla campana sugli intarsi dei corridoi
che odoravano di cera in qualche reggia. Più mimava la danza e meglio la ricordava. A
tratti diceva: “Ecco, così”, oppure “Qui era così”, e in questa sua danza seguiva percorsi
ideali lungo le vecchie mattonelle quadrate: piccole L, ampie C, brevi I.
Poi aveva smesso. Era tornata la signora rapida e efficiente di tutti i giorni.
Prendeva la sovraccoperta nuova a fiori per il letto e la stendeva sopra il vecchio
materasso mentre io spazzavo il soggiorno.
Mentre mi davo da fare, prendeva vecchi oggetti e li metteva in una scatola
di cartone, in ordine, e nel frattempo mi raccontava di altri aneddoti della sua vita in
quella casa. Presto mi dovetti accorgere che quella casa come nessun’altra delle case in
cui avevamo abitato, la metteva in pausa e la bloccava nelle cose che faceva, le levava la
concentrazione e la portava in qualche posto, lontano da me, forse anche dalle stesse
mura della casa, dalle sue idee.
Correva con le voci che le tornavano alla memoria, fantasmi di ricordi buoni.
Era tutto un fare indietro e avanti col tempo, un combattere con ciò che ci intristisce
anche se è un bel ricordo, anzi, sopratutto perché è un bel ricordo e basta e nulla
può più ridargli quella sensazione fisica di presenza reale. Potevo avvertire le voci che
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cominciavano a affaticarla mentre le correvano incontro, che rischiavano di essere
troppe, di caricarla di velenosa felicità: un po’ come l’ossigeno nell’aria, i ricordi senza i
quali non viviamo, in forte concentrazione la stavano comunque uccidendo.
La vedevo spegnersi. Si era seduta su una poltrona. Leggeva a fatica nel vuoto
le pagine della sua felicità.
“Ti senti bene?” le chiesi.
Lei annuì. “Mi porti dell’ acqua? Per piacere?”
Le portai l’acqua. La bevve piano. La sua salute negli ultimi tempi non era stata
ottima, ma mi rassicurai quando dopo un attimo riprese a dare ordini con il suo solito
tono. “Sposta quella poltrona” diceva, “senza farti male. Poi porta via quella scatola che
Loredana non ha ancora portato via, accidenti. Chissà quando verrà a prendersela. Oh,
ecco, devono essere loro, già qui?”
Si alzava. Era suonato il citofono. Le era tornata la vitalità di sempre. Io mi ero
tranquillizzato. Fini di posizionare il mobile che avevo portato proprio mentre lei apriva
la porta ai nuovi inquilini della sua memoria.
Quando uscimmo dalla casa vuota erano le due. Caricata la busta con lo
spolverino e le scatole di mia zia in auto, guidai verso casa. Mia madre mi chiese di
fermarmi a una drogheria. Ne vidi una sulla strada verso San Giovanni. Accostai e spensi
il motore. Attraversai la strada. C’erano ragazzi fuori della drogheria. Entrai. Un signore
anziano mi servì, poi pagai a una signora seduta alla cassa. Era tutto bello; il posto, la
casa, la zona mi avevano messo un insolito buonumore, tra l’altro senza motivo, se non
forse per il fatto che il cielo aveva ancora quel colore liquido e fantastico, e che mia
madre era felice di riavere la casa dov’era nata. Tutto era bello, ero felice persino di
comprare il pane. Mi sentivo un po’ stupido per questo entusiasmo infantile.
Uscii e riattraversai la grossa strada fino alla macchina. Accostandomi studiai
mia madre al posto del passeggero. Sembrava pensare, ma man mano che mi avvicinavo
mi sembrava immobile in una maniera strana. A un certo punto, a pochi metri dall’auto,
vidi che aveva gli occhi chiusi e la testa appoggiata al finestrino.
Feci gli ultimi metri in preda all’angoscia. Aprii la porta velocemente e chiamai
piano: “Mamma.”
Lei non rispose. Aprì gli occhi e mi guardò. Il suo sguardo mi scaldò come
sempre, e mi sembrò una cosa bellissima. Le lessi negli occhi qualcosa che non capivo.
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I genitori, pensai, sanno sempre qualcosa più avanti di noi, qualcosa che capiremo poi,
e che ci dà rabbia.
Mia madre ascoltava ancora quelle voci fatte di carta ingiallita e di profumi
svaniti, e io fui felice per lei. Un giorno lei sarà una di esse.
Ci sono tante cose che forse di lei non capirò mai. Ma che so che mi
mancheranno comunque.
(1995)
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Meno di tanti
Mi incontro con Carlo da sola in un fast food del centro, vuoto e accaldato
nonostante l’aria condizionata. Un cameriere sta pulendo lentamente un tavolino con
aria assente. Di tanto in tanto lancia un’occhiata verso le mie gambe e penso di piacergli,
ma poi fa finta di niente. Quando Carlo entra con gli occhiali neri su e una maglietta con
la scritta Il più figo della contea, lui gli dà un’occhiata e poi torna a lavare il tavolino.
Sono qui perché me l’ha chiesto Carlo. Giocherello con la cannuccia da
almeno un’ora. Lui siede.
- Cosa fai? - chiede guardando da un’altra parte.
- Giocherello con la cannuccia - rispondo, ma non gli dico che lo faccio da
un’ora. Mi tocco i capelli nervosamente.
- Non pensavo che venissi.
- E’ per questo che sei arrivato con mezz’ora di ritardo? - chiedo.
- E’ solo un! quarto! d’ora! - dice lui scandendo le parole. Mi tremano le
mani.
- Okay, sono qui. - dico. - Non litighiamo subito.
Lui respira a fondo e sembra che stia per dire qualcosa di difficile, poi leva gli
occhiali, poi li rimette.
- Con te è tutto così difficile - dice. - Io non sto più bene, così.
Riprendo a giocherellare con la cannuccia.
- Voglio dire, all’inizio era tutto così semplice, senza questioni. Ora mi sembri
sempre sotto l’effetto di qualcosa.
Mi guardo attorno come se cercassi qualcosa. Il caldo è diventato soffocante.
- E’ per questo? E’ per la droga? Hai bisogno di soldi?
- Non ho bisogno di soldi - dico.
- Non farti problemi, okay? voglio dire... Okay?
- Ho detto che non è per i soldi.
Lui respira a fondo, poi lascia che l’aria scappi fuori. Io schiaccio la cannuccia
fino a farla diventare una striscia di plastica piatta. Il cameriere ci manda un’occhiata, ma
mi piace pensare che in verità stia guardando me.
Carlo abbassa la voce e dice: - Tu sei bella, davvero, ma ultimamente non mi
basta più.
- Cosa vuoi dire?
- Quello che ho detto.
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- Cosa vuoi dire? - ripeto.
- Hai capito benissimo.
- Guarda che essere belli è l’unica cosa che abbiamo. Anche tu non sei altro
che bello. Non farti illusioni.
Lui scuote la testa come un bambino testardo. Toglie e rimette gli occhiali
neri.
- Cosa credi, di valere qualcosa? - continuo. - Non sei nulla, non hai nulla, e non
pensi a nulla, proprio come tutti. Per cui non venirmi a fare le prediche del cazzo.
- Stoconunapersona - dice tutto d’un fiato. Per qualche secondo mi sembra di
non averlo nemmeno sentito. Poi sento il contraccolpo da qualche parte, come quando
il caldo ti aggredisce fuori da un locale con l’aria condizionata.
Finalmente lui mi guarda negli occhi. La cannuccia è in mille pezzi.
- Devo andare in bagno - dico. Mi alzo e vado fino alla porta. Entro in quello
delle donne, alzo la tavoletta e poi vomito la cocacola.Tiro l’acqua e vado allo specchio,
senza guardarmi, poi apro la boccetta di plastica e rompo il piccolo sigillo. Aspiro forte
il liquido e mentre lo faccio mi guardo allo specchio. Tutto gira per qualche secondo.
Poi mi sento improvvisamente bene. Mi trovo sempre più bella. Mi contemplo da un
profilo all’altro.
Esco e torno sicura al tavolino. Incrocio il cameriere, e posso sentire il suo
sguardo sulla mia schiena e anche più in basso.
Carlo è ancora seduto lì. Mi guarda strano.
- Allora, - dico sedendomi - va meglio ora?
Lui sorride togliendosi gli occhiali. - Molto meglio - dice. - Non so come farei
se ogni tanto non mi lasciassi sfogare.
Io gli dico di non ringraziarmi. Ormai sono abituata a questi suoi momenti.
Usciamo dal fast food, nel sole accecante e corrosivo. Carlo mi tiene la mano.
O forse è una ragazza sola quella che il cameriere guarda andare via.
(1997)
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Katiancoraviva
LO SCHEMA è sempre lo stesso: spillo nella vena, nuvola rosa nella siringa,
stantuffino che scorre e -zoooooom, scorre giù nella mia fogna personale una
vampata di suoni emozioni colori indescrivibili e so che tra qualche istante si parte
per un viaggio familiare ma nuovo. Stasera il pretesto è un altro -non ci sono mamma
e papà con le loro prediche del cazzo, non c’è l’ultimo sorriso di Katia e quella sua
occhiaia viola e quel bel neo sul mento e quel suo odore di clinica -no, stasera niente
pretesti né motivi del cazzo -tipo, sai, come quelli che fanno dire alla gente bene
Vedi, poverino, non è colpa sua ma della realtà schifa, che lo fa, no, assolutamente no,
che cazzo, il problema a vent’anni è solo che si hanno vent’anni e stavolta è solo un
regalino personale, quello che mi faccio, un presente perché ho lavorato sodo questa
settimana e
il lavoro che mi ha trovato papà
sii responsabile stavolta e poi
aaaaaaaah-wwwwwww
entra entra è entrato cazzo dio madonna per tutti i santi e gli angeli dio
dio signore madonna è andato giù, ci mette sempre poco, nessuno immagina, è
come l’ottovolante senza carrello come rotolare giù sul prato senza prato, madonna
credevo di stare in piedi e dio santo ora sono in terra ma non importa è solo la
prima fase, ancora ci sto con la testa, è sempre in questo momento che ho paura di
non tornare giù perché vorrei credere che è per l’ultima volta, provo cosa strane
paurose belle boh, non lo so, so solo che
aaaaaaaaawwwwwwww- oh, cazzo
bene bene bene, ah, dio sì, eccome se va bene, si si si si no no no no no si si
si
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il bello non è sognare ma decidere quali sogni fare e quali no
Katiancoraviva Katiancoraviva Katiancoraviva, lei che toglie la maglietta
bucata e il seno piccolo e senza abbronzatura mi sorride fa l’occhiolino dai capezzoli
e io lo bacio in fronte -lui il seno
Katiancoraviva noi due che sul motorino il vigile che ci fa la multa io che
do gas e il motorino decolla sorvola la strada i palazzi la città e -Cristocristocristo
signore woooooooooowwwwwww- lei si tiene a me io le tocco la coscia sotto i
jeans, prima la porto in alto poi lei salta ma non ha paura, lo fa di sua volontà e poi
precipita e
aaawwww-oooooowwww-cazzo
scopiamo tanto perché è l’unica cosa gratis che ci è rimasta, i suoi dicono
Lascia quel barbone del tuo fidanzato, il barbone sarei io, lei li manda affanculo e poi
noi due insieme in un brutto blues di periferia senza refrain senza lieto fine senza
accordi di settima e -a proposito
chitarra venduta per questa dose chitarra regalo diciotto anni come quella di
Steve Vai costata troppo venduta a niente giusto questa dose ultima merdosa e
stanza mobili poster di Paperino e i tre amigos appeso storto gira tutto
(o forse sono storto io)
terza fase ti odio terza fase in cui tutto gira e si ribalta come le tazzine
di Eurodisney, i sogni sono solo brutti i ricordi peggio la mia vita hahaha lasciamo
perdere, giurol’ultima giurol’ultima giurol’ultima giurol’ultima dio madonna ti prego
madonna madonna madonna giuro questo lavoro non lo perdo giuro giuro giuro e poi
Riapro gli occhi che fa freddo, fuori farà quaranta gradi ma io sento freddo e
la cosa più triste la più schifa la peggiore è che questa roba non ti scalda nemmeno.
(1997)
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Il Grande Fratazzi
Dite quello che vi pare, ma non è detto che chi è un grande artista sia anche
un grande uomo. Per diventare grandi uomini bisogna lavorare come per essere grandi
artisti, ecco. Più o meno.
Vaccaboia se è veloce, guarda quello, diceva, e Domenico parandosi con una
mano gli occhi dal sole indicava verso un’auto che in quel momento volava sulla
tangenziale in culo ai limiti e ai divieti e spariva dopo poco in direzione Pratifiscali,
verso corse e avventure fiche chissà quanto. Quello era il modo in cui io e Domenico
Fratazzi passavamo quei due mesi allucinanti tra la consegna delle pagelle e la partenza
per le vacanze: stare lì a abbrustolirci come pannocchie su un declivio tra sterpaglie,
siringhe, Lesbo2000 sbiaditi e fetenzie varie a osservare le macchine che correvano,
Domenico con gli occhi stretti per il riverbero ma attenti a qualche cosa, io accanto a
lui a pensare al caldo; oppure giravamo il quartiere nuclearizzato dal sole palleggiando
davanti ai portoni e ascoltando quel solitario rumore di plastica Santos o Supertele che
faceva eco nelle strade vuote.
Domenico lo conoscevo come si conoscono quelle persone che hai intorno
per anni e un giorno a qualcuno che te lo chiede rispondi, mi sa che siamo amici
d’infanzia. Ai miei non andava che lo vedessi perché Domenico nel quartiere era noto
come un segaiolo e la fama non era proprio del tutto sballata, anzi, e io stesso devo
dire che frequentavo amici anche più raffinati, però con quella sua aria tranquilla e
soddisfatta Domenico mi piaceva e forse lo invidiavo anche un po’ perché c’aveva già
le sue passioni mentre io
io a quell’età non avevo ancora fatto distinzione tra i giochi e le passioni; vivevo
entrambi come un bambino - be’, forse perché lo ero - e l’amore per i Tadashi e gli
Hiroshi dei cartoni giapponesi poteva essere uguale a quello per una bambina in carne
e ossa, anzi maggiore. Comunque non sapevo quale delle cose che amavo fare sarebbe
diventata la mia passione, e forse a quell’età è normale così, ma non accanto a uno
come Domenico Fratazzi.
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Lui aveva già la sua fissa: i motori. Ma non è esatto dire i motori come se uno
intendesse quei cose coi pistoni dentro e basta, no, lui era interessato anche a quello
che era intorno al motore; però anche alle cose che si muovevano senza un motore
come le biciclette. Forse bisognerebbe dire che aveva la passione per la tecnica
motoristica; ma anche questa è una definizione alla fine riduttiva anche se seria; forse la
sua passione era ciò che aveva delle ruote, oppure no, comunque qualsiasi cosa avesse
dei congegni meccanici al suo interno, e che fosse ovviamente smontabile in un’infinità
di pezzi, possibilmente piccoli e facili da disperdere per un incompetente come me ad
esempio.
Domenico Fratazzi a dodici anni sapeva già cambiare la candela al ciao, stringere
il tubino della miscela del carburatore al ciao, provarci con la ragazzina proprietaria
del ciao. Inoltre sapeva cambiare il filtro all’aspirapolvere, bruciare la marmitta del
ciao, falsare le giustificazioni, carbonizzare le formiche con la lente d’ingrandimento,
recuperare le dieci lire nel coso dell’ascensore, cambiare la cinghia del ciao, riconoscere
le cinquantamila false sfregandole su un foglio, simulare la sgommata delle auto con la
bocca, parlare ruttando, e ovviamente impennare con il ciao.
Da questa descrizione sommaria potrebbe sembrare che Domenico Fratazzi
fosse solo l’ennesimo ragazzino sveglio con un futuro da carburatorista nel migliore dei
casi e da smantellatore di motorini rubati nel peggiore; ma non era così.
Dovevate guardargli le mani mentre le faceva, tutte queste cose. Solo guardargli
le mani. Aveva una delicatezza e una precisione e una tale mancanza di goffaggine da
meccanico bruto che per anni non la seppi definire, la consideravo casuale eppure
inquietante.
Poi al liceo mi capitò di vedere un filmato sulla vita di uno scultore famoso
e rimasi sconcertato. Stava lavorando alla creta, e i gesti erano identici a quelli di
Domenico: gli stessi strappi delicati alla materia, la stessa cura nello scegliere gli attrezzi
e il prenderli con dolcezza mista a riverenza. Lo scultore prendeva quella spatola tra
altre venti e io vedevo Domenico fare lo stesso con le Usag in molibdeno. Lo scultore
spezzava e ricomponeva pezzetti di creta e io vedevo Domenico svitare dadi e bulloni
con lo stesso mignolo in su da direttore d’orchestra. Lo scultore dava manate eleganti
ma vigorose alla sua creatura e io piangevo al ricordo di Domenico che prendeva a
mazzate il telaio del ciao per trasformarlo in ciopper.
Le nostre vite si erano separate da un pezzo: il sistema scolastico aveva deciso
che il mondo di cose che mi piaceva fare mi portava inevitabilmente al liceo artistico,
mentre per lui aveva consigliato caldamente che seguisse le orme paterne nell’azienda
di famiglia. Così al mattino lavorava al bar - sei ore a correre avanti e dietro al bancone
su una pedana di legno per sembrare più alto e poter fare tutte le cose al modo suo,
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compreso il cappuccino con il cuore di latte al centro - poi al pomeriggio tornava alla
sua vera attività, quella che noi chiamavamo il Christie’s dei cinquantini: metteva all’asta le
sue creature, incrosi mostruosi tra motorini di epoche e marche diverse con motori di
frullatori e falciatrici, roba da galera, che correvano spetazzando fumi azzurrini ma non
avevano l’aria truccata - se per truccata uno intende artefatta per andare più veloce
- e prima di venderli, questi motorini cannibalizzati, li faceva provare sulla tangenziale
perché mica do fregature, io, diceva, prova ‘sto ciao, ha il 75 sotto, carburatore dodici
dodici e marmitta polini, se c’hai le palle e se torni vivo poi te lo compri di sicuro che
a centomila è proprio regalato.
Se è vero che artista è chi muore per una passione, allora Domenico Fratazzi
lo era proprio, mondoboia. Un giorno sono passato sul punto esatto dell’incidente, e
il traffico della tangenziale era così veloce che un’altro po’ ci restavo pure io. Volevo
trovare la piccola lapide con la sua foto che abbiamo messo lì con una colletta; non l’ho
trovata ma sono stato più contento così. Ho passato il resto della giornata sul declivio
e le sterpaglie a guardare il traffico, a respirare gas di scarico. A bruciare formiche con
la lente degli occhiali.
A Umberto C.
(1997)
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Parallelismi
L’aria è pesante e gialla come le raffinerie di Civitavecchia. L’atmosfera è
quella da ghigliottinamento di Maria Antonietta, oppure da una di quelle puntate di
Perry Mason, verso il finale, dove l’insospettabile colpevole è inchiodato alla sbarra dei
testimoni, sputtanato, e Perry lo guarda con l’unico sguardo che ha e l’accusa getta la
solita spugna e il giudice non può fare altro che chiamare gli sbirri e sbatterlo in galera
e gettare la chiave. Il problema è che questo non è un film e che il giudice è il tuo
professore di italiano e alla sbarra ci sei tu con l’infamante accusa di aver saltato senza
tanti rimorsi gli ultimi due capitoli da studiare.
Il brutto non è nemmeno questo. Ma il fatto che abbia chiesto tu di essere
interrogato, e che Lui approfitti della situazione per disintegrare l’ultimo barlume
di fiducia in te stesso che avevi miracolosamente salvato dall’ultimo derby perso e
dall’ultima buca guadagnata in campo femmineo.
«Non hai studiato gli ultimi interi due capitoli?»
Ahite, no.
«E non hai nemmeno niente da dire, non vuoi nemmeno scusarti?»
(Come se servisse a qualcosa.)
«Neanche ti giustifichi?»
Bella roba, giustificarsi prima! E’ da vigliacchi, da gente dalle mutande stirate.
Tirarsi fuori dalla mischia, dal branco dei possibili interrogati, dai cerchi concentrici del
bersaglio delle freccette; onta e disonore a chi solo lo pensa!
Lui sospira come per gustarsi meglio l’attacco, il preludio della sua sinfonia per
predica e violino in la bemolle dalla quale non si esce vivi né morti.
«Non pensi che sia il caso di pensare al tuo futuro?»
Quale?
«Non pensi che avere un’istruzione sia importante?»
Istruzione! L’unica che conosci è quella che avvia il file .exe di StreetFightersXXII
sul tuo bruciabyte fiammante.
«Non pensi mai, dico, mai a quello che vorresti fare nella vita?»
Non lo doveva dire.
Non doveva toccare questo joystick.
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Che ne sai tu? Cosa sai, cosa pensi di quello che piace a me?
Sarei felice di essere uno scemo del paese in un paese piccolo e di provincia
che di più è impossibile, fare pena a tutti e ogni tanto prendere a testate i muri bianchi
di intonaco fresco per non perdere il vizio, e farmi dare degli avanzi di merendine e dei
vestiti che sanno di dismesso ma di pulito, e essere uno di quelli che tutti ridono ma
temono pure, e i nonni usano per far stare buoni i bambini la sera quando è buio e fare
i capricci diventa difficile, e essere notato dal parroco del paese, uno che parla veneto
come tutti i parroci del mondo e essere assunto da lui per fare dei piccoli servizi a
messa come porgere l’incensiere e divertirmi un sacco a intossicarci le vecchiacce
vestite a lutto tutto l’anno che stanno lì a sgranare chili di rosari per un giorno e poi
fuori a spettegolare tonnellate di cattiverie per il resto della settimana, e passare con
il cestino all’offertorio e fare le facce per costringerle a sganciare le banconote invece
delle monetine del cazzo, e passare la vita così e morire in un giorno buio.
Oppure vorrei essere un musicista rock ma non troppo duro, comunque un
outsider, uno fuori del gruppo, uno tosto vestito sempre di pelle nera scomodissima e
scricchiolante che scrive canzoni bellissime e struggenti ma non pallose tutte dedicate
a ragazze che conosco io, metà belle fighe senza pudori ma dai gusti difficili e l’altra
metà ragazzine con in testa i fotomodelli ma per mano in via del Corso ai brufolosi,
tutte comunque assolutamente disinteressate al qui presente, e essere famoso e farle
morire di rabbia e di rimpianto le prime e di rimorso le seconde, e vivere tutta una vita
pensando a loro che si schiantano il cuore sul guardrail della nostalgia per me, appagato
dal saperle infelici ma mai mie.
Oppure vorrei essere un professore moderno, uno bravo, che non ti dice Per
domani studiate i capitoli dal trenta al sessantasei e stop, ma uno che non interroga mai,
non gli serve, guarda gli studenti e ha già capito all’inizio dell’anno chi studierà e chi no,
così può passare tutto l’anno a parlare di scrittori sconosciuti e felici e sudamericani
e malinconici e insomma che non siano gobbi del cazzo o fanciulletti mai cresciuti o
storico-cattolici repressi o futuristi ubriachi, uno che legge in classe libri bellissimi di
cui non chiede mai il commento, e che lascia scegliere cosa e sopratutto se leggere, e
che scrive poesie alle sue studentesse di nascosto e queste si innamorano di lui e lui
se le fa tutte.
Oppure vorrei essere Dio, ma non un dio: proprio Dio lui, in persona, e
cambiare un casino di cose, innanzitutto questa cazzata che uno può fare qualsiasi
cattiveria e passarla franca e forse andare poi all’inferno, ma anzi! essere punito subito
e prenderlo in quel posto così non lo rifà più, metti i mafiosi e i politici corrotti e i
calciatori venduti e i professori frustrati e le ragazze capricciose e i genitori sordi e gli
amici falsi e i cantanti in playback e i controllori sugli autobus, e intervenire a ogni messa
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e sbugiardare il prete quando dice cazzate o interpreta male quello che dico per motivi
suoi e sopratutto per invitarlo a sposarsi che io non l’ho mai detto che doveva giurarmi
castità, e fare delle prediche terribili e minacciare tutti e farli tornare nelle loro case col
terrore di bestemmiare anche verso i santi minori come sancrispino e sanpancrazio.
Oppure vorrei essere un teppista da stadio di quelli veri, con un proprio
codice d’onore e di morte, e andare a tutte le partite senza vederne una, passarle a
urlare parolacce solo seguendo l’onda del momento o magari iniziandola io, muovere le
masse come un’orchestra e dirigere i baritoni sui mortaccivostri, i tenori sui vaffanculo
e i soprani sugli stronzicagasotto, e a fine partita uscire ordinatamente senza rompere
nulla, né bagni né sedie, e fuori ingaggiare con onore risse fantastiche e stendere a
terra un sacco di tifosi avversari a pugni nudi senza armi né catene, e incontrare il loro
capobanda e poterlo affrontare senza intromissioni e vincere o perdere a seconda del
momento e poi raccattare i feriti e andare tutti in birreria a festeggiare sbronzandosi
e cantando canzoni tristissime che ci fanno piangere tutti come vitellini e infine
accompagnarli alla stazione a prendere il treno perché la città di notte è pericolosa, si
sa.
Oppure restare qui, senza rispondere agli insulti educati e affilati di questo
poveretto che ha passato una vita a affilare i suoi insulti educati, promettere di studiare
per la volta dopo anche sapendo che non sarà così, e poi voltarsi e tornare al posto
marciando a passo lento come una sposa tra due ali di banchi pieni di fiori adolescenti,
sperare che almeno la cosa sia valsa a poter incrociare i suoi occhi verdi e tristi mentre
scrutano senza attenzione un diario rosa posato sul suo banco, quello davanti al mio, in
questo mondo di fuochi fatui e di piccoli eroismi inutili.
(1997)
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