racconti minimi - Lorenzo Moneta
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racconti minimi - Lorenzo Moneta
Racconti Minimi 1994-2006 Lorenzo Moneta [email protected] mob. +39 338 7142000 Due Treni Bianchi E Verdi “Voglio un dolcetto” “Non puoi averlo” “Perché? Voglio un dolcetto” “Perché dormono tutti. Tutti.” Ricordo tutto di quell’incredibile notte. Avevo pensato per anni a come sarebbe stato, alle sensazioni che avrei provato. Uno scrittore crede di poter immaginare tutto. Si è talmente esercitato nella costruzione mentale di ogni possibile evento, di ogni dialogo, di ogni accento nelle parole, che ha la presunzione di credere che tutto sia prevedibile come in uno dei racconti che scrive. Non è così. “Sara? Sara?” “Non c’è, stai buono. Non è qui. Dormi.” “Come, non è qui? Dov’è?” “E’ a casa” “Certo che è a casa. Sara?” “Non è qui. Non c’è nessuno qui, tranne noi.” Solo qualche anno fa le cose erano diverse. Non c’erano malattie a scandire il conto alla rovescia della nostra separazione. Non c’era l’improvviso concretizzarsi delle paure di abbandono. C’era un rapporto normale, di quelli in cui ti dici tutto, e in faccia, perché non ti preoccupi di quando l’altra persona non ci sarà più, e non filtri le tue parole come un giorno vorresti aver fatto. Solo qualche anno fa era iniziato il periodo in cui ogni volta che salutavo papà, sembrava l’inizio di una serie di saluti definitivi. Rimaneva, nonostante i Ciao, i Stammi bene, i A domani, qualcosa nell’aria di struggente, di inespresso, da togliere il fiato. Rimaneva la voglia di corrergli dietro, prima che infilasse la ventiquattrore malandata nella Rover malandata, prima che vi salisse con le prime tracce di fatica malcelata, prima che accendesse il motore, e dirgli Scusa, papà, volevo dirti che il bene di tutto il mondo non basta a esprimerti quello che provo. Naturalmente, ovviamente non lo feci quella volta né lo feci mai altre volte, perché non si fa, non ci è stato insegnato, non siamo abituati a questo. Lo tenni per me, vergognoso come un bambino, assolutamente certo che la vita mi avrebbe presentato 2 un milione di altre occasioni eclatanti in cui dirglielo. “Sara? Sara. Perché i miei figli sono così sxfhcsdsfjgyui…” “Come? Così cosa? Senti, dormi, papà.” Forse le occasioni per dirglielo erano ridotte per via del suo terribile carattere. Era come se tutto il suo modo d’essere respingesse l’affetto che provavo per lui, o perlomeno le sue manifestazioni. Come una barca che naviga in un mare agitato, e si avvicina al porto, e ogni avvicinamento la può portare a fracassarsi sul molo oppure a entrare e salvarsi, così ero io, avaro di tentativi, e lui, attraente come un faro, nella burrasca della mia vigliaccheria. “Voglio alzarmi.” I dottori erano stati chiari. Non ci si alza. “Con il fegato in quelle condizioni, deve stare assolutamente immobile”, avevano detto guardandoci con severità, e come sottointeso c’era un rimprovero. Ci eravamo sentiti in grande colpa, mio fratello ed io. La notte prima, Andrea e papà l’avevano passata facendo su e giù dal letto alla sedia a rotelle. Papà non aveva avuto pace. Appena sdraiato, non respirava. Seduto, non ce la faceva. Sette volte, in tutta la notte. Andrea mi aveva fatto promettere di non fare la stessa cosa. “Lo devi far stare giù”, aveva detto. “Va bene”, avevo risposto, risoluto. “Voglio alzarmi.” Era solo mezzanotte. “Papà, non cominciamo. Hai sentito il dottore.” “Me ne frego. Voglio alzarmi.” Con il cuore in gola, completamente senza il controllo della situazione, avevo suonato l’allarme. L’infermiera era arrivata e aveva acceso la luce grande, inondando la stanza di un bagliore freddo che aveva svegliato l’altro paziente. “Cosa succede, vogliamo dormire?” “No, signorina” aveva detto papà con il suo peggior tono, “Non vogliamo dormire, mi devo alzare.” Avevamo provato a tenerlo giù, e lui, con una forza che non ci aspettavamo, ci aveva scansati e si era alzato a sedere sul letto, ma non riusciva a tenersi puntato sulle mani. Lo guardavo con una pietà infinita, chiedendomi il perché di quel puntiglio, di quella necessità assurda, mentre spingeva i tricipiti fiacchi contro il materasso. Alla fine era arrivato il dottore. Aveva scambiato qualche parola con papà. Recitava la parte del dottore arrabbiato, e papà quella del paziente che ha fatto il cattivo, ora che finalmente l’avevamo messo a sedere. Ora che aveva vinto lui. Quando rimanemmo soli, papà fu lucido per l’ultima volta. Mi guardava con occhi terribili, come se l’avessi tradito. “Siete impazziti? Perché non mi facevi alzare?” Ancora non capivo. Non potevo capire. 3 “Sara? Sara?” Solo mezz’ora dopo. Papà era di nuovo a letto. La luce notturna colorava tutto di rosa. “Mamma non è qui. Cosa vorresti dirgli, papà? Che vuoi un dolcetto?” “Ma quale dolcetto? Lo sai cosa voglio dirgli. Mi hai sentito, prima.” Avevo sentito che io e Andrea siamo così sxfhcsdsfjgyui. E questo mi bastava. Un quarto d’ora dopo aveva di nuovo voluto alzarsi. Provai ad impedirglielo, ricominciò ad agitarsi. “Non posso respirare così, lo capisci?” Lo capivo, ma sapevo anche che ogni volta che si alzava in piedi, riduceva la sua vita di qualche ora. Lo feci ruotare sul letto e gli misi i piedi a terra. Si appoggiò a me e contammo fino a tre. Al tre era in piedi, e mi scansava, perché odiava doversi appoggiare a qualcuno, anche se stava a malapena in piedi. Lo feci ruotare su se stesso, poi lo misi a sedere sulla sedia a rotelle. Rimase così, occhi chiusi, seduto nel cuore della notte, in silenzio, con l’unico rumore i peti del vicino. Poi volle rimettersi a letto. Si alzò e ripeté al contrario i movimenti fino a tornare sdraiato.Tutta l’operazione durò venti minuti, e la ripetemmo un sacco di volte. Non so quante, ma molte più di sette. Alla fine spegnevo la luce, mi sedevo e bevevo un sorso di Schweppes, amara, dolce e calda. Lui ed io ogni volta più sfiancati. Non so quale di queste volte fu quella in cui capii. Ci misi molto: dovevano essere le quattro. Aspettavo con ansia di vedere l’alba attraverso la serranda ma non arrivava. La stanza era bollente e io puzzavo. Nonostante la Schweppes avevo la gola arida. Papà alzò per l’ennesima volta il braccio cercando qualcosa a cui appoggiarsi e sporse i piedi fuori dal letto. Mi preparai per cominciare da capo. E capii. Capii la sua personale lotta. Capii che non avevo capito niente. Capii che per lui non era importante allungare di qualche ora la vita, ma vincere la malattia che l’aveva vinto. Proprio perché non poteva, si alzava. Se gli avessero detto che era meglio alzarsi ogni tanto, sarebbe rimasto inchiodato a quel maledetto letto. La malattia l’avrebbe comunque annientato, ma lui non le avrebbe dato la soddisfazione di aspettarla immobile. “Sei pronto, papà?” avevo detto alzandomi di scatto.Avevo preso delicatamente i piedi gonfi, l’avevo girato sul letto. “Ecco, giusto, papà”, dicevo. “Gliela facciamo vedere noi, a quella stronza”, dicevo mentre contavo fino a tre e hop, lui si alzava sempre con più fatica, sempre più appoggiandosi a me, e a me sembrava di avere sempre meno forze ma non importava, non era importante, non contava niente, lui era di nuovo in piedi con gli occhi chiusi e io dicevo “Bravo, papà, gliel’hai fatta vedere ancora a quella stronza” e lui ogni volta riusciva a fare una cosa in meno, e parlava sempre meno, mentre non riusciva più ad alzarsi dalla sedia, poi non riusciva più a sedercisi, infine nemmeno ad alzarsi dal letto. Rimanemmo così, l’ultima volta. Essendo inverno, la luce era arrivata solo alle sette e mezza. L’ospedale si svegliava. Le infermiere del turno mattutino ci trovarono seduti uno accanto all’altro, lui che forse dormiva, e mi aiutarono a rimetterlo sdraiato, 4 esausto com’era lui e sfiancato dalla nottata io. Spalancai la finestra, era una giornata piovosa. Dal nostro piano, altissimo su un lato boscoso della città, aprii la mia vista su un ponte della ferrovia metropolitana, due treni bianchi e verdi, uguali, si incrociavano al centro esatto del ponte e io rimasi incantato dalla geometrica perfezione del creato. Per papà, 28/5/1935 – 18/2/2005 5 Voi Siete Qui - La chiave non entra, dico. - Non c’è la serratura, dice Laura. E’ vero. Al suo posto c’è un buco nel legno. Manca anche la placca di ottone. Provo con il chiavistello sotto: questo si apre. Spingo la porta. I miei hanno traslocato. C’è voluta una sola giornata. Hanno atteso una vita e poi hanno traslocato in una giornata. Come raccontava quel tizio su Fiesta, che era andato in rovina in due modi, lentamente e poi improvvisamente. Così hanno traslocato i miei. Prima lentamente e poi di colpo. Ora è sera. Mi sembra che sia un errore essere tornato qui, a casa loro. - Micia non è venuta a salutarci. - Sarà nascosta nella stanza degli armadi. - Anche se non ci sono più gli armadi? - Sai come sono i gatti, dice Laura. - Loro si legano al territorio, più che ai padroni. Avanziamo nell’ingresso buio. Un foglio prende a danzare davanti ai nostri piedi come uno spettro. La luce della torcia lo illumina, poi Laura dirige il fascio verso la finestra spalancata. Infine illumina il lampadario. - Corrente staccata, dico. - La accendo. Laura entra nello sgabuzzino, si sente un tlac e si illumina una delle stanze verso la cucina. Accendo la luce su uno spettacolo desolante. A terra, mucchi di cose in attesa di essere scelte, o scartate, come clandestini della memoria.Alle pareti, l’alito dei quadri. Mai un lampadario è stato più impietoso. Mi viene l’istinto di tornare alla penombra di quando siamo entrati, ma non spengo la luce.Voglio andare fino in fondo. - Più che un trasloco, sembra una fuga di ricercati, dice Laura. A me non da la stessa impressione. Lei vede in quella serie di oggetti buttati la scelta frettolosa di chi deve scappare; io, la cura meticolosa di chi sta selezionando il passato che merita di sopravvivere. So chi li ha lasciati così. Appare Micia dal corridoio. Guarda come guarda lei di solito quando torniamo dalle vacanze, o quando arrivano sconosciuti: sporta a metà oltre l’angolo tra ingresso 6 e corridoio, incerta. Micia sta male. Tra due mesi non ci sarà più. Ha passato con noi dodici anni, non sopravvivrà al trasloco. - Povera, povera Micia - dice Laura inchinandosi lentamente per non spaventarla. - Ti abbiamo lasciata sola soletta ma adesso, vedi, siamo tornati. Ora ti portiamo via. Micia è una gatta difficile. Timidissima. Nonostante tutto il tempo, ancora non si fida del tutto. Di Laura sì, però. Dal primo giorno. A patto che si avvicini lentamente. Laura in questo è brava. Si avvicina piano alle persone, le accarezza all’improvviso sotto il collo, lascia che si abbandonino al suo amore. - Micia! - la chiamo come al solito. La mia voce rimbalza qualche volta per le pareti nude, per l’assurda mancanza dei mobili, per l’aria vuota come non lo è stata mai. - Guardala, quant’è sospettosa, sussurra Laura. - Diamole da mangiare, risponde la mia voce per tutte le stanze. La cucina è in fondo al corridoio a elle. Lo percorriamo con Micia che ci segue a coda in su. C’è ancora vento, vento di corrente per i corridoi e le stanze. Vento di abbandono, del tipo che circonda la nave mentre affonda. In cucina devo stare attento a come aprire il rubinetto, perché non c’è più nemmeno il lavandino. Riempio la ciotola di Micia, la quale ci si avventa non appena la poso a terra. La sete della malattia. La svuota in pochi minuti. Una ciotola che in genere le basta una settimana. - Che sete aveva, dice Laura. Osservo Micia che si fa carezzare la testa come mai si è lasciata fare. Laura le canticchia una specie di ninna nanna. Le lascio sole. Giro per la casa con la ferma intenzione di assorbire più dettagli e odori possibili. Sento di doverlo a qualcuno. Non a me, che ormai non vivevo in questa casa da tanto tempo. Non alle cose, che continuo a trovare in mucchi ordinati tra i pavimenti e le pareti. A qualcos’altro. A qualcun altro. Un’immagine di questa mattina. Un’evacuazione. Non ci sono sostantivi migliori di questo. I trasportatori. Rumeni, silenziosi, gentili. Fratelli, padri, cugini, tutti nella stessa impresa di traslochi. La mia diffidenza iniziale; la loro professionalità, la rapidità; vergognarmi della mia diffidenza cronica. Le parole tra loro - pochissime. La bottiglia d’acqua che gli ho portato, i bicchieri di plastica. Il grazie detto con un cenno del mento. Portavano via le scatole a una velocità tale da non lasciarci a volte nemmeno il tempo di chiuderle. Una me l’hanno tolta mentre la battezzavo col pennarello LIBRI, la I finale è diventata uno svolazzo. I loro scarponi pesanti. Il rimbombo per i corridoi. Micia nascosta come al solito sotto il letto dei miei. Il fracasso tutto attorno a lei. Il letto - rifugio di una vita, autentica presenza immota e rassicurante - che all’improvviso si solleva: la fine della 7 sicurezza. La fuga in un’altra stanza. Osservo un mucchio tra quelli della stanza di mio fratello. Quaderni, penne scariche, vecchio calendari di musicisti anni Ottanta. Cerco di pensare a quando quelle cose erano nuove: all’aria fiammante della biro appena comprata, alla gioia di aver trovato l’ultimo calendario disponibile di quel gruppo pop. Ascolto il silenzio della casa interrotto solo dalla nenia lontana di Laura. Tento di assorbire quanti più dettagli di quel silenzio di vuoto, e mi accorgo senza particolare originalità che la casa è ancora più enorme del solito, così vuota. Peggio che vuota: vuota con ciarpame. Ciarpame che fino a ieri non era ciarpame. Erano cose. Cose con una loro dignità di cose. Ora sono ciarpame. Perché l’uomo ha il potere di infondere la vita nelle cose che ama. E’ il nostro amore a renderli testimoni unici della nostra storia oppure ciarpame. E il ciarpame, quello sì, è peggiore del peggior vuoto. Un’altra immagine di stamattina. Il viavai dei trasportatori. Il vento che cominciava a correre tra le stanze, non più imbavagliato dalle tende. Io, mio fratello, mia cognata e Laura, a riempire scatoloni. Rotoli di scotch per pacchi che finivano uno dietro l’altro. Mio padre a guidare i rumeni verso i camion o verso la cantina come un vigile urbano scocciato e stanco. E in mezzo a tutto il caos, mia madre. Mia madre, accovacciata, che con le sue mani da pianista, delicatamente, meticolosamente, sceglie tra un miliardo di minuscoli oggetti - portastuzzicadenti, portachiavi, santini, campioncini di profumi ormai dissolti - cosa conservare e cosa no. Posso rivedere la scena, ora che la casa è tremendamente vuota e diversa dalla mattinata concitata e assurda: tutto attorno a mia madre un finimondo di mobili spostati, di camion che aspettano in doppia fila, e noi, tutti insieme, che le mettiamo fretta, che la spingiamo a buttare l’inessenziale, senza sapere che siamo noi a decidere il nostro personale essenziale. Alla casa. Ecco a chi lo devo. Non posso perdere nemmeno un dettaglio, devo registrare tutto. Devo ricordare, anche se ora è doloroso. Aspettiamo l’ascensore sul pianerottolo. Micia se ne sta buona nella gabbia. Laura ondeggia sulle gambe e intanto guarda su, canticchia qualcosa. - Cosa c’è, mi chiede piano. - Vorrei tornare piccolino, dico dopo un po’. - Per restarci? - Per ricominciare. Ora siamo a casa nostra. Domani dovremo aiutare i miei a svuotare gli scatoloni pieni di scritte sbaffate. Dobbiamo dormire. Nel buio, ascolto il respiro da bambina di Laura. Ogni tanto si sente un sospiro più leggero: Micia che dorme sul piumone, ai nostri piedi, e ogni tanto sogna. Nel buio avverto la stanchezza crollarmi 8 giù dalle spalle, e il sonno prendere il suo posto. Ma come ultimo pensiero, non posso fare di meno di rivedere il pianerottolo. Il neon che di recente ha sostituito la meravigliosa lampada ad incandescenza. La bottoniera in ottone e bachelite rimpiazzata da una in alluminio e plastica. Il palazzo degli anni Venti gestito dai nuovi lupi della società di amministrazione come un capanno industriale. C’era un cartello alle nostre spalle. Una pianta dell’edificio con le vie di fuga, stampato e attaccato tanto per obbedire ad una normativa. Ho osservato la freddezza con cui il disegno tentava di evocare i pianerottoli e le scale dov’ero cresciuto. Ho studiato la trasparenza già graffiata del plexiglas. Ho seguito quei percorsi a pennarello con un sorriso, trovandoli inutili e sbagliati. E ho pensato che da quella casa non avrei mai voluto trovare vie di fuga, nemmeno se ci fosse stato un incendio. Ho pensato che di tutti i posti del mondo, quello l’avrei scelto anche per morire. Il cartello diceva: “VOI SIETE QUI”. Non gli ho creduto. Forse, lui era lì. Indicava un punto della casa dove avremmo dovuto essere. In confronto ai luoghi della memoria, quello che indicava lui era il meno esistente. (marzo 2005) 9 Barbe-A-Papa’ Questa cazzo di sala d’aspetto è la peggiore che abbia mai visto, cazzo, giuro che non ne ho mai vista una così fetente. Sto in questa sala d’aspetto di questo cazzo di ospedale di trastevere perché mi ci ha portato laura che chissà come cazzo le è venuta questa idea stronza, proprio non lo so, so soltanto che è fredda e c’è gente che apre la porta ogni tanto, ma mica entra o esce, è solo che a quanto pare non sono il solo a pensare che questa sala d’aspetto del cazzo è la peggiore in assoluto, puoi leggerlo nelle facce di quelli che aspettano insieme a noi, che anche loro non ne hanno mai vista una peggiore, e così ogni tanto qualcuno va alla porta e la apre ma poi sul più bello li vedi che ci ripensano per qualche motivo oscuro e rientrano e intanto io mi sono ciucciato lo spiffero del cazzo. Insomma a laura è venuto questa specie di sospetto, capite, dice che da un po’ di tempo ha poca fame, si ammala in continuazione e prende raffreddori e mal di gola come fossero rondini a primavera, cazzo, poi sono mesi che ha una febbre stronza tipo trentaseienove trentasette, che cazzo, che i primi tempi io le dico che porcatroia ti lamenti, sai che febbre, uau, ti manderei io a lavorare ai mercati alle quattro quattroemezzo con trentanove come ce l’avevo l’anno scorso, fatto sta che però sono mesi che ce l’ha e poi questo si riflette sul nostro equilibrio coniugale e quindi il risultato è che la libido è diminuita e insomma per usare parole povere a casa ormai si scopa poco e male che neanche sotto la naja, per cui dico ma che cazzo, sembra che c’hai il marchese a ripetizione, e lei dice ninni voglio fare, dice, il test, dice, che io manco sapevo che fosse gratis per cui lì per lì le dico ma tu sei scema, e lei s’incazza e mette il muso e alla fine le dico sì anche perché ormai ha preso appuntamento e prima che capisca che è gratis mi sono già incazzato e non voglio comunque che butti i soldi già spesi anche perché li potevamo usare per una spada come dico io e per mezz’ora in allegria. Insomma sto qui che tento di leggere il giornale ma non ci riesco perché sono troppo incuriosito, voglio dire, sono circondato da questi tizi, è la prima volta che ne vedo tanti tutti insieme, di quelli, voglio dire, mi sono spiegato, di quelli là, e m’ero sempre domandato che faccia avessero, e forse me li ero immaginati in un altro modo, come nei film, ma invece sono tutti dolciegabbana con questi cazzo di look da bravi 10 ragazzi coi loro maglioncini neri a vu e i pantaloni a tubo grigi e le scoppolette di lana tipo robertdeniro dei poveri, che se qualcuno si azzarda a darsi la mano porcozio gliela taglio. Poi c’è questo tavolino di ferro e plastica in mezzo, no? proprio da poliambula del cazzo, e noi attorno su queste sedie di ferro dure e fredde da obitorio di merda, seduti spalle al muro per non far venire la tentazione nessuno, capite, fatto sta che nessuno si guarda in faccia, nessuno riesce a dire una parola e se qualcuno parla è perché è venuto con l’amico tipo me e laura e lo fa comunque a bassavoce, e c’è questa specie d’aria di penitenza, cazzo, non la reggo, tutti a cacarsi sotto e a pregare come se stessero facendo il sorteggio per chi deve andare al muro, poi ognuno c’ha il suo bravo numeretto come se dovesse fare la visita ketchup, checkup o come cazzo si chiama, metti dal dentista o dallo specialista, e poi ci sono i soliti opuscoletti ipocriti del cazzo del ministero, di quelli che portano sfiga e fanno vedere questi ragazzini felici che saltano come rane e guardano nell’obiettivo e ti fissano, ma che cazzo si fissano? ti fissano e ti dicono smetti finché sei in tempo, ma che cazzo ne sanno loro, nelle loro casette di merda con la famiglia che gli paga tutto, magari pure la coca, che cazzo ne sanno, madonna come sto male sono tre giorni che i soldi sono finiti e alla usl del cazzo manco il vimclorex di merda ti danno, altro che metadone, porcozio, io e laura non sappiamo se c’abbiamo più fame o più voglia di farci, fatto sta che finalmente chiamano il suo nome e lei sembra che si svegli da chissà che sogno, si scuote e per un attimo trema e io la guardo e mi viene uno strano ricordo come tante altre volte, sapete, perché quando sei sotto ti vengono in continuazione queste immagini del cazzo da chissà dove nel cervello, ricordi vicini e lontani e belli e brutti senza un cazzo di senso, che so, metti i più belli o i più brutti, fatto sta che mentre si alza e mi lascia la sua giacca di pelo di gatto, me la ricordo improvvisamente la prima volta che l’ho vista, dava i fucili a piombini al luneur, sapete di quelli per vincere i pelusc del cazzo, era un giorno che faceva freddo e c’eravamo solo noi, una tristezza, io stavo con un paio di amici miei e insomma avevamo scherzato e io le avevo offerto uno zucchero filato rosa e lei m’aveva spiegato che in francia o chissaddovecazzo lo chiamavano barbapapà, ah sì, avevo detto io, come quel pupazzo brutto?, e io avevo riso e lei m’aveva guardato e il mese dopo già ci bucavamo insieme e insomma dividevamo le cose migliori della vita. Adesso siamo fuori del poliambula del cazzo, i froci stanno dentro a rodersi, aspettano il loro turno, laura piange e io la sgrido e dico checcazzo c’hai da piangere, stai buona, lei non smette e mi dice ninni stringimi, lo faccio e le prometto che domenica la porto a anzio al mare a vedere i pescherecci e se alzo qualche lira le offro pure i fritti in una di quelle trattorie del porto, e penso che non ho nemmeno capito se oggi le hanno preso il sangue o dato il responso. 11 Monopoli Racconto vincitore di Scrittura Fresca - Enzimi 1997 Il peso del mio corpo sui talloni - ecco cosa. La pressione dei chili sul malleolo, e sulla sottile striscia di muscolo che lo ricopre, e poi sulla pelle che lo riveste e lo separa dalle scarpe e dal suolo di tutto il mondo. Quella sensazione di gravità e di doppio schiacciamento verticale, quel senso di linea di demarcazione tra due poli in opposta spinta - il mio peso da una parte e l’universo dall’altra. “Io ho provato, sinceramente, a capirti.” Poi l’attrito tra le vene e il sangue che ci passa dentro. Quel senso di ruvidezza interna, quel continuo passare due strati di velluto uno contropelo all’altro, come se il sangue non riconoscesse le pareti dei suoi naturali corridoi e le vene opponessero una resistenza passiva al suo scorrere. “Ammetterai anche tu che ci ho provato. Ma mi ascolti?” “Certo. Sicuro che ti ascolto”, rispondo. La lingua in bocca. Quella presenza costante di qualcosa di liscio e ruvido contemporaneamente tra il palato e i denti, qualcosa di inutile, di ingombrante, o forse di utile ma comunque invadente, senza possibilità di fuggirne, di rinunciarvi; il senso di non-scelta, di fastidiosa rassegnazione. Tento di immaginare come sarebbe bello baciarsi solo a labbra, senza la volgarità eccitante della liscezza umida del contatto, senza la prevaricazione di due organi interni inventati per tutt’altro, buoni solo a rubare sensazioni e a impoverirle. Lei sospira. Non sembra crederci molto.Accarezza il dorso gelato del bicchiere pieno di succo d’ananas. “Erano anni che tentavo di fartelo capire, che ti dicevo che i tuoi problemi avrebbero potuto diventare i nostri problemi.” La durezza delle unghie contrapposta alla sensibilità dei polpastrelli. Il contrasto tra l’assoluta insensibilità quasi plastica e la gamma di sensazioni elettriche, perfettamente distinguibili, messe a confronto diretto, quasi grottesco, una a ridicolizzare l’altra: l’accessorio rapido e sottile, la lama che abbiamo in dotazione per usi spesso 12 rozzi e pratici; e il miracolo della natura, quel piccolo mare di canali e nervature che ricopre le dita e che ci permette di distinguere il liscio dal ruvido, la tela incrostata di vernice secca a rilievo dalla verniciatura metallizzata, la carta pergamena dal legno laccato, la vernice pastosa che incolla il pennello dalla zigrinatura della lima. “Erano anni che ti sentivo attaccare troppo alla nostra storia, che ti dicevo di creare spazi tuoi e basta.” Così si comincia a perdere il contatto con sé stessi, così si comincia a sfaldarsi e a prendere le distanze e a creare vuoti. Le cose normali si staccano dallo sfondo e prendono contorni propri, vita propria, significato; diventano prepotentemente cose che altrimenti non noteremmo, che pretendono la nostra attenzione. Ora capisco che l’insicurezza e la mancanza d’amore personale arrivano al punto che ci odiamo dentro, che vorremmo avere altri corpi, altri caratteri; altri passati da maledire. “Erano anni che ti sentivo troppo attaccato, troppo vicino. E ho capito che non ero la cosa più bella che avevi, ma la sola cosa bella della tua vita. Mi capisci? Capisci cosa intendo? O pensi ancora ai fatti tuoi?” “No, ti ascolto invece. Senti, ma tu ci pensi mai al fatto di avere una lingua in bocca? Voglio dire, non ti da fastidio?” Lei accarezza ancora il dorso del bicchiere. Non beve l’ananas. Io invece ho finito la mia birra. Mi è sembrato che il sapore forte e amaro e dolciastro e gelato mi anestetizzasse la lingua, la rimettesse al suo posto di organo interno. “Io non mi sento scelta. Con tutto il tuo amore, con tutte le tue premure, mi sembra di essere un tuo premio, più che una tua fatica conquistata. E questo mi soffoca, capisci?” “Io non posso restare solo” dico. “Non ne sono capace.” Lei avvicina una mano alla mia, vorrebbe forse accarezzarla; invece ci ripensa e torna a accarezzare il bicchiere, con un gesto distratto. Poi ci ripensa ancora, me la accarezza. “Bisogna saper vivere da soli, anche se non è detto che bisogna vivere da soli.” E io ricordo quella volta che stavo in fila all’università e dovevo immatricolarmi e era settembre e faceva caldo, l’enorme stanza della segreteria era piena di gente e non si respirava. Avevo fatto amicizia con altri ragazzi che erano euforici di stare lì, finalmente lontani dalla maturità e dalle campanelle e dalle merendine e dalle giustificazioni e dalle assenze e dai temi in classe e dalle seghe in bagno, ed ero lì, e per desiderio di associazione e di emulazione dicevo anch’io che schifo che schifo, ma dentro di me pensavo che il liceo era stato bello, cristosanto, era stato bello, e felice come lo ero stato lì non lo sarei stato mai più perché io adoravo la campanella e tute le altre cose e pensavo anche che tutta quella libertà del muoversi da soli e del gestirsi 13 e dell’organizzarsi non l’avrei mai apprezzata. Lei si alza e mi saluta. Tento di decifrare il suo ultimo sguardo: non ci riesco. Mi sembra che l’unico momento in cui sia mai stato in grado di decifrare qualcosa sia stato un giorno in cui ho giocato a Monopoli, solo per sostituire momentaneamente un amico in una partita, e non mi importava davvero nulla di vincere o di perdere, e tuttavia ho vinto perché ho letto negli occhi degli avversari la paura di perdere, o forse quella ben peggiore di vincere; di battere qualcuno. Forse quella di ritrovarsi da soli con la miglior parte di se stessi. (1997) 14 Interruzione di Gravidanza e accompagniamo Dario allo Spallanzani dove Eleonora è ricoverata perché deve abortire la macchina di Alessandro scivola silenziosa nel traffico del lungotevere di questa città bollente e millenaria, aria calda entra dal finestrino come phon in faccia; un gruppo chiamato Offspring sta suonando qualcosa da qualche parte nell’autoradio, il frastuono mi confonde e Dario che indossa una maglietta bianca con su scritto ALICE IN CHAINS da un lato e DIRT dall’altro che ha l’aria preoccupata che però non è molto diversa dall’aria che ha sempre, noi che non parliamo molto per tutta la durata del viaggio tranne qualche volta per fare discorsi senza senso come Michele che ora chiede a Alessandro qualcosa a proposito di uno stage di kung fu, io di un concerto dei Quicksand al Circolo degli Artisti, Alessandro che non risponde con quella sua aria che prima ancora che Alessandro si metta a cercare un parcheggio per l’auto Dario gli chiede Ale, fammi scendere qui direttamente davanti all’entrata dell’ospedale, che sta su un viale alberato di platani scuri che fanno mille riflessi il sole acido ci passa attraverso e scotta sulla pelle; Alessandro accosta e aspetta che Dario scenda poi Michele passa al posto davanti e forse perché dopo aver parcheggiato in mezzo a due macchine molto troppo vicine tra loro e in un posto molto lontano dall’ ospedale ci incamminiamo e a un certo punto passiamo un bar e forse dovremmo portarle qualcosa dico tipo delle caramelle o huh qualcosa del genere e gli altri nel bar che è vuoto e caldo, la signora alla cassa ci vede entrare e chiama qualcuno, dopo un minuto arriva un signore su cinquaranta che ci sorride e ci chiede cosa vogliamo, noi che indichiamo quella che nella vetrina ci sembra la cosa migliore se non addirittura l’unica cosa possibile da regalare e cioè una scatola di caramelle di vari gusti con una foto piena di fiori sul davanti e io mi chiedo perché tutte le scatole di caramelle di marche sconosciute hanno dei fiori e non dei frutti sul davanti; provo a chiederlo ai ragazzi una volta usciti dal bar una volta che il barista ci ha messo circa mezz’ora per fare un pacco storto e misero e solo Michele per non imbarazzarmi 15 risponde guardandomi e sorridendo così che nell’atrio poi Alessandro si informa chiedendo ad alta voce dove si pratichi “l’interruzione di gravidanza”, così la chiama, e una grossa infermiera che sta leggendo Grazia e che pensavo ci avrebbe squadrati dai capelli agli alluci attraverso il dna invece risponde laconicamente al primo piano senza nemmeno distogliere lo sguardo dal nuovo marito di Stephanie di Monaco piano superiore che è bianco e vagamente odoroso di etere e orina nessun cartello ci indica dove si faccia “l’interruzione di gravidanza” per cui io e Michele seguiamo senza obiezioni Alessandro con le caramelle in mano che chiede informazioni a un’altra infermiera, questa che va di fretta per cui nemmeno lei ci squadra dalla testa ai piedi come pensavo, che ci indica una porta verso la fine del corridoio una accanto alla quale qualcuno ha lasciato delle bombole a ossigeno molto alte tutte scrostate e ci dirigiamo lì; lungo il corridoio incrociamo questa ragazzina seduta su una panca di plastica troppo bianca che regge un braccio con una benda e una signora grassa e sudata che deve essere la madre e che non ci nota neppure perché sta litigando con un’infermiera dall’aria occupata, mentre passiamo posso sentirla dire sì signora, sì, ma non penso che stia capendo molto di quel che le dice e noi allora fuori della porta Alessandro bussa leggermente e la voce di Dario da dentro dice avanti in una stanza con due larghe finestre spalancate le serrande a metà che danno sul traffico lento di viale Trastevere, caldo e scorregge d’auto entrano e stordiscono otto letti in tutto e sono tutti rifatti ordinatamente, solo nell’ultimo in fondo accanto a una delle finestre c’è Eleonora sdraiata con una gamba fuori delle coperte, Dario seduto sul suo letto si volta mentre entriamo e ci Eleonora la vedo non si volta se non di poco e è l’ultima cosa normale che faccia, da questo momento si comporta come se non fosse successo nulla, non sembra nemmeno stanca, chissà Alessandro che è il primo a raggiungerla che si china la abbraccia e la bacia, lei che si alza seduta e lo abbraccia ma non sembra con grande entusiasmo, e poi io che penso boh non sembra rendersi conto che poteva anche non farcela, e faccio anche altri pensieri miei che Alessandro resta abbracciato a lei a lungo, gli sta dicendo paroline all’orecchio e Dario si alza dal letto per farli parlare tranquillamente e viene da noi io che sono il secondo io che le do la scatola di caramelle e la bacio e improvvisamente non so che dire, mi ero preparato una specie di discorso ma il fatto 16 che nessuna infermiera ci abbia squadrato dalla testa ai piedi e che Eleonora sembri normale mi hanno fatto dimenticare tutto così non dico niente poi Michele è l’ultimo e lui scherza sempre, prima di baciarla si ferma un attimo ai piedi del letto e dice qualcosa di spiritoso che la fa ridere al suo modo sguaiato e poi si avvicina e la abbraccia e la bacia, Michele che fa sempre così quando è imbarazzato, infatti poi si volta e si mette da una parte e non dice più niente, solo giochicchia con i piedi nelle scarpe da astrobasket bianche e verdi finiti i convenevoli e non sappiamo più che dire, rimaniamo qualche secondo in silenzio noi quattro in piedi e lei seduta sul letto così le dico aprila e allora lei sembra ricordarsi della scatola e la apre; Dario torna a sedersi sul suo letto e la scruta mentre con gesti troppo normali toglie il fiocco e strappa la carta che cioccolatini dice lei osservando i fiori della scatola, caramelle la corregge Alessandro, lei apre la scatola e osserva le piccole cartine colorate disposte ordinatamente così fa per offrircele ma Alessandro dice prima tu che ne hai bisogno con quel che hai passato, e lei poi io aggiungo sì infatti, te le abbiamo portate apposta perché pensavamo di trovarti più, huh, dico e improvvisamente non mi vengono le parole ma nessuno sembra accorgersene tanto che per un momento mi sembra di non aver detto nulla e quindi la frase resta in loop a svolazzare nell’aria Dario che guarda Alessandro e dice le hanno fatto una flebo apposta per tirarle su i cosi, gli zuccheri e Alessandro annuisce con aria seria seria mentre scarta una caramella dal colore verde e poi, si perde parecchio in sudore e anche in sangue, dice a conferma, ecco fuori quell’autobus che passa rumorosamente e per un attimo stiamo in silenzio convinti di non poterci sentire, poi Dario che si alza per chiudere una finestra ma Eleonora lo ferma, fa così caldo dice, si passa la mano piena di lentiggini sulla fronte bianca poi tra i capelli rossi infine si fa vento con la mano che proprio mentre sto per rilassarmi lei e Alessandro cominciano una strana discussione su una loro amicizia in comune che non conosco e la cosa sembra essere molto divertente perché ridono e ride anche Dario ma al suo solito modo tranquillo,e ora lui non sembra molto preoccupato, ha l’aria di sempre e guarda Eleonora e ogni tanto le tiene la mano fino a che lei si stufa e gliela lascia, io mi innervosisco e devo stare in piedi perché seduto sto peggio non so non chiedetemi vorrei giuro vorrei saper fumare in questi casi ma non ho mai imparato semplicemente non sono capace anche se c’è stato un periodo in cui ci ho provato 17 giuro ci ho provato perché ero sicuro che era bello ma forse non ero troppo convinto e inoltre sedevo in cerchi di persone dalla finta aria annoiata mossa solo dalla voglia di farsi cose e quindi di piacere e come loro mi convincevo che era l’unica cosa che desideravo fare e aspiravo lentamente da cilindrini di carta e tabacco ma l’unico effetto che ottenevo era il senso di raschiamento sulla gola Raschiamento si raschia il feto giù dall’utero, sta spiegando Alessandro, con un una specie di cucchiaio e sapete Alessandro è studente di medicina e sta spiegando a Dario che già lo sa come funziona “l’interruzione di gravidanza”, Dario come al solito annuisce e ogni tanto fa sì con la testa, poi una strana piega della sua maglietta crea la scritta ALIHAINS e io mezzora più tardi ce ne andiamo, mezzora di inferno, Dario sta baciando Eleonora, poi tocca a Alessandro il quale le ricorda che avevano deciso di andare a correre la mattina presto e Eleonora dice occhei e lo bacia; io sono concentrato sull’insegna di un negozio di fronte alla finestra di Eleonora ha una lettera rotta la acca e per uno strano motivo che non riesco a definire mi entra in testa continuo a fissarla fino a quando devo salutare Eleonora e anche mentre la bacio non riesco a non pensarci, lei mi bacia ma capisce qualcosa e mi guarda e chiede va tutto bene? no dico io, e lei mi dispiace, è per il bambino? e io la guardo sconcertato, di colpo tornato in me; no dico, assolutamente e tento di essere almeno un po’ lei non sembra credermi perché mi fissa dritto negli occhi scrutandomi e così mi mette a disagio per cui mi scosto, uffa Michele è sempre l’ultimo dice solo ciao Eleonora e la bacia ma si vede che lei sta ancora pensando a me perché lo bacia distrattamente così che Dario la crede stanca e ci fa segno con gli occhi di uscire da momento prima di passare la porta Eleonora mi chiama e io torno indietro al suo letto e una volta lì senza esitare un attimo con uno strano colore degli occhi mi dice comunque guarda che non era tuo, e mentre mentre esco camminando sul pavimento di marmo freddo opaco sento Dario parlare con Alessandro di un gruppo che non conosco e io mi sorprendo a pensare a una volta tanto tempo fa che avevo trovato un piccolo uccello caduto dal nido in mezzo a un brutto parco dietro casa mia e pensando di poterlo salvare lo avevo messo più in alto possibile su una pietra sotto l’albero, e lui stava immobile, era vivo appena, non reagiva. La madre cantava da un ramo, tra le foglie. (1994) 18 Voci Guidavo nel traffico pigro del sabato mattina. Il cielo era di un azzurro sconvolgente, come liquido. L’aria di febbraio era fredda e asciutta, di montagna. Dallo scappamento delle auto brillava un vapore bianco di gelo. Mia madre e io avevamo appuntamento con una coppia per mostrare loro la casa che volevamo dare in affitto. C’erano piccoli lavori da fare, come spolverare i mobili e dare aria alle stanze, per cui eravamo partiti in anticipo, ma il traffico ci aveva rallentati parecchio. Finalmente eravamo arrivati e avevamo trovato un posto per l’auto proprio davanti al portone di alluminio e vetro del semplice edificio dalla facciata gialla. Mia madre aveva cominciato a ricordarmi le cose già dette centomila volte sul fatto che la zona era nata come area di edilizia popolare negli anni trenta, ma che era stata distrutta per metà dai bombardamenti degli americani. “Io qui ci sono nata e cresciuta”, mi diceva, “con l’unica eccezione del periodo in cui eravamo sfollati fuori Roma.” Quella casa per lei era zeppa di ricordi, perché l’aveva lasciata trentacinque anni prima e successivamente era stata abitata dalla famiglia del fratello, il quale era divorziato pochi anni prima lasciandola sotto forma di alimenti alla moglie. “Spero che Loredana abbia lasciato in ordine il bagno” disse mia madre entrando nell’oscurità dell’androne. “Siamo parecchio in ritardo”. Non le risposi. Stavo portando un piccolo mobile di legno antico su per le scale, un oggetto preso da casa nostra per completare l’ arredamento della casa. Loredana era la moglie di mio zio. Negli anni successivi al divorzio si era aggrappata con tenacia alla casa che aveva tanto odiato perché reputava troppo piccola, fino a quando con un accordo eravamo tornati in possesso della casa di famiglia. Mentre posavo il mobile nell’ingresso, mia madre si guardava attorno già in preda a una sottile inquietudine, come se la vedesse per la prima volta. Era una casa 19 indubbiamente piccola, con un ingresso dal quale partivano tutti gli ambienti: una cucina senza porta, una camera da letto, un soggiorno e il bagno dal quale arrivava puzza di chiuso. Mia zia ci aveva abitato fino alla settimana prima, e sul lavandino erano state lasciate parecchie cose abbandonate, come spazzolini scoloriti, tubetti di dentifricio schiacciati e pantofole rotte. Tutta la casa era in penombra. Mia madre cominciava a spostare delle piccole scatole piene di strani oggetti con un piede, e io la aiutavo. Cercava in una busta uno spolverino, e mentre terminavo di far ordine tra gli oggetti imballati di mia zia, lei cominciava a spolverare qua e là con la sua consueta energia. Fu dopo qualche attimo che la vidi cambiare. Qualcosa in lei faceva perdere colpi alla sveltezza, alla fluidità con la quale in genere passava da un lavoro a un altro in casa nostra. Qualcuno, dalle camere, dalla posizione di certi mobili, dalla luce che squarciava le tende dall’esterno e colpiva una parete bianca, la stava chiamando, chiamava il suo nome e la distraeva. Lei negava dentro di sé, pensava che non fosse possibile udire quelle voci, e ricominciava a lavorare con energia doppia, ma lo faceva per convincersi, e tornava a distrarsi. “Loredana è stata tremenda” diceva a un tratto. “Non si è fidata un attimo di me. Fino a quando non ha visto i soldi.” Non rispondevo neanche stavolta. Spostavo un piccolo ficus benjamin verso il balcone della cucina. Pensavo ai fatti miei. “E il bello è che di lei mi sono dovuta fidare ciecamente, io.” Poi sentiva una voce chiamarla. La vedevo girare la testa di scatto verso la porta della stanza da letto. Si muoveva in quella direzione, ma poi scuoteva la testa e tornava a spolverare. “Lo sai” diceva, “che la cucina era chiusa con una parete di vetro smerigliata fatta da nonno? C’era qui e qui una parete, e qui la porta...” Mentre mi ricordava queste cose per l’ennesima volta, mi accorgevo che mia madre sentiva di nuovo quel bambino chiamarla. Stavolta era quasi certa di aver sentito la voce, distinta, limpida e allegrona, provenire dalla camera da letto. Allora si accostava alla porta. La vedevo sorridere a quel bambino, e a altri come lui, corsi in quella stanza a trovarla attraverso gli anni, e a ricordarle la sua vita di bambina. Si era fermata sullo stipite, con lo spolverino in mano. Poi era entrata. Sorrideva. 20 Qualcosa la distrasse: si girò verso di me. Si scosse subito e riprese a spolverare. “Quanti ricordi” diceva, appena turbata. “Hai ancora quella lista? Devi ricordarmi un paio di cose. Devo portare altri cuscini per le sedie della cucina. Poi bisognerà spazzare tutta la casa, sai?” “Ci penso io” dicevo, e cercavo la scopa e il raccoglimmondizia. Li trovai dietro il mobile del gas. “Bisognerà anche dare una lavata a questi pavimenti, sai?” diceva da lontano. Ero tornato da lei con la scopa. Era ferma e fissava i suoi piedi. Presi a guardarla, incuriosito. Non capivo cosa stesse facendo. Metteva i piedi su una delle mattonelle bianche e arancioni, poi spostava un piede verso l’esterno incrociandolo con l’altro, il quale poi si portava a sua volta all’esterno e il tutto si concludeva con un saltino. Aveva l’aria di un gioco. “Oddio” diceva con un’aria a metà tra l’incantato e il divertito. “Mio padre mi insegnava qui l’one-step, anche se era invalido.” Rideva. Faceva il primo passo, poi il secondo, un doppio passo e poi il saltino. Si muoveva come una bambina cresciuta giocando alla campana sugli intarsi dei corridoi che odoravano di cera in qualche reggia. Più mimava la danza e meglio la ricordava. A tratti diceva: “Ecco, così”, oppure “Qui era così”, e in questa sua danza seguiva percorsi ideali lungo le vecchie mattonelle quadrate: piccole L, ampie C, brevi I. Poi aveva smesso. Era tornata la signora rapida e efficiente di tutti i giorni. Prendeva la sovraccoperta nuova a fiori per il letto e la stendeva sopra il vecchio materasso mentre io spazzavo il soggiorno. Mentre mi davo da fare, prendeva vecchi oggetti e li metteva in una scatola di cartone, in ordine, e nel frattempo mi raccontava di altri aneddoti della sua vita in quella casa. Presto mi dovetti accorgere che quella casa come nessun’altra delle case in cui avevamo abitato, la metteva in pausa e la bloccava nelle cose che faceva, le levava la concentrazione e la portava in qualche posto, lontano da me, forse anche dalle stesse mura della casa, dalle sue idee. Correva con le voci che le tornavano alla memoria, fantasmi di ricordi buoni. Era tutto un fare indietro e avanti col tempo, un combattere con ciò che ci intristisce anche se è un bel ricordo, anzi, sopratutto perché è un bel ricordo e basta e nulla può più ridargli quella sensazione fisica di presenza reale. Potevo avvertire le voci che 21 cominciavano a affaticarla mentre le correvano incontro, che rischiavano di essere troppe, di caricarla di velenosa felicità: un po’ come l’ossigeno nell’aria, i ricordi senza i quali non viviamo, in forte concentrazione la stavano comunque uccidendo. La vedevo spegnersi. Si era seduta su una poltrona. Leggeva a fatica nel vuoto le pagine della sua felicità. “Ti senti bene?” le chiesi. Lei annuì. “Mi porti dell’ acqua? Per piacere?” Le portai l’acqua. La bevve piano. La sua salute negli ultimi tempi non era stata ottima, ma mi rassicurai quando dopo un attimo riprese a dare ordini con il suo solito tono. “Sposta quella poltrona” diceva, “senza farti male. Poi porta via quella scatola che Loredana non ha ancora portato via, accidenti. Chissà quando verrà a prendersela. Oh, ecco, devono essere loro, già qui?” Si alzava. Era suonato il citofono. Le era tornata la vitalità di sempre. Io mi ero tranquillizzato. Fini di posizionare il mobile che avevo portato proprio mentre lei apriva la porta ai nuovi inquilini della sua memoria. Quando uscimmo dalla casa vuota erano le due. Caricata la busta con lo spolverino e le scatole di mia zia in auto, guidai verso casa. Mia madre mi chiese di fermarmi a una drogheria. Ne vidi una sulla strada verso San Giovanni. Accostai e spensi il motore. Attraversai la strada. C’erano ragazzi fuori della drogheria. Entrai. Un signore anziano mi servì, poi pagai a una signora seduta alla cassa. Era tutto bello; il posto, la casa, la zona mi avevano messo un insolito buonumore, tra l’altro senza motivo, se non forse per il fatto che il cielo aveva ancora quel colore liquido e fantastico, e che mia madre era felice di riavere la casa dov’era nata. Tutto era bello, ero felice persino di comprare il pane. Mi sentivo un po’ stupido per questo entusiasmo infantile. Uscii e riattraversai la grossa strada fino alla macchina. Accostandomi studiai mia madre al posto del passeggero. Sembrava pensare, ma man mano che mi avvicinavo mi sembrava immobile in una maniera strana. A un certo punto, a pochi metri dall’auto, vidi che aveva gli occhi chiusi e la testa appoggiata al finestrino. Feci gli ultimi metri in preda all’angoscia. Aprii la porta velocemente e chiamai piano: “Mamma.” Lei non rispose. Aprì gli occhi e mi guardò. Il suo sguardo mi scaldò come sempre, e mi sembrò una cosa bellissima. Le lessi negli occhi qualcosa che non capivo. 22 I genitori, pensai, sanno sempre qualcosa più avanti di noi, qualcosa che capiremo poi, e che ci dà rabbia. Mia madre ascoltava ancora quelle voci fatte di carta ingiallita e di profumi svaniti, e io fui felice per lei. Un giorno lei sarà una di esse. Ci sono tante cose che forse di lei non capirò mai. Ma che so che mi mancheranno comunque. (1995) 23 Meno di tanti Mi incontro con Carlo da sola in un fast food del centro, vuoto e accaldato nonostante l’aria condizionata. Un cameriere sta pulendo lentamente un tavolino con aria assente. Di tanto in tanto lancia un’occhiata verso le mie gambe e penso di piacergli, ma poi fa finta di niente. Quando Carlo entra con gli occhiali neri su e una maglietta con la scritta Il più figo della contea, lui gli dà un’occhiata e poi torna a lavare il tavolino. Sono qui perché me l’ha chiesto Carlo. Giocherello con la cannuccia da almeno un’ora. Lui siede. - Cosa fai? - chiede guardando da un’altra parte. - Giocherello con la cannuccia - rispondo, ma non gli dico che lo faccio da un’ora. Mi tocco i capelli nervosamente. - Non pensavo che venissi. - E’ per questo che sei arrivato con mezz’ora di ritardo? - chiedo. - E’ solo un! quarto! d’ora! - dice lui scandendo le parole. Mi tremano le mani. - Okay, sono qui. - dico. - Non litighiamo subito. Lui respira a fondo e sembra che stia per dire qualcosa di difficile, poi leva gli occhiali, poi li rimette. - Con te è tutto così difficile - dice. - Io non sto più bene, così. Riprendo a giocherellare con la cannuccia. - Voglio dire, all’inizio era tutto così semplice, senza questioni. Ora mi sembri sempre sotto l’effetto di qualcosa. Mi guardo attorno come se cercassi qualcosa. Il caldo è diventato soffocante. - E’ per questo? E’ per la droga? Hai bisogno di soldi? - Non ho bisogno di soldi - dico. - Non farti problemi, okay? voglio dire... Okay? - Ho detto che non è per i soldi. Lui respira a fondo, poi lascia che l’aria scappi fuori. Io schiaccio la cannuccia fino a farla diventare una striscia di plastica piatta. Il cameriere ci manda un’occhiata, ma mi piace pensare che in verità stia guardando me. Carlo abbassa la voce e dice: - Tu sei bella, davvero, ma ultimamente non mi basta più. - Cosa vuoi dire? - Quello che ho detto. 24 - Cosa vuoi dire? - ripeto. - Hai capito benissimo. - Guarda che essere belli è l’unica cosa che abbiamo. Anche tu non sei altro che bello. Non farti illusioni. Lui scuote la testa come un bambino testardo. Toglie e rimette gli occhiali neri. - Cosa credi, di valere qualcosa? - continuo. - Non sei nulla, non hai nulla, e non pensi a nulla, proprio come tutti. Per cui non venirmi a fare le prediche del cazzo. - Stoconunapersona - dice tutto d’un fiato. Per qualche secondo mi sembra di non averlo nemmeno sentito. Poi sento il contraccolpo da qualche parte, come quando il caldo ti aggredisce fuori da un locale con l’aria condizionata. Finalmente lui mi guarda negli occhi. La cannuccia è in mille pezzi. - Devo andare in bagno - dico. Mi alzo e vado fino alla porta. Entro in quello delle donne, alzo la tavoletta e poi vomito la cocacola.Tiro l’acqua e vado allo specchio, senza guardarmi, poi apro la boccetta di plastica e rompo il piccolo sigillo. Aspiro forte il liquido e mentre lo faccio mi guardo allo specchio. Tutto gira per qualche secondo. Poi mi sento improvvisamente bene. Mi trovo sempre più bella. Mi contemplo da un profilo all’altro. Esco e torno sicura al tavolino. Incrocio il cameriere, e posso sentire il suo sguardo sulla mia schiena e anche più in basso. Carlo è ancora seduto lì. Mi guarda strano. - Allora, - dico sedendomi - va meglio ora? Lui sorride togliendosi gli occhiali. - Molto meglio - dice. - Non so come farei se ogni tanto non mi lasciassi sfogare. Io gli dico di non ringraziarmi. Ormai sono abituata a questi suoi momenti. Usciamo dal fast food, nel sole accecante e corrosivo. Carlo mi tiene la mano. O forse è una ragazza sola quella che il cameriere guarda andare via. (1997) 25 Katiancoraviva LO SCHEMA è sempre lo stesso: spillo nella vena, nuvola rosa nella siringa, stantuffino che scorre e -zoooooom, scorre giù nella mia fogna personale una vampata di suoni emozioni colori indescrivibili e so che tra qualche istante si parte per un viaggio familiare ma nuovo. Stasera il pretesto è un altro -non ci sono mamma e papà con le loro prediche del cazzo, non c’è l’ultimo sorriso di Katia e quella sua occhiaia viola e quel bel neo sul mento e quel suo odore di clinica -no, stasera niente pretesti né motivi del cazzo -tipo, sai, come quelli che fanno dire alla gente bene Vedi, poverino, non è colpa sua ma della realtà schifa, che lo fa, no, assolutamente no, che cazzo, il problema a vent’anni è solo che si hanno vent’anni e stavolta è solo un regalino personale, quello che mi faccio, un presente perché ho lavorato sodo questa settimana e il lavoro che mi ha trovato papà sii responsabile stavolta e poi aaaaaaaah-wwwwwww entra entra è entrato cazzo dio madonna per tutti i santi e gli angeli dio dio signore madonna è andato giù, ci mette sempre poco, nessuno immagina, è come l’ottovolante senza carrello come rotolare giù sul prato senza prato, madonna credevo di stare in piedi e dio santo ora sono in terra ma non importa è solo la prima fase, ancora ci sto con la testa, è sempre in questo momento che ho paura di non tornare giù perché vorrei credere che è per l’ultima volta, provo cosa strane paurose belle boh, non lo so, so solo che aaaaaaaaawwwwwwww- oh, cazzo bene bene bene, ah, dio sì, eccome se va bene, si si si si no no no no no si si si 26 il bello non è sognare ma decidere quali sogni fare e quali no Katiancoraviva Katiancoraviva Katiancoraviva, lei che toglie la maglietta bucata e il seno piccolo e senza abbronzatura mi sorride fa l’occhiolino dai capezzoli e io lo bacio in fronte -lui il seno Katiancoraviva noi due che sul motorino il vigile che ci fa la multa io che do gas e il motorino decolla sorvola la strada i palazzi la città e -Cristocristocristo signore woooooooooowwwwwww- lei si tiene a me io le tocco la coscia sotto i jeans, prima la porto in alto poi lei salta ma non ha paura, lo fa di sua volontà e poi precipita e aaawwww-oooooowwww-cazzo scopiamo tanto perché è l’unica cosa gratis che ci è rimasta, i suoi dicono Lascia quel barbone del tuo fidanzato, il barbone sarei io, lei li manda affanculo e poi noi due insieme in un brutto blues di periferia senza refrain senza lieto fine senza accordi di settima e -a proposito chitarra venduta per questa dose chitarra regalo diciotto anni come quella di Steve Vai costata troppo venduta a niente giusto questa dose ultima merdosa e stanza mobili poster di Paperino e i tre amigos appeso storto gira tutto (o forse sono storto io) terza fase ti odio terza fase in cui tutto gira e si ribalta come le tazzine di Eurodisney, i sogni sono solo brutti i ricordi peggio la mia vita hahaha lasciamo perdere, giurol’ultima giurol’ultima giurol’ultima giurol’ultima dio madonna ti prego madonna madonna madonna giuro questo lavoro non lo perdo giuro giuro giuro e poi Riapro gli occhi che fa freddo, fuori farà quaranta gradi ma io sento freddo e la cosa più triste la più schifa la peggiore è che questa roba non ti scalda nemmeno. (1997) 27 Il Grande Fratazzi Dite quello che vi pare, ma non è detto che chi è un grande artista sia anche un grande uomo. Per diventare grandi uomini bisogna lavorare come per essere grandi artisti, ecco. Più o meno. Vaccaboia se è veloce, guarda quello, diceva, e Domenico parandosi con una mano gli occhi dal sole indicava verso un’auto che in quel momento volava sulla tangenziale in culo ai limiti e ai divieti e spariva dopo poco in direzione Pratifiscali, verso corse e avventure fiche chissà quanto. Quello era il modo in cui io e Domenico Fratazzi passavamo quei due mesi allucinanti tra la consegna delle pagelle e la partenza per le vacanze: stare lì a abbrustolirci come pannocchie su un declivio tra sterpaglie, siringhe, Lesbo2000 sbiaditi e fetenzie varie a osservare le macchine che correvano, Domenico con gli occhi stretti per il riverbero ma attenti a qualche cosa, io accanto a lui a pensare al caldo; oppure giravamo il quartiere nuclearizzato dal sole palleggiando davanti ai portoni e ascoltando quel solitario rumore di plastica Santos o Supertele che faceva eco nelle strade vuote. Domenico lo conoscevo come si conoscono quelle persone che hai intorno per anni e un giorno a qualcuno che te lo chiede rispondi, mi sa che siamo amici d’infanzia. Ai miei non andava che lo vedessi perché Domenico nel quartiere era noto come un segaiolo e la fama non era proprio del tutto sballata, anzi, e io stesso devo dire che frequentavo amici anche più raffinati, però con quella sua aria tranquilla e soddisfatta Domenico mi piaceva e forse lo invidiavo anche un po’ perché c’aveva già le sue passioni mentre io io a quell’età non avevo ancora fatto distinzione tra i giochi e le passioni; vivevo entrambi come un bambino - be’, forse perché lo ero - e l’amore per i Tadashi e gli Hiroshi dei cartoni giapponesi poteva essere uguale a quello per una bambina in carne e ossa, anzi maggiore. Comunque non sapevo quale delle cose che amavo fare sarebbe diventata la mia passione, e forse a quell’età è normale così, ma non accanto a uno come Domenico Fratazzi. 28 Lui aveva già la sua fissa: i motori. Ma non è esatto dire i motori come se uno intendesse quei cose coi pistoni dentro e basta, no, lui era interessato anche a quello che era intorno al motore; però anche alle cose che si muovevano senza un motore come le biciclette. Forse bisognerebbe dire che aveva la passione per la tecnica motoristica; ma anche questa è una definizione alla fine riduttiva anche se seria; forse la sua passione era ciò che aveva delle ruote, oppure no, comunque qualsiasi cosa avesse dei congegni meccanici al suo interno, e che fosse ovviamente smontabile in un’infinità di pezzi, possibilmente piccoli e facili da disperdere per un incompetente come me ad esempio. Domenico Fratazzi a dodici anni sapeva già cambiare la candela al ciao, stringere il tubino della miscela del carburatore al ciao, provarci con la ragazzina proprietaria del ciao. Inoltre sapeva cambiare il filtro all’aspirapolvere, bruciare la marmitta del ciao, falsare le giustificazioni, carbonizzare le formiche con la lente d’ingrandimento, recuperare le dieci lire nel coso dell’ascensore, cambiare la cinghia del ciao, riconoscere le cinquantamila false sfregandole su un foglio, simulare la sgommata delle auto con la bocca, parlare ruttando, e ovviamente impennare con il ciao. Da questa descrizione sommaria potrebbe sembrare che Domenico Fratazzi fosse solo l’ennesimo ragazzino sveglio con un futuro da carburatorista nel migliore dei casi e da smantellatore di motorini rubati nel peggiore; ma non era così. Dovevate guardargli le mani mentre le faceva, tutte queste cose. Solo guardargli le mani. Aveva una delicatezza e una precisione e una tale mancanza di goffaggine da meccanico bruto che per anni non la seppi definire, la consideravo casuale eppure inquietante. Poi al liceo mi capitò di vedere un filmato sulla vita di uno scultore famoso e rimasi sconcertato. Stava lavorando alla creta, e i gesti erano identici a quelli di Domenico: gli stessi strappi delicati alla materia, la stessa cura nello scegliere gli attrezzi e il prenderli con dolcezza mista a riverenza. Lo scultore prendeva quella spatola tra altre venti e io vedevo Domenico fare lo stesso con le Usag in molibdeno. Lo scultore spezzava e ricomponeva pezzetti di creta e io vedevo Domenico svitare dadi e bulloni con lo stesso mignolo in su da direttore d’orchestra. Lo scultore dava manate eleganti ma vigorose alla sua creatura e io piangevo al ricordo di Domenico che prendeva a mazzate il telaio del ciao per trasformarlo in ciopper. Le nostre vite si erano separate da un pezzo: il sistema scolastico aveva deciso che il mondo di cose che mi piaceva fare mi portava inevitabilmente al liceo artistico, mentre per lui aveva consigliato caldamente che seguisse le orme paterne nell’azienda di famiglia. Così al mattino lavorava al bar - sei ore a correre avanti e dietro al bancone su una pedana di legno per sembrare più alto e poter fare tutte le cose al modo suo, 29 compreso il cappuccino con il cuore di latte al centro - poi al pomeriggio tornava alla sua vera attività, quella che noi chiamavamo il Christie’s dei cinquantini: metteva all’asta le sue creature, incrosi mostruosi tra motorini di epoche e marche diverse con motori di frullatori e falciatrici, roba da galera, che correvano spetazzando fumi azzurrini ma non avevano l’aria truccata - se per truccata uno intende artefatta per andare più veloce - e prima di venderli, questi motorini cannibalizzati, li faceva provare sulla tangenziale perché mica do fregature, io, diceva, prova ‘sto ciao, ha il 75 sotto, carburatore dodici dodici e marmitta polini, se c’hai le palle e se torni vivo poi te lo compri di sicuro che a centomila è proprio regalato. Se è vero che artista è chi muore per una passione, allora Domenico Fratazzi lo era proprio, mondoboia. Un giorno sono passato sul punto esatto dell’incidente, e il traffico della tangenziale era così veloce che un’altro po’ ci restavo pure io. Volevo trovare la piccola lapide con la sua foto che abbiamo messo lì con una colletta; non l’ho trovata ma sono stato più contento così. Ho passato il resto della giornata sul declivio e le sterpaglie a guardare il traffico, a respirare gas di scarico. A bruciare formiche con la lente degli occhiali. A Umberto C. (1997) 30 Parallelismi L’aria è pesante e gialla come le raffinerie di Civitavecchia. L’atmosfera è quella da ghigliottinamento di Maria Antonietta, oppure da una di quelle puntate di Perry Mason, verso il finale, dove l’insospettabile colpevole è inchiodato alla sbarra dei testimoni, sputtanato, e Perry lo guarda con l’unico sguardo che ha e l’accusa getta la solita spugna e il giudice non può fare altro che chiamare gli sbirri e sbatterlo in galera e gettare la chiave. Il problema è che questo non è un film e che il giudice è il tuo professore di italiano e alla sbarra ci sei tu con l’infamante accusa di aver saltato senza tanti rimorsi gli ultimi due capitoli da studiare. Il brutto non è nemmeno questo. Ma il fatto che abbia chiesto tu di essere interrogato, e che Lui approfitti della situazione per disintegrare l’ultimo barlume di fiducia in te stesso che avevi miracolosamente salvato dall’ultimo derby perso e dall’ultima buca guadagnata in campo femmineo. «Non hai studiato gli ultimi interi due capitoli?» Ahite, no. «E non hai nemmeno niente da dire, non vuoi nemmeno scusarti?» (Come se servisse a qualcosa.) «Neanche ti giustifichi?» Bella roba, giustificarsi prima! E’ da vigliacchi, da gente dalle mutande stirate. Tirarsi fuori dalla mischia, dal branco dei possibili interrogati, dai cerchi concentrici del bersaglio delle freccette; onta e disonore a chi solo lo pensa! Lui sospira come per gustarsi meglio l’attacco, il preludio della sua sinfonia per predica e violino in la bemolle dalla quale non si esce vivi né morti. «Non pensi che sia il caso di pensare al tuo futuro?» Quale? «Non pensi che avere un’istruzione sia importante?» Istruzione! L’unica che conosci è quella che avvia il file .exe di StreetFightersXXII sul tuo bruciabyte fiammante. «Non pensi mai, dico, mai a quello che vorresti fare nella vita?» Non lo doveva dire. Non doveva toccare questo joystick. 31 Che ne sai tu? Cosa sai, cosa pensi di quello che piace a me? Sarei felice di essere uno scemo del paese in un paese piccolo e di provincia che di più è impossibile, fare pena a tutti e ogni tanto prendere a testate i muri bianchi di intonaco fresco per non perdere il vizio, e farmi dare degli avanzi di merendine e dei vestiti che sanno di dismesso ma di pulito, e essere uno di quelli che tutti ridono ma temono pure, e i nonni usano per far stare buoni i bambini la sera quando è buio e fare i capricci diventa difficile, e essere notato dal parroco del paese, uno che parla veneto come tutti i parroci del mondo e essere assunto da lui per fare dei piccoli servizi a messa come porgere l’incensiere e divertirmi un sacco a intossicarci le vecchiacce vestite a lutto tutto l’anno che stanno lì a sgranare chili di rosari per un giorno e poi fuori a spettegolare tonnellate di cattiverie per il resto della settimana, e passare con il cestino all’offertorio e fare le facce per costringerle a sganciare le banconote invece delle monetine del cazzo, e passare la vita così e morire in un giorno buio. Oppure vorrei essere un musicista rock ma non troppo duro, comunque un outsider, uno fuori del gruppo, uno tosto vestito sempre di pelle nera scomodissima e scricchiolante che scrive canzoni bellissime e struggenti ma non pallose tutte dedicate a ragazze che conosco io, metà belle fighe senza pudori ma dai gusti difficili e l’altra metà ragazzine con in testa i fotomodelli ma per mano in via del Corso ai brufolosi, tutte comunque assolutamente disinteressate al qui presente, e essere famoso e farle morire di rabbia e di rimpianto le prime e di rimorso le seconde, e vivere tutta una vita pensando a loro che si schiantano il cuore sul guardrail della nostalgia per me, appagato dal saperle infelici ma mai mie. Oppure vorrei essere un professore moderno, uno bravo, che non ti dice Per domani studiate i capitoli dal trenta al sessantasei e stop, ma uno che non interroga mai, non gli serve, guarda gli studenti e ha già capito all’inizio dell’anno chi studierà e chi no, così può passare tutto l’anno a parlare di scrittori sconosciuti e felici e sudamericani e malinconici e insomma che non siano gobbi del cazzo o fanciulletti mai cresciuti o storico-cattolici repressi o futuristi ubriachi, uno che legge in classe libri bellissimi di cui non chiede mai il commento, e che lascia scegliere cosa e sopratutto se leggere, e che scrive poesie alle sue studentesse di nascosto e queste si innamorano di lui e lui se le fa tutte. Oppure vorrei essere Dio, ma non un dio: proprio Dio lui, in persona, e cambiare un casino di cose, innanzitutto questa cazzata che uno può fare qualsiasi cattiveria e passarla franca e forse andare poi all’inferno, ma anzi! essere punito subito e prenderlo in quel posto così non lo rifà più, metti i mafiosi e i politici corrotti e i calciatori venduti e i professori frustrati e le ragazze capricciose e i genitori sordi e gli amici falsi e i cantanti in playback e i controllori sugli autobus, e intervenire a ogni messa 32 e sbugiardare il prete quando dice cazzate o interpreta male quello che dico per motivi suoi e sopratutto per invitarlo a sposarsi che io non l’ho mai detto che doveva giurarmi castità, e fare delle prediche terribili e minacciare tutti e farli tornare nelle loro case col terrore di bestemmiare anche verso i santi minori come sancrispino e sanpancrazio. Oppure vorrei essere un teppista da stadio di quelli veri, con un proprio codice d’onore e di morte, e andare a tutte le partite senza vederne una, passarle a urlare parolacce solo seguendo l’onda del momento o magari iniziandola io, muovere le masse come un’orchestra e dirigere i baritoni sui mortaccivostri, i tenori sui vaffanculo e i soprani sugli stronzicagasotto, e a fine partita uscire ordinatamente senza rompere nulla, né bagni né sedie, e fuori ingaggiare con onore risse fantastiche e stendere a terra un sacco di tifosi avversari a pugni nudi senza armi né catene, e incontrare il loro capobanda e poterlo affrontare senza intromissioni e vincere o perdere a seconda del momento e poi raccattare i feriti e andare tutti in birreria a festeggiare sbronzandosi e cantando canzoni tristissime che ci fanno piangere tutti come vitellini e infine accompagnarli alla stazione a prendere il treno perché la città di notte è pericolosa, si sa. Oppure restare qui, senza rispondere agli insulti educati e affilati di questo poveretto che ha passato una vita a affilare i suoi insulti educati, promettere di studiare per la volta dopo anche sapendo che non sarà così, e poi voltarsi e tornare al posto marciando a passo lento come una sposa tra due ali di banchi pieni di fiori adolescenti, sperare che almeno la cosa sia valsa a poter incrociare i suoi occhi verdi e tristi mentre scrutano senza attenzione un diario rosa posato sul suo banco, quello davanti al mio, in questo mondo di fuochi fatui e di piccoli eroismi inutili. (1997) 33