N.3-2006 Maggio - Giugno
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N.3-2006 Maggio - Giugno
ALLENATRI A cura di: Mario Miglio, Responsabile Didattico SIT Fitri Costantino Bertucelli, Responsabile Centro Studi e Ricerche Fitri Roberto Tamburri, Direttore Tecnico Fitri Chiara Casagrande, Responsabile Organizzativo SIT Fitri RIVISTA TECNICO SCIENTIFICA DELLA FEDERAZIONE ITALIANA TRIATHLON In questo numero hanno collaborato: Costantino Bertucelli - Responsabile Centro Studi e Ricerche Fitri Pietro Trabucchi - Psicologo squadre Nazionali Federazione Italiana Triathlon Giacomo Vinci - Tecnico Fitri Maggio 2006 Il controllo del carico d’allenamento di Costantino Bertucelli Abstract Il sovrallenamento o “overtraining” è una delle conseguenze più temute di un programma d’allenamento che non sia coerente, coordinato e controllato. Un eccesso di carichi allenanti, invece di elevare il livello prestativo dell’atleta, può provocarne uno scadimento. Tale decremento, a volte subdolo, può sembrare senza apparenti motivazioni razionali. Obiettivo dell’ articolo è di descriverne le caratteristiche al fine di poterlo prevenire. Il sovrallenamento (overtraining) – definizione Il sovrallenamento è stato definito, da diversi autori, come ♣ "uno squilibrio tra allenamenti, competizioni e tempi di recupero", ossia un eccesso di allenamenti e di gare, associato a tempi di recupero insufficienti ♣ “condizione nella quale la somma degli effetti biologici negativi provocati da allenamenti troppo intensi e/o gare ravvicinate si traduce in una incompleta rigenerazione funzionale di tutti i sistemi cellulari" ♣ termine generale indicante che l’individuo è stato sottoposto a stress, derivanti dall’allenamento e da altri eventi estranei (es. stile di vita), al punto da non essere in grado di esprimere una prestazione di livello ottimale dopo un appropriato periodo di rigenerazione; per una diagnosi di sovrallenamento è necessaria una caduta della prestazione Kuipers definisce l'overtraining come uno squilibrio tra allenamento e recupero provocante una disfunzione del sistema neuroendocrino a livello ipotalamico. Fry, parla di un abnorme aumento del volume o dell'intensità d'allenamento con decremento della performance. Furono soprattutto Fry et coll. a mettere l’accento sul fatto che è indispensabile il riscontro di un calo prestativo, in aggiunta agli altri elementi, per potere affermare che un atleta si trova in una situazione di sovrallenamento. Definizione del problema In merito agli elementi della struttura dell’allenamento che favoriscono l’insorgenza del sovrallenamento, si è portati a ritenere che incida maggiormente il volume di lavoro (specie quello caratterizzato da intensità relativamente elevate), rispetto all’intensità di per sé. Infatti l’elevazione del volume allenante porta come conseguenza una contrazione delle giornate dedicate al recupero Il rischio di overtraining, tuttavia, è soprattutto in relazione con gli squilibri tra i rapporti di carico e scarico nel programma d’allenamento Infatti, forti carichi di lavoro possono essere tollerati anche per lunghi periodi di tempo senza arrivare all' overtraining applicando i corretti principi dell’alternanza del carico. Il termine "sovrallenamento" è tuttora discusso e alcuni lo ritengono improprio, in quanto indicherebbe che la causa del calo prestativo debba essere ricercata esclusivamente nell’ eccessiva quantità dei carichi allenanti. In realtà, si è potuto osservare che le cause dello scarso rendimento sono molteplici e non correlate esclusivamente a errori nella pianificazione degli allenamenti Non esiste una netta demarcazione tra la normale fatica risultante dall’allenamento e il sovrallenamento (overtraining); vi è tuttavia una fase intermedia, rappresentata dal sovraffaticamento (overreaching o sovrallenamento a breve termine). Una delle caratteristiche che distinguono il sovrallenamento a breve termine da quello a lungo termine, è la constatazione che dal primo, dopo un adeguato recupero, è possibile ottenere dei miglioramenti prestativi, mentre una volta incorsi nel secondo, l’unica via di uscita è una fase di recupero che si protragga per diverse settimane, la quale non comporterà comunque miglioramenti della performance, bensì la necessità di ripartire da una bassa condizione fisica. stato di fatica \ stress da allenamento Dopo alcuni allenamenti pesanti per intensità e durata, è fisiologico che compaia uno stato di fatica, di stress; se vengono rispettati i tempi di recupero, la fatica scompare e la supercompensazione favorisce il ripristino e, anzi, il miglioramento delle capacità prestative. In tal senso sono sufficienti uno o due giorni di recupero o, al massimo, un periodo di sette giorni (microciclo di scarico o rigenerazione), in cui vengono effettuati allenamenti di scarico blandi perché la sintomatologia scompaia. Siamo all’interno di un normale andamento dei processi adattativi dell’organismo sottoposto a un programma di allenamento. Overreaching (short-term overtraining) definizione Transitoria riduzione delle capacità prestative, la cui durata abbraccia un periodo di tempo relativamente breve (da alcuni giorni fino a due settimane) L’atleta avverte uno stato di fatica superiore a quello che dovrebbe derivare da un normale carico allenante e non va confuso con le normali fluttuazioni prestative che si verificano nell’atleta di giorno in giorno, tuttavia la fatica può essere smaltita con un adeguato recupero e ciò non compromette i processi di supercompensazione. Si traduce in una riduzione o mancato incremento della capacità di prestazione intorno alle 4mM\L di lattato caratteristiche Sovrallenamento o Overtraining Quando l’atleta viene esposto acutamente ad allenamenti estenuanti, a competizioni ripetute e, non di meno, ad altri tipi di stress (ambiente lavorativo e familiare) tanto da non essere più in grado di esprimersi a livelli di rendimento ottimali, nemmeno dopo un appropriato periodo di scarico e di recupero, allora è giusto parlare di sovrallenamento o di "overtraining". Va sottolineato che, per poter diagnosticare con sicurezza uno stato di sovrallenamento, è indispensabile documentare un calo delle capacità prestative. Nell’ambito del sovrallenamento, occorre poi distinguere due diverse forme: il sovrallenamento a breve termine (short-term overtraining) o "overreaching" e il sovrallenamento a lungo termine (long-term overtraining) o "overtraining sindrome". A volte tale situazione viene espressamente ricercata dagli allenatori che la ritengono una componente normale dell’allenamento, specie se indirizzato alla ricerca di adattamenti massimi in funzione di una competizione. Alla base dell’overreaching sembra esservi una fatica di tipo "periferico" e, quindi, più tipicamente muscolare. Qualora una prestazione negativa, dovuta a uno stato di overreaching, non venisse riconosciuta immediatamente, l’allenatore potrebbe essere indotto ad aumentare ancora i carichi di lavoro, con l’intento di compensare il gap prestativo: in tal caso il risultato sarà di peggiorare la situazione, facendo scivolare l’atleta verso l’ "overtraining sindrome". Quella dell’overreaching è pertanto una fase molto delicata, che deve essere riconosciuta onde evitare il rischio di peggiorare il quadro. Overtraining sindrome (long-term overtraining) definizione sindrome caratterizzata da uno stato di esaurimento psicofisico di tipo cronico (prolungata nel tempo), che si associa a un calo della "performance" associata a sintomi di tipo ♣ organico (senso di fatica sia a riposo che in esercizio, stasi della capacità d’adattamento, riduzione della capacità di prestazione intorno alle 4mM\L di lattato) ♣ muscolare (dolenzia, faticabilità eccessiva), ♣ psichico (sbalzi del tono dell’umore, inappetenza, disturbi del sonno, diminuzione della motivazione) La prognosi è più severa: tale sindrome può durare settimane o mesi caratteristiche Una volta instauratasi, a differenza dell’overreaching, compromette i processi di supercompensazione. L’atleta appare svuotato, demotivato e nell’assoluta impossibilità di reagire positivamente agli stimoli indotti dall’allenamento. Implica uno stato di fatica di tipo "centrale", caratterizzata da alterazioni delle capacità di concentrazione e di motivazione. Nell’ ambito dell’ overtraining vanno differenziate due forme: overtraining di tipo "simpatico" caratterizzato da un’aumentata attività, in condizioni di riposo, del sistema nervoso simpatico, che implica accelerazione del battito cardiaco, eccitazione e irrequietezza. È più frequente negli sport a prevalente componente esplosiva, quindi di tipo anaerobico, e colpisce più frequentemente gli atleti giovani. Nel determinarlo, agli stress indotti dall’allenamento, si uniscono fattori socio-lavorativi ed ambientali. Riveste notevole importanza, nel determinismo della forma simpatica, anche la monotonia legata agli allenamenti. Sintomi caratteristici del sovrallenamento a dominanza “simpatica” a livello prestativo o calo della performance o diminuzione della forza o diminuzione della potenza massima o fatica generalizzata o difficoltà di recupero a livello cardiocircolatorio o aumento della frequenza cardiaca a riposo o aumento della pressione sanguigna a riposo o rallentamento della velocità di recupero della fc al termine di un carico a livello antropometrico o diminuzione della massa corporea, associata a perdita di grasso corporeo e\o a bilancio azotato negativo (calo tessuto muscolare) a livello immunologico o aumento della suscettibilità alle infezioni ed alle malattie, con modificazioni dei profili ematici immunologici o riattivazione di herpes virali a livello emotivo e comportamentale o demotivazione nei confronti dell’allenamento e della competizione o disturbi del sonno o instabilità emotiva o diminuzione dell’appetito o apatia e senso di depressione o difficoltà di concentrazione Si tratta di una serie molto vasta di sintomi che, tuttavia, quando compaiono singolarmente, se non accompagnati da calo della performance, non possono essere imputati ad una situazione di sovrallenamento overtraining di tipo "parasimpatico" caratterizzato da una soppressione dell’attività del simpatico e non da una vera e propria dominanza del parasimpatico. Ne deriva un tipico atteggiamento apatico e depresso (ridotta pressione sanguigna, ridotta fc a riposo, facilità nel sonno e nel riposo). Si riscontra prevalentemente negli sport di resistenza aerobici e nei soggetti più anziani ed è più difficile da individuare, perché i sintomi sono meno eclatanti e allarmanti. Il soggetto, infatti, si presenta in condizioni di buona salute, senza insonnia (piuttosto con la tendenza a dormire di più) senza perdite di peso e con appetito normale. E’ la forma più ingannevole: è infatti caratterizzata da una serie di elementi che facilmente potrebbero essere confusi con le modificazioni positive indotte dall’allenamento (per esempio, una più bassa frequenza cardiaca a riposo e un più rapido recupero della frequenza cardiaca stessa dopo sforzo) Sintomi caratteristici del sovrallenamento a dominanza “parasimpatica” o abbassamento della fc a riposo o più rapido recupero della fc al termine dello sforzo o decremento della concentrazione di lattato a carichi submassimali o decremento della produzione di lattato durante esercizio o diminuzione livelli plasmatici di adrenalina e noradrenalina al termine di sforzo incrementale condotto fino a livelli massimali o facilità d’affaticamento o ipoglicemia durante esercizio o comportamento flemmatico o depresso Diagnosi di Overtraining - markers per la diagnosi precoce e preventiva Non esiste “il test” o “il marker” che rivela lo stato di sovrallenamento; per un sicuro riconoscimento del problema, occorre incrociare diverse informazioni, riguardanti innanzitutto il livello prestativo del soggetto ( non si può parlare di sovrallenamento se la prestazione non è peggiorata), quindi parametri ematochimici e psicologici. L’alterazione di alcuni importanti parametri, insieme ai segni e ai sintomi della sindrome, possono rendere più facile la diagnosi di overtraining. L’elemento centrale della sindrome è naturalmente la riduzione della "performance", che dovrebbe essere quantificata attraverso il ri- corso a test funzionali più o meno complessi e precisi (determinazione del massimo consumo di ossigeno, della massima produzione di lattato, ecc.), ma che spesso appare chiara già dalla semplice analisi dei risultati ottenuti nelle gare o dal comportamento dell’atleta. Per facilitare la diagnosi sono stati proposti e utilizzati numerosi indicatori biochimico-umorali, tuttavia la sensazione generale è che nessuno di questi indicatori da solo è in grado di consentire una diagnosi di certezza, e per tale motivo, essa deve scaturire da un’analisi complessiva dello stato psicofisico dell’atleta e da una corretta interpretazione di tutti i parametri funzionali ed ematochimici disponibili. Quando i segni di OT si rendono evidenti è già troppo tardi, per cui è necessario prevenirli. Gli studi fatti per identificare markers in grado di monitorare precocemente la sindrome sono numerosi e spesso contrastanti ma emergono alcuni aspetti di particolare interesse che di seguito vengono trattati Glutamina E’ noto che il sistema immunitario prende parte importante nel meccanismo d’insorgenza del sovrallenamento. L’atleta sovrallenato può subire una significativa diminuzione delle difese immunitarie, responsabili di una maggiore vulnerabilità alle infezioni, particolarmente delle prime vie respiratorie. Fra le ipotesi di depressione del sistema immunitario vi è una diminuzione "da consumo" dei livelli ematici di glutamina, amminoacido essenziale per le sintesi proteiche che avvengono all’interno del sistema immunitario. È interessante notare che il calo della glutamina si verifica solo per sforzi esaustivi e prolungati (es. maratona), e non per esercizi anche intensi, ma di durata minore. Mackinnon e Parry-Billings hanno studiato a fondo la cinetica della glutamina notando che durante l'esercizio gli aminoacidi, glutamina compresa, aumentano in circolo dal 30 fino al 300 %. Va tenuta presente la funzione tampone degli aminoacidi (in particolare dell’alanina) così come il ruolo energetico del glutamato che può essere trasformato in succinato ed entrare nel ciclo di Krebs. Durante l'esercizio fisico i livelli plasmatici di glutamina aumentano per poi diminuire durante il riposo e tornare al livello pre-esercizio dopo qualche ora. In condizioni di stress la glutamina diminuisce soprattutto nel muscolo scheletrico. Nell'OT la glutamina sembra significativamente diminuita e a questo deficit viene attribuito l'aumento della frequenza delle infezioni delle vie respiratorie. Eccitabilità Neuromuscolare Lehmann indica la ridotta eccitabilità neuromuscolare (NME) come marker di OT. La minima corrente pulsata rettangolare in grado di generare una singola contrazione muscolare (con differenti valori di durata della pulsazione) viene indicata come indice della eccitabilità neuromuscolare (NME ) La NME è migliore nel soggetto ben allenato mentre deteriora notevolmente nelle prime fasi dell'OT; infine, dopo due settimane di riposo (rigenerazione dell'OT), mentre la NME ritorna ai livelli normali, i sintomi dell'OT permangono. Quindi la NME può essere un marker di inizio dell'OT , ma non del ripristino della condizione fisiologica. Ferro e ferritina La ferritina è un indice della consistenza dei depositi del ferro nell’organismo. Quando il ferro viene consumato in grande misura per un aumentato fabbisogno in relazione ai carichi di allenamento o per aumento delle perdite con la sudorazione, è necessario che le riserve contenute nei depositi vengano ricostituite rapidamente. La carenza di ferro nel sangue e nei depositi può essere determinata, oltre che da un aumento dei consumi, anche da un insufficiente apporto con la dieta o da una scarsa assimilazione attraverso il tubo digerente. È consolidata la convinzione che livelli soddisfacenti del ferro nel sangue (sideremia) e nei depositi (ferritinemia) consentano migliori prestazioni atletiche, anche perché mantengono elevata la concentrazione dell’emoglobina. Non è provato il contrario, ma è pur vero che atleti che manifestano un calo delle prestazioni presentano, a volte, un metabolismo del ferro deficitario. Anche un aumento dei valori della ferritina, e non solo un calo, potrebbe rappresentare un marker di uno stato di affaticamento, in quanto una significativa elevazione del valore di questo parametro si riscontra nel corso di malattie infiammatorie o di malattie infettive. Emoglobina ed ematocrito L’emodiluizione, causata dall’espansione del volume del plasma, conduce inevitabilmente a una diminuzione dei valori di concentrazione dell’ematocrito e dell’emoglobina. In realtà, non si registra una vera e propria diminuzione della parte corpuscolata del sangue (globuli rossi, bianchi e piastrine), ma solo una sua diluizione. L’espansione del volume plasmatico, che determina l’emodiluizione, rappresenta un adattamento positivo tipico delle attività sportive di tipo aerobico come il ciclismo, e il calo dei valori di concentrazione dell’ematocrito e dell’emoglobina non comporta un calo delle "performance", almeno fino a quando non si associno anche deficienze di ferro, distruzione dei globuli rossi durante esercizio fisico (emolisi) e disturbi della formazione dei globuli rossi da parte del midollo osseo. In tal caso si instaura un’anemia che dallo stato prelatente può passare al latente e, infine, all’anemia conclamata. Peso corporeo Nel pieno della stagione agonistica, oltre al massimo livello di prestazione, si raggiunge la stabilità del peso ponderale. Tutto il lavoro svolto in precedenza ci ha infatti consentito di abbassare la percentuale di grasso fino ai livelli minimi individuali, mantenendo tuttavia inalterati i valori di massa magra (la percentuale di muscolo). Quindi, in questo momento dell’anno, un calo del peso corporeo può essere indice di una riduzione della massa muscolare probabilmente derivata da un eccessivo carico di lavoro. Ecco la necessità di controllare periodicamente, almeno ogni due-tre giorni il nostro peso, nelle medesime condizioni (la mattina appena alzati) per verificare se ci sono variazioni significative. Frequenza cardiaca Un altro importante campanello di allarme della sindrome da sovrallenamento è l’andamento della frequenza cardiaca, sia a riposo che sotto sforzo. Se riscontriamo che, nei giorni successivi a uno sforzo intenso, la frequenza cardiaca a riposo è superiore rispetto a quella normale di questo periodo, dobbiamo sospettare un inizio di overtraining. Jeukendrup nel corso di uno studio effettuato su ciclisti professionisti mette in rilievo un significativo aumento della frequenza cardiaca nel sonno in corso di overreaching. Tale osservazione necessita di ulteriore convalida, dato il numero ristretto (7 atleti) del campione soggetto della ricerca. Anche sotto sforzo, la frequenza cardiaca può dare segnali importanti per evitare l’affaticamento. Può accadere che, seguendo una tabella di allenamento impostata con ritmi individuali definiti proprio dalla frequenza cardiaca, non riusciamo, pur correndo o spingendo rapporti impegnativi e andando a una velocità elevata, a innalzare i battiti del cuore fino ai valori richiesti dalla tabella. È come se il nostro cuore perdesse la propria brillantezza, probabilmente a causa di uno scarso recupero nei giorni precedenti, oppure perché l’uscita di allenamento risulta troppo impegnativa per le nostre capacità. In una simile situazione è importante interrompere il programma previsto ed optare per un’uscita ad andatura costante non troppo impegnativa. Altri sintomi Innanzitutto il dolore muscolare e la spossatezza generale, sensazioni che permangono anche a riposo. Questi sintomi sono accompagnati da una riduzione dell’appetito e della quantità (numero di ore) e della qualità del sonno. L’indolenzimento degli arti e la debolezza sono derivati da una forte carenza di alcune sostanze essenziali per la prestazione sportiva, come il ferro, i sali minerali (in particolare il potassio), gli zuccheri (glicogeno muscolare) e le proteine. Questa condizione viene aggravata dal fatto che, a causa della inappetenza, andiamo a ridurre la possibilità di reintegrare proprio quelle sostanze di cui avremmo bisogno. Il malessere diffuso provocato dalla stanchezza generale comporta un sonno breve e agitato, che va a scapito delle possibilità di recupero dell’organismo. Overtraining e sistema ormonale ¬ Catecolamine urinarie Mackinnon durante uno studio eseguito su 24 campioni di nuoto rileva che, nel corso di programmi di allenamento intensi ma di breve durata, la comparsa di OT può essere segnalata da una diminuzione del livello urinario delle catecolamine (già 2 - 4 settimane prima della comparsa dei sintomi di OT ). Alle stesse conclusioni era giunto in precedenza Lehmann che aveva notato una diminuita escrezione notturna di catecolamine correlata ad un esaurimento del sistema simpatico. Ho- oper, pur confermando la diminuita escrezione urinaria di catecolamine in corso di OT, nega il significato di esaurimento del sistema adrenergico in quanto i livelli ematici di catecolamine permangono normali o aumentati. ¬ Testosterone e cortisolo Un altro apparato che viene a essere interessato in caso di "overtraining" è sicuramente quello endocrino. L’aspetto più noto e studiato è quello riguardante l’equilibrio tra i livelli di cortisolo e di testosterone. Il cortisolo, considerato come espressione tipica della risposta allo stress, è un ormone con funzioni prevalentemente cataboliche, mentre il testosterone ha funzioni essenzialmente anaboliche. Il rapporto testosterone (totale o libero)/cortisolo viene considerato un indice indiretto del bilancio "proteico" dell’organismo e in particolare dei muscoli scheletrici. Secondo la maggioranza degli autori, uno spostamento in senso catabolico, indicato da un aumento del cortisolo e/o da una riduzione del testosterone, dovrebbe essere considerato un indice affidabile di sovrallenamento o quantomeno di un incompleto recupero dalla fatica. Adlercreutz e coll. ipotizzarono che una diminuzione del rapporto testosterone libero/cortisolo superiore al 30% rispetto alla norma del soggetto avrebbe potuto essere rilevatrice di una situazione di sovrallenamento. Secondo le osservazioni più recenti, invece, tale rapporto sembrerebbe più indicativo dello stato contingente di sopportazione del carico di lavoro, che potenziale marker di una sindrome da sovrallenamento propriamente detta Overtraining e sistema immunitario La disfunzione del sistema immunitario può non consentire il buon costituirsi della protezione contro sostanze estranee patogene (stato di immunodeficienza), ma anche essere a sua volta una causa di malattia; si vengono così a riconoscere le malattie autoimmuni quando l'organismo reagisce contro il "self" con manifestazioni sistemiche (es.collagenopatie, cioè le malattie del tessuto connettivo) o patologie d'organo (es. nefropatie, neuropatie ecc.), le malattie iperergiche (allergopatie), nonché le neoplasie dello stesso sistema immunitario (le malattie immunoproliferative). Negli ultimi anni un certo numero di Autori ha indagato anche le funzioni immunitarie degli atleti, interessandosi soprattutto alle alterazioni che si verificano subito dopo lo sforzo fisico intenso. Sebbene la competizione sportiva sia stata tradizionalmente considerata come una condizione recante benefici alla salute, gli studi condotti dimostrano che almeno per quanto riguarda il sistema immunitario i dati fin qui raccolti non orientano sempre in questo senso. Infatti si assiste, in quasi tutti i test eseguiti, alla comparsa dopo la prestazione sportiva di un quadro che ricorda quello delle immunodeficienze; tale condizione è sicuramente transitoria perché l'assetto immunitario è generalmente normale negli atleti a riposo. Esiste un aspetto che gli allenatori ben conoscono: quello della ridotta efficienza atletica dei soggetti “superallenati” che accusano un'aumentata suscettibilità alle infezioni. Questo ragionamento focalizza il problema dell'influenza dell'attività sportiva sul sistema immunitario; una buona difesa immunitaria rende un atleta meno suscettibile ai processi infettivi, così come una valida costituzione fisica rende meno probabili gli incidenti muscolo-scheletrici. È evidente che i processi infettivi sono nocivi non solo nell'imminenza delle competizioni, ma anche durante la fase di preparazione, perché alterano un programma di lavoro accuratamente preparato per mesi o addirittura per anni, come avviene nel caso dei Giochi Olimpici. Sono stati condotti numerosi studi sulla risposta del sistema immunitario allo sforzo fisico, senza che questi però abbiano avuto criteri di omogeneità e riproducibilità. Molte variabili infatti interferiscono su indagini di questa natura: in primo luogo il tipo di sforzo fatto praticare per caratteristiche di intensità, durata e vie metaboliche utilizzate; inoltre, è diverso il valore di una prestazione fisica se effettuata da un soggetto non allenato, da un praticante o da un atleta di livello internazionale. Un'ultima considerazione riguarda anche le tecniche immunologiche utilizzate nello studio, che sono state spesso diverse e legate anche al tumultuoso evolversi che queste hanno avuto negli ultimi anni. Le manifestazioni cliniche possono essere rappresentate da infezioni di varia natura per lo più virali, da forme banali quali quelle erpetiche, a malattie delle prime vie respiratorie, tonsilliti, gastroenteriti, fino a forme più gravi, tal- volta etichettate come "febbre ghiandolare", ma riconducibili a malattie quale la toxoplasmosi. In tutti gli studi è comparsa, immediatamente dopo lo sforzo fisico, leucocitosi coinvolgente tutte le subpopolazioni cellulari, comprese quelle linfocitarie La maggior parte dei ricercatori concorda nel rilevare un aumento più spiccato dei linfociti CD8 ("suppressor"), rispetto a quelli ai CD4 ("helper"); questo determina una riduzione del rapporto CD4+/CD8+ che rappresenta un primo segno di squilibrio immunitario. Anche le cellule "natural killer" (NK) sembrano essere modificate dall'esercizio fisico con aumento delle cellule del fenotipo CD16 e una alterata attività funzionale; sembra che l'attività NK raggiunga un massimo immediatamente dopo l'esercizio fisico, si riduca dopo due ore e non si sia ancora normalizzata dopo venti ore. Alcuni Autori sostengono addirittura che l'attività sportiva protratta a lungo deprima l'immunità aspecifica, rendendo così chi ha praticato a lungo sport, come chi ha fatto attività agonistica per anni, più suscettibile alle infezioni. Del resto in molti atleti di primo piano, anche il livello di immunoglobuline-G circolanti sembra essere più basso alla fine della stagione agonistica rispetto all'inizio. Alcuni ricercatori polacchi sostengono che la maggior parte dei parametri immunologici si rinormalizzerebbe nel giro di due ore, ma gli studi sul tempo di recupero attualmente sono pochi. In altri lavori non sono state riportate alterazioni a carico delle subpopolazioni linfocitarie a distanza di 24 e 72 ore dalla prestazione fisica La fase in cui il sistema immunitario è più vulnerabile è quella immediatamente seguente alla prestazione fisica Durante lo sforzo fisico una grande quantità di ormoni e mediatori sono liberati, per cui non è facile risalire ai meccanismi con cui essi interagiscono; lo stesso tipo di metabolismo coinvolto, aerobico o anaerobico lattacido, potrebbe avere influenza sul grado di coinvolgimento sul sistema immunitario. I tre fattori classicamente ritenuti responsabili della leucocitosi, emoconcentrazione per perdita di liquidi extracellulari, secrezione di catecolamine e incremento dei livelli sierici di cortisolo, appaiono essere abbastanza restrittivi. Importanti sono anche i neuropeptidi, visto che lo stress psichico intenso può determinare modificazioni immunologiche simili ed evolvere in forme larvate di immunodeficienza. Negli atleti ad alto livello i due meccanismi di stress fisico e psichico possono coesistere; questa ipotesi sembrerebbe avvalorata anche dalle osservazioni di alcuni ricercatori che hanno rilevato una maggiore alterazione nei parametri immunologici dei soggetti a più elevato rendimento agonistico. Tutto questo fa comunque pensare che la patogenesi delle modificazioni immunologiche indotte dall'esercizio fisico non è monofattoriale, ma legata allo sbilanciamento di quei fattori, stimolanti ed inibenti, che regolano nel suo insieme la risposta immunitaria. Molto poco sappiamo sui meccanismi con cui questo si realizza. Appare comunque consigliabile aggiungere ai controlli che si eseguono nel corso della pratica sportiva, specie negli atleti a più elevato livello competitivo, anche una valutazione delle funzioni immunitarie in modo da modulare la preparazione anche in funzione di una prevenzione di quelle manifestazioni infettive che pur essendo nella maggior parte dei casi banali, spesso impediscono al soggetto di fornire la miglior prestazione agonistica nel momento in cui questa è stata prefissata. La resilienza nel giovane Triathleta: cos’è e come costruirla di Pietro Trabucchi “La resilienza non è una condizione ma un processo: la si costruisce lottando” George Vaillant 1- Cos’è la resilienza Oggigiorno si tende a considerare le prestazioni sportive di vertice come la risultante di tre fattori: una genetica superiore, una preparazione atletica ottimale, il possesso di competenze psicologiche non comuni. La RESILIENZA appare sempre di più essere la competenza psicologica fondamentale degli atleti di vertice in tutte le discipline: ed in particolare in quelle di endurance . In senso lato il termine “resilienza” designa la resistenza psicologica: il vocabolo deriva dalla metallurgia ove designa la resistenza ai carichi di rottura di un metallo. Prima di arrivare ad una definizione precisa di resilienza, va premesso che si tende sempre di più a considerare l’atleta non solo come “uomo di fatica”, ma sempre maggiormente come un “risolutore di difficoltà”. Durante la sua intera carriera, infatti, lo sportivo deve confrontarsi con una serie enorme di problemi e ostacoli: fallimenti, sconfitte ed insuccessi –inevitabili anche per i più talentuosi; infortuni; demotivazione; sovraccarico di fatica, rinunce, sacrifici, stress; paura, ansia ed emozioni negative; difficoltà di rapporti interpersonali; incertezza sugli obiettivi e sul futuro; errori etc… Molto spesso gli atleti perdono –e “si perdono”- proprio su questi fronti, molto prima di essere smarriti sui campi di gara. Lo sport di alto livello necessita quindi di grande resistenza psicologica per fare fronte a tutto questo. Se definiamo la resilienza come la capacità di persistere nel raggiungere obiettivi sfidanti, fronteggiando in maniera efficace difficoltà ed eventi negativi, ecco che questa competenza si rivela essere fondamentale. 2- Il tecnico e lo sviluppo della resilienza nell’atleta giovane e maturo La resilienza è considerata una competenza psicologica, cioè una capacità acquisibile nel tempo e non semplicemente innata. L’età giovanile è l’epoca più adatta per “costruire” (forse è meglio dire : “aiutare lo sviluppo di”) questo tipo di competenza: più tardi, in atleti più maturi, cambiare le caratteristiche psicologiche diventa molto più difficile. Purtroppo però, la realtà ci propone spesso figure di atleti adulti carenti proprio in termini di resilienza: sempre alla ricerca dell’alibi, incapaci di assumersi la responsabilità delle proprie scelte e dei propri risultati, fragili di fronte a qualsiasi difficoltà. Una sorta di ”talentuosi bambinoni muscolati”. Sebbene questo sia un problema importante e diffuso, i tecnici e le federazioni spesso non sono “attrezzati” a gestirlo. L’errore che viene compiuto in molti casi è quello di cercare di gratificare e motivare l’atleta di questo tipo fornendogli ogni tipo di facilitazione ed incentivo, cedendo ad ogni suo desiderio o “ricatto”. Come vedremo più avanti si tratta di una strategia perdente perché contribuisce a indebolire ulteriormente il suo punto debole, la sua ridotta resilienza. Del resto, esperienze mutuate dai grandi club di calcio hanno dimostrato che la fornitura di gratificazioni e di incentivi ai giocatori facilita il rendimento fino ad un certo livello: oltre questo tende a ritorcersi contro la prestazione. Una sfida del futuro è perciò rappresentata dalla possibilità di fornire mezzi e strumenti ai tecnici –in primis a quelli che si occupano del settore giovanile- per agire sullo sviluppo delle competenze psicologiche dell’atleta. 3- Senso di controllo Per passare da una definizione teorica ad uno strumento operativo, ho proposto un modello di resilienza che si basa su quattro dimensioni: 1. Senso di controllo; 2. Tolleranza alla frustrazione; 3. Ottimismo; 4. Challenge Le dimensioni sono distinte in maniera analitica come indipendenti tra loro, ma nella realtà quotidiana esse si presentano con molti punti di sovrapposizione. Con la locuzione “senso di controllo” si indica la percezione da parte del soggetto di avere controllo su di sé e sull’ambiente. Si tratta –ripeto- di una percezione e non del reale controllo. Ad esempio un soggetto può percepirsi come in grado di fare qualcosa, pur senza esserlo oggettivamente. Il senso di controllo è una delle fonti motivazionali più importanti. Un giovane si impegnerà a fondo nella pratica del triathlon se sarà convinto di potercela fare ad ottenere qualche risultato; se invece –indipendentemente dalle sue possibilità reali –si sentirà “negato”, sarà ben difficile che sia disposto a impegnarsi e a soffrire per ottenere quel risultato. Le persone che ottengono grandi risultati sono sempre persone con un forte senso di controllo. I grandi leader o i grandi manager sono coloro in grado di aumentare il senso di controllo nei propri collaboratori. Nella mia esperienza personale con atleti, il loro senso di controllo si è rivelato un fattore psicologico cruciale per il raggiungimento degli obiettivi. E’ qualcosa che per esempio ho potuto osservare specialmente nel lavoro con Bruno Brunod per l’ottenimento dei record di ascensione delle montagne più alte di ogni continente sino al tentativo sull’Everest: senza una forte convinzione di essere in grado di “farcela”- l’atleta non riesce a fronteggiare i rischi e l’impegno emotivo e fisico che la preparazione e la prestazione richiedono. Quindi il senso di controllo è un parametro da monitorare, cosa che è stata effettivamente fatta durante alcune spedizioni. Diversamente, in presenza di basso senso di controllo si riscontra negli atleti: • Dipendenza dal tecnico e dalle situazioni logistiche L’atleta con basso senso di controllo tende a non assumersi la responsabilità dei propri obiettivi o dei propri allenamenti. Con il vantaggio di poter usufruire quindi di una serie di alibi. Alcuni episodi: l’atleta di vertice che prima di un mondiale all’estero si lamenta perché la pasta lì non è cucinata come a casa; atleti della Nazionale (quindi ‘professionisti’….) in palestra durante un collegiale non si allenano per aspettare il tecnico e chiedergli: “ma devo fare il ‘mio’ allenamento o quello che mi dirai tu?”. Nello sci di fondo, i casi diffusi degli atleti che ritiengono lo skiman responsabile dei suoi risultati. • Controllo rigido e onnipotente L’atleta con basso senso di controllo sopperisce tentando di realizzare un controllo rigido e onnipotente (illusorio) sulla realtà circostante; cosa che invece lo rende più vulnerabile poichè “il vero controllo è la rinuncia al controllo”. Si vedano gli atleti rigidissimi e “fissati” nel seguire un regime dietetico a tutti i costi, o che vanno in crisi se costretti da cause di forza maggiore a saltare un allenamento previsto. Il senso di controllo elevato permette invece flessibilità e spirito di adattamento. • Basso coinvolgimento motivazionale Se non controllo nulla, se nulla dipende da me e non ho prospettive di crescita e di progresso, sono poco motivato ad impegnarmi ed a soffrire. Il tecnico possiede una serie di strumenti da utilizzare per favorire la crescita del senso di controllo nei giovani atleti. Li elenco, accennando brevemente a ciascuno di essi, perché per esaminarli in profondità la lettura di un testo non è sufficiente: • stile di relazione Uno stile di relazione autoritario tende a creare semplici esecutori, robot in attesa di ordini e privi di iniziativa. Uno stile di relazione autorevole, che pone dei limiti ma incoraggia l’autonomia, è uno strumento che favorisce fortemente la crescita del senso di controllo nei propri atleti. • accorgimenti comunicativi Poca attenzione viene prestata da parte dei tecnici agli stili comunicativi nei con- fronti degli atleti: eppure la comunicazione verbale e non verbale rappresenta un punto strategicamente fondamentale. Le parole hanno “un peso” e non solo in senso metaforico: gli studi di Holroyd, 1984; litt, 1988 , Litt, Nye e Shaker,1993 e 95 sulla percezione del dolore hanno dimostrato che semplici parole possono modificare il funzionamento fisiologico nell’ascoltatore. Il tecnico ha necessità di offrire molti feedbacks all’allievo: però esiste un momento giusto per fornire questo tipo di comunicazione, come esistono delle modalità corrette per eseguirlo. Feedbacks distruttivi o svalutativi (o segni velati di svalutazione come lodi eccessive o assegnazione di compiti troppo facili) minano il senso di controllo e la fiducia in sé stessi degli allievi. • utilizzo di modelli I giovanissimi sono spesso attratti da modelli con caratteristiche mitiche, i “Grandi Campioni”, fonte di ispirazione inesauribile, ma allo stesso tempo pericolosamente distanti dalla propria realtà. L’utilizzo continuo di modelli del genere può però risultare controproducente fino a minare il senso di controllo, se utilizzati come esempi da seguire alla lettera; o se il ragazzo li vive come eccessivamente lontani e irraggiungibili, e non come qualcuno che può convincersi di poter un giorno eguagliare. • costruzione di situazioni di padroneggiamento Questo strumento è il più complesso a disposizione del tecnico, ma anche il più efficace. Senza pretendere di essere esaustivo, ricordo alcuni punti centrali: il senso di controllo si costruisce negli allenamenti e nelle gare. Occorre proporre situazioni ed obiettivi un po’ sfidanti, ma raggiungibili dal ragazzo (se irraggiungibili diminuiscono il senso di controllo). Nella fase di costruzione dell’autoefficacia, se si usa la gara come obiettivo, mettere in secondo piano vittorie e sconfitte, in favore dello sviluppo delle abilità e delle capacità prestative. Conta l’impegno e la qualità della prestazione – in altre parole- molto meno il risultato. Quindi utilizzare molti obiettivi specifici, a breve termine, raggiungibili, un po’ sfidanti. Dare molti feedbacks rispetto a questiobiettivi (feedbacks positivi e correttivi sul come migliorare la prestazione, non giudizi sulla persona). 4- Tolleranza alla frustrazione Il successo nel mondo sportivo è frutto di un processo lungo e faticoso, che richiede tutto l’impegno possibile. L’allenamento è il paradigma di questa visione del mondo, dove le cose si raggiungono passo dopo passo, attraverso le difficoltà e con grande fatica. Inevitabilmente questo cammino è costellato di sconfitte, di imprevisti, di errori: in una parola di frustrazioni. Saper tollerare e superare le frustrazioni, le delusioni e i disagi rappresenta un’altra competenza psicologica fondamentale nell’atleta ed una dimensione fondamentale della resilienza. Da un punto di vista cognitivo, la frustrazione è riconducibile alla delusione di aspettative irrealistiche e\o esagerate. E’ il caso, ad esempio, di quei ragazzini che entrati nelle squadre nazionali giovanili di triathlon aspettandosi vittorie facili e senza fatica, perché –prima di loro- le “avevano viste ottenere” da compagni di squadra più grandi. In realtà, anche a livello giovanile, ci si auto-inganna se si pensa che le cose “andranno facili e lisce”. Lo scontro con la realtà determina il crollo delle aspettative ed una frustrazione intollerabile, per cui ci sono stati giovani atleti molto promettenti che hanno smesso. Un tecnico racconta di aver portato i suoi ragazzi ad un raduno della nazionale giovanile e la cosa era vissuta dagli atleti con molta attesa; ma il confronto con gli altri, sentiti come troppo superiori ed irraggiungibili, li ha fatti sentire inadeguati e li ha spaventati, inducendone l’abbandono dell’attività a livello agonistico. Ulteriore esempio, il ragazzino che in piscina, presso la sua società, primeggia con facilità su tutti. In occasione dei raduni della nazionale giovanile, però, si trova a prendere secondi da tutti gli altri pari-livello. Ogni volta, racconta il suo tecnico, è un dramma: si demoralizza e vuole smettere. Le aspettative condizionano anche la percezione dell’affaticamento. Intorno a questo tema esiste un famoso esperimento eseguito alla Wake University: la fatica percepita è tanto più intensa quanto inaspettata. Ma è anche il caso pratico del ragazzo che si ritira all’inizio della gara, inspiegabilmente, senza un motivo apparente. Poiché si aspettava di fare meno fatica nel tenere i primi; o almeno, si aspettava una tale fatica solo in fasi più avanzate della competizione. I mezzi a disposizione del tecnico per lavorare sulla tolleranza alla frustrazione sono essenzialmente tre: la verifica delle aspettative, la gestione e l’apprendimento dalle frustrazioni e la loro ristrutturazione. Accenno brevemente a ciascuno di essi: la verifica delle aspettative dell’atleta –effettuata insieme al tecnico- consente di prendere consapevolezza delle immagini irrealistiche del mondo e degli eventi che il ragazzo porta con sé; riportarle alla realtà aiuta ad evitare di andare incontro a livelli di frustrazione intollerabili. Insegnare a gestire la frustrazione vuol dire insegnare al ragazzo a capire quali leve positive e quali negative egli abbia usato nel determinare un risultato sfavorevole. Si apre qui un tema ampio e complesso che esula dalle possibilità di questa trattazione: in ogni caso quello che si vuole ottenere è che il giovane impari a giudicare autonomamente il proprio operato, imparando dall’esperienza, evitando auto-criticismi eccessivi, salvando il positivo del suo prodotto. E’ altrettanto importante che gli venga insegnato a separare il suo valore personale dal risultato; imparando caso mai che ciò che conta per l’auto-stima è più l’impegno profuso, che il risultato finale. Ristrutturare le frustrazioni significa imparare a vederle in maniera completamente diversa: ad esempio come uno strumento doloroso ma molto utile per crescere. Ci sono atleti che hanno appreso a “vedere” situazioni sfavorevoli ai fini dell’allenamento come altrettante occasioni per crescere mentalmente: per esempio un atleta che svolgeva un lavoro fisicamente pesante tra i due allenamenti giornalieri non vedeva la sua situazione come una disgrazia dal punto di vista sportivo. Anzi, aveva ristrutturato nella sua mente la situazione come un vantaggio, perché lo abituava a sopportare molto di più la sofferenza rispetto ai suoi colleghi “più fortunati”. 5- Ottimismo C’è un ottimismo irrealistico e magico, come un’arte di raccontarsi balle; è l’ottimismo idio- ta, che ignora i dati di realtà a beneficio del famigerato “positive thinking”: un’americanata che vi invito ad applicare al 35° della maratona quando siete in crisi, per vedere se basta “pensare positivo” per andare avanti. C’è, fortunatamente, un altro ottimismo, di genere completamente diverso. Questo ha a che vedere con la speranza interna: cioè con la convinzione che gli eventi o le circostanze negative cambieranno; e che dunque occorre perseverare ed andare avanti fiduciosi. Questo è l’ottimismo che serve agli atleti. Per quanto l’ottimismo possa apparentemente avere molti punti di sovrapposizione concettuale con la tolleranza alla frustrazione, non è esattamente la stessa cosa. La tolleranza alla frustrazione riguarda il presente, il superamento di uno stato di disagio; l’ottimismo vero e proprio concerne il futuro. L’ottimismo non è un tratto di personalità stabile, altrimenti saremmo condannati a vedere eternamente il bicchiere o mezzo pieno o mezzo vuoto; è uno stile cognitivo, cioè un modo di pensare il mondo, che può essere appreso. Vediamo brevemente alcuni esempi dello stile cognitivo dell’ottimista, contrapposto a quello del pessimista: l’ottimista tende a vedere sconfitte o eventi negativi come momentanei e isolati invece che come un destino costante ed immutabile. E’ il pessimista che tende a codificarli in questo secondo modo: in questo senso si dice che spiega gli eventi usando il fattore “permanenza”. Cioè, se fin’ora ho nuotato male, lo farò per sempre. Il negativo diventa permanente, all’interno nel pensiero pessimistico. L’ottimista invece usa maggiormente, nel leggere gli eventi, la “temporaneità”. Come dire: se ho sempre nuotato male, non c’è ragione al mondo per cui non possa migliorare la mia tecnica. Un altro esempio di stile cognitivo pessimista ed ottimista: i pessimisti tendono a “generalizzare”. Cioè, ad estendere il negativo dal contesto di origine a tutta la loro sfera di esistenza. Per esempio, se una gara va male, è più facile per loro dirsi “sono un incapace” (generalizzando il negativo ad ogni ambito di vita) piuttosto che –come l’ottimista- leggere la sconfitta come un evento contestualizzato: “questa gara (ma non necessariamente tutte le altre) è andata male”. Questi sono alcuni esempi generali. Il problema che uno stile distorto di interpretazione del- la realtà dà luogo ad atteggiamenti e comportamenti spesso disfunzionali. Ovviamente non si chiede al tecnico di fare lo psicologo: piuttosto di aiutare il ragazzo a leggere correttamente gli eventi, evitando le distorsioni che possono avere ripercussioni in chiave di atteggiamenti, decisioni, comportamenti. 6- Challenge Con il termine “challenge” si indica convenzionalmente la capacità di accettare gli imprevisti, i problemi, le novità vivendoli come sfida e opportunità per nuovi apprendimenti invece che soltanto come difficoltà. Gli sportivi gonfiano già il petto: chi meglio di noi…? Eppure… Mi è capitato un paio di anni fa di fare un’interessante verifica sulla questione: ho potuto somministrare un questionario che misura la capacità di “challenge” a due gruppi di persone, diversi tra loro ed entrambi un po’ speciali. Da un lato un gruppo di giovani laureati rampanti – nella maggior parte ingegneri – che frequenta corsi di formazione presso l’università privata di una multinazionale petrolifera. Dall’altro una delle squadre di nuoto più forti d’Italia, che annovera nel gruppo diversi atleti olimpici, tra cui la medaglia d’argento ad Atene Federica Pellegrini. Il confronto tra i due gruppi ha dato risultati sorprendenti. Il “challenge” è risultato significativamente più basso negli atleti. Strano? Forse non troppo. Spesso si cresce sportivamente dimenticando di essere atleti in senso universale, prima che specialisti della propria disciplina. L’atleta – in senso generale – deve essere un individuo adattabile, mentalmente disponibile al confronto, alla sfida. Qualcuno che non si tira mai indietro. Se uno preferisce diventare un”impiegato” della sua disciplina, sceglie di limitarsi a coltivare al meglio il suo orticello, lasciando tutto il resto fuori. Spesso, purtroppo, succede. Però spesso questo atteggiamento non mette in salvo nessuno: prima o poi l’imprevisto, il fulmine a ciel sereno, la novità irrompono anche nelle più tranquille e routinarie carriere sportive. E specialmente nelle gare di triathlon. E possono condizionare fortemente la prestazione, se non ci si è abituati prima a gestirli. Non esiste una formuletta pratica a beneficio dei tecnici che vogliono migliorare la capacità di challenge dei propri allievi. Si può cominciare dall’abituare i ragazzi ad affrontare novità e cambiamenti in allenamento e nello stile di vita: la squadra di nuotatori di cui sopra organizzava dei collegiali in Cadore durissimi dal punto di vista fisico e mentale ma dove si faceva tutto meno che nuotare; i routinari nuotatori erano costretti a cimentarsi con attività di cui dominavano ben poco. La nazionale junior di Triathlon ha organizzato, poco più di un anno fa, un collegiale in montagna dove non si allenava nessuna delle tre discipline canoniche, ma dove i ragazzi –in gruppo- si confrontavano con difficoltà fisiche ed emotive come salire ferrate, calarsi nel vuoto, dover compiere lunghi percorsi in orientamento. Note 1. P.Trabucchi, “The Resilent Group, Cognitive and behavioural modifications in climbers performing in extreme environmental conditions”, proceedings of “Mountain & Sport. Updating Study and Research from laboratory to Field”, International Congress, November 2005. 2. P.Trabucchi, cit. 3. Informazioni sul progetto Resilienza della Fitri sono riportate sul numero 146 di Triathlete, maggio 2006. 4. P.Trabucchi, cit. Per i tecnici che volessero porre quesiti o casi sul tema lascio a disposizione il mio indirizzo mail: [email protected] www.psycoendurance.com Il metabolismo dei carboidrati di Giacomo Vinci L’attività di endurance è sostenuta dalle riserve energetiche che il corpo riesce a mobilizzare. Principalmente, tali riserve sono costituite dai carboidrati che vengono immagazzinati sotto forma di glicogeno e poi convertiti in ATP, per permettere le contrazioni muscolari necessarie per l’avanzamento. La trasformazione di glicogeno in ATP e la sua distribuzione fanno parte di un meccanismo estremamente complesso, studiata dalla scienza del metabolismo dei carboidrati. Data l’enorme importanza che tali studi rivestono, c’è una grande messe di studi ed articoli scientifici che trattano l’argomento. Oggetto del presente scritto è cercare di compendiare quanto trovato su diverse fonti in un unico lavoro, in modo da fornire nozioni scientifiche e trasformarle in strategie che consentano al corpo di lavorare al meglio. Nella sua forma chimica più semplice, la molecola di carboidrato formata da 6 atomi di carbonio, 12 di idrogeno e 6 di ossigeno (C6H12O6, o abbreviata in CHO o, più propriamente, in CH2O) è detta glucosio. Si sono tentati diversi modi per classificare i carboidrati; probabilmente uno dei più efficaci per descriverne le modalità d’accumulo e di funzionamento nella fisiologia del movimento è quello basato sull’indice glicemico (GI). In quanto fonte energetica primaria per lo sport di endurance, il GI riesce a classificare i carboidrati sulla base di un fattore estremamente importante, che è la rapidità con la quale il corpo riesce a farli passare nel sangue e la successiva risposta del pancreas, attraverso il rilascio di insulina. In breve, se un carboidrato ha un alto valore di GI, il valore di zuccheri nel sangue cresce molto rapidamente e la risposta insulinica sarà altrettanto rapida. Il valore al quale ci si riferisce, in letteratura, è quello del glucosio puro, al quale è stato dato, per ipotesi, il valore GI=100. In questo modo, tutti gli alimenti sono esprimibili con valori di GI maggiori o minori di 100 a seconda che inducano aumento di glicemia e rilascio d’insulina più o meno rapidi del carboidrato di riferimento. Tabelle che indichino il valore di GI degli alimenti più comuni sono molto diffuse; in generale, vengono definiti carboidrati semplici quelli con GI elevato, e complessi quelli con GI più basso. I cibi meno elaborati hanno, generalmente, GI più basso, richiedendo un tempo maggiore perchè il corpo riesca a metabolizzarli. E’ importante capire che non necessariamente i carboidrati con GI più basso siano migliori di quelli con GI più alto: comprendendo come il corpo utilizza queste fonti energetiche nell’esercizio, è possibile stabilire la tempistica secondo la quale si dovrebbe scegliere un tipo di carboidrato rispetto ad un altro. Il processo di trasformazione dei carboidrati in energia è tutt’altro che semplice: volendolo riassumere in poche parole, i carboidrati si combinano con l’ossigeno producendo energia, ed anche anidride carbonica ed acqua come sottoprodotti. Figura 1: il metabolismo energetico Il metabolismo degli zuccheri, se avviene in presenza di ossigeno, viene definito metabolismo aerobico. Il massimo rendimento si ha con il metabolismo aerobico, che ha diversi meccanismi di produzione dell’ATP, uno dei quali è la glicolisi. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. Catabolismo proteico Catabolismo dei grassi Carboidrati Aminoacidi Acetil-CoA Piruvato Ciclo dell’acido citrico Fig.2: Le principali vie metaboliche che convergono sul "ciclo di Krebs" La glicolisi è il modo in cui il glucosio accumulato nelle riserve corporee o nei cibi è convertito nella molecola di piruvato attraverso la glicogenolisi: in questo modo si producono due molecole di ATP. In condizioni aerobiche, il piruvato entra nel cosiddetto ciclo dell’acido citrico: esso, nel noto ciclo di Krebs (o ciclo TCA), genera 12 molecole di ATP nella conversione del piruvato. Oltre alla produzione energetica, il ciclo dell’acido citrico vede anche l’intervento degli aminoacidi: ciò, essendo questi proteine presenti nella muscolatura, induce catabolismo muscolare. In questa situazione, la perdita di peso che può ottenersi sarebbe a discapito della massa muscolare piuttosto che grazie al metabolismo lipidico. In assenza di ossigeno, o in presenza di quantità di ossigeno stechiometricamente insufficienti al procedere della reazione chimica, il glucosio viene trasformato in piruvato, che a sua volta è convertito in lattato. Trasportato, via circolo sanguigno, al fegato per la sintesi del glucosio, che viene poi reimmesso nello stesso circolo perchè sia distribuito alla muscolatura impegnata. La gluconeogenesi Il glucosio, dopo l’assorbimento da parte dell’intestino, può essere conservato sotto forma di glicogeno nei muscoli e nel fegato, come lunghe catene di glucosio, o utilizzato quando è ancora nel sangue. Sarà il tipo di esercizio, come intensità e durata, oltre alle caratteristiche individuali dell’atleta, a far propendere verso il primo o il secondo tipo d’immagazzinamento. Iniziato il lavoro, si osserva un innalzamento nel glucosio ematico, provocato dalla mobilizzazione delle riserve di glicogeno, derivata dal processo di glicogenolisi. La deplezione di tali riserve, che può avvenire già in meno di due ore, è alla base del tristemente noto “muro” del maratoneta. Il glicogeno muscolare può produrre glucosio soltanto all’interno dello stesso muscolo; quello del fegato viene rilasciato nel sangue. Quando entrambe le fonti sono esaurite, la glicogenolisi si arresta ed il livello di zuccheri nel sangue scende. Un’altra fonte energetica deriva dai sottoprodotti della gluconeogenesi, che è il metabolismo di glucosio e proteine, alla base della quale ci sono il piruvato, il lattato, il glicerolo e l’alanina. E’ stato stimato che circa il 60% dell’energia utilizzata per un esercizio di media intensità (58% VO2max) può derivare dalla gluconeogenesi. Al proseguire del lavoro, l’aumento di tale processo richiede l’utilizzo delle riserve proteiche del corpo (i muscoli): è stato dimostrato, tuttavia, che partire con riserve di glicogeno adeguatamente cariche ed, eventualmente, fornire glucosio esogeno nel corso dell’esercizio può ridurre l’impiego delle proteine muscolari. Il controllo ormonale del metabolismo dei carboidrati Lo stress acuto dell’esercizio induce la produzione ed il rilascio di diversi ormoni. Alcuni aiuti ergogenici aumentano queste risposte ormonali. Ad esempio, la caffeina interviene nel rilascio di glucosio senza l’aumento dei livelli ormonali; anche l’efedrina, la pseudoefedrina e le amfetamine inducono lo stesso effetto dell’epinefrina, l’ormone che interviene su muscoli e fegato per il rilascio del glicogeno e sulle scorte adipose per l’impiego degli acidi grassi. I livelli d’insulina, che tende a ridurre la quantità di zuccheri in circolo e che può essere, dunque, avversaria dei processi di glicogenolisi e gluconeogenesi, sono bassi; il livello di glucagone, che invece favorisce tali processi, s’innalza. L’esercizio ha un effetto simil-insulinico, provocando l’entrata del glucosio nella muscolatura senza la secrezione d’insulina. Se viene ingerita una forte quantità di glucosio prima dell’inizio del lavoro (30’-60’), si provocherà una risposta insulinica, che abbassa la glicemia nel sangue. Dopo circa 15’ di impegno, l’effetto simil-insulinico dell’esercizio induce un ulteriore calo di glicemia, che lascia il corpo svuotato di energie finchè non inizia la glicogenolisi (1). Accumulo di glicogeno e suo utilizzo La quantità di glicogeno muscolare ed epatico non è mai molto più alto del quantitativo che si può assumere nella normale alimentazione; tuttavia, essa può anche raddoppiare nel caso di diete particolarmente ricche di carboidrati. Alcuni studi che hanno messo a confronto gruppi di ciclisti e podisti che, seguendo un particolare regime dietetico, hanno aumentato le proprie scorte di glicogeno, hanno visto un significativo aumento dei tempi di esaurimento e delle velocità medie di percorrenza dei test (2). La velocità alla quale viene utilizzato il glicogeno muscolare dipende da diversi fattori, primo fra i quali è l’intensità dell’esercizio. Al 100% del VO2max si consuma 5 volte più glicogeno che al 50%; tuttavia, il tempo di esaurimento deriva più dalla quantità che era accumulata all’inizio dell’esercizio piuttosto che dal tasso di consumo. E’ stato dimostrato che l’ingestione di carboidrati durante l’impegno consente il risparmio delle scorte accumulate ed il prolungarsi del tempo di esaurimento (3). Durante l’esercizio, si può ingerire anche 1g di carboidrati al minuto (4): ciò significa fino a 60g all’ora, o anche meno se il corpo utilizza le proprie scorte. Perciò, per ottenere un aumento della prestazione sportiva di endurance richiede riserve energetiche colme all’inizio della prova, la riduzione dell’utilizzo del glicogeno e l’ottimizzazione dell’impiego dei grassi come fonte energetica. Par tali fini, è stato visto che allenarsi per 7-10 giorni per due ore al giorno provoca l’incremento degli enzimi ossidativi e la riduzione dell’uso di glicogeno, grazie all’aumento del numero di mitocondri (5). Il modo migliore per fornire glucosio è con una soluzione acquosa concentrata al 6%: ingerendo un litro di questa soluzione ogni ora, l’atleta riesce ad assumere i 60g di zuccheri necessari. La finestra glicemica La capacità del corpo di sintetizzare glicogeno dipende da diversi fattori: innanzitutto il grado di esaurimento finale; inoltre il livello d’insulina (responsabile della sintesi); infine la quantità ed i tempi di assunzione dei carboidrati dopo la conclusione dell’esercizio. Il 90% del glucosio ingerito al termine della prova viene ritenuto come glicogeno muscolare; una forte deplezione di riserve muscolari fa innalzare il tasso di sintesi, avendo indotto un’impennata nel valore dell’insulina. Per massimizzarne il livello, dovrebbero essere consumati carboidrati con alto GI (6). Si è, inoltre, dimostrato che il fruttosio è ottimo per la rigenerazione delle riserve epatiche, mentre glucosio e saccarosio per quelle muscolari. Il quantitativo è più importante della modalità di assunzione; dopo l’esercizio, l’appetito è di solito ridotto, e dunque risulta difficile riuscire a consumare un pasto abbondante. E’ stato dimostrato (7) che, ai sensi del ripristino delle scorte energetiche, mangiare molto frequentemente equivale a consumare quattro pasti abbondanti nelle 24h successive all’impegno. Anche la scelta del tempo è importantissima. La sintesi glicolitica è al suo massimo durante la cosiddetta finestra glicemica. In uno studio (8), nel periodo di 4h successivo ad un impegno ad esaurimento si è osservata una sintesi del glicogeno più rapida del 43%; lo stesso studio ha visto un incremento del 13% in caso di esercizio d’intensità moderata e non esaustivo. Altri studi hanno posto l’accento sull’importanza di consumare carboidrati all’inizio dell’impegno e 2 e 4 ore dopo il termine. In uno studio che ha messo a paragone l’ingestione immediata di carboidrati con quel- la ritardata di 2h, le biopsie muscolari hanno evidenziato una differenza in negativo del 67% per l’ingestione a +2h sulla presenza degli enzimi responsabili della sintesi del glicogeno (9). Anche dopo aver iniziato a consumare carboidrati, in ogni caso la quantità di questi enzimi è rimasta più bassa del 43% anche al controllo a +4h. Dunque è della massima importanza iniziare il ripristino delle riserve di glicogeno nelle prime 2 ore dopo il termine dell’impegno. Per quanto riguarda il quantitativo, la ricerca (10) dimostra che non c’è bisogno di ingerire più di 1,5g di carboidrati per Kg di massa corporea: un quantitativo eccedente questo valore non provoca effetti sulla sintesi del glicogeno (11). Gli studi più recenti puntano all’analisi dell’azione combinata di diversi macronutrienti. A questo proposito, si ottengono risultati contrastanti: mentre alcuni esperimenti non evidenziano alcun beneficio (12), altri sono favorevoli all’aggiunta di proteine ai carboidrati (13). In particolare, uno studio (14), in cui è stato specificato che il mix post-esercizio era composto di 112g di carboidrati e 40g di proteine, ha visto un incremento della velocità di sintesi del glicogeno muscolare del 39%. Il motivo ipotizzato è la secrezione di insulina provocata dal maggior contenuto calorico della soluzione. Nonostante i risultati siano contrastanti, tuttavia, credo sia comunque il caso di aggiungere proteine all’alimentazione che si segue nelle fasi di recupero, non foss’altro per reintegrare gli aminoacidi che il corpo ha utilizzato per la produzione energetica. La velocizzazione del ripristino delle scorte energetiche è condizione necessaria, in particolare, per gli atleti di livello più elevato e per gli sportivi che s’impegnano in sedute giornaliere multiple: come detto in precedenza, per ottenere i migliori risultati in allenamento e per ridurre il catabolismo muscolare, occorre iniziare l’impegno con le riserve energetiche a posto. Dal punto di vista enzimatico, l’enzima responsabile dell’immagazzinamento del glicogeno proveniente dall’alimentazione si chiama glicogeno-sintasi, presente in due forme di diversa attività: D (meno attiva) ed I (più attiva). L’insulina converte la forma D nella I: più è alta, dunque, la risposta insulinemica e maggiore sarà questo effetto. Questo è il motivo per cui occorre preferire, nel recupero, carboidrati con GI più elevato: il fruttosio, non è la fonte ottimale di zuccheri nelle prime fasi, nonostante sia comunque valido per riuscire ad avere un’elevata assunzione calorica. Il carico di carboidrati La dieta dell’atleta di endurance richiede che almeno il 60% delle calorie che assume provenga dai carboidrati: per gli uomini, dunque, circa 8-10g CHO/kg di peso corporeo/die; per le donne, circa 6-8g/Kg/die. Il glicogeno epatico viene utilizzato per mantenere costante la glicemia durante la notte: dunque, per gli atleti la colazione riveste un’importanza notevole, in particolare se è prevista una competizione o una sessione di allenamento impegnativa. Sarebbe ottimale consumare un pasto 2-3 ore prima dell’evento: in questo modo si evitano la sensazione di fame e problemi gastrointestinali nel corso della prova; se l’atleta è particolarmente ansioso, questi può anche optare per l’assunzione dei macronutrienti necessari assumendoli in forma liquida. Uno studio (15) ha permesso a ciclisti, alimentati con un pasto per-test di 5g CHO/ Kg ed una supplementazione di una soluzione all’8% in CHO, di ottenere risultati migliori di quelli riscontrati quando hanno consumato il solo pasto, ed ancor più elevati di quando si sono affidati alla sola supplementazione. Mentre, come detto, un carboidrato ad elevato GI è la migliore opzione per il recupero, per le fasi precedenti l’impegno occorre prevedere l’impiego di zuccheri a basso GI. Il carico di carboidrati tradizionale, che prevedeva un particolare regime dietetico per la settimana pre-gara, interferiva con i programmi di allenamento: fu sviluppata, successivamente, una strategia di tre giorni ed, infine di un solo giorno (16). Quest’ultimo protocollo sfrutta l’aumentato tasso di ripristino delle scorte di glicogeno nella finestra glicemica. Il giorno precedente la gara o l’impegno di particolare importanza, l’atleta s’impegna in un allenamento che prevede una ripetuta da 2’30” sopra-soglia, seguita da uno sprint da 30”. Dopo l’allenamento, e nelle 24 ore successive, l’atleta assume 12g CHO/Kg di peso corporeo (o, se è noto il peso della massa magra, 10g CHO/Kg di massa magra). I risultati del test sono stati molto lusinghieri, ed inoltre l’impegno brevissimo ed intenso il giorno precedente la competizione s’inserisce bene in qualsiasi programma di allenamento.