Divina Commedia. Purgatorio

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Divina Commedia. Purgatorio
LECTURA DANTIS
dedicata a Mons. Giovanni Mesini
“il prete di Dante”
Divina Commedia. Purgatorio
letto e commentato da
Padre ALBERTO CASALBONI
dei Frati Minori Cappuccini di Ravenna
Canto XXVIII
Paradiso terrestre. Il Letè. “La bella donna”. “Un corollario ancor per grazia”.
Il Paradiso terrestre è pieno di simboli; lo abbiamo già visto, per quanto ancora solo nel sogno di Dante,
nella persona e nelle parole di Lia: lei, simbolo della vita attiva, la sorella Rachele, della vita
contemplativa, un po’ come Marta e Maria, di evangelica memoria. Restano da decifrare realtà e
simbologia della “bella donna” che troveremo presto in questo canto.
All’alba di questo giorno, il sesto dall’inizio del viaggio, Dante, sull’ultimo gradino della scala che
immette nel paradiso terrestre, è stato solennemente incoronato da Virgilio, e può muoversi a suo agio in
questo nuovo regno, “sanza più aspettar” ordini e consigli, e “vago già di cercar dentro e dintorno/ la
divina foresta spessa e viva”. Il suo incedere è “lento lento”, a dire che è giunto ormai a una meta: saprà
poi che cosa ancora lo attende. Ora contempla un paesaggio da estasi: spira “un’aura dolce”, un “soave
vento”, e un tremolar di fronde che ci richiama l’incanto del paesaggio alle pendici del Purgatorio,
allorché anche là “l’alba vinceva l’ora mattutina/ che fuggia innanzi, sì che di lontano/ conobbi il
tremolar de la marina”; e sempre là, diceva Dante “noi andavam per lo solingo piano/ com’om che
torna a la perduta strada”; esattamente come qui, dove si celebra il paesaggio della nostra prima
dimora, non spiaggia ma giardino: ombra, augelletti che cantano, lor arte, all’unisono con lo stormire
delle foglie “che tenevan bordone a le sue rime”, tutto gli ricorda, benché solo pallida immagine, “la
pineta in su ‘l lito di Chiassi”, della ravennate Classe. Mentre a “lenti passi” si aggira tra l’intricata
selva, “ecco più andar mi tolse un rio” che scorreva placido “con sue picciole onde” a piegare, alla sua
sinistra, le erbe del suo grembo; mai si vide acqua tanto pura e trasparente, che pure scorre sotto
perpetua ombra nell’intrico dei rami, ad impedire i raggi di sole o di luna; egli dunque, estasiato, mira lo
splendore di questa natura, quand’ecco “di là dal fiumicello”, apparire cosa ancor più bella, “sì com’elli
appare/ subitamente cosa che disvia/ per maraviglia tutto altro pensare”, “e là m’apparve... una donna
soletta che si gìa/ e cantando e scegliendo fior da fiore”. Non sogno o visione questa, ma realtà. “Deh,
bella donna, che a’ raggi d’amore/ ti scaldi, s’i vo’ credere a’ sembianti/ che soglion esser testimon del
core”, così le si rivolge Dante, gratificandola con il pregnante titolo di “bella donna”, ad esprimere il
suo stupore davanti ad una immagine in cui amore e bellezza si esaltano a vicenda, leggiadra e bella,
ella va cantando; è lontana; allora la prega di avvicinarsi quel “tanto ch’io possa intender che tu canti”.
Ad esprimere meraviglia e stupore non trova per lei altro paragone che quello di Proserpina “nel tempo
che perdette/ la madre lei, ed ella primavera”; il mito non è erudizione, ma simbolo di chi, perdendo
primavera, è figura di chi ha perduto l’Eden. Acconsente la donna e “come donna che balli,/ e piede
innanzi piede a pena mette”, subito “volsesi in su i vermigli e in su i gialli/ fioretti verso me, non
altrimenti/ che vergine che li occhi onesti avvalli”; in questo incrocio fra la natura incontaminata e
l’uomo innocente, i desideri sono retti e la corrispondenza immediata; e “sì appressando sé” Dante ne
può intendere “’l dolce suono... co’ suoi intendimenti”. Giunta di là “del bel fiume”, “di levar li occhi
suoi mi fece dono”; e come “al cor gentil rempaira sempre amore”, così il sorriso ha negli occhi il suo
“riparo”, la sua sede; “ella ridea”, di un sorriso che non ha l’eguale, neppure della Venere perduta in
Adone, “trafitta/ dal figlio fuor di tutto suo costume”.
La donna, lontana “tre passi”, gioca con i fiori “che l’alta terra sanza seme gitta”, e che lì crescono
spontaneamente; bene, quella donna suscita un tale desiderio di vicinanza in Dante che al paragone poco
o nulla era l’odio che suscitò in Leandro la tempesta nello stretto “intra Sesto e Abido” che gli impediva
di raggiungere a nuoto, al di là, Ero, il suo grande amore.
Fin qui Dante è protagonista, e con la sua cultura classica ci presenta “la bella donna”, di cui ignora
l’identità, ricorrendo a Proserpina che coglie i fiori a primavera, al sorriso di Venere innamorata,
all’odio di Leandro per l’Ellesponto, per dire che tutto ciò è un nulla rispetto alla bellezza, al sorriso e al
canto di questa paradisiaca fanciulla; a dirci ancora del disappunto per quel rio che fa da cesura fra lui e
lei; poi è lei a prendere la parola, “voi siete nuovi, e forse perch’io rido,/ ... in questo luogo eletto/ a
l’umana natura per suo nido,/ maravigliando tienvi alcun sospetto”: si rende conto dello stupore di chi
le sta davanti, maravigliando, e ne interpreta il motivo, come cioè sia possibile che lei possa ridere in
quel luogo, certo meraviglioso, ma che segna la grande sconfitta dell’uomo; tuttavia “luce rende il
salmo Delectasti”, che così recita “poiché mi rallegrasti, Signore, con le tue meraviglie, esulterò per
l’opera delle tue mani”, a significare che fonte della sua gioia è la meraviglia della creazione, lì più che
mai rigogliosa. Indi si volge a Dante “e tu che se’ dinanzi e mi pregasti,/ dì s’altro vuoli udir”; ella è lì
per questo, “presta/ ad ogne tua question tanto che basti”.
Dall’ingresso nel paradiso terrestre, dopo le ultime parole di Virgilio, Dante è il protagonista e con lui
le donne, Lia con Rachele in sogno, ed ora quella che sta parlando con lui, Il linguaggio loro, siano esse
simbolo o realtà, è tutto intessuto di cultura biblica, e trova qui nell’Eden il suo luogo naturale; il primo
quesito di Dante riguarda proprio questo luogo: “l’acqua... e ‘l suon de la foresta/ impugnan dentro a
me novella fede/ di cosa ch’io udi’ contraria a questa”; poco prima Stazio gli aveva appena detto che il
Purgatorio è fuori dell’azione degli agenti atmosferici, ma l’acqua di questo rio/fiumicello, l’aura dolce,
il soave vento, come vi si accordano? E lei “Io dicerò”, e anche lei, a dissipare fraintendimenti, “la
nebbia che ti fiede”, tiene la sua lectio magistralis.
Dio, il Sommo bene, che solo in se stesso ha l’oggetto adeguato del suo Amore, ha tuttavia creato
“l’uom buono e a bene, e questo loco/ diede per arr’a lui d’eterna pace”. L’uomo però, per sua colpa,
qui è rimasto poco tempo, “dimorò poco”; ben presto “per sua difalta in pianto e in affanno/ cambiò
onesto riso e dolce gioco”; e la nostra attenzione si appunta sulle dittologie sinonimiche “pianto e
affanno”, “riso e gioco” che, per contrasto, si richiamano; e gioco sta per gioia.
Proprio perché gli agenti atmosferici, che causano “l’essalazion de l’acqua e de la terra”, vapori secchi
e umidi, venti e terremoti, non turbassero la serenità della vita degli uomini, Dio ha disposto che questo
monte si elevasse in così tanta altezza, “e libero n’è d’indi ove si serra”, ossia dalla porta del Purgatorio
che lo separa dal resto, come bene ha detto Stazio. Ora però presti attenzione. Poiché anche gli astri
girano all’unisono con il Primo Mobile, questo movimento rotatorio, giungendo a questo altissimo
monte, genera quella brezza costante che nulla ha a che fare con i venti che soffiano sulla terra; così qui,
tutto e sempre, è moto regolare “e fa sonar la selva perch’è folta”. Conseguenza ne è che i semi che le
piante qui generano e di cui impregnano l’aria, vengono dall’aria stessa trasportati fin sulla terra a
generare piante di ogni specie, a seconda della fecondità del terreno; questo spiega il mistero “quando
alcuna pianta/ sanza seme palese vi s’appiglia”; il paradiso terrestre contiene inoltre piante e semi
ancora ignoti sulla terra, il cui “frutto ha in sé che di là non si schianta”, non si raccoglie. Detto del
vento, de “’l suon de la foresta”, rimane la questione dell’origine dell’acqua, del rio/fiumicello:
“l’acqua che vedi non surge di vena/ che ristori vapor che gel converta” come da noi, dove il vapor
acqueo, convertito in pioggia dall’aria fredda, va a rifornire le sorgenti, “ma esce di fontana salda e
certa,/ che tanto dal voler di Dio riprende/ quant’ella versa da due parti”: in realtà dunque i fiumi sono
due e trovano la loro fonte in Dio, dal quale prendono quanto versano nelle due opposte direzioni. “Da
questa parte con virtù discende/ che toglie altrui memoria del peccato”, e se bevi da questo rio, il Letè,
perderai memoria dei peccati; se dall’altro, l’Eunoè, avrai memoria del bene; si ricordi però che “non
adopra/ se quinci e quindi pria non s’è gustato”: occorre bere di entrambe le acque, e in successione;
quale poi sia il sapore dell’acqua dell’Eunoè, certo superiore ad ogni altro, può solo dirgli “bevi e
saprai”.
E perché la tua sete di sapere sia finalmente sazia ecco in conclusione, “un corollario ancor per grazia”,
per quanto non richiesto: i Poeti dell’antichità, che si richiamarono all’età dell’oro, parlando di Parnaso,
ad altro non si riferivano che a questo luogo “qui fu innocente l’umana radice;/ qui primavera sempre...
nettare è questo di che ciascun dice”.
Qui, il biblico paradiso terrestre e il classico Parnaso coincidono: è l’intuizione di Dante!
Dante si volge “tutto/ a’ miei poeti, e vidi che con riso/ udito avëan”: omaggio ai Poeti di sempre.
Il corollario, posto a modo di cerniera fra mondo classico e biblico, è indice della prima rivelazione di
cui l’umanità non ha perso mai completamente l’eco, per quanto esile: certo, diretta depositaria è la
bibbia, ma traccia ne serba l’umanità in generale, compresa la classicità, così cara anche a Dante.
Indi, conclude, alla“bella donna torna’ il viso”; bella, sì; ma ancora non sappiamo chi ella sia.