1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie
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1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie
ASSOCIAZIONE “AMICI DELLA SCUOLA LATINA” COMUNITÀ MONTANA VALLI CHISONE E GERMANASCA Giornata della cultura occitana 2009 ATTI DEL CONVEGNO: “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 2 26 6 sseetttteem mbbrree 2 20 00 09 9 S Sccuuoollaa LLaattiinnaa ddii PPoom maarreettttoo Enrico Allasino Marco Stolfo Lorenzo Geninatti Riccardo Regis Silvana Allisio Stefano Martini C on l a partecipazione di: Moderatore: Matteo Rivoira Associazione “Amici della Scuola Latina” GIORNATA DELLA CULTURA OCCITANA 2009 Atti del Convegno: 1999-2009 Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie Scuola Latina di Pomaretto 26 settembre 2009 Relatori: Matteo Rivoira (moderatore), Enrico Allasino, Marco Stolfo, Lorenzo Geninatti, Riccardo Regis, Silvana Allisio, Stefano Martini Note biografiche: MATTEO RIVOIRA Laureato in Geografia linguistica presso l’Università di Torino e Dottore di ricerca in romanistica, lavora presso l'Atlante Linguistico Italiano. È stato consulente della Comunità Montana Val Pellice per il progetto di tutela linguistica (occitano e francese). ENRICO ALLASINO Laureato in Filosofia e Dottore di ricerca in Sociologia, oggi Responsabile dell’Osservatorio regionale sull’immigrazione - IRES Piemonte, è autore di numerose pubblicazioni, tra le quali: Lingue, culture, identità e politiche locali. Ipotesi per una ricerca sul Piemonte e Le lingue del Piemonte (con altri autori). MARCO STOLFO Dirige dal 2004 il Servizio Identità linguistiche, culturali e corregionali all’estero della Regione Friuli-Venezia Giulia e dal 2007 fa parte del Comitato tecnico consultivo per l'applicazione della legislazione in materia di minoranze linguistiche storiche, istituito presso il Ministero per gli Affari Regionali. LORENZO GENINATTI Funzionario del Settore Promozione del Patrimonio Culturale e Linguistico della Regione Piemonte. RICCARDO REGIS Lavora all’Atlante Linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale – ALEPO. Si è occupato di linguistica, sociolinguistica, linguistica percettiva e, ultimamente, di politica linguistica. È segretario di redazione della rivista quadrimestrale LIDI, lingue e idiomi d'Italia, coordinata e diretta dal prof. Tullio Telmon. SILVANA ALLISIO Funzionario amministrativo Comunità Montana Valle Stura, collabora con l’Associazione “Vou Rëcordàou” di Oncino, in Valle Po. I Quaderni dell'Associazione ne raccolgono le testimonianze. STEFANO MARTINI Funzionario amministrativo dell’ufficio turistico culturale della Comunità Montana Valle Stura, è responsabile dell’Ecomuseo della Pastorizia della Valle Stura. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” INDICE INTRODUZIONE agli Atti del Convegno 5 PRIMA PARTE INTERVENTI: Matteo Rivoira Introduzione al Convegno 7 Enrico Allasino Lingue, culture, identità: le politiche locali in Piemonte, nel campo delle minoranze linguistiche storiche 11 Marco Stolfo Dieci anni di Legge 482/99. Radici europee e risultati italiani 18 DIBATTITO 34 SECONDA PARTE INTERVENTI: Lorenzo Geninatti L’interpretazione della Legge 482 e la sua applicazione in Piemonte: progetti e realizzazioni 43 Riccardo Regis Spinte idealistiche e “verità effettuale”. Il caso del provenzale alpino 52 Silvana Allisio, Stefano Martini Storia di ordinaria tutela della lingua degli affetti. Esperienze in valle Po e valle Stura 61 CONCLUSIONI e DIBATTITO 66 ALLEGATO A: Diapositive relative all’intervento di E. Allasino ALLEGATO B: Immagini del Convegno Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” INTRODUZIONE Nell’ambito delle attività di promozione previste nel progetto 2006 finanziato mediante la Legge 482/99 e realizzato nell’anno 2009, è stato organizzato per sabato 26 settembre dalla Associazione Amici della scuola Latina, in collaborazione con la Regione Piemonte e la Comunità Montana Valli Chisone e Germanasca, il Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie”. Nella prima sessione del convegno, Matteo Rivoira (moderatore), Enrico Allasino e Marco Stolfo, ognuno a partire dal proprio ambito scientifico, hanno dato il loro contributo per la prosecuzione della riflessione mediante la quale si è tentato in questi tre anni di ancorare alla realtà effettiva quell’esperienza culturale molto particolare consistente nella tutela di alcune lingue minoritarie. Riflessione ormai ben avviata, anche grazie ai convegni come quello di cui presentiamo qui gli atti, che hanno voluto affrontare senza sotterfugi alcune contraddizioni proprie dei provvedimenti emanati dagli enti preposti all’applicazione della legge di tutela e delle pratiche attuate sul territorio: attività di formazione, di sensibilizzazione, di documentazione, di raccolta dati, di vera e propria militanza, in alcuni casi, legate soprattutto alla presenza delle Associazioni, delle riviste - come La Valaddo , ma anche Novel Temp, Coumboscuro, Valados Usitanos e Ousitanio Vivo – accanto agli Sportelli linguistici e ai progetti didattici attuati nelle scuole. Quale ricaduta sulla vita reale delle persone si è avuta del dettato legislativo, quale concretezza gli è stata attribuita, con quali strumenti e contenuti? E, in ultima analisi, a partire da quali presupposti? Se la lingua, insieme alla storia, ad alcuni luoghi della memoria, un paesaggio caratteristico, le specialità culinarie, il folklore, - per alcuni anche una bandiera - rappresenta uno dei classici elementi che “fondano” l’identità, vista sia come costruzione culturale, sia come eredità del passato, il tema dell’identità diventava centrale nel dibattito che ci riguarda. A noi interessava sottolineare come la via per definirla comporti comunque sempre una capacità di relazione, di rapporto con l’altro, di configurazione del futuro, senza richiamarsi a origini o a radici inventate. Ci è parso che la via meno ideologica fosse quella di andare a cercare i risultati del lavoro svolto fin qui nella concretezza dell’uso che si fa della lingua da parte di chi si riconosce in quella che possiamo chiamare l’identità alpina. Con questo convegno abbiamo quindi voluto tentare una prima valutazione nel decennale dell’approvazione della Legge 482/99, benché essa diventi applicativa con il Regolamento solo nel 2001. Enrico Allasino ha presentato i risultati della ricerca da lui condotta per conto dell’Ires Piemonte sulle politiche locali nel campo delle minoranze linguistiche storiche. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 5 Marco Stolfo, il cui campo di studi verte principalmente sulla tutela delle minoranze in Europa, si è addentrato in un’analisi dei risultati conseguiti in Italia a partire dalle radici europee della legge in questione. Poiché, grazie ai finanziamenti previsti, è stato possibile dar vita a progetti di formazione, coinvolgere i ragazzi delle scuole, gli insegnanti, i dipendenti comunali, i giovani che hanno lavorato agli Sportelli, si sono messe in moto delle potenzialità e investite delle risorse che costituiscono ormai una ricchezza per il territorio. Quale continuità potrà avere tutta questa operazione? Nella seconda sessione, quella pomeridiana, Lorenzo Geninatti, che si è sempre occupato dei progetti che gli venivano sottoposti in qualità di funzionario del settore promozione del patrimonio culturale linguistico, si è soffermato sulle modalità con cui la Regione Piemonte ha affrontato i problemi posti dalla applicazione della legge, sottolineando come essa abbia sempre dimostrato una grande attenzione per le sue lingue storiche. Riccardo Regis, esperto di politica linguistica, ha formulato alcune riflessioni circa il lavoro compiuto, fino ad oggi, sulle varietà di occitano (o provenzale) delle valli alpine piemontesi. Silvana Allisio e Stefano Martini, funzionari della Comunità Montana Valle Stura, da anni impegnati nella ricerca e nelle azioni sulla lingua a livello locale, hanno presentato alcune esperienze pratiche in valle Po e valle Stura, come quella dei quaderni dell’Associazione Culturale "I Renèis", che sono veri e propri racconti di vita scritti in lingua. È seguito un ricco dibattito, di cui riportiamo nel seguito i tratti essenziali. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 6 PRIMA PARTE Matteo Rivoira Introduzione Chiunque si sia cimentato nell’elaborazione di una qualsivoglia azione di tutela o di promozione linguistica si sarà trovato a mediare rispetto a una realtà complessa, a volte complicata, spesso contraddittoria. E forse non pochi avranno provato un senso di frustrazione dinanzi alla sproporzione tra i mezzi a disposizione e l’altezza del compito che ci si prefigge, quello cioè di contribuire alla vitalità di un’esperienza culturale che, per molti aspetti, rimane irriducibile al mondo che ci circonda. Il percorso lungo il quale ci siamo incamminati è lungo e tortuoso, e grande è la fatica rispetto ai risultati che è lecito attendersi, inoltre sono molti i rischi di perdersi per strada, o perché si è smarrito il senso di quello che si stava facendo o, peggio, perché si sono imboccate quelle che sembravano scorciatoie e si sono rivelate, invece, vicoli ciechi. I convegni organizzati nel contesto delle Giornate occitane della Scuola Latina in collaborazione con la Comunità Montana Valli Chisone e Germanasca sono, in questo cammino, occasioni per fermarsi a riflettere e – senza l’ansia del dover elaborare e realizzare progetti – nutrire la propria riflessione, sia come singoli sia come associazioni o enti, ascoltando i contributi di persone che a vario titolo si occupano della questione occitana. La “Giornata della cultura occitana 2007” era dedicata alla “Tutela e promozione delle lingue minoritarie attraverso i linguaggi dell’arte”, affrontati come terreno della possibilità per le nostre lingue locali. Di fronte al mondo tecnologico di oggi le nostre parlate si trovano sprovviste di termini e assai indebolite, tuttavia, anche di fronte all’onnipresenza della tecnica nelle nostre vite, vi sono ambiti in cui è necessario dire cose differenti, dove i significati sono più profondi e dove ha senso recuperare le lingue dei padri e delle madri. Lingue vive, il cui senso, che forse risiede più nel cuore che nella mente, va cercato nel piacere di sentire la propria lingua parlata dai figli, al di là delle posture ideologiche, al di là dei passatismi. Il piacere di usare le parole che esprimono la visione del mondo al quale ci si sente legati, parole capaci – come la poesia – di esprimere il ritmo essenziale delle cose. Lo scorso anno ci si è invece mossi su due livelli, da un lato continuando la riflessione sui linguaggi dell’arte e, dall’altro, affrontando una riflessione più articolata che aveva come oggetto alcune categorie che fondano il nostro discorso sulla minoranza linguistica, ma che spesso non sono sufficientemente comprese nella loro rilevanza: abbiamo così ragionato di «identità», concetto usato e – soprattutto – abusato in questi anni. Troppo spesso cucinato con una buona dose di “radici” e “tradizioni”, con il risultato di ottenere un piatto a dir poco indigesto, il cui sapore è quello dell’esclusione, della chiusura e della paura dell’altro. E non c’è da andar troppo lontano per trovare esempi che illustrino quanto vado dicendo: è di quest’estate una polemica inutile sul dialetto i cui contenuti, se c’erano, non riguardavano minimamente la tutela delle parlate minori e delle culture altre, bensì la difesa di una supposta cultura ancestrale e immutabile. L’identità di cui si è parlato nei nostri incontri era invece un concetto declinato in termini di costruzione consapevole, di scelte e di una continua negoziazione con le condizioni socioeconomiche delle nostre valli che sono zone di montagna, con i loro problemi e le loro sfide tipicamente ‘alpine’, prima ancora di essere ‘occitane’ (ma, anche volendo soffermarsi sull’aspetto linguistico, sarebbe comunque più opportuno sottolinearne maggiormente la dimensione plurilingue!). Quest’anno il percorso di riflessione si qui condotto in qualche modo s’interrompe (quantomeno a livello superficiale, poiché a un livello più profondo è evidente che non c’è una vera e propria soluzione di continuità). Come recita il titolo dell’incontro di quest’anno, nel 2009 ricorre il decennale dell’approvazione della legge 482/99 “Norme in materia di tutela Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 7 linguistica”. Non so dire se dieci anni siano una ricorrenza importante. A ben vedere, inoltre, la legge 482/99 diventa operativa grazie al suo regolamento attuativo soltanto nel 2001, tuttavia l’occasione era propizia per tentare un primo bilancio su questi ultimi anni caratterizzati dall’importante mutamento, a livello pratico, avvenuto nell’ambito delle azioni di promozione linguistica grazie ai fondi resi disponibili dalla legge 482/99. Una legge che naturalmente non è un testo isolato, ma si inserisce in un panorama più ampio, che vede da un lato la norma costituzionale come prius nel quale fonda il suo senso e in particolare, come è noto, nell’articolo 6, dove si preconizza la tutela delle minoranze linguistiche mediante apposite norme. Articolo che a sua volta amiamo collegare, in una sorta di genealogia forse più ideale che reale, alle istanze contenute nella Carta di Chivasso, redatta nel dicembre del 1943 dove si denunciava la politica fascista per la “soppressione della lingua fondamentale locale, laddove esiste, la brutale e goffa trasformazione dei nomi e delle iscrizioni locali, la chiusura di scuole e di istituti locali autonomi, patrimonio culturale che è anche una ricchezza ai fini della emigrazione temporanea all’estero” e si auspicava: “1) (il) diritto di usare la lingua locale, là dove esiste, accanto a quella italiana, in tutti gli atti pubblici e nella stampa locale; 2) (il) diritto all’insegnamento della lingua locale nelle scuole di ogni ordine e grado con le necessarie garanzie nei concorsi perché gli insegnanti risultino idonei a tale insegnamento”. Se la parentela è ideale, certamente all’articolo 6 si giunse partendo dalla riflessione sulle situazioni delle diverse regioni di confine e a statuto speciale, accogliendo gli emendamenti di Codignola, il quale nel suo intervento fece espressamente riferimento alla minoranza francofona delle Valli Valdesi. Inoltre, la legge 482 arriva dopo l’approvazione di numerosi statuti e leggi regionali dove si fa espresso riferimento al patrimonio linguistico, inteso soprattutto come bene culturale. Norme a loro volta parte di un più ampio processo che avviene in Europa, e vede nell’atto finale della conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (Helsinki 1975) un momento importante in cui si afferma che “gli Stati partecipanti, riconoscendo il contributo che le minoranze nazionali o le culture regionali possono apportare alla cooperazione tra di essi in diversi campi della cultura, si propongono, laddove esistano sul loro territorio tali minoranze o culture, e tenendo conto degli interessi legittimi dei loro membri, di facilitare questo contributo”. Ed è sempre in Europa che viene adottata la fondamentale Risoluzione Arfé del 1981, la prima di una serie di risoluzioni che porteranno all’elaborazione della Carta Europea delle lingue regionali o minoritarie del 1992. Strumento assai discusso – et pour cause – da linguisti, ma anche da militanti, la legge 482/99 è pur sempre – con tutti i suoi limiti, pensiamo per esempio all’esclusione della minoranza sinti – uno degli pochi strumenti di cui disponiamo e ha avuto, se non altro, il merito di stimolare una ripresa dell’attività legislativa a livello regionale1 e certamente anche quello di far affluire un cospicuo flusso di denaro (cospicuo rispetto a quanto si era abituati sino ad allora...), che in qualche modo ha determinato l’apertura verso nuove possibilità di azione e, in certi casi, ha favorito la professionalizzazione degli operatori culturali. Dopo una fase di militanza, durante la qual tutto era lasciato alla buona volontà di appassionati, sono così finalmente comparse alcune figure professionali che hanno garantito continuità ai progetti. Figure in parte proposte dal mondo dell’associazionismo, ma in alcuni casi dallo stesso osteggiate. Obiettivo di questo incontro è dunque quello di ripercorrere questi ultimi dieci anni tentandone un bilancio. Forse i tempi sono prematuri, tuttavia in questo momento, in cui determinate scelte politiche hanno fatto sì che il settore della cultura venisse indebolito e, nel caso specifico, si iniziasse a ridurre radicalmente il contributo economico per le iniziative attivate 1 Maurizio Tani, La legislazione regionale in Italia in materia di tutela linguistica dal 1975 a oggi, in LIDI-Lingue e Idiomi D’Italia, n. 1, 2006, pp. 115-158. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 8 grazie alla 482, credo sia importante almeno abbozzare, anche a livello territoriale, una riflessione critica su quanto è stato fatto e sulle sfide che ci si pongono davanti. Il primo intervento è quello di Enrico Allasino, responsabile dell’Osservatorio Regionale sull’immigrazione dell’IRES Piemonte, che già nel 2001 si era dedicato alla questione delle lingue, culture, identità, e delle politiche locali in Piemonte esponendo i risultati della sua riflessione preliminare in uno scritto2, nel quale si preconizzava una ricerca più approfondita. Tale programma di ricerca venne promosso anni più tardi dalla Regione Piemonte e affidato all’IRES, che, a sua volta, si è avvalso della collaborazione dell’Università di Torino. Si è trattato di un importante lavoro che, a mio avviso, risponde almeno in parte a uno dei desiderata espressi durante Convegno di Lanzo del 20023 da Vincenzo Orioles il quale, denunciando i rischi di “burocratizzare la legge” (una legge, non dimentichiamolo, che sin dalla sua formazione e nel modo in cui ci si propone di attuarla, punta molto su un livello che, almeno nel nostro caso, non esiste) individuava nell’apprendimento delle conoscenze della realtà socio linguistica e socio culturale nella quale l’azione di tutela si realizza il presupposto per un’azione efficace. L’indagine dell’IRES, per quanto non abbia risposto, ovviamente, a tutte le domande sulla situazione delle minoranze parlanti occitano, franco-provenzale, walser, francese e piemontese, in Piemonte, è chiaro che segna un momento imprescindibile e si pone, in qualche modo, anche come modello, dove alla sintesi e all’analisi dei numerosi dati ricavati da inchieste condotte sul campo si uniscono numerosi spunti di riflessione assai interessanti per le nostre comunità locali, come quelli introdotti nei paragrafi finali, firmati da Allasino, dedicati alle cosiddette “nazioni virtuali” e all’identità culturale. Seguirà il contributo di Marco Stolfo, da anni impegnato nell’ambito della politica linguistica, prima in Piemonte e poi in Friuli, che delineerà dal punto di vista storico e legislativo la nascita e l’evoluzione del quadro normativo attuale, incardinato in nel più ampio panorama europeo, fornendo importanti elementi per valutare la situazione attuale e le prospettive future. La riflessione proseguirà quindi entrando nel cuore di alcune questioni che pertengono a quella realtà complessa e a volte incoerente che è la lingua in azione. O, più correttamente, si tratterà di discutere delle azioni sulla lingua, che sono spesso e volentieri ancora più contraddittorie. Aprirà la sessione Lorenzo Geninatti, funzionario della Regione Piemonte che insieme ad Annamaria Morello segue ormai da anni tutto ciò che ha a che vedere con la tutela linguistica. Come si è detto, il Piemonte vanta una legge regionale che trova la sua radice in uno statuto che per molti versi si può considerare molto più pertinente alla realtà sociolinguistica in cui ci troviamo, rispetto alla legge nazionale. In esso infatti la lingua è considerata innanzitutto come bene culturale e la flessibilità della norma permette di calibrare assai meglio l’azione evitando quel processo di burocratizzazione evocato prima. A Geninatti quindi il compito di offrire un primo bilancio dell’attività del principale Ente impegnato nella tutela e promozione linguistica in Piemonte, fornendo parallelamente gli spunti necessari per affrontare il futuro prossimo che si prospetta assai critico. L’intervento di Riccardo Regis, invece, prenderà in considerazione, con l’acume e la chiarezza che gli sono proprie, alcune questioni legate alla politica linguistica dal punto di vista specificamente linguistico. In particolare affronterà la questione della standardizzazione e dell’elaborazione linguistica. Problema che forse non ha ancora turbato i sonni di chi opera nelle Valli Chisone e Germanasca e Pellice, che se ne chiamano abbastanza serenamente fuori, ma che tuttavia è un tema di grande attualità nelle nostre valli provenzali. Anche perché in qualche modo la norma legislativa favorisce in modo decisivo questo passo: in fondo le lingue sembrano esser tali soltanto nel momento in cui hanno completato il loro percorso di elaborazione. Il suo intervenendo si colloca perciò all’interno di questa riflessione come 2 Enrio Allasino, Lingue, culture, identità e politiche sociali. Ipotesi per una ricerca sul Piemonte, IRES Istituto di Ricerche Economico Sociali del Piemonte, working paper n. 150, settembre 2001. 3 Convegno Internazionale “Minoranze linguistiche: prospettive per l’operatività di una Legge”, organizzato dall’Amministrazione Provinciale di Torino nei giorni 23 e 24 marzo a Lanzo Torinese (To). Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 9 momento di approfondimento su questioni di primaria importanza per la tutela delle lingue minoritarie, perché se è molto importante ascoltare sociologi, antropologi e storici, che collocano la questione delle lingue minoritarie su uno sfondo culturale più ampio, non bisogna però mai dimenticare che si sta parlando della lingua, e la realtà linguistica non necessariamente corrisponde a quello che per principio ci pare bello affermare. Concluderanno la nostra giornata gli interventi di Stefano Martini e Silvana Allisio, i quali, oltre ad essere funzionari di Comunità Montana (della Comunità Montana Valle Stura di Demonte) attivi in prima linea sulla promozione e tutela linguistica, sono persone impegnate da anni nella ricerca e nelle azioni sulla lingua a livello locale, sempre fortemente attenti alla realtà che ci circonda e alle possibilità di documentarla. Se vogliamo tutelare e promuovere le nostre lingue locali, il primo passo è quello di far tesoro dell’esperienza culturale di chi ci precede e condensarne la memoria. I progetti e le iniziative messe in opera da Stefano Martini e Silvana Allisio hanno avuto esattamente questi obbiettivi: hanno tesaurizzato e condensato la memoria della ricchezza culturale delle nostre terre. Penso, in particolare, alla valle Po, dove, grazie a Silvana e a un’altra persona, vengono pubblicati ogni anno i quaderni di Oncino dell’associazione Vou Rëcourdaou, che raccolgono splendidi etnotesti, che costituiscono un’importante testimonianza dei ricordi di una comunità, ormai erosa dalle migrazioni, piccola e indebolita, che però in queste pagine si può ritrovare. E allo stesso tempo forniscono a chi voglia occuparsi delle parlate di questa valle un importante strumento conoscitivo poiché in esse vi può trovare la lingua così come è parlata dai testimoni. E la stessa cosa vale per i quaderni dell’associazione I Rëneis di Ostana (ai quali peraltro i quaderni di Oncino si ispirano). Si tratta di esperienze, analoghe a quelle condotte in valle Stura, pensiamo a “La lengo de ma maire”. Una parola ancora per Stefano Martini, per ricordare che per lungo tempo egli ha collaborato, con Arturo Genre, quando questi era all’università, e questo non per compiacersi nel ricordo, ma per mettere in luce la possibilità di fare rete all’interno delle realtà che si occupano di occitano nelle nostre vallate. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 10 Enrico Allasino Lingue, culture, identità: le politiche locali in Piemonte, nel campo delle minoranze linguistiche storiche La ricerca che vi presento è pubblicata nel volume “Le lingue del Piemonte”4, a cui rinvio per maggiori informazioni. La ricerca nacque nei primi anni 2000, proprio dall’incontro di comuni interessi ed esigenze con la dottoressa Anna Maria Morello della Regione Piemonte, con il professor Tullio Telmon dell’Università di Torino, a cui si aggiunse poi in seguito il professor Sergio Scamuzzi dell’Università di Torino. L’idea che ne è nata era, di fronte ad una legge che introduceva degli strumenti di tutela per le lingue minoritarie, di dotarci di informazioni, di attrezzarci a capire se, quanto e come questi strumenti permettevano effettivamente di tutelare questa lingua. Si trattava in altri termini di avere una sorta di fotografia al punto zero della situazione, per vedere poi come sarebbero intervenuti i cambiamenti. Se mi permettete un esempio banale, se faccio una legge per proteggere gli stambecchi devo avere un’idea di quanti stambecchi ho in quella zona, altrimenti dopo dieci o venti anni, viene da chiedersi se gli stambecchi sono aumentati o diminuiti, se la legge è servita a tutelarli o se invece ha peggiorato la situazione. Anche in questo caso bisogna avere degli strumenti per capire se la legge ha effettivamente ottenuto il risultato che si prefiggeva con il trascorrere del tempo. Compito particolarmente difficile, perchè, la lingua non è qualcosa di statico, non è un monumento che sta lì e che si cerca di proteggere invariato, ma è qualcosa che muta nel tempo, dove può cambiare la quantità di persone che la parlano, ma anche le occasioni, i modi in cui la parlano, anche il contenuto stesso della lingua, e oltretutto, come cercherò di spiegarvi, anche la valutazione dei risultati può cambiare molto a seconda del tipo di progetto, di visione della questione che si ha in mente. Per cui lo stesso risultato può poi essere considerato più o meno positivo a seconda dell’idea, direi quasi politica, che si ha della questione. Quindi un compito particolarmente complicato. Noi abbiamo cercato di fornire qualche strumento di base. Devo dire che, in realtà, il materiale raccolto dalle tante persone che, come Matteo Rivoira, all’epoca lavorarono a questa ricerca, era molto più abbondante: spero che vi saranno occasioni per valorizzarlo appieno. Allora, cosa possiamo dire sulla questione, appunto, dopo dieci anni di tutela, di leggi sulla tutela delle minoranze linguistiche? Vorrei cominciare con una questione che, apparentemente, non c’entra molto, ma che secondo me invece è molto importante tenere presente: la questione demografica. Questa (diapositiva 10) è quella che in gergo si chiama una piramide di età, anche se, ormai, in tutti i casi, in tutte le regioni italiane questa piramide assomiglia a un fungo, (è una piramide nei paesi in via di sviluppo). Ogni barretta orizzontale corrisponde al numero di persone residenti in quelle due aree, area occitana e area franco provenzale, che hanno quella specifica età. Allora qui vediamo che a partire, più o meno, dai primi anni settanta, il numero di nati è diminuito molto e quindi i giovani sono molto poco numerosi. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che se anche questi giovani continuano a parlare in alta percentuale la lingua di quell’area, comunque il numero di persone in grado di parlare quella lingua è destinato a diminuire. Sappiamo dallo stesso testo della ricerca che poi, in realtà, mentre tra le persone anziane, il numero di persone in grado di parlare la lingua locale, il dialetto (userò lingua locale, dialetto, senza formalizzarmi – nel questionario noi, alla gente, abbiamo chiesto se conoscevano il dialetto, perchè altrimenti diventava un inviluppo di 4 Enrico Allasino, Consuelo Ferrier, Sergio Scamuzzi, Tullio Telmon, Le lingue del Piemonte, IRES Istituto di Ricerche Economico Sociali del Piemonte, Torino, 2007. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 11 complicazioni); allora dicevo, il numero di persone in grado di parlare dialetto, è praticamente il 90% tra i più anziani; poi man mano diminuisce e fra i quarantenni che è il 20%, più o meno. Solo che il 20 o 30% di 2000 persone fa una certa cifra, ma se il numero assoluto di ventenni è la metà dei quarantenni, il 20% di costoro darà un numero di persone in grado di parlare la lingua molto minore. Avete capito il mio ragionamento: anche se la percentuale di persone che parlano dialetto resta alta, comunque il numero assoluto è destinato a crollare. C’è un’altra cosa da dire, che qui non si vede molto, ma che è ben presente. Qui in mezzo, già a partire dalle età intermedie, ma soprattutto tra i neonati, c’è una quota di persone che sono degli immigrati stranieri. Forse sapete che il comune piemontese che ha la più alta percentuale di residenti stranieri è Pragelato. Dopo c’è Viganella, nel Verbano Cusio Ossola. Qui parliamo di residenti, sono in regola, non si parla di gente che è li di passaggio. Non c’è nessuna ragione per cui questi giovani immigrati non possano e non debbano imparare la lingua locale, però capite che il quadro si arricchisce, si complica un po’. Poi naturalmente bisognerà essere convincenti nello spiegare perché dovrebbero investire tempo e fatica nell’apprendimento della lingua locale. Se l’idea che prevale è quella che circola in alcuni ambiti politici, che gli stranieri è meglio che se ne vadano, mi spiegate voi perchè un bambino cinese o rumeno dovrebbe darsi da fare a imparare l’occitano a Pragelato? Gli verrà da pensare che è tempo perso. A mano che l’obiettivo finale non sia esattamente questo, di restare dieci famiglie del posto, che controllano tutto e gli altri, vadano, vengano, non interessa. Forse sono polemico, ma era per capirsi, per capire i termini del problema, comunque il numero di parlanti è destinato quantitativamente a diminuire. Tornando a noi, la questione delle lingue minoritarie, detta in estrema sintesi, nasce in qualche modo da una sorta di “movimento geologico”, carsico, deriva dei continenti, che noi sociologi chiamiamo “processi di modernizzazione”, che sono dei processi che si sono svolti nell’arco di secoli, in alcuni casi. In altri paesi sono stati concentrati in pochi anni, causando una serie di problemi e che hanno portato a quelle trasformazioni epocali che, per quanto riguarda la lingua, hanno voluto dire, per esempio, che la miriade di parlate locali che si erano sviluppate nel corso del tempo, sono state tendenzialmente inglobate, sottomesse ad una lingua nazionale, che la cultura si è molto centralizzata con scuole, università, élite culturali che, in qualche modo, tendevano ad imporre la loro egemonia a livello di un intero stato nazione. Un processo secolare che ha fatto sì che oggi parliamo appunto di Francia, di Spagna, di Italia. Naturalmente questi sono processi storici, di cui noi adesso conosciamo gli esiti ma che, potevano essere aperti; per essere banali, noi qui parliamo italiano, non perché siamo stati invasi dai toscani e i toscani ci hanno costretto a parlare italiano, ma perchè un processo storico molto più complesso ha fatto sì che la cultura di lingua italiana, che non è esattamente toscana, abbia in qualche modo avuto un prestigio che andava al di là di quello militare. Nel caso della Francia la storia è un po’ diversa. Comunque quello che interessa dire è che questo processo carsico, storico, è quello che ha portato, nel corso di molti secoli, a questa situazione, in cui appunto, abbiamo delle lingue che si sono limitate negli anni in un ambito locale ed altre che sono diventate lingue nazionali. Ma a fianco di questo processo di lunga durata, ne è emerso uno più recente (più recente, ma non per questo meno importante), che ha fatto sì che invece si sia in qualche modo ricreata la condizione per cui delle identità locali, delle identità più variegate, meno sottomesse ad un potere nazionale, riacquistassero interesse e valore. Questo è successo a livello individuale: mentre un tempo un contadino di Pomaretto aveva un percorso di vita molto legato a questa condizione, tolte rare eccezioni, non aveva grandi possibilità di fare altre cose, se si recava anche solo nei paesi vicini, era evidentemente identificabile, anche dall’abito. Avete presente le tavole illustrate dell’Ottocento: “costume della valle…” era proprio un modo di marcare l’appartenenza. La propria identità era non tanto esibita, ma era naturale, vestendosi nel modo in cui ci si vestiva ci si dichiarava appartenenti a quel gruppo. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 12 Oggi tutto questo è cambiato. Noi possiamo essere, appunto, un contadino di Pomaretto, ma possiamo allo stesso tempo far parte di un club che si occupa di tutt’altre cose, ascoltare musica non tradizionale, leggere libri e riviste sui temi più vari pubblicate lontano. Se andiamo a Torino possiamo passare del tutto inosservati perché non siamo più riconoscibili come tali, possiamo andare in vacanza in paesi lontani, senza esibire segni di appartenenza locale. Cioè in qualche modo le identità si sono slegate da questi pesanti condizionamenti locali, è possibile rivendicare delle appartenenze multiple. Questo è successo anche a livello territoriale, per cui, mentre va avanti questo processo di globalizzazione che, in qualche modo, sembrerebbe uniformare tutto, proprio per contrastare questo effetto di globalizzazione, ma anche, in qualche modo, per entrare nella globalizzazione, diventa utile, importante, avere delle risorse locali. Di nuovo, faccio un esempio banale: mentre un tempo, pochi decenni fa, poteva essere utile dire “Noi produciamo tanto formaggio, ne produciamo tanto e costa poco, non ha nessuna importanza che qualità è, basta che ci sia da mangiare”, in certe zone, in altri paesi resta così. Oggigiorno vedete invece che è diventato importante non produrre tanto e a basso costo, ma diventa importante avere prodotti che invece hanno qualità particolari, si differenziano dagli altri. Questo non solo per contrastare la globalizzazione, ma al contrario, per entrare nel gioco della globalizzazione. Se voglio vendere in Cina, appunto, o mi butto a stracciare i prezzi, a produrre cose a prezzi bassissimi, con scarse possibilità di successo, oppure, al contrario, devo spiegare perchè il mio prodotto locale ha qualche cosa che può interessare la Cina, o gli Stati Uniti. Sono stato molto veloce, ma spero di non essere stato troppo confuso. Allora, cosa c’entra tutto questo con il nostro tema? C’entra perché anche la legge sulle minoranze linguistiche, secondo me, nasce, è portata da queste due “zolle continentali” che si incontrano. Nel senso che è evidente che questa legge porta ancora con sé dei riflessi della situazione del nazionalismo della modernizzazione della prima versione che vi ho dato. Non a caso l’ufficio ministeriale che si occupa della questione delle minoranze linguistiche si chiama, o almeno si chiamava quando ho fatto la ricerca un paio di anni fa, “Ufficio per le zone di confine e le minoranze etniche”, perché l’idea era ancora che le minoranze linguistiche interessavano soprattutto dei punti di contatto tra i diversi nazionalismi. Il problema era laddove il nazionalismo italiano entrava in contatto con quello slavo, con quello germanico, o con quello francese, e allora bisognava, tra potenze, tra stati nazionali, trovare un accordo per far sì che i gruppi minoritari oltre confine vedessero protetti i loro diritti. D’altra parte è anche evidente che questa legge si colloca oramai appieno in questa situazione dove le risorse locali, la valorizzazione delle identità locali è diventata qualcosa di non solo possibile, ma addirittura di importante da giocare. Non si tratta più di contrapporre nazione e nazione, ma, in qualche modo, di permettere lo sviluppo di risorse, di identità, di caratteristiche locali. Questo si manifesta anche nella situazione del Piemonte? Certamente sì. Allora, uno dei modi in cui si manifesta questa situazione è questo: la legge permetteva ai Comuni di chiedere di essere riconosciuti come appartenenti alla minoranza. La cosa curiosa, che è stata anche un po’ lo stimolo, soprattutto per i linguisti a lanciarsi in questa ricerca, era che molti Comuni che hanno chiesto subito, per primi, appena uscita la legge, di essere riconosciuti come minoranza linguistica, nell’inchiesta che il professor Telmon e i suoi collaboratori avevano fatto negli anni settanta sull’uso delle parlate locali in Piemonte, non risultavano appartenere a queste minoranze linguistiche. Cioè sono comuni in cui non si parlava occitano, franco provenzale, walzer - i comuni che Telmon ha chiamato “deliberanti e non appartenenti” - sono quelli che hanno chiesto e ottenuto di esser riconosciuti come appartenenti alla minoranza, ma negli anni settanta, quando si può immaginare che la lingua locale fosse più conosciuta, non erano di lingua minoritaria; insomma, si parlava piemontese, per esser chiari. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 13 Mentre invece in qualche Comune, in cui indubbiamente si parla franco provenzale o occitano o è conosciuto il francese, hanno chiesto solo dopo, con più calma, di esser riconosciuti. Questa (diapositiva 3) è la situazione dei Comuni francofoni tre anni fa. Qui vedete che c’è un certo numero di Comuni che hanno chiesto di essere riconosciuti come francofoni, ma a Telmon non risultavano essere tali negli anni settanta. Mentre invece parecchi sono quelli gialli, in cui era presente negli anni settanta una, se pur ridotta, presenza del francese come lingua locale, studiata a scuola, non l’avevano ancora fatto. Questa (diapositiva 4) è la situazione dei Comuni franco provenzali, anche qui parecchi Comuni della bassa valle non avevano chiesto riconoscimento, mentre invece alcuni, in cui non si parlava franco provenzale, avevano chiesto di esser riconosciuti. E questa (diapositiva 5) è la situazione dei walser, dove parecchi Comuni hanno chiesto di esser riconosciuti come minoranza walser, anche se più nessuno lì parla o ha mai parlato tedesco. Situazione curiosa perchè, se ci pensate, di solito appartenere a una minoranza è considerato uno svantaggio. Non a caso appunto ricordava Rivoira che la legge non ha messo nulla sulla minoranza sinti, che mi permetto di ricordare, è forse la vera minoranza discriminata che abbiamo qui in Piemonte. Cosa possiamo dire su questa situazione? La mia spiegazione era, in realtà, che ciò che hanno chiesto questi comuni, in cui non c’era la minoranza linguistica, ma hanno chiesto di essere riconosciuti come tale, fosse soprattutto il riconoscimento di una qualche forma di specificità, di autonomia, di distinzione rispetto agli altri. E perché questo? Perché probabilmente qui si sedimentano diversi fattori. La prima spiegazione potrebbe essere che volevano attingere ai fondi disponibili, come ha ricordato Rivoira; questo certamente esiste. Non dico che sia una cosa scandalosa: è esattamente quello che dicevo prima, cioè che nella situazione attuale conviene avere qualche carta da giocare, risorse, per cercare di avere riconoscimenti e anche finanziamenti. Questo può aver giocato ma, secondo me, c’è altro. C’è anche il fatto che chiedere di essere riconosciuti come appartenenti ad una minoranza linguistica era anche uno strumento per chiedere un qualche riconoscimento come area montana, come area che vorrebbe avere qualcosa di diverso da altri Comuni. E di nuovo, questo non solo perchè può essere giocato per chiedere soldi, ma anche in giochi di strategie, di alleanze, di costruzioni di progetti. Quello che ho cercato di argomentare nel saggio che ho scritto nel volume (“Nazioni virtuali”) è che qui, in realtà, si incontrano diverse visioni della questione. Questo sulla base di un certo numero di interviste a sindaci, a esponenti locali: non sono opinioni mie personali. Intanto, attenzione a una cosa: quando parliamo di area occitana, area franco provenzale, cioè quando guardiamo queste popolazioni, non stiamo parlando di una unità etnica e linguistica, non stiamo dicendo che tutti qui appartengono a un gruppo omogeneo. Se guardate questa immagine (diapositiva 8), che è la distribuzione della lingua conosciuta per area linguistica, nell’area che ha chiesto di essere riconosciuta come appartenente alla minoranza occitana, la prima lingua locale più conosciuta, dalla metà degli abitanti, è il piemontese, mentre l’occitano è sul 40%. La distribuzione del dato è affidabile. Vi posso assicurare che mi sono guardato una per una le interviste e tutte le volte che trovavo, per esempio, un’anziana signora dell’alta Val Maira, che aveva i genitori nativi di quella zona e che diceva di parlare piemontese, ho riclassificato la sua prima lingua in occitana. Abbiamo tenuto conto di quest’effetto. Nonostante ciò, vedete che anche in queste aree minoritarie la prima lingua più conosciuta è il piemontese. Un’altra cosa interessante è che, quando passiamo a vedere la seconda lingua conosciuta (diapositiva 9), la situazione si fa più variegata. Intanto la cosa interessante che i linguisti mi dicono essere tipica di questa zona, è che c’è un numero non piccolo di persone che sono in grado di parlare più lingue locali, cioè possono passare dal francese, al patouà al piemontese, Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 14 senza particolari problemi e in base all’interlocutore che hanno davanti. Mi dicono i linguisti che queste non sono cose che succedono dappertutto. Esiste quindi una forte compresenza e non opposizione delle varie lingue e poi c’è anche, nella figura, la presenza di quella barra gialla, quelle che ho chiamato “altre lingue” che, per essere chiari, sono i dialetti delle altre regioni italiane, dal calabrese, al siciliano, al lombardo che, vedete, per esempio, nell’area metropolitana torinese, pesano parecchio. Quindi quando parliamo di aree minoritarie, non stiamo parlando di blocchi etnici, stiamo parlando di zone molto composite, dove la compenetrazione tra le varie lingue può essere anche abbastanza ricca. Allora, tornando alla questione che ponevo. Che tipo di logica può sottostare a questa corsa a farsi riconoscere come appartenenti una minoranza? Probabilmente in questo desiderio di distinguersi, di chiedere una qualche forma di riconoscimento giocano molti fattori. Uno che, va detto, ricollega alcune zone del Piemonte a quella vasta area che è stata detta del “disagio del nord”. Per essere chiari, l’area che ha dato consensi elettorali alla Lega, cioè zone in cui c’è una qualche forme di disagio, che si esprime anche attraverso il voto della Lega. Se guardate la distribuzione del voto alla Lega, vedete che la zona forte è l’area ai piedi delle montagne, cioè le valli che confinano con la pianura della Lombardia, non però, ad esempio, il Trentino e anche un pezzo del Piemonte, in particolare del cuneese. Non entro in questo discorso perché sarebbe molto complicato ma, diciamo, questo fattore politico può giocare. Ma poi ci sono altri fattori: c’è indubbiamente un resto, un eco di quello che è stato e che è ancora l’autonomismo occitano. Però come vedete non si può dire che una mattina i piemontesi di un certo comune si sono svegliati decidendo di fare l’autonomismo occitano, però, evidentemente, questo ha introdotto un discorso che, in qualche modo, poteva andare verso una situazione macro regionale, che è contrasto con l’idea di Padania, diventano due nazionalismi che configgono da un punto di vista politico, però vedremo poi come possono coesistere senza grossi problemi. L’altra cosa che indubbiamente ha giocato è la richiesta di un riconoscimento come “area alpina”, che non è la stessa cosa dell’Occitania. Ci sono molti sindaci che ritengono che sarebbe opportuno che il loro Comune, la loro Comunità Montana, avesse dei legami più intensi di collaborazione con le aree montane oltre confine, ma a prescindere dal fattore linguistico. Cioè non si tratta tanto di dire “dobbiamo collaborare con gli altri che parlano la stessa lingua dall’altra parte del confine”, ma l’idea sarebbe piuttosto una struttura tipo Svizzera, che, come sapete, non è un’unità linguistica però trova, in qualche modo, attorno alla propria specificità alpina, una qualche forma di collaborazione. In questa logica non si tratta di andare alla ricerca di chi parla al mio stesso modo. In questa logica cantonale c’è forse meno interesse a collegarsi a Bordeaux o Marsiglia”, perché queste sono realtà geograficamente, ma anche dal punto di vista dei problemi, molto diverse. Va bene avere delle basi linguistiche comuni, ma sono situazioni molto diverse. Quindi accanto al permanere di una logica regionalista, nazionalista occitana, insomma quello che ci fa vedere quelle mappe che si estendono dall’Atlantico alla pianura Padana, per la quale è secondario che in alcuni Comuni non si parli occitano perché quello che interessa non è tanto conservare la varietà linguistica locale, ma piuttosto cogliere l’opportunità per estendere anche in queste zone l’occitano uniformato. Quindi, la logica è di nuovo quella della lingua nazionale: non interessa la parlata locale, interessa la disponibilità ad accettare la disponibilità a aderire a un progetto. L’altro tipo di logica è un’altra cosa: cooperiamo con le valli vicine. Accanto a questo però, attenzione, esiste anche un altro tipo di logica, che alcuni politologi francesi hanno chiamato adhocratica, cioè dove bisogna scegliere delle alleanze ad hoc. La logica è aperta alle opportunità, alle possibilità. Nell’epoca postmoderna non ci sono più identità nazionalità rigide, bloccate, le lingue monolitiche, ma bisogna giocare strategicaConvegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 15 mente. E queste strategie, anzi, obbligano ogni area, ogni comune che voglia darsi da fare, trovare soldi, trovare risorse per lanciarsi in progetti di sviluppo, a trovare delle alleanze. E queste alleanze devono essere giocate nei modi legati all’interesse specifico. L’esempio più evidente che si può fare in questa zona è quello dei giochi olimpici invernali: oramai è chiaro che le olimpiadi non possono più essere realizzate da una vallata, i costi sono troppo alti, non ci sono più le energie politiche, economiche sufficienti. Per ottenere dei giochi olimpici bisogna ottenere delle alleanze molto solide, molto ben dotate di risorse e quindi per forza di cose i giochi olimpici sono stati i giochi olimpici di Torino. In questa vicenda, certo, le vallate hanno anche giocato la carta dell’Occitania, però è una logica, appunto, di alleanza; così come se un domani ci si potesse agganciare a eventuali giochi olimpici, per dire, gestiti da Grenoble o da Marsiglia, di nuovo il gioco sarebbe costruire delle alleanze. Capite cosa voglio dire, non è una cosa naturale. “Se li fanno a Grenoble, a Grenoble sono franco provenzali e quindi ci staremmo dentro per forza”: no, ci staremmo dentro se si troveranno dei modi per entrare nella rete di alleanze. L’esempio in negativo che faccio nella mia relazione è quello della TAV, del tunnel, dove invece l’aspetto della minoranza linguistica non è stato giocato per niente, perchè non è quello adatto alle strategie e alle situazioni locali. Ci sono dei franco provenzali favorevoli e dei franco provenzali contrari; c’è gente che non è franco provenzale ed è favorevole, e altra che è contraria. L’alta valle occitana è favorevole… Insomma lì le minoranze non c’entrano, non giocano, gli schieramenti sono trasversali; non a caso quando in quest’area si è cercato di mostrare il volto di una minoranza che combatte contro i poteri forti si è scelta una metafora, quella degli “indiani di valle”, non gli occitani o i provenzali o i valligiani. E questo mi porta all’ultimo aspetto che ho cercato di sviluppare di queste politiche linguistiche, che è quella che ho chiamato delle “nazioni virtuali”. Termine che detto così può sembrare un po’ denigratorio: dire che l’Occitania è una nazione virtuale sembra un modo di sminuirla, di dire che è una cosa che ci si è sognati la notte, che non esiste. Io penso che questa svolta virtuale - virtuale vuol dire appunto non più legata alla materialità della residenza, dell’appartenenza locale di chi è nato, è vissuto, è rimasto lì per tutta la vita, ma che appartiene a questa capacità di giocare queste strategie multiple, di utilizzare strumenti come internet, come collegamenti internazionali, in modo anche creativo e innovativo - è oramai la nuova frontiera di questi processi politici. Dire “virtuale” non vuol dire una cosa che non esiste, che non c’è più quando spegni il computer. Se io accedo a una biblioteca virtuale via internet i testi li leggo, anche se non li ho in mano il volume di carta: il risultato è lo stesso. Possono essere comunità virtuali anche certi movimenti politici: pensate a tutto il sostegno che c’è stato a certe rivolte politiche in Asia o in Africa, dovute appunto a collegamenti a grande distanza, non al fatto che si apparteneva alla stessa parte politica. Pensate ai club di fan qualche cantante, di adepti di qualche movimento religioso, che possono addirittura avere più legami attraverso reti di tipo multimediale che non attraverso il contatto fisico, la presenza contemporanea. Ecco io credo che lo sviluppo, in questo momento, vada in questa direzione, cioè nell’utilizzare in modo aperto e creativo questi strumenti di immagine, di auto rappresentazione, ma immagine non vuol dire sempre e necessariamente una cosa finta, “io mi presento come.. ma sono tutta un’altra cosa”. Oramai una società che ha risolto una serie di problemi materiali, di sopravvivenza quotidiana, può permettersi di giocare di più con questi aspetti della cultura, dell’identità, dell’immagine, dell’inventarsi anche degli interessi culturali nuovi. Spero di non esser stato troppo confuso, ma nel testo forse le cose sono raccontate meglio. Volevo ancora mostrarvi un paio di altre immagini, che possono forse aiutare a spiegare meglio alcune cose. (diapositiva 6), “Persone che conoscono l’esistenza di leggi nazionali sulla tutela…”: come vedete la conoscenza è molto diffusa. È un dato interessante, non solo Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 16 sull’area occitana, ma anche del resto del Piemonte. Ricordate che ci sono leggi regionali che tutelano il piemontese. Ecco, questo è interessante (diapositiva 7): quando abbiamo chiesto agli intervistati se erano d’accordo sul fatto che ci fossero queste leggi di tutela, vedete che, in buona sostanza, a parte pochi che non rispondono, un nucleo che va dal 12 al 17% di indifferenti, i contrari sono pochissimi, praticamente sono tutti d’accordo, va bene a tutti. Soprattutto in area occitana, ma addirittura anche nel resto del Piemonte. Qui ci può essere un rischio, perché quando tutti sono d’accordo può accadere che ci sia qualcosa che non quadra. In realtà, ecco perché avevo messo queste immagini (diapositive 11, 12): questi sono i risultati di un’indagine fatta in un paese basco del nord, cioè francese, dove si chiedeva la stessa cosa, cioè se erano favorevoli alle leggi di tutela del basco. Vedete che qui la quota di indecisi e addirittura di contrari, è molto più alta. Addirittura nella Comunità autonoma basca, dove il basco è riconosciuto a tutti gli effetti come lingua, vedete che la quota di contrari e di indecisi è molto più ampia. Cosa vuol dire? Probabilmente quello che tutti immaginate, cioè che la situazione è molto più tesa, non è una questione generica di tutela di lingue, l’argomento è molto più delicato. Il fatto che da noi, invece, ci sia un consenso molto più vasto, è una delle testimonianze che, per fortuna - qui la questione non è oggetto di forti tensioni politiche, di forti contrasti. La situazione è molto più pacifica e aperta e questo permette di raggiungere un consenso più elevato ed è quello che poi consente questo gioco. Anche i comuni dove si parla piemontese possono tranquillamente accettare di entrare in questo quadro. Questa (diapositive 13, 14) è la “percentuale di giudizi positivi e negativi sull’utilità di una serie di misure previste dalla legge o che potrebbero esser previste dalla legge”. Ancora una volta vedete che alcune misure ricevono la quasi unanimità: tutela dei marchi locali, insegnamento delle lingue a scuola… In generale, ricevono più consenso le misure di tutela a scuola e della cultura, mentre invece suscita qualche resistenza in più, qualche perplessità l’uso delle lingue minoritarie nella sfera pubblica. Anche qui probabilmente c’è una composizione di due cose: da un lato il fatto che molti cittadini non ardono dal desiderio di sapere come si dice: “visto l’articolo 24, comma 2” ecc... - in occitano o in franco provenzale… e dall’altro che su alcuni temi riguardanti la sfera pubblica vi sono maggiori sensibilità. A questo proposito apro una breve parentesi sulle recenti polemiche che ci sono state quando un certo partito politico o qualcuno di quel partito, ha lanciato l’idea di fare programmi televisivi in bergamasco. Qui ci può essere una trappola se si dice che la gente si è risentita, perché noi parliamo una lingua minoritaria, i bergamaschi parleranno qualche dialetto montano”. Questa è una trappola in cui non bisognerebbe cadere. Credo che questa tensione, questa levata di scudi di fronte a proposte del genere, così come a quella di chiedere esami di lingua locale agli insegnanti, è dovuta ad un’altra preoccupazione. Al fatto che queste iniziative presentate da questo partito come innocue misure di tutela, celino in realtà un desiderio di porre pesanti vincoli a chi, non essendo originario di quell’area, ci viva e ci lavori. E appunto, Bergamo è un po’ più grosso di un piccolo comune di montagna, per cui la preoccupazione può essere comprensibile. Anche le identità che abbiamo rilevato sono in realtà molto più sfumate. Questo (diapositiva 15) è l’incrocio tra la prima e la seconda identità; cioè si diceva “Io mi sento italianooccitano, piemontese-occitano, ecc…”. Il risultato permette una certa composizione di identità: sono pochissimi quelli che dicono di sentirsi una appartenenza sola. Molti si sentono piemontesi-occitani o occitani-piemontesi, perché non sono termini etnici, non sono tribù. Quindi, ancora una volta (vedete questa composizione, diapositiva 16) io credo che questa presenza di identità multiple, di mancanza di tensioni, di mancanza di forti opposizioni politiche, sia in realtà la condizione che permette di giocare appieno queste possibilità creative, innovative che la legge permette di fare e che “l’aria del tempo” esige di fare. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 17 Marco Stolfo Dieci anni di Legge 482/99. Radici europee e risultati italiani A dieci anni dal 25 novembre 1999, quando fu definitivamente approvata al Senato, la Legge 482/1999 presenta un bilancio con luci ed ombre per ciò che concerne la sua attuazione. Si tratta, infatti, di una Legge importante ed attuale, che ha permesso di conseguire alcuni risultati importanti, che deve essere applicata meglio e che rischia di non essere attuata affatto. Con questo contributo si propongono alcune riflessioni e valutazioni sull'entrata in vigore del primo provvedimento statale dedicato alla tutela delle minoranze linguistiche e sulla sua effettiva attuazione. Per fare ciò, si intende altresì tener conto del lungo e difficoltoso percorso in seguito al quale il Parlamento è riuscito finalmente a predisporre le “apposite norme” previste dall'art. 6 della Costituzione. 1. Radici europee e italiane 1.1 La tutela delle minoranze linguistiche: un principio fondamentale dell'ordinamento italiano La tutela delle minoranze linguistiche costituisce un principio fondamentale dell'ordinamento costituzionale italiano. L'art. 6 della nostra Costituzione recita infatti “la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”5. Questa previsione ha radici storiche e giuridiche molto chiare e molto forti. Dal punto di vista storico essa trova fondamento nella lotta antifascista, nella Resistenza, e nella conseguente volontà espressa dai padri costituenti di marcare una netta discontinuità con il precedente regime fascista, il quale ha dato parte del meglio di sé (cioè del peggio) proprio nell'attuare particolari forme di oppressione e discriminazione nei confronti dei cittadini italiani appartenenti a minoranze linguistiche6, attraverso una politica di assimilazione e persecuzione delle minoranze che non si è discostata in teoria da quella del precedente Stato liberale, di cui ha applicato gli stessi principi di “nation building” con una forma “solo” più muscolare7. Sul piano giuridico, invece, la tutela delle minoranze linguistiche si ricollega a principi democratici quali eguaglianza, libertà, non discriminazione e rispetto dei diritti fondamentali 5 Cfr. Repubblica italiana, Costituzione della Repubblica italiana (varie edizioni a stampa). Cfr. V. Giuliano (a cura di), Carta di Chivasso. Materiali per una riflessione, Torino, Provincia di Torino 2008, p. 8; D. Maselli, La tutela delle minoranze linguistiche storiche in Italia, in La tutela delle lingue minoritarie a vent'anni dalla risoluzione Arfè. Atti del seminario – Torino, 20-11-2001, Torino, Provincia di Torino, 2002, pp. 19-22; P. Momigliano Levi – J.C. Perrin (a cura di), Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine. Chivasso 19 dicembre 1943. Il contesto storico, i protagonisti e i testi, Aosta, Le Château, 2003; Storia contemporanea in Friuli, Anno XXXVII, n. 38, Minoranze linguistiche e Resistenza. Friuli-Venezia Giulia, Italia, Europa. Atti del convegno. Udine, 8 e 9 maggio 2008, Udine, IFSML, 2008. 7 Sicuramente quella linguistica è una delle dimensioni in cui si opera per “fare gli italiani”, secondo la celebre frase di Massimo D'Azeglio, coerentemente con l'idea, espressa da Alessandro Manzoni in Marzo 1821, di un'Italia “una di'armi, di lingua, d'altare”. A questo proposito è interessante citare la posizione del senatore Giovenale Vegezzi Ruscalla, il cui punto di vista emerge dirompente in alcune sue pubblicazioni, come Diritto e necessità di abrogare il francese come lingua ufficiale in alcune valli della provincia di Torino del 1861 e La lingua e la nazionalità del 1873 (cfr. anche S. Salvi, Le lingue tagliate. Storia delle minoranze linguistiche in Italia, cit., pp 64-80). Per quanto concerne fascismo e minoranze linguistiche, cfr. G. Klein, La politica linguistica del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1986 nonché Il fascismo e il martirio delle minoranze, s.l., Edizioni di Giustizia e libertà, 1933. Con riferimento alle e nuove “terre redente” e in particolare la minoranza slovena, si rimanda altresì a J. Pirjevec - M. Kacin-Wohinz, Storia degli sloveni in Italia, 1866-1998, Venezia, Marsilio, 1998 e P. Parovel, L’identità cancellata. L’italianizzazione forzata dei cognomi, nomi e toponimi nella Venezia Giulia dal 1919 al 1945, Trieste, Eugenio Parovel Editore, 1985, nonché all'autorevole testimonianza dello scrittore Boris Pahor, nelle cui opere e nei cui interventi pubblici ha più volte denunciato la “snazionalizzazione” degli sloveni, sottolineando in più occasioni come la medesima sorte sia stata inflitta anche ai friulani (cfr. B. Pahor, Qui è proibito parlare, Roma, Fazi, 2008 e A. Bogaro, Boris Pahor: La mê vite pe libertât di jessi sloven, www.lenghe.net). 6 Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 18 dell'uomo. In questo senso il contenuto dell'art. 6 della Costituzione è una “sottolineatura” specifica di quanto sancito dall'art. 2, “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (tra queste “formazioni sociali” rientrano a pieno titolo anche la comunità linguistica d’appartenenza e la comunità territoriale d'appartenenza nella quale si usano tradizionalmente più lingue, quella italiana e una o più lingue di minoranza, come nei casi del Friuli, del Trentino-Alto Adige, delle Valli Valdesi del Piemonte o della Sardegna), e dall'art. 3 (il principio di eguaglianza tra tutti i cittadini senza distinzione, tra l'altro, “di lingua”, e il “compito” della Repubblica di “eliminare gli ostacoli di carattere economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza tra i cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”) della stessa Carta Costituzionale. La tutela delle minoranze linguistiche è un principio costituzionale che ribadisce altri principi fondamentali della Costituzione repubblicana. Per quanto concerne il legame, che possiamo così definire “confermativo e rafforzativo”, con l'art. 2, esso si sostanzia nell'affermazione del diritto all'uso della lingua, in entrambe le dimensioni nelle quali ciascuno svolge e sviluppa la propria personalità, cioè sia “come singolo” sia in relazione con gli altri, in una dimensione sociale, pubblica, collettiva. Questa dimensione è essenziale per ciò che concerne la lingua, a meno di voler ridurre il tutto al riconoscimento per il singolo individuo del diritto di parlare da solo davanti allo specchio, scrivere lettere o sms a sé medesimo e leggere soltanto ciò che esso stesso si scrive..., o di imparare a leggere e scrivere nella sua lingua solo e da solo nel chiuso della propria casa. Più in generale pare impossibile non riconoscere l'esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali da parte del singolo individuo nel contesto di una relazione dinamica e continua con gli altri8. Il collegamento, altrettanto “confermativo e rafforzativo”, con l'art. 3 si traduce nell'affermazione della pari dignità sociale e dell'eguaglianza tra tutti i cittadini indipendentemente dall'appartenenza linguistica e culturale e nel fatto che la Repubblica, attribuendosene il “compito”, si impegna ad eliminare gli ostacoli che limitano la libertà e l'eguaglianza affermate, attraverso la “tutela”: non una mera protezione, ma una difesa attiva, che consiste in interventi – quelli previsti nelle “apposite norme” – volti a eliminare ostacoli e limitazioni e a creare specifiche condizioni favorevoli, oppure più favorevoli (in nome di un principio di eguaglianza e di una libertà effettivi e sostanziali), per le minoranze linguistiche, che sono l'oggetto dichiarato della tutela stessa di cui all'articolo 6, e per l'uso delle rispettive lingue. La tutela delle minoranze linguistiche e il diritto alla lingua si collegano altresì con altri diritti e principi fondamentali, tra cui la libera manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), che garantisce anche forme di espressione diverse da quella della maggioranza, lo sviluppo e la valorizzazione della cultura (art. 9 Cost.) e il conseguente riconoscimento della diversità linguistica e culturale come un valore e una ricchezza, e la promozione delle autonomie locali, espressione del pluralismo territoriale (art. 5 Cost.)9. 1.2 La tutela extra-costituzionale di alcune minoranze linguistiche in Italia In merito alla tutela delle minoranze linguistiche, nel corso del dibattito in seno all'Assemblea costituente, emersero due diverse linee: la prima prevedeva di inserire una disposizione sulle “minoranze etniche e linguistiche” nel Titolo dedicato all'ordinamento regionale, legando la tutela all'istituzione di alcune regioni ad autonomia speciale in aree di confine abitate da popolazioni la cui lingua è la medesima che oltre frontiera aveva uno status di ufficialità e un 8 Cfr. D. Rousseau, La philosophie du droit, in H. Giordan (sous la direction de), Les minorités en Europe. Droits linguistiques et droits de l'homme, Paris, Kimé, 1992, pp. 79-85 e C. Lefort, L'invention démocratique, Paris, Fayard, 1981. 9 In merito al collegamento con l'art. 21 Cost., ciò vale sia per l'espressione del pensiero usando le lingue minoritarie, e quindi per l'accesso ai media da parte delle minoranze, sia considerando la manifestazione di appartenenza ad una comunità linguistica come una forma di espressione della propria opinione. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 19 valore nazionale; la seconda era invece favorevole ad attribuire alla questione il rango di principio fondamentale riguardante l'ordinamento in quanto tale, non riconducibile soltanto all'autonomia regionale e quindi utilizzabile solo per quelle minoranze abbastanza consistenti in termini demografici e territoriali e soprattutto dotate di uno stato-tutore10. Nonostante avesse prevalso quest'ultimo approccio, a lungo nella sostanza fu praticato il primo, dato che le “apposite norme” previste in attuazione dell'art. 6 tardarono ad arrivare, mentre si procedette a garantire forme di tutela anche molto avanzata solo ad alcune minoranze per effetto di accordi o trattati internazionali e, in particolare nei casi valdostano e sudtirolese, attraverso le conseguenti previsioni contenute negli Statuto speciali di autonomia regionale. L’Accordo di Parigi, concluso il 5 settembre 1946 dal Presidente del consiglio italiano Alcide De Gasperi e dal Ministro degli esteri austriaco Karl Gruber, è così la base della tutela dei germanofoni sudtirolesi e in parte anche dei ladini della provincia di Bolzano (ma non di quelli della provincia di Trento), sviluppata dallo Statuto di autonomia della Regione Trentino-Alto Adige del 1948 e, soprattutto, da quello riformato a fine anni sessanta ed approvato con decreto del Presidente della Repubblica nel 197211. Il riconoscimento in Valle d’Aosta del francese (ma non del franco-provenzale, né della lingua dei walser) è invece garantito nello Statuto regionale, in cui è prevista per esempio la sua parificazione con l'italiano, che è conseguenza del Decreto legislativo luogotenenziale n. 545 del 7 settembre 1945, emanato per sventare la minaccia del separatismo valdostano e dell’annessionismo francese12. Ha la stessa natura la tutela garantita sino alla fine del secolo scorso solo ad una parte della sola minoranza linguistica slovena (ma non i friulani e i germanici) del Friuli-Venezia Giulia quella presente nelle province di Gorizia e Trieste (ma non quella in provincia di Udine) poiché deriva da trattati internazionali e accordi bilaterali, come il Trattato di pace del 10 febbraio 1947, il Memorandum di Londra del 1954 e il più recente Trattato di Osimo, siglato nel 1975 da Italia e Yugoslavia e confermato successivamente da Italia, Slovenia e Croazia13. In questo caso la presenza delle minoranze linguistiche costituisce senza dubbio il fondamento dell'autonomia speciale della Regione - che deriva non solo dalla necessità di garantire i diritti della minoranza slovena in Italia (e specularmente quelli della minoranza italiana in Yugoslavia), ma anche dalle istanze autonomistiche presenti in Friuli nel corso di tutta la prima metà del Novecento ed emerse in particolare durante e dopo la Resistenza, che hanno sempre tenuto conto della questione della lingua friulana accanto a rivendicazioni di carattere socio-economico14 - tuttavia la stessa autonomia ha un impatto più limitato a favore delle minoranze, a differenza dei casi valdostano e sudtirolese, non solo in termini generali ma anche per quella parte di comunità slovena internazionalmente riconosciuta e garantita, poiché l'unica disposizione presente è la norma di principio prevista dall'art. 3 dello Statuto: “Nella Regione è riconosciuta parità di diritti e di trattamento a tutti i cittadini, qualunque sia il 10 Cfr. J. Woelk, Il rispetto della diversità: la tutela delle minoranze linguistiche, in AA.VV., Lezioni sui principi fondamentali della Costituzione, Torino, Giappicchelli, 2009, pp. 157-159. 11 Cfr. R. Jenniges, Mini-Guide tu the lesser used languages of the EC, Brussel-Bruxelles, EBLUL, 1993, p 31 e J. Marko – S. Ortino – S. Palermo (a cura di), L'ordinamento speciale della Provincia autonoma di Bolzano, Padova, Cedam, 2001. A partire dal nuovo Statuto del 1972 e soprattutto nel corso degli anni Novanta si è rafforzata anche la tutela delle minoranze linguistiche del Trentino. 12 Cfr. S. Salvi, Le lingue tagliate. Storia delle minoranze linguistiche in Italia, Milano, Rizzoli pp.12 e 13. 13 Cfr. A. Pizzorusso, Il pluralismo linguistico tra stato nazionale e autonomie regionali, Pisa, Pacini, 1975 e S. Salvi, Le lingue tagliate. Storia delle minoranze linguistiche in Italia, cit., pp. 12-16. 14 Al riguardo, cfr. G. D’Aronco, Friuli. Regione mai nata. Venti anni di lotte per l’autonomia ,Tricesimo, Clape culturâl furlane Hermes di Colorêd, 1983; Z. Cavallo-A. Cescje-P.C. Begot, La nazione Friuli, voll. I e II, Udine, Centro editoriale friulano, 1980; T. Tessitori (a cura di), Come nacque la Regione Friuli - Venezia Giulia. Documenti e note, Udine, Del Bianco, 1947; D. Toffoli, Lotta di liberazione e questione friulana, in Storia contemporanea in Friuli, n. 38, cit., pp. 61-71; D. Toffoli, Lidrîs dal pinsîr autonomist, in La Patrie dal Friûl, n. 5, Mai 2004. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 20 gruppo linguistico al quale appartengono, con la salvaguardia delle rispettive caratteristiche etniche e culturali”15. Questa situazione di tutela “extra-costituzionale”, riferita soltanto ad alcune minoranze linguistiche, ha visto lo Stato italiano usare due pesi e due misure (la creazione di strumenti e condizioni di tutela per i casi in cui è stato costretto a farlo da pressioni esterne, l'assoluta indifferenza e l'atteggiamento prepotente da “forte con i deboli” nei confronti delle altre realtà minoritarie). Un principio fondamentale dell'ordinamento italiano si è trasformato così, regredendo, in una “semplice” questione di buon vicinato. Ciò ha comportato altresì il diffondersi della convinzione dell'esistenza in termini teorici “a monte”, e non per effetto di dinamiche di potere “a valle”, di due fantomatiche categorie di minoranze linguistiche, una di “serie A” e una di “serie B”. L'assolvimento di questi impegni di carattere internazionale ha infine creato un'altra convinzione, quella secondo cui l'Italia aveva fatto tutto il dovuto, e addirittura anche di più, per le minoranze linguistiche presenti sul suo territorio16. Un simile atteggiamento, insieme all'idea di nazione “una d'arme, di lingua, d'altare” e alla situazione internazionale rigidamente “bloccata”, caratterizzata dalla guerra fredda e dalla divisione dell’Europa a metà, ha contribuito ad allontanare il momento in cui, quanto meno in termini formali, quanto stabilito dall'art. 6 della Costituzione potesse cessare di essere lettera morta. Perché ciò avvenisse, sarebbero dovuti passare più di cinquant'anni dall'entrata in vigore della Carta costituzionale. 1.3 Diritti linguistici, diversità culturale e integrazione europea Il contesto internazionale ed europeo in cui è stato approvato l'articolo 6 della Costituzione, ma a lungo non è stato attuato con l'approvazione e l'applicazione delle “apposite norme”, non è solo quello condizionato dalla Guerra fredda, dall'ideologia nazionalista e dalla ragion di stato. E' altresì quello dell'affermazione internazionale dei diritti umani - dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (10 dicembre 1948) al Patto internazionale sui diritti civili e politici (16 dicembre 1966) sino alla Dichiarazione sui diritti delle persone che appartengono ad una minoranza nazionale, etnica, religiosa, linguistica (3 febbraio 1993) - e della prospettiva di integrazione continentale basata su democrazia, coesione sociale e sviluppo socio-economico, promossa da organizzazioni intergovernative come il Consiglio d'Europa e dalle istituzioni comunitarie, a partire dal Parlamento europeo17. a) Il Consiglio d'Europa Proprio il Consiglio d'Europa, impegnato a favore del progresso economico e sociale europeo e della garanzia di diritti umani e libertà fondamentali assume un ruolo rilevante, a partire dalla sua fondazione, nel 1949, a favore della tutela delle minoranze. A questo riguardo, nella sua attività, che comprende tra l’altro, media, cooperazione legale, salute, istruzione, cultura, sport, ambiente e gioventù, sono individuabili tre diverse fasi. Nella prima, che coincide più o meno con il primo decennio di attività dell’organizzazione stessa, l’argomento è affrontato soltanto “di striscio”, nell'ambito della Convenzione europea sulla tutela dei diritti dell’uomo e sulle libertà fondamentali18, firmata a Roma il 4 novembre 1950 ed entrata in vigore il 3 settembre 1953, che riprende i contenuti della Dichiarazione 15 Legge costituzionale 31 gennaio 1963, n.1, Statuto speciale della regione Friuli-Venezia Giulia, www.regione.fvg.it. 16 Emblematico il punto di vista sull'argomento di Giovanni Spadolini nel 1991, quando era Presidente del Senato: cfr. G. Spadolini, L’Italia e le minoranze linguistiche in Corriere del Ticino , 4 dicembre 1991. 17 E' importante anche l'azione in questo campo promossa in seno alla CSCE-OSCE, il cui approccio privilegia la tutela delle minoranze e la garanzia dei diritti fondamentali come opportunità per prevenire o risolvere i conflitti e, in particolare negli anni Settanta, come “ambito” favorevole al disgelo e al dialogo estovest. 18 Council of Europe, Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms (Rome, 4/11/1950), Strasbourg, CoE, 1951. Disponibile anche in internet: www.conventions.coe.fr. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 21 universale dell'ONU, a partire il principio di non discriminazione (art. 14), e li sviluppa sul piano operativo approfondendo alcuni aspetti riguardanti l'uso delle lingue in ambito penale. Nella seconda, che va dal 1961 alla fine degli anni Settanta, il Consiglio d'Europa, in particolare in seno alla sua Assemblea consultiva19 e alla Conferenza dei poteri locali e regionali20, ha più volte sottolineato la necessità di approfondire le questioni relative alle minoranze, con una particolare attenzione manifestata proprio nei confronti delle lingue e del loro uso, della diversità linguistica e culturale e del ruolo positivo che in questi campo possono giocare gli enti territoriali substatali, se dotati delle necessarie competenze. La terza fase, che giunge ai giorni nostri, è infine caratterizzata dall’approfondimento di questi temi e dalla adozione di due importanti convenzioni: Carta europea delle lingue regionali o minoritarie, adottata il 29 giugno 1992 dalla Conferenza dei Ministri e sottoposta alla ratifica degli Stati membri a partire dal 5 novembre dello stesso anno, e della Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali, adottata il 1° febbraio 1995 ed entrata in vigore, in seguito all'avvenuta ratifica da parte di almeno dodici Stati, il 1° febbraio 199821. La Carta definisce, in maniera approfondita e talvolta molto dettagliata, una serie di risultati da raggiungere e di misure da applicare in materia di uso delle lingue minorizzate nella vita pubblica, specialmente nei campi dell’istruzione, della giustizia, dei media, della pubblica amministrazione, dei servizi, della vita culturale, sociale e economica, la Convenzione quadro fa altrettanto, sottolineando come una società pluralista e genuinamente democratica non debba solo rispettare l'identità etnica, culturale, linguistica e religiosa di ciascun appartenente ad una minoranza, bensì debba creare anche le appropriate condizioni favorevoli che permettano a ciascuno di esprimere, mantenere e sviluppare questa identità. In entrambi i casi gli Stati membri che le ratificano sono vincolati ad attuare indirizzi e previsioni, attraverso la propria legislazione interna, e a renderne conto con relazioni e verifiche periodiche. Le due convenzioni europee, oltre costituire un autorevole punto di riferimento teorico e tecnico, hanno pertanto una forza concreta. L'Italia ha firmato tardivamente la Carta europea, il 27 giugno 2000, e non l'ha ancora ratificata, mentre è stato uno dei primi Paesi a sottoscrivere e ratificare la Convenzione quadro, il 3 novembre 1997, in seguito all'approvazione in Parlamento della Legge 302/199722 e ciò ha sicuramente favorito l'approvazione della Legge 482/1999, nonché quella successiva della Legge 38/2001, dedicata alla minoranza slovena, rappresentando altresì una ragione di attenzione in più da parte dello Stato per la corretta attuazione della legislazione di tutela23. b) L'Unione europea 19 Cfr. in particolare Parliamentary Assembly of the Council of Europe, Recommendation 285 (1961), Strasbourg, CoE, 1962, un altro esempio di come l'iniziativa del Consiglio d'Europa anticipi sul piano dei contenuti quella dell'ONU con il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 16 dicembre 1966, il cui articolo 27 afferma che “gli Stati in cui si trovano minoranze etniche, religiose o linguistiche non possono negare alle persone appartenenti a dette minoranze il diritto, in comunità con gli altri membri del loro gruppo, di vivere la loro propria cultura, di professare la loro propria religione o di usare la loro propria lingua”. 20 Cfr. in particolare Council of Europe – Conference of Local Authorities Of Europe (CLAE), The Galway Declaration (1971), Strasbourg, CoE,1971 e Council of Europe – Conference of Local and Regional Authorities Of Europe (CLRAE), The Bordeaux Declaration (1978), Strasbourg, CoE, 1978. La Conferenza permanente delle amministrazioni locali, istituita nel 1957, comprende le Regioni soltanto a partire dal 1975. 21 Cfr. Council of Europe, European Charter for Regional or Minority Languages, ETS n. 148, Strasbourg, CoE, 1992. e Council of Europe, Framework Convention for the Protection of National Minorities, ETS n. 157, Strasbourg, CoE, 1995. Sonio entrambe consultabili anche presso il sito internet ufficiale del Consiglio d’Europa, http://coventions.coe.int. 22 Legge 28 agosto 1997, n. 302, Ratifica ed esecuzione della convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, fatta a Strasburgo il 1° febbraio 1995, in Gazzetta Ufficiale, n. 215 (s.o.) del 15 settembre 1997. 23 Cfr. Presidenza del Consiglio de ministri – Dipartimento Affari regionali, Le lingue minoritarie nella scuola e nella pubblica amministrazione in Italia: obiettivi e interventi realizzati dalle collettività locali, Roma, Dipartimento per l'Informazione e l'editoria, 2004. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 22 Data la prevalente impostazione funzionalista e economicista delle Comunità europee, in questo ambito la tutela delle minoranze linguistiche è stata a lungo una questione trascurata o addirittura ignorata. La situazione è cambiata radicalmente in seguito alle prime elezioni europee, il 7 e 10 giugno 1979, grazie alle quali si è avviato anche a livello continentale quel rapporto eletti-elettori, già consolidato a livello statale, che ha messo l’aula di Strasburgo in condizione di confrontarsi in maniera diretta con le esigenze emergenti tra i cittadini, incoraggiando la società civile a sottoporre al Parlamento europeo istanze, bisogni e questioni che non trovano soluzioni o soddisfazioni adeguate all’interno degli Stati. E' proprio in questo modo che la tutela delle minoranze è entrata ufficialmente nell'agenda del Parlamento europeo il 28 settembre 1979 con la presentazione di una prima proposta di risoluzione al riguardo da parte di un gruppo di eurodeputati socialisti, seguita da altre quattro proposte sottoscritte rispettivamente da europarlamentari socialisti, comunisti, popolari e dal democratico fiammingo Maurits Coppieters24, e la successiva approvazione, il 16 ottobre 1981, della Risoluzione su una Carta delle lingue e culture regionali e una Carta dei diritti delle minoranze etniche, approvata a Strasburgo25. La prima autorevole presa di posizione del Parlamento europeo in materia è una sintesi e una sistematizzazione delle affermazioni di principio contenute nei documenti precedenti elaborati in sede ONU, UNESCO, Consiglio d’Europa e CSCE. La risoluzione, su solide basi teoriche, individua una serie di interventi e di azioni concrete inerenti all'uso delle lingue minoritarie, che riguardano tutti i settori fondamentali della politica linguistica – istruzione, media e vita pubblica – di cui sollecita l'attuazione sia a governi statali e amministrazioni locali sia a Consiglio e a Commissione europea. Quella prima iniziativa del Parlamento europeo contribuì a dare “cittadinanza europea” alla tutela delle minoranze, oltre a comportare l’apertura di una linea di bilancio dedicata appositamente a progetti e iniziative coerenti con gli orientamenti in essa contenuti e compatibili con i principi e gli obiettivi in essa formulati talmente a progetti e iniziative coerenti con gli orientamenti in essa contenuti e compatibili con i principi e gli obiettivi in essa formulati. Su quella scia il Parlamento europeo interverrà ripetutamente su questo tema26 e nel quadro dell'Unione europea la questione non ha potuto essere più ignorata, con l'effetto di veder sviluppati specifici progetti con fondi comunitari, a partire da Mercator27, e di trovare riferimenti normativi validi anche per lingue e minoranze in documenti importanti come la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, e nei più recenti Trattati comunitari, anche in seguito alle riforme introdotte con il Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre scorso28. 1.4 La lunga strada verso la Legge 482/1999 Tra le “radici” della Legge 482/1999 va annoverata anche la mobilitazione sociale e politica che ha avuto per protagonisti le organizzazioni delle minoranze linguistiche, gli enti locali, alcuni studiosi e parlamentari, perseguendo l'obiettivo di far cessare la situazione di evidente contraddizione tra la teoria (i principi costituzionali) e la prassi (la tutela “extracostituzionale” che escludeva gran parte dei cittadini appartenenti alle minoranze linguistiche) con l'approvazione di uno o più provvedimenti con cui rendere disponibili le “apposite norme” previste e promesse dalla Costituzione. 24 Cfr. M. Stolfo, Lingue minoritarie e unità europea. La “Carta di Strasburgo” del 1981, Milano, Franco Angeli, 2005. 25 Parlamento europeo, Risoluzione su una Carta delle lingue regionali e una Carta dei diritti delle minoranze etniche, in Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, NC 287, del 9 novembre 1981. 26 Mercator, www.mercator-network.eu. 27 Al riguardo si rimanda a M. Stolfo, Lingue minoritarie e unità europea. La “Carta di Strasburgo” del 1981, cit., Mercator, www.mercator-network.eu, e Mercator Legislation, http://www.ciemen.cat/mercator. 28 Un quadro generale al riguardo è disponibile in M. Stolfo, Minoranze linguistiche. Radici e prospettive europee della L. 482/1999, Udine, Consorzio universitario del Friuli, 2007. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 23 Questa mobilitazione riguardò un po' tutte queste minoranze e in particolare quelle sarda, friulana, slovena (il cui obiettivo era l'estensione alla provincia di Udine delle garanzie previste a Trieste e nel Goriziano), albanese, ladina e occitana. In questo quadro merita una menzione speciale, rispetto all'uso pubblico delle lingue, l'iniziativa assunta tra il 1973 e il 1975 da parte della comunità occitana di Roure, in Val Chisone, che si attivò con successo affinché venisse ristabilita la denominazione originaria del comune, trasformato per decreto in Roreto Chisone29. Più o meno nello stesso periodo altri Comuni cominciarono ad installare i cartelli bilingui, spesso scontrandosi con le Prefetture30. La nascita, nel corso degli anni Settanta, delle prime radio “libere” un po' in tutto lo Stato italiano si accompagnò alla realizzazione, al loro interno, di trasmissioni nelle lingue delle minoranze e in qualche caso furono costituite anche emittenti caratterizzate dall'uso costante o almeno prevalente delle lingue stesse, come le radio sarde Radiu Supramonte e Arradiu Norde Sero o quella che poi divenne la ancora attiva Radio Onde Furlane31 Particolarmente significativa la rilevanza di attività nel settore dell'istruzione, a partire dall'organizzazione volontaria di corsi di lingua e in lingua nelle scuole, con l'avvio, tra l'altro, di quella esperienza sociale e didattica unica che è la scuola bilingue (italiano-sloveno) di San Pietro al Natisone32, sino ad iniziative riguardanti la formazione degli insegnanti e più in generale il mondo dell'Università, con la lunga battaglia di emancipazione culturale, economica e territoriale volta alla creazione dell'Ateneo friulano, che sarà poi istituito nel 1977, per legge chiamato ad essere anche “organico strumento di sviluppo e rinnovamento dei filoni originali della cultura, della lingua, delle tradizioni e della storia del Friuli” 33. Dove l'Università c'era già, essa stessa – almeno in qualche sua componente – condivise e sostenne motivazioni e finalità espresse da associazioni e organizzazioni, come avvenne con la celebre risoluzione adottata il 19 febbraio 1971 all’unanimità dal Consiglio della Facoltà di lettere dell’Università di Cagliari, nella quale si rilevava che “poiché esiste un popolo sardo con una propria lingua dai caratteri diversi e distinti dall’italiano, la lingua ufficiale dello Stato risulta in realtà una lingua straniera per di più insegnata con metodi didatticamente errati che non tengono conto in alcuna maniera dei sardi; e ciò con grave pregiudizio per un’efficace trasmissione della cultura sarda, considerata come subcultura”34. 29 L'iniziativa promossa dall'associazionismo locale e sostenuta dal Comune, a seguito dei risultati di un referendum, si conclude con un provvedimento regionale ad hoc: cfr. Regione Piemonte, L.R. 17 febbraio 1975, n. 40, Restituzione della denominazione del comune di Roreto Chisone di Roure, in Bollettino ufficiale della Regione Piemonte n. 8-1975. 30 E' il caso di Sappada e Livinallongo in Veneto e di Prato Carnico e Tavagnacco in Friuli. Al riguardo, cfr. Toponomastiche furlane: www.patriedalfriul.it/gino/friulitoponimi.htm. 31 Cfr. S. Salvi, Patria e matria, Firenze, Valecchi, 1978, p. 153 e M. Mauro, Un Friûl difarent. I 90 Mhz di Radio Onde Furlane, Montereale Valcellina, Il Menocchio, 2005. Per Radio Onde Furlane, cfr. anche il sito web www.ondefurlane.eu. 32 Sull'esperienza sarda, cfr. S. Salvi, Le nazioni proibite, cit., pp. 552-553, e S. Salvi, Patria e matria, Firenze, Vallecchi, 1978, pp. 152-153. Sulla scuola bilingue di San Pietro al Natisone, che riceverà un rinoscimento ufficiale con la L. 38/2001, Norme per la tutela della minoranza linguistica slovena della regione Friuli - Venezia Giulia, cfr. Ž. Gruden, Dvajeset korakov/Venti passi, Špeter/San Pietro al Natisone, Zavod za Slovensko Izobraževanje/Istituto per l'istruzione slovena, 2005. Nella stessa pubblicazione si trovano rifrimenti ad altre esperienze. Cfr. anche S. Bonato (a cura di), Scuola e minoranze linguistiche oggi in Italia, Roana, Istituto di cultura cimbra, 1992. 33 Cfr. Legge 8 agosto 1977, n. 546, Ricostruzione delle zone della regione Friuli-Venezia Giulia e della regione Veneto colpite dal terremoto del 1976, in Gazzetta Ufficiale n. 227 del 22 agosto 1977. Sull'argomento, cfr. anche T. Petracco, La lotta per l'università friulana, Udine, Forum, 1998; C. Rossetti, L'Università di Udine: eventi e personaggi della nascita di un ateneo, Padova, Il poligrafo, 1994; G. Ellero-R. Carrozzo, L'università friulana, Udine, Grafiche Fulvio, 1967; G. Ellero, L'università del popolo friulano, Udine, Arti Grafiche Friulane, 1974. 34 Il documento è riprodotto anche in M. Argiolas – R. Serra (a cura di), Limba, lingua, language. Lingue locali, standardizzazione e identità in Sardegna nell’era della globalizzazione, Cagliari, Cuec, 2001. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 24 Un contributo importante alla causa delle minoranze fu dato dalle Regioni, soprattutto quelle “nuove” a Statuto ordinario. Piemonte, Veneto, Molise e Calabria, in particolare, già nello Statuto disponevano di norme di indirizzo sulla valorizzazione del patrimonio linguistico e talvolta anche sulla tutela delle minoranze35 e su questa base si dotarono di alcune Leggi regionali dedicate a storia, cultura, dialetti e anche – pur se esclusivamente su un piano di promozione culturale – minoranze linguistiche36. L'azione delle Regioni, sia ordinarie come il Piemonte sia autonome come il Friuli-Venezia Giulia e la Sardegna, è stata più efficace a partire dall'inizio degli anni Novanta37. Nel 1993, in particolare, il Consiglio regionale della Sardegna approvò a larghissima maggioranza un testo di legge ben articolato, oggetto di un conflitto con il Governo statale, risoltosi con la Sentenza della Corte costituzionale del 13 luglio 199438. Nella regione Friuli-Venezia Giulia, intanto, erano stati promossi i primi interventi di valorizzazione culturale riguardanti la minoranza linguistica friulana, supportati prima da provvedimenti di portata generale, dedicati allo sviluppo delle attività culturali, e successivamente da specifiche ma limitate leggi di spesa, tuttavia era evidente l'insufficienza di una simile azione. Così nel 1990 arrivò in Consiglio regionale una proposta di legge organica di tutela della lingua friulana, che fu poi riproposta nel 1994 insieme ad un’altra dedicata alla valorizzazione e alla promozione del patrimonio bibliografico e documentario friulano e delle biblioteche. Nelle aule di Cagliari e di Trieste erano state gettate le basi per l'approvazione di quelle che sarebbero diventate la Legge regionale 26/1997, Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna, e la Legge regionale 15/1996, Norme per la tutela e la promozione della lingua e della cultura friulane e istituzione del Servizio per le lingue regionali e minoritarie, entrambe considerate in qualche modo anticipatrici della Legge 482/199939. L'approdo in Parlamento della tutela delle minoranze linguistiche risale già agli anni Cinquanta, con relazioni, interpellanze ed interrogazioni. Poco dopo arrivarono le prime iniziative legislative, dedicate alle comunità albanesi e slovene40. Tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio del decennio successivo ci fu un proliferare di progetti di legge, che a lungo però non furono neppure oggetto di discussione in Commissione. In questo quadro pare opportuno ricordare l'iniziativa condotta dal parlamentare comunista friulano Mario Lizzero, 35 Talvolta le previsioni statutarie erano state bloccate nella loro versione originale in Senato, in quanto ritenute confliggenti con l'interpretazione della Corte costituzionale che all'epoca limitava allo Stato le competenze sulla tutela delle minoranze. Cfr. S. Salvi, Le lingue tagliate, cit., pp.28-33 e P. Armaroli, Gli Statuti delle Regioni, Firenze, Sansoni, 1971, in particolare pp. 284, 288, 289, 290. le norme statutarie più significative sono quelle contenute negli art. 5, c. 3, e art. 7. della Legge 22 maggio 1971, n. 338, Statuto della Regione Piemonte, art. 2, c. 2. della Legge 22 maggio 1971, n. 340, Statuto della Regione Veneto, art. 4. della Legge 22 maggio 1971, n. 347, Statuto della Regione Molise, art. 56(r) della Legge 28 luglio 1971, n. 519, Statuto della Regione Calabria. 36 Per esempio, Regione Veneto, Legge regionale 1 agosto 1974, n. 40, Tutela del patrimonio storico, linguistico e culturale del Veneto, e Regione Piemonte, Legge regionale n. 30 del 3 giugno 1979, Tutela del patrimonio storico, linguistico e culturale del Piemonte. 37 Cfr. Regione Piemonte, Legge regionale 10 aprile 1990 n. 26, Tutela, valorizzazione e promozione della conoscenza dell'originale patrimonio linguistico del Piemonte, in Bollettino ufficiale della Regione Piemonte n. 16 del 18 aprile 1990 (modificata e integrata con la Legge regionale n. 37 del 17 giugno 1997, Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 10 Aprile 1990, n. 26, 'Tutela, valorizzazione e promozione della conoscenza dell'originale patrimonio linguistico del Piemonte', in Bollettino ufficiale della Regione Piemonte n. 25 del 25 Giugno 1997). 38 Cfr. Corte Costituzionale, Sentenza 4-13 luglio 1994, in Gazzetta ufficiale, Prima serie speciale, n. 30 (20 luglio 1994), pp. 23-27. Per i ricorsi, cfr. Gazzetta ufficiale, Prima Serie Speciale, n. 47 (17 novembre 1993), pp. 55-56, e Gazzetta ufficiale, Prima Serie Speciale, n. 50 (9 dicembre 1993), p. 42. 39 Legge regionale 22 marzo 1996, n. 15, Norme per la tutela e la promozione della lingua e della cultura friulane e istituzione del servizio per le lingue regionali e minoritarie, in Bollettino Ufficiale della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia n. 10, anno XXXIX, del 27 marzo 1996 e Legge regionale 15 ottobre 1997 n. 26, Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna, in Bollettino ufficiale della Regione autonoma della Sardegna n. 32 del 24 ottobre 1997. Al riguardo cfr.più avanti cap. 4, par. 2. 40 Cfr. S. Salvi, Le lingue tagliate, cit. pp.29-30 e www.parlamento.it. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 25 che, dato il permanere dell'interpretazione minimalista della Corte costituzionale che riconosceva al solo Stato le competenze di attuazione dell'art. 6 della Costituzione, dal 1971 lavorò per poi sottoscrivere con altri esponenti del Pci, del Psi e del Pri un progetto di legge costituzionale volto ad includere tra le materie spettanti alla competenza legislativa delle Regioni anche la tutela delle minoranze41. Contemporaneamente si presentavano proposte riguardanti singole comunità, che venivano riproposti legislatura dopo legislatura. Tra il 1978 e il 1982, più o meno in contemporanea con la predisposizione e l'approvazione al Parlamento europeo della Risoluzione su una Carta delle lingue e culture regionali e una Carta dei diritti delle minoranze etniche42, ci furono le ennesime proposte di leggi riguardanti la tutela delle minoranze friulana, slovena, sarda, occitana e albanese43 e nuove proposte riguardanti la tutela di tutte le minoranze linguistiche del Paese, che tuttavia non raggiunsero mai l'aula. Si sarebbe dovuta aspettare ancora una legislatura perché finalmente un testo coordinato, sintesi delle varie proposte ripresentate, arrivasse alla Commissione affari istituzionali della Camera il 6 febbraio 1985 (relatore il socialista friulano Loris Fortuna) per essere approvato ad ampia maggioranza (favorevoli Dc, Pci, Psi, Psdi; contrari Pli, Pri e MsiDn) il 19 aprile successivo e quindi giungere in aula due anni dopo, a fine legislatura. Il lavoro avviato con un certo successo, nonostante una dura opposizione, fu rilanciato nella seconda metà del 1987 e sfociò nell'approvazione dell'articolato alla Camera nel 199144. L'avvicinarsi della fine anticipata della Legislatura e la mancata iscrizione del testo all'ordine del giorno del Senato non permisero di “completare l'opera”. Ci sarebbero voluti ancora otto anni di mobilitazioni da parte delle minoranze, di lavoro nei due rami del Parlamento e di nuove sollecitazioni e ispirazioni europee, per giungere allo “storico” momento del 25 novembre 1999 con l'approvazione definitiva la Senato della Legge 15 dicembre 1999, n. 482, Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche45. 2. La Legge 482/1999: un primo risultato 2.1 Un primo passo verso l'Europa, un primo passo verso l'Italia Si tratta di un provvedimento che è arrivato tardi (forse troppo, per la situazione ormai compromessa di almeno alcune comunità linguistiche minorizzate) eppure, forse anche per questo, la Legge 482/1999 ha rappresentato un punto di arrivo, il risultato di istanze, lotte e mobilitazioni volte al riconoscimento della diversità linguistica in Italia e alla garanzia del diritto alla lingua per almeno tre milioni di cittadini italiani. La Legge ha costituito altresì una 41 La Corte costituzionale, dal 1960 (Sentenza 18 maggio 1960 n. 32), aveva sempre considerato la tutela delle minoranze linguistiche una materia riservata esclusivamente allo Stato. Il suo atteggiamento mutò a partire dal 1983 (Sentenza 18 ottobre 1983 n. 312). Sull'argomento, cfr. A. Pizzorusso, Il pluralismo linguistico tra stato nazionale e autonomie regionali, cit. e ancora A. Pizzorusso, Le comunità etnico linguistiche in rapporto al loro riconoscimento giuridico nello Stato italiano, in Gruppi etnico linguistici della provincia di Udine, Udine, Chiandetti, 1978, pp.65-71. Sull'iniziativa di Lizzero, cfr. Mario Lizzero “Andrea”. Il suo impgno civile, politico e sociale, Udine, IFSML, 1995, pp. 65-77. 42 Cfr. più avanti, cap. 3, par.3. 43 PdL C0013, Norme speciali di tutela del gruppo linguistico sloveno (20 giugno 1979, on. Loris Fortuna); PdL S0236, Tutela della lingua e della cultura della popolazione calabrese di origine albanese (12 agosto 1979, sen. Sisinio Zito); PdL C1678, Norme per la valorizzazione della lingua e della cultura friulana (14 maggio 1980, on. Arnaldo Baracetti); PdL C2602, Riconoscimento della parità giuridica della lingua sarda con la lingua italiana e introduzione del sistema del bilinguismo in Sardegna (19 maggio 1981, on. Francesco Macis); PdL C381, Norme per la tutela della minoranza linguistica sarda in applicazione dell’articolo 6 della Costituzione (23 marzo 1982, on. Gianuario Carta); PdL C3549 Provvedimenti per la tutela e la promozione della lingua e della cultura della minoranza etnico-linguistica occitana in Italia (5 ottobre 1982, on. Cesare Dujany). 44 Si tratta delle PdL C0400, Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche, presentata all’inizio di luglio 1987 dal gruppo Psdi, C0612, Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche, presentata il 7 luglio 1987 dal gruppo Psi, e C1111, Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche, presentata il 21 luglio dal gruppo Pci e Indipendenti, ai quali si aggiunse la PdL n. 2074, Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche, presentata il 16 dicembre da due deputati DC: uno friulano e uno sardo. 45 A questo riguardo si rimanda ai successivi capitoli 3 e 4. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 26 nuova partenza. Nella direzione dell'Europa “unita nella diversità”, coerentemente con gli impegni assunti dallo Stato italiano ratificando la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali, con gli indirizzi più volte espressi dal Parlamento europeo, con i criteri di Copenhagen proposti nel 1993 agli Stati aspiranti membri dell'Unione europea ma validi anche per gli Stati che già ne fanno parte, con i principi ribaditi in quel Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre scorso46. Nella direzione dell'Italia “libera e democratica”, nella quale, secondo quanto previsto dalla Costituzione tutti i cittadini sono uguali, anche quelli la cui lingua propria è diversa da quella italiana. 2.2 I contenuti della Legge: tutela delle minoranze linguistiche o tutela della maggioranza dalla tutela delle minoranze? La Legge 482/1999 ha visto la luce in un momento tendenzialmente favorevole al riconoscimento della diversità e della pluralità linguistica e culturale, ma dopo un lungo periodo di forti ostacoli teorici e pratici, e i sostenitori della tutela delle minoranze linguistiche, a tutti i livelli, sino in Parlamento, si sono dovuti scontrare con radicali posizioni ideologicamente contrarie a qualsiasi forma di effettiva attuazione dell'art. 6 della Costituzione. Questo confronto non ha generato soltanto oltre cinquant'anni di distanza tra l'entrata in vigore della Carta costituzionale e l'attuazione di un suo principio fondamentale, ma ha influito anche sulla forma e sulla sostanza dei provvedimenti con cui si è giunti, seppur tardivamente, a dare attuazione alla previsione secondo cui “La Repubblica tutela le minoranze linguistiche con apposite norme”. Ciò è evidente proprio nella Legge 482/1999, che costituisce il primo momento in cui a livello statale l'art. 6 della Costituzione ha cessato di essere lettera morta. La lettura del suo testo permette di apprezzare l'attenzione del Legislatore nei confronti della complessità delle azioni da mettere in campo per tutelare le minoranze linguistiche, soprattutto di fronte alla grande varietà, sul piano storico, geografico, demografico e sociale, delle situazioni minoritarie presenti nello Stato italiano. Ma è possibile altresì percepire l'eco delle tensioni e delle contrapposizioni che si sono avute in sede di discussione e votazione in Parlamento. Alcune previsioni e diverse formulazioni, addirittura, fanno sorgere il dubbio se la Legge 482/1999 non sia realmente un provvedimento di tutela delle minoranze linguistiche quanto, piuttosto, una legge di tutela della maggioranza dall'impatto della tutela delle minoranze. Questa impressione si ha, per esempio, di fronte all'articolo 1, che si apre all’insegna dell’affermazione che “la lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano” e sancendo che “la Repubblica, che valorizza il patrimonio linguistico e culturale della lingua italiana, promuove altresì la valorizzazione delle lingue e delle culture tutelate dalla presente legge”. La Legge 482/1999 è il primo provvedimento statale in cui si afferma esplicitamente il ruolo dell'italiano come lingua ufficiale e ciò suona come una sorta di “rassicurazione” nei confronti dell'eventualità che le lingue delle minoranze possano avere pienamente lo stesso status. È un po' come se una Legge per la promozione della mobilità alternativa si aprisse con l'affermazione che le automobili sono il principale mezzo di locomozione e con il dichiarato impegno a promuovere l'uso del treno o della bicicletta, subordinato però al ribadito sostegno alla diffusione delle auto. Qualcosa di simile accade anche altrove, magari per colmare qualche vuoto normativo riguardante la lingua maggioritaria. L'articolo 19, per esempio, non è solo dedicato alla promozione delle lingue e delle culture minoritarie “diffuse all’estero, nei casi in cui i cittadini delle relative comunità abbiano mantenuto e sviluppato l’identità socio-culturale e linguistica d’origine”, ma anche alle intese con altri Stati promosse dal Ministero degli affari esteri per “diffondere all'estero la lingua e la cultura italiane”. Oppure l'articolo 10, che 46 Cfr. Il Trattato di Lisbona, Gazzetta ufficiale dell’Unione europea C 306, 17 dicembre 2007 e http://europa.eu/lisbon_treaty/index_it.htm. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 27 prevede che i consigli comunali adottino “toponimi conformi alle tradizioni e agli usi locali”, ma “in aggiunta” a quelli ufficiali. Più in generale, ogni qual volta compaiono indirizzi operativi rilevanti, essi paiono essere mitigati da formulazioni articolate, come nel caso dell'articolo 4 che riguarda le scuole. Non si comprende inoltre la (presunta) distinzione, all'articolo 2, tra quelle popolazioni definite con un aggettivo (catalane, slovene, albanesi...) e quelle indicate come “parlanti” una lingua (il sardo, il friulano, il francese...): dato che non pare legata al fatto che la corrispondente lingua sia maggioritaria in qualche altro Stato, perché in tal caso non si comprenderebbe la collocazione di catalani e soprattutto francofoni, l'unica spiegazione possibile è legata all'origine delle diverse comunità, “pienamente” autoctone quelle “parlanti”, e anticamente immigrate le altre, normalmente tra il 1.200 e il 1.500 d.C. Ma anche se così fosse non si comprenderebbe la posizione degli sloveni, tenuto conto che la presenza prima slava e poi slovena nel Friuli orientale e nella zona di Trieste risalirebbe almeno al VII secolo47. Quel che è certo è che tutte le minoranze linguistiche storiche, enumerate all'articolo 2, hanno pari dignità secondo la Legge e sono parimenti destinatarie di tutela, poiché la eventuale differenziazione tra due categorie di minoranze oltre a non avere un fondamento storico non esiste né in termini grammaticali – sempre di “popolazioni” si tratta – né sul piano giuridico. L'articolo 2 ha proprio il merito di enumerare le minoranze che, “in attuazione dell'articolo 6 della Costituzione” e “in armonia con i principi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali”, sono oggetto di tutela, cioè – con l'eccezione di rom e sinti, esclusi “in corso d'opera”, con l'impegno a tutt'oggi disatteso di approvare uno specifico provvedimento – tutte le comunità linguistiche storicamente presenti nel territorio dello Satto italiano, la cui lingua è diversa da quella italiana o dai dialetti italiani48. Un'altra norma importante è quella enunciata nell'articolo 3, che definisce le modalità per la delimitazione dell’ambito territoriale in cui si applicano le disposizioni di legge: si tratta di una sorta di “autocertificazione” realizzata a livello comunale e “controfirmata” dal Consiglio provinciale. Al di là della prassi da seguire nella sua delimitazione, il riferimento al territorio rappresenta potenzialmente un elemento di forza della Legge, poiché non limita l'impatto della sua attuazione solo a coloro che parlano la lingua, ma pone le basi di un’azione di recupero della presenza della lingua anche tra coloro che non la utilizzano più, ma per diverse ragioni sono intenzionati a conoscerla e ad usarla. Seguono disposizioni che si concentrano opportunamente sull'uso della lingua nei campi dell'istruzione e della formazione, della vita pubblica e dei media. Per ciò che concerne l’istruzione, l'articolo 4 della Legge stabilisce che “nelle scuole materne [...] l'educazione linguistica prevede, accanto all'uso della lingua italiana, anche l'uso della lingua della minoranza per lo svolgimento delle attività educative” e “nelle scuole elementari e secondarie di primo grado è previsto l'uso anche della lingua della minoranza come strumento di insegnamento” e definisce il “fine di assicurare l'apprendimento della lingua della minoranza” che le scuole devono perseguire “nell'esercizio dell'autonomia 47 Cfr. V. Valenčič, Botta e risposta sugli sloveni in Italia, Trieste, SLORI, 2003, p. 18. Sulle minoranze linguistiche in italia, si rimanda a AA.VV., Città & Regione, Le dodici Italie. Le minoranze etnico-linguistiche nello Stato italiano, Anno 6, n. 3, Firenze, Nuova Guaraldi Editore, 1980; T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1990; G. Freddi, l’Italia plurilingue, Milano, Minerva Italica, 1983; M. Olmi, Italiani dimezzati. Le minoranze etnico-linguistiche non protette, Napoli, Edizioni Dehoniane, 1986, nonché alla rappresentazione geografica presente in C. Grassi - A. Sobrero - Tullio Telmon, Fondamenti di dialettologia, Bari, Laterza, 1998 (2 ed.), p. 88 e alla già citata opera di Sergio Salvi, Le lingue tagliate. Rom e sinti erano previsti nelle diverse versioni preliminari di quella che è diventata la Legge 482/1999 (cfr. per esempio PdL n. 169, Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche, presentata il 9 maggio 1996 dal deputato Corleone, Atti parlamentari della Camera dei deputati, XIII Legislatura). A proposito dell'enumerazione e denominazione delle minoranze riconosciute con la Legge 482/1999, si potrebbe contestare che la unitarietà dei diversi gruppi minoritari, che si presume con la sua enumerazione all'art. 2 della Legge, è più apparente che reale, a partire dalla pluralità di situazioni, in tutto l'arco alpino, che ricadono sotto l'etichetta di germanici. Va detto che in sede di attuazione di questa pluralità si tiene assolutamente conto, visto il ruolo attribuito a tal fine alle singole comunità locali. 48 Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 28 organizzativa e didattica di cui all'articolo 21, commi 8 e 9, della legge 15 marzo 1997 n. 59”49. Lo stesso articolo della Legge 482/1999 lascia alle scuole, nella loro autonomia, il compito di definire in termini operativi la presenza delle lingue minoritarie nell'offerta formativa degli adulti, la formazione e l'aggiornamento degli insegnanti e le modalità di svolgimento delle attività di insegnamento della lingua. L'articolo 5 rimanda poi ai decreti del Ministro della pubblica istruzione il compito di indicare i criteri generali per l'attuazione delle misure contenute nell'articolo 4 e indica una certa disponibilità finanziaria a sostegno di queste azioni, mentre l'articolo 6 prevede che le Università delle regioni interessate assumano iniziative a questo riguardo, “compresa l’istituzione di corsi di lingua e cultura delle lingue di cui all’articolo 2, finalizzata ad agevolare la ricerca scientifica e le attività culturali e formative a sostegno delle finalità della presente legge”. Gli articoli 7, 8 e 9 fanno entrare le lingue di minoranza nei rapporti tra cittadini e istituzioni, nell’amministrazione, nei servizi e in qualche modo anche nella giustizia, in forma sia orale sia scritta, fermo restando che gli effetti giuridici sono prodotti dai soli atti in italiano. L'articolo 9 prevede anche una certa dotazione finanziaria annua per questo genere di interventi, mentre nel quadro dell'uso pubblico delle lingue ammesse a tutela ci sono apposite previsioni in materia di toponomastica e di onomastica, in particolare per il ripristino dei nomi e cognomi originari, rispettivamente agli articoli 10 e 11. Gli articoli 12 e 14 sviluppano un altro indirizzo generale di politica linguistica: le lingue tutelate devono essere utilizzate nei media, alla radio, in televisione e nell’editoria. Al servizio pubblico radiotelevisivo in particolare è attribuito un valore strategico, tanto che la Legge prevede che “Nella convenzione tra il Ministero delle comunicazioni e la società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo e nel conseguente contratto di servizio sono assicurate condizioni per la tutela delle minoranze linguistiche nelle zone di appartenenza” e che con la stessa concessionaria possono stipulare apposite convenzioni “altresì” (cioè in aggiunta) le Regioni interessate. Infine l'articolo 16 prevede la possibilità di costituire appositi istituti culturali, l'articolo 17 dà disposizioni circa l'adozione delle norme regolamentari, l'articolo 18 si occupa della disciplina dell'attuazione della Legge nelle regioni a Statuto speciali, l'articolo 19 riguarda la promozione linguistica e culturale nelle realtà di emigrazione, pur con le modalità sopra ricordate, e il conclusivo articolo 20 contiene le norme finanziarie. 3. Dalle parole ai fatti. L'attuazione della Legge 482/1999 3.1 La delimitazione territoriale Un primo aspetto è quello della delimitazione territoriale. Ai sensi dell'articolo 3 della Legge è la popolazione locale del singolo comune o i suoi rappresentanti in Consiglio comunale ad avviare il riconoscimento della presenza tradizionale della singola lingua minoritaria in un determinato territorio. La finalità è quella di valorizzare la soggettività della singola comunità locale, chiamata ad “auto identificarsi”, nei cui confronti i vari Consigli provinciali hanno una funzione che si potrebbe definire “notarile”. In più di qualche caso, però, è stato osservato che non c'è piena coincidenza tra il territorio dove effettivamente sono presenti le minoranze ammesse a tutela e quello delimitato che talvolta risulta più ristretto, escludendo aree “di minoranza linguistica”, per effetto della scarsa sensibilità locale nei confronti della questione o della consapevolezza della propria specificità linguistica e culturale abbinata all'idea che la situazione sarebbe tale da non richiedere speciali interventi di tutela50, oppure più ampio, inglobando anche aree in cui non si riscontra la 49 Al riguardo, cfr. Legge 15 marzo 1997, n. 59, Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 63 del 17 marzo 1997. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 29 presenza delle minoranze, per soddisfare una volontà e un bisogno di identità “altra” o più prosaicamente per accedere a eventuali finanziamenti51. Il rischio di distorsioni potenzialmente alto, legato a questa forma di “autocertificazione”, ha avuto nel complesso effetti limitati, sia perché i comuni “minoritari” esclusi non sono così numerosi, sia perché gli inclusi “non minoritari” non hanno in massima parte mai presentato domande di finanziamento, sia perchè infine si è intervenuto per fermare i casi-limite, come quello dei comuni dell'isola di Ischia che intendevano farsi riconoscere come area germanofona, con l'avvallo della Provincia di Napoli, in base alla presenza “storica” (sic!) di persone di origine austriaca e tedesca 52. 3.2 L'istruzione: qualcosa si muove Per quanto riguarda l'istruzione, di fronte ad una Legge secondo cui “è previsto” e si “prevede” l'uso delle lingue minoritarie nelle scuole e si persegue “il fine di assicurar(ne) l'apprendimento”, non avrebbero dovuto esserci più problemi per un'azione efficace in questo campo. In realtà non è stato proprio così, per più motivi. Da una parte, perché nella Legge 482/1999 accanto alle lingue figurano spesso e volentieri “culture” e “tradizioni culturali” e ciò ha comportato il prevalere in diverse delle attività realizzate dei contenuti “culturali” e “tradizionali”, magari insegnati in italiano, rispetto all'uso, all'insegnamento e quindi all'apprendimento linguistico. Dall'altra, perché l'autonomia scolastica è stata spesso interpretata non come possibilità, per ogni singolo istituto, di definire le modalità più consone per attuare quanto disposto dall'articolo 4 della L. 482/1999, bensì come libertà di scegliere se applicare o meno, totalmente o parzialmente, la Legge, spesso considerata soltanto come una provvedimento che dà la possibilità di accedere a qualche contributo per “provare” ad applicarlo con qualche progetto sperimentale. Infine, proprio la “sperimentazione” – che secondo l'articolo 2 del D.P.R. 345/2001 avrebbe dovuto avere “durata massima di tre anni” – da temporanea sembra destinata a diventare permanente, cosicché i previsti uso, insegnamento e apprendimento delle lingue minoritarie che dovrebbero, almeno in prospettiva, essere la norma, restano l'eccezione, qualcosa di episodico e estemporaneo. A ciò va anche aggiunta la limitata disponibilità di materiale didattico nelle lingue ammesse a tutela, rilevata anche dal Comitato di accompagnamento della Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali 53. Un'altra questione aperta attiene alla formazione e all'aggiornamento degli insegnanti di (e in) lingua minoritaria e quindi alla riconoscibilità e al riconoscimento delle competenze specifiche acquisite. In questo campo la Legge 482/1999 attribuisce un ruolo strategico alle Università delle regioni interessate dalla presenza delle minoranze linguistiche, le quali, secondo l'articolo 6, “assumono ogni iniziativa (...) finalizzata ad agevolare la ricerca scientifica e le attività culturali e formative a sostegno delle finalità”, con la precisazione che ciò avviene “nell'ambito della loro autonomia e degli ordinari stanziamenti di bilancio”. L'assenza di un apposito fondo - che non è stato previsto evidentemente per il fatto che “essere” Università in aree di minoranza significa “fare” Università, cioè ricerca e formazione, anche per le minoranze e nelle (e con le) lingue minoritarie – spiega forse il limitato dinamismo degli 50 In entrambi i casi – in particolare nel primo “negazionista”, ma anche nel secondo, che denota scarsa consapevolezza di quelli che sono i bisogni di una minoranza linguistica – si tratta di un sintomo evidente dell'avvenuta completa minorizzazione della specificità linguistica “altra”. 51 Sull'argomento, con riferimento alla realtà del Piemonte, si richiama l'intervento di Enrico Allasino nonché E. Allasino-C. Ferrier-S. Scamuzzi-T. Telmon, Le lingue del Piemonte, cit., pp. 3-5. 52 Cfr. Consiglio provinciale della Provincia di Napoli, Deliberazione n. 10 del 22 marzo 2006, Riconoscimento della minoranza linguistica germanica sul territorio dell'isola d'Ischia. Istanza ex art.3 della legge-n.482/99, www.notes.provincia.napoli.it/ProvNapoli/NA_DELIB.NSF/6ea2ca1caacfb0aec1256a08004f95fd/9daf843ef73d 4330c12571640049692d?OpenDocument. 53 Cfr. Council of Europe – Advisory committee on the Framework Convention for the Protection of National Minorities, Second Opinion on Italy adopted on 24 February 2005, ACFC/INF/OP/II(2005)003, pp. 1, 25-29 e 35. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 30 Atenei in questo campo, ma non lo giustifica. Va ricordato che molte Regioni sostengono le Università per la tutela delle minoranze o più in generale per la valorizzazione del patrimonio linguistico, ma in tal caso l'azione degli Atenei riguarda più la dimensione culturale che quella linguistica e quasi mai è nelle (e con le) lingue ammesse a tutela54. Al di là di questi limiti, in parte insiti nelle medesime previsioni normative, un dato sicuramente positivo è rappresentato dal fatto che la Legge 482/1999 ha riconosciuto alle lingue e alle culture delle minoranze linguistiche piena “cittadinanza scolastica”. Ciò ha comportato la crescita dello status sociale delle lingue stesse e l'“uscita dalla clandestinità” sia della volontà delle famiglie a favore del loro insegnamento sia della professionalità e della sensibilità di quegli insegnanti che già prima della legge avevano cominciato a lavorare sulle/con le/nelle lingue minoritarie. I veri problemi risiedono nel permanere della mancanza di quei decreti del Ministro della Pubblica istruzione previsti dall'art. 5 della legge e nel calo delle risorse statali messe a disposizione per questo tipo di interventi, che è oscillato 746.796,68 euro del primo anno ai circa un milione di euro dal 2003 al 2007 sino a ridursi a 680.000 euro nel 2008 e 590.000 nel 2009 e riguardano la formazione e l'aggiornamento degli insegnanti di (e in) lingua minoritaria e quindi alla riconoscibilità e al riconoscimento delle competenze specifiche acquisite. 3.3 L'uso pubblico della lingua. Cresce la consapevolezza, calano i fondi Nell'architettura complessiva della Legge 482/1999 le norme riguardanti l'uso pubblico delle lingue delle minoranze occupano, giustamente, una posizione di rilievo, non solo perché non esiste tutela se non c'è previsione e garanzia d'uso, ma anche per la sempre maggiore importanza attribuita alla comunicazione nei rapporti tra cittadini e istituzioni, tra cittadini e amministrazioni e tra utenti e servizi. Questo è l'ambito di attuazione della legge di tutela in cui si registrano i risultati più significativi. Corsi di formazione per il personale, progetti di comunicazione istituzionale e di servizio nelle lingue minoritarie (campagne informative e promozionali, siti internet, serie di trasmissioni tematiche radiofoniche e televisive), utilizzo di interpreti e traduttori a sostegno delle attività degli organi collegiali o per la traduzione nelle lingue minoritarie di atti, documenti e testi di pubblico interesse, sportelli linguistici e segnaletica istituzionale e cartellonistica toponomastica hanno in generale avuto un effetto positivo sullo status e sulla “cittadinanza” delle lingue minoritarie. L'impatto di questi interventi, nelle diverse minoranze d'Italia, è stato però assai variabile, a seconda della situazione e della possibilità che gli interventi realizzati – in particolare segnaletica e cartellonistica, corsi di formazione e sportelli linguistici – potessero essere inseriti o meno in un quadro complessivo di politica linguistica. Questo approccio, che comporta scelte, indirizzi, valutazioni e programmi, di fatto manca, per più ragioni, nella maggior parte delle minoranze linguistiche destinatarie della tutela prevista dalla Legge 482/1999, come si può constatare anche nel caso della comunità occitana. In questo contesto occupa una posizione strategica la figura dell'operatore di sportello linguistico, la cui attività si dovrebbe sviluppare – e ciò accade spesso, ma non sempre – lungo le due dimensioni della comunicazione pubblica e dell'informazione al cittadino nelle lingue ammesse a tutela e della promozione dell'uso sociale della lingua “come lingua” nel territorio. La funzione dei cosiddetti “sportellisti” è cresciuta nel corso degli anni e può essere una vera cartina di tornasole dell'efficacia delle azioni previste dall'art. 6 del Regolamento d'attuazione della legge di tutela. Si tratta, in linea di massima, di persone giovani che esercitano un lavoro nuovo, in parte ancora da inventare, nel cui svolgimento hanno la possibilità di mettere in gioco il proprio “saper essere” e il proprio “saper fare” e di crearsi una professionalità con la lingua minoritaria, che si rivela non solo patrimonio o diritto, ma anche opportunità economica 54 Su questa e sulle altre criticità del mondo della scuola e dell'università si segnala l'intervento di Giovanni Frau (Università degli studi di Udine) al convegno internazionale Nùmenes de logu. I nomi di luogo in Sardegna tra toponomastica storica e politica linguistica, organizzato dalla Regione autonoma della Sardegna l'11 e 12 luglio 2009 a Orosei (Nu). Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 31 e sociale. Accanto a questi aspetti positivi non si può non osservare che questa miscela di motivazione, preparazione, competenze, conoscenze e attitudini multidisciplinari rischia di non esprimere tutto il suo potenziale per la precarietà dei rapporti di lavoro – la prestazione professionale a tempo determinato dell'operatore di sportello è per ora condicio sine qua non per l'ottenimento di un finanziamento ministeriale – e conseguentemente per la impossibilità di garantire una progettazione e un servizio senza soluzioni di continuità e con una piena coerenza progettuale nel corso del tempo. Più in generale la drastica riduzione dei fondi statali - si è passati, per tutte le minoranze d'Italia, dagli 8.884.542,58 euro del 2001 e addirittura dai 13.784.607,66 euro del 2002, che ha registrato risorse più consistenti per effetto dei fondi accantonati nel 2000, prima dell'approvazione del Regolamento attuativo, ai 5.979.054,99 del 2007, ai 4.681.621,00 euro del 2008 e ai 2.072.000,00 euro del 2009 – è una concreta minaccia all'efficacia degli interventi previsti, rispetto ai quali anche in questo caso si sente in particolare la mancanza di forme di riconoscimento delle competenze linguistiche e delle competenze professionali nelle lingue minoritarie di formatori, comunicatori, operatori di sportello e funzionari amministrativi. 3.4 Radio e tv restano spente Per ciò che concerne il terzo settore di intervento previsto dalla Legge 482/1999, che riguarda in particolare la presenza e l'uso delle lingue minoritarie nel servizio pubblico radiotelevisivo, c'è purtroppo poco da dire. L'articolo 12, c. 1, della Legge stabilisce con quali strumenti si deve intervenire (“nella convenzione tra il Ministero delle comunicazioni e la società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo e nel conseguente contratto di servizio”), chi sono i soggetti tenuti a farlo (il Governo statale e la Rai) e qual è l'obiettivo e quindi l'intervento concreto da realizzare (assicurare “condizioni per la tutela delle minoranze linguistiche nelle zone di appartenenza”). Quali siano le “condizioni per la tutela” è invece specificato dal Regolamento di attuazione. Il D.P.R. 345/2001, infatti, prevede all’art. 11, c. 1 che “Nell'ambito delle finalità di cui all'articolo 12 della legge, la convenzione tra il Ministero delle comunicazioni e la società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo, e il conseguente contratto di servizio individuano, di preferenza nel territorio di appartenenza di ciascuna minoranza, la sede della società stessa cui sono attribuite le attività di tutela della minoranza, nonché il contenuto minimo della tutela, attraverso la prevista attuazione per ciascuna lingua minoritaria di una delle misure oggetto delle previsioni di cui all'articolo 11, comma 1, lettera a) della Carta europea delle lingue regionali e minoritarie”. Tuttavia, nonostante la particolare inequivocabilità delle norme, in nessuna convenzione tra il Ministero delle comunicazioni e la Rai né in nessun conseguente contratto di servizio, si è riusciti ancora ad individuare le sedi della società concessionaria competenti per ciascuna minoranza linguistica e il “contenuto minimo della tutela” per ciascuna lingua e men che meno questo “contenuto” è stato realizzato55. 4. Valutazioni, problemi e prospettive Dieci anni di Legge 482/1999 – anche se in realtà l'attuazione del provvedimento è stata avviata solo sette anni e mezzo fa – possono essere valutati da un punto di vista emotivo. In tal caso rispetto alla lunga attesa subita e alle grandi aspettative create i risultati possono essere considerati deludenti, in particolare su servizio radiotelevisivo pubblico e istruzione. Tuttavia, se si tiene conto del contesto storico, politico e ideologico in cui la Legge è nata e si è trovata 55 Una descrizione della situazione è offerta da Ivana Suhadolc nel volume di E. Matarazzo, La Rai che non vedrai. Idee e progetti sul servizio pubblico radiotelevisivo, Milano, Franco Angeli, 2007. Documentazione al riguardo è disponibile anche presso il sito internet del Comitât/Odbor/Komitat/Comitato 482, che aggrega associazioni e altre entità espressione delle minoranze linguistiche friulana, slovena e germanica del Friuli: www.com482.altervista.com. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 32 ad operare, gli esiti concreti ottenuti hanno una connotazione decisamente meno negativa. Anzi, con riferimento ad alcune esperienze in particolare, si può parlare di importanti conquiste, sia simboliche sia concrete, che vanno dall'uscita dalla “clandestinità” di lingue, culture, persone, al supporto ad attività didattiche innovative sino alla creazione di nuove professionalità ad alto contenuto di conoscenza. A dieci anni dalla sua storica approvazione, più che delusione, si potrebbe provare una certa preoccupazione perché l'attuazione della Legge 482/1999 e più in generale la tutela delle minoranze è minacciata: sul piano ideale, dal riemergere di vecchie tendenze scioviniste e dall'affermarsi di nuove paure della diversità, che si manifestano sia con il vecchio culto del più rigido monolinguismo sia attraverso nuovi particolarismi strumentali; in concreto, per effetto delle pesanti decurtazioni ai già limitati fondi messi a disposizione per l'uso e l'insegnamento delle lingue minoritarie nelle scuole, il loro utilizzo nella vita pubblica e la loro presenza nei media. A dieci anni dall'approvazione e dalla promulgazione della Legge 482/1999, quindi è quanto mai necessario sostenerne e completarne l'attuazione. Alla luce dei risultati ottenuti, delle difficoltà incontrate e delle necessità presenti, ciò significa intervenire non solo con maggiori risorse finanziarie, tenendo conto che la democrazia linguistica può essere anche un buon investimento economico, ma anche in virtù di indirizzi operativi più determinati e vincolanti in termini di risultato da parte delle autorità competenti, con indicazioni di priorità nell'utilizzo dei fondi per azioni con coerenti obiettivi di pianificazione linguistica e in cui in cui si creano professionalità e lavoro, nonché con strumenti e sistemi di valutazione e monitoraggio degli interventi realizzati e da realizzare, maggiore responsabilizzazione di Regioni e enti locali, definizione chiara di percorsi formativi e riconoscimento di competenze linguistiche e professionali in questo campo. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 33 Dibattito Matteo Rivoira Ringraziamo Marco Stolfo per il suo intervento, che ricolloca la normativa nel quadro dei grandi ideali, che a volte, troppo spesso, si dimenticano. Certo è che l’Italia è un paese dove culturalmente, sulla questione della differenza e delle minoranze linguistiche, non si è fatto molto. Il più volte evocato “dibattito” di questa estate, quando la Lega ha sollevato tutta una serie di questioni riguardo al dialetto, si è distinto per l’insipienza, tanto dal lato leghista quanto da quello di chi si opponeva alla proposta. Nessuno ha parlato della legge di tutela; i leghisti hanno affermato che la loro proposta era quella di insegnare il dialetto a scuola, però nessuno si è ricordato di dire che in alcuni posti, già lo si faceva. Dall’altro canto, la politica di sinistra, gli intellettuali, hanno brillato per il loro silenzio. In particolare mi sembra un concetto interessante quello della tutela attiva, che non si limita alla documentazione, all’archiviazione delle lingue. Certo è che va fatta adoperando la ragione, perché, come è stato evocato, le realtà socio linguistiche sono molto differenti. Ad esempio, in una comunità walser, come quella di Alagna, dove negli anni ’90 si contavano una trentina di parlanti, è stato fatto un tentativo di trasformare la loro parlata in ‘lingua’, dotandola di tutto ciò che una lingua, nell’immaginario collettivo, deve avere: hanno così redatto un dizionario di 40.000 parole ottenendo uno strumento assolutamente non commisurato alla realtà: di 40.000 parole, 35.000 almeno sono inventate; non si capisce a cosa serve e, soprattutto, l’esperienza culturale, quella invece importante, che era, che è, per i parlanti, il walser di Alagna, ne risulta obliterata, confusa in una melma di invenzioni gratuite. Io sono dell’idea che, soprattutto attraverso la chiave del plurilinguismo, uno possa accedere a modelli di convivenza diversa, il cui successo non necessariamente debba misurarsi sul grado di ufficialità ottenuta, ma possa anche misurarsi su altri terreni. Comunque, queste sono tutte questioni che rimangono aperte, come la questione della grafia per l’occitano. Inoltre, la legge nomina le lingue al singolare (occitano, francoprovenzale…): è chiaro però che dietro questo singolare, si cela in realtà una molteplicità di realtà e di situazioni che non sempre ben si adattano al dettato legislativo. Sandra Pasquet Io penso al ritardo con cui queste leggi sono arrivate… Le paure che ho avuto io stessa, per esempio, nei confronti dell’occitano a scuola, sono legate al fatto di voler a tutti i costi soffermarsi su una lingua che escludeva chi non la conosceva. Nel momento in cui, invece, tu chiedi di fare un consiglio comunale in occitano, come si è sempre fatto anche in passato, o che gli atti vengano redatti in occitano, hai fatto un’operazione che, tutto sommato, allontana dei fantasmi e delle paure. In fondo, è un’operazione giusta, con la quale sono abbastanza d’accordo… È vero, io penso che l’italiano sia la lingua nazionale, quella che ci serve per comunicare, tutti, in modo che nessuno venga escluso. Dopodichè, possiamo benissimo fare come abbiamo fatto in questi ultimi anni, proprio grazie alla 482: delle attività nelle scuole, fuori dalle scuole, che permettono di mantenere la lingua, di creare un consenso, perché solo con il consenso la lingua si manterrà attiva, cioè solo se la gente non ne è infastidita. E, invece, in questo campo si è creato una sorta di fastidio. Io ricordo di aver vissuto negli anni sessantasettanta con un certo fastidio il discorso che veniva fuori, ‘il cartello deve essere scritto in occitano, quest’altro deve essere in occitano, ecc.’. Assolutamente ti allontanavi, non volevi aver nulla a che fare con queste idee. Marco Stolfo Solo due precisazioni: intanto, l’italiano è la lingua ufficiale, non la lingua nazionale, così dice la 482; i due termini vogliono dire due cose abbastanza diverse. Sono d’accordo con lei, sia Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 34 chiaro. Ritengo però, che, probabilmente, arrivando molto tardi, soprattutto in situazioni in cui questo ritardo – questa lunga mancanza – ha avuto effetti particolarmente dannosi, si è cercato di fare un po’ tutto subito, magari facendo precedere il secondo piano al primo, o alle fondamenta. Io credo che, in realtà, bisogna fare tutto con una cerca gradualità, ma con una certa coerenza con l'obiettivo di garantire e agevolare l'uso e quindi lo sviluppo della lingua, l'uso della lingua e quindi il godimento concreto dei diritti linguistici. Sulla questione “esclusione”: il fatto che io possa esprimermi in consiglio comunale, in consiglio regionale, in friulano, non è escludente di nessuno; al contrario, mi include finalmente in quelle istituzioni, che finalmente sono “anche” mie. Faccio un esempio: anni fa mi è capitato, come animatore di scambi internazionali giovanili, di far parte di un gruppo di Torino in visita a Strasburgo e Bruxelles, presso le sedi delle istituzioni europee. Qualche partecipante al viaggio sottolineò come le sedi di Consiglio d'Europa e Unione europea avessero tabelle solo in inglese e francese, le principali lingue di lavoro, o in neerlandese e francese, le lingue della capitale del Belgio, domandando perchè non ci fosse l’italiano. Avevano ragione. È lo stesso problema che avevamo e in parte abbiamo ancora oggi noi “minoritari”, che nelle sedi istituzionali dei “nostri” enti territoriali non troviamo le nostre lingue. Si parla di chiusure. Vedo due strade, una retorica e irreale e una non considerata e sostanziale. Se il rischio che in determinato territorio una minoranza ben tutelata “minorizzi” gli appartenenti alla maggioranza è a mio modo di vedere impossibile, mi pare una evidente bugia quella che considera in maniera acritica la lingua dominante e maggioritaria come uno strumento di inclusione. Caso mai si tratta si assimilazione. E' un approccio sbagliato, figlio di pregiudizi, quello che, per esempio nel campo della scuola, subordina l'insegnamento della lingua minoritaria ad una scelta, un'opzione. Siamo mai stati liberi di scegliere se imparare e usare la lingua maggioritaria? No, ci è stato imposto, e basta. Ora l'alternativa non è promuovere due imposizioni al posto di una, bensì garantire un'offerta formativa che contempli più opportunità: la lingua maggioritaria, che è diventata senza dubbio una lingua utile e dunque deve essere conosciuta ed appresa, le altre lingue dell'ambiente – qui, per esempio, occitano e francese – che sono anch'esse importanti e utili, nel quadro di un'educazione alla diversità e di una formazione plurilingue. La tutela delle minoranze e delle lingue minoritarie non è escludente! Anzi, supera un'esclusione, crea inclusione, offre opportunità per tutti, minoritari e maggioritari. Il punto di vista “maggioritario” non conosce e riconosce nulla di “altro” da sé, quello “minoritario” è cosciente del fatto che le sue specificità non sono le uniche. La prospettiva è quella di non rischiare di scivolare in un anacronistico monolinguismo e di trasformare positivamente la potenziale di-poliglossia in un effettivo bi-plurilinguismo. Questa idea è ben presentata nella più recente Legge regionale di tutela della lingua friulana, la quale, per quanto riguarda la scuola, colloca l’insegnamento e l’uso del friulano, come un contributo all’educazione plurilingue e alla formazione della cittadinanza europea. La logica è: non più la tua e la mia lingua, ma le nostre lingue, con le quali abbiamo più possibilità di conoscenza, di scambio, di relazione e grazie alle quali possiamo imparare meglio anche altre lingue: l'inglese, lo spagnolo, il tedesco... Mi sembra interessante ricordare la Raccomandazione n. 3642 del 1989 (dieci anni prima la Legge 482/1999!) del Consiglio nazionale della pubblica istruzione, secondo cui la tutela delle minoranze linguistiche nelle scuole non deve raggiungere solo l’obiettivo del “pieno sviluppo delle capacità di esprimersi nella propria lingua materna ai cittadini “minoritari”, ma anche quello di assicurare a tutti i cittadini residenti in zone tradizionalmente abitate dalle minoranze linguistiche “una sufficiente conoscenza della lingua della minoranza”. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 35 Silvana Marchetti Io volevo parlare come insegnante che, con altri insegnanti, ha fatto dei progetti per poter avere dei finanziamenti per l’inserimento della lingua minoritaria nelle scuola. È stato un percorso lungo, faticoso; ed è sempre più faticoso seguire le tracce di questi progetti, per avere pochissimi soldi, perché chi ha sempre avuto di meno dai finanziamenti della legge 482 sono state le scuole, perchè hanno tagliato. I primi anni ci hanno dato, mi sembra, circa 10.000 euro; l’anno scorso, siamo arrivati a 1.900 euro, proprio una cosa pazzesca. E poi, sempre di più, chiedono progetti, di compilare tabelle di cui non si sa che esito avranno. Però la cosa interessante è che la legge ha sollevato il problema nelle scuole, perché si è dovuto, appunto, organizzare questi progetti. Non tutti vi partecipano; c’è stato anche chi ha detto, tra gli insegnanti, che insegnare una lingua minoritaria è assurdo, perchè si insegnava l’inglese, e le lingue minoritarie non servono a niente. Chi le vuol parlare le parla, ma non è una materia di insegnamento. Però per un buon gruppo di noi, comunque, poco per volta è nata la coscienza che, se questa è una lingua minoritaria, deve essere insegnata. Io penso, personalmente, che a scuola le esperienze non possono riguardare solo la salvaguardia delle tradizioni o della cultura. Un gruppo di insegnanti dei quali faccio parte ha insistito molto: deve esserci l’insegnamento della lingua, come di qualsiasi altre lingua, soprattutto per chi non la parla più o la pratica poco, ma anche per chi la parla in casa. Per fortuna, dalle nostre parti, anche i bambini la parlano ancora. Se poi la si vive come una lingua vera, se viene inserita nell’insegnamento curriculare come le altre, la cosa, secondo noi, le dà dignità. Ci sono obiezioni da parte dei genitori. Anche quest’anno, abbiamo parlato con i genitori della mia classe, -bambini di seconda elementare; fanno obbligatoriamente l’inglese, per scelta il francese, perché abbiamo continuato anche questo, per scelta l’occitano, perché ci teniamo a farlo, più l’italiano. Alla fine i genitori dicevano: quattro lingue!! Erano un po’ preoccupati, ma noi abbiamo detto no, i bambini sono quelli che ci si vogliono mettere, si appropriano dei codici, li usano ... E in effetti posso testimoniare che, insegnando in quattro lingue, io faccio un giorno francese, loro rispondono in francese e capiscono quello che dico; l’inglese non lo so perché non lo conosco; faccio patouà, ripetono, sono contenti e seguono; e l’italiano è la lingua ufficiale… Purtroppo, la cosa che manca, è che non siano previsti né preparazione, né finanziamenti. Tutto è lasciato a chi ha voglia di farlo, non c’è un obbligo, nonostante la legge dica che sarebbe comunque un insegnamento opzionale. È vero, opzionale, però sarebbe da proporre e sostenere... Marco Stolfo In realtà, se l'insegnamento della lingua minoritaria è limitato a chi lo richiede, l’uso è previsto per tutti. La Legge 482 dice: è previsto l’uso nelle zone... Quindi si può insegnare storia, inglese, in friulano… Inoltre è provato da molte ricerche che la capienza del cervello non è limitata a una o due lingue... Al contrario, per parafrasare una celebre frase idiomatica italiana, le lingue sono come le ciliegie: una tira l'altra. E l'apprendimento e l'uso di più lingue agevolano l'apprendimento e l'uso di altre lingue oltre che l'apprendimento in generale. Sandra Pasquet Se però gli insegnanti non lo parlano… Marco Stolfo Il problema è questo: bisogna investire sulla formazione. L'insegnante deve acquisire ed usare nel suo lavoro determinate competenze e conoscenze. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 36 Sandra Pasquet Non si può pensarlo. Può darsi che il friulano sia una lingua ad ampia diffusione, ma sul francese e sull’occitano è ridotto il numero di chi è in grado di insegnarli… Marco Stolfo Ma anche sul friulano! Anzi, rispetto alla platea territoriale di 900 mila persone, nelle tre province di Gorizia, Udine e Pordenone, (i parlanti oscillano tra 450 e 650mila), sicuramente il numero di insegnati è molto molto limitato. Ma serve un programma di formazione, un sistema di riconoscimento delle competenze linguistiche e professionali nella lingua. Sandra Pasquet Però per noi adesso si è ancora aggiunto il fatto che, con la ministra Gelmini, siamo passati all’inglese totale. In seconda elementare va ancora bene, con due ore di inglese; quando arrivi in quinta, hai tre ore di inglese, dopodichè non ti rimane molto tempo per il francese e l’occitano; non ci sono neanche gli insegnanti. Noi siamo in Val Pellice, dove avevamo degli insegnanti di francese distaccati, ora non li avremo più. Il francese rimarrà in una classe o due, rimarrà nel mio plesso e stop. Matteo Rivoira Alla luce di queste considerazioni, mi sembra che ci sia un certo strabismo tra una società che risponde alle domande dell’IRES dichiarandosi favorevole all’insegnamento delle lingue e uno Stato che, a parte millantare tutta una serie di iniziative che non servono a niente, o non vanno in quella direzione, non si impegna realmente. Rispetto ai grafici che mostrava il dott. Allasino, quella della torta dei baschi e le barre del Piemonte c’è un dato che colpisce: gli indifferenti della torta dei baschi e i favorevoli sui generis piemontesi. Si riesce a dire qualcosa di più su quella dimensione lì, di propensione positiva? Si riesce a intravedere un atteggiamento tendenziale della società civile rispetto a questi argomenti, o no? Enrico Allasino L’interpretazione che io do rispetto a questo forte favore nei confronti della tutela delle minoranze linguistiche è quello che ho già detto prima, cioè il fatto che non viene percepito come escludente. La legge non prevede che ci sia un’imposizione dell’uso della lingua, perché è chiaro che questo avrebbe causato direttamente un problema. E quindi questo tipo di tutela, in una situazione in cui non ci sono, per fortuna, tensioni né conflitti aperti, e dove c’è una notevole varietà anche di situazioni sociali, la delibera di appartenenza all’area linguistica non è vista come una minaccia, come qualcosa che escluda qualcuno. È una possibilità in più, c’è anche questa variante in più; si apprezza il fatto che possano essere tutelate lingue e culture locali, senza mettersi sulla strada di lingue imposte generalizzate. Questa naturalmente è la mia interpretazione, che mi sembra solida sulla base dei dati che vi ho presentato. Come è già stato detto, il fatto che una lingua viva, dipende in realtà da scelte che devono fare, giorno per giorno, milioni di persone. Il fatto che ci sia una legge che la tutela, che ne richiede l’insegnamento nelle scuole, che prevede un uso ufficiale, che venga utilizzata nei mezzi di comunicazione, è certamente uno strumento importantissimo, però non è risolutivo. Un esempio, se non mi sbaglio, è quello del gaelico d’Irlanda. Gli irlandesi non hanno bisogno di prendere lezioni da nessuno in fatto di identità nazionale, di orgoglio nazionale. Neanche cent’anni fa stavano ancora lottando contro gli inglesi. Eppure in Irlanda il gaelico, che è lingua ufficiale, che è insegnata a scuola, che può essere usata nei mezzi di comunicazione, non è particolarmente diffuso, ma questo non perché c’è qualche cattivo inglese che impone l’uso della sua lingua, ma semplicemente perchè gli irlandesi non ritengono che sia una cosa Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 37 così importante da mantenere, da riprodurre per la loro identità. È un disastro? Lasciamolo dire a loro. La stessa cosa può succedere per altre lingue minoritarie. Anche qui, non voglio fare polemiche con nessuno, ma c’è un libro di Bernard Poche, che io trovo particolarmente interessante, che sottolinea il fatto che, qualche volta, nella pur giusta polemica contro le imposizioni delle lingue nazionali, si vada magari persino un po’ oltre. E’ un fatto che può non piacere, che può esser ritenuto sgradevole, ma molte persone hanno ritenuto che a un certo punto non fosse il caso - senza negare la propria identità - di fare sì che la lingua locale ne fosse l’elemento centrale. Pensiamo al caso che è stato citato prima, il francese e i Valdesi: c’è stato un momento in cui, dopo la Carta di Chivasso, era possibile che i Valdesi chiedessero di utilizzare il francese, come è successo in Valle d’Aosta. Non l’hanno fatto. Molte cose sono state dette su questo, scritte per esempio dal pastore Tourn: è perchè i Valdesi non volevano apparire la minoranza protestante di una piccola enclave montana. Volevano, e vogliono tuttora, essere la minoranza protestante d’Italia. Questo non vuol dire che rifiutassero il francese, che non lo volessero più usare: non volevano, in qualche modo, essere limitati da esso. Questa è stata una scelta, non è stata un’imposizione. Così come, d’altra parte, quando voi celebrate la giornata del francese, non tirate fuori la bandiera francese, non mettete fuori la bandiera del cantone di Ginevra, perché non è questo il problema. Questo soltanto per dire che quella dell’uso della lingua è una scelta che, di nuovo, può essere giocata su molti fronti. Ciò che rimane della vecchia tradizione della modernizzazione, cioè l’avere una lingua nazionale, è una delle possibilità; cioè dire che le lingue locali sono delle lingue che non hanno una Nazione, ma in qualche modo dovrebbero averla, o avere almeno, una Regione. L’altro fronte è quello che sta venendo avanti adesso, di un uso molto più articolato e composito, dove il problema non è “o solo una cosa o solo l’altra”, ma è proprio solo questo gioco articolato, in cui non conta tanto utilizzare massicciamente, esclusivamente una lingua, ma poterle utilizzare in maniera variegata, a seconda delle opportunità e delle possibilità. Dall’altra parte delle Alpi il contrasto è fra l’occitano e il francese, ma qui non è così. Allora, io direi, lasciamo che ci sia questa articolazione e lasciamo anche, con tutto il rispetto delle norme, che sia il risultato di una scelta fatta democraticamente da tutti; cosa che, in qualche caso, può anche comportare il fatto che si scelga liberamente di non essere una ‘minoranza linguistica’ se non si ritiene che sia questo il punto. Spero di non essere frainteso, scegliete voi, però... Carlo Baret Vorrei semplicemente provare a dare una risposta, forse banale, alla questione posta negli interventi precedenti, sulla divaricazione tra i dati statistici, in cui la maggioranza degli intervistati si mostra favorevole all’insegnamento della lingua minoritaria, e certe difficoltà che si possono trovare, quando si va a proporre un insegnamento anche nella scuola. Per me è la solita divaricazione tra diritti e doveri. Nel momento in cui si chiede se gli appartenenti ad una minoranza hanno il diritto di poter vedere riconosciuta la propria cultura, la propria identità, la propria lingua, alla fine, tranne proprio quelli più “cattivi”, tutti generalmente convengono “Sì, è giusto che questo diritto venga riconosciuto”. Ma nel momento in cui si passa ad applicare praticamente la normativa, e il diritto si trasforma in un impegno da sostenere e un lavoro da fare, diventa quasi un dovere, allora il ragionamento diventa opposto: “No, i doveri devono essere i minimi possibili”. Questo purtroppo è un atteggiamento culturale abbastanza diffuso e in espansione, a mio parere. È necessario, credo, in tutte queste cose, trovare un giusto punto di equilibrio. Rispetto a quanto si diceva prima, io sono d’accordo sul fatto che, benché ormai si esprimano quasi tutti o tutti in italiano, se una persona si esprime molto meglio nella sua lingua, sia giusto che Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 38 questo diritto gli venga riconosciuto, se questo non crea problemi particolari da un punto di vista pratico. Ma se questo diritto diventa “allora tutti gli atti del Comune devono essere tradotti” e quindi si spendono ore ed ore a fare traduzioni, mi sembra che ci si sposti sul terreno di un formalismo inutile e costoso. È chiaro che ci vuole il giusto punto di equilibrio: anche nella scuola non si può andare ad inventare ogni giorno una situazione nuova, ci vuole coerenza tra gli insegnamenti; questo comporta un minimo di imposizione, ma non quella che crea le cose inutili, che alla fine fanno odiare quella che dovrebbe essere semplicemente la difesa di un diritto. Silvana Allisio Io che sono molto più polemica direi che si arriva addirittura ad una divaricazione tra il dire ed il fare: fin che è un dire, va bene a tutti, quando è un fare, molto meno bene. Vuol dire un impegno, una fatica in più, diciamo uno “sbattimento” in più, ecco. Annalisa Coucourde Io volevo chiedere come mai, se il francese è una lingua minoritaria, nella nostra zona perde sempre più piede e si riducono le cattedre, si riducono le ore di insegnamento, si toglie l’insegnamento dalle elementari. Volevo sapere se questa legge non dà nessuna tutela… Sandra Pasquet Mi riallaccio al discorso che faceva prima l’esperto, dicendo che c’è il diritto di scegliere, quando c’è la possibilità materiale di farlo. Però la scelta adesso non c’è, l’insegnamento opzionale non c’è, gli insegnanti che possono insegnare la seconda o terza lingua non ci sono. Perché le risorse sono calate, sia quelle finanziarie, sia il monte ore, quindi non c’è questa possibilità di scelta; è un diritto negato. Non c’è nessuno che possa scegliere l’insegnamento della lingua, né del francese, né dell’occitano. Per quanto riguarda il francese, dopo la guerra c’è stato un carteggio anche piuttosto interessante, perchè tutti i comuni del Pinerolese avevano chiesto delle garanzie per il francese. La risposta è stata “verranno le Regioni, la questione sarà risolta a livello regionale”. Quindi la cosa sembrava risolta così, poi in realtà ci sono voluti trent’anni per avere le Regioni, e l’inghippo è stato lì. I comuni a questo punto avevano attivato dei corsi pomeridiani di lingua francese, quando ancora il francese era molto diffuso nelle famiglie, che venivano fatti alcune volte alla settimana. Dopodichè, negli anni ’70, con l’introduzione del tempo pieno, erano stati attivati dei laboratori, si erano avuti dei distacchi, la formazione degli insegnanti, il comune aveva fatto dei convegni, ecc.. Si è riusciti ad averlo alle elementari con l’introduzione delle lingue a partire dagli anni ’90, ci sono stati gli insegnanti specialisti distaccati per insegnarlo e adesso… siamo in un momento molto grave, perchè se interrompiamo l’insegnamento del francese, è morta, ma non per scelta.... Enrico Allasino Quando parlo di scelta, mi riferisco al fatto che ci sono lingue minoritarie che non sono insegnate per niente, ma che continuano a mantenersi perchè, appunto, nelle famiglie, nella società, si parlano. Ci sono zone d’Italia in cui, se ci andate, tutti parlano il dialetto locale, non perché sia tutelato, ma perché è utilizzato. Silvana Marchetti Il francese non è stato insegnato a scuola come seconda lingua in quanto lingua minoritaria (legge 482/99), ma in quanto lingua della Comunità Europea. Era lingua comunitaria, un Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 39 insegnamento riconosciuto al pari dell’inglese, dello spagnolo e del tedesco. Se ora lo facciamo rientrare come lingua minoritaria è tutta un’altra cosa. Marco Stolfo Ho una domanda legata alla valutazione che Matteo Rivoira faceva: qual è il campione che voi avete usato per fare la vostra indagine all’IRES? Enrico Allasino Abbiamo fatto un campione rappresentativo della popolazione dell’area occitana, intesa come area franco-provenzale, resto del Piemonte e area metropolitana di Torino. I walser no, perchè sono talmente pochi che è più semplice ed economico studiarli direttamente come in effetti è stato fatto dai linguisti. È un campione statisticamente rappresentativo; i numeri sono sufficienti ad avere un campione valido, con un margine di errore del solito 4-5 %. Marco Stolfo Condivido: la politica, le istituzioni, ma ancor di più, gli opinion leader sono spesso assai lontani da quello che pensa la gente, come emerge dai risultati presentati. Io posso confermare questo dato alla luce di un’indagine simile condotta su un campione complessivo di 3mila persone nei territori del Friuli - Venezia Giulia dove sono presenti le minoranze friulana, slovena e germanica, cioè 198 comuni su 218, quindi sono sostanzialmente quasi tutta la Regione. E trovo una consonanza su molti dei dati. Prima di tutto, su una domanda generale: “È importante la lingua madre per la persona?”. È evidente che quasi il 100% è d’accordo. Se la domanda è: “Qual è la tua lingua madre?”, ci sono approcci diversi: qualcuno dice: “Il dialetto locale”, qualcuno talvolta, anche in funzione polemica, diceva “No no, per me la mia lingua è l’italiano”, eccetera (tra l’altro questa indagine era stata fatta quando c’era il dibattito sulla legge regionale sul friulano, che cercava di applicare correttamente la 482 nelle scuole). In questo caso il dato può essere ambiguo, ma resta molto interessante. I dati più significativi di questa ricerca, a mio modo di veder, arrivano da alcune domande specifiche. Per esempio, di fronte a un quesito come “Quanto condividi questa affermazione: le minoranze linguistiche riconosciute hanno diritto ad usare la loro lingua all’interno della società come la lingua maggioritaria”, tra chi risponde abbastanza, circa il 40%,chi molto, intorno al 27-30%, c’è quasi il 70% delle persone che condivide questo punto di vista. Il che, secondo me, è un dato veramente incoraggiante. Di fronte ad un’altra domanda più specifica su uso e insegnamento nella scuola, si ripropongono le medesime percentuali. Un'altra questione ancora voleva misurare il grado di conoscenza della normativa di tutela delle minoranze: da noi è risultato che in media il 41 % conosce il fatto che esista la 482 o la legislazione regionale di tutela e questo è stato visto come un dato negativo da molti. Io non sono di questo avviso, alla luce degli altri dati. Magari non si conosce la normativa (ma quanti di noi sanno quali sono tutte le leggi vigenti, in generale?), ma se ne ha interiorizzato, condividendoli, il senso, le disposizioni e gli indirizzi. Questi sono dati positivi, che fanno ben sperare. Sul timore di burocratizzare, di imbalsamare le lingue, come il chiudersi nella traduzione delle delibere. Condivido questa preoccupazione, nella misura in cui non diventi un dogma ideologico contro l'uso scritto con tanto di specifica terminologia di settore nel campo amministrativo e istituzionale. Piuttosto che tradurre delle delibere – in primo luogo per ragioni pratiche e per ottimizzare l'uso delle risorse scarse disponibili - è meglio produrre della comunicazione istituzionale in lingua minoritaria che si vede e che interessa di più, al fine di promuovere la cittadinanza di lingue e la partecipazione delle persone (quindi siti internet Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 40 bilingui, tabelle di uffici e sedi istituzionali, informazioni di servizio, avvisi pubblici). Per esempio l'annuncio che la prossima settimana il centro di Pomaretto è chiuso perchè c’è la festa d’autunno e il traffico è deviato: ci sono informazioni di diretto interesse per la cittadinanza, c'è un testo breve, che deve essere offerto anche nella lingua ammessa a tutela, con pari visibilità e dignità grafica, allo scopo di far vedere che la lingua esiste ed esiste come lingua. Altro elemento per concludere: l’importanza della scuola, ma anche il pericolo della scuola, A volte c’è un’eccessiva delega alla scuola, a partire dalla famiglia: “No, ma te lo insegnano a scuola, non te lo insegno io, anche perché a me mio padre e mia madre non me l’hanno insegnato e a scuola mi martellavano perchè provavo a parlarlo lo stesso, quindi cosa ti insegno io? non sono più capace.” In questo caso si tratta di una manifestazione di difficoltà della trasmissione intergenerazionale della lingua, ma ciò vale anche da un altro punto di vista: pensare solo alla scuola senza il resto non basta. Secondo me, bisogna procedere con moderazione, ma con una prospettiva equilibrata, precisa, chiara, e con una visione unitaria: la lingua nella società, come diceva in maniera illuminante la risoluzione Arfè, cioè nei media, nella scuola, nella vita pubblica. Vita pubblica significa i consigli comunali, le convocazioni delle elezioni, lo Statuto o l’avviso della festa del 25 aprile o del 2 di giugno, ma anche economia, turismo, sviluppo... Io credo che l’uso della lingua nel settore economico e il riferimento alla cultura e alla lingua in questo campo, costituiscano un settore strategico. Non sono previsti interventi in questo campo dalla Legge 482/1999, però è possibile fare qualcosa applicando la legge. Abbiamo una lingua che non è solo la nostra lingua (o una delle nostre lingue), ma è anche una lingua utile. Allora l’utilità agevola la possibilità di scelta. Vi ricordate la pubblicità di quel detersivo: è chiaro che se la scelta non è tra il fustino di marca e due fustini non di marca, è già difficile scegliere, ma se l'opzione è tra il fustino di marca e il nulla, è ovvio che io scelgo il fustino di marca. Ed è un po’ quello che la storia dell’Irlanda ha visto. Nella storia d’Irlanda, il «fustino gaelico» è stato sostanzialmente messo fuori dal mercato con il plurisecolare dominio dell'inglese in gran parte del territorio e poi è stato ripreso, ma solo nelle scuole e non nel resto della società. E così in molte aree dell'Irlanda il gaelico pur con il suo status di lingua ufficiale e nazionale si trova nelle medesime condizioni del latino in Italia cinquant'anni fa. Altro elemento importante, anche dall’esperienza personale e professionale: gli immigrati, nelle zone di lingua minoritaria, parlano le lingue minoritarie. Le parlano bene, probabilmente, provenendo essi stessi da aree di più lingue; per esempio un Kossovaro sa che c’è l’albanese e il serbo, capisce che in Friuli c’è il friulano, l’italiano o anche lo sloveno, eccetera. Quindi, da quella che è l’esperienza sul nostro territorio, che è stata zona di grande emigrazione ed è anche, soprattutto in certi distretti, zona di grande immigrazione, la lingua minoritaria nelle scuole è una lingua dell’inclusione, perché riconosce la diversità e si fa riconoscere come diversità e pertanto apre al confronto con le lingue proprie degli immigrati. Applicando correttamente la Legge e quindi superando il discorso dell’opzione, della scelta dell’insegnamento come materia, ci sono insegnanti che utilizzano il friulano con tutta la classe, non so, per insegnare l’educazione civica o la storia, o per insegnare l’inglese e poi dopo viene il resto: lo sviluppo ulteriore di una coscienza interculturale, plurilingue, che è quella che dovrebbe essere la nostra salvezza. Forse la differenza fra le realtà localiste italiane e le minoranze linguistiche, in cui c'è una certa coscienza della propria specificità, sta proprio nel rapporto con gli immigrati. A questo proposito mi pare opportuno ricordare l'esperienza di Radio Onde Furlane: è la radio comunitaria che trasmette in lingua friulana per circa il 70 % della sua programmazione (informazione e intrattenimento, musica e cultura), è nata nel 1980 - cioè prima della 482, prima di tutto - ed è stata una delle prime radio in Italia a fare i programmi radiofonici con gli immigrati, nelle lingue degli immigrati; immigrati che, tra l’altro, fanno anche dei programmi in friulano! Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 41 Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 42 SECONDA PARTE Lorenzo Geninatti L’interpretazione della Legge 482 e la sua applicazione in Piemonte: progetti e realizzazioni Boun dì é boun travai a tuiti, seui counteunt d’èstri éisì eunseumbiou a ill’amis que véiou peur counfrountanou soul quéstioun euncoù duèrte sul nostre lèngue. Un saluto in francoprovenzale, la mia lingua madre, non solo per augurare “buon lavoro”, ma per manifestare la mia gioia di essere qui per confrontarci, insieme con tutti gli amici presenti, sulle questioni ancora aperte che investono le nostre lingue. Sono stato incaricato dall’Assessore alla Cultura della Regione, Gianni Oliva, di portare il suo personale saluto e, considerato l’argomento di cui si parla oggi, l’augurio a tutti di un proficuo lavoro. Non così semplice, dopo la pausa, è per me riprendere il filo di tutti quei ragionamenti puntuali e interessanti emersi in mattinata. Tuttavia proverò a sintetizzare al massimo, toccando solo alcuni degli aspetti centrali della legge nazionale 482/99: partendo dalle sue luci e ombre, mi soffermerò sulle modalità con cui la Regione Piemonte ha affrontato i problemi posti dalla sua applicazione. È fatto risaputo che la legge 15 dicembre 1999, n. 482 “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”, è una legge che arriva con oltre cinquant’anni di ritardo rispetto all’approvazione della Carta Costituzionale Repubblicana. È da notare, però, che, per quanto riguarda la Regione Piemonte, tale legge va ad inserirsi in un solco già tracciato dalla normativa regionale: ad un primo riconoscimento già presente nello Statuto del novembre del 1970 (all’art. 7 “Patrimonio culturale delle comunità locali”, infatti recita “La Regione difende l’originale patrimonio linguistico…”), fanno seguito le successive specifiche leggi di settore, avvenute –per la nostra Regione a Statuto Ordinarioalla fine degli anni Settanta (successivamente all’approvazione del DPR 616 del 1977) e recentemente è stata modificata la legge 26/90 modificate dalla legge regionale 7 aprile 2009 n. 11 “Tutela, valorizzazione e promozione del patrimonio linguistico del Piemonte” (ora in attesa di giudizio di fronte alla Corte Costituzionale). Perciò una Regione che da sempre ha dimostrato, e tuttora dimostra, una grande attenzione per le sue lingue storiche. Tuttavia l’approvazione della legge 482, benché innestata in un profondo solco normativo regionale, ha comunque aperto dibattiti a vari livelli; accenno a titolo esemplificativo alcuni dei temi sui quali si è focalizzato maggiormente il dibattito: le distinzioni fatte tra lingue e dialetti, hanno portato al riconoscimento di questa e all’esclusione di quell’altra lingua e, per esser più precisi, in Piemonte ha riguardato l’esclusione della lingua regionale piemontese, esclusa dalla tutela della 482, ma riconosciuta dalle leggi regionali tra i settori di intervento. Questo non è che uno degli oggetti del dibattito, particolarmente vivace anche per quanto riguarda non solo la gestione centralizzata in capo alla Presidenza del Consiglio, ma anche i tempi di validazione dei progetti o, altro tema scottante, nonché l’incompleta attuazione della legge nazionale. Naturalmente non si tratta che di alcuni esempi, tanti altri potrebbero essere ricordati e su ciascuno di essi si potrebbe certamente aprire un dibattito. Tuttavia non bisogna dimenticare come anche le leggi siano frutto di un certo periodo storico, di un certo humus culturale e per quanto riguarda questa Legge è fuor di dubbio che rappresenti il meglio di quanto in quel momento poteva essere previsto e approvato; può suscitare consenso, così come dissenso, ciascuno ha la propria opinione in proposito e questo potrebbe già di per sé costituire fonte di riflessione per successivi confronti e dibattiti. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 43 Tuttavia, la valutazione della Regione Piemonte, mi preme molto sottolinearlo, è decisamente positiva: l’approvazione della legge nazionale, infatti, rappresenta un evento di portata storica, poiché attraverso la tutela, la valorizzazione e la promozione del patrimonio culturale, ne ha sancito il riconoscimento formale e giuridico da parte dello Stato italiano. Le azioni di tutela previste, quale ad esempio l’uso scritto e orale delle lingue minoritarie nella Pubblica Amministrazione, rispondono all’esigenza di dare valore alle lingue stesse (e conseguentemente ai locutori di queste). Ciò ha aperto nuove possibilità e nuovi orizzonti di intervento, che, tuttavia, le Regioni, da sole, non hanno potuto colmare. Certamente è necessario non dimenticare che nonostante le difficoltà riscontrate nella fase di avvio, tuttavia l’applicazione della legge ha introdotto alcuni elementi innovativi, quali il coinvolgimento diretto degli Enti Locali nel processo di autoderteminazione per l’appartenenza alla lingua di minoranza storica di riferimento, sulla base di due fondamentali elementi: da un lato il radicamento storico della lingua sul territorio e, dall’altro, la volontà d’appartenenza espressa dalla popolazione e dagli amministratori. Di fatto in Piemonte l’azione di riconoscimento è stata avviata, in via esclusiva, dai singoli Consigli Comunali e, successivamente, ratificata dai Consigli Provinciali. Il numero dei Comuni piemontesi, che si sono autodichiarati appartenenti ad una minoranza linguistica storica, è decisamente importante, ben 192, suddivisi tra le quattro Province piemontesi (Torino, Cuneo, Vercelli, Verbania – Cusio - Ossola). Approfondendo e scorporando questo dato, si contano, in provincia di Torino, 47 Comuni francoprovenzali (e tra questi uno ha deliberato anche l’appartenenza alla minoranza linguistica francese); 37 Comuni occitani (tra questi 24 hanno deliberato anche l’appartenenza alla minoranza linguistica storica francese). Nella provincia di Cuneo si è registrata l’adesione di 72 comuni appartenenti alla minoranza di lingua occitana e 12 Comuni di lingua Walser (6 in Provincia di Vercelli e 6 in Provincia del Verbano – Cusio – Ossola). Perciò ad un’osservazione macroscopica in Piemonte si registrano 109 Comuni occitani, 24 Comuni francesi, 47 Comuni francoprovenzali e 12 Comuni walser: come già considerato ben 192 Comuni piemontesi si sono autodeterminati come appartenenti ad una minoranza linguistica ai sensi dell’articolo n. 3 della legge in considerazione. Resta sottointeso che una simile “territorializzazione autodeterminata” ratificata dalle Province, non è speculare e corrispondente con quanto emerge dalle indagini linguistiche, resta però da registrare l’esigenza identitaria. Sottolineo che da un lato che la scelta di non aderire di alcuni comuni, pur appartenenti ad un territorio di minoranza, è stata frutto della decisione ponderata di ogni singola Amministrazione comunale e, dall’altro che la legge, ovviamente, è operativa solo laddove si sia effettuata la “territorializzazione”. Dopo alcune considerazioni di ordine generale, vorrei ora entrare un po’ più nel merito così da osservare come la legge è stata applicata, in ottemperanza non solo al Decreto Attuativo 345 (2/05/01) ma anche riguardo ai decreti di riparto annuali, nonché in riferimento alle specifiche circolari, sempre annuali, di riparto dei fondi. Nel merito, prendendo la prima annualità di finanziamento come riferimento, il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (10 dicembre 2001) di determinazione dei criteri di ripartizione dei fondi, all’articolo n. 2 sono elencate le azioni e gli interventi ammissibili; più dettagliatamente le attività previste possono sistematizzate in tre grandi categorie: 1. L’uso della lingua nella Pubblica Amministrazione. 2. L’insegnamento della lingua. 3. Le iniziative di valorizzazione e di promozione. In alcune annualità successive, saranno previsti interventi volti alla toponomastica intesa non come ricerca ma come cartellonistica stradale. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 44 Prendiamo in considerazione la prima categoria, l’uso della lingua nella Pubblica Amministrazione. La legge prevede attività volte a garantire nelle Pubbliche Amministrazioni l’uso della lingua storica attraverso l’istituzione di “sportelli linguistici per i cittadini che utilizzano la lingua minoritaria” e, ove queste non siano dotate di personale linguisticamente idoneo, si prevede la presenza di personale traduttore e/o interprete. L’utilizzo della lingua di minoranza nella Pubblica Amministrazione costituisce un aspetto centrale della Legge attraverso il quale passano tutte le altre azioni previste dalla Legge. Ma siamo sicuri che lo sportello linguistico sia lo strumento “principe”, il motore attuativo della Legge? Porto qualche esempio e considerazione personale: come molti di voi, anche io utilizzo la lingua di minoranza nel mio Comune, nella mia vallata e vi assicuro che non sento l’esigenza di un traduttore o di un interprete per comunicare. Allora spontaneamente ci si dovrebbe domandare quale sia lo scopo dello sportello linguistico. Senza dubbio l’uso della lingua di minoranza nell’ambito della Pubblica Amministrazione ha contribuito a far crescere la percezione dell’importanza della lingua nei locutori stessi. Ma ciò non sarebbe stato sufficiente, se non fossero entrate in gioco altre due componenti, l’operatore linguistico e le Amministrazioni stesse. L’operatore linguistico, con le sue competenze linguistiche e culturali, con il suo bagaglio motivazionale, diventa, con il sostegno delle Amministrazioni, quella figura centrale delineata dalla legge e insieme ai funzionari, con il loro lavoro sinergico, costituiscono le carte vincenti dei nostri sportelli linguistici. Più volte, in diversi incontri, ho sempre ritenuto fondamentale ribadire il fatto che la figura dello “sportellista” non costituisce un “dipendente” in più a disposizione dell’amministrazione per svolgere compiti di promozione turistica o lavori di natura amministrativa, al contrario, si tratta di un operatore culturale, una figura altamente professionale, specificatamente formata per sviluppare la promozione delle lingue di minoranza. In generale sul nostro territorio gli sportelli linguistici esistenti sono stati quasi tutti attivati da Comunità Montane, perciò se ne conta quasi uno per valle. Naturalmente il personale, altamente specializzato e fortemente motivato, è in grado di rispondere nella lingua di minoranza, di cui ha un’ottima conoscenza, sia in forma orale sia in forma scritta. A tal proposito mi preme rammentare come la normativa attuativa della Legge, specie nei primi quattro - cinque anni, ha sempre enfatizzato la temporaneità degli sportelli linguistici, sostenendo che fossero da “…realizzare in via temporanea da parte della Pubblica Amministrazione…”, oltre al fatto che “…in assenza di personale linguistico idoneo facente parte dell’organico di dette amministrazioni, si possa utilizzare personale interprete o traduttore assunto con un contratto a tempo determinato di durata massima annuale…”: a tutto ciò si aggiunga il fatto che i relativi finanziamenti non potevano superare il quinquennio. Naturalmente di fronte ad una simile situazione, la Regione Piemonte, insieme con le altre Regioni, si trovato a muovere decise critiche e a proporre soluzioni alternative, si è così giunti ad un compromesso grazie al quale il termine del quinquennio è stato cassato. Permane tuttavia la precarietà del tempo determinato, di durata annuale, dell’incarico. A tal proposito propongo alcuni dati di confronto: nel 2001 sono stati finanziati 8 sportelli linguistici, mentre nel 2007, ultima annualità finanziata, sono stati ammessi a contributo 13 sportelli linguistici, di questi 10 fanno capo a rispettive Comunità Montane, mentre i restanti 3 uno da capo alla Provincia di Torino, uno al Comune di Ronco per il Canavese e uno al Comune di Formazza, quale coordinatore del progetto walser. In apertura abbiamo visto come la Legge individui tre ambiti d’intervento, abbiamo considerato la prima, passiamo ora ad occuparci della seconda, cioè dell’insegnamento della lingua. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 45 Riguardo questo aspetto è possibile riconoscere due filoni: il primo, in riferimento in particolare agli artt. n. 4 e 5 della Legge, riguarda i corsi scolastici attivati nelle scuole per l’infanzia, scuole primarie e secondarie di primo grado. Il secondo livello riguarda i corsi di formazione previsti per il personale dipendente delle Pubbliche Amministrazioni. Per quanto concerne il primo filone è bene specificare che si tratta di corsi finanziati da una voce del bilancio del Ministero dell’Istruzione e che le domande passano dalle direzioni didattiche proponenti agli uffici del MIUR e infine al Ministero. Non mi addentro nell’analisi di questo aspetto della Legge che, come Regione, non ci vede direttamente coinvolti, nonostante si presti attenzione a quanto accade anche in questo ambito, principalmente per tre ragioni. La prima è legata al fatto che la nostra legge regionale prevede, tra le altre azioni dirette, anche il sostegno alle attività formative nelle scuole di ogni ordine e grado. La seconda tiene conto del fatto che la 482 lascia aperto il problema della mancanza di docenti preparati e con titoli riconosciuti. In ultimo in ragione del fatto che, e qui entriamo nel secondo filone formativo, la Legge prevede tra le proprie finalità corsi di formazione per il personale dipendente delle Pubbliche Amministrazioni. La Regione Piemonte, per dare risposta alle problematiche poste dall’insegnamento e alle difficoltà nel reperire personale adeguatamente preparato, fin da subito, nella prima annualità di finanziamento, ha presentato un progetto per la realizzazione di un Master Universitario di primo livello, di durata biennale e dal titolo emblematico: “Lingua, cultura e società nella tutela delle minoranze linguistiche storiche del Piemonte”. Si intendeva, così, creare un nucleo di “formatori”, in grado a loro volta di creare sul territorio i presupposti per dare risposte formative. C’era un ostacolo: ai sensi dell’art. 3 del decreta 345 la competenza era prevista in capo al Ministero della Pubblica Istruzione e al Ministero della Ricerca Scientifica. Infatti nel 2001 il progetto non è stato finanziato, ma ciò si è verificato l’anno successivo e il master è stato poi attivato nell’anno accademico 2004-2005. Come già considerato, l’aspetto formativo è per la Regione Piemonte non solo un aspetto centrale, ma anche uno tra i più dibattuti, tanto che, se non ricordo male, nel 2006 avevamo organizzato a Villar Pellice una giornata di riflessione con la partecipazione di tutti i rappresentanti delle quattro minoranze. Era un momento particolare, si usciva infatti da una fase progettuale piuttosto sperimentale (come d’altra parte era sperimentale l’applicazione della Legge stessa), in cui tutte le minoranze avevano avviato corsi in una maniera piuttosto “anarchica”: infatti ognuno aveva sviluppato i corsi che aveva ritenuto più opportuno avviare (corsi di storia, di cultura locale, di lingua…). Obiettivo di quella giornata a Villar Pellice era quello di riflettere su quanto era stato fatto e trarre utili elementi per il futuro, auspicando una ripartenza legata più alla lingua, in tutti i suoi aspetti, che alla storia e alla cultura locale, in un’ottica di continuità. Infatti superati i primi anni in cui i corsi costituivano una novità registrando entusiastiche partecipazioni, ormai quasi ovunque si cominciava a percepire una certa cristallizzazione. Ricordo che uno dei principali problemi emersi in quella giornata di lavori era costituito dalla scarsa partecipazione dei dipendenti pubblici. La giornata di lavoro è stata particolarmente proficua soprattutto per i tanti problemi portati all’evidenza quali l’apertura dei corsi all’intera popolazione, a quali formatori affidare la formazione, con quali strumenti, quali verifiche… Tale dibattito è stato preceduto da profonde riflessioni anche all’interno dei nostri uffici coinvolgendo le Associazioni e gli Enti più rappresentativi, allargandosi a questioni legate a questioni più mirate come i testi didattici e di conseguenza alla grafia da adottare. Inutile soffermarsi sulle spinte verso la scelta di una piuttosto che un’altra grafia o sulla corsa alla normalizzazione (come se una lingua minoritaria non normalizzata non possa raggiungere un ampio pubblico). La Regione, in questo ambito, volutamente non ha indicato né imposto alcuna soluzione, lasciando ai singoli Enti e Associazioni di sviluppare liberamente le proprie scelte, purché effettuate nell’ambito delle grafie scientificamente codificate. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 46 Per chiudere l’aspetto formativo vorrei condividere un dato: nel 2001, primo anno di finanziamento della Legge, i corsi di formazione previsti erano 5 più 3 progetti che preventivavano corsi on-line. Nel programma contributi del 2007 sono stati previsti 4 corsi, ne sono stati finanziati 2, 1 in capo alla Provincia di Torino e 1 in capo alla Comunità Montana Val Pellice. Inoltre mi preme ricordare come, in questi anni, la Regione Piemonte ha finanziato, con risorse proprie, numerosi corsi nelle scuole. Naturalmente ciò è stato possibile grazie alla collaborazione di numerose Associazioni (che vedo qui ben rappresentate). Si tratta di corsi che ormai coinvolgono quasi tutte le minoranze linguistiche. Ciò che inorgoglisce e fa ben sperare per il futuro è il favore e la partecipazione con le quali le famiglie accolgono queste iniziative. Arriviamo così a toccare l’ultimo ambito di intervento previsto dalla Legge, le iniziative di promozione e il sostegno alle attività culturali. Nei primi anni di applicazione della legge, si è da più parti sottolineato come a causa dei limiti imposti dai DPCM, l’intervento statale rischiasse di venir confinato ad un’azione di mera tutela linguistica. Una simile azione avrebbe potuto essere giustificata, seppur parzialmente, per minoranze numericamente rilevanti e con un elevato grado di conoscenza dei parlanti. Al contrario, tale azione veniva vissuta dalle minoranze più esigue come un’imposizione non condivisa dall’intera comunità e, perciò, confinata nel mero esercizio erudito, separato dalla reale espressione culturale della minoranza. Questo orientamento è stato recepito, consentendo la realizzazione di progetti volti al recupero dell’identità minoritaria più profonda, favorendo, al contempo, operazioni di valorizzazione e di tutela di quei numerosi aspetti che concorrono nella conoscenza: quindi non solo competenze linguistiche, ma cultura della minoranza linguistica intesa in senso ampio e della quale l’aspetto linguistico non è che il più “appariscente”, ma certamente non l’unico elemento che la caratterizza. Perciò le attività di promozione sono state, nel corso degli anni, sempre più eterogenee dal punto di vista contenutistico, di durata nel tempo e di organizzazione, dando così una visibilità sempre crescente alle minoranze. Ho accennato prima ai corsi di storia e cultura locale accolti con grande favore e con gran successo di pubblico. Una riconoscimento va certamente ad una grande iniziativa, fortemente sostenuta dalla Regione Piemonte, dalla Provincia di Torino e dalle Amministrazioni Locali realizzate in occasione dei Giochi Olimpici Invernali di Torino 2006, che hanno interessato il territorio di diversi Comuni Occitani. Il progetto, dall’emblematico titolo “Occitan lènga Olimpica” è stato proposto da un’Associazione e fatto proprio dalle Amministrazioni. Facile immaginare l’enorme visibilità che la realizzazione di questo progetto ha portato alla cultura e alla lingua occitana. Come non ricordare, poi, il progetto regionale intitolato “Indagine sulla situazione socio linguistica e socio culturale nei territori delle quattro minoranze storiche del Piemonte”, coordinato dal dott. Allasino dell’IRES e sviluppato in collaborazione con l’Università degli Studi di Torino e la Regione Piemonte. Si è trattato di un notevole contributo alla conoscenza delle effettive realtà culturali della nostra Regione, uno studio approfondito del quale si percepiva fortemente la necessità. In questa “carrellata” di esempi non possono certo essere tralasciati né il lavoro di coordinamento delle attività avviato dalla Provincia di Torino, né il progetto “Occitani, Francesi, Francoprovenzali e Walser: radio, web e contenuti digitali podcast” in grado di trasmettere su tutto il territorio regionale. In ultimo mi preme ricordare i progetti interregionali avviati con la Valle d’Aosta per la diffusione della cultura francoprovenzale e della lingua attraverso trasmissioni radiofoniche d’informazione e corsi di lingua. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 47 Ho portato solo alcuni esempi, sicuramente non si tratta di un elenco, tanto meno di un elenco esaustivo: tanti altri e altrettanto importanti progetti sono stati sviluppati sul territorio regionale, mi sono limitato a citarne solo alcuni. Un’ultima considerazione: gli auspici dell’art. 12 della Legge 482/99 in cui si prevede che “Nella convenzione tra il Ministero delle comunicazioni e la società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo e nel conseguente contratto di servizio sono assicurate condizioni per la tutela delle minoranze linguistiche nelle zone di appartenenza” rimane ancora sulla carta: nonostante i numerosi incontri tra il nostro Presidente della Giunta, l’Assessore e i vertici della RAI, tuttavia i tempi per ora non sembra maturi. Il Direttore di Rai Tre ha dichiarato la propria attenzione ad inserire e trasmettere, all’interno della nuova trasmissione “Buongiorno Regione”, notizie relative alle minoranze e alle loro attività. In ogni caso, al di là del percorso intrapreso con la RAI, mi risulta che vi siano trasmissioni radiofoniche in occitano e in francese. Senza contare che in questi ultimi anni una trasmittente valdostana manda regolarmente in onda programmi e due notiziari regionali in francoprovenzale. In parallelo si stanno portando avanti i progetti avviati in parternariato tra la Regione Piemonte e la Regione Valle d’Aosta, senza dimenticare come, con fondi regionali si sia sperimentato, attraverso il portale dell’Associazione Chambra d’Oc, il progetto di una web-radio e di un podcast (contenuti digitali): finanziato con fondi del 2006 della L. n. 482, sarà in grado di trasmettere su tutto il territorio regionale le informazioni relative alle quattro minoranze linguistiche del Piemonte. Certamente le minoranze linguistiche storiche del Piemonte non hanno ancora raggiunto i palinsesti della RAI, tuttavia qualcosa si sta muovendo. Per concludere vorrei mostrarvi alcuni dati legati alla progettualità della Legge 482. Nel 2001 sono stati finanziati diciannove progetti che hanno riguardato tutte le minoranze linguistiche per un importo di quasi 790.000 euro. Vorrei farvi notare come i due progetti sulla minoranza francese, presenti e costanti negli anni successivi, siano stati presentati dalla C. M Val Chisone e Germanasca e dalla C. M. Val Pellice sempre molto attente e propositive. Totale Progetti 2001 26% 63% 11% Occitano Francoprovenzale Walser Occitano 13 € 455.377,58 Francoprovenzale 4 € 82.070,15 Walser 3 € 186.051,79 Totale 30 € 787.994,55 Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 48 Anno 2002: come si può evincere dal grafico, nel corso degli anni questa situazione si è mantenuta stabile, pur nelle consuete oscillazioni. Totale Progetti 2002 31% 45% 24% Occitano Occitano 13 € 551.215,12 Francoprovenzale 10 € 291.788,66 Walser 4 € 380.421,64 Totale 27 € 1.312.515,09 Francoprovenzale Walser Totale Progetti 2003 42% 41% 17% Occitano Francoprovenzale Occitano 10 € 231.297,03 Francoprovenzale 5 € 95.661,47 Walser 2 € 232.000,00 Totale 17 € 598.208,49 Walser Totale Progetti 2004 22% 11% Occitano 17 € 558.112,00 Francoprovenzale 8 € 88.740,00 Walser 2 € 180.000,00 Totale 27 € 931.552,00 67% Occitano Francoprovenzale Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” Walser 49 Totale Progetti 2005 8% 22% 55% Occitano 20 € 440.437,58 Francoprovenzale 9 € 120.161,33 Walser 1 € 180.000,00 Francese 4 € 60.949,41 Totale 34 € 801.548,32 15% Occitano Francoprovenzale Walser Francese Anno 2006: si è trattato di un anno emblematico, quasi un anno di luce tra le ombre, caratterizzato da una gran capacità progettuale (tra tutte le minoranze sono stati presentati 30 progetti), premiata da ottimi risultati in termini di finanziamento (€ 1.033.000,00). Totale Progetti 2006 Regione Piemonte (occitano, francese, francoprovenzale, walser) 6% 12% 64% 18% 1 € 94.380,00 1 € 171.250,00 Occitano 17 € 654.074,00 Francoprovenzale 8 € 188.326,00 Walser 1 € 123.600,00 Francese 4 € 67.000,00 Totale 30 € 1.033.000,00 Provincia di Torino (occitano, francese, francoprovenzale) Occitano Francoprovenzale Walser Francese Totale Progetti 2007 Regione Piemonte 16% 9% 17% 33% 18% (occitano, francese, francoprovenzale, walser) 1 € 77.400,00 1 € 145.300,00 Occitano 11 € 302.000,03 Occitano + Francese 2 € 147.542,00 Francoprovenzale 2 € 58.660,00 Walser 1 € 159.200,00 Totale 18 € 927.092,03 Provincia di Torino (occitano, francese, francoprovenzale) 7% Occitano Francoprovenzale Walser Occitano+Francese Provincia di Torino Regione Piemonte Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 50 Totale Progetti 2001-2007: nel grafico sono riportati i finanziamenti annuali dal 2001, primo anno di finanziamento, fino al 2007, ultima annualità finanziata. Si osservi come in questi anni il numero dei progetti finanziati non sia costante ma oscilli tra un anno e l’altro. Ad oggi sono stati approvati, e quindi finanziati, 174 progetti relativi alle annualità 2001/2007. Si evidenzia come il grafico a torta riguardi l’aspetto economico (i contributi erogati) e non il numero dei progetti presentati in quanto non vi è correlazione tra progetti presentati e finanziamenti concessi. Il finanziamento dei progetti discende da numerosi fattori annuali variabili: per esempio Budget previsto per l’annualità; budget previsto per la minoranza; priorità d’intervento individuati dal Ministero; aggregazione del maggior numero di Enti ecc. Facendo un bilancio generale ed esaminando la situazione da un punto di vista meramente quantitativo, si rileva il fatto che la minoranza occitana detiene il maggior numero di interventi e, conseguentemente, di finanziamenti. A ruota segue la minoranza walser. Si noti il recupero del francoprovenzale e del francese. La comunità walser, benché meno numerosa di quella francoprovenzale, ha saputo superare la lontananza fisica tra i singoli comuni, attestati nelle valli intorno al Monte Rosa, proponendo un progetto di sportello di rete, capace di collegare virtualmente il dodici Comuni piemontesi appartenenti alla comunità di minoranza. Meno attivi i francoprovenzali, ancora troppo parcellizzati e con sentimento identitario sicuramente meno sviluppato. Riepilogo Progetti L. 482/99 12% 15% 16% 13% 2001 2002 2006 2007 15% 2003 2004 9% 2005 Importo Finanziamenti Anno Numero Progetti 2001 20 € 787.994,55 2002 27 € 1.312.515,09 2003 17 € 598.208,49 2004 27 € 931.552,00 2005 34 € 801.548,32 2006 32 € 1.033.000,00 20% 2007 18 € 927.092,03 Totale 175 € 6.391.910,48 Volutamente non ho inserito alcuna scheda relativa all’articolazione delle diverse attività, avviate in questi anni, dagli Enti. Consapevole di aver abusato della vostra attenzione e aver ampiamente sforato il tempo concessomi, vi ringrazio per la partecipe attenzione. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 51 Riccardo Regis Spinte idealistiche e “verità effettuale”. Il caso del provenzale alpino «mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa che alla imaginazione di essa » Niccolò Machiavelli, Il Principe, XV La nozione di standard e il processo che porta ad una varietà standard, ovvero la standardizzazione, sono diventati argomenti tra i più frequentati da chi si occupa di minoranze linguistiche in Italia, specie nei dieci anni trascorsi dall’approvazione della legge 482/99. Com’è noto, la standardizzazione opera su due livelli principali, il corpus-planning e lo statusplanning. Se il primo è lo “studio che si compie su un particolare codice per metterlo in grado di assumere le funzioni di lingua dell’amministrazione, della scuola o dell’alta cultura” (Dell’Aquila-Iannàccaro 2004: 59), il secondo concerne “l’insieme dell’apparato normativo e legislativo volto a rendere effettivi […] i diritti linguistici della popolazione” (eidem: 97). In linea di massima, semplificando molto, possiamo dire che il corpus-plannig prevede degli interventi sulla lingua tali da rendere poi realizzabile il programma di status-planning: solo una lingua adeguatamente codificata può infatti aspirare a coprire i registri “alti” della comunicazione. L’obiettivo del pianificatore consisterà nel creare le condizioni affinché il codice minoritario, già lingua per distanziazione (Abstandsprache) rispetto alle lingue limitrofe, diventi anche una lingua per elaborazione (Ausbausprache). Formulerò qui di seguito alcune riflessioni circa il lavoro compiuto, fino ad oggi, sulle varietà di occitano (o provenzale) delle valli alpine piemontesi. 1. Questioni di etichetta Ho usato la definizione poco maneggevole di «varietà di occitano (o provenzale) delle valli alpine piemontesi» per due ragioni. In primo luogo, perché ritengo che parlare di varietà di lingua X dell’area Y, invece che di lingua X tout court, sia più corretto rispetto alla frammentazione attuale dell’area: e mi riferisco tanto al complesso del dominio d’oc quanto alle singole macro-varietà che si suole individuare al suo interno (gavot o vivaro-alpino, nel nostro caso). In seconda istanza, perché ancora non si è raggiunto un accordo, né tra gli studiosi né tra i cultori locali, su quale sia meglio preferire tra i glottonimi occitano e provenzale. È una questione che Telmon (2006: 43-4) ha efficacemente definito come “disputa tra la fontina e il formaggio”, essendo oggi il provenzale-fontina una delle varietà dell’occitano-formaggio. Chi volesse definire la parlata di Bellino occitana opererebbe una sineddoche totum pro parte; chi, viceversa, desiderasse etichettare l’intera area occitanica come provenzale userebbe una sineddoche pars pro toto. Possono esserci a sostegno dell’una o dell’altra scelta varie motivazioni, tutte ugualmente valide e condivisibili; ciò che realmente conta è maturare la consapevolezza che ci troviamo di fronte soltanto a dei contenitori, mentre l’attenzione dovrebbe essere rivolta al contenuto, alla lingua bisognosa di cure. Per questa ragione, non mi unirò agli “alti lai” di Sergio Maria Gilardino (2009), il quale, in un articolo su Coumboscuro, lamentava che le istituzioni avessero comunicato a lui e ai suoi collaboratori “che non avevamo il diritto di chiamarci “provenzali”, o di chiamare la nostra lingua “provenzale”, perché le loro leggi e i loro regolamenti lo vietano”. Se la legge 482/99 fa riferimento all’occitano anziché al provenzale, non resta che accettare la scelta terminologica del legislatore: il dato importante risiede nel fatto che, ormai da dieci anni, sia vigente una normativa in difesa delle minoranze linguistiche e che questa normativa protegga, fra gli altri, anche i dialetti parlati nelle valli piemontesi. Che poi questi dialetti vengano definiti “occitano” o “provenzale” è puro nominalismo. Qualora infatti abbandonassimo le dispute tra provenzalisti e occitanisti per interessarci alla percezione che di tutto questo ha il parlante comune, noteremmo che non rientra nelle sue abitudini d’impiego né l’uno né l’altro dei Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 52 glottonimi; la carta dell’Atlante Linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale dedicata al nome delle parlate alpine mostra l’alternanza tra etnici (aisounenc ‘parlata di Aisone’, chusasc ‘parlata di Chiusa Pesio’, ecc.), perifrasi (nosta moda, a nosto modo, ecc.) e genericismi (patouà), ma nemmeno un’occorrenza di prouvensal o ousitan. Il fatto che i materiali risalgono a circa vent’anni or sono, e quindi ad una fase che con qualche approssimazione potremmo definire pre-ideologica, sarà da considerarsi oltremodo significativo. 2. Grafie In realtà, la contesa è oggigiorno incentrata, più che sui glottonimi, sulla norma ortografica da adottare (per una visione d’insieme, è utile Pla-Lang 2008). Alla grafia dell’Escolo dou Po o concordata, che prosegue la tradizione mistraliana, si oppone la grafia classica, comune o alibertina, che mira alla creazione di un diasistema valido per tutte le varietà di occitano. Tralascio le grafie personali, che hanno avuto sul territorio un impatto spesso limitato ad una singola valle o località. I vantaggi della grafia concordata sono noti, il più cospicuo dei quali consiste nel garantire una buona corrispondenza tra grafema e suono; essa consente di fissare su carta la variabilità dialettale percepita nel parlato. Diversamente da quella concordata, la grafia classica mette tra parentesi la salvaguardia della varietà diatopica e diventa uno strumento a tal punto trasversale da comprendere in un unico involucro (diasistema grafico) la totalità dei dialetti occitanici; i criteri su cui essa si fonda sono eminentemente etimologici. I rapporti di forza tra le due grafie non sono di facile valutazione. Blanchet e Schiffman (2004) asseriscono che il 90% delle associazioni e il 95% degli scrittori impiega la grafia mistraliana; queste percentuali plebiscitarie vanno tuttavia considerate con cautela, in quanto si riferiscono al Midi e ad un’indagine di 19 anni or sono (1990). Più recente, e basato su un corpus di testi scritti delle valli piemontesi, è il lavoro di Allisio e Rivoira (2009), dal quale si evince una sorta di pacifica convivenza tra i due modi scribendi; andrà comunque osservato che il triennio 2006-2008 ha assistito ad una netta prevalenza della grafia classica, che si riverbera nell’opera di proselitismo compiuta da alcune associazioni (in primis, Chambra d’oc e Espaci Occitan). Il sociolinguista stricto sensu è senza dubbio portato a favorire la grafia concordata, perché essa non oblitera, ma anzi può rappresentare con successo, la differenziazione diatopica; il pianificatore linguistico, o il sociologo del linguaggio, manifesterà invece una naturale propensione verso la grafia classica, che guarda alla lingua sub specie unitatis. Chi scrive crede che, nella fase attuale, sarebbe più opportuno mettere sulla pagina ciò che effettivamente è dato di ascoltare nella realtà comunicativa quotidiana (grafia concordata), riservando magari le velleità unitaristiche (grafia classica) ad un momento successivo, ove la comunità avvertisse il bisogno di una lingua veicolare. Direi che, essendo già presenti sul territorio due proposte grafiche così diverse (e, a mio avviso, non conciliabili, se non in tappe differenti, e alquanto distanti, del percorso di rivitalizzazione), non è auspicabile la creazione di un sistema alternativo. Di recente, Gilardino (s.d.) ha elaborato un prontuario di ortografia e ortoepia che, pur seguendo di fatto le linee guida della grafia concordata, vi introduce alcuni elementi di rottura. Cito, ad esempio, l’uso della doppia <ss> per indicare la fricativa sorda in corpo di parola, mutuata probabilmente dalla grafia del piemontese (ma impiegata anche nella grafia classica); oppure l’uso, per rappresentare la nasale palatale [], del digramma italiano <gn> in luogo del consueto <nh>, già attestato nella lirica trobadorica e utilizzato nelle grafie sia concordata sia classica. Sembra poi di capire che Gilardino voglia rendere la laterale palatale [] con <lh>, come del resto avviene negli altre due ortografie; è chiaro che una scelta di tal fatta porta ad una patente asimmetria sistemica, perché se <gn> vale [], allora <gl>, e non <lh>, dovrebbe valere []. La grafia ha un potente significato identitario; da ciò discende la regola d’oro per la quale non andrebbero cassate le soluzioni ortografiche ormai entrate nella tradizione – mi riferisco, in Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 53 special modo, ai digrammi <nh> e <lh> –, spesso assunte dallo scrivente come bandiera della propria lingua. Che poi i digrammi in questione siano utilizzati anche dal portoghese non è vissuto dalla comunità occitanofona come un problema, essendo la minaccia più prossima per quei dialetti costituita non certo dalla lingua lusitana, ma dall’italiano, dal francese e, in misura minore e limitatamente all’area cisalpina, dal piemontese. Se già esiste una tradizione ortografica consolidata, è meglio evitare l’introduzione di nuovi sistemi, anche qualora questi ultimi apportassero una semplificazione del sistema originario. Penso alla grafia cosiddetta internazionale del piemontese di Bruno Villata (s.d.), che propone più di un ragionevole emendamento alla grafia tradizionale; ma quest’ultima ha, dalla sua parte, un uso ormai plurisecolare. 3. Parole Il problema della grafia si ripercuote, è forse superfluo precisare, nel modo in cui la pianificazione del corpus viene concepita. Mentre la grafia concordata svolge un onesto compito strumentale (“parliamo una certa varietà e vogliamo trascriverla”), la grafia classica confluisce in un progetto di più ampio e generale corpus-planning. Emblematico, in tal senso, è l’imponente lavoro compiuto da Domergue Sumien (2006) sull’occitano; detto molto in breve, il linguista francese auspica l’affermazione di un occitan larg56 a base linguadociana, che funga da varietà di riferimento per gli altri sei standard regionali (che sono, precisamente, guascone con aranese, limosino, alverniate, vivaro-alpino con cisalpino, provenzale, provenzale nizzardo). Ciascuno di questi standard regionali sarà a sua volta il risultato di un’opera di codificazione, unitarista (a partire da una sola varietà preesistente) o composizionale (a partire da più varietà preesistenti). L’obiettivo principale di Sumien (2006: 161) sta nel pervenire ad un occitano comune da riservare, se la pianificazione dovesse attecchire, ai tele- e radiogiornali, alla massa dei documenti amministrativi, alla traduzione di opere straniere, ecc. Tutte funzioni “alte”, per assolvere le quali, nell’ottica di Sumien, sarebbe indispensabile un occitano di koinè. Gli altri standard regionali, dal canto loro, verrebbero impiegati per le medesime funzioni e per la formazione degli insegnanti, ma a livello locale; non cambia quindi la sostanza, bensì la scala geografica di applicazione. La parte più interessante del volume di Sumien riguarda la neologia endogena (cioè le parole nuove costruite a partire dagli elementi di affissazione della lingua medesima). Il pianificatore fornisce una lista assai nutrita di affissi produttivi in occitano (idem: 303-27), ai quali si può eventualmente attingere per incrementarne il lessico: un utile aggiornamento del lavoro di Adams (1916) sulla Wortbildung in provenzale antico. Come sempre per le lingue che non godono di buona salute sociolinguistica, risulta però assai spinoso valutare quanto i processi di derivazione siano interni alla lingua, e quindi vitali, ovvero riproducano un modello allotrio (quello, tipicamente, della lingua di superstrato culturale); la stessa difficoltà è stata denunciata, per il piemontese, da Ricca (2006). Ad esempio, il sostantivo occitano parlament, che Sumien (2006: 306) attribuisce all’applicazione del suffisso –ament alla base verbale parlar (gruppo A), è effettivamente una parola ottenuta attraverso regole di formazione interne alla lingua o non sarà piuttosto un prestito diretto dal francese (parlement) o, per l’area cisalpina, dall’italiano (parlamento)? Propenderei per la seconda opzione; la propensione si trasforma tuttavia in certezza quando Sumien passa ad illustrare i risultati dell’applicazione di prefissi e suffissi colti (noti generalmente come prefissoidi o suffissoidi): bibliofilia, claustrofobia, geografia, ortografia, multimedia, paleolitic, protoindoeuropèu, telefilme, ecc. non possono che essere dei lessemi passati dalle lingue di superstrato (francese, italiano) all’occitano e variamente adattati alle abitudini fono-morfologiche della lingua mutuante. Il prestito, in effetti, è l’altro grande strumento di rinnovamento del lessico di una lingua (neologia esogena). Sumien confina il meccanismo del prestito, peraltro trattato in modo del tutto cursorio (pp. 265-70), ad una questione di adattamento grafico-fonetico. Esistono delle 56 Utilizzo, nel citare dall’opera di Sumien, la grafia classica impiegata dall’autore. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 54 borrowing routines, degli schemi mediante i quali il prestito si attua, che agiscono, oltre che a livello fonetico, anche a livello morfologico. Sappiamo, per esempio, che i verbi oggetto di prestito ricevono in italiano la morfologia flessionale della prima declinazione (it. forwardare < ingl. to forward; it. australiano draivare < ingl. to drive; it. reg. piem. blagare < piem. blaghé, ecc.); sembra essere, quella appena enunciata, una tendenza comune anche ad altre lingue (si vedano fr. Lousiana guésser ‘indovinare’ < ingl. to guess , port. USA jampar ‘saltare’ < ingl. to jump, sp. atachar ‘allegare, unire’ < to attach, ecc.), ma l’opera di Sumien non dice nulla circa le consuetudini dell’occitano. In compenso, l’autore (pp. 36-7) rivela un atteggiamento alquanto puristico nei confronti dei forestierismi già acclimatati: la forma chèdre (< it. cedere) andrebbe sostituita, nell’occitano codificato, con cedir; al francesismo Mossur sarebbe da preferire Sénher e via elencando. La maniera in cui Sumien si rapporta alla neologia è bifida. Se, per un verso, egli accetta e fa passare per formazioni interne probabili casi di prestito – si tratta tipicamente di prestiti analizzabili in affissi ed elementi di composizione che il pianificatore presume essere produttivi anche in occitano –, per l’altro, rifiuta recisamente i prestiti non assoggettabili agli schemi morfologici della lingua mutuante (in altre parole, semaforo verde per parlament e, sic, bibliofilia, semaforo rosso per chèdre e Mossur). Alquanto variegate sono pure le tendenze dell’odierna lessicografia, che può a buon diritto fungere da cartina di tornasole della neologia. Esaminando a volo d’uccello i criteri di selezione dei lemmi di alcuni dizionari di area occitanica cisalpina, noteremmo che l’inclinazione fortemente puristica di un Masset o di un Genre viene bilanciata dagli approcci più inclusivisti di un Bernard e un Baret. Il Dizionario Italiano-Occitano Occitano-Italiano (d’ora in poi, Doc) occupa, nell’attuale quadro lessicografico di àmbito piemontese, un posto a sé, in prima istanza, perché rappresenta la realizzazione di alcune delle idee espresse da Sumien (e accettate dalla compagine occitanista nel suo insieme), in secundis, perché è un dizionario che non solo registra l’uso, ma si fa promotore di neologismi. Da parte mia, è forte la convinzione che un vocabolario dovrebbe limitarsi ad assistere ai giochi linguistico-lessicali e ad offrirne la cronaca; il servizio di arbitraggio non solo non è richiesto, ma è sconsigliato. I dizionari monolingui italiani, sebbene paiano talvolta troppo dediti al culto della neologia (si vedano i due recenti volumi di aggiornamento al GRADIT e al GDLI o le edizioni annuali dello Zingarelli), ben si guardano dal diventarne creatori. Il DOc, per contro, assurge a linguae arbiter, portando all’attenzione del lettore numerose parole nuove (contrassegnate da una P [= proposta]), che saranno utili, e forse indispensabili, per le funzioni istituzionali a cui l’occitano cisalpino (codificato a partire dalle varietà centrali) potrebbe (o vorrebbe) accedere. Non sono ancora stati resi noti i principi di selezione dei lemmi del Grande dizionario del provenzale alpino coordinato da Sergio Maria Gilardino; ma temiamo che, data la prova precedente di Gilardino [2008] come “rivitalizzatore” della parlata walser di Alagna Valsesia (con 34.000 neoformazioni endogene su un totale di 40.000 parole, facilitate in parte dalle potenzialità di composizione delle lingue germaniche), l’attitudine del DOc, forse non del tutto condivisibile ma rispettosa del tesoro lessicale comunitario, verrà portata alle estreme conseguenze. 4. La morte del parlante Le riflessioni compiute fino ad ora hanno messo al centro l’homo scribens, dimenticando totalmente un’altra figura di qualche rilevanza, l’homo loquens. Il pianificatore paga un tributo costante allo scribo, ergo sum, mentre pone costantemente tra parentesi il loquor, ergo sum. Come ammette esplicitamente Haugen (1972: 163), le politiche di pianificazione si sono fin dall’inizio orientate verso il polo scritto della diamesia, capovolgendo, in tal modo, e l’interesse delle scienze linguistiche e l’evoluzione ontogenetica, che sanciscono, per converso, la primazia speculativa e temporale del parlato sullo scritto. Lo standard orale è considerato dagli addetti ai lavori alla stregua di un surplus rispetto allo standard scritto; anche dal punto di vista operativo, se già non è facile imporre ad una comunità una lingua codificata scritta, ancora più ardua è l’accettazione di una lingua codificata orale, che sarà vista dalla Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 55 gente come una sfida rivolta al dialetto della quotidianità. Appare però chiaro a tutti che una lingua che ha pochi parlanti, non dico di una varietà standard ma di un qualsiasi dialetto, difficilmente potrà avere un esercito di scriventi. Gli studi dedicati al salvataggio delle lingue minacciate, almeno da Fishman (1991) in avanti, hanno sempre più evidenziato la fondamentale importanza del momento della trasmissione intergenerazionale: se manca questo passaggio, è arduo supporre che la lingua in pericolo abbia i mezzi per sopravvivere. A conferma di ciò, nello sviluppare alcuni criteri per giudicare in quale misura le lingue di minoranza siano minacciate, Krauss (2007) ha preso in considerazione soltanto il fattore della trasmissione linguistica; e Salminen (2007), applicando questi criteri al provenzale alpino, arriva a conferirgli un livello b-, con b che indica una lingua irrimediabilmente in pericolo e in declino, che ha sì superato la soglia base di vitalità, ma non è più parlata come lingua materna dai bambini in casa ed è usata a partire dalla generazione dei genitori (25-30 anni) (o, va da sé, da soggetti più anziani). La situazione non è migliore oltralpe. Lo stesso Salminen assegna alle varietà di occitano parlate nell’Esagono un livello da c- (alverniate, linguadociano, provenzale) a c+ (guascone): se ne ricava l’immagine di una lingua severamente danneggiata e parlata soltanto dalle persone di mezza età, che i genitori non sono più in grado di insegnare ai figli. Il dato trova conferma in Lewis (2005), il quale, in una scala da 0 (= lingua estinta) a 5 (= lingua pienamente vitale), attribuisce un punteggio medio di 2,5 all’unico dialetto occitano considerato, il guascone (i fattori impiegati per la valutazione sono i nove previsti dall’UNESCO 57). Analizzati e posti a confronto i risultati autovalutativi sull’uso di patois e piemontese in tre località occitanofone cisalpine (Exilles, Entracque, Prea/Fontane 58) con quelli sull’impiego del patois in quattro località occitanofone francesi (Bedous, Osse-en-Aspe, Aulus-les-Bains, Bethmale, di area guascona), Berruto (in stampa) giunge alla conclusione che le due situazioni sono in larga misura sovrapponibili (regressione e uso quasi esclusivamente in-group dell’occitano; rapporto tra spopolamento e decadenza, e potenziale morte, della lingua), ma con una differenza non marginale: in Francia, nonostante nessun codice oltre alla lingua nazionale insidi il patois, le cifre relative all’occitanofonia mostrano valori più bassi rispetto alla Galloromania piemontese. Un quadro non consolante, al di qua e al di là della Alpi, che getta un’ombra sinistra sulla trasmissione intergenerazionale della lingua. 5. Vuoto sociolinguistico Come avrete notato, nei lavori ora citati il fuoco è sul parlante (e non sullo scrivente). Chi giudica e descrive una realtà (socio)linguistica ha ben presente la categoria del parlante, la quale è invece trascurata da chi vuole puntare, fin da subito, ai gradi più alti della rivitalizzazione, senza che si sia prima consolidato un regime di diglossia (ovvero la presenza nel repertorio di due codici funzionalmente differenziati, uno alto, destinato solo agli usi formali, e uno basso, destinato solo agli usi informali). Quello di puntare ex abrupto all’empireo della rivitalizzazione è stato l’errore di Sumien (2006), che sembra colpevolmente ignorare la “verità effettuale” dell’occitano del III millennio. Lo scopo del linguistica francese, apertamente dichiarato (idem: 152), si esaurisce nel vincere la diglossia; ed è un obiettivo alquanto curioso, visto che ci troviamo in un contesto di incipiente sostituzione di lingua, in cui il conseguimento di un regime di diglossia generalizzato sarebbe già una grande vittoria. Un conto è confrontarsi con una diglossia diffusa, in cui cioè l’intera comunità padroneggia i due codici, altro conto è confrontarsi con 57 Nell’ordine: 1) trasmissione intergenerazionale della lingua; 2) numero assoluto di parlanti; 3) proporzione di parlanti in rapporto al totale della popolazione; 4) perdita di domini d’uso; 5) risposta ai nuovi domini e media; 6) materiali per l’educazione linguistica e l’alfabetizzazione; 7) atteggiamenti e politiche linguistiche a livello istituzionale e governativo; 8) atteggiamenti dei membri della comunità verso la lingua; 9) quantità e qualità della documentazione. 58 Si tratta di due frazioni dei comuni, rispettivamente, di Roccaforte Mondovì e di Frabosa Soprana. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 56 una diglossia a macchia di leopardo, sbrindellata, che non è patrimonio della comunità, bensì di un numero esiguo e declinante di individui. Il secondo caso sembra bene attagliarsi al quadro sociolinguistico dell’occitano, in cui, seguendo la lezione di Fishman, la diglossia non solo non andrebbe osteggiata, ma perseguita e rafforzata, in attesa di tempi (e di politiche) migliori. Sumien (2006: 52) caldeggia, di par suo, un inafferrabile bilinguismo cognitivo, che viene interpretato da Blanchet (2008: 174) come la volontà di sostituire l’occitano al francese nel ruolo di lingua di cultura; credo invece che Sumien miri ad una sorta di bilinguismo comunitario, in cui il codice basso, l’occitano, si trasformi in codice alto, non al posto del francese, ma al suo fianco. Il modello è costituito dal catalano, ma il pianificatore dimentica che la lingua dei vicini ha beneficiato di una tradizione ininterrotta dal Medioevo ad oggi ed è stata sostenuta da una forte spinta ideologica, popolare ed economica (Paulston 1987, Priest 2008), ciò che manca totalmente all’occitano. Ogni intervento di pianificazione, per non trasformarsi in un puro esercizio intellettuale, deve necessariamente poggiare su un’indagine circa le competenze e gli usi linguistici della comunità, al fine di ricostruirne correttamente il repertorio; si scoprirebbe allora, sia ricordato en passant, che il concetto di diglossia (diffusa o meno) non è il migliore dei concetti possibili per delineare il rapporto tra occitano, da un lato, e francese o italiano e piemontese, dall’altro (si veda più avanti). Nello stesso tempo, verrebbe molto a vantaggio se, accanto al rilievo sull’uso linguistico, si affiancasse un carotaggio su ciò che la comunità effettivamente desidera e pensa: quali sono cioè gli atteggiamenti verso il codice di minoranza e come l’introduzione di una varietà codificata extra o super partes verrebbe vissuta. Di tutte queste informazioni il pianificatore dovrebbe tenere gran conto, per meglio tarare la propria opera e per evitare che essa si trasformi in un progetto troppo marcatamente idealistico59. Sumien elude questi principi di validazione, dettati peraltro dal senso comune, e vagheggia un occitan estandard sospeso in una sorta di vuoto sociolinguistico, che trae conforto e vigore da un intervento di prodigioso corpus-planning e dalle ambizioni legate allo status futuro (realizzabili?). 6. Che fare? La pianificazione linguistica non è soltanto incentrata su corpus e status. Esiste infatti una terza attività, nota come acquisition-planning, che si intreccia e in parte si sovrappone alle altre due; con essa «si definisce l’insieme di interventi pubblici che mirano ad aumentare il numero degli utenti potenziali di una lingua» (Dell’Aquila-Iannàccaro 2004: 133). L’acquisition planner può lavorare di concerto e in parallelo con il corpus-planner e lo statusplanner e l’importanza del suo ruolo è destinata a crescere nei contesti sociolinguistici in cui il numero dei parlanti attivi è in forte declino, com’è il caso dell’area occitana. Prima fermare lo smottamento, poi avviare la ricostruzione: questo è l’adagio che sempre dovrebbe tenere a mente il pianificatore, nella consapevolezza che l’agire altrimenti equivarrebbe ad edificare una casa, bella e dotata di tutti i comfort, su un terreno infido, inutilmente rischioso. In seguito all’attuazione della legge 482/99, molte sono state le iniziative intraprese da Comuni, Comunità e Associazioni sul territorio piemontese. Telmon e Ferrier (2007: 56-7) elencano le principali azioni presentate negli ultimi anni, che vanno dalla creazione di sportelli linguistici, dedicati alla traduzione, alla progettazione e al coordinamento di corsi e lezioni tematiche, al finanziamento di pubblicazioni (dizionari, opuscoli, raccolte di proverbi e modi di dire, ecc.); dalla promozione di manifestazioni e iniziative storico-culturali all’allestimento di musei etnografici. Tutte attività lodevoli, che non hanno portato ad un incremento del numero degli utenti reali della lingua (le iniziative indirizzate a promuovere la lingua di minoranza sono spesso discontinue e godono di una buona ricezione solo da parte di coloro che hanno una buona competenza attiva del codice minoritario e già lo coltivano in vario modo), ma che hanno contribuito a creare un nuovo atteggiamento nei confronti di alcuni dei 59 Qui e più avanti, utilizzo idealistico nel senso (non filosofico) di “ideologico”, sulla falsariga di Van Hoorde (2005). Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 57 dialetti oggetto di difesa. La mia impressione è che oggi, nelle valli occitanofone del Piemonte, il repertorio stia evolvendo in un tipo simile allo schema dilalico A2 illustrato da Dal Negro-Iannàccaro (2003: 441-2), nel quale il codice alto, l’italiano, è anche usato nella conversazione quotidiana, e i codici bassi, l’occitano e il piemontese, a cui sono precluse le funzioni formali, risultano in declino di parlanti; uno dei due codici, l’occitano nella fattispecie, si prospetta tuttavia in espansione di status. Gioverà ad ogni modo ricordare che, pur nel quadro di generale contrazione proprio dell’area occitanica, il piemontese resta la prima lingua locale conosciuta per il 53,9% degli informatori dell’indagine IRES (anno 2005), mentre il provenzale cisalpino gode della stessa qualifica soltanto nel 39,4% dei casi (Allasino 2007: 64; v. anche Allasino 2009). Più complessa ancora è la situazione repertoriale delle Valli Valdesi, che presentano due codici nel polo alto, italiano e francese, con il primo che viene normalmente usato nella conversazione quotidiana e il secondo che, lingua di identità confessionale e culturale, è oggi confinato quasi esclusivamente al dominio familiare di un numero sempre più ristretto di famiglie (il 10% circa, in base alla stima non recentissima di Telmon 1994: 927), e i codici nel polo basso, l’occitano e il piemontese (torinese), che ripropongono il quadro testé schizzato. Mentre il rapporto tra l’italiano e i codici del polo basso è di indubbia dilalia, appare più sfumata la relazione tra il francese, per un verso, l’occitano e il piemontese, per l’altro. La lingua d’Oltralpe, infatti, può essere sì impiegata nel parlato quotidiano, ma, a differenza di quanto succede per l’italiano, assai di rado in sovrapposizione funzionale con i dialetti gallo-romanzo e/o gallo-italico; lo status alto del francese, che è comunque da considerarsi sociolinguisticamente inferiore rispetto all’italiano, è oggi più potenziale (e legato al prestigio al di fuori della comunità) che non reale (sui repertori delle valli occitanofone, cfr. Telmon 1994 e Berruto in stampa). Il modello ideale (non idealistico!) per migliorare la competenza nella lingua di minoranza, incentivarne l’uso sociale e aumentarne nel contempo il prestigio è il Catherine Wheel Model di Strubell (2001a). È una proposta che pone l’individuo-consumatore al centro di ogni cambiamento sociale democraticamente inteso (Strubell 2001b: 280) e prevede sei modalità di sviluppo: 1) se ci sono più persone che imparano una lingua, 2) crescerà la richiesta di prodotti e servizi in quella lingua, che 3) porterà ad una maggiore disponibilità di quei prodotti e di quei servizi; 4) il loro accresciuto consumo condurrà a 5) un incremento nella percezione dell’utilità della lingua, che causerà 6) una maggiore motivazione al suo apprendimento e al suo uso. Tutto questo indurrà 1) più persone ad imparare la lingua, ecc. ecc. Si tratta, in condizioni ottimali, di un perpetuum mobile, di una rotazione incessante che tocca a turno i vari steps, non importa quale sia il punto di avvio; in condizioni non ottimali, come è spesso il caso, possono intervenire degli ostacoli. Ad esempio, quando aumenta il numero di apprendenti di una lingua, ma il tasso di natalità è basso o l’emigrazione cospicua, allora la crescita della richiesta di prodotti e di servizi in tale lingua è messa in serio pericolo; allo stesso modo, se è maggiore la motivazione ad imparare e usare una lingua, ma mancano i materiali didattici e/o i corsi istituiti alla bisogna sono insufficienti, è inutile sperare in un incremento degli apprendenti. Spero, con questa rapida carrellata, di aver messo in luce alcune criticità del rapporto tra pianificatore e “verità effettuale”: un confronto che, in molti casi, non ha nemmeno la ventura di manifestarsi. Le politiche idealistiche, ancorate alla triade Popolo, Lingua, Identità (Van Hoorde 2005) e nutrite nel mito delle culture “ancestrali”, danno spesso la stura a progetti sovradimensionati, volti più a titillare l’ego del pianificatore-demiurgo che a perseguire il bene linguistico della comunità; il rischio più prossimo è quello di giungere alla creazione di un nuovo codice (“glotto-poiesi”), il quale avrà poco o nulla a che spartire con la lingua minacciata. Un approccio realistico, per contro, può condurre a progetti equilibrati, rispondenti alle esigenze del parlante (e in seconda istanza dello scrivente), ma, proprio per questo motivo, meno reboanti e seducenti. Meglio le grandi traversate dell’idealismo o il piccolo cabotaggio del realismo? L’ultima parola andrà accordata non già ai timonieri, bensì agli utenti del Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 58 servizio, che dovranno soppesare con attenzione e saggezza costi e benefici delle grandi traversate e del piccolo cabotaggio, ben consapevoli del fatto che, una volta lasciato il porto, l’approdo può essere distante, e la rotta del ritorno costellata di insidie. Riferimenti bibliografici Adams, E. L., 1916, Word-formation in Provençal, Macmillan, London-New York. Allasino, E., 2007, La diffusione delle parlate in Piemonte, in Allasino et alii 2007: 61-89. Allasino, E., 2009, Le lingue del Piemonte: diffusione e uso, in Malerba, A. (a c. di), Quem tu probe meministi. Studi e interventi in memoria di Gianrenzo P. Clivio, Centro Studi Piemontesi, Torino: 21-41. Allasino, E. et alii, 2007, Le lingue del Piemonte, IRES Piemonte, Torino. Allisio, S., Rivoira, M., 2009, Scrivere l’occitano in Piemonte. 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Esperienze in valle Po e valle Stura Silvana Allisio Dopo i vari interventi di questa mattina che hanno fornito approcci di tipo giuridico, culturale, linguistico, tentiamo ora un’analisi maggiormente legata alla situazione reale delle valli. Vorrei raccontarvi come avviene concretamente, e con quali difficoltà, l’applicazione della Legge 482, proponendovi altresì una panoramica sulle azioni intraprese per la tutela, la salvaguardia e la promozione, di quella che la legge definisce “lingua minoritaria”. Faccio una premessa che mi deriva dall’interrogativo posto da Riccardo Regis nel suo intervento: “idealismo o realismo?”. In concreto, quale posizione assumere nei confronti delle iniziative intraprese per la salvaguardia e tutela della lingua occitana? In relazione al fermento che gravita attorno alla questione, e di cui tutti siamo più o meno a conoscenza, sento di poter condividere ed apprezzare la proposta di un ottimismo della volontà. Un ottimismo della volontà in base al quale posso affermare a priori e comunque prima di avanzare qualunque altra interpretazione, che a questa lingua, io, Stefano Martini e molti altri, vogliamo bene! In tutti gli interventi di questa mattina mi è parso non sia emerso questo fatto: che a una lingua, in primo luogo, si è affezionati. Questa “lingua minoritaria” va oltre ogni classificazione poiché per noi è soprattutto la lingua degli affetti, delle comunicazioni intime e famigliari. È una lingua che abbiamo succhiato da piccoli come il latte nel biberon; per questo motivo ha senso cercare in tutti i modi possibili di mantenerla viva. Questo non significa che i tentativi di mantenere in vita questa lingua debbano poi per forza giungere a delle soluzioni estreme, alcune delle quali peraltro osservabili nelle nostre valli. Queste applicazioni conducono infatti al processo indicato da Regis come “glotto-poiesi”, ovvero alla formazione di un codice definibile come “luogo insperato”, che sento non mi appartiene poichè di per sé sterile. Fatta questa breve introduzione, desidero illustrarvi brevemente che cosa intendiamo Stefano Martini ed io con “Storie di ordinaria tutela della lingua degli affetti”, il titolo assegnato d’istinto al nostro intervento quando ci è stato richiesto. “Storie”, perché quelle di cui vi raccontiamo sono solo alcune delle molteplici iniziative realizzate in valle Stura e in valle Po per la tutela della lingua. Esistono altre realtà, altre associazioni, altri enti, che hanno lavorato e operato magari in maniera diversa, ma che hanno prodotto della documentazione e degli strumenti più che validi per la valorizzazione della lingua occitana. “di ordinaria tutela”: ordinaria inteso nell’accezione più bella di questo termine, nel senso che le cose ordinarie sono quelle che facciamo tutti i giorni, ma se le facciamo tutti i giorni è anche perché sono quelle a cui, in qualche modo, siamo più affezionati, o comunque, quelle talmente normali e per noi giustificate che non richiedono nessun particolare impegno o programmazione. Sono ordinarie, appunto. Più nello specifico, con storie di ordinaria tutela, mi riferisco a quegli interventi molto spesso realizzati senza usufruire dei finanziamenti della legge 482. Voglio dire, quelle iniziative che hanno coinvolto la gente del luogo, che hanno sviluppato in primo luogo passione e che quindi, si sarebbero realizzate comunque, anche senza i finanziamenti derivanti da un’apposita legge di tutela. E “della lingua degli affetti”, perché mi ha sempre un po’ infastidita la definizione di “lingua minoritaria”, soprattutto se analizzata nel contesto della variante occitana o provenzale alpina, che nel caso delle vallate del Cuneese, delle vallate da cui proveniamo noi, è strettamente legata a una condizione geografica, territoriale, culturale, già di per se marginale. È un po’ come identificare i “montanari sfigati”, quelli che in qualche modo sono già stati inquadrati in questa sorta di “mondo dei vinti” e che, per di più, sono pure minoritari! Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 61 I toni un po’ accesi di queste affermazioni, sono dettati dalla passione, dall’affetto per una realtà che è poi quella in cui sono cresciuta e alla quale sono profondamente legata. Talvolta i toni accesi della passione lasciano il posto ad un’evidente irritazione derivante dalle “costrizioni lavorative” di povero funzionario di comunità montana, obbligato a fare cose che probabilmente Silvana Allisio non farebbe. Se è pur vero che a casa mia non troverete mai una bandiera occitana poiché per me non ha alcun valore, è altrettanto vero che potreste incontrarmi a cerimonie in cui la bandiera sventola alla grande. Sappiate che lì c’è solo la dipendente in orario di lavoro. In relazione a questa situazione che tiene conto dei parlanti effettivi delle vallate del cuneese, in un territorio di alta montagna con problemi economici e di comunità enormi, mi sono chiesta tante volte se questi soldi non sarebbero stati più utilmente spesi in un qualche progetto dalle dirette ricadute economiche e sociali sulla montagna. I nostri paesi vivono una situazione difficile e a fare la differenza non è certo un qualche individuo in più che parla l’occitano, ma una famiglia che sceglie di aprire un’attività ad esempio a Pontebernardo, la differenza la fa eccome! Anche se non parla l’occitano. Ma mi rendo conto che un’interpretazione del genere ci porterebbe lontano, quindi ve la propongo semplicemente come una riflessione personale dettata dall’affetto per la montagna intesa come comunità di uomini e donne che ci vivono. Mi sento invece di asserire tranquillamente che la legge non tiene conto delle reali differenze geografiche, culturali e sociali che vi sono anche tra territori e vallate limitrofe. Consideriamo ad esempio la Valle Stura e la Valle Po. La Stura è una valle da sempre aperta al passaggio, al transito, allo scambio di merci, di persone e forse questo corridoio ha anche mantenuto più vivo il tessuto linguistico. Un tessuto linguistico riscontrabile, a differenza della valle Po, anche nella media e bassa valle; a conferma di tale realtà, potete entrare in una panetteria o in qualunque altro negozio di Demonte e non sarà difficile udire colloqui in lingua occitana. Anche a Moiola, Gaiola, Rittana, Roccasparvera e Valloriate non si fatica a trovare un buon numero di parlanti attivi; qualche realistica difficoltà si presenta invece nel caso di Borgo San Dalmazzo dove i parlanti, se ancora esistono, vanno cercati col lanternino! Ma parliamo veramente dell’ingresso in valle. Ben diversa la situazione della valle Po dove già Corrado Grassi nel ’58 definiva come provenzali alpini, esclusivamente i tre Comuni dell’alta valle, mentre riscontrava grosse difficoltà ad individuare tali caratteri linguistici su Paesana, fatta eccezione per alcune borgate in quota (anche di Sanfront). Vale la pena pensare che Paesana può essere considerata l’equivalente di Demonte. Per non parlare di realtà limitrofe come la Valle Bronda definita come “estrema propaggine provenzaleggiante”. Curioso il fatto che attualmente, l’articolo 2 della legge 482 riconosca come occitani i comuni in cui neppure 50 anni fa un linguista riusciva ad identificarne alcuni tratti! Per quanto riguarda alcune delle iniziative di valorizzazione della lingua intraprese in alta Valle Po, vorrei parlarvi brevemente dei quaderni realizzati dalle due associazioni culturali “I Rënèis” di Ostana e i “Vou Rëcourdàou” di Oncino. I quaderni raccolgono le inchieste etnolinguistiche realizzate attraverso le interviste agli informatori locali e fedelmente trascritte con la grafia dell’Escolo dou Po. Trattasi di lavori che spesso si riescono a chiudere con molte difficoltà, perchè è necessario andare a cercare gli informatori, realizzare le interviste, sbobinarle e trascriverle, organizzare i testi, cercare il materiale fotografico. E considerate che la maggior parte di questi informatori non vive più né a Oncino, né a Ostana; si devono cercare a Torino, a Saluzzo, altro che ritorno sulle montagne! Siamo tuttavia convinti che sia un lavoro di fondamentale importanza e lo sarà ancora di più con il passare degli anni, perché rimarrà come documentazione fedele di una cultura, di una comunità e della sua lingua riportata nell’integrità della sua variante locale. Per questo motivo che è anche e soprattutto passione, affetto per le proprie cose, continueremo ad impegnarci in questa direzione. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 62 Prima di lasciare la parola a Stefano, che vi parlerà della “Lengo de ma maire”, questo progetto realizzato nel ’97 (quindi prima della 482) ma che ancora adesso è lo strumento maggiormente utilizzato nelle scuole della valle Stura, vorrei condividere con voi ancora una riflessione. L’altra sera sfogliando questo volumetto, mi sono soffermata per puro caso sulla presentazione che, a mio parere, è particolarmente significativa per due motivi. Il primo, perché è stata scritta da un presidente di comunità montana, un politico per intenderci, ed è abbastanza raro trovarne qualcuno particolarmente sensibile alla vera realtà della propria valle. Il secondo motivo è che, a distanza di tanti anni, ci aiuta a fare un’analisi legata alla situazione linguistica contingente delle nostre valli. Ve la leggo brevemente: “Il lavoro che viene presentato non è il risultato di uno scavo archeologico, è la lettura partecipata e viva di una valle, che ha ancora ben salde radici nel mondo rurale. Una lettura partecipata, perchè svolta dai ragazzi di elementari e medie guidate da insegnanti sensibili. Viva perché raccolta sul territorio con i reali protagonisti della vita quotidiana. È una ricerca sincera, senza infingimenti nè accademismi.” Era dunque una ricerca linguistica possibile perchè legata a due delle attività lavorative più tipiche della valle Stura, ovvero la castanicoltura e l’allevamento ovino. In chiusura di premessa, chi scrive conclude così: “Questo lavoro si inserisce in un solco di attività che ebbe inizio ben prima, tre lustri in cui molto si è fatto e si è seminato. Gran parte della popolazione è stata coinvolta. Non è ancora tempo di bilanci o di riepiloghi. Un risultato certo lo abbiamo raggiunto: tutti oggi ci conosciamo meglio.” Questo risultato va, secondo me, nell’ottica di quello che si diceva stamattina, del fatto che comunque l’apertura alla condivisione di quella che viene definita “cultura minoritaria” con chi non vi appartiene strettamente, può produrre dei buoni risultati poiché trattasi in primo luogo di uno scambio culturale che arricchisce sempre. Sugli altri bilanci e riepiloghi, probabilmente chi scriveva allora, ad oggi vi racconterebbe in modo diverso, perchè sicuramente questa ricerca non potrebbe essere condotta nello stesso modo. Mancano infatti i bambini e le insegnanti con una competenza linguistica attiva. Pensate che in Valle Stura, dove comunque come vi ho detto prima la parlata si è meglio conservata anche nelle zone di media e bassa valle, esiste ormai un’unica scuola (quella di Festiona, borgata di Demonte) con cui è possibile tentare la realizzazione di progetti linguistici. Questo dato la dice lunga anche su come si è evoluta la situazione socioculturale su quel territorio nel giro di pochi anni. Concludo ringraziandovi per l’attenzione e lasciando la parola a Stefano. Permettetemi una battuta conclusiva: la valle Po ha come proprio simbolo il Monviso. Potrebbe succedervi di sentirlo nominare come lo Visol: molto carino, ma ricordate che i parlanti dell’alta valle l’hanno sempre chiamato Vizou e potrebbero far finta di non capire le vostre eventuali richieste d’informazione. Non vorrei che per sbaglio, vi mandassero in un’altra valle…! Stefano Martini Con questa esposizione mi permetto di andare un po’ fuori tema ed anziché limitare la mia chiacchierata al decennio“ 1999-2009”, relativo al lavoro svolto con la legge 482, vorrei parlarvi delle iniziative realizzate, sul tema della Lingua Occitana, in trent’anni di attività, come dipendente della Comunità Montana Valle Stura. Sono stato assunto nel ’77 e all’inizio mi occupavo di attività sociali, legate soprattutto agli anziani, impegno che mi ha consentito di avvicinarmi maggiormente al grande patrimonio culturale da loro posseduto. Qualche anno dopo mi è stato proposto di dedicare il mio lavoro alla valorizzazione della cultura locale ed in particolare della lingua occitana. L’argomento, chiaramente, mi interessava in quanto la parlo e sono legato da profondo affetto a questa lingua. Il rapporto con la lingua che abbiamo noi abitanti delle valli occitane italiane è Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 63 diverso rispetto a quello dell’Occitania francese. Sempre più spesso mi capita di frequentare quelle zone e noto come ormai non utilizzino più la loro parlata originaria, mentre da noi è una realtà ben viva. Recentemente ho incontrato, in occasione di un convegno internazionale in valle Stura presso l’Ecomuseo della Pastorizia, un anziano pastore originario della Valle Maira, che attualmente vive nella Crau, il quale parlava con me un perfetto occitano, lou miran, come diciamo noi. Con gli altri pastori parlava il provenzale o il piemontese ed ancora con altri partecipanti l’italiano o il francese in base alla lingua usata dai suoi interlocutori. E questo patrimonio appartiene a quasi tutti gli occitani che vivono nelle valli italiane di lingua d’Oc. Quando poi negli anni ’80 ho iniziato ad occuparmi di cultura, la prima iniziativa avviata riguardava il progetto di ricerca toponomastica per la realizzazione dell’Atlante Toponomastico del Piemonte Montano. Quella è stata l’occasione che mi ha consentito di conoscere e soprattutto di fare amicizia con il professor Arturo Genre, docente dell’Università di Torino, Dipartimento di Scienze del Linguaggio, profondissimo conoscitore della lingua occitana. Oggi sono particolarmente contento di essere qui nella sua valle e per ricordarlo vorrei raccontarvi un simpatico episodio successo a Maniglia di Perrero, nell’abitazione del professore. Mentre chiacchieravo con la sua mamma in lingua d’Oc, a un certo punto ho notato che era in difficoltà a comprendere una parola all’interno della frase che io avevo pronunciato “Que bel bòdis qu’avé” (“Che belle patate che avete”). Il vocabolo era “bodis”, che in Valle Stura indica le patate, mentre in Val Germanasca sono chiamate le “trifoule”. L’intervento chiarificatore di Arturo che, con la moglie, stava preparando un buon pranzetto, ci ha permesso di continuare la conversazione, che è proseguita sempre in lingua d’Oc, senza ulteriori difficoltà. Proprio sotto la direzione di Arturo Genre abbiamo iniziato a lavorare sulla ricerca toponomastica in Valle Stura ed in particolare sul territorio del Comune di Gaiola, primo volume edito dall’ATPM (Atlante Toponomastico del Piemonte Montano). Da allora in Valle Stura sono stati raccolti oltre ottomila toponimi. L’intenzione è quella di riuscire a presentare, tra alcuni anni, in un convegno itinerante nella nostra Valle, l’Atlante Toponomastico di tutti i Comuni; adesso abbiamo concluso la ricerca in otto e sugli altri stiamo proseguendo il lavoro. Da un punto di vista linguistico, la ricerca intanto ha prodotto un patrimonio eccezionale di informazioni; ogni toponimo ci racconta infatti un pezzo di storia del territorio, ma è anche stata per i giovani coinvolti una importante sensibilizzazione all’uso della lingua ed un approccio all’uso della grafia, proposta anche attraverso l’organizzazione di corsi e di incontri. L’iniziativa, come già ricordato, prosegue tuttora coinvolgendo tutti i comuni della Valle. Verso la fine degli anni 80 poi, è stato attivato il “Centro di Documentazione”, come centro propulsore delle attività culturali della valle e strumento per la raccolta e la conservazione della documentazione relativa al patrimonio storico-culturale presente in valle e nelle valli occitane. Tra le principali iniziative promosse dal Centro, possiamo ricordare : a ) le mostre temporanee allestite ogni anno su tematiche diverse. La prima esposizione realizzata riguardava l’antica tradizione dell’Abbadia di Sambuco, paese situato in Alta Valle Stura e sede del Centro di Documentazione. (la mostra è stata alla base della rinascita dell’Abbadia, che dagli anni ’50 non si era più manifestata in pubblico). b) la pubblicazione della collana dei “Quaderni della Valle Stura”, nata con l’intento di raccogliere il contributo di studiosi, accademici e locali, come veicolo di comunicazione e di partecipazione ad una storia che è speranza e progetto di sviluppo. Il volume numero quattro in particolare “La Valle Stura: caratteri linguistici” presenta gli interventi di Arturo Genre, Tullio Telmon e Sabina Canobbio, docenti del dipartimento di scienze del linguaggio. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 64 c) il progetto “La lengo de ma maire” che ha ottenuto il sostegno finanziario della Regione Piemonte e della CEE nell’anno 1996. L’iniziativa ha preso l’avvio con la collaborazione delle scuole medie ed elementari della Valle, molto sensibili al tema del patrimonio linguistico e culturale, con un lavoro di ricerca sull’allevamento ovino in Alta Valle e sulla castanicoltura in Bassa Valle. Questi lavori di ricerca hanno prodotto una valida ed abbondante documentazione: una serie di schede, frutto delle interviste ai genitori ed agli esperti, materiale fotografico, disegni, raccolti poi in una pubblicazione, in un alfabetiere ed in un documentario. Per quel che riguarda la pubblicazione si è cercato di renderla particolarmente interessante, con: - brevi testi introduttivi in italiano e la traduzione di frasi particolarmente significative, caratteristiche e curiose in lingua d’Oc, in quanto l’obbiettivo era quello di creare uno strumento utile e facilmente consultabile anche da parte di chi non parla la lingua; - alcune schede identificative di oggetti, di attrezzi particolarmente importanti, ad esempio delle diverse campanelle, della pecora floucà, ossia la pecora che porta caratteristici fiocchi di lana realizzati durante la tosatura ed è la migliore dell’allevamento; - un piccolo dizionario con le parole chiave relative alle due tematiche trattate. L’alfabetiere è stato molto richiesto, così come il documentario, da tutti gli abitanti della Valle e si trova esposto in tutte le abitazioni dei valligiani e dei turisti che abitualmente la frequentano Ambedue sono stati concepiti come strumenti di conoscenza della lingua e di sensibilizzazione nei confronti delle persone. Un’altra iniziativa di rilievo è stato il lavoro di ricerca sul contrabbando, definito “un mestiere per vivere”, soprattutto nelle borgate poste alle quote più alte. A Ferriere, ad esempio, dove è stato realizzata “La Mizoun dal Countrabandìer”, che illustra questa antica tradizione, la ricerca è stata un’occasione per recuperare il gergo “Lou gergoun”, cioè la parlata che veniva utilizzata oltre confine dai contrabbandieri. Venendo poi al tema del nostro incontro, riguardo alla legge 482, in questi anni abbiamo operato all’interno delle iniziative organizzate nell’ambito dello Sportello Linguistico, coinvolgendo soprattutto gli insegnanti e gli abitanti della valle interessati, attraverso la realizzazione di ricerche, mostre, corsi ed incontri. Ad esempio per due anni sono stati organizzati incontri e corsi per insegnati, che hanno poi prodotto il DVD “La Meizoun d'Encui”, uno studio sui borghi più caratteristici dal punto di vista dell’architettura alpina. Tali borghi sono stati fotografati, con i loro particolari architettonici e di questi ultimi è stata raccolta la ricca nomenclatura in diversi centri della Valle. Per rendere più interessante la consultazione il DVD è stato impostato come un gioco con diverse opzioni linguistiche. Grazie a questa legge, in tutte le valli, sono stati realizzati molti lavori che sicuramente hanno valorizzato e incrementato l’uso della lingua d’Oc quindi possiamo definirla “strumento fondamentale”, ben sapendo comunque che il futuro di questa lingua dipende dal nostro impegno di occitani, la lingua vivrà se sapremo parlarla. Un proverbio occitano afferma “I à que en marì persounage que parlo ren sou lengage!” Matteo Rivoira Io vi ringrazio, e vorrei sottolineare una cosa prima di lasciare lo spazio anche alle domande. Questo genere di attività, anche l’attività di documentazione, non è un imbalsamare la lingua, perchè questi quaderni, queste associazioni - ma di riviste ce ne sono almeno altre due, da Novel Temp a Valados Usitanos - sono dei veri e propri presidi culturali sul territorio, perché è vero che salvaguardano, ma è anche altrettanto vero che fanno conoscere, sensibilizzano, danno una testimonianza e comunque, se c’è qualcuno che fa un quaderno sulla mia lingua, vuol dire che questa mia lingua qualcosa di buono ce l’ha. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 65 Questo è il livello base, poi c’è tutto il resto, ovviamente. Evidentemente le nostre comunità hanno un tessuto sociale vario, a seconda dei luoghi. La valle Po è uno di quelli più difficoltosi. Quando facevo le ricerche dell’IRES non era difficile essere rappresentativi per la classe dei giovani, era difficile trovare due giovani, non si stava a guardare se parlavano o non parlavano occitano... In altre valli la situazione è un po’ diversa, ma c’è in qualche modo bisogno di riannodare questi legami e la narrazione è uno dei modi possibili …. Per cui, grazie per il vostro ruolo. Dibattito Danilo Breusa (Sindaco di Pomaretto) Innanzitutto, grazie ai promotori per questa iniziativa che è sempre importante e lodevole. Volevo dire che sono arrivato tardi, e quindi mi trovo un po’ spiazzato a dover fare qualche commento di rilievo sui vostri interventi. Collegandomi a quella che è stata la nostra giornata di oggi a Torino, anche con il qui presente Presidente della Comunità Montana, possiamo fare dei riferimenti al nostro dibattito proprio di questa mattina riguardante i Comuni montani: anche lì si parlava dello sviluppo futuro delle nostre Valli, del nuovo ruolo delle Comunità Montane e delle Agenzie di Sviluppo. E io lo dico con molta sincerità - posso essere ottimista, perchè sono nei miei primi mesi di mandato da Sindaco - sono convinto che facendo rete, come più e più volte è stato enunciato, facendo sistema, grazie anche all’utilizzo delle vostre grandi esperienze, ci possono essere delle opportunità per coniugare insieme sviluppo e cultura. In questo caso, stiamo parlando di lingue minoritarie, ma è una delle realtà delle nostre valli; sicuramente possono essere degli strumenti validi. Quindi, fare sistema e lavorare insieme. Sicuramente nel mio ruolo mi è un po’ difficile entrare nello specifico delle analisi tecniche che oggi ci avete illustrato. Però approfitto per ringraziare e dare la massima disponibilità della mia amministrazione a seguire e sostenere quanto si va sviluppando su questo argomento. Andrea Coucourde (Commissario della Comunità Montana Valli Chisone e Germanasca) Molto rapidamente, mi riallaccio ad una delle considerazioni che faceva Danilo, perchè noi che siamo nati qui, parliamo il patouà regolarmente, (io ho un’età per cui lo parlo da bambino, insieme ai genitori che me l’hanno insegnato, e poi lo parlavo alle elementari, benché non fosse materia di studio. Mi permetteva di parlare anche con i miei “colleghi”, diciamo). A me pare che, al di là delle considerazioni sulla legge 482 a dieci anni dalla sua applicazione, ci sia anche da considerare alcuni aspetti di evoluzione della situazione che, comunque sia, bisogna prevedere per questi territori. Siamo quasi obbligati a fare così, al di là di quelle che possono essere le nostre idee. Situazione che, come diceva il Sindaco, prevederà delle Agenzie di Sviluppo. Considerate che stamattina il convegno l’ha concluso il presidente della Giunta Regionale, dando anche delle garanzie in termini di finanziamenti. Mi spiego meglio. Le Comunità Montane vivono, per certi versi, o vivevano, grazie a un fondo nazionale, in base all’istituzione della legge sulla montagna. La Presidente Bresso ha detto grossomodo: “Se il prossimo anno non avessimo più assegnata nessuna risorsa, noi siamo in grado, individuando dei filoni di sviluppo, di trovarne”, può essere l’acqua, può essere la risorsa forestale, o altre alternative... Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 66 Queste sono alcune direzioni di marcia che, chiaramente, è più facile dirle che poi applicarle. Ma volevo fare un parallelo di tipo diverso: se noi andassimo in quella direzione, ma ci dimenticassimo non il famosissimo slogan delle nostre radici, ma questa documentazione che è stata prodotta, perderemmo il meglio. Per cui, io sono il primo a dire, che quelli sono stati soldi ben spesi. Comunque sia, sono stati soldi ben spesi. Perché sono le testimonianze delle memorie che mancano, che creano non solo una base per dei ritorni nelle nostre valli, ma soprattutto perché rappresentano la realtà di chi queste cose ancora le vive. Perché altrimenti, se non consideriamo la realtà di chi ci vive, siamo messi nella condizione per cui diventano nemmeno più -permettetemi la piccola preoccupazione- un problema di studiosi. Noi abbiamo bisogno di gente che viva, che tramandi delle cose che ha saputo. A me piace cantare, ho imparato delle canzoni da Maurizio Oliva, che faceva il pastore d’estate a Pragelato, e poi quando cantava la “Le pauvre moîne”, la sapeva dall’inizio alla fine; io arrivavo fino a metà e poi mi stufava, quella canzone, però devo dire che era una realtà, era una testimonianza, che poi ha potuto tramandarsi. Lo stesso Maurizio ha contribuito a dare una mano alla Cantarana a fare il primo loro CD. Ce n’erano due che avevano imparato da lui a fare canzoni di quelle zone. Allora chiudo rapidamente per ringraziarvi di questa iniziativa. Mi spiace di non esserci stato stamattina, ma ci sono stato da studente, in questa Scuola Latina, per cui ho anche un sentimento non solo di gratitudine, ma di ricordi, che mi portano a dire che, secondo me, bisogna continuare su certi filoni. Purtroppo, di necessità bisognerà fare virtù, ma credo che queste cose che voi producete e che ci portate, nel Convegno annuale che fate sempre qui, siano utilissime a tutti i nostri territori. Grazie mille. Matteo Rivoira Io, per parte mia, e a nome di tutti, ringrazio per questi due interventi. Sono convinto che i “politici”, quelli che amministrano il territorio, che fanno la politica nel senso più nobile del termine, debbano essere vicini a questo genere di iniziative, devono accompagnarle, perché è in questo scambio che si fa qualcosa di buono e si avanza. Marco Stolfo Come “forestiero”, ho ascoltato con particolare interesse e, devo dire, in qualche momento anche con un po’ di preoccupazione. Mi spiego: mi è sembrata eccessiva la contrapposizione tra pianificatori “cattivi” e naturalisti (li chiamiamo così?) “buoni”. Credo che la pianificazione, fatta bene, con equilibrio e con la definizione di bisogni, obiettivi, strategie, risultati, sia un aspetto importante della politica linguistica per una minoranza. Non possiamo volere la co-ufficialità o rafforzare lo status della lingua come “lingua utile” e non avere uno standard di riferimento e della terminologia settoriale aggiornata. È ovvio che la pianificazione non basta e che la pianificazione ideologica è sicuramente dannosa (e non è vera pianificazione!), ma è altrettanto dannoso il pregiudizio ideologico contro la pianificazione e l’idea che, come per l’economia secondo il pensiero liberista, ci sia una mano invisibile che risolve i problemi di una lingua minorizzata, impoverita, “meno lingua”, senza alcun intervento... Una “norma” linguistica di riferimento è altresì necessaria per la formazione e per la certificazione delle competenze linguistiche. Come facciamo ad applicare i livelli del Quadro comune europeo di riferimento sulle competenze linguistiche senza “norma” e senza criteri? Come facciamo ad imparare a parlare, a leggere e scrivere e a farci valutare su come sappiamo parlare, leggere e scrivere e insegnare a parlare, leggere e scrivere se non abbiamo una scrittura? Non si può fare la polenta senza farina. Non sono un esperto di linguistica, mi interessa l’uso della lingua come diritto, come fatto, come opportunità. Mi sembra quindi che talvolta si faccia confusione tra un aspetto che è la grafia e un aspetto che sono le diverse varietà. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 67 Mi riferisco a quella che è l’esperienza friulana: è ovvio ogni lingua (in realtà il sistema linguistico) è composta dalle sue varietà. Anzi, la lingua è le sue varietà. Tra queste, ce n’è una magari di riferimento, che storicamente si seleziona e crea, e più o meno artificialmente si sostiene. Ma anche proprio il percorso storico della creazione di una varietà di riferimento ha degli elementi artificiali, basta pensare alla situazione dell’italiano, giusto per fare un esempio che conosciamo tutti abbastanza bene. Ora in Friuli abbiamo una grafia ufficiale, definita per legge. È una grafia che si applica a tutte le varietà. Ci sono caratteri che riproducono tutti i suoni. C’è poi una varietà standard di riferimento, alla quale ovviamente si applica la stessa grafia, in forma scritta, ma che poi deve confrontarsi con la forma orale che è evidentemente plurale, col risultato che scriviamo tutti in un certo modo e parliamo ognuno a modo suo, ci capiamo e ci esprimiamo. A proposito come si pronuncia in italiano “cosa”, “casa”, “chiesa”, “Pisa”? Non condivido il timore sulla possibilità che una varietà standard minacci le varietà. Le singole varietà locali non sono minacciate dallo standard di riferimento, ma dalla lingua maggioritaria, nel nostro caso l'italiano. Uno standard di riferimento al contrario aiuta le varietà a mantenersi e a rinnovarsi, dal punto di vista lessicale, fonetico e morfologico. Faccio un esempio: lucertola nella mia varietà locale friulana si dice “rasascule”, ma questo termine è ormai in disuso, non in quanto sostituito dal termine prevalente nella varietà standard “lisierte”, che non è conosciuto, ma perché sostituito da “lucertola” italiano, che è l'unica parola “sul mercato”, in quanto appartenente alla lingua dominante. Mi ha colpito e, se mi è concesso, preoccupato l'atteggiamento ostile nei confronti della bandiera occitana. Conosco la complessità della vostra realtà, di cui questo approccio è una manifestazione, ma mi pare che i problemi sono altri e anche le bandiere problematiche sono altre: quelle abbinate all'odio per il sangue impuro dei nemici... Per l'esperienza che ho io quella occitana è una bandiera che si accompagna a un inno che è un canto d'amore... Sandra Pasquet Ancora una brevissima riflessione. Il dottor Martini prima ha parlato degli insegnanti che frequentavano i corsi di formazione sulla lingua, e la stessa cosa è successa nelle nostre Valli. La Val Pellice ha cominciato a istituirli prima attraverso la Comunità Montana, che poi ha delegato al Centro Culturale Valdese il compito di organizzarli. Lo facciamo da due anni, anche con la Scuola Latina, che opera nell’ambito della Comunità Montana Valli Chisone e Germanasca. Abbiamo un’affluenza molto alta. Stamattina lei ha parlato di un calo: per noi non c’è stato un calo, anzi, c’è stata una partecipazione decisamente alta. Non ci sono state delle spese enormi, per questi corsi, ... dell’ordine dei 30 mila euro. Sono dei corsi tuttora molto seguiti. È vero che mancano forse un po’ i dipendenti dei Comuni, fra chi li frequenta, forse proprio per le motivazioni che dava Lei. Mentre il fatto che ci siano molti insegnanti, e non solo, permette forse di essere un po’ ottimisti sulle possibilità di ricaduta sulle generazioni a venire. Marinella Baral Giovani, non tantissimi insegnanti, se vuoi, ma proprio gente che non è del settore. Quando la possibilità di partecipare è allargata così e vedi la gente venire, fa decisamente piacere. Ebe Balma C’è anche la voglia delle nuove generazioni. Io persino mi stupisco… Stamattina stessa, mentre noi eravamo qui, ho sentito dei passi, sono scesa e c’era un ragazzo, che non conosco, credo della Val Chisone: mi ha detto che era venuto a vedere se c’era un corso di occitano, perché lui è molto dispiaciuto di non poter parlare questa lingua con i suoi genitori, può parlare solo col nonno, ma è molto anziano e lui vorrebbe fare questi corsi. E abbiamo delle Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 68 richieste di questo tipo, come se una generazione fosse stata un po’ defraudata di qualche cosa, e la volesse recuperare. Sandra Pasquet Non so se è successo anche nella vostra Valle. Io ho notato, come maestra in un Comune di alta montagna per molti anni, che c’è un ritorno al dialetto. Nei primi anni in cui io ero in questo Comune di montagna, la gente non parlava patouà ai figli, o comunque lo faceva poco. Si è ritornati, invece, nelle generazioni nuove, che lo parlano ai bambini, perché non ci si vergogna più di parlare occitano. È un elemento di chiarezza: io mi distinguo perché sono occitano e tu no ... C’è anche questo elemento, non ho più bisogno di dimostrare che io so l’italiano, va da sé. E invece posso vantare il mio occitano e viene parlato spesso ai bambini. Silvana Allisio Quella delle bandiere era una battuta, no? Infatti il pubblico ha sorriso. Penso che non sia da spiegare più di tanto, dato che chi conosce la realtà locale e conosce anche i vari movimenti che operano nell’ambito della salvaguardia dell’occitano, e che beneficiano dei contributi della 482, sanno bene quali schieramenti si sono determinati, sia per quanto riguarda la bandiera, sia per la questione della grafia. Questioni che rimandano a delle posizioni ben precise, che non possiamo analizzare qui, ora. Non mi addentrerei di più. Riccardo Regis Sulla questione dei pianificatori “cattivoni”, mi spiace che sia passato questo messaggio. Non era mia intenzione dare un quadro a tinte fosche del pianificatore, assolutamente. Ci sono delle buone opere di pianificazione, ci sono delle cattive opere di pianificazione, la differenza è questa. C’è questa grande dicotomia, ecco. Diciamo che, consultando qualsiasi manuale di pianificazione linguistica, anche il più semplice, il meno tecnico, si apprende che, prima di avviare una qualsiasi opera di pianificazione, è necessario conoscere bene l’area su cui si desidera intervenire, dal punto di vista sociolinguistico. Quindi avere un’idea ben precisa dei repertori, di chi parla che cosa, come, quando lo parla, perchè lo parla eccetera. Questo viene molto raramente fatto. Magari in Friuli, adesso io non conosco con precisione la situazione friulana, però so che in molti altri casi la pianificazione è stata commissionata ad un esperto esterno, vedi il caso di Schmid per il romancio e per il ladino dolomitico, e si tende a promuovere questa varietà per gli usi scritti e si arriva ad una sorta di diglossia mediale. Per cui c’è una varietà codificata, che va bene per gli usi scritti. In tutte queste realtà, a mia conoscenza, non è stata accettata benissimo la varietà, diciamo, codificata, standardizzata, perchè sono spesso repertori sovraffollati, con un sacco di lingue coinvolte e quindi la nuova varietà di lingua è avvertita dal parlante come estranea. Perché è come se si aggiungesse un’altra lingua, che non è quella materna, e questo non viene vissuto benissimo. Però questo lo si scopre dopo, mentre bisognerebbe verificare prima qual è la situazione. Le dico soltanto questo, relativamente alla situazione sociolinguistica dell’Occitania solitamente intesa. Io qualche tempo fa avevo bisogno di sapere quanti fossero i parlanti dell’occitano cisalpino. Ho consultato vari libri, ho consultato siti internet: Euromosaic, quello del LEM, Ethnologue (www.ethnologue.com) eccetera; le stime vanno da 35 mila a 200 mila parlanti. Non ha senso discutere di parlanti se non sappiamo quanti sono i residenti, allora sono andato a vedere quali erano le stime dei residenti. E si andava da 80 mila a 180 mila. Quindi la stima di 200 mila parlanti a fronte degli altri dati non funzionava tanto. In realtà, facendo un calcolo sugli ottanta Comuni che possono definirsi a buon diritto di lingua occitana, in base alle considerazioni fatte dai dialettologi eccetera, si arriva a poco meno di 80 mila residenti. I parlanti quanti saranno? Dall’inchiesta IRES, che però si riferisce Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 69 a un numero di residenti molto maggiore, si può ipotizzare un 30% della popolazione residente. Però chi lo sa. Allo stesso modo, sui repertori noi formuliamo delle ipotesi, che sembrano credibili. Ci sono delle tesi di laurea, date magari dall’Università di Torino, su singole realtà; si può fare una stima. Però, altro aspetto importantissimo che manca totalmente all’area occitana, è un’indagine sui fenomeni di contatto linguistico. Esistono per il piemontese, esistono per il walser, in area occitanica non è mai stato condotto nessuno studio di questo tipo, quindi non sappiamo quale sia la rilevanza del code switching, la “commutazione di codice”, il passaggio fra lingue diverse. Non sappiamo nulla sui fenomeni di prestito. Aggiungerei anche una cosa sulle grafie. Il caso delle varietà occitaniche è molto diverso rispetto a quello del friulano, perché l’opposizione è fra una grafia che consente di trascrivere la varietà linguistica, cioè ciò che effettivamente si ascolta, ed una che ignora la varietà. Lorenzo Geninatti Io volevo dire qualcosa sugli aspetti della legge 482. Prima di tutto, la 482 non doveva essere centralizzata. Io, l’unica volta che ho visto i funzionari del Ministero in Piemonte, li ho visti quando è stato presentato il progetto al quale accennavo, quello del 2006. Perché sono venuti? Perché c’era la televisione, perché c’era il momento mediatico, ma delle lingue nostre, gliene importava assolutamente zero. E poi, lo sai benissimo che quando ci troviamo a Roma, ci vogliamo tutti bene, certamente, ma perché non c’è una vera politica linguistica. È tutto lasciato molto nel vago… È l’esempio che facevi tu stesso, che non si valutano i progetti: faccio già il riparto, è preventivo, per mettermi le spalle al sicuro, così non ho nessuna contestazione. La legge mi dice che almeno un progetto per minoranza deve essere approvato; pedestremente, viene ripartito in quella maniera, ma io l’ho dimostrato stamattina che non era la bontà del progetto regionale in sé ad essere premiata. È stato premiata l’azione politica. Poi, noi non abbiamo utilizzato sempre quel meccanismo. Ma quel meccanismo è servito in un momento di partenza della legge, che non era neanche stato colto. Ed è questa la cosa grave. Che io non posso partire se non so che cosa ho di fronte, devo fare un’indagine, devo preparare dei formatori. Sulla certificazione dei formatori, noi ci siamo rivolti all’Università, perchè li formasse e li certificasse. Sul territorio, avendo quell’indicazione di validità dei progetti annuali, quello è il vincolo. E di quei ragazzi lì, molti poi sono andati a fare altro, perché probabilmente, per fortuna loro, hanno avuto altre opportunità. Ma così si sono persi degli investimenti forti. Ma questo interessa a qualcuno? Tu lo sai, perché sei nel Comitato. La risposta è no. Altra cosa che volevo dire al sindaco e al presidente: secondo me, e io l’ho sempre sostenuto, l’ho sempre detto ogni volta che ho avuto occasione, le lingue minoritarie e la cultura delle lingue minoritarie, sono un valore aggiunto per le nostre valli. Forse è una cosa della quale fino a ieri ci siamo vergognati, ma oggi è un segno di distinzione. Loro due non hanno potuto sentire stamattina i vari interventi, il dibattito, ma quello che io vorrei sottolineare con forza è l’argomento delle scuole, delle scuole nostre di montagna. Perchè le minoranze sono tutte in montagna, non solo nelle città. Le nostre scuole sono scuole di montagna, ma sono scuole occitane, sono scuole franco provenzali, sono scuole walser, e sono tutelate da una legge nazionale. E quindi, senza quella tutela, esse perdono qualcosa cui hanno diritto. E questo va portato anche nelle discussioni che avvengono in questo momento all’interno delle liste per le prossime elezioni dei presidenti di Comunità Montane. Questo veramente per me ha un valore aggiunto, che va speso e va speso bene. È una carta in più, bisogna giocarla. Bisogna sapere come giocarla. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 70 Matteo Rivoira Al termine di questa ricca e interessante giornata, vi ringrazio tutti e tutte per aver partecipato, per i vostri interventi e per le numerose sollecitazioni che sono emerse. Molte sono le questioni problematiche davanti alle quali non la riflessione è bene che continui al fine di dotarsi degli strumenti migliori per comprendere la situazione e concepire le più opportune azioni di promozione e tutela culturale. Tra i tanti problemi sul tavolo, uno – quello della territorializzazione, vale a dire dell’individuazione dell’area di minoranza – è stato più volte evocato e non smette di animare discussioni a più livelli. Io sono tuttavia convinto del fatto che si tratti più che altro di un falso problema, anche se sarebbe interessante da studiare da altri punti di vista, perché se alcuni l’hanno spiegato come volontà di appartenere a qualcosa di bello, di ampio, di ricco; bisognerebbe, a ben vedere, valutare qual è stata l’azione delle associazioni e dei ‘militanti’ in generale: spesso infatti la decisione di dichiararsi appartenente a una determinata minoranza linguistica è stata presa dal consiglio comunale, il più delle volte senza aver minimamente consultato la popolazione, magari approvando frettolosamente una delibera già predisposta seguendo la filosofia del ‘male non fa’, sperando magari in qualche generico beneficio di tipo economico. Se ciò è accaduto, il problema non risiede tanto nel criterio opinabile dell’autodeterminazione adottato – poiché in molti casi criteri storico-culturali e linguistici scientifici non necessariamente porterebbero a scelte meno discutibili –, ma va individuato nel rapporto tra il mondo dell’associazionismo, gli enti locali e, soprattutto, la comunità dei parlanti. Il più delle volte, infatti, le associazioni pur svolgendo un lavoro meritorio non è corretto considerarle (tanto meno è corretto che si considerino esse stesse) come espressione di istanze condivise a livello territoriale60. Degli altri nodi che sono stati evocati e che rimangono per ora senza una soluzione, vorrei in chiusura riprendere quello relativo alla formazione dei funzionari pubblici e, tanto più, degli operatori culturali. A parte le risorse da investire in tal senso e la disponibilità di persone a formarsi, una grande questione è quella della possibilità di sviluppare figure professionali, le cui capacità siano in qualche modo certificabili. È qui risiedono un certo numero di difficoltà, poiché se – come alcuni propongono – tale certificazione la si lega alla norma linguistica tutta una serie di difficoltà vengono risolte velocemente, tuttavia in tal caso sorge un altro problema: nel contesto linguistico-culturale in cui ci troviamo un tale approccio implica l’obliterazione di tutto un patrimonio di saperi che sfuggono alla codifica. Veniamo da 150 anni di scuola unitaria che, sistematicamente, segna una separazione tra quello che deve stare dentro e quello che deve stare fuori, tra quello che è giusto e quello che è sbagliato. Non bisogna correre, a livelli più bassi, lo stesso rischio. Rimane quindi un problema aperto, chiaramente legato alle scelte di pianificazione linguistico-culturale che si intendono adottare, alla loro lungimiranza e alla loro solidità, che si misura nel confronto serio con le esigenze di un territorio, evitando di prendere strade strade sbagliate seguendo le esigenze di un’elite il cui contatto con la realtà sociale locale è interrotto. Agire su questo piano implica inoltre lavorare in modo creativo, arricchendosi nel reciproco scambio, sminando le conflittualità che vedono i sostenitori di opposti modelli. A questo proposito, mi pare tuttavia che si possa registrare una certa attenuazione, della conflittualità rispetto a un tempo, un po’, forse, perché si sono stemperate le passioni, un po’ perché il ruolo positivo svolto da un Ente come la Regione Piemonte, che si pone su un piano diverso rispetto alle nostre beghe, non prendendo ufficialmente posizione, costringe tutti a porsi in modo più positivo per non perdere la credibilità di interlocutori interessati alla sostanza delle cose più che alle ideologie. 60 È naturalmente ben vero che sono espressione di istanza che emanano dal territorio (tranne in rari casi), ma è al livello della condivisione che sorgono le difficoltà. Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 71 Lorenzo Geninatti Giustamente. Nel mio ragionamento di questa mattina ho messo in evidenza che, ad esempio, noi non siamo intervenuti sulla questione delle grafie… Matteo Rivoira In realtà la questione è più ampia della querelle della grafia, rispetto alla quale, peraltro, la Regione ha caldeggiato, se non ricordo male durante un incontro tenutosi a Espaci tra le varie associazioni e l’Assessore alla cultura Oliva, l’uso delle due grafie maggioritarie, quella normalizzata e quella concordata, cercando di evitare altre soluzioni localiste. Io sono, infatti, dell’idea che sarebbe auspicabile una progettazione dell’Ente a un più alto livello, appoggiandosi per esempio all’Università per progettare un percorso formativo adeguato, ed elaborando, grazie all’esperienza acquisita in questi anni, progetti di portata più ampia. In questo modo verrebbero forse meno alcune delle prerogative delle associazioni (che potrebbero tuttavia continuare a essere coinvolte), ma si potrebbe favorire una maggiore visibilità dell’alto valore civico di un’operazione di tutela e promozione di una minoranza linguistica, sia per i parlanti, sia per coloro che non lo sono, ma che possono trarre un arricchimento dal vivere in una società plurale. Lorenzo Geninatti Io devo una risposta a una signora che non so se è già andata via; voglio rispondere almeno pubblicamente. Noi non siamo contrari ai corsi che fanno le Associazioni. Le Associazioni possono fare tutti i corsi sulla lingua, sulla cultura, tutto quello che vogliono. Ma i corsi della 482 devono essere finalizzati al personale che lavora negli Enti, poi eventualmente aperti al pubblico (noi li abbiamo sempre aperti al pubblico). Era quello che io stavo sostenendo questa mattina, perché già nei corsi che abbiamo organizzato nei primi due tre anni, qualcuno che ha partecipato, ha storto un po’ il naso. Se io organizzo oggi un corso di storia e cultura, sono sicuro di riempire le sale, ma con la lingua no. Graziella Tron Ma allora è la legge che è sbagliata! Lorenzo Geninatti La legge dice chiaramente che devo formare gli operatori che lavorano all’interno dell’Ente pubblico. Io devo costituire e inserire delle persone esterne per interloquire con le persone in lingua. Ora questo non avviene. Nel mio Comune, ad esempio, l’operatore che la Comunità Montana aveva scelto, non lavorava lì per accogliermi nella mia lingua quando io entravo in Comune, ma faceva altro, faceva l’operatore culturale. Carlo Baret Però sono contemplate altre voci, che non sono esattamente quella della formazione e che possono rientrare nelle attività di promozione previste dalla legge… Lorenzo Geninatti La valorizzazione della lingua e della cultura. Se uno ritiene che fare un corso di storia e cultura sia importante per far capire al territorio che esso ha bisogno di quel tipo di intervento, va benissimo, certo. Però i corsi, così come li definiamo secondo la Legge 482, sono corsi rivolti a chi lavora già dentro la pubblica amministrazione. Che però non vengono e non li frequentano, perché al lavoratore questa formazione non viene riconosciuta... Convegno “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 72 ALLEGATO A Diapositive relative all’intervento di Enrico Allasino: Lingue, culture, identità: le politiche locali in Piemonte, nel campo delle minoranze linguistiche storiche Convegno “1999-2009 Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” Convegno “1999-2009 Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” Convegno “1999-2009 Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” Convegno “1999-2009 Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” Convegno “1999-2009 Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” Convegno “1999-2009 Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” 11 12 Convegno “1999-2009 Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” Convegno “1999-2009 Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” Convegno “1999-2009 Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” ALLEGATO B Immagini del Convegno Convegno “1999-2009 Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” GIORNATA DELLA CULTURA OCCITANA 2009 CONVEGNO: "1999-2009: DIECI ANNI DI TUTELA DELLE LINGUE MINORITARIE" Enrico Allasino Marco Stolfo Matteo Rivoira Convegno “1999-2009 Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie” Lorenzo Geninatti Riccardo Regis Stefano Martini Silvana Allisio Matteo Rivoira Andrea Coucourde Convegno “1999-2009 Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie”