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SERGIO BRENNA
RIFLESSIONI DI UN RUVIDO
IN PROIEZIONE DI UNA STORIA OMINIDE
su
Doctor Faustus
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*
Come introduzione al suo ‘inferno’ Mann cita le seguenti terzine di Dante:
Il giorno se ne andava e l’aer bruno
Toglieva agli animai che sono in terra
Dalle fatiche loro e io sol uno
Mi apparecchiava a sostener la guerra
Sì del cammino e sì della pietade
Che ritrarrà la mente che non erra.
Quando gli avvenimenti nel loro sovvertimento impediscono alle masse la conoscenza della loro intima umanità, all’individuo sembra di aver conquistato un campo sconfinato, di fatto ha perso ogni tipo di incidenza.
Io mi chiamo Serenus Zeitblom, dottore in lettere. Ho sessantanni, poiché sono nato nell’anno domini 1883, primo di quattro fratelli, a Kaisersaschern, città nella quale anche Leverkühn passò tutto il periodo degli studi.
La nostra famiglia apparteneva alla piccola comunità cattolica della città, mentre la maggioranza della popolazione era naturalmente di confessione luterana.
Il narratore è da Mann regolato sui canoni di un’aurea mediocrità, poiché ha il compito di rasserenare (litterae humanae!) il carattere tempestoso e ‘demoniaco’ del protagonista. Attraverso il filtro dell’accademico (embaumeur) Zeitblom egli fa il tentativo di recuperare alla cultura tedesca la dignità, dal nazismo (irreparabilmente?!) compromessa. Qui la parola genio (si tratta della musicalità di Adrian) ha certamente un suono, un carattere nobile, armonioso e umanamente sano, seppur trascendente l’ordinario, eppure non si può negare e non si è mai negato che i dèmoni e l’irrazionale abbiano una parte sconcertante in questa zona radiosa, perciò mal le si addicono gli epiteti rassicuranti, che ho tentato di attribuirle.
L’umanista fa derivare la genialità da due momenti contrastanti: (per altro, non in rapporto dialettico!): luce e tenebra.
Lascia balenare il sospetto che nella genialità sia implicita una sfera (energia negativa?!) demoniaca.
Si contrabbanda così una frattura ‘banditesca’ (solipsismo decadente!), dandole una dignità, che non possiede; nessuna influenza naturale esterna è nell’uomo statica (unicorno!); tutto procede per incontri­scontri, lo stato iniziale in perenne trasformazione.
La genialità è visione sintetica; non soggiace né alla radiosità pura né alla 2
irrazionalità (demoniaca!?).
*
Ritornato dal viaggio in Grecia, ottenni venticinquenne il posto al ginnasio della mia città natale.
Assai presto, dopo la mia nomina, presi moglie, guidato a questo passo da un bisogno di ordine e dal desiderio di inquadramento morale della vita umana.
Helene, il caro nome, non fu l’ultimo argomento che determinò la mia scelta.
Anche alla nostra figliola abbiamo imposto il nome di Helene.
Oltre a questa, mia moglie mi regalò due maschi, di maniera che ho provato le gioie e le preoccupazioni della paternità. I miei figli servono oggi il Führer e, come il distacco da chi ha in pugno la patria ha creato un certo vuoto attorno a me, così devo ammettere che anche i legami di questi giovani con la tranquilla casa paterna sono assai lenti.
Sembra grottesco (idealmente giudicato impossibile! Qui l’idealismo attinge il punto più etereo dell’effimero!) che proprio la classica serenità (neutralità superiore!) di Zeitblom abbia favorito in maniera determinante l’inserimento dei figli nella gerarchia nazista.
Il professor Serenus incarna il pacifico intellettuale borghese, che accetta, sia pure a malincuore, l’affermarsi del dittatore ’nero’ e lascia che i figli lo servano con totale dedizione, salvo dolersene a disastro compiuto; è in questo modo che la feccia può imperversare impunemente.
I Leverkühn erano una stirpe di scelti artigiani e di agricoltori; la famiglia ristretta di Adrian viveva da più generazioni nella tenuta di Buchel, che dista da Kaisersaschern tre quarti d’ora di ferrovia.
Buchel era un podere abbastanza vasto da far annoverare il proprietario tra i contadini possidenti. Comprendeva circa cinquanta jugeri di campi e prati, con annesso un bosco misto e una comoda casa padronale di travi e tegole, ma con le sovrastrutture di pietra.
Insieme ai granai e alle stalle, essa formava un quadrato aperto da un lato, al cui centro, ricordo indimenticabile, sorgeva un vecchio tiglio, che a Giugno si copriva di fiori deliziosamente profumati e aveva il tronco, cinto da una 3
panca verde.
La salda posizione economica lascia spazio al godimento ‘arcadico’ del tiglio, elemento essenziale per l’equilibrio estetico del nostro umanista.
La liturgia romantico­pastorale attinge il suo acme, allorché Zeitblom cerca di immaginare quante volte il tiglio ha coperto d’ombra e frescura i sogni e i giochi del piccolo Adrian, nato nel 1885, secondogenito di Jonathan e Elsbeth Leverkühn.
Suo fratello Georg era nato cinque anni prima e la sorella, Ursula, era venuta dopo con lo stesso intervallo.
Jonathan Leverkühn era un uomo del miglior stampo tedesco, un tipo che quasi non si incontra più nelle nostre città, e certamente non si trova tra coloro che oggi, di fronte al mondo, rappresentano la nostra umanità con una violenza, che finisce per esser preoccupante.
La violenza dei tempi getta ombre minacciose sulla compostezza di quest’uomo del miglior stampo tedesco. Lo stesso biografo dubitta
che da una civiltà radicata nel più sfrenato e feroce nazionalismo, possano svilupparsi ‘sorti radiose’.
Mai le ‘radici civili’ consumino nell’uomo il dato ‘umanide’ per esaltare le caratteristiche della ‘tradizione’! Quale tradizione, del resto, se sono consumati i caratteri tipici dell'umanità?! *
D’inverno, quando la terra avita riposava sotto la neve, lo si vedeva leggere, la sera, di preferenza una voluminosa Bibbia di famiglia, relegata in pelle di porco, pressata e fornita di fermagli di cuoio, la quale era stata stampata attorno al 1700, con licenza ducale, a Brunswich e conteneva non solo le prefazioni ricche di spirito e le glosse originali del Dottor Lutero, ma anche ogni sorta di sommari e di versi storico­morali, composti da un certo David Schweinte ad illustrazione dei vari capitoli.
Ma alla tendenza religiosa delle sue letture se ne affiancava un’altra che in certe epoche si sarebbe definita come volontà di indagare gli elementi della natura. La continuità ideologica della borghesia con la ‘cultura’ del Principe (rituale religioso­papale! Teocratico!) emerge chiaramente dal presunto contrasto tra i princìpi biblici e i fenomeni (inferiori!) della natura.
Mann lo avverte e imboccando Zeitblom annota:
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I timorati di Dio non potevano fare a meno di scorgervi un contatto libertino con le cose proibite, nonostante la contraddizione che si può trovare nel considerare la creazione di Dio, la natura e la vita come territorio moralmente sospetto.
Il padre di Adrian, lavoratore prima che borghese, mette in non­cale, indifferente, il sospetto di profanare l’opera di Dio con le sue preferenze scientifiche e continua a consumare le sue sere di quiete e riposo, alternando alla lettura della Bibbia lo studio della natura.
Ora quella scrittura figurata che non gli dava mai requie, appariva nel guscio di una conchiglia della Nuova Caledonia, una conchiglia di media grandezza, eseguita in tinta leggermente rosso­bruna su sfondo biancastro.
­Si è visto –diceva Jonhatan­ l’impossibilità di sviscerare il significato di queste impronte. Ma non mi si venga a dire che qui non si comunica niente. E’ una comunicazione inaccessibile e contemplare questa contraddizione è pur anco un godimento!­
Si rendeva conto che se quella fosse davvero una crittografia, la natura dovrebbe disporre di un linguaggio proprio, nato da lei stessa e organizzato? Quale scrittura, infatti, inventata dall’uomo potrebbe scegliersi per esprimersi?
Quando si insedia nell’uomo una spaccatura forzata (ché falsa!), rimediare ai suoi tragici effetti diventa fatica improba, poiché viene seminata da costanti delusioni. Aggirarci attorno, come la farfalla notturna alla lampada, significa lasciarsi consumare.
Mann ci introduce nel ‘demoniaco’ per la sola porta possibile: la natura, dalla cui intimità e consuetudine ci siamo allontanati in forza di quella iniziale e forzata spaccatura.
Il padre di Adrian, nella sua spontaneità di lavoratore intelligente della terra, ne tenta il recupero attraverso la magia degli oggetti e dei segni, che la natura vi incide.
Lo sgomento di Zeitblom ha del grottesco; per lui, poiché l’uomo non dalla natura mutua il linguaggio, ma dalla propria superiorità spirituale, quella non dovrebbe confonderlo (orrore!), infliggendo agli oggetti (qui, una conchiglia!) suoi segni intraducibili, per ciò stesso insidiosi!
Ma il contadino (sia pure borghese e cristiano!) si gode il linguaggio ‘crittografico’ inciso nella conchiglia, in barba alla diffidenza di chi legge la Bibbia al di fuori dei significati storico­morali.
E’ possibile definire veri modelli le vere creature della 5
terra, poiché hanno la reale dimensione organica, mentre i fiori di ghiaccio sono meri fenomeni?!
Il loro fenomeno però è il risultato di un concorso di sostanze non meno complicate di quelle delle piante.
Per parte mia non voglio decidere se questa sia roba da ridere o da piangere. Dico una cosa sola: simili fantasmagorie sono un affare esclusivo della natura. Nel dignitoso mondo degli Humaniora si è al riparo da simili fantasmi. Conclusione da parodia, la quale, per altro, è la vera intenzione di Mann!
I cultori della Classica Umanità rifiutano l’evoluzione dell’essere!
Mai li afferra il sospetto che una più coraggiosa coscienza del mondo naturale potrebbe rappresentare lo strumento efficace per impedire l’insorgere ‘tragicamente organico’ di una teoria fisica, finalizzata ad opprimere, tenere sotto pressione (tallone!) l’uomo semplice.
Che meschinità costringere (ideologicamente; praticamente l’uomo riceve, come dote originaria, proprio questa caratteristica operatrice, tutt’altro che contraria!) la natura (il Cosmo!) ad una esclusiva utilità ‘per noi’!
L’estetica della natura è in fieri (inconcepibile per i meschini!) e i fiori di ghiaccio ne sono una straordinaria manifestazione. *
La sua cosa più bella era la voce, un caldo mezzo soprano che il modo di parlare, con una fonetica leggermente turingia, rendeva avvincente in modo straordinario. Non dico insinuante, perché questo insinuerebbe un po’ di intenzione, di consapevolezza.
Quel fascino vocale derivava da una intima musicalità, che del resto rimaneva allo stato latente, perché Elsbeth non si occupava di musica e, per così dire, non ci credeva.
L’operazione del ‘prefigurare’, conoscendo gli esiti della situazione, non sempre si rivela felice o opportuna; si preferisce nell’artista una certa improvvisazione, dote eminente di Stendhal.
Vedo ancora davanti a me l’immagine di alcuni della servitù: la figura, ad esempio, dello stalliere Thomas, quello stesso che veniva a prenderci alla stazione e ci riportava là, un uomo monocolo, eccezionalmente alto ed ossuto e tuttavia deturpato da una gobba fra le spalle, sulle quali molte volte faceva cavalcare il piccolo Adrian ed era, come mi assicurò più tardi il Maestro, un sedile molto pratico e giovane.
Nell’accostare lo stalliere al futuro Maestro insiste una sorta di 6
anticipazione demonica, la gobba del servitore, un cattivo genio, che insidia il piccolo Adrian.
Nella comodità della gobba­sedile sembra incarnarsi la sagace malizia, con cui il ‘nemico’ dell’umanità cristiana (borghese!) ispirerà la musicalità ‘innovatrice’ di Leverkûhn.
Era il tempo nel quale aveva radici il nostro tu, nel quale anche lui deve avermi chiamato col nome di battesimo; non lo sento più, ma non è pensabile che a sei otto anni non mi abbia detto Serenus o più brevemente Seren, come io gli dicevo Adri.
La precisazione di Zeitblom è coerente con la spontaneità dei fanciulli.
Quando la spontaneità si altera e si arriccia, (il naïf è recupero troppo stravagante per fare testo!), la chiusura del soggetto in una gelida e rigorosa difesa non è conseguenza del carattere, come interpreterà ‘l’umanista’, ma disperata necessità, determinata da violentazioni delle prime naturali manifestazioni.
Rivedo il ribes dell’orto, del quale ci passavamo i frutti tra le labbra, l’acetosella del prato, che assaggiavamo, fiori dalle cui fauci sapevamo succhiare uno zinzino di nettare delizioso, le ghiande che succhiavamo supini nel bosco, le more purpuree cotte dal sole che coglievamo nelle macchie lungo la strada, il cui succo asprigno spegneva la nostra sete infantile.
Quando le prodigiose particole infantili si risolvono nostalgiche, l’esterno (l’Humanitas!) ha devastato in modo irreparabile lo stato di spontanea gioia del giovinetto, in corsa per rinnovare la vita, non per subirne l’oppressione.
Benché infatti l’artista possa rimanere tutta la vita più vicino all’infanzia di quanto non possa l’uomo specializzato nella realtà della vita pratica, tuttavia la sua strada, dagli intatti primordi fino ai tardi insospettati gradi del suo divenire, è infinitamente più lunga, più avventurosa per chi li osserva che non quella dell’uomo borghese; in quest’ultimo il pensiero di essere stato bambino è ben lungi dall’essere così pregno di lacrime. Serenus Zeitblom cristallizza in archetipi statici diversità, che sono la conseguenza dei rapporti sociali.
Come reagisce Mann a simile storpiatura?!
Adrian dell’arte e degli artisti aveva opinioni estremamente fredde e financo, per reazione, taglienti; 7
era fiero avversario di quelle bubbole romantiche che il mondo si era compiaciuto di combinare per qualche tempo.
Lo stesso accadeva per la parola ispirazione, che in sua presenza si doveva assolutamente evitare.
Il giudizio di Adrian sull’arte e sugli artisti si può ritenere quello dell’autore?!
La reazione tagliente (infastidita!) del musicista al richiamo dell’ispirazione più che dalle bubbole romantiche è generata dalla sciagurata rottura (avvertita sùbito ai prodromi della fanciullezza per il vivo rapporto con la servitù!) tra chi si pretende ‘ispirato’ e chi è costretto alla ‘gobba’ del duro lavoro.
Situazione inaccettabile, che inacidisce la sensibilità di entrambi, del futuro musicista e dei domestici.
Quando smarrisce l’iniziazione della realtà, l’uomo è schiacciato dalla ‘praticità’ e l’artista è imprigionato dalla forma.
Entrambi gli sprechi (lavoro esasperato e sensibilità lacerata!) provocano la disperazione. *
La cornice domestica ed agreste nella quale Adrian collocò in seguito, da uomo maturo, la propria vita, quando cioè fissò la propria dimora a Pfeiffering, nella Baviera Superiore, aveva i più strani rapporti di somiglianza e ripetizione con quella della sua infanzia.
La scelta di una dimora che ricostruisca i primordi, il nascondersi nell’antico ormai sopravvissuto, nell’infanzia o almeno nelle sue circostanze esteriori, può essere una prova di attaccamento, ma rivela tratti preoccupanti nella vita psichica di un uomo.
L’osservazione è parte intima della personalità di Zeitblom; che Mann si nasconda ironicamente dietro le sue spalle, ci è detto chiaramente più avanti, quando l’autore instaura un paragone tra il presunto recupero dell’infanzia da parte di Adrian nella tenuta di Pfeiffering e la pretesa di un proprio conoscente che, debole di costituzione, per ogni malessere esigeva di essere curato da un pediatra.
Le preoccupazioni dell’umanista per le condizioni psichiche e morali dell’amico sono maniacali e fanno parte dell’idolatria dei ‘culti­non­artisti per personalità ‘poeticamente’ inavvicinabili.
Quello che Elsbeth Leverkühn, nonostante la voce, evitava per una specie di pudore, Hanne, la stalliera, dal lezzo animale, lo sciorinava liberamente e, la sera, sulla 8
panca sotto il tiglio, ci cantava, con voce magari piagnucolosa, ma con buona intonazione, ogni sorta di canti popolari, o anche di strada, per lo più di carattere sentimentale o raccapricciante, dei quali imparavamo rapidamente il testo e la melodia.
Quando cantavamo anche noi, lei faceva la terza, dalla quale passava secondo i casi alla quinta diminuita o alla sesta minore, lasciando a noi il canto, tenendo per sé l’accompagnamento molto accentuato e distinto.
Nessuno di noi si rendeva conto che, sotto la guida di una fantesca, eravamo arrivati a un grado di cultura musicale relativamente elevato nell’ambito di quella polifonia basata sulla imitazione, che il secolo XV° aveva dovuto scoprire per dar luogo a quel nostro divertimento. Quando da un testo si traggono delle significazioni, ciò non avviene per incidente; vi si esprime una sorta di consapevolezza intuitiva.
C’è in Elsbeth, madre di Adrian, un tipo di aristocrazia, che Zeitblom definisce per approssimazione ‘pudore’; il rifiuto della donna a riconoscere il talento musicale del figlio, per giunta da lei stessa (sia pure involontariamente!) trasmesso, provoca per compensazione che le prime lezioni di contrappunto siano a lui insidiate dal ‘lezzo animale’ della fantesca e si trasformino più avanti in seduzioni della carne e della superbia.
Proprio questo lato altamente diseducativo del rapporto di Elsbeth col figlio dà maggior risalto all’acume della stalliera Hanne, che certamente non canta solo per propria soddisfazione o abitudine.
Quanto di creatività e predisposizione musicale è stato in lei sacrificato, anzi, strozzato affinché un ‘idolo’, discendente dalla classe padronale, trovasse già nella sua puerizia il canone sonoro della bellezza, che la madre rifiutava di coltivare?!
La propaganda ha fatto sentire così a fondo le conseguenze schiaccianti e definitivamente spaventose di una sconfitta tedesca, che non possiamo fare a meno di temerla più di qualunque cosa al mondo.
Tuttavia c’è una cosa che alcuni di noi temono più della sconfitta tedesca, ed è la vittoria tedesca.
L’individualismo estetizzante è stato fagocitato da una propaganda delittuosa, per cui ora l’intellettuale acquiescente è costretto a resistere in quella atmosfera apocalittica, che precede il disfacimento della società; a causa di ciò la coscienza del cittadino tedesco si trova nella disperata necessità di augurare alla propria patria una sconfitta definitiva per uscire 9
dall’equivoco forsennato della potenza, considerata come mera efficienza militare.
Questa rassegnazione ‘del culto alemanno’ alla catastrofe è la quintessenza (la ragione profonda!) del (sia pur breve!) trionfo del nazismo. *
Il mio desiderio e la mia speranza sono costretti a contrastare la vittoria delle armi tedesche, poiché questa seppellirebbe l’opera del mio amico, perché l’interdizione e l’oblio lo coprirebbero forse per cent’anni, di maniera che essa mancherebbe al suo tempo e otterrebbe soltanto onori storici in un’epoca posteriore.
Zeitblom definisce questo suo atteggiamento disfattista ‘malvagio’, intrappolato com’è nei limiti asfittici del ‘nazionalismo’.
Dire che si appartiene spiritualmente a una particolare cultura nazionale, (non conta se tedesca, italiana, francese o quant’altro!), è cercare una scappatoia, fraintendere (peggio!) che cosa sia la condizione umana.
Di fatto per l’uomo borghese (per quanto umanistico!) non esiste la possibilità di rifiutare il Prìncipe; lo si deplora per le sue feroci (ultime!) manifestazioni e, al più, ci si rifugia nell’arte, (la poesia pura!), che di fatto scaturisce dalla stesso impasto politico e culturale.
Gli ‘onori posterori’ ad un lavoro artistico sono solo ‘storici’?!
Posta in tal modo la questione, si evidenzia in Mann una supervalutazone del presente, che, conseguentemente, oscura la continuità universale (umanide!), ad esempio, di Omero, chiunque esso sia stato, misconoscendo lo straordinario dono di bellezza ‘storica’, che egli da millenni gratifica ai lettori di ogni plaga ed età.
Se Omero ha perduto qualche onore presso i contemporanei (è un’ipotesi!), ne ha acquistati infiniti dopo, mandando in frantumi l’ossificazione ‘storica’.
L’artista si guardi bene dal ritenere a sé legato (al proprio riconoscimento pubblico tangibile!) un risultato poetico, che supera le sue (pur innegabili!) risorse.
Ma, data la probità, la fiduciosità, il bisogno di fedeltà e di devozione del carattere tedesco, vorrei pur sostenere che nel nostro caso il dilemma s’inasprisce in modo particolare e non posso vincere l’acre rovello contro coloro che hanno spinto un popolo così buono in una situazione di spirito, la quale, ne sono persuaso, lo colpisce più gravemente di qualunque altro e lo strania 10
disperatamente da se stesso.
L’errore (cancro spirituale!) consiste proprio nel giustificare il popolo tedesco per la sua presunta maggior predisposizione alla fedeltà ‘nazionale’.
Nel momento stesso, in cui Zeitblom si augura la sconfitta del nazismo, difende (pretende di coltivare con cura gelosa!) i germi della patria borghese, nei quali è cresciuto.
Per valutare con una specie di orgoglio patriottico gli abissi del conflitto nel quale siamo incappati, mi basta immaginare che per qualche sfortunato incidente i miei figli vengano a conoscenza di queste mie note e siano quindi costretti a rinnegare spontaneamente ogni riguardo sentimentale, denunciandomi alla polizia.
Mai come qui la scelta di un intermediario si rivela felice; Mann può così descrivere una condizione comune in Germania, celando gelosamente la sua particolarissima situazione di esule volontario e, con la propria, quella della famiglia.
Si rileva che il ‘probo’ cittadino alemanno era precipitato nell’abisso della stupidità, del delitto coperto dal velo patriottico; i princìpi millenari della società (famiglia, gruppo, tribù, amicizia, amore, affinità, crescita reciproca!) sono sacrificati in nome dei Lari all’idolo della organizzazione ‘criminale’.
L’intellettuale tedesco (integrato o rassegnato, è distinguo di poco conto a questo punto!) è sì, disgustato del nazismo, ma è incapace di organizzarsi per avversarlo.
L’avvenire di suo fratello Georg era chiaramente delineato dalla sua qualità di erede della fattoria, sicché fin dal principio questi visse in perfetta armonia con la sua sorte.
Il giovane Georg è trattato in modo molto sbrigativo, situazione, che nessuna economia del racconto giustifica; rimane, per tanto, presunzione dello scrittore che Georg sia così d’accordo con la sua qualità (destino!) di erede della fattoria.
Che cosa dovesse fare il secondogenito era per i genitori un quesito aperto da risolvere, secondo le inclinazioni e le attitudini che egli avrebbe dimostrato, e a questo proposito è strano quanto presto fosse sorta nella mente dei suoi e di noi tutti l’idea che Adrian dovesse diventare un erudito.
La seconda decisione rende ancor più sciagurata la prima.
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La categoria dell’erudito è talmente vaga che il ghigno di Mann si raggrinza sotto la maschera del suo sostituto.
Le armonizzazioni delle singole persone all’interno di un gruppo non possono risolversi (carcere!) nei princìpi dell’eredità o dell’erudizione.
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E’ vero che a quelle lezioni non sono mai stato presente, e ne ho notizia solo per sentito dire, ma posso facilmente immaginare il contegno del mio Adrian che dev’essere stato addirittura mortificante per un precettore a sua volta ancor giovane e avvezzo a collocare, fra elogi, incoraggiamenti e rimbrotti disperati le sue materie dentro cervelli ‘fiacchi e renitenti’. L’umanista Zeitblom, coerente con le sue convinzioni, attribuisce la durezza dell’apprendere alla miseria cerebrale di alcuni soggetti, ossia di quella maggioranza di iloti, che nascono per nulla ed infestano per un certo numero di anni la terra ed i pochi eletti.
Se ci si sottrae per un momento ai fumi della retorica, ci si avvede immediatamente che ‘insufficienti’ o cerebralmente poveri non sono gli iloti, ma le ‘materie’, con cui li si vuole costringere (convincere!) alla loro condizione di ruderi.
Non ci sono in natura individui ‘fiacchi e renitenti’.
Alle lezioni, ripeto, non ho mai assistito, ma debbo a forza figurarmi che il mio amico abbia accolto le nozioni scientifiche impartitegli dal signor Michelsen con quello stesso gesto, che non starò di nuovo a descrivere, con cui aveva reagito sotto il tiglio alla scoperta che nove battute di melodia, quando sovrapposte a tre a tre, nel senso verticale, possono formare un corpo armonico e concorde.
Chiariremo più avanti il motivo, per cui non diamo giudizi su Adrian.
Nella apparente sufficienza, con cui risponde al signor Michelsen, insiste la volontà di instaurare un rapporto immediato; alcuni principi scientifici sono già in lui.
Il genio è di solito in anticipo sugli altri per maturata consapevolezza, dote, per altro, universale; il Maestro libera soltanto dalla scorza la sostanza; se poi se ne dispiace, rivela di non avere chiara coscienza di chi gli sta di fronte e della ‘materia’, che insegna.
Conseguono risultati funesti il padre e la madre, che assegnano la funzione di educatore a fresconi.
Così Adrian lasciò la casa paterna a Pasqua del 1895 e 12
venne in città per frequentare il ginnasio.
Lo zio Nicola Leverkühn, fratello di suo padre e cospicuo cittadino di Kausersarschern, si dichiarò disposto ad ospitarlo.
Per Serenus Zeitblom non esistono i privilegi, ma le premonizioni del Fato.
Nelle decisioni ‘fatali’ non insiste alcuna diversa intensità delle doti; a deciderne il maggiore e minor valore intervengono le condizioni sociali.
A proposito della mia città natale nella Saale, dirò, per il forestiero, che è situata un po’ a mezzogiorno di Halle, verso la Turingia.
Per poco non dicevo che là è situata, poiché la lunga lontananza l’ha quasi spostata nel passato.
Le Torri però si ergono ancora nello stesso posto e non saprei se finora il suo aspetto architettonico abbia sofferto qualche danno a seguito delle offese della guerra aerea, la qual cosa sarebbe sommamente deplorevole date le sue bellezze storiche.
Lo dico con una certa rassegnazione, poiché condivido il pensiero di una parte piccola della nostra popolazione, anche di quella maggiormente colpita e rimasta senza tetto, che riceviamo soltanto ciò che abbiamo dato.
La cecità degli Occidentali non ha ancor toccato il fondo della sfacciataggine.
Essi si dichiarano i paladini della libertà e per imporla distruggono con pervicacia opere e persone.
Le guerre contro l’Iraq ne hanno confermato la brutalità e l’ipocrisia.
Si diceva un tempo ai giovinetti ignari che la ferocia bolschevìca non aveva abbattuto città ed ucciso persone, poiché i sovietici non avevano aviazione moderna; che stupida menzogna!
Sgomenta sempre che gli Zeitblom considerino parte del Diritto la ritorsione; non si accorgono di mordersi la coda!
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L’identità del luogo che è il medesimo di trecento, novecento anni or sono, si impone al fluire del tempo che gli passa sopra, modificando di continuo molte cose, mentre altre – panoramicamente importanti – permangono come ricordi e testimoni di antiche dignità per affezione, vale a dire per più resistenza al tempo e per orgoglio.
Basta però che l’orgoglio si trasformi in tracotanza, perché non rimanga 13
più pietra di tanta resistenza al tempo.
La ferocia, che distrugge non è mai un salto verso una maggiore comunione tra i popoli, anzi, di solito, perfeziona e irrigidisce la perfidia, che esalta gli aspetti peggiori dell’individuo e della stirpe.
L’ominide è tutto meno che orgoglioso in questo senso e ne ha donde!
I tempi hanno la tendenza segreta o anche tutt’altro che segreta, e anzi molto cosciente e stranamente compiaciuta, che può far dubitare della genuinità della vita e produce forse una storicità assolutamente falsa e sciagurata, hanno la tendenza, dico, a ritornare verso quelle epoche e ripetono con entusiasmo atti simbolici che hanno qualcosa di sinistro e di decisamente contrario allo spirito dell’evo moderno.
Come i falò di libri o altre cose delle quali preferisco non parlare.
Parlare di tempi ‘sinistri’ significa porsi nella condizione di ‘non’ capire; ciò favorisce l’occultamento.
Se non si individuano le cause delle condizioni sinistre, il risultato sarà sempre il ritorno ai riti di morte e di distruzione.
Segnacolo di una siffatta instabilità sotterranea nevrotico­anticheggiante e delle segreta predisposizione psichica di una città sono i numerosi originali e gli innocui semialienati, che vivono tra le mura e, come gli edifici antichi, contribuiscono per così dire al colore locale.
Dobbiamo essere grati a Zeitblom di non aver dimenticato gli originali e i semialienati; però la spiegazione della loro presenza è davvero bizzarra ed ancor più sorprende ch’egli si stupisca (osservazione successiva!) perché il popolo, che vota socialista, faccia gli scongiuri, quando si imbatte in una ‘vecchina originale’.
Se gli originali sono il risultato della nevrosi collettiva, ne rappresentano la continuità ed è fatale che la ‘feccia’ (non certo i Ciaula!) ne abbia paura e li dileggi, disposta in certe circostanze anche a massacrarli.
Si entri a fondo in questa putredine e si scoprirà che la molla iniziale fu e resta la ciurmaglia, che in nome della proprietà perpetua la miseria, la superstizione e la ‘cartomanzia’, ritenendo gli ‘originali’ una peste inseparabile dalla civiltà.
‘E’ la natura che genera i Mostri: non potremo mai liberarcene!’
Fanatica convinzione e vergognosa acquiescenza di chi, culto, non reagisce!
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Nikolaus era vedovo e solo e fino all’arrivo di Adrian aveva abitato quella casa, (lontana dalla zona degli affari, dalla via del Mercato, dalla strada delle botteghe, nei pressi del Duomo), con una vecchia governante, la signora Butel, con una domestica e un giovane italiano di Brescia, Luca Cimabue, il quale lo aiutava nel negozio ed era una allievo della fabbricazione dei violini; infatti lo zio Leverkühn faceva anche il liutaio. L’avvicinamento di Adrian alla musica continua il suo sotterraneo percorso.
Zeitblom lo evidenzia, descrivendo tutto il complesso di archi, di fiati e di strumenti di percussione, presenti nel negozio dello zio.
Ma del resto tutti erano lontani dallo stabilire una associazione di pensiero tra il giovane Adrian e la musica.
In quegli anni la vita scolastica è tutta la vita, è la sola che conti; i suoi interessi chiudono l’orizzonte, del quale ogni vita ha bisogno per sviluppare valori, che, siano pur relativi, conferiscono lustro al carattere e alle capacità di ognuno.
Umanamente però lo possono conferire solo quando la relatività rimanga celata.
La fede nei valori assoluti, per quanto sia sempre illusoria, mi sembra una condizione di vita. Le doti del mio amico invece si misuravano su valori, la cui relatività gli sembrava palese, senza che si vedesse una possibilità di rapporti tali da sminuirli in quanto valori.
Adrian si ribella istintivamente all’assolutizzazione, a qualunque occupazione si riferisse; il suo temperamento di creatore in gestazione è spinto a rompere la rete delle false certezze; per l’artista il ventaglio delle possibilità è come l’aria per i polmoni.
Pur soffocato dall’atmosfera di un umanismo elitario, intuisce che le doti non sono riducibili ai valori, ufficialmente consacrati; questi al più possono suggerire uno sbocco, una strada, un’occasione.
La tragedia di Adrian, contrariamente all’opinione di Zeitblom, non sta nella sua predisposizione a disintegrare quanto è ritenuto sacro, al desiderio di esperimenti esasperati, ‘orfano’ di difese morali e affettive; no, essa è provocata dal sospetto che non tutti usufruiscano dello spazio necessario ad esprimersi!
Da ciò scaturirà una sorte di nevrosi (in ispecie demoniaca!) che si concretizzerà nel dramma dello sdoppiamento.
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C’è una eccezione alla regola dell’ironico disprezzo di Adrian, nutrito per i doni e le pretese della scuola: l’evidente interesse per una materia, nella quale io mi distinguevo così poco: la matematica.
La matematica, in quanto logica applicata, che rimane tuttavia nella pura e alta astrattezza, occupa un singolare posto intermedio tra le scienze umanistiche e le scienze tecniche e dalle spiegazioni di Adrian circa il piacere che ne traeva, mi risultava che per lui questa posizione intermedia appariva ad un tempo elevata, dominante, universale: era, com’ egli si esprimeva, il ‘vero’.
Era una gioia sentirlo definire qualcosa come il ‘vero’. Un’ancora, un appiglio.
Zeitblom non capirà mai che per Adrian il ‘vero’ è la condizione minima per accettare di ogni disciplina l’utilità, che la avvicini il più possibile alla conoscenza.
Tutto l’apparato, costruito e definito dagli uomini scienza, è contenitore, involucro, mai contenuto per sé.
Adrian per natura propria rifiuta ogni espressione, che minacci di degenerare nella propria esaltazione.
La capacità (la dote!) è tale, soltanto se sceglie bene i suoi strumenti per essere utile, consapevole, però, dei suoi limiti.
E’ funesto che quanto è relativo per natura (l’involucro!) diventi per la Scuola (quindi, per la carriera professionale!) la cosa principale, la distinzione, che unica eleva.
­Sei un lazzarone!­ mi disse una volta­ a non trovarci gusto. In fin dei conti non esiste nulla di meglio che osservare relazioni di ordine. Epistola ai Romani, capitolo tredici: ciò che viene da Dio è ordinato!­
Arrossì e io lo guardai stupefatto. Risultò che era di sentimento religioso.
In lui tutto doveva ‘risultare’, per ogni cosa lo si doveva sorprendere, cogliere sul fatto, costringere a mettere le carte in tavola.
L’ordine è semplicemente risultato di relazioni; ne possono derivare disordini a causa del già­predisposto, del costume, che deflorano di originalità le nuove vite.
Adrian si ribella al catalogo; se l’ordine esiste, intende scoprirlo per suo conto.
Nella fase adolescenziale la ‘religiosità’ è la forma più semplice per ‘approfondire’ la natura dello spirito, della mente, del pensiero.
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L’artista non mette le carte in tavola, poiché non accetta di chiudersi le porte della sperimentazione; d’altra parte chi spontaneamente s’incatena mani e piedi al costume, è destinato a fallire. *
Il pomeriggio, dopo di averlo cercato invano nella sua camera, lo trovai davanti a un piccolo armonium, che occupava un posto alquanto in disparte di una stanza di passaggio al secondo piano.
Stetti forse un minuto dietro la porta ad ascoltarlo, ma, disapprovando quel mio contegno, entrai e gli domandai che cosa facesse.
­L’ozio, mi disse, è il padre dei vizi. Mi annoiavo. E quando mi annoio vengo qualche volta quassù e annaspo e strimpello.­
E toccò un accordo, tutto di tasti neri, fa diesis, la diesis, do diesis, aggiunse un mi e mascherò l’accordo ch’era sembrato di fa diesis maggiore, rivelandone invece la natura di si maggiore, precisamente il suo quinto grado, ossia la dominante.
­Il rapporto è tutto. Se vuoi dargli un nome più preciso chiamalo ‘ambiguità’. Sai cosa trovo? Che la musica è l’ ambiguità, elevata a sistema.­
Egli aveva le guance accese, come non capitava mai, quando faceva i compiti di scuola e nemmeno quando studiava l’algebra.
Il giovinetto, (Adrian è quindicenne!), che tenta un esperimento artistico (in lui gioia segreta, essendogli l’agire fuori norma rimproverato ad ogni istante! Devi fare solo delle cose utili!), cerca allo strumento, quale esso sia, la possibilità di manifestare la sua sensibilità, quasi che la natura, ricomparendogli a un tratto appassionata, gli chieda di illuminare quelle fasce ancor buie della bellezza e dell’entusiasmo.
Il mezzo (parola, legno, tela, marmo, suono!) è ambiguo, poiché l’abilità del timoniere può spingerlo verso orizzonti ed immensità al momento invisibili.
Nell’adolescente insiste lo slancio ‘dell’audire’, (ascolto + audacia!), difeso con religioso pudore, poiché quanto circonda suggerisce prudenza, circospezione.
­Caro nipote, quello che hai suonato oggi non è frutto di un primo esercizio.­
­Che cosa vuoi dire, zio Niko?­
­Dovresti prendere lezioni di pianoforte!­
­Ti pare, zio Niko? Lezioni di pianoforte? Non so, mi 17
pare che sappia di signorina di buona famiglia!­
­‘Buona’ potrebbe essere, anche se proprio non ‘signorina’. Se vai da Kretzschmar, credo che l’azzecchi. Non ci leverà la pelle per questo e tu avresti le fondamenta per i tuoi castelli in aria. Ci parlerò io!­
Lo zio, costruttore di liuti, affronta i ‘castelli in aria’ del nipote con grande serietà.
In una parola ha considerato con la massima serietà i tentativi sonori del nipote.
Fortunato è l’adolescente, che può temperare con un saggio educatore (rigoroso senza acrimonia e sfiducia!) le proprie manifestazioni ancora maldestre o imprecise.
Vandell Kretzschmar seguiva il princìpio che non l’interesse degli altri conta, bensì il proprio, che quindi si tratta di destare l’interesse, il che avviene soltanto, ma con certezza, quando noi stessi ci interessiamo a fondo a un soggetto e parlandone coinvolgiamo gli altri, li contagiamo creando in questo modo un interesse inesistente, insospettato e ottenendo un rendimento maggiore di quello che otterremmo con assecondare un interesse già esistente. Mann ci dice che Kretzschmar è balbuziente.
Il metodo di questo Maestro può essere efficace per chi non mostra particolari interessi o, se anche li mostra, sono legati a suggestioni assai labili; d’altra parte nessun maestro assolutizza il proprio metodo al punto da chiudere le porte alle influenze di un potenziale allievo di genio.
Mann ironizza sul fatto (di sua invenzione!) che il maestro di musica tenga conferenze su argomenti paradossali; ma ciò nasce proprio dalla sua particolare teoria dell’interesse!
Chino in avanti, con le mani fra le ginocchia, concluse con poche parole la conferenza sul quesito: perché Beethoven non abbia aggiunto un terzo tempo alla sonata n. 111.
Dopo aver udito tutta la sonata, disse, potevamo rispondere da soli a questa domanda.
Un terzo tempo? Una nuova ripresa dopo questo addio? Un ritorno dopo questo commiato? Impossibile. Tutto era fatto: nel secondo tempo, in questo tempo enorme, la sonata aveva raggiunto la fine, la fine senza ritorno.
E se diceva ‘la sonata’ non alludeva soltanto a questa, alla sonata in do minore, intendeva la sonata in genere, come forma artistica tradizionale: qui terminava la 18
sonata, qui essa aveva compiuto la sua missione, toccato la meta oltre la quale non era possibile andare, annullava se stessa.
Il critico tende a risolvere nell’ambito di un saggio o di una conferenza il valore ultimo di un’opera o, più ancora, di un insieme di opere.
Non lo sfiora il sospetto che la forza di un brano consiste nella straordinaria (se l’ha!) capacità di esaltare in ogni momento ed epoca il lettore o l’ascoltatore.
Beethoven avrebbe sotterrato con insulti chi si fosse permesso di affermare in sua presenza che il suo secondo tempo della sonata n. 111 aveva seppellito per sempre la forma sonata.
Credo che così pensasse (ossia come il musicista di Bonn!) lo stesso Mann, che, immaginando il musicista affetto da balbuzie, lo include di fatto nella categoria dei ‘bizzarri’; il ‘correlativo oggettivo’ è qui inconfondibile.
Certamente non si intende dire che Mann fosse estraneo alle conclusioni ‘strampalate’ del suo personaggio, assurdità; riteniamo che giudicasse il suo ‘sospetto’ critico una boutade in sé abbastanza curiosa da essere trasformata in aforisma.
*
Ne conoscevamo ‘il più mostruoso di tutti i quartetti’, del quale Kretzschmar prese poi a parlare.
Uno dei cinque ultimi, in sei tempi, eseguito la prima volta quattro anni dopo il compimento della Messa; ne sentimmo parlare con grande batticuore, con vaga commozione udimmo descriverne il contenuto tra l’alta stima che, come sapevamo, quest’opera gode oggigiorno e la sofferenza, la triste e amara perplessità, che essa aveva suscitato nei contemporanei, anche ai più fedeli, ai più amorosamente devoti.
La ragione per cui Kretzschmar ne trattava nella conferenza era la disperazione con cui fu accolta in primo luogo, se non esclusivamente, la fuga del finale.
Quel brano era risultato terribile per il sano orecchio dell’epoca, che si ribellava a quanto l’autore, non costretto all’audizione, aveva avuto la temerità di escogitare: cioè una zuffa selvaggia di voci figurate in vario modo, e incrociantesi con passaggi irregolari e attraverso dissonanze diaboliche, dove gli esecutori, poco sicuri di sé e di tutta la faccenda, avranno suonato in modo approssimativo, completando la babilonia.
Lasciamo perdere ‘le supreme altezze e le massime profondità’ con il fatale demonismo, che vi si accompagna; una cosa è certa, l’artista, veramente 19
sensibile allo straordinario archivio dell’esodo ruvido, coinvolto in stagione di grandi rivolgimenti sociali, non parla solo ai contemporanei; egli è sollecitato da impulsi e prefigurazioni, che fanno a pezzi la non più accettabile ‘comodità sensitiva’ di quanti non si avvedono di sedere sui carboni ardenti.
Questo tipo di artista, (Beethoven, autore del così inascoltabile quartetto per i suoi contemporanei!), per quanto ne sorta deluso, poiché incompreso, non rinuncia a tentare l’oggettività della interpretazione altrui ed accetta il rifiuto, che solitamente deve pagare chi anticipa.
L’errore delle avanguardie artistiche del novecento è di avere condizionato le anticipazioni al solo mutamento formale, isterici per il loro rifiuto tout court del passato.
Senza dubbio, nonostante la pedanteria e forse anche l’impetuosità del suo modo di esporre, egli era un uomo di spirito e lo si poteva arguire dall’eccitazione suscitatrice di pensieri, che le sue parole esercitavano su un giovane intelligente come Adrian Leverkühn.
Lo studente liceale appariva compenetrato dal pensiero che il conferenziere non aveva espresso, ma acceso in lui: che cioè il distacco dell’arte dalla liturgia, la sua emancipazione ed elevazione alla solitudine personale e all’autonomia culturale, le hanno imposto un peso di solennità e serietà assoluta, il peso di una passionalità dolorosa, che non deve però necessariamente essere il suo destino costante. Queste cose diceva al giovane!
Quasi privo di esperienza pratica nel campo dell’arte, egli fantasticava a vuoto e con parole saccenti, prevedendo il probabile ritorno dell’odierna funzione dell’arte a un compito più modesto, più felice, al servizio di una comunità che non dev’essere proprio, come una volta, la Chiesa.
Quale doveva essere questa comunità egli non sapeva.
Che però l’idea della cultura sia un fenomeno storicamente transitorio, che possa prodursi in qualcos’altro; che l’avvenire non le appartenga di necessità: questo pensiero egli aveva decisamente tratto dalla lezione di Kretzschmar.
­Ma il rovescio della cultura ­ gli obiettai – è la barbarie!­
­Permetti – rispose – la barbarie è il contrario della cultura solo entro l’ordine di idee che questa ci mette a disposizione; fuori di quest’ordine di idee il contrario può essere tutt’altro e può non essere affatto il contrario!­
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Zeitblom soffrirà sempre il presunto demonismo di Adrian e sempre, sia pur delicatamente, (il tremore di Isacco nelle meditazioni di Kierkegaard), gli rimprovererà di avere esplorato le zone oscure dello spirito (barbarie insidiosa!), di avere violato l’equilibrata armonia e la compostezza delle scienze umanistiche.
Ancora al tramonto della sua esistenza, il nazismo agli ultimi rantoli, nella disfatta tedesca egli non leggerà le conseguenze di un fallimento totale dell’ordine borghese, ma si richiamerà alle ‘forze oscure’.
Inconsciamente il sui+o turbamento è provocato dal sospetto che anche l’amico un giorno venisse associato a tale ‘barbarie’.
D’altronde in questa convinzione Zeitblom non è solo; l’Europa del conformismo istituzionale (mezzana la democrazia parlamentare!) vi si sbrodola e vi si imbestia, accomunando (scrivendo nel libro nero!) Hitler con Stalin, con Mao e quant’altri demòni comunisti sopravvivano nella memoria degli uomini.
Si tratta di un auto­da­fè culturale per costringere le nuove generazioni ad accettare ‘il male minore’.
Il sospetto di Adrian che l’arte possa diventare altro, (quindi sparire dalle categorie etico­elitarie!), ci rende chiara la consapevolezza di Mann: la ‘solitudine’ per l’artista è la morte; sempre la rinascita si lega a motivi sconosciuti (invisibili!) all’ideologia dominante, oggi borghese! 21
*
Forse, diceva Kretzschmar, il più intimo desiderio della musica è di non essere udita e neanche intuita, ma, se fosse possibile, intesa e contemplata in un aldilà dei sensi e persino dell’anima, in una purità spirituale.
Ma esiste uno strumento, vale a dire un mezzo di attrazione musicale, col quale la musica diventa sì udibile, ma in un modo non del tutto concreto, anzi quasi astratto e perciò peculiarmente conforme alla sua nascita spirituale: e questo strumento è il pianoforte.
Influenzata da una foga ascetica assai vaga, (il divino, fuoco, che annulla la coscienza e l’intelletto!), la musica romantica affonda nell’esoterismo.
Nella riflessione sul pianoforte ci si affida alla sua presunta assenza di colore particolare per annullare la musica come ‘materia sonora’; si cade così nella farragine, in ispecie folgorante, dell’a­sensibilità.
Quando questa farneticazione sfiorisce, si attorce, deformasi, si grida alla barbarie delle masse, figure demoniache, scatenate dalle tenebre per ostacolare il cammino di luce dell’umanesimo classico.
­Eccola qui tutta intera la tua musica: così come è sempre stata! Il suo rigore o quello che chiameresti il moralismo della sua forma, deve fare da scusante per gli incanti della sua realtà sonora.­
­Ma in un dono della vita ­ribattei­ per non dire in un dono di Dio, come la musica, non si devono scoprire ironicamente quelle antinomie che stanno ad attestare la ricchezza della sua natura. Bisogna amarla!­
­Secondo te l’amore sarebbe il sentimento più forte?­ domandò Adrian.
­Ne sai uno più forte?­
­Sì, l’interessamento!­
­Che sarebbe, immagino, un amore al quale si sia sottratto il calore umano, vero?­
­Restiamo pure d’accordo su questa definizione. Buona notte!­
Serenus non comprende che l’amore è vuoto, se resta autocompiacimento o facile fruizione.
Per Adrian una commozione interamente umana, valida per ogni esperienza, (ancor più per la musica, dagli epigoni romantici offerta come godimento liturgico­orgiastico!), nasce soltanto dalla conoscenza delle possibilità reali degli strumenti, che l’hanno generata.
L’interessamento è, in sintesi, la natura ‘pratica’ e ferace dell’amore; tutto il resto è solo fede o speranza.
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Adrian, interessandosi alla musica, intende spogliarne la sonorità da ogni superfetazione isterica, da cui la forma esce impoverita, tanto astratta da non riconoscere più scopi e limiti sensibili; Zeitblom, invece, non vuole accettare la mobilità della bellezza.
Per questo Leverkuhn interrompe il colloquio e giudica salutare la pausa (silenzio!) notturna.
­Ecco, caro amico, se lei è per la salute, le dirò che questa ha ben poco a che fare con lo spirito e con l’arte, anzi è con esse in un certo contrasto, e in ogni caso l’una non si è mai curata troppo degli altri.
Per fare il medico di casa, che raccomanda di evitare letture precoci, poiché per lui sarebbero precoci finché dura la vita, no, non sono qua per questo. E poi niente mi pare così indelicato e brutale come pretendere di inchiodare in permanenza alla sua ‘immaturità’ un giovane intellettuale e ripetere a ogni piè sospinto ‘questa non è roba per te.’ Lasciate che giudichi lui! Veda lui come se la cava! Che sia impaziente di sgusciare dall’uovo di questa vecchia borghesia tedesca, si comprende fin troppo bene.­
Kretzschmar, il balbuziente, si rivela ottimo pedagogo, almeno per il fatto di permettere all’allievo di impadronirsi non solo dei princìpi musicali, ma di tutte le significazioni dello scibile letterario.
Le opere e gli autori ch’egli suggerisce sono: Shakespeare in primis, Shelley e Keats, Hölderlin e Novalis, Manzoni e Goethe, Maestro Eckart e, complessivamente, il romanzo russo.
L’elenco è per certi versi ‘bizzarro’, ma non si può nascondere che sia in armonia con il personaggio e con le sue convinzioni.
Vedevo e capivo benissimo che Kretzschmar non si limitava a far da maestro di pianoforte e da allenatore in una tecnica speciale, ma considerava la musica stessa, scopo dell’insegnamento, come una specializzazione che intristisce l’uomo, quando sia trattata in modo unilaterale e senza nesso con altri campi della forma, del pensiero, della cultura.
Ciò, che si dice della musica va esteso ad ogni disciplina, che abbia, per cieca insistenza dei Maestri, (tutto è in se stesso innocente, anche una carica esplosiva!), la stolida tracotanza di insistere esclusivamente sui propri valori universali.
L’uomo contemporaneo per la sua vanità e boria specialistica diventa sterile, arido e tristo.
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Rallegra che, oggi, i suoi figli lo giudichino un fallito e pretendano dalla scuola ‘la globalità’ (che combattono nel Mercato!) non la maschera di una professione. *
Non appena infatti conobbe le note, Adrian si mise a scrivere e a sperimentare note sulla carta.
La mania che gli venne allora di porsi continuamente problemi musicali, che poi risolveva quasi fossero problemi di scacchi, poteva esser preoccupante, in quanto egli avrebbe potuto mettersi in mente che quelle invenzioni di difficoltà tecniche e i modi per risolverle, fossero già composizioni musicali.
Il timore di Zeitblom, conseguenza della sua formazione accademica, possiede,tuttavia, una sua ragione, se si considerano gli esperimenti ‘rumorosi’ di certa avanguardia novecentesca; riferito ad Adrian è timore eccessivo, in quanto egli stesso considera quegli sperimenti solo esercizi importanti per aumentare la sua ‘acutezza’ musicale.
Secondo me, in un insieme o accordi di suoni non si dovrebbe mai scorgere altro che il risultato di un movimento di voci; si dovrebbe venerare la voce del suono che forma l’accordo, ma non venerare l’accordo stesso, anzi disprezzarlo, poiché soggettivo e arbitrario, finché non possa legittimarsi con lo svolgimento della voce, cioè per via polifonica.
L’accordo non è un godimento armonico, è polifonia in sé e i suoni che lo formano sono voci. Ora io affermo che lo sono tanto più che il carattere polifonico dell’accordo è tanto più evidente quanto più è dissonante. La dissonanza segna la musica della propria dignità polifonica. La tesi di Adrian diventa straordinariamente efficace, (non solo per il campo musicale!), se estesa ai rapporti sociali.
Il ‘sistema’ presenta l’accordo come prodotto ‘naturale’; Adrian lo contesta, in quanto lo giudica come risultato, anticipato ogni volta dall’intrecciarsi delle voci, che vi si risolvono e vi si placano.
Per impedire che l’accordo­risultato assurga a dèmone, (approfitti, in una parola, della sua capacità di concludere per annullare o nascondere il lavorio delle voci!), si moltiplichino, senza per altro far confusione, le dissonanze, per ricordare alla società ‘gaudente’ che il travaglio degli altri è la fonte della loro ‘gaudiosa abbonza’.
L’ouverture in do del Fidelio era la cosa più importante e 24
assillante fra quante avessero toccato la sua giovane sensibilità.
­Mio caro amico, disse Adrian, probabilmente non hanno aspettato me per farne la scoperta, ma questa è una musica perfetta. Dì, che cosa ne pensi della grandezza?! Secondo me si prova un certo disagio a guardarla negli occhi; è una prova di coraggio; si può mai reggere a quello sguardo? Non si regge, ma se ne rimane avvinti. Vedi, io sono sempre più disposto a confessare che la ‘nostra’ musica ha un non so che di singolare. E’ una manifestazione di massima energia, tutt’altro che astratta, ma senza oggetto, una energia pura nel limpido etere: dove trovare nell’universo un’altra cosa simile?! Noi tedeschi abbiamo preso dalla filosofia il modo di dire ‘in sé’ e lo usiamo tutti i momenti senza pensare alla metafisica. Qui però quel modo c’entra, questa musica è l’energia in sé, l’energia in persona, ma non come idea, bensì nella sua realtà.
Ti prego di riflettere che questa è quasi la definizione di Dio. Imitatio Dei! Mi stupisce che non sia stato vietato! Ma forse è vietato. Per lo meno è una cosa seria. Voglio dire: da pensarci seriamente. Ecco: il più energico, il primario, il più avvincente susseguirsi di fatti, di movimenti, tutti nel tempo, basati solo sulla suddivisione del tempo, sul riempimento e sulla organizzazione del tempo, eccotelo portato in mezzo all’azione concreta mediante il ripetuto squillo di tromba dietro il sipario.­
Adrian penetra nella musica di Beethoven con canoni propri; il momento iniziale, dettato da una forte idea, (non semplice impressione!), è sviluppato con tutta la maestria, (materia fusa dall’intensità!), senza compiacimento di auto compenetrazione; da ciò scaturisce quel senso di energia, tipico del travaglio beethoviano.
L’interiorizzazione è stadio brevissimo, semplice impulso; quindi è l’universale umano, che sopravviene ed appassiona, liberando lo slancio da ogni impaccio, grazia leggerissima, che permette acutissime vibrazioni.
Adrian sagacemente coglie questo aspetto.
Egli chiama questa ‘leggerezza’ energica, ‘imitatio Dei’, in virtù della sua educazione religiosa; ma l’energia è semplicemente penetrazione diretta negli elementi primari della terra; non è violazione dell’oscuro, ma trasparente manifestazione dell’armonia naturale.
L’inclinazione a definire l’audacia come sfida all’oscuro, al proibito, (Imitatio Dei!), sarà nefasta all’equilibrio psichico del futuro Maestro, poiché gli provocherà quella predilezione per il grottesco demoniaco, 25
conseguenza di un eccessivo ‘pudore’, continuamente sfidato ed ancor più continuamente temuto e (sciagura!) praticato.
Durante il suo ultimo anno di scuola, prima di terminare il liceo, Leverkühn iniziò lo studio non obbligatorio dell’ebraico, rivelando così i suoi progetti circa la professione da prendere.
Risultò che intendeva studiare teologia, facendo intravvedere che considerava quello studio come preparazione non alla sua carriera ecclesiastica o alla cura d’ anime, ma a una carriera accademica.
La sua decisione di dedicarsi all’erudizione divina fu un colpo per me e credo di aver cambiato colore, quando egli me ne diede comunicazione.
A rigore nessuna cosa mi pareva abbastanza buona per lui; voglio dire che il lato borghese, empirico, di qualunque professione mi pareva indegno di lui; l’ambizione che nutrivo per lui era assoluta; eppure ebbi un brivido di spavento, quando compresi, con molta chiarezza, che aveva fatto quella scelta per superbia.
Zeitblom confonde lo spirito di sfida (naturale nell’artista!) con la superbia.
Il carattere di ‘illecito’, che sembra insorgere dalla decisione di Adrian, è semplicemente la conseguenza dell’ Imitatio Dei, considerata come soglia della conoscenza o, meglio, come limite, oltre il quale si corre il rischio (beethoviano!) dell’energia pura, non mediata (benedetta!) dalla Fede e dai sacri strumenti.
L’Imitato Dei può essere anche simbolo efficace; ma interpretato secondo il dettato delle religioni monoteiste, si trasforma necessariamente in tentazione demoniaca.
Da inconscia canaglia Zeitblom (Mann sullo sfondo mantiene le distanze!) restringe il turbamento per la scelta di una professione alla sola gioventù studentesca; non gli passa neppure per la suola delle lucide scarpe che tanta inquietudine attraversa lo spirito di ogni creatura, sia pure destinata a fare il muratore o lo spazzino. 26
*
Ora esiste, se vogliamo, una disciplina nella quale la regina Filosofia è a sua volta asservita e diventa una scienza ausiliaria o, per dirla accademicamente, una materia ‘secondaria’, ed è la teologia.
Dove l’amore per il sapere si eleva all’intuizione dell’Ente Supremo, della prima scaturigine dell’essere, alla dottrina di Dio e delle cose divine; là, si potrebbe dire, è la vetta della dignità scientifica, la sfera più alta e più nobile della conoscenza, la cima del pensiero.
Zeitblom procede con questo tono per altri capoversi; da quanto ‘campionato’ ci si può rendere conto del procedimento apodittico, le cui affermazioni gratuite (non dimostrate!) finiscono per rischiare la soglia della insignificanza e l’ineffabile, profuso con troppa abbondanza, ci provoca nausea.
Questo effetto non possiamo addebitare alla scarsa conoscenza teologica dell’umanista, poiché fa parte della ‘natura’ di tale disciplina.
Queste cose mi passarono per la mente, quando Adrian mi comunicò la sua decisione. Se l’avesse presa per un certo istinto di disciplina spirituale, per il desiderio cioè di arginare dentro la religione il suo intelletto freddo ed ubiquitario, pronto e viziato dalla superiorità, e di piegarlo sotto il giogo religioso, ne sarei stato ben contento.
Io non credevo nell’umiltà dell’amico. Credevo nel suo orgoglio e, tutto sommato, non potevo dubitare che in ciò fosse l’origine della sua decisione.
Qui siamo nel pieno della cialtroneria; a furia di investigare senza rispetto le pieghe dell’animo di chi siamo costretti a giudicare superiore, (ahi, suffragio pedante dell’invidia!), si giunge a dare valore a paure (voragini!) inesistenti. Se c’è una disciplina che proprio per il suo contenuto astratto e prepotente è dal punto di vista pedagogico deleteria, questa è proprio la teologia.
Zeitblom, timoroso per tutto quanto supera la mediocrità accademica e il buon senso borghese, vorrebbe che lo strumento teologico (il più alto, il più ineffabile e via su questo tono!) provocasse una sorta di mortificazione nel ‘superbo’ intelletto di Adrian.
Mi dispiacerebbe però se, dopo quanto detto, mi si prendesse per irreligioso. Non lo sono affatto, anzi non sono d’accordo con Schleiermacher, anche lui teologo a Halle, che definì la religione come il ‘gusto ed il senso 27
dell’infinito’ e la chiamò un ‘dato di fatto dell’uomo’; sicché la scienza della religione non ha a che vedere con tesi filosofiche, ma è un fatto spirituale e interiore.
Che cos’è questa spiritualità interiore, questo senso dell’infinito, che tanto sgomentano o attraggono il cattolico Serenus?!
Finché restano nella sfera della sensibilità, appartengono alle ‘sostanze’ naturali; quando ne esorbitano per postulare il divino, piombano nella pura astrazione.
Zeitblom si impantana in questo ‘senso dell’infinito’; vittima inconsapevole del diritto di proprietà paventa che i disumani, cioè coloro che, senza rigore filosofico, hanno perduto il buon senso, (medietà dei pedanti!), derivante dalla religiosità, travolgano le barriere etiche dello Stato, succedanea l’anarchia.
Zeitblom conclude:
Quella religiosità che io non considero affatto aliena al mio cuore è certo una cosa diversa dalla religione positiva e legata a una confessione.
Non sarebbe stato meglio lasciare il fatto dell’umana sensibilità per l’infinito al sentimento pietoso, alle belle arti, alla libera contemplazione, magari allo studio esatto che, in veste di cosmologia, di astronomia, di fisica teoretica, può secondare quella religiosità con una religiosissima dedizione al mistero della creazione, anziché scinderlo come scienza dello spirito e costruirci edifici di dogmi, i cui apostoli si combattono a sangue per amore di una copula?
Quando si introduce l’idea di creazione, è fatale che ci si chieda dogmaticamente quando, come, per opera di Chi!
La radicalità filosofica (idealismo!) a sua volta non dà alcuna testimonianza degli elementi reali, ominidi, le cui tracce abbondano non nella storia del Prìncipe, ma negli istinti­qualità, caratteristica del Paria.
Il pietismo, secondo la sua natura esaltata, voleva, è vero, segnare una precisa separazione tra la devozione e la scienza e asserire che nessun momento, nessuna modificazione nel campo scientifico possono esercitare una influenza qualsiasi sulla fede.
Ma era una illusione, poiché in tutti i tempi la teologia ha subìto, volente e nolente, l’influsso delle correnti scientifiche dell’epoca, ha sempre voluto essere figlia del suo tempo, benché i tempi glielo rendessero sempre più difficile e la relegassero nell’angolino dell’anacronistico.
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Giustissimo, però immediatamente l’idea di creazione (rottura del nulla atarassico per intervento di un Prìncipe Eterno!) reintroduce con forza l’anacronistico e ritorna in auge la teologia, risorge il Dio Assoluto, Creatore e noi si diventa, per quanto suoi figli, umilissimi e miseri schiavi. *
Halle era, se non una metropoli, certo una grande città di oltre duecentomila abitanti, ma nonostante il traffico moderno non rinnegava, almeno al centro, dove noi due abitavamo, l’impronta di una dignità veneranda.
Neppure nella fisicità della Polis l’uomo rinuncia facilmente all’intensione; non fosse in questo stato di potenzialità riflessiva, non rispetterebbe (dire non farebbe, potrebbe riuscire eccessivo, benché nessuno nasconda che una certa influenza l’esercita!) la storia.
La stanza era ordinata, ma nulla di più; Adrian aveva completato l’arredamento con un pianino preso a nolo, che era coperto di musiche, talune scritte a mano da lui stesso.
Sopra questo era fissata con puntine alla parete un’incisione aritmetica da lui scovata nella bottega di non so quale antiquario: era un così detto quadrante magico, come si vede anche nella Melancholia di Dürer accanto alla clessidra, al compasso, alla bilancia, al poliedro e ad altri simili.
Come lì la figura era divisa in sedici caselle, numerate con cifre arabiche in modo che l’uno appariva in basso nell’ultima casella a destra, il sedici nell’ultima casella in alto a sinistra; e la magia ­o la stranezza­ consisteva nel fatto che questi numeri, comunque si sommassero, dall’alto in basso o orizzontalmente, o in diagonale, davano sempre la somma di trentaquattro.
Su quale principio di ordinamento si basasse questo risultato magicamente uniforme non sono mai riuscito a scoprire; ma non fosse altro per il posto eminente che Adrian aveva assegnato a quel foglio, là, sopra lo strumento, esso attirava sempre l’attenzione.
Non è indifferente che Halle fosse città di origine medioevale (fondata ancor prima dell’anno mille!) per cogliere il perché del valore magico, che Zeitblom condona a un oggetto, costruito secondo criteri logico­
matematici.
Si tratta, in verità, di un sentimento di paura davanti alla natura, conseguente alla concezione dualistica, di cui sono segnate le società, dove l’Altro (Altri!) è Presenza misteriosa che impregna di sé ogni cosa ed 29
evento; si tratta di condizione, che impedisce per giunta di interpretare la ‘prima creatura’, la natura, per quanto l’informa.
Questa atmosfera è nefasta ad Adrian, benché egli sia consapevole che la ‘magia’ è semplicemente una traduzione ‘onirico­istintiva’ dell’armonia universale.
Un giovane, proprio per l’intemperanza irrazionale dell’educazione, è sempre esposto alle deformazioni imposte dal Clan. La filosofia, che è regolare materia alle prime prove di teologia, era il punto in cui i nostri programmi di studio si incontravano spontaneamente. La cialtroneria dei leviti è evidente in ogni loro mossa; ad esempio, fanno un gran proclama dell’importanza dei princìpi della Fede per l’iniziazione alle fonti essenziali del dio, ma, nei fatti, si confonde il giovinetto, ammannendogli le mere funzioni della ragione; se poi egli mostra di interessarsi e dedicarvisi totalmente, volendo conoscere il divino per mezzo del pensiero, lo si accusa di superbia e lo si ammonisce di non presumere troppo di sé, previa la scomunica.
Ci eravamo iscritti alle lezioni di Kòlonat Nonneumacher, il quale con molto slancio e con molto spirito parlava di presocratici e con maggior ampiezza, di Pitagora, accompagnando quest’ultimo con molte nozioni aristoteliche, dato che, come è noto, dobbiamo quasi esclusivamente allo Stagirita la conoscenza dell’interpretazione del mondo pitagorico.
Possiamo dare per certo che questo Nonneumacher facesse opera di chiarezza, mischiando Pitagora ed Aristotele?!
Non siamo ancora una volta davanti al costume ‘arbitrario’, con il quale i teologi cristiani considerano lo scibile eticamente valido, solo quando risponde e anticipa l’epifania della rivelazione messianica?!
Si tratta di metodo, che lascia ferite nefaste nello spirito dei giovinetti, disposti come sono per ingenuità e schiettezza ad accettare ogni sistema di interpretazione, se esposto dai maestri.
Ascoltammo, dunque, prendendo appunti, la primitiva concezione cosmologica di uno spirito severo e credente, che aveva elevato la sua grande passione, la matematica, la proporzione astratta, il numero a princìpio dell’origine e dell’esistenza e, stando davanti alla natura universale come un sapiente iniziato, le dava per la prima volta con un gran gesto il titolo di ‘Cosmo’, di ordine e di armonia, di ultraterreno e di sonante sistema musicale alle sfere.
Il numero e la proporzione numerica, come totalità 30
costituente dell’essere e della dignità morale.
Che la concezione ‘cosmica’ di Pitagora sia ‘primitiva’ è interpretazione cristiana occidentale; la nostra tradizione ‘filosofica’ considera il passato (tutto il passato!) come ‘pallido’ antecedente dei tempi radiosi della nostra superiorità culturale ed etica; ancora, che Pitagora fosse un ‘credente’ è vergognosa manipolazione, derivante da una concezione dualistica dell’essere, la quale ingurgita nei suoi buchi neri uomini e pensieri, pur oppostamente orientati.
In questo modo è ancor oggi 'ammaestrata' la più parte della gioventù italiana. *
Era impressionante vedere come il bello, l’esattezza, la moralità confluissero solennemente in quell’idea che animava la lega pitagorica, la scuola esoterica del religioso rinnovamento della vita.
A quelle parole guardavo istintivamente Adrian per leggere nei suoi occhi.
La mia diventava una mancanza di tatto, in seguito al disagio, al rossore e al dispetto, con cui egli accoglieva il mio sguardo e si voltava dall’altra parte.
Il giovane, per le sue qualità ancora ‘intonse’, resta per parecchio tempo estraneo alle influenze teoriche dirette della scuola; rifiuta di farsi troppo accerchiare (soffocare!) dall’insegnamento umanistico; intende prima valutare la bontà dei vari sistemi e le tante proposte; gli è necessario (vitale!) costringere ‘le verità’ nel loro più intimo braciere e analizzarle alla luce del talento ‘precipuo’, talento, per cui si è unici nell’armonia (economia!) del gruppo.
Mann permette al carattere critico (tattile!) del suo protagonista di svilupparsi aldilà del demonismo, (conseguenza di una società lacerata!), quasi a scusarsi del modo insidioso, con cui lo andrà accerchiando.
Sul complicato rapporto dell’autore con il suo ‘mediocre’ intermediario avremo modo di entrare più volte; anticipiamo che nelle sue dissociazioni da Zeitblom c’è qualcosa di più di una semplice necessità narrativa.
­Mi par di capire che cosa Aristotele intendesse dire con l’entelechia.
Essa è l’angelo della singola creatura, il genio della sua vita, alla cui guida sapiente la creatura si affida volentieri.
Quella che chiamiamo preghiera è, a rigore, l’annuncio ammonitore e implorante di questa fiducia. Ed è giusto chiamarla preghiera, ché, in fondo, con essa invochiamo 31
Dio.­
Non potei fare a meno di pensare: Possa il tuo angelo dimostrarsi savio e fedele.
E’ insolito per un umanista (certo, cattolico, ma di superficie, per nascita!) la trasposizione in senso religioso di un princìpio aristotelico; operazione che, se esplicita, avrebbe potuto produrre nell’amico, in piena tempesta, guai irreparabili.
La forma ‘ispirante’, cui lo Stagirita affiderebbe la crescita ‘sana’ dell’individuo, è assai più vicina alla natura (naturante!) che non all’angelo della tradizione giudaica.
Le entelechie (le Madri di Goethe!) sono impronte di qualità o tendenze originarie, al di fuori di ogni tipo di sopra natura o di essere divino.
Kumpf era esattamente quello che gli studenti chiamavano una personalità potente e anch’io provai ammirazione per il suo temperamento focoso, ma non lo amavo per niente e non ho mai potuto credere che Adrian non fosse talora sbigottito e disgustato da quella sua cordialità, benché non ne parlasse mai con esplicita ironia.
Potente era già nel fisico: era un uomo alto, massiccio, grasso, dalle mani imbottite, dalla voce tonante, dal labbro inferiore un poco sporgente a furia di parlare e umido di saliva, che qualche volta usciva a sprazzi.
La teologia senza Satana mancherebbe del corno sfrenato della cupidigia orgiastica; da quando Dante ha legato Lucifero, in tutta la sua carnalità, al centro della terra, la spiritualità dell’Angelo rivoltoso ha subìto amputazioni vergognose.
Kumpf, corpulenta personalità, come insegnante di teologia risulta ambiguo e funesto.
L’ascetismo si coagula in lui intrigante e muscolare, grottesco e nefasto per una disciplina, che vorrebbe per contro instaurare una certa severità sub specie naturali (la Fede, pronuba attenta!) dell’Infinità Suprema.
L’iniziazione di Adrian non si può dire nasca sotto i migliori auspici!
Da giovane Kumpf aveva studiato con fervido entusiasmo la poesia classica e la filosofia tedesca e si vantava di aver saputo a memoria le più importanti opere di Schiller e di Goethe.
Ma poi il vangelo paolino del peccato e della giustificazione lo aveva distolto dall’umanesimo estetico.
Bisogna nascere teologi per poter valutare giustamente queste esperienze spirituali e queste esperienze di 32
Damasco.
Sublime stupidità di Zeitblom e di tutti i don Ferrante dell’ecumenismo erudito!
Ha forse inteso introdurre qui Mann un suo dubbio sulla cristianità ufficiale?!
Alla lettera il ‘vangelo paolino’ è il più apocrifo di quanti la Chiesa divelse dal proprio sacrario del Verbo.
L’ebreo Paolo ha fatto notevoli torti di autorità allo stesso Figlio di Dio!
Non era solo antifarisaico, antidogmatico, ma anche antimetafisico, con direttive solamente etiche e gnoseologiche, profeta della personalità ideale su fondamenta morali, quanto mai avverso alla distinzione pietistica fra il mondo e la santità; era anzi amico del nuovo e dei suoi godimenti, favorevole alla civiltà, specie a quella tedesca, poiché a ogni occasione si rivelava nazionalista massiccio, d’impronta luterana e non conosceva insulto peggiore di quello di dare a uno del ‘latino’, intendendo dire che costui pensava e insegnava con mentalità meridionale.
Allora montava in collera e con tutta la testa rossa era capace di aggiungere: E che il diavolo lo smerdi, così sia!
Nel teologismo antimetafisico di Kumpf le tracce dell’umanesimo classico sconfessato si intridono della carnalità del ‘nemico’ e l’impronta biblica ‘dell’avversario’ aumenta il delirio di repulsione sino allo sfogo finale contro chiunque non sia ‘luterano’.
Secondo me la teologia in genere non può essere moderna, e questo potrebbe essere un suo grande pregio; in quanto al simbolismo non capisco perché si dovrebbe intendere l’inferno in senso più simbolico del paradiso.
Il popolo ad ogni modo non lo ha mai inteso così.
Anzi, la figura cruda, veristica ed oscena del diavolo gli fu sempre più vicina della suprema Maestà e Kumpf a suo modo era un uomo del popolo.
Il popolo per i chierici ha lo stesso valore dell’oggettività per i ‘sinistri’.
Kumpf è rimasto, nonostante la folgorazione paolina, un goliardo corpulento e ridanciano.
Il Ruvido­Paria non ha più alcun contatto con i chierici ‘religiosi’; per questo la diabolicità carnascialesca è passata nelle trivialità conviviali della borghesia, quasi a bandirne, almeno in certe circostanze allegre, le inquietudini apocalittiche, qua e là venate da un ecologismo di frodo. 33
*
Siccome Adrian e io eravamo andati a fare a Kumpf la visita di rigore, egli ci invitava talvolta in famiglia e anche a cena con la moglie e le due figlie. Il padrone di casa dava la stura a svariate osservazioni su Dio e il mondo, la Chiesa, la politica, l’università e persino l’arte e il teatro; e si metteva a mangiare e a bere con gran foga; ci esortava a non far complimenti, a non disprezzare i doni di Dio, il cosciotto di montone e il vino della Mosella, e dopo il dolce staccava con nostro spavento una chitarra dalla parete e si metteva a cantare con voce reboante vari canti popolari.
“Chi non ama Bacco, tabacco e Venere, merita di esser ridotto in cenere!”
Egli lo esclamò, prendendo alla vita la moglie rotondetta, davanti ai nostri occhi. Poi puntò l’indice grassoccio verso un angolo buio della stanza.
–Guardate!­ gridò. ­Eccolo, là, nell’angolo, quell’accidente di berlicche! Ma non ci coprirà questo malvagio coi suoi dardi astuti ed infuocati! Apage!­ E così tuonando, afferrò un panino e lo scagliò nell’angolo buio.
Se non avessero conosciuto Kumpf, fasciato dal manto severo della teologia, i due giovani avrebbero giudicato grottesca la scena; ma interviene il fervore religioso a renderla spaventosa; ne viene fuori la grossolanità, che di solito i culti addebitano al popolo nelle ghiotte occasioni (assai rare!) di festa.
Conclude Zeitblom:
tutto ciò era fatto per incutere spavento e credo di poter supporre che questa fosse anche l’impressione di Adrian. Certo è però che in strada, dopo quel conflitto col diavolo, fu preso da un eccesso di ilarità, che si calmò solamente nella conversazione.
Finché Leverkühn conserverà l’innocenza dei sensi, gli basterà l’umorismo per liberarsi dalla presenza del diavolo; caduta la barriera della castità, il suo stesso temperamento, quasi ai limiti della schifiltosità morale, lo getterà, privo di difese simpatiche, nel baratro dell’illegittimo irrazionale, a cui, disperato, tenterà di opporre la musica.
Per questo le sue opere saranno concepite ed elaborate con canoni rigidi, quasi schiaffo al lassismo voluttuoso (in potenza!) dei sensi.
Ho già detto che per la sua natura la teologia, in determinate circostanze, deve tendere alla demonologia.
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Un esempio ne era Scoppfuss, anche se un esempio di qualità molto progredita e intellettuale.
La schietta relazione del professor Kumpf con il diavolo era un giochetto da bambini in confronto con la realtà psicologica che Scoppfuss conferiva all’avversario, alla personificata defezione da Dio. Dichiarava che l’empietà è il riscontro necessario e connaturato della santità e che questa è una continua tentazione satanica, quasi un irresistibile invito al peccato.
Si tolga di mezzo la santità, (ozio monacale, dopo l’orgia cristologica di Paolo di Tarso!) e sarà sgominata l’empietà, reazione naturale degli spiriti, che rifiutano l’ipocrisia dell’umiltà (tracotanza!) levitica.
Per essere brutale (ruvido senza mediazioni culturali!) nessuno intraprenda l’occupazione dell’ozio ed avremo ridotto le grandi tentazioni sataniche al mucchio di foglie di manzoniana memoria.
Penetrare nei fumi teologici, pur tenacemente tenendosi nei limiti dell’astrazione più serena, (la rilettura, ad esempio, di Anselmo sotto gli auspici del teologo luterano Barth è angosciante da togliere il fiato!), non serve per facilitare la rivolta del Paria.
Non se ne può più, signori, di tanta farneticazione! Essa lima la resistenza e costringe i germi, apertissimi germi, a restare al di qua della vita!
Lo spunto o stimolo a peccare proveniente dalle cose sacrosante era il punto essenziale, era il fatto stesso che si manifestava, ad esempio, nella definizione della donna grassa, che gli apostati davano alla Santa Vergine e nelle interpretazioni volgarissime, nelle orribili sconcezze che il diavolo li spingeva a pronunciare in segreto durante il sacrificio della Messa e che il nostro insegnante ripeteva sempre tenendo le dita intrecciate.
La libidine del proibito, formulata dogmaticamente sull’inesistente, è di una tale stupidità (laidezza!) che quanti se ne rendono ‘compunti’ attori diventano insopportabili.
Non si fosse consapevoli che la seduzione del demoniaco è la conseguenza delle ipocrite operazioni degli eletti, del tutto rimediabile quindi, ci sarebbe da lasciarsi andare alla più nera disperazione. Il dilemma logico di Dio consiste in questo: che egli non è stato capace di conferire alle creature, cioè agli uomini e agli angeli, l’autonomia della scelta, vale a dire il libero arbitrio, e nello stesso tempo il dono di non peccare.
La religiosità e la virtù consistono, dunque, nel fare buon uso, vale a dire, nessun uso della libertà che Dio avrebbe dovuto concedere alla creatura in quanto tale.
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La teologia si fonda sull’assunto che Dio è inconoscibile con la ragione; Dio può essere sentito solo misticamente, con il salto nel buio (Kierkegaard!); solo nella cecità logica della Fede sarà vinto il peccato e alleggerito il peso della carne.
Il giovane credente si accosta al Roveto per cercarvi la pienezza dell’Essere e della Carità con tremore e speranza; ma poi, sentiti i Maestri, è costretto a concludere che la libertà è libertà di peccare e l’amore per Dio consiste nel non far uso della libertà, che pure è l’essenza dell’Essere.
O Dio ha sbagliato clamorosamente o non esiste. E’ conclusione implicita nella sua dissertazione, ma Zeitblom, certamente in profondo turbato, lascia in sospeso. *
Scoppfuss teneva, era chiaro, a far capire che il senso dell’umanità non è un’invenzione dello spirito libero, che quest’idea non è solamente sua, ma c’è sempre stata e che, ad esempio, l’attività dell’inquisizione era animata dal più commovente spirito di umanità.
Una donna, ci raccontava, era stata imprigionata a quei tempi ‘classici’ e processata ed arsa viva dopo aver per ben sei anni avuto contatto con un incubo.
Si era legata al diavolo con la promessa di appartenergli dopo sette anni con il corpo e con l’anima. Ma aveva avuto fortuna, poiché poco prima che scadesse il termine, Dio, nel suo immenso amore, l’aveva fatta incappare nella rete della inquisizione. Andò infatti alla morte con grande fermezza, dichiarando che anche potendosi liberare, preferiva risolutamente il rogo per sottrarsi al potere del demonio.
Quale armonia e magnifica civiltà traspariva da quel perfetto accordo tra giudice e delinquente, e quale calore di umanità dalla soddisfazione di aver strappato quell’anima al demonio proprio all’ultimo momento, mediante il fuoco.
Si consideri quanto è naturale la disposizione della creatura per le armonie della carne, (senza escludervi l’aspetto più intimo e delicato!); ci si renderà immediatamente conto dell’assurda e farneticante dottrina del peccato, che nella sua irrazionalità giunge ad esaltare l’episodio, narrato dal teologo Scoppfuss.
Si tratta di un coagulo di paure e terrori, che portano necessariamente al fanatismo e ad accettare per provvidenziale l’intervento dell’Inquisizione, poiché in grado di liberare lo spirito dal dèmone della lussuria o della magia.
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Ecco come quell’impudente cialtrone di Scoppfuss giustifica l’assurdità sciagurata: 'quella donna col suo incubo era stata vittima della più nera superstizione, non altro. Superstizione non vuol dire credere nei demòni e negli incubi; significa mettersi a contatto con loro in maniera pestifera e aspettare da loro ciò che si deve aspettare da Dio.’
Zeitblom osserva:
ed era pur interessante vedere come l’uomo sappia servirsi delle parole e pensare con esse.
Conclusione in linea con il Socrate dei dialoghi antisofistici, che fustiga la riduzione della realtà a gioco etimologico.
Tenuta la sua lezione, Scoppfuss entrava a vele spiegate nella vita quotidiana e godeva i suoi piccoli agi, onestamente ottenuti, insegnando teologia demonica per incarico pubblico, senza curarsi delle conseguenze, nelle coscienze dei giovani allievi, delle sue ‘angeliche’ illuminazioni.
Ma da chi proviene la tentazione? Chi dobbiamo maledire per causa sua? Facile affermare che viene dal diavolo. Questa è l’origine, la maledizione va scagliata contro l’oggetto. E l’oggetto, l’instrumentum del tentatore è la donna.
Strano è e profondamente significativo che, sebbene l’uomo in ambedue le forme sia un essere sessuale e quantunque la localizzazione dell’elemento demonico nei lombi sia più plausibile nell’uomo che nella donna, tuttavia l’intera maledizione della carnalità e della schiavitù sessuale sia stata addossata alla donna a tal punto che si poté coniare questa sentenza: una bella donna è come un anello d’oro infilato nel naso della scrofa.
Si veda nell’oro soltanto il suo valore di semplice oggetto ed avrà la sentenza perduto ogni senso e scalpore; la donna continuerà ad essere bellissima, la scrofa animale per sé pulitissimo, quasi come gatta schifiltosa e l’anello un grazioso monile.
E’ un’invenzione dei chierici, schiuma del Prìncipe, che l’oro sia più sacro del sesso, elemento vitale talmente svilito che la donna dotata (valenza carnale così seducente da mordere i lombi del toro!) si giudichi scrofa più scrofa di quanto sa esser la scrofa.
L’aria di Halle, l’atmosfera teologica non mi faceva bene e la mia partecipazione agli studi di Adrian era un sacrificio che non senza disagio facevo per amore della nostra amicizia.
Nostra? Direi meglio mia, poiché lui non insisteva affatto 37
per avermi vicino, quando asoltava Kumpf o Scoppfuss e perché trascurassi addirittura le lezioni del mio programma lo facevo di mia spontanea volontà, guidato dall’incontenibile desiderio di ascoltare ciò che lui ascoltava, di sapere ciò che lui apprendeva, di tenerlo d’occhio insomma, poiché ciò mi parve sempre molto necessario, ancorché inutile.
Strano e doloroso abbinamento, questo, nella mia mente: urgenza e inutilità. Capivo benissimo di avere davanti a me una vita che si poteva bensì sorvegliare, ma non modificare, non influenzare e la mia smania di tenergli sempre gli occhi addosso, di non allontanarmi mai dal suo fianco assomigliava al presentimento che un giorno mi sarebbe toccato il compito di fissare in una biografia le impressioni della sua giovinezza.
Il pregiudizio pedagogico è trionfante nel giovane Zeitblom, che agisce per misteriose anticipazioni; eppure non sa mai varcare la soglia ‘sensibile’ dell’amico e strappargli una confidenza sincera, ridurlo a vedersi nell’intimo senza più maschere ironiche; rimane sempre sgomento ed esterno sulla soglia della ‘dolorosa’ segretezza di Adrian.
La ‘presunzione’ è al genio favorita (forse accresciuta sino al pericolo!) da questa folle idolatria dei più prossimi.
Mann conosceva per dura disciplina propria la cialtroneria di una propedeutica, limitantesi alla sfera individuale; per questo lascia variare a piacere, qua e là, tra selve e burroni, il suo ‘sosia’, le redini allentate per gioco, quasi memore del suo altro educatore liberale, l’italico Settembrini: Placet Experiri!
Essendo conterraneo ed intimo di Adrian, e dimostrando senza essere teologo uno spiccato interessamento per la scienza di Dio, ero accolto volentieri come ospite nella associazione cristiana Winfried e potei partecipare più volte alle escursioni sociali, organizzate per farci godere la verde creazione di Dio.
La contemplazione in gruppo della natura, proposta dalla pedagogia cristiana, è una insidiosissima manipolazione della libertà; si tratta del tentativo, celato da un falso cameratismo, (ognuno ne prova un profondo disagio, subito negato a se stessi per non essere segnato ‘diverso’ nel coro dei servitori di Cristo!), di impedire alla singola persona un contatto diretto con la natura.
Il sentimento di gioia, che trasmette il contatto con prato fiorito o con l’atmosfera rarefatta dell’alta montagna, sollecita una tale unità con le cose da rendere arduo il cammino alla fede.
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La cultura religiosa non permetterà mai il contatto simpatico con le creature, poiché metterebbe in serio pericolo il ‘dualismo’, su cui si fonda la necessità di un Dio.
*
Adrian non era un assiduo frequentatore del circolo e dava solo qualche saggio della sua qualità di socio.
Tuttavia godeva molta stima tra loro, e l’evviva con cui era accolto quando, bisognerebbe dire eccezionalmente, andava a una delle sedute nel salone affumicato della trattoria Mütze, era un po’ ironico per via della sua orsaggine, ma era anche espressione di sincera letizia.
Il cameratismo tradisce sempre un che di eccessivamente eccitato, forse perché incombe sempre sulle riunioni da club il rischio della monotonia; chiunque intervenga per allontanarne l’insidia, (operazione, che ai più costa enormi sforzi!), riceve il più caloroso benvenuto.
Per questo Adrian diventava per i compagni tanto più prezioso quanto più rara la sua partecipazione.
In modo particolare si stimava la sua musicalità, che era molto utile perché egli sapeva accompagnare al pianoforte i cori obbligati con maggiore sonorità e più slancio di altri che ci provavano.
Ma anche senza essere invitato, andava a sedersi talvolta al pianoforte del salone sociale; aveva allora un modo particolare di entrare in fretta, di dirigersi talvolta senza neppure togliersi il berretto e il pastrano, con la fronte aggrondata e pensierosa, difilato verso il pianoforte e tentare con tocco energico, dando rilievo ai passaggi con le sopacciglia sollevate, combinazioni di suoni, avviamenti e risoluzioni che aveva probabilmente escogitati durante il tragitto.
Forse a spingere Adrian a quelle prove singolari era il calore, l’eccitazione dell’ambiente.
Altra cosa è tentare novità sonore nel silenzio, lo strumento solcato ad esclusivo beneficio estetico, (operazione neppure del tutto necessaria, per chi abbia partecipazione ‘naturale’ ai suoni!), altra è esperire l’intensità della frase nel fervore della presenza carnale di camerati.
Probabilmente Leverkühn non se ne rendeva neppure conto; una volta scontata la fecondità del frangente, era divenuto un bisogno anticipare, viaggiando, qualche speciale sonorità, godendo di provarla là, in quei rumorosi e ridanciani ritrovi; d’altra parte non tanto contava che alcuno ascoltasse, quanto sentirsi vicina la carne degli altri.
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Quando poi continuava a suonare, inseguendo una sua idea fissa, variandola e risolvendola, il piccolo Probst gli domandava: ­Cos’è?­­Niente­ ­Come può essere niente se lo suoni?­ ­Sta fantasticando!­ Spiegò da intenditore il lungo Baworinski, presidente del circolo.
­Fantasticando?­ esclamò Probst, sinceramente spaventato, guardando con gli occhi celesti la fronte di Adrian, quasi dovesse vederla ardente di febbre. –Come sei tonto, Probst!­ disse Baworinski.
­Erano improvvisazioni, non capisci? Cose che gli venivano in mente lì per lì!­ ­Come gli possono venire in mente lì per lì, a destra e a sinistra? E come puoi dire che una cosa che sta suonando non sia niente? Come si fa a suonare quello che non c’è?­
­Mi credano, credetemi, vi garantisco che non era niente in tutti i sensi!­
La serietà di Probst di fronte alla creazione artistica (egli agisce a tentoni, da vero naïf!) non subisce alterazione (questo è il vero trionfo della natura e delle Madri!) neppure nel clima cialtronesco del circolo.
La scienza teologica si distingue per le sue verità indiscutibili, per gli assiomi incontrovertibili e la facondia esegetica non si allontana mai da questa certezza di diamante; per questo Probst si chiede il perché la musica dovrebbe essere diversa e le sue variazioni non risultare importanti come sembra affermarsi anche corporeamente il motivo ispirante.
Non possono risultare ‘varianti’ sul nulla; ci sarebbe d’averne, altrimenti, vertigini!
L’esercizio e la sperimentazione nella cieca scienza di Dio sono Lucifero.
La ritrosia di Adrian e il doloroso stupore di Probst nascono dalla stessa severità ascetica; sapremo che la coincidenza non sarà senza conseguenze per Adrian; non ci si dirà altro a riguardo di Probst e questo addolora; non è al livello della oggettività epica.
Questa forma di vita interinale, il tuffo provvisorio di cittadini e intellettuali nella primitività agreste della madre terra, ma con la certezza di dovere e poterne uscire presto e ritornare all’usata e naturale atmosfera della comodità borghese, questo volontario ritorno ad altri tempi più semplici assume facilmente, anzi necessariamente, un che di artificioso, di condiscendente, di dilettantesco, di comico che non era affatto estraneo alla nostra coscienza e provocava forse quel sorriso bonario ed ironico con cui ci squadravano i contadini ai quali chiedevamo di poter riposare sulla 40
paglia.
Il borghese non si chiede più da molto tempo perché debba sussistere una frattura così insolente tra città e campagna; la dà per naturale, se non necessaria; ne rimarca, per altro, la bella stranezza e costringe la terra madre ad accettare la condizione.
Agisse diversamente, dovrebbe rinunciare alla cialtroneria delle professioni e delle relative prebende.
Quando qualcuno si permette di avanzare un punto di vista critico, (in senso ruvido!), il cittadino borghese è preso da irascibilità incontrollata e si appella agli sbirri affinché intervengano a zittire, imprigionare, bruciare il sovversivo, non che terrorista.
E non ci si accusi di forzare il testo di Mann, benché la menda non ci turbi; chi pretendesse per questo ch’io ne paghi il fio, ha svelato di quale mai pasta si nutre.
Si può dire che la gioventù è il solo ponte legittimo tra il mondo borghese e quello della natura, uno stato pre­
borghese, dal quale deriva tutto il romanticismo studentesco, la vera e propria età romantica.
Questa era la formula a cui Deutschlin, sempre energico e fecondo pensatore, ridusse la questione, quando prima di addormentarci in un fienile, al lume scialbo di una lanterna da stalla, che ardeva in un angolo del nostro alloggio, stavamo discorrendo dei problemi della nostra vita.
Insiste una notevole tartuferia nel forte pensatore Deutschlin; egli ha assolutizzato in una condizione una parte della vita umana, dimenticando bellamente che la gioventù non si esaurisce in quello, che studia; ci sono ragazzi, gettati nella vita (non conta per loro se al di qua o aldilà della stagione romantica!) prima ancora di essersi resi conto dei rischi e delle amputazioni, a cui sono destinati.
La ‘pausa’ romantica è il guscio, (corruzione del sentimento!), nel quale lo studente si placa, persuaso di sospendere il tempo della ‘struttura’, preparandosi a parteciparvi con liberi moti e più saturo slancio; lo scioglimento della pausa (del guscio!) sarà l’entrata gloriosa nella professione specialistica, (naturalmente antiromantica!), la funzione, spietata amputatrice in nome della ragione.
Che si tratta di autentica abdicazione, lo denuncia lo stesso futuro teologo e pensatore Deutschlin, quando aggiunge essere di cattivo gusto discutere da giovani i problemi della gioventù!
Ma poi tenta il salvataggio nel solito modo e salta audacemente al 41
vitalismo puro, salvo immediatamente denunciare l’irrazionalità del sistema sociale ed invoca (epifania finale!) una presunta ‘armonia’ delle discipline superiori.
L’invocare, come si fa da più parti, i diritti dei giovani resta un imbroglio, se lor si impedisce di capire da subito per quale assurda divisione del lavoro si è affermata la borghesia.
Sia lasciata alla loro discrezione decidere quale indirizzo prendere! *
­Non mi pare che la gioventù abbia una particolare dimestichezza con la natura. Direi piuttosto che ne abbia un certo timore, che le sia estranea. Alla sua parte naturale l’uomo si avvezza con l’andar degli anni e piano piano se ne dà pace.
Che cosa significa natura? Boschi e prati? Monti, alberi, laghi, bellezza di paesaggi? Per questo ritengo che i più giovani abbiano molto meno occhio che non gli uomini più anziani, più calmi.
Il giovane non è molto disposto a vedere e a godere la natura. Egli guarda piuttosto dentro di sé, è più spirituale, alieno dai sensi, secondo il mio pensiero.­
Leverkühn forza aldilà del limite non il sentimento, ma la volontà di recidere ogni rapporto men che pulito e severo; egli risente di una atmosfera religiosa particolare, per la quale la natura è troppe volte condannata e respinta, perché insidiosa per lo spirito; non potendosi nascondere che la natura ha un fascino singolare, capace di trascinare anche il giovane, elencando i suoi momenti di grazia, (li ha, quindi, profondamente visti e goduti!), pensa di allontanarli da sé, di escludersi dalla loro ‘orgiastica’ pienezza.
Adrian, per una infelice conseguenza dell’educazione, (nessuno dovrà mai rendersene conto!), si difende e tenta di liberare la sua spiritualità dagli elementi, che considera spurii, se non illeciti.
Pagherà amaramente questo atteggiamento, poiché, diversamente dai suoi camerati, non usa evitare le difficoltà, addirittura tende a teorizzarle; egli non dirà mai come il concreto teologo Deutschlin che la gioventù è un dono metafisico, un che di inessenziale, una struttura, una destinazione, talmente sicuro di sé e della sua scelta che, dopo la parentesi romantica della rivolta astratta, si voterà seriamente e in pace con l’anima alla ‘provvida’ professione.
La liturgia della gioventù come momento magico dell’esistenza è il cavallo pedagogico, che i chierici cavalcano più volentieri; si tratta di un sistema ben sperimentato; nel periodo di fuoco serve a scavare attorno al 42
discepolo un solco profondo, dove tutto sembra possibile, affinché, esaurite in quel centro immaginario tutte le pericolose ‘formidini’ dell’autonomia sentimentale, (gli anziani furbescamente annuenti!), si rientri nel salutare grembo della società dei giusti e dei saggi e si mette a partito (finalmente!) la testa.
­Le gesta tedesche sono sempre nate da una potente immaturità, e non per nulla noi siamo il popolo della Riforma. Anche questo fu un atto di immaturità. Maturo era il fiorentino del Rinascimento che prima di andare in Chiesa diceva alla moglie: Ebbene, facciamo la nostra riverenza all’errore popolare!
Lutero era invece abbastanza immaturo, abbastanza popolo, abbastanza popolo tedesco, per recare la fede nuova, purificata. Dove sarebbe il mondo, se la maturità dovesse avere l’ultima parola? Con la nostra immaturità gli regaleremo ancora qualche rinnovamento, qualche rivoluzione.­
Queste parole di Deutschlin furono seguite da un breve silenzio.
Un silenzio, venato d’angoscia, se avessero quei generosi e immaturi giovani tedeschi potuto prevedere quanto di orrore all’umanità stava il loro popolo parando.
Ci sembra inutile rimarcare che è proprio questo che Mann ci vuol far capire, serrando i denti per non esplodere in invettive, a lui non congeniali.
La contrapposizione maturità (posatezza da civiltà!) e immaturità (vitalismo impudente!), utilizzata per distinguere non le generazioni, (che è già uno stravolgimento, una menzogna!), ma le nazioni, contiene in germe tutti i disastri collettivi possibili.
­Secondo te la religiosità sarebbe una dote spiccatamente tedesca? ­domandò Adrian.
­Nel senso che ho dato, direi di sì, come giovinezza dell’anima, come spontaneità, come fede nella vita e cavalcata düraniana tra la Morte e il Diavolo. Lo sentiresti e lo sapresti Leverkühn, se non fossi appunto Adrian Leverkühn, come dire troppo freddo per essere giovane e troppo intelligente per essere religioso. Con l’intelligenza si può fare molta strada nella Chiesa, ma non nella religione.­
­Tante grazie, Deutschlin, me le hai cantate in buon tedesco, senza mascheramenti e ipocrisie. Prevedo che non farò molta strada neppure nella Chiesa, ma certo è che senza di essa non avrei studiato teologia.­
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Sia pure non consapevolmente, Adrian si fa banditore di una verità sconvolgente: senza la presenza capillare (asfissiante!) di una struttura aprioristicamente ‘dogmatica’, non nascerebbe nell’anima dei viventi alcuna curiosità teologica.
Una persona in formazione, nell’entusiasmo del canto alla natura e ai suoi simili, può inventare e donare una forza, senza ricorrere al Creatore, se non gli è subdolamente suggerito da scaltri (furfanti!) educatori.
La tragedia futura di Adrian è già tutta intera nelle parole, con cui risponde a Deutschlin.
­So che i più intelligenti tra noi hanno letto Kierkegaard, che pongono la verità, anche la verità etica, interamente nel soggetto e hanno orrore di ogni esistenza irreggimentata. Ma io non posso partecipare del vostro radicalismo che, del resto, è destinato a non durare molto ed è una licenza studentesca; non posso prender parte della vostra kierkegaardiana separazione del Cristianesimo dalla Chiesa.­
Nell’idolatria dei suoi camerati per lo scrittore e ‘teologo’ danese Adrian avverte la situazione ‘precaria’, tipica del soggettivismo religioso, che spesso si concentra ed esaurisce nelle tempeste ed entusiasmi giovanili per stiracchiarsi negli accomodamenti dell’età matura.
I discorsi successivi di questa serata in campagna, discorsi nei quali saranno passati bizzarramente in rassegna problemi economici, istituzionali, con sottolineatura della natura preindustriale del germanesimo, saranno per Adrian inficiati dalla premessa insostenibile, quella, che considera la giovinezza un interludio romantico, dove lo slancio e l’impegno sono messi in cattiva luce dallo sbocco futuro di rassegnazione (cedimento!) alla ‘carriera’. *
C’era da esser grati alla natura benigna, che teneva in serbo il sonno per accogliervi la conversazione e cullarla nell’oblio, sicché Adrian, il quale da un pezzo non aveva più parlato, espresse quella gratitudine nell’atto di accucciarsi.
­Sì, buona notte. E’ una fortuna che si possa dire così. Le discussioni si dovrebbero fare prima di addormentarsi, avendo le spalle al coperto, col sonno in attesa.
Come è penoso restare con la mente sveglia dopo una conversazione intellettuale!­
Adrian sembra dire: senza un lavoro serio, faticoso, che introduca nell’esistenza elementi nuovi e relazioni continue, il travaglio del pensiero 44
lascia in un tale strazio la sensibilità, che ne esce alterato (veleno!) anche il sonno.
Una conclusione così poco teologica che impressione avrà fatto su quei futuri zelatori della fede?!
Zeitblom prende l’occasione per fare una riflessione generale sul periodo, trascorso da Adrian nel circolo Winfried.
Spesso li osservavo nelle loro dispute filosofiche­
teologiche e mi figuravo che parecchi di loro avrebbero considerato un giorno il periodo della Winfried come l’epoca più grande della loro vita. Osservavo loro e osservavo Adrian col più preciso presentimento che egli non l’avrebbe considerato così.
Il presentimento angoscia il giovane Serenus; se non ne approfondisce le ragioni, è solo perché ne è impedito dalla sua educazione; in fondo anch’egli come i futuri teologi pensa che la giovinezza è un’età speciale, non per sé, ma per la ‘libera’ formazione; solo sotto questo aspetto egli può accettare il piglio di contestazione, che imprime accelerazioni feraci alla maturità e condona una certa dignità al successivo (salutare per tutti!) rientro nei ranghi.
Inoltre Zeitblom è profondamente convinto che la ‘genialità’ sia una rottura dolorosa dei salutari costumi del clan; non afferra che il disagio giovanile non tanto dipende dal talento, più o meno spiccato, ma dal sistema sciagurato, con cui dal medium sociale è frenato lo sviluppo spontaneo delle giovani vite; per questo non ha alcuna importanza il grado di intelligenza, di cui ognuno è dotato.
Già dall’inizio del secondo anno notai da certi sintomi che il mio amico intendeva interrompere lo studio di teologia prima di dare il primo esame.
La decisione di uscire dalla gabbia (polvere d’oro!) dello Studio sull’Ente degli Enti è autonoma, si vuole dire, non condizionata da alcuna irregolarità di comportamento, ancor meno obbligata da una qualche colpa grave, che avesse offuscato lo specchio (stagno narcissico a tutto vantaggio dell’anima!) del decalogo e della precettistica in vigore.
Non interviene seduzione demoniaca a suggerire l’interruzione della conoscenza divina; è l’artista, che, in assoluto equilibrio, restringe la sfera degli interessi per non dissipare in elucubrazioni l’energia creatrice.
La decisione potrà sollevare più avanti dei dubbi e provocare scarti psicologici insidiosi o interrogativi di questo tipo: creare da elementi mondani (ex­nihilo! Il nulla anteriore all’Universo!) è teologicamente 45
lecito?!
Qui si può certamente infilare il demonio cristiano!
I rapporti di Adrian con Wendell Kretzschmar non si erano mai allentati o troncati.
Il giovane alunno della scienza di Dio rivedeva il mentore musicale dei suoi anni di giovinezza ogni qualvolta ritornava a Kaisersarschen per le vacanze; lo andava a trovare nella casa presso il Duomo; vedeva l’organista anche in casa dello zio Leverkühn e indusse due o tre volte i suoi genitori a invitarlo per la fine settimana a Buchel dove fece con lui lunghe passeggiate e indusse Jonathan Leverkühn a mostrargli le figure acustiche di Chladnis e la goccia divorante.
Anche il padre di Adrian, come generalmente il maschio, accontentato nelle sue divagazioni da tempo libero, (si prescinde dalla loro serietà!),e non si cura più di riflettere se alcune esibizioni (conoscenze o altro!) non siano pericolose per l’equilibrio dei figli.
La vanità è talmente forte da accompagnarsi senza scrupoli con la responsabilità per chi da noi dipende.
Un po’ meno, invece, se la diceva con la signora Elsbeth, ma senza che vi fosse una vera tensione tra loro.
Strano: in Germania la musica gode quella stima popolare che in Francia tocca alla letteratura e nessuno si stupisce, si sente a disagio o indotto al sospetto o all’ironia, quando apprende che uno fa il musicista.
Tuttavia nei due giorni e mezzo che passai una volta a Buchel con lui e con Adrian, potei osservare nelle maniere di lei un certo ritegno, non del tutto velato dalla cortesia, un certo sforzo, una certa freddezza verso l’organista, il quale reagiva con un aumento della balbuzie.
Qual è la caratteristica dell’organista, che inquieta la madre?!
Certamente qualcosa nell’esperto di cose musicali rinnova i suoi cattivi presentimenti; sono moti molto complicati e difficili da definire alla stessa persona, che li prova.
­Ha per la musica, diceva Kretzscmar, l’occhio compositore dell’iniziato, non quello dell’estraneo che gode vagamente la musica. E se non scrive ancora, se non manifesta il desiderio di produrre, non incomincia con ingenue composizioni giovanili, è un onore per lui, il suo orgoglio gli impedisce di mettere al mondo una musica da epigono!­ 46
Il Maestro ed organista ha per l’allievo l’ammirazione sincera sì, ma anche un po’ adoratrice dell’esperto didatta, quando si trova davanti a talento creativo, quasi a ripagarsi con le lodi della propria ‘modesta statura’.
La vanità è condizione sempre negativa per l’artista; la pienezza dell’invenzione scaturisce solo dalla semplicità e dalla fedeltà a modelli oggettivi; ogni esagerazione (prurigine e gloria!) appanna l’acume e fa germinare la gonfiezza.
*
In quelle lettere, che rivelavano nello scrivente elevate capacità di osservare se stesso con occhio critico, Adrian esponeva al Maestro di una volta (che desiderava di ridiventarlo e in maniera più decisiva) gli scrupoli che lo trattenevano dalla decisione di cambiare professione e di buttarsi interiormente tra le braccia della musica.
Fra le righe ammetteva che la teologia come studio empirico lo aveva deluso.
Che l’unico sbocco ‘empirico’, aperto dagli studi teologici, fosse il Ministero Pastorale Adrian lo sapeva da sempre; aveva solo istintivamente tentato di ridimensionare le paure della madre, affettuosamente interpretandole; aveva cercato una sorta di territorio neutro, scavato tra sé e la vita, (non certo nel senso, che davano a questo i camerati del circolo Winfrid!), quasi a cancellare i cattivi presentimenti di colei, che tanto tremava per il suo destino.
Per quanto leggera come un’ape, Elsbeth è una jattura per il figlio.
Lei chiederà: e la teologia non ti è parsa preziosa? Ecco, io mi ci sono assoggettato non tanto (benché anche per questa ragione!) perché vi scorgevo la scienza più alta, ma perché volevo umiliarmi, piegarmi, disciplinarmi: punire l’arroganza della mia freddezza: per costrizione, insomma desideravo l’abito ruvido sopra il cilicio.
Adrian tace il motivo principale, non tanto per poca confidenza con Kretzschmar, ma per non averlo mai confessato neppure a se stesso.
Uno stato di contrizione (mi sto flagellando!) così pervicacemente cercato è la conseguenza di un istinto ribelle, che per profonda sensibilità e accondiscendenza (non venir meno alle attese segrete della persona che più si ama!) è stato ‘religiosamente’ soffocato.
Si crea in tal modo una sorta di paura per ogni tipo d’esperienza, che non sia strettamente religiosa; per disperazione si tenta di liberarsene, perseguendo la scienza di dio.
Lei mi reputa chiamato a quest’arte e mi fa intendere che 47
la deviazione non sarebbe poi tanto grande. Il mio luteranesimo è d’accordo con lei, perché vede nella teologia e nella musica territori vicini e molto affini, e oltre a ciò la musica è sempre sembrata a me personalmente un’unione magica di teologia e di matematica divertente.
Essa contiene inoltre una parte considerevole di quell’insistente sperimentare e indagare, a cui si dedicavano gli antichi alchimisti e i negromanti di una volta, che pure stavano sotto le insegne della teologia, ma nello stesso tempo sotto quelle dell’emancipazione e dell’apostasia, non già dalla Fede, che sarebbe stato impossibile, ma nella Fede. L’apostasia è uno stato di Fede e tutto è o accade in Dio, anche il distacco da Lui.
Quanto insidiosa l’oscura presenza e quanto arbitrario unire la rivolta (apostasia!) alla sorte della Fede e del suo Signore ‘celeste’!
Nella ribellione la pace dello spirito si ottiene con un salto radicale dal sacro, salto, che Adrian non compirà mai, impedito proprio dal suo luteranesimo.
E’ un poema di tristezza, ch’egli dedica ad Elsbeth, nume silenzioso.
Altra operazione sciagurata (suggeritore segreto il padre!) è la equiparazione tra lo sperimentare scientifico (matematico!) e la negromanzia; il dinamismo creativo subisce un’impronta demonica, preludio di potenziale follia.
Nell’uomo di scienza e d’immagini il disastro è sempre provocato da una disperata (dissennata?!) fedeltà a forme, che non esistono o, se esistono, sono viste in maniera sbagliata.
Egli si era avvicinato alla tastiera non per smania di dominarla, ma per una segreta curiosità della musica stessa, gli mancava in maniera assoluta il sangue zingaresco del concertista che si presenta in pubblico approfittando della musica.
Gli stessi argomenti, continuava, si opponevano a una carriera come direttore d’orchestra. Come non sentiva la vocazione del giocoliere dello strumento, così non si sentiva di far la prima donna in frac con la bacchetta in mano davanti all’orchestra.
Qui però gli sfuggì una parola significativa: diceva di essere ‘schivo’ del mondo, senza per questo volersi fare un elogio.
L’artista si isola per riconquistare (riconoscere, direbbe Socrate!) la profondità originaria delle immagini, tradita dalla struttura nefasta del 48
Clan.
Ma guai, se in tanto significativa e necessaria solitudine si insinua il vento gelido di una Presenza oscura, per giunta descritta onnipotente e onnisciente!
L’onnipotenza (odiosa!) uccide l’empiria e provoca uno scacco irreparabile.
Sempre forse sono stato condannato a ridere nei momenti più misteriosamente impressionanti e, spinto da questo esagerato senso del comico, mi sono rifugiato nella teologia, sperando di reprimere il solletico, ma ho finito per trovarvi un mare di spaventosa comicità.
Perché quasi tutte le cose mie mi si devono affacciare con la loro parodia? Perché mi deve sembrare che quasi tutti, anzi tutti i mezzi e le convenzioni dell’arte possono servire oggidì solo alla parodia?
E lei osa credere che un cuore così disperato, un povero cane come me sia dotato di ingegno musicale e mi invita a buttarmi fra le sue braccia, invece di lasciarmi continuare umilmente lo studio della scienza di Dio?
Se quanto abbiamo scoperto d’essenziale, lo appoggiamo su fondamenta fragili o addirittura inesistenti, la risultante delle nostre iniziative e dei nostri giudizi è di necessità la parodia; niente ci riesce più degno di sofferenza o di consenso e ci aggiriamo in un bugno di grigio; l’unica risposta possibile alle sollecitazioni rimane il riso.
Se quanto giudichiamo prezioso è costantemente svilito dalla persone, che più ci amano, è naturale che le nostre passioni finiscano nello stagno putrido del cinismo.
Adrian si difende dalla musica non per rispetto alla Teologia, a cui ha già rinunciato, ma per paura delle reazioni irrazionali del volto a lui più caro e, ahimé, più intraducibile, volto, il cui avvertimento trepido ed oscuro è l’invito (ahi, mutilante preghiera!) a non osare troppo, situazione dolorosa e insopportabile, poiché egli vorrebbe, sentendolo necessario, trovare il coraggio, sia pure crudele, di metterla in discussione. *
L’arte progredisce, scriveva Kretzschmar, e progredisce mediante la personalità, prodotto e strumento dei tempi, nella quale motivi soggettivi e oggettivi si fondono sino a non essere più distinti, fino a prendere gli uni gli aspetti degli altri. Spìcciati, Adrian e decìditi! Lei ha già vent’anni e deve imparare ancora una buona dose di mestiere difficile, abbastanza difficile perché le 49
sia di stimolo. Meglio farsi venire il mal di capo a furia di canoni, fughe e di esercitazioni al contrappunto, anziché confutando la confutazione Kantiana delle dimostrazioni dell’esistenza di Dio!
Kretzschmar è consapevole che la liturgia teologica è in fondo una greve devianza dalle naturali attitudini umane; non risparmia al geniale discepolo rimproveri e sollecitazioni, affinché non perda altro tempo e si ponga sulla sua unica strada.
E le nostre vie divergevano.
Nonostante la mia forte miopia ero stato dichiarato idoneo al servizio militare e avevo intenzione di far subito il mio anno di servizio, precisamente a Naumberg, al terzo artiglieria di campagna.
Adrian invece che non so per quale ragione, o per insufficienza toracica o per i soliti mali di testa, era stato fatto rividibile, si preparava a passare alcune settimane a Buchel per discutere coi suoi genitori il suo mutamento di rotta.
Avrebbe detto ai genitori che intendeva dare maggiore rilievo alla musica e recarsi pertanto nella città ove operava il mentore della sua prima giovinezza.
Con ciò non diceva che abbandonava la teologia.
La reticenza di Adrian non è che il timore di preoccupare eccessivamente la madre, le cui reazioni sono per la sua sensibilità lapilli e lava.
Egli è ormai consapevole che solo l’accaduto, il non più riparabile, diventa per la madre sopportabile, meno affannoso; ritarda per tanto una comunicazione che, in fieri ancora, agirebbe su di lei in maniera nefasta e con terrore intollerabile.
All’inizio del semestre invernale del 1905 Leverkühn si trasferì a Lipsia.
E’ una notizia buttata lì, quasi ad anticipare di soppiatto e con noncuranza l’avvenimento centrale dell’esistenza di Adrian.
In fondo aveva ragione di non prendere al tragico quella separazione. Al più tardi dopo un anno, terminato il servizio militare, ci saremmo incontrati in qualche luogo. Eppure quello era in un certo modo un punto fermo, la fine di un periodo, l’inizio di un altro, e se egli non vi faceva attenzione, io invece me ne rendevo conto con una certa commossa malinconia.
L’esistenza di Zeitblom è scandita dalle tappe canoniche, comandate dal 50
Clan; Leverkühn invece distingue le stagioni della vita in rapporto ai suoi impulsi più intimi.
La malinconia è una sorta di autocompiacimento dai colori tenui, quasi abbrunati; a malincuore ci si stacca da quanto ci piacque, forse perché si temono troppo repentini cambiamenti, con il rischio di perdere il contatto con la tranquillità, che a lungo andare diventa la sola felicità, che non delude.
L’avere diviso il lavoro comune in settori incomunicabili costringe l’uomo medio, che oggi, disgraziatamente per tutti, (anche per lui!), è la spina dorsale della società, a convulsioni grottesche, che neppure più suscitano pietà.
Capivo benissimo che quel passo era giustificato, necessario, rettificante e che la teologia era stata soltanto un modo per scansarlo, una dissimulazione, ed ero orgoglioso che il mio amico non avesse più alcun ritegno a professare la sua verità; era una decisione che mi empiva il cuore di gioia e nello stesso tempo me lo cingeva di angoscia: un sentimento paragonabile soltanto con quello stiramento di ventre che il bambino prova sull’altalena lanciato in alto e nel quale si mescolano il giubilo e la paura del volo.
Giunto sulla soglia del proibito, (si tratta, per dio, di un sospettù Zeitblom non si distingue da Hans Castorp; la vaghezza del sentire, ove si confondono, senza mai dichiararsi, l’angoscia e la felicità, rivela una atavica incapacità di decidere seccamente, una volta per tutte; tanta incertezza in Hans è aumentata dalla malattia e in Zeitblom dalla vocazione alle scienze umane (ritorno in vitro dell’italiano, il Settembrini ammiratore di Carducci!) e dalla volontà, quasi un dovere, di fare il testimone, biografo puntuale, di Adrian Leverkühn.
E’ in Serenus così radicato lo stato di mezzo (etimologia del mero transito) ch’egli recupera una certa tranquillità, solo quando è esonerato dal prendere scelte troppo radicali.
Non è che questa Ninive a me piaccia in particolar modo: non è certo essa la città più bella della mia patria.
Kaisersarschern è alquanto più venusta, ma facile le riesce di essere bella e degna, giacché di niente ha bisogno tranne che di essere antica e tranquilla e senza polso.
Magnifica è questa Lipsia fabbricata quasi coi pezzi di una scatola di costruzioni, e la gente parla un volgare diabolico che ti sofferma sul limitare delle botteghe 51
prima di fare qualsiasi acquisto.
Come se il nostro linguaggio turingio dolcemente addormentato si fosse destato all’insolenza di settecentomila uomini e alla nefanda malvagità della loquela con la mascella prominente, orrendo, orrendo ma dio grande, non inteso a fin di male, e anzi mescolato con la beffa di sé medesimi, giacché a costoro il polso del mondo intero lo consente.
Lo stile volutamente antiquato, che Adrian utilizza per comunicare a Sereno le sue impressioni su Lipsia, è omogeneo alla voluttà dissacratoria, preludio ed introibo all’opera creatrice; è il grottesco, venato da un quid di demoniaco, quasi ad assicurarci (giuramento espresso in modo lepido! Ahi, l’ossessione di Elsbeth!) che quanto è normale per i cittadini di Ninive­Lipsia, ove pulsa innocente e beffarda la bestia, (il calore animale e vocale di Hanne!), a lui, cittadino di Kaisersarschern, cittadina venusta e tranquilla, permesso non è.
Per Adrian la beffa è sempre una sfida, che nasce da orgoglio; prende così avvio la riffa col demonio cristiano.
L’abitudine alla meditazione teologica rende ancora più insidiosa la tumescenza materna e gli oscura (dato reale e benefico!) che la superbia è il frutto venefico della voluttà di regno dei figli del tuono, non nasce da alcun intrigo materico. *
Per via del clavicembalo la grassona (affittuaria) mi fece cerimonie: qui ci sono avvezzi.
D’altro canto non le rompo troppo i timpani, perché in questi momenti abbraccio di preferenza la teoria con libri e carte da scrivere, studiando l’armonia e il punctus contra punctum con le mie sole forze o, dirò meglio, sotto la sorveglianza e la guida dell’amico Kretzschmar, cui ogni tre o quattro giorni reco le mie esercitazioni e fatture affinché le approvi o disapprovi.
Noi stessi ci andiamo coltivando le situazioni.
La ‘grassona’ rappresenta nel privato di Adrian l’entrata furtiva degli aspetti più maleodoranti e, insieme, seducenti di Ninive­Lipsia.
In genere e per adversionem è pazzia separare meccanicamente il contrappunto dall’armonia, tanto più che si compenetrano così indissolubilmente da non permettere che si insegni ciascuno per sé, ma soltanto tutti e due insieme, cioè la musica, sempre che la si possa insegnare.
Anche Kretzschmar è d’accordo con me e dice che fin 52
dall’inizio bisogna tener conto della parte che la melodia ha nel sorgere di buone combinazioni.
La maggior parte delle dissonanze, dice, sono entrate nell’armonia piuttosto attraverso le melodie che attraverso combinazioni armoniche.
Se niente è possibile insegnare, (la musica non rappresenta per certo una eccezione!), che cosa ‘non’ deve essere la scuola?!
Ci si risponda con estrema sincerità e capiremo in che cosa davvero consista la scienza!
Chi abbia almeno una qualche esperienza della poesia epica, è consapevole pienamente che solo il nucleo del fatto (non contano estensione e complicazioni!) suggerisce ‘artifizi’, che agitino (commuovano!) l’intuizione.
Straordinariamente controcorrente Mann, che scopre ed afferma a chiare lettere che nella musica il nucleo sincretico ed epico sta nella melodia; per tanto solo da essa scaturisce il senso (valore!) dell’armonia e delle sue combinazioni, anche quelle ‘genialmente’ inarmoniche.
Messici dunque d’accordo, quel facchino mi fece vedere in due ore molte cose, conducendomi dappertutto: nella chiesa di san Paolo con gli stalli meravigliosi; alla chiesa di san Tommaso per via di Giovanni Sebastiano; e alla tomba di quest’ultimo nella chiesa di san Giovanni, dove vi è anche il monumento della Riforma.
A poco a poco si fece buio, si accesero i lumi, le vie rimasero deserte e io ero stanco e affamato.
Per ultimo chiedo alla guida una trattoria per andare a mangiare.
­Buona? ­ domanda lui e storce l’occhio.
­Buona!­ dico io ­Purché non molto cara!­ E quello mi conduce davanti a una casa, in una stradicciola dietro la via principale.
Adrian definisce nella lettera a Serenus l’iniziativa del facchino una ‘buffonata’; in vero, per rispetto della complessa e stuzzicante situazione, nella sua solerzia l’ospitale lipsiense, accompagnatore ‘plebeo’, non trascura alcun aspetto rilevante della visita cittadina, da quello religioso a quello estetico e, perché rinunciarvi, anche a quello ‘piccante’, convinto di interpretare nel modo più consono, quindi accontentare il suo ospite.
Il naïf popolare non esclude la pace dei sensi, ché anzi!
Nel prendere congedo a dovere concluso, cordiale ed arguto il facchino non manca di augurare ad Adrian ‘un buon appetito’.
La porta si apre da sé e nell’anticamera mi viene 53
incontro una dama agghindata, dalle guance color uva passa, un rosario di perle color cera sopra il suo grasso e mi saluta con gesti quasi pudichi, gorgheggiando e facendo la leziosa come mi avesse atteso da un pezzo; mi introduce in una stanza luminosa, dalle tappezzerie incorniciate, con un lampadario di cristallo e candelieri alle pareti davanti agli specchi e con divani di seta, sui quali ti trovi sedute sei o sette ninfe, figlie del deserto, non so come dire, egeridi, esmeralde, in scarse vesti trasparenti di tulle e garza e lustrini, capelli sciolti, mezzi globi incipriati, bracciali ai polsi, e ti guardano piene di aspettazione con gli occhi lustri per la luce del lampadario.
Cioè guardano me, non te!
Quell’accidente di uno Scheppfuss birraio mi ha condotto in un casotto!
Con l’avvento del facchino­birraio la ‘buffonata’ del linguaggio aulico e antico cessa; lo stile recupera l’immediatezza del presente; si fa concitato e conciso, sembrando, talvolta, soccombere al dato imprevisto, realismo completo.
Mi vedo davanti un pianoforte aperto, un amico, mi avvicino e senza sedermi tocco due o tre accordi, rammento benissimo quali, poiché la mia mente si occupava proprio di quel fenomeno sonoro: era la modulazione del si maggiore al do maggiore, lo stacco rischiarante di un semitono, come nella preghiera dell’eremita nel finale del Franco Cacciatore, all’entrata di timpano, tromba e oboi nell’accordo in do di quarta e sesta.
La volontà e vigilanza di Adrian non si sono per niente assopite; l’estraneità del luogo modula e domina il suo disagio fisico, lasciandogli intatte le facoltà riflessive; rimane incerto, poiché lo sfiora il sospetto che l’estraneità sia segretamente forzata dal forte desiderio del profanare.
La preghiera dell’eremita in un’opera profondamente demoniaca n’è il sintomo quasi sensibile; l’insidia alle volte, nonostante la presenza di persone in carne ed ossa, dipende ancora e soltanto dalla nostra immaginazione.
La prontezza, con cui Adrian (guardata con somma precisione la scena!) trascura le ninfe efemeridi e si getta sul pianoforte, esperendo passaggi sensibili dell’armonia, rivela il suo pieno controllo, quasi di tutto si fosse già reso cosciente: fundamentum culpae!
Allora mi viene vicino una brunetta in giubbetto 54
spagnolo, con la bocca larga, il naso schiacciato e gli occhi a mandorla, un’ esmeralda che col braccio mi accarezza una guancia.
Io mi volto, respingo lo sgabello col ginocchio e, ripercorrendo il tappeto, riattraverso l’inferno di voluttà, davanti alla ruffiana, raggiungo l’anticamera e scendo nella strada senza neanche toccare il passamano d’ottone.
La ‘buffonata’ si chiude con il rifiuto.
Rimane però appiccicato al giovane musicista quel brano carnale di oscurità, (impudicizia dell’anima!), che non può essere eliminato (bruciato!) col semplice e pudibondo evitare il passamano d’ottone, introibo ad altare diabolis.
Impudica non è l’audacissima etera, che sfida nei suoni la cruna per rompere il cerchio di fiamma, in cui Adrian se è chiuso, corazza d’acciaio, che spetta alla femmina rendere innocua; impudica è l’idea perversa (maestra la madre!) che il giovane musicista si è fatta del corpo.
*
Il romanticismo seppe emancipare la musica dal territorio di una specializzazione provinciale e meschina e metterla a contatto con l’ampio mondo dello spirito, col movimento intellettuale­artistico dell’epoca: cosa che non si dovrebbe dimenticare.
Tutto ciò promana dall’ultimo Beethoven e dalla sua polifonia e a me sembra molto significativo che gli avversari del romanticismo, vale a dire di un’arte che dal campo meramente musicale passa a quello universalmente spirituale, abbiano sempre avversato e deplorato la tarda evoluzione beethoviana. E’ un giudizio in termini generali condivisibile, benché finisca per non tener conto del valore artistico dei singoli compositori antichi; non c’è angustia di provincia che tenga, quando l’artista si esprime in totale armonia con quanto gli detta il suo dèmone.
Non si fanno nomi; ognuno li scelga in ragione delle proprie preferenze.
Suono molto Chopin e leggo opere su di lui. Mi piace l’aspetto angelico della sua figura, che mi rammenta lo Shelley; mi piace quello di singolare, di mestiziosamente velato che c’è nella sua esistenza, quella mancanza di avventura, quel sottrarsi, quel non volerne sapere, quel ripudiare ogni esperienza materiale, quella sublime interiorità della sua arte fantasticamente 55
delicata e seducente.
Dopo la ‘buffonata’ del facchino, l’angelicità di Chopin è una sorta di fuga­
recupero, neutro terreno, ove il sesso è bandito. In vero al musicista polacco non spiacevano le ‘esmeralde’; dall’ intimità con la donna gli venne quella sua particolare eleganza e vibratile intensità.
Non si dice con questo che Chopin fosse dolciastro, (stoltezza interpretativa da salotto borghese!), ma che era fortemente ispirato dalla grazia femminile, che nulla ha a che vedere con l’angelicità.
Già alla seconda lettura notai la stranezza che lo stile, la parodia e l’adattamento personale dell’antico linguaggio di Kumpf dura soltanto, finché è narrata quella avventura, mentre poi è abbandonato sbadatamente di modo che le ultime pagine ne perdono completamente il colore e sono scritte in linguaggio puramente moderno.
L’insistenza con cui Zeitblom segnala i due diversi stili della lettera di Adrian mettono in evidenza non solo la pedanteria dell’intermediario, ma, più, la volontà di Mann di far presente al lettore distratto che quel particolare e complesso linguaggio è frutto di grande fatica.
Si direbbe che il tono arcaico abbia raggiunto lo scopo non appena la storia del disgusto è sulla carta e sia abbandonata non tanto perché non conviene alle considerazioni finali, ma perché a cominciare dalla data era introdotto per narrarvi l’aneddoto che in tal modo viene collocato entro l’atmosfera adeguata. E quale sarebbe? Lo voglio dire, per quanto la definizione che ho in mente sembri poco applicabile a una farsa: la sfera religiosa.
Per suggestione, suggerita dal richiamo (sia pure libresco!) di una condizione analoga, dirò che accade ad Adrian quanto già accadde anche a Kant; se il pietismo materno dettò, dai meandri emergendo di una coscienza altamente turbata, al filosofo lo stratagemma ‘etico’, che ristabilì scaltramente il contatto col dio della genitrice, contatto, che l’apriorismo delle categorie categoricamente escludeva, una simile atmosfera impone al giovane musicista il travestimento farsesco, quasi a cancellare ogni vestigia della ‘buffonata’. L’errore di Leverkühn (incolpevole quanto può esserlo una vittima della seduzione!) è di avere cangiato un accadimento minimo in parodia satanica, non accorgendosi che l’inferno della voluttà è una forzatura 56
(schifiltosità!) ninfale, da cui nello sviluppo dei temi fantastici non è alieno lo stesso Chopin.
Zeitblom, naturalmente, se la prende con il facchino; ma l’unico ‘torto’ di costui è di non aver mai fatto confusione tra l‘esultanza della carne e il castigo infernale; quand’anche condividesse per costume che simili delizie conducono al gelo di fiamme del corpulento Lucifero, credenza inscrutabile e assurda, non ne faceva un problema di cruccio teologico; la sua vita già grama non aveva bisogno di pesi ulteriori; giustamente pensava a quanto avrebbe potuto accadergli ‘nei giorni dell’ira’ terrena. Per quanto possa sembrare strano in considerazione della nostra vecchia amicizia, l’argomento del sesso, dell’amore e della carne non era mai stato toccato nelle conversazioni in qualche modo personali ed intime; mai altrimenti che per il tramite dell’arte e della letteratura a proposito di manifestazioni passionali nell’ambito dello spirito, questo fatto aveva partecipato al nostro scambio di idee e in tal caso Adrian aveva sempre espresso nozioni oggettive, che lasciavano completamente da parte la sua persona.
Come avrebbe potuto uno spirito come il suo non includere anche questo elemento?
Tra amici l’atteggiamento nei confronti del sesso e dei rapporti ‘ninfali’ rimane circoscritto nella severità, cui ripugna ogni scalpito men che pudico, poiché si teme ‘vicendevolmente’ di offendere la parte più intima, zona di totale riservatezza, spazio giudicato troppo prezioso per essere minimamente offuscato da espressioni o argomenti men che schietti. A Halle, nel circolo Winfried era stato abbastanza al sicuro da siffatti attacchi contro la sua sensibilità; la decenza spirituale, almeno delle parole, li teneva lontani. Non so come quei giovani teologi, presi per sé, si comportassero in realtà, non so se si risparmiassero fisicamente per la vita coniugale cristiana.
Quando la sessualità è esclusa quale tema di indagine e di riflessione, si tratta di scelta ‘religiosa­ideologica’, (una sorta di finezza contro la presunta volgarità del corpo nel coito!) e può trasformarsi in insidia proprio per quelli che se ne vantano, credendosi completamente estranei.
Il risparmio ‘fisico’ del sesso in vista della ‘castità’ coniugale, (per altro impedita ai preti cattolici!), è odiosa e antipatica come i ‘fioretti’ alla 57
Madre di Cristo nelle comunità conventuali.
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In quanto a me confesso senz’altro di aver assaggiato il pomo e per sette o otto mesi ebbi relazione con una ragazza del popolo, la figlia di un bottaio, relazione che mi era difficile tener nascosta ad Adrian e che dopo quel periodo troncai con bella maniera, poiché la mancanza di cultura del soggetto mi infastidiva e tra noi non avevamo altro da dirci se non una cosa sola. Spiccio il saggio Serenus!
La figlia del bottaio è una buona occasione per esperire il peccato e recuperare la serenità delle belle maniere. Come ci rimase la stolida incolta?! Non vale la pena parlarne!
Ma proprio questo, il divertimento spiritoso, com’io almeno, sia pure scolasticamente lo intendevo, esulava in tutto dall’atteggiamento di Adrian verso l’oggetto in questione. Non vorrei parlare di pastoie cristiane, né applicare la definizione un po’ bigottamente medioevale di Kaisersarchern. Questa terrebbe troppo poco conto della varietà e non sarebbe stata sufficiente a suscitare l’amoroso riguardo e l’odio per ogni possibile attesa che il suo atteggiamento mi ispirava. Ciò, che Serenus non riuscirà mai a capire di Adrian è l’unicità ‘materiale’ della sua sensibilità ‘spirituale’. Leverkühn non si abbasserà mai a considerare un elemento, per quanto elegante o sublime, superiore a qualche altro, ad esempio, l’anima sopra la carne, il nobile sopra il plebeo; in lui il ‘sinolo’ (duplicazione esteriore!) non esiste, se non come dialettica espressiva, come descrizione di fatti esistenziali inscindibili.
Incapace di cogliere questo aspetto solidamente ‘laico’, (a­teologico!), Zeitblom sarà costretto a dire che nature come quella di Adrian posseggono poca ‘anima’! A causa di questo errore speculativo Serenus si agita fuori misura per l’episodio del bordello; assiste con il terrore che la perduta (pel sesso troppo seriamente vissuto!) capacità di mediazione (lo spirito sopra le acque tumultuose di una carnalità di dosaggio!) trascini l’amico nella perigliosa tirannia della carne.
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Se c’è un aspetto tragico nella sensibilità di Adrian, lo si deve invenire nella schifiltosità, da Elsbeth trasmessagli; essa ne ha minato irreparabilmente l’interna struttura. Adrian trasente d’istinto (giudizio non suo, ma del Super­Io materno!) l’orrore della violazione del ‘sinolo’ proprio nell’istante, (occasione ferace!), in cui sente di non esserne schiavo; la paura della legge mosaico­
cristiana gli è inflitta dallo sguardo dolcissimo di lei, che lo incatena. (Ahi, madre, perché non possiedi la scioltezza carnale di Hanne?!)
Zeitblom conclude: Vedevo accanto a lui la ragazza dal naso schiacciato –
Haetera Esmeralda –che gli accarezzava la guancia con il braccio nudo. Avevo una gran voglia di allontanare da lui la strega col ginocchio, come egli aveva respinto lo sgabello per raggiungere l’uscita e la libertà.
Haetera Esmeralda non è la figlia del bottaio, poiché Adrian non è un umanista borghese, che liquida le proprie avventure e le giustifica in ragione della propria superiore cultura. La sua libertà sarà insidiata non dalla meretrice gentile, ma dal ricordo della madre e dalle apprensioni assai sciape di Zeitblom. Sentite come se la cava il cialtrone:
Che fino allora egli non avesse toccato una donna era ed è mia incrollabile certezza. Ora la donna aveva toccato lui ed era fuggito. La superbia dello spirito aveva subìto il trauma dell’incontro dell’istinto privo di anima. Adrian doveva tornare nel luogo, dove l’imbroglione lo aveva condotto.
Chi non vede che l’umanista si sta vendicando, inconsciamente invidioso dell’ altezzosità di Adrian?!
Come non avvertire nella ‘preveggenza’ di Serenus, che goliardicamente aveva assaporato il pomo nella carne di una abietta figlia di bottaio, una sorta di segreto compiacimento: anche tu sei uomo e sarai divorato dal fuoco della tua stessa ritrosia puritana, dalla tua stessa polvere?!
Nei versetti quaresimali questa cattiveria per le creature è brutalmente presente.
Zeitblom nella sostanza è un ipocrita e Mann se ne serve per lasciare in 59
bilico le ragioni reali del sovvertimento spirituale di Adrian.
Egli comprime, imbavaglia il suo ‘retore­sosia’ con una serie di luoghi comuni, che sembrano tutto (in ispecie!) spiegare, mentre di fatto lasciano intatto il segreto profondo di una coscienza, dalla struttura politica offesa. (Non si dimentichi che fa parte della ‘politica’ in primis l’educazione materna!)
Per istinto musicale e per convinzioni il Maestro e il discepolo erano in fondo lontani; infatti nell’arte avviene quasi necessariamente che il principiante debba contare sulla guida di un maestro che sa il mestiere, ma appartiene alla generazione precedente. Ed è bene se questi indovina e comprende le recondite tendenze dei giovani, se tutt’al più li mette in ridicolo, ma si guarda bene dall’ostacolarne lo sviluppo. Kretzschmar, ad esempio, nutriva la tacita ed ovvia convinzione che la musica abbia trovato definitamente la sua forma più alta e la sua massima efficienza nella composizione orchestrale, mentre Adrian non ci credeva più.
Per la verità Adrian, dentro la cura musicale di Hanne, non aveva mai espresso inclinazioni orchestrali, ma strettamente armonico­vocali.
Il titanismo romantico (l’eroe, l’orchestra e la lirica tesi a coinvolgere il cosmo nel ‘cuore’!) finisce per rivelarsi un angusto enfatismo. La densità è meglio espressa, talvolta, con la rarefazione, con la linea asciutta e controllata del canto, nei lampi sintetici delle singole ‘voci’.
Non per questo lo studio dell’orchestrazione sotto la guida di Kretzschmar fu per lui meno impegnativo; era infatti d’accordo con quest’ultimo che si debba saper dominare le conquiste già fatte anche se non si considerano più come essenziali; e una volta mi disse che il compositore il quale, sazio dell’impressionismo orchestrale, non impari più la strumentazione, gli faceva l’effetto di quel dentista che non studia più il modo di curare le radici e torna indietro a fare il cavadenti, perché si è scoperto che i denti morti possono provocare il reumatismo articolare.
Il paragone è illuminante; Adrian considera l’arte (è proprio dei semplici l’acume dell’unicità!) una delle molteplici funzioni dell’esistenza; egli guarda con assoluta indifferenza a tutto ciò, che non comprende (quindi non rispetta!) questa naturale ‘ovvietà’.
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Per me quelle ‘Luci sul mare’ (prima opera di Adrian) dai suoni oscillanti erano un esempio insigne di come un artista possa impegnare la sua parte migliore in una causa nella quale non crede più nell’intimo del cuore, pur insistendo ad eccellere in mezzi artistici che, secondo la sua coscienza, stanno già per consumarsi.
­E’ un’aperta cura di radici. Per l’allargamento di streptococchi non assumo alcuna responsabilità!­
In realtà la parodia era l’orgoglioso sgambetto alla sterilità con cui lo scetticismo e il pudore spirituale, la sensibilità per il mortifero diffondersi della banalità, minacciano i grandi ingegni
Mai si chiedono i chierici perché tanto esercizio specializzato produca una tale voragine d’arido vuoto.
Il ‘banale’ è il lezzo, che lascia alle spalle l’eredità ‘padronale’, affinché il genio ‘naturale’ sia sempre deluso e scelga di restare naïf, (con quanto di compatimento vi si accompagna!), se proprio non vuole cedere alle forti lusinghe del pieno successo, sia pure con mezzi ‘banali’ ottenuto.
Il conflitto quasi inconciliabile tra l’ambizione e lo slancio produttivo del genio innato, fra la castità e la passione, è precisamente l’ingenuità in cui vive questo genere di artisti, il terreno per la crescita difficile e caratteristica delle opere e l’inconsapevole sforzo d’imprimere all’ingegno l’impulso produttivo, la necessaria e sia pur minima preponderanza sugli ostacoli dell’ironia, della superbia e del pudore intellettuale.
Sfugge al biografo di Adrian che l’ingenuità preesiste al brusco incontro con le contraddizioni, che sono la ‘benevola’ accoglienza del Clan ottimate.
Il naïf naturale (a tutti elargito!) esclude da sùbito dalla ingenuità il sordidume del calcolo; si tratta infatti di impronta tenace e del tutto scoperta.
Comunque ci allieta che questa incidenza, sia pure alterata da analisi, che rischiano di affogarla, faccia parte del patrimonio mentale dell’umanista. Egli affida alla forma la sintesi del contrappunto; ma la forma non ne è la premessa, l’origine, ma il risultato. L’ossessione umanistico­borghese impedisce la giusta nozione non già delle cose, dei fatti e dei rapporti, ma la consapevolezza che la ‘bellezza’ è 61
anteriore alla forma. Chi abbia della virtù singolare (coscienza del limite!) il polso, capisce che le riflessioni suddette non sono affatto opera di un qualche livore critico, ma fanno parte della coscienza vigile di un ‘ruvido’.
Ho l’impressione che dovrei invocare Apollo e le Muse perché mi suggeriscano le parole più pure e più riguardose, quando narrerò il fatto, riguardose per il lettore sensibile, riguardose per la memoria del defunto amico, riguardose infine per me stesso, che sento questo racconto come una grande confessione personale.
Mann sa di avere imboccato l’erta dell’epica; per questo sente il bisogno di una grande cautela nella scelta del canone. Il fatto centrale, che ben definisce il soggetto, (l’archetipo!), deve prendere la forma di uno stagno, ove ciascuno possa riflettere il suo momento, quale sia il motivo, per cui vi si specchia.
Ho detto che Adrian ritornò nel luogo, dove era stato trascinato da un cinico emissario; ora si vede che ciò non avvenne molto presto; anzi per un anno intero l’orgoglio dello spirito tenne testa alla ferita ricevuta ed io ho sempre trovato una specie di conforto nel fatto che, soccombendo al puro appetito che malignamente lo aveva toccato, egli non era privo di ogni velame spirituale e di ogni nobilitazione umana, velame e nobilitazione che scorgo in ogni sua pur cruda fissazione della concupiscenza su un oggetto determinato e individuale. Una punta di catarsi amorosa è innegabile non appena l’appetito assuma un volto umano, sia pure il più anonimo, il più spregevole.
Il tentativo (volontà forsennata!) di tenere Adrian lontano dalla concupiscenza risale al rifiuto materno di farsi a lui tenera con l’esercizio canoro; siamo davanti ad un ritegno eccentrico; Elsbeth considera ‘quel’ figlio troppo prezioso per vederselo uscire da sé per un canone, (ahi, l’insidia!), che le è proprio, cioè un senso del pudore, direi, irrazionale. In concreto è un egoismo, sia pure inconscio, che Zeitblom scambia per delicatezza o schizzinosità dello spirito; da questa trasposizione deriva il farneticare tipicamente cristiano­borghese di una carnalità, scatenante l’istinto, quale sia il ‘cesso’, che accoglie; sciapa astrazione del clan degli eletti!
Ha molto più rispetto per il musicista, turista novello, (anonimo simile! È 62
il culto soltanto, che giudica calvo assoluto di stimoli l’altro per lui sconosciuto!), il ‘cinico’ burlone (‘emissario’ di chi?!) di tutta la tribù degli amici, parenti e maestri.
Adrian ritornò infatti in quel luogo per amore di una determinata persona, di quella persona il cui contatto gli bruciava la guancia, di quella brunetta in giacchettina e dalla bocca larga che gli si era avvicinata presso il pianoforte e che egli aveva chiamato Esmeralda. Di lei era andato in cerca in quel luogo e non la trovò più.
Il motivo, per cui Aethera Esmeralda aveva (lei, non altre!) avvicinato lo sconcertato e sconcertante cliente, avrebbe potuto essere ritenuto frutto del caso, se non proprio una sollecitazione della stessa mezzana; eppure per Adrian quell’accostarsi di lei, di quella precisa figura, diventa un fatto imprescindibile, una potenzialità realizzata. Che quella ‘brunetta’ avesse sfidato la sua schifiltosità, il suo dèmone di vergine monco, leggera e spontanea alla pari di Hanne, la stalliera, che aveva sostituito la madre nel trasmettergli gioia e vigore, era un ‘segno’ inconfondibile.
Esmeralda per circa un anno (una serie interminabile di giorni e di notti!) va sempre più trasformandosi nell’archetipo di una nuova presenza, che irride, non tiene alcun conto dell’acre, inumana alterigia di chi non si vuole sporcare, e per questo rifiuta di immergere le mani e la bocca nel Codice della natura. Adrian è là richiamato, al bordello, da questa per lui prodigiosa giovenca.
Se ci sarà una ferita, essa sarà provocata dalla sua superba pudicizia, reticolo, dove si specchia l’ossessiva purità di Elsbeth.
Non ci si dimentichi che nei canoni della scienza teologica la superbia è peccato dello spirito, spazio lasciato a Lucifero, quello (serpente!) dell’Eden, non quella mostruosa escrescenza carnale, che occlude la porta d’uscita dall’orrido inferno dantesco.
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La fissazione, per quanto gravida di sciagure, fece sì che egli abbandonasse quel posto dopo la seconda e volontaria visita, così come lo aveva abbandonato dopo la prima involontaria, ma non senza essersi informato del soggiorno della donna, che lo aveva toccato.
L’ossessione del tatto (elemento per natura sincretico!) è da Zeitblom sottolineata più volte, (toccato!), quasi a marcare la ‘sciagurata’ ritrosia dell’amico, ritrosia, per altro, non sufficiente a tenerlo lontano dalla persona per lui, figlio di Elsbeth, più pericolosa!
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Adrian ottiene nel bordello l’indirizzo di Esmeralda; essa si trova a Graz, capitale della Stiria; colà egli si recherà, richiamatovi dall’audizione della ‘Salomè’, diretta dall’autore; in ‘Salomè’ la violenza del tatto è ‘goduta’ sino al delitto.
In una casa laggiù, infatti, era stata sbattuta colei della quale egli portava con sé il contatto, dato che ella aveva dovuto abbandonare il posto precedente per una cura ospedaliera; e nella nuova dimora il perseguitato riuscì a trovarla.
Per la verità il ‘persecutore’ è Adrian; Esmeralda, come donna e come meretrice, è costretta dove la professione (mercimonio del corpo!) la pone.
Non saremmo poi troppo lontani dal vero concludessimo che la crescente freddezza di Leverkühn per Serenus sia provocata dal sospetto che per essergli ad ogni costo favorevole (ahi, le sue giustificazioni!) questi sia disposto, al pari della madre, a falsificare i fatti.
Dalle labbra di Adrian ella seppe che quel viaggio egli lo aveva fatto apposta per lei, e gliene fu grata, invitandolo a guardarsi dal suo corpo. Lo so da parte di Adrian: essa lo invitò a stare in guardia. La sventurata prevenne l’uomo che la voleva, compiendo un atto di libera elevazione spirituale, al di sopra della sua pietosa esistenza fisica, un atto di distacco umano, un atto di commozione di, mi sia concessa la parola, amore.
Questa è la creatura, che per pregiudizio di casta (sei tu l’insolente, umanista!) è stata insultata ‘spregevole’.
Quanto, però, è veramente insopportabile di tutto l’episodio è l’aura di intangibilità, che circonda Adrian, incolpevole in virtù delle prevenzioni materne; potremmo concludere che proprio l’esasperazione per queste cure spinse Adrian a consumare con la giovane ‘malata’ recalcitrante il ‘delitto’ della copula.
La temerarietà del musicista si trasformerà presto nella sfida a ‘Dio’ con lo stravolgimento demoniaco degli affetti e del genio.
La misera deve essersi sentita purificata, giustificata, sollevata e veramente felice per il fatto che l’uomo venuto da lontano rifiutò, a qualunque rischio, di rinunciare a lei; e pare che abbia chiamato a raccolta 64
tutte le dolcezze della sua femminilità per ricompensarlo di ciò che rischiava per lei.
Era provveduto a che egli non la dimenticasse; ma anche per attaccamento, lui, pur non avendola più riveduta, non la dimenticò. E il suo nome, quel nome che egli le aveva dato sin dall’inizio, guizza come un misterioso geroglifico, non avvertito da nessuno, se non da me, attraverso le sue opere. Ora quella cifra sonora: si, mi, la, do, la bemolle significa Esmeralda.
Nel rapporto tra due creature la pari dignità è essenziale, al di fuori delle singole doti; ed è quanto avviene tra Esmeralda ed Adrian. Le differenze riemergono post factum, quando riprende vigore l’insolenza del confronto, che le sacre istituzioni (incapaci, per altro, di far dimenticare al campione ed artista di essersi ‘divertito’!) impongono.
Saremmo anche ingiusti se addebitassimo solo all’umanista per bene Zeitblom la sottovalutazione di Esmeralda; egli almeno, sia pure con sforzo, la sa apprezzare per la potenziale (non accettata!) generosità.
Il rivoluzionario fortunato, audace e conciliante! Mai avanguardismo e sicurezza del successo si sono uniti con maggiore confidenza!
Non mancano gli affronti e le dissonanze e poi quella bonaria condiscendenza che fa la pace col timorato di Dio e gli fa capire che, in fondo, la cosa non è poi tanto grave.
Questo è il giudizio, che Mann mette sulla bocca di Adrian, per definire gli effetti sul pubblico della ‘Salomè’ del ‘maturo’ Richard Strauss.
La tolleranza non è virtù rivoluzionaria, al più è di natura goliardica.
D’altra parte Strauss pagherà con quasi un quarantennio di conformismo quella ‘scaltrezza’.
Cinque mesi dopo la ripresa dei suoi studi musicali e filosofici un’afflizione locale lo costrinse a consultare un medico.
Entrambi i medici, da Adrian consultati, riveleranno dei tratti demoniaci.
Il primo, Erasmi, corpulento e grasso, sarà ritrovato cadavere in una situazione inimmaginabile; l’altro, Zimbolist, un omino con gli occhiali di corno e un paio di baffetti, sarà preso in custodia da sbirri davanti 65
all’esterrefatto Adrian, che si apprestava a farsi visitare per la terza volta.
Inizia in questo modo lo strano calvario psichico di Leverkühn.
Zimbolist è con certezza la caricatura di Hitler; sventura per l’umanità che a costui sia stato risparmiato un arresto, che avrebbe salvato la Germania e il mondo intero!
Adrian cercherà caparbiamente la più dissacrante e infernale espiazione per vendicarsi (autotortura!) di aver conosciuto fisicamente l’estranea.
Fatto sta che, quasi spaventato, non riprese più la cura, non si risolse a un terzo medico, tanto più che l’afflizione locale in breve guarì, senza cure ulteriori, scomparendo del tutto e non si verificò assolutamente alcun sintomo secondario manifesto.
Con ‘manifesto’ Zeitblom mette avanti le mani, inoculandoci il sospetto di una affezione d’altro genere non visibile, misteriosa, esoterica, sospetto avvalorato dalla circostanza che nella casa di Kretzschmar, mentre presentava al maestro uno studio di composizione, una violenta vertigine lo costrinse a sedersi. Questa si trasformò in un’emicrania che gli durò due giorni e si distinse dai precedenti attacchi di quest’incomodo tutt’al più per l’intensità.
*
Era seduto alla scrivania, una scrivania all’antica col coperchio avvolgibile e con uno stipo sovrapposto e stava scrivendo musica. ­Olé–disse, senza alzare gli occhi­ parleremo tra un momento.­ E continuò il suo lavoro per alcuni minuti, lasciandomi libero di stare in piedi o di accomodarmi. Non bisogna fraintendere il suo modo di comportarsi e io infatti non lo fraintesi. Era una prova di antica e sincera intimità, di una convivenza che quell’anno di separazione non aveva potuto intaccare; era come se ci fossimo staccati la sera precedente.
Zeitblom ha ragione, se si considera la situazione per sommi capi; però le occupazioni del momento di Adrian, (sta componendo musica!) gli fanno scordare di essere stato destinatario di una lettera intima e delicata e che quindi, rivedendolo, l’amico necessariamente è colto da un certo disagio, se proprio non da vergogna. 66
La pausa, quindi, non è solo la conseguenza di una lunga assuetudine, ma comprende anche il desiderio di Adrian di saggiare quanto delle sue confidenze ha segnato lo spirito dell’amico.
Quando si deciderà a parlargli, dopo di avere avvitato la stilografica, fingerà ancora di non osservarlo con attenzione.
­Vieni in buon punto –disse sedendosi dall’altra parte – Il quartetto Schaffgohe suona stasera l’opera 132. Non mancherai, naturalmente!­
E si mise a parlare delle tonalità ecclesiastiche e del sistema tonale tolemaico, cioè del sistema ‘naturale’ in cui i diversi caratteri sonori furono dall’intonazione temperata, vale a dire errata, ridotti a due, cioè il maggiore e il minore. Parlò poi della superiorità di modulazione, che ha la scala giusta sopra quella temperata; definì quest’ultima un compromesso per l’uso comune, ma non dobbiamo illuderci che la transazione debba valere per l’eternità.
L’accostamento del sistema tonale temperato alle geometrie celesti di Tolomeo è genialmente bizzarro; la visione di Tolomeo era sbagliata ‘fisicamente’ e ha reso ancor più pesante la condizione del servo sotto il tallone del Prìncipe, immobilità e insostituibilità a lui congeniali; la scala musicale temperata ha certamente limitato le possibilità (completezza del desiderio!) creative, ma ha collaborato ad educare i sensi con una straordinaria finezza armonica; qui siamo nell’ àmbito delle opportunità artistiche, là viviamo nella falsità di una teoria astronomica del tutto sbagliata e per la psicologia dell’uomo nefasta. ­Devi vedere presto Kretzschmar! Dove abiti?­ Gli risposi che per quella sera avrei preso una camera d’albergo e il giorno seguente avrei cercato una soluzione adatta.
­Capisco –disse­ che tu non mi abbia incaricato di cercarti un alloggio. Sono cose che non si possono affidare ad altri. Per parte mia­ aggiunse­ ho già avvertito quelli del Caffè Central che saresti arrivato. Devo farteli conoscere al più presto!­
Adrian è in vena di continue ‘bizzarrie’; per quale ragione non ci si dovrebbe dar da fare per trovare una buona sistemazione ad un amico?! Potremmo, ad esempio, evitargli di imbattersi in un facchino burlone!
Adrian è già vittima del sortilegio; egli si è dimostrato incapace di 67
costringere al suo limite l’occasione, solo in ispecie sciagurata.
Schildknapp, il poeta e traduttore, aggiunse, era quello che più gli piaceva. Ma aveva questo di singolare che, per una specie di presunzione della propria superiorità, non era più lui appena si accorgeva che uno aveva bisogno del suo aiuto, che voleva chiedergli qualche cosa o impegnarlo in qualche cosa. Era dotato di uno spirito di indipendenza molto forte o forse, meglio, piuttosto debole; ma simpatico e divertente e quanto a quattrini così stecchito che non gli era facile tirare avanti.
Sarà una coincidenza, ma nelle opere di Mann gli artisti di ‘mezza tacca’ sono sempre squattrinati; l’impronta della classe d’origine tracima aldilà delle intenzioni.
Adrian Leverkühn, libero per semplicità emblematica (è qui che si svela il poeta!) dagli umori del suo ideatore, si fa amico e familiare di Schildknapp per rafforzargli il senso di indipendenza, in modo che non gli risulti tale solo a parole.
Adrian da Dante aveva scelto quella terribilmente aspra sequenza di versi, dove si parla della dannazione degli innocenti e degli ignari e dove si chiedono spiegazioni all’incomprensibile giustizia che manda all’inferno i buoni e i puri, quando non siano battezzati e quando la fede non li abbia raggiunti. Egli aveva osato mettere in musica la tonante risposta che annuncia l’impotenza del Bene Creatore davanti al Bene in se stesso. Io mi ribellavo a questa negazione dell’umano a favore di una predestinazione inaccessibile e assoluta e ricordo che me la prendevo con Adrian deciso a mettere in musica quell’episodio così poco sopportabile. Proprio in quell’occasione incontrai quello sguardo che non avevo mai conosciuto in lui. Quello sguardo che gli divenne caratteristico, anche se non appariva spesso; era di fatto una cosa nuova: era uno sguardo muto, velato, allontanante fino ad essere inflessibile, e nello stesso tempo pensoso e tristemente freddo, che terminava in un sorriso, non sgarbato e tuttavia ironico, delle labbra chiuse.
Seguendo le proprie inclinazioni di casta, (non temperate neppure dal limite storico d’ogni struttura, anche quella supergenetica qual è pel 68
borghese la ipernazionalità!), l’autore (non Zeitblom!) rischia di non contenere stilisticamente i motivi, che sono la carne dell’eroe. Nell’epica non accade, poiché il ritmo costante costringe a maggior sobrietà!
A spiegare lo sguardo nuovo (‘demonico’!) non bastano le categorie interpretative dell’umanista tedesco Zeitblom; eppure Mann vi ricorre, riuscendo (il senso di ‘angusto’ è sostanzialmente falso!) a comunicarci l’angoscia per gli esiti ‘infernali’ di una dannata stagione patriottica, che, pur continuando a giudicare valida, benché atrocemente aberrante, (“intimismo all’ombra del potere!” sua straordinariamente efficace espressione, che ho letto in un saggio di Lukasc!), farà demolire attraverso l’opera musicale di Adrian, capace di superare il sistema ‘tolemaico’ della Germania guglielmina e prussiana.
Per restare nell’ambito caro al buon Serenus, osserviamo che il suo rifiuto delle audacie ‘teologiche’ di Adrian, intenzionato a risolvere in suoni il Mistero scandaloso di un Creatore, che smentisce la sua stessa Bontà per fedeltà alla feroce severità, (stravaganza gesuitica, direbbe l’umanista, tutore di Hans Castorp!), dannando innocenti pel solo fatto di non essere stati battezzati e di non avere incontrato la vera Fede, discende dal modo puramente intellettuale di vivere le ingiustizie sociali e strutturali; ci si scandalizza del cristianesimo agostiniano, perché condanna ‘teologicamente’ all’inferno i bambini, ma non si muove un dito, perché l’infanzia non sia divorata dall’inferno industriale e dai tetri interessi capitalistici.
Ha, come sempre, ragione il suo eroe, meglio confondere le ossessioni fideiche col sarcasmo, agitare il lor putrido stagno e farne venire a galla i serpenti.
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Come la musica possa essere dapprima parola, possa essere pensata e progettata prima come parola, egli intendeva dimostrarmi mediante il fatto che Beethoven era stato osservato mentre componeva a parole. ­Che cosa annota nel taccuino?­ avevano domandato. – Compongo musica!­ ­Ma scrive parole e non note!­ Sì, questa era la sua musica; di solito segnava con parole il filo ideale di una composizione, inserendovi solo alcune note.
Kierkegaard non aveva molta simpatia per la musica ‘sublime’, a­vocale, in 69
quanto, essa pretendeva di poter fare a meno delle parole; Wagner, invece, era certo che da sempre la musica tedesca tendesse al dramma musicale.
Oggi, altra versione, si tende a considerare la musica per le sue strutture matematiche e fisiche, con attenzione particolare agli armonici; insiste in alcune di queste posizioni (lo diciamo da ‘esperti’ auditori della musica del ferro negli opifici, ove ancora operavano scalpitando le ‘berte’!) un abbaglio sfrenato: la furia del ritmo, costretta nelle percussioni! Non sanno questi auto referenti innovatori che nei geroglifici algebrici (metteteci i segni e sarete augusti alla pari del dio dei cosmici raggi!) lo scambio è la schiuma di un verbo oscurissimo, in quanto costretto a nascondersi. Mi parlò con entusiasmo del soggetto (Pene d’amor perdute) che gli offriva l’occasione di porre la balordaggine naturale accanto alla sublimità comica e renderle ridicole l’una nell’altra.
Mi citò in inglese versi della commedia, che lo avevano evidentemente colpito nel profondo del cuore. La disperazione dello spiritoso Biron, innamorato e tradito con le pallottole di pece al posto degli occhi, condannato per un anno a smoccolare le sue spiritosaggini, al capezzale dei malati lamentosi e la sua esclamazione: non è possibile! L’allegria non può commuovere un’anima agonizzante.
Sostenne come i due versi nei quali è detto che nessun sangue giovanile può avvampare con tanto fervore quanto la gravità che si volge in lascivia potevano sorgere ­disse­ soltanto sulle vette geniali della poesia.
In Shakespeare la conclusione della comicità quale parabola per moribondi deriva dal prevalere (sul momento!) dell’umore, situazione, in cui è possibile che la cupidine nuda (lascivia!) trasformi in fuoco d’artificio la severità dell’intesa.
L’anziano (e non contano tanto gli anni quanto la convinzione di avere superato il corno della maturità!), che liquida la compostezza per concedersi intero all’amore (turgore!) sessuale, raggiunge intensioni (il fremito ironico, che la passione intensifica e radica senza temere più l’erpice!) che il giovanotto, immaturo per essere sapido, neppure sospetta.
Per Adrian l’insidia, nascosta in queste predilezioni (egli la ‘lascivia’ ha scambiato per tabe della bella ed infetta Esmeralda!), è che quanto per 70
Shakespeare è momento umorale, diventi per lui il continuum. Io ero felice della sua ammirazione, del suo amore, benché la scelta del soggetto non mi garbasse molto e fossi sempre dolorosamente colpito dalle beffe lanciate contro le aberrazioni dell’umanesimo, che finiscono per trascinare nel ridicolo la causa stessa.
Zeitblom non si chiede perché l’umanesimo a volte diventi aberrante; se riuscisse a chiederselo, anche per lui la beffa diverrebbe l’unico strumento per non farsene inglobare.
Ma tutto ciò non mi impedì di preparargli in seguito il libretto.
Cercai però con tutte le forze di levargli di mente il suo strano e tutt’altro che pratico proponimento di mettere in musica la commedia nel suo testo inglese. Non accettò l’obiezione principale che, adottando un testo in lingua inglese, si precludeva ogni possibilità di veder rappresentata l’opera nei teatri tedeschi e non l’accettò perché in genere si rifiutava di immaginare un pubblico contemporaneo intento ad ascoltare i suoi sogni eccentrici e buffi.
Intuizione ‘assoluta’, che è parte intima del forgiatore di ‘immagini’; il pubblico, (l’altro, ogni altro!) cui si rivolge, all’artista per solito appare non ‘corrotto’ da consuetudini o linguaggi limitanti; non si tratta, come potrebbe sembrare ad una riflessione superficiale, di alterigia, ché, anzi, rivela che l’altro (il pubblico socialmente neutro!) è ritenuto capace di sintesi proprie, sempre pronto a cambiare senza remore e prontamente la pelle sensibile, quando la metamorfosi estetica risulti necessaria alla piena comprensione delle novità ‘sensate’.
Zeitblom definisce questa idea di pubblico ‘barocca’ e la fa discendere dalla natura di Adrian, zuppa di provincialismo tedesco, venata da accenti cosmopoliti; gli sfugge che l’amico è artista talmente penetrato dai problemi ritmici che giudica immatura ogni ipotesi di comunicazione, che non sia in tutto a lui omogenea; in Adrian i sotterfugi tardo­romantici non hanno più presa e la sua arte tende all’impersonale (l’anonimo omerico e il popolare shakespeariano!).
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Quanto alle strane poesie di Blake, aveva messo in musica i raccapriccianti sedici versi ‘Poison tree’ dove il poeta annaffia di lacrime la sua collezione e la illumina 71
di sorrisi e di perfide astuzie, di modo che l’albero produca una mela allettante con la quale il ladro nemico si avvelena; al mattino con grande gioia dell’avversario lo si trova morto ai piedi dell’albero. Solo una concezione mistica del peccato può suggerire sì raffinata crudeltà; non sono, d’altra parte, qualitativamente differenti gli impulsi di generosità, che la stessa religione del peccato alle volte alimenta.
Che teatro di prova reale può avere la solidarietà, se è sottoposta ai capricci della vendetta divina?!
Ma un’impressione ancor più profonda mi fece fin dalla prima volta che la udii una canzone su testo di Blake, che sogna una cappella d’oro davanti alla quale vi sono uomini in pianto, in lutto, in preghiera e non osano entrarvi: ed ecco sorgere l’immagine di un serpente, che con fatica tenace riesce a penetrare nel Santuario e, trascinando il lungo corpo viscido sul prezioso pavimento, raggiunge l’altare dove sputa il suo veleno sul pane e sul vino.
­In seguito a ciò ­procede il poeta con logica disperata­ mi recai in un porcile e mi coricai in mezzo ai maiali.­
Adrian è sollecitato a ‘sonorizzare’ tali assurdità da un demonismo (il serpente!) paradossale e negativo, nel senso, che Settembrini dà a questo attributo.
Solo quando si è in stato di rivolta contro l’abbondanza vomitevole del sacro, ci si inventa in sogno un tempio d’oro, alle cui soglie si costringono fratelli in lutto, (situazione da neghittosi!) e dove è possibile entrare soltanto per una misera cruna, la cruna, trovata da audace serpente (l’audace, che il Giudice irride, lordandone i simboli con la sua viscida bava!) e, a misfatto compiuto, ci si allontana sino a finire, fratello ai maiali, nel brago, punendosi per non avere salvato dall’orrido l’uomo, che il serpente (audace!) aveva già un tempo prosciolto dal ragno dell’Eden.
Nato in un città della media Slesia, Schildknapp era figlio di un impiegato postale, la cui posizione era un po’ più che subalterna, ma senza arrivare al superiore servizio amministrativo, riservato ai laureati, alla sfera dei Commendatori. Questa la carriera di Schildknapp il vecchio: e come uomo di buona educazione e di belle maniere, non senza ambizioni sociali, mentre la gerarchia sociale lo escludeva dai circoli superiori della città e se, per 72
eccezione, lo accettava, gli faceva subire continue umiliazioni, egli era malcontento della sua sorte. Era un uomo acido, un piagnone, che col cattivo umore faceva scontare alla famiglia la sbagliata organizzazione della vita.
Lo scacco esistenziale del vecchio Schildknapp non dipende tanto dal fatto di avere organizzato male la sua vita, quanto da quello di avere atteso il compimento delle sue ambizioni da una società di tal fatta.
Gli si vorrebbe dire: Ben ti sta!, non si fosse frenati dalla riflessione che chi ve lo escludeva, umiliandolo, era senza alcun dubbio peggiore di lui.
Ciò che impedisce di avere in antipatia questo disgraziato sottoposto ufficiale postale è la consapevolezza che le stesse azioni, lo stesso comportamento ad alcuni valgono il peana delle commende e ad altri la gogna del disprezzo.
Ma Serenus Zeitblom, pregno del valore gerarchico, non se ne rende conto.
Rüdiger, il figlio, ci descriveva con molta evidenza, preferendo la comicità all’amore filiale, in quale modo l’astio del padre contro la società amareggiasse la sua vita insieme a quella della madre e dei fratelli; tanto più che quell’astio, dato il carattere dell’uomo, non si manifestava con volgari litigi, ma attraverso l’insistente espressione di una sottile sofferenza e della pietà per se stesso.
La descrizione del padre (implicita nel carattere ironico della rievocazione!) fatta dal figlio stranamente coincide con quella di Zeitblom; il sottinteso unificante è che del male, qualunque male, è sempre responsabile la persona, poiché le opportunità, se sfruttate a dovere, permettono a chiunque d’arrampicarsi, arrembando, sul soglio.
Scrivere poesie in versi liberi, articoli di critica e brevi racconti in prosa nitida, ma, un po’ per necessità economica, un po’ perché la sua produzione non sgorgava con eccessiva abbondanza, svolgeva la sua attività prevalentemente nel campo delle traduzioni, in modo particolare dalla lingua prediletta: l’inglese.
Senonché tutto ciò provocava una situazione critica che, su un piano diverso, somigliava a quella di suo padre. Egli infatti si sentiva nato per fare lo scrittore e a produrre, e parlava con amarezza della miseria, che lo 73
costringeva a servire l’opera altrui, lamentandosi di vedersi bollato con un marchio mortificante.
L’atteggiamento di Schildknapp figlio (lasciamo da parte la perfida ingenuità di Mann, per cui un figlio, in quale ambito operi, è sempre la maschera del padre!) rivela la totale carenza di genio naturale per la poesia; quando ci si pone a servizio di grandi scrittori e si accetta di farne traduzioni critiche per il pubblico, (Rüdiger lavorava per un editore di Monaco ed aveva ricevuto l’incarico di tradurre gli autori più importanti dell’antica letteratura inglese!), non ci si può lamentare di perdere del tempo; il sale, che si estrae da tanta operazione, è innervatura essenziale anche per le opere, che si giura di saper creare in proprio.
Conclude Zeitblom: Adrian era disposto a credergli; io, invece, giudicando con troppa severità, supponevo in quei suoi ostacoli un pretesto, che in fondo gli doveva esser gradito, poiché gli consentiva di ingannare se stesso.
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Ciò nonostante non bisogna credere che fosse bisbetico e agro; anzi era allegro e molto pazzerello, dotato di un senso decisamente anglosassone d’umorismo, di quel carattere che gli inglesi chiamano ‘boysh’. Ma io non ho parlato della sua figura fisica, la quale era bella e nonostante l’abito meschino e sempre uguale, cui lo costringeva la sua condizione, elegante e di una signorilità sportiva. Aveva i lineamenti pronunciati, il cui carattere addirittura nobile, era lievemente pregiudicato dalla linea della bocca un po’ stirata e nel medesimo tempo languida. Alto di statura, largo di spalle, stretto di fianchi, dalle gambe lunghe. Le sue mani avevano dita nobilmente lunghe, con le unghie ben formate, ovali e curve, e tutta la sua figura era così innegabilmente gentemanlike che egli poteva arrischiare di frequentare con l’abito comune e inelegante la società dove era prescritto l’abito da sera.
Dopo questi preliminari così lusinghieri che cosa mancava a Schildknapp per essere in pace con se stesso?!
Di questo in fondo si tratta, considerato che la stessa società degli eletti, se escludeva come inadeguato il padre, permetteva a lui di partecipare, benché il ‘traduttore’ violasse il costume più sacro, la foggia mutante degli abiti!
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Forse gli mancava il senso ‘consolante’ del limite proprio ed altrui, senza del quale ogni qualità risulta meschina o eccessiva.
Adrian lo predilige per la nobiltà e leggerezza del temperamento, due aspetti essenziali per l’affinità ‘artistica’.
Secondo le mie osservazioni, la sua fortuna con le donne non era perfettamente in corrispondenza con quella che esse godevano presso di lui, perlomeno individualmente, poiché in complesso esse avevano tutte la sua venerazione, una venerazione comprensibile, che abbracciava il sesso come tale e le possibili felicità di questo mondo in maniera tale che il caso singolo lo rendeva inattivo, lo portava all’economia e al ritegno. Gli bastava sapere che avrebbe potuto avere avventure amorose quante ne voleva e pareva rifuggire da ogni legame con la realtà, poiché vi scorgeva una detrazione dalle eventualità potenziali. Il mondo potenziale era il suo dominio, lo stato infinito del possibile il suo regno e in ciò era realmente poeta.
Adrian, che cura i rapporti con la cavezza dell’essenziale, riconosce in Schildknapp le qualità che gli servono e si comporta con lui con estrema delicatezza affinché l’equilibrio non sia alterato e le fonti offuscate; esiste una poesia della leggerezza, che riesce non solo gradevole, ma anche perspicace, se chi la possiede l’esprime liberamente e in piena scioltezza.
Il ‘verso libero’ può esprimere questo; se pretende di alzare il tono, è bene che chi se ne serve si dedichi alla traduzione per evitare di conciarsi come la rana dell’apologo.
Stamane mentre Hélène, la mia cara consorte, ci preparava la tazza del mattino, ho letto sul giornale la riuscita della nostra guerra sottomarina, la quale in 24 ore ha affondato non meno di dodici navi, tra cui due piroscafi, uno inglese e una brasiliano con 500 passeggeri. Questo nostro successo è dovuto a un siluro di qualità meravigliosa, che la tecnica tedesca è riuscita a costruire e non posso reprimere una certa soddisfazione per questo nostro sempre nuovo spirito inventivo. Questo istintivo senso di soddisfazione dà adito continuamente al pensiero che trionfi quale il nuovo affondamento e il colpo di mano, magnifico in se stesso, con cui fu rapito il dittatore romano, possono soltanto servire a suscitare false speranze e a prolungare la guerra che, secondo persone intelligenti, non può 75
essere vinta.
Solo cittadini appartenenti al ceto medio riescono in nome dell’orgoglio nazionale (certamente un nobile istinto!) a fare considerazioni di questo genere.
Finché non pagano direttamente sulla pelle le nequizie del potere, possono tranquillamente ogni giorno ristorarsi, esaltando i prodigi della distruzione, incuranti che per esso muoiano migliaia di innocenti.
Dico questo per ricordare al lettore in quali circostanze storiche io stia scrivendo la biografia di Leverkühn e per fargli intendere come l’agitazione causata dalla natura del mio lavoro si confonda con quella che deriva dalle scosse della giornata.
Mann affida la complessa responsabilità della biografia di Adrain Leverkühn a Serenus Zeitblom, consapevole che dopo le sciagurate imprese della Germania Hitleriana, (variante implicita, carne, della civiltà occidentale!), lo scrittore nuovo l’avrebbe dovuta affrontare in termini epico­rivoluzionari, essendo solo l’epos in grado di sradicare dal mondo i germi della violenza ‘proprietaria’.
D’altra parte Mann è ancora convinto che lo scempio provocato dallo scontro feroce tra sistemi borghesi sia tout­court lo scempio della civiltà, per cui, in un certo senso, resta prigioniero della convinzione che la il liberalismo del Capitale sia il compimento dei tempi.
Il ‘demonismo’ del suo eroe è molto legato a questo stravolgimento, come lo è, nel suo complesso, il movimento delle avanguardie del primo novecento.
Abbiamo visto la distruzione delle nostre venerande città in seguito alle offese aeree, distruzioni che griderebbero vendetta al cielo, se non fossimo noi, i colpevoli, a soffrirne. Com’è curioso il lamento per la civiltà sollevato contro questi misfatti, che noi stessi abbiamo provocato, sulle labbra di coloro che si sono presentati sul teatro della storia come araldi e portavoce di una barbarie, che doveva ringiovanire il mondo e sguazzava nelle nefandezze.
La distruzione delle bellissime città tedesche suscita in Zeitblom il disgusto morale per la guerra (barbarie!), che non era riuscito a provocare l’affondamento (tecnicamente geniale!) di due piroscafi nemici, affollati di cittadini inermi.
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Detta ancora in proposito Serenus: Con quella speranza e quell’orgoglio, che suscita in noi lo spiegamento della forza tedesca, abbiamo assistito a un nuovo assalto delle nostre forze armate contro le orde russe, che difendono il loro paese inospite, ma evidentemente molto amato, abbiamo assistito, dico, a un’offensiva, che dopo poche settimane, si tramutò in offensiva russa, e da quel momento ha portato a perdite irrefrenabili sul terreno – per ora soltanto sul terreno.
Come si vede in Serenus l’orgoglio teutonico ha soprassalti violenti e sa recuperare immediatamente gli artigli, diluviando disprezzo sulle ‘orde russe’, colpevoli di difendere con accanimento e amore il loro ‘paese inospite’.
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Con molto sbalordimento abbiamo saputo dello sbarco di truppe americane e canadesi sulla costa Nord­
orientale della Sicilia, la caduta di Siracusa, di Catania, di Messina e Taormina e con un misto di spavento e di invidia abbiamo appreso come quel paese si sia sbarazzato del suo grand’uomo per concedere poco dopo al mondo ciò che si pretende anche da noi e che la profonda miseria ci renderebbe troppo caro concedere: cioè la resa incondizionata. Noi siamo, infatti, un popolo tutto diverso, un popolo dall’anima profondamente tragica, contrario alle cose pratiche e concrete, e tutto il nostro amore va al destino, un destino pur che sia, magari la rovina che infiamma il cielo con la rossa vampa del crepuscolo degli dei. Ci permettiamo una riflessione che Zeitblom non fa (forse non poteva!): alla corte del Prìncipe (quest’orca onnivora, che fa della cultura lo specchio che abbellisce le sue ossessioni!) non ci si è mai chiesto il motivo, per cui un popolo così tragico, così poco concreto (aggravante! Esso alla tragedia apocalittica ha costretto altre genti, che niente gli avevano fatto!) sia così in breve tempo ritornato (sia pur con l’aiuto di chi ne aveva preteso la resa assoluta!) nella sua pienezza ‘economica’, situazione, che esige proprio quelle qualità ‘prosastiche’, di cui Serenus lamenta l’assenza.
Verremo a capo di questa contraddizione, quando l’attività qualitativa dei ruvidi avrà fatto giustizia di tutte le retoriche patrie, ove il popolo porta corazza dai chierici imposta.
Il fatto che la Germania potrebbe diventare teatro delle 77
nostre guerre appartiene al campo della fantasia e delle cose che cozzano contro qualsiasi ordine e qualsiasi previsione. Venticinque anni or sono l’abbiamo saputo impedire all’ultimo istante, ma la nostra sempre più tragica e eroica condizione di spirito non ci consente più, a quanto pare, di liquidare una causa perduta prima che l’inaudito diventi realtà.
Serenus tenta di dare una spiegazione ‘oggettiva’ alla cieca obbedienza, con cui il popolo teutonico è pronto a seguire il nazismo sino alla catastrofe.
Quale catastrofe wagneriana sappiamo noi bene, che il seguito della tragedia vedemmo mutarsi in commedia, se proprio non farsa!
Definire tragica ed eroica la ‘resa incondizionata’ alle farneticazioni razziste dell’occidente democratico dovrebbe riuscire grottesco anche al più zelota dei servi!
La settimana scorsa è scoppiato a Napoli un tumulto comunista vantaggioso per gli alleati, che fece capire come la città non fosse più un soggiorno degno di truppe tedesche, di modo che noi, dopo avere coscientemente distrutto le biblioteche e lasciato alla Posta Centrale una bomba a scoppio ritardato, abbiamo sgombrato la città a testa alta.
Si tratta di una brano di una bravura prodigiosa tanto vi coesistono (quasi armonia!) il sarcasmo disperato di Mann e gli ambigui sentimenti di Zeitblom.
Napoli, città comunista, è come tale indegna di avere biblioteche efficienti e di comunicare col resto del mondo! Delenda!
Quanto orgogliose marciano le truppe di Hitler in ritirata dopo le civilissime imprese!
E’ finita per la Germania, è finita!
Si prospetta un crollo indicibile, economico, politico, morale e spirituale, universale insomma!
Universale sta per totale e rivela la prepotenza cialtronica dell’estensore umanista.
Anche il passo successivo: “Non vorrei aver desiderato ciò che si presenta, poiché è la disperazione, è la follia”, appartiene alla categoria retorica dell’universale, in grado di far ridere il più ingenuo dei naïf, ma (non sia 78
mai!) la coscienza crucciata dell’intellettuale borghese.
No, non vorrei averlo desiderato, eppure ho dovuto desiderarlo, e so anche di averlo desiderato, so che oggi lo desidero e ne sono contento: per odio contro il delittuoso disprezzo contro la ragione, la peccaminosa resistenza alla verità, il culto grossolanamente estatico di un mito da bassifondi, il colpevole scambio della decadenza con la situazione di una volta, il grottesco abuso e la liquidazione delle cose, vecchie e genuine, delle cose originali e familiarmente tedesche, delle quali millantatori e bugiardi hanno fatto zozza velenosa e ubriacante.
Quando un carattere originario (primario, direbbe Sainte­Beuve!) diventa virtù ‘nazionale’ (sia pure alemanna!) si trasforma in veleno per gli altri, si trovino inclusi in nazioni o in un clan o in quant’altro!
Per quanto risentito Zeitblom non va alla fonte della sciagura e sbraita contro i masnadieri, usciti dalle fogne, che avrebbero colpevolmente abbrutito le qualità genuine del popolo tedesco.
Più avanti leggiamo: Non mi nascondo che in questo modo il capitolo come tale perde la sua unità e appare composto di elementi eterogenei.
Per la verità noi pensiamo che la confusione stia tutta nella mente di Zeitblom per aver richiamato la tragica fine della Germania nazista nel momento nevralgico della vita di Adrian Leverkühn, quasi che entrambi, il popolo tedesco e il musicista eccentrico, siano vittime delle stesse contraddizioni e degli stessi errori.
Lungi da me l’intenzione di negare la serietà dell’arte, ma quando si fa sul serio si ripudia l’arte e non se ne è più capaci.
Sarebbe stato interessante ed esemplare se Serenus Zeitblom ci avesse spiegato (elencato meglio!) le caratteristiche della serietà o almeno ci avesse precisato di quale serietà egli parla e da quali principi sorretta.
Come indicazione noi non siamo disposti a concedere nessuna serietà alla guerra; non accettiamo per seria la provocazione, in qualunque forma si presenti; né ancor meno sospenderemo il lavoro o il sano ‘amusement’ artistico per seguire le stolide serietà razziste o elitarie del Prìncipe.
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Poiché vissi a Lipsia insieme ad Adrian per un anno, so anche come egli vi abbia passato gli altri tre; me lo insegna il suo modo di vita conservatore, che assume spesso un aspetto di rigidità ed aveva per me qualche cosa di opprimente. Non per nulla in quella lettera Adrian aveva espresso la simpatia per il non voler sapere, per la mancanza di avventure nella vita di Chopin.
Ci sono persone che, per le circostanze in cui sono costrette dal Clan, scelgono di non voler vedere per prepararsi a incontrare quel ‘porro unum’, che dia inizio davvero alla storia umana.
Il fatto che Adrian disprezzasse la gioia ottenuta guardando, (l’interno è figura sincretica di quanto il reale ci impone!), fa parte del modo con cui l’intensità si appresta a sfidare la Gorgone.
Zeitblom si affanna a giurarci la stagione dell’amico come la migliore possibile; non vuole riconoscere che la violenza distruttiva del tempo in cui scrive, è stata preparata, quasi una provocazione, dall’aureo agitarsi vitale del borghese di fine ed inizio secolo.
Il viaggio di Adrian a Graz ­ch’egli non fece per amore del viaggio ­ aveva rotto l’uniformità della sua vita.
Leverkühn era ‘volato’ a Graz per incontrare Haetera Esmeralda, unico prodigio de visu e de tacto, che egli escluse dal ‘non­voler­sapere’.
Un allievo come Adrian non aveva, in fin dei conti, alcun bisogno di un maestro e correttore. Con piena coscienza recava al maestro cose imperfette per sentirsi dire ciò che sapeva già e per farsi beffe poi della sua intuizione artistica che coincideva proprio con la propria, di quella rappresentazione artistica, che è la vera rappresentante della intuizione dell’opera, non dell’idea di un opera, bensì dell’idea dell’opera stessa, della forma in genere, oggettiva, armonica e conclusa; di quell’intuizione artistica, che è l’organizzazione della compiutezza dell’opera, dell’unità organica e si occupa di saldare le fratture, di turare i buchi, di dar l’avvio a quel fluire naturale che in origine non esisteva, e non è quindi naturale, ma prova d’arte.
Zeitblom utilizza le sue conoscenze ed indirizza l’indagine non per cogliere le scaturigini del fenomeno artistico, ma per affermarne la sua compiutezza; di solito il critico è talmente rapito dal suo compito di interprete da non accorgersi che gli ambiti formali, entro i quali pontifica, 80
nascono da condizioni reali precritiche, quindi ‘materia poetica vivacizzata’.
L’opera è lavoro, lavoro artistico ed ha per fine l’apparenza, sicché vien fatto di chiedersi se allo stato attuale della nostra coscienza, della nostra conoscenza, del nostro senso della verità, questo gioco sia ancora lecito, ancora spiritualmente possibile, ancora da prendere sul serio, se l’opera come tale, la forma autonoma armonica e in sé conclusa, abbia ancora qualche relazione legittima con la mancanza completa di sicurezza e di armonia, con la problematicità delle nostre condizioni sociali e se qualsiasi apparenza, anche la più bella e proprio la più bella, non sia oggi diventata menzogna.
Il ‘miracolo’ della critica è di non avvedersi che in ogni stagione i chierici lamentano particolari condizioni di impossibilità o di decadenza; non si rendono conto o non vogliono che proprio lo stato di ‘crisi’ è determinante per la profondità e sincerità dell’opera artistica, a prescindere dalla sue forme e dai suoi strumenti.
Che intende dire Mann affermando che l’opera (musicale in questo caso!) è apparenza?! Che solo il lavoro poetico è vero, in quanto misuratore oggettivo delle condizioni ‘tribali’ dei suoi protagonisti, le quali altro non sono che ‘figure’ della più vasta realtà circostante. Pertanto, se le cose stanno così, prima di scomparire gli artisti, dovrebbero tacere i critici e i loro accomandanti.
Che altro deve essere la conoscenza, se non lucidità interpretativa di tutti i fenomeni?! Per essa l’umanide trasforma la realtà, anticipandola per quindi forgiarla.
Il lavoro ‘pratico’ (solerzia complessiva da tutti esperibile!) è successivo, dovrebbe essere sempre (ci riferiamo a una frase del vecchio di Trèviri!) la realizzazione di un’idea anticipatrice; senza l’immaginazione (poetica e scientifica, due momenti univoci!) il lavoro è brutale necessità, sciaguratamente inumano.
Che sia un ‘ruvido’ a dover ristabilire verità tanto evidenti è la misura della decadenza di un sistema, di cui Zeitblom­Mann si fanno cassa di risonanza.
Ben altro intende Adrian, quando esplode: L’opera è una cosa che i borghesi vorrebbero che ci fosse 81
ancora; è una cosa che cozza contro la verità e la serietà. Vero è ciò che è breve, brevissimo; soltanto il momento musicale supremamente consistente.
Non si prenda alla lettera, in termini di tempo spiccio, quel ‘breve, brevissimo’; Adrian non intende affatto esaltare il frammento; egli tenta semplicemente di spezzare i vincoli di una esasperazione formale, che il tardo romanticismo sta portando a ridondanze (da lacerazioni!) impossibili e sguaiate; il ‘breve, brevissimo’ non ha niente a che fare con la ‘durata’ epica.
Si approfondisca per contro quest’altra affermazione di Adrian­Thomas (è ormai opinione abbastanza assodata che la sincerità dell’artista frantuma anche i vincoli di classe!): l’arte non vuole più essere apparenza o gioco, ma intende diventare ‘conoscenza’.
Zeitblom, compare dei critici oziosi, commenta: com’è possibile che l’arte viva per essere conoscenza?
Ahi, doloroso annuvolamento della sapienza umanistica!
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Un giorno, o meglio, una notte il mio povero amico si fece dare notizie più precise su questi accenni da labbra spaventevoli, da un orribile coadiutore. Di ciò esiste il verbale e a suo tempo ne darò comunicazione.
Tutto quanto testa di culto non cape trasformasi in demonismo.
La vera tragedia è che Adrian si trova costretto alla farneticazione solipsistica, poiché (dopo il rifiuto della madre, la sua donna può essere solo Hanne o Haetera Esmeralda!) non trova fuori di sé interlocutori, che accettino di discutere ed eventualmente temperare le sue intuizioni.
Per un frainteso culto dell’arte Leverkühn interrompe ogni rapporto col senso musicale del popolo, di cui la stalliera un tempo era stata la scolta.
Egli dubitava della forma in quanto gioco e apparenza, sicché la forma breve o lirica della canzone gli doveva sembrare la più accettabile, la più seria, la più vera; gli doveva sembrare che adempisse nel modo migliore le sue esigenze tecniche della brevità e della stringatezza.
E’ ben vero che parecchi di questi canti Leverkühn voleva si considerassero tutti insieme come l’opera nata da una determinata concezione stilistica, da un suono fondamentale e non voleva mai ammettere l’esecuzione 82
di singoli pezzi, ma soltanto quella dell’intero ciclo.
La fedeltà e venerazione per il geniale amico costringono sempre Zeitblom a percorrere il sentiero della verità; ne scaturiscono passi, in cui la brevità e stringatezza invece di esaltare il frammento, finiscono per illuminare dall’interno la speciale unità, che Adrian imprime alle sue ‘varie’ canzoni, sorrette dal feroce accanimento conoscitivo, che lo porta amaramente alla ‘parodia dell’innocenza’.
“Nonna, amica dei serpenti” è un’altra bella canzone con il verso: “Maria, dove sei stata” e con le parole sette volte ripetute: “Ahimè, mamma, ahimè” che con una incredibile capacità di immedesimazione evocano le ragioni più tormentate e più paurose del canto popolare tedesco. Tale musica infatti, sapiente, vera e fin troppo saggia, cerca con affanno di ingraziarsi la melodia popolare. Ma questo rimane sempre inattuato, c’è e non c’è, appare a frammenti, sorge e ricompare in uno stile musicale ad essa apparentemente estraneo, dal quale però cerca sempre di nascere.
L’estraneità spirituale, che Zeitblom ci fa passare per necessaria all’ispirazione dell’artista, (da ciò il ‘gioco capzioso’, che ne mutila la calda e sincera partecipazione!), è la vera causa dell’angoscia di Adrian, angoscia che lo sprofonderà nelle viscere sozze del demonismo più atroce ed assurdo.
Fuori dalle Madri, che conservano in sé le matrici essenziali per cui l’uomo balzò nella luce, la spiritualità si trasforma in meteore d’ombra; la volontà ne è lacerata, trascinata nel bieco castello del Prìncipe.
Quando nel 1910, in Settembre, in un’epoca dunque in cui avevo già incominciato a insegnare al ginnasio di Kaisersaschern, Leverkühn abbandonò Lipsia e ritornò anzitutto alla sua Buchel per assistere al matrimonio della sorella, che proprio allora veniva celebrato e al quale anch’io ero invitato insieme ai miei genitori. Ursula, ormai ventenne, si sposava con l’ottimo Johannes Schneiderwein di Langensalza, ottima persona che aveva dieci o dodici anni più della sposa; era svizzero di nascita, figlio di contadini bernesi.
Le nozze si svolsero tra pochi intimi, con una buona cena, ma senza ‘balli e costumanze’.
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Quanto questo clima fosse giusto per Adrian lo dovremmo presumere in modo preciso; di fatto, quando al musicista viene a mancare il fiato della stalliera, pur ammettendo che ne riceva una sorta di benefica solitudine, si accelera in lui quel processo di isolamento ‘isterico’, preludio dell’aridità più angosciante.
Quel pomeriggio io e Adrian facemmo una passeggiata alla Casa delle Mucche e al Monte Sion. Dovevamo discorrere del Libretto di Love’s Labour o Last, che io mi ero assunto di scrivere e sul quale avevamo già scambiato molte vedute e molta corrispondenza. Si vedeva che era lieto di trovarsi all’aperto e di essere sfuggito agli ospiti convenuti per le nozze. Aveva gli occhi velati, indizio del suo mal di capo; la causa psichica andava attribuita al fatto che solo per forza e contro resistenze interiori aveva partecipato a quei festeggiamenti per il sacrificio della verginità, dove, per giunta, si trattava di sua sorella.
Nell’animosità contro il matrimonio si intrecciano dolorosamente due atteggiamenti (quanto liberi è indagine impossibile al lettore!) tipici di Adrian: il timore della femmina, residuo materno e la concezione teologica della verginità, misura ascetica, che per acquisire la santità mutila e soffoca l’impulso più genuino e salutare del sesso.
La ricerca caparbia ed esasperata di colei, che per prima aveva osato sfiorare la sua carne, è il tentativo di ribellarsi a questa innaturale crocefissione, per quanti presagi di decantazione sensibile­estetica vi riconoscesse.
­Occhi buoni, razza buona, un uomo bravo, puro e ammodo. Egli ha potuto chiedere la sua mano, ha potuto guardarla e desiderarla in moglie cristiana, come diciamo noi teologi, giustamente fieri di aver carpito al diavolo il contatto della carne, facendone un sacramento, il sacramento del matrimonio cristiano. Molto buffo, del resto, questo modo di captare il peccato naturale e di portarlo su un piano sacrosanto, premettendogli semplicemente la parola cristiano.­
La riflessione irridente (sì, questa è la sostanza!) di Adrian è suggerita dall’intrecciarsi di due motivi fondamentalmente falsi e soprattutto irriguardosi; l’uno coinvolge lo sposo, ridotto a parte meschina, quasi 84
idiota, mentre vorrebbe considerare innocente di ogni bufera sensuale la sorella, costretta ad lussuriam sponsalem, (ahi, l’impronta di Elsbeth!); l’altro concerne il matrimonio, trattato alla stregua di un ‘peccato naturale’ (contraddizione e sciagura!), che è innalzato alla dignità di sacramento con una forzatura teologica così palese (per Adrian!) da farlo scadere a farsa: ‘molto buffo’.
­E devono essere un’unica carne! Non ti pare una benedizione curiosa?! Perché il piacere esiste soltanto quando le carni sono due, non una; e che debbano essere una carne sola è una pacifica assurdità. D’altro canto non ci si meraviglierà mai abbastanza all’idea che una carne ha piacere dell’altra; questo è un fenomeno, si capisce: il fenomeno dell’amore.­
L’analisi di Adrian è ‘sacrosanta’; trascura però il momento catartico dell’unione dei corpi, che chiama fenomeno, quasi entità ingiustificabile.
Dice anche: Di norma la carne ­per conservare il termine cristiano­ è non antipatica solo a se stessa, con l’altrui non vuole a che fare.
Se la condizione naturale dell’uomo è che le carni siano incomunicabili, di necessità l’amore, fusione di due corpi, è una forzatura sociale, in essenza, al di qua del peccato di superbia nell’Eden, ‘colpa’: il rapporto carnale è sempre una sorta di violazione. Ciò che è zoppo, quindi falso, nella riflessione di Adrian è che se violenza c’è, essa è implicita nella copula, non è ‘prerogativa’ del maschio.
E’ doloroso che l’educazione riesca alle volte e per alcune persone a nascondere per l’intera esistenza che l’amore tra i corpi (il duale!) è il superamento della ‘antipatica’ e innaturale nausea dell’altro con l’altissimo e spontaneo dono di sé. *
­Dunque, bravo ragazzo, anche tu devi convolare a nozze? Che bella idea! Quante cose arrivano sempre di sorpresa, benché non abbiano nulla di sorprendente! Ti dò la mia benedizione! Ma nel caso che vi sposiate, voglio essere impiccato per la gola, se in quell’anno i cornuti faranno difetto!­ ­Via, via, vi esprimete in modo sconveniente!­
Citai dalla medesima fonte. 85
­Se tu conoscessi la ragazza e lo spirito del nostro legame, sapresti che non c’è nulla da temere per la mia tranquillità, anzi, al contrario tutto mira a porre un fondo di tranquillità e di pace, una felicità posata e indisturbata.­ ­Non ne dubito!­ disse.
Adrian cita la frase sarcastica di Shakespeare in inglese, poiché solo così riesce a neutralizzare e sopportare che l’amico sperimenti lo stesso ‘fenomeno’ dello sposo (contadino!) di Ursula.
Serenus sta al gioco, ma non approfondisce il perché del tono beffardo e si lancia in una difesa della propria scelta, atteggiamento, che non fa che aggravare il disagio di Adrian; solo il coraggio di un alterco chiarificatore avrebbe potuto illuminargli la ‘ferita’ materna.
Ma questo è impedito a Zeitblom dal suo morigerato umanesimo.
­Sarebbe tragico, dissi, se la sterilità dovesse essere in qualche modo il risultato della libertà. La libertà si conquista, poiché si spera sempre nel parto di energie produttive.­ ­E’ vero, rispose, e per un tratto mantiene anche le sue promesse. Ma la libertà non è che un’altra parola per soggettività e un bel giorno non si accontenta più di se stessa, un bel giorno dispera della possibilità di essere da sé e cerca tutela e sicurezza nell’oggettività.­
­Ma allora non è reale libertà, alla stessa maniera che la dittatura, nata dalla rivoluzione non è libertà.­ ­Ne sei sicuro? Ma, del resto, questa è una nenia politica. Nell’arte il lato soggettivo e quello oggettivo si intrecciano sino a non distinguersi più: il soggettivo si concreta nell’oggettivo e il genio lo resuscita alla spontaneità, lo dinamizza, come si suol dire, sicché ad un tratto parla il linguaggio del soggettivo.­
Quando si va alla ricerca disperata della libertà (la si vuole sentire tra le mani, come l’acqua del fiume!) per esprimere l’energia, quale che sia, lo stato del clan è in disfacimento. Adrian lo avverte, ma si svincola subito dalle panie politiche, benché sappia che esse sono il momento sine qua non di ogni definizione ed iniziativa attendibili e si tuffa immediatamente nell’esperienza musicale, dove gli è possibile muoversi con estrema sicurezza, quasi a dimenticare 86
che quanto egli trova nella scienza dei suoni corrisponde alle condizioni di ogni attività umana in quel lasso di storia e quindi ha un riscontro politico irrimediabile.
Se la libertà (volontà!) rivoluzionaria sfocia nella dittatura, non è perché ha rinunciato a se stessa; accorgendosi immediatamente che nei singoli individui per condizioni al momento insuperabili la volontà di riscatto è insidiata dalla persistenza di una soggettività ‘romantica’, con il tragico rischio di un ritorno all’ecumenismo dell’elezione, (novelli eupatridi!), inventa il dittatore o ‘eletto­nulla’, (insperato ausilio delle matematiche logiche! Grazie Bertrand!), quale punto di riferimento della vera libertà, che, come si esprime Adrian Leverkühn parlando della musica, è sempre un armonioso connubio di interno (soggettivo) e esterno (oggettivo!).
Lungo il tratto di strada che ci rimaneva parlammo poco. Ricordo che sostammo alcuni istanti nella conca delle Mucche; ci allontanammo alcuni passi dalla carreggiata e, avendo sul viso i riflessi del sole che già volgeva al tramonto, ci fermammo a guardare l’acqua. Era limpida e si vedeva che solo nei pressi della riva era poco profonda, più in là il fondo precipitava nelle tenebre e si sapeva che il laghetto era profondissimo nel mezzo.
­Freddo –disse Adrian, accennando col capo – è troppo freddo ora per fare il bagno. –Freddo, ripeté dopo un istante, con un brivido visibile e riprese il cammino.
Si agitavano lì, nell’antica conca infantile, i dèmoni di quanto il passare del tempo (stagioni altamente emblematiche!) sembrò tradire, ossia l’immobile esistere nel caldo di canoni familiari, ove contro il canto di Hanne, aveva sempre ragione il riserbo materno.
Quel tempo fuggito solleva le gelide ali, rendendo inguardabile l’acqua sì limpida e fredda. Oh, tuffarsi per sempre nel piccolo e fondo laghetto!
Oh, sfidare una volta per sempre l’insidia dei simboli, che attanaglia il respiro!
Il freddo, che senti non scaturisce affatto dalle cellule d’acqua; tuffati, sfida il ricordo e recupera nella trasparenza dell’ora il diritto a più chiare parabole!
Scaccia i tuoi dèmoni, Adrian!
Quella sera stessa dovetti ritornare a Kausersaschern per necessità del mio lavoro. Lui invece ritardò di qualche 87
giorno la partenza per Monaco, dove intendeva stabilirsi. Mi pare ancora di vederlo stringere la mano a suo padre, (per l’ultima volta, ma non lo sapeva), vedo sua madre che lo bacia e stringe la testa di lui contro la propria spalla, come allora nella stanza di soggiorno, durante la conversazione con Kreiztschmar. Egli non doveva (e non volle!) ritornare da lei e fu lei ad andare da lui.
E’ un passo di una tristezza tanto più struggente quanto più è soffuso di garbo; il rispetto è in pericolo, quando troppo si affida al costume!
Ci sono momenti in cui il recupero delle posizioni passate ci chiede di porre in luce (trasparenza!) i motivi, che sappiano ricomporre un rapporto alla pari e più schietto; se ciò non avviene, perché prigionieri di vecchie vergogne e ritegni, si levano i dèmoni, come ripiego contro la disperazione, che costringe all’annientamento.
Adrian è soggetto troppo rispettoso di sé per rimanere sospeso tra l’ombra e il reale, tra l’insidia e il demonismo, senza costringersi a pagarne lo scotto; l’allucinazione è il necessario epilogo; a lui non servono droghe o siringhe; l’origine di ogni possibile futura caduta sta in lui, nel suo garbo di figlio; la madre non seppe e non sa interpretare le Madri!
*
Abitava nella Rambergstrasse, vicino all’Accademia; come subinquilino della vedova di un senatore di Brema, di nome Rodde, la quale occupava con le sue due figlie un appartamento al pianterreno in una casa ancora nuova. La stanza che dava nella strada tranquilla, subito a destra della porta d’ingresso, fu assegnata a lui e incontrò il suo compiacimento per la pulizia e per la mobilia familiare e senza lusso.
La morigeratezza ci fa annoverare Adrian tra quei soggetti che, radicati profondamente nella consapevolezza del limite, non considerano la propria persona degna di particolari attenzioni; il che non è il risultato di un calcolo, come lo è sempre la severità di costumi del borghese.
Nella stanza c’era anche un piccolo armonium, che gli riusciva utile e gli ricordava probabilmente i tempi passati. Siccome poi la vedova del senatore si tratteneva in una stanza retrostante, che dava sul giardinetto e anche le 88
figlie erano invisibili durante la mattinata, disponeva anche del pianoforte del salotto. Questo salotto poi accoglieva molte volte alla sera una piccola società nella quale anche Adrian si lasciò trascinare, riluttante da principio, per abitudine, a fare in conformità con le circostanze la parte del figlio di famiglia. Là si radunava un mondo di artisti e mezzo artisti, una specie di Bohème, per così dire, da salotto ben educato e, nello stesso tempo, libera e abbastanza divertente per appagare le prospettive che avevano indotto la signora Rodde a trasferirsi da Brema nella capitale della Germania Meridionale.
Il dato nuovo e per noi più significativo è che Adrian accetti di partecipare, sia pure quasi figlio di famiglia, alle vicissitudine di un salotto.
Zeitblom non approfondisce la stranezza, poiché si è costruito dell’amico un ritratto unilaterale con pregiudizi consolidati, benché a lui stesso non del tutto chiari.
Il totale eclissarsi permette all’autore di lasciar agire in libertà i personaggi in un momento topico della vicenda.
Rileviamo come questa Monaco, descritta familiare, tranquilla e simpatica, diventerà dopo qualche decennio la fornace di sommovimenti politici convulsi e sanguinosi.
Non era difficile comprendere la sua situazione. Aveva occhi scuri e capelli castani, graziosamente arricciati e solo lievemente brizzolati, portamento signorile, carnagione color avorio, lineamenti gradevoli e abbastanza ben conservati. Teneva le sue riunioni per favorire le figlie, così asseriva, ma era abbastanza chiaro invece che lei stessa mirava a divertirsi e a farsi corteggiare. Il modo migliore per tenerla allegra era raccontarle storielle lubriche, non molto spinte; narrare aneddoti di cameriere, modelle, pittori che le strappavano risate squillanti e graziosamente sensuali a labbra socchiuse.
Situazione insidiosamente irreparabile; alla signora Rodde sarebbe riuscito provvidenziale un ‘analista’, che l’avesse convinta a lasciarsi andare, rivelando i desideri incompiuti delle ‘ labbra’ segrete.
Ahi, cattivi costumi, modello segreto ed ipocrita, imparati alla corte del 89
senatore di Brema!
Le due figlie, Ines e Clarissa, non approvando le sue risate, diventavano per lei la presenza fastidiosa del defunto marito.
Clarissa, bionda ed alta di statura, dal volto largo e sbiancato dai cosmetici, dal labbro inferiore arrotondato e dal mento poco sviluppato, si preparava alla carriera drammatica. Dava ai capelli dorati pettinature ardite sotto i cappelli grandi come ruote e amava gli eccentrici boa di piume. Una tendenza alle buffonate macabre teneva allegri gli uomini, che le stavano attorno in adorazione. Il simbolo del teschio appariva più volte nella sua stanza, sia come preparato anatomico che digrignava i denti, sia in forma di calcafogli di bronzo, che, posato su un grosso libro, rappresentava con le occhiaie vuote la caducità e la ‘guarigione’. Personalità schive e composte come quella di Adrian non sono fatte per nutrire e provare simpatia, ancor meno attrazione (pietà!) per le presunzioni ‘drammatiche’ di femmine tanto narcissiche.
Da qui l’immediata repulsione che vanifica ogni sua intenzione gentile di offerta, (momento certamente rischioso, ma essenziale per i rapporti più intimi!); Adrian non riesce neppure a provare amicizia per Clarissa, così torbidamente alla ricerca dell’ammirazione e della fama.
Ines, la sorella, maggiore, di forme era più bella di Clarissa, con la quale andava perfettamente d’accordo, mentre era contraria alla madre, in silenzio, ma senza farne mistero. Una massa di capelli biondo­cenere le gravava la testa, che portava un po’ inclinata in avanti, tendendo il collo e atteggiando le labbra a un sorriso. Aveva il naso un po’ gobbo, lo sguardo degli occhi pallidi quasi velato dalla palpebre, scialbo, tenero e diffidente, uno sguardo consapevole e triste, benché non senza un tentativo di furbizia.
Quando alle persone borghesi più giovani viene a mancare la sazia normalità, (non conta per quali motivi!), la quietudine prammatica si trasforma in accademia; nel cangiamento già insiste il macabro, (fors’anche la tragedia!), poiché fondato su avvenimenti vuoti.
Tra gli ospiti serali della vedova del senatore di Brema Rodde si annoverava un abile e cortesissimo violinista di Dresda, Rudolf 90
Schwerdtfeger, di media e graziosa statura; egli riuscirà a dissipare la diffidenza di Adrian, lusingandolo al punto da conquistarne la fiducia. E’ corretto anticipare che, nonostante il corteggiamento e, ad un certo punto, la sua stessa partecipazione sincera, Adrian manifesterà sempre il disagio, fors’anche lo spregio, del compositore nei confronti del mero esecutore o accademico brillante, pur fantasmagorico interprete che, per un male inteso senso della teatralità, tende sempre a ridurre l’arte a spettacolo. Quando il compositore (quale strumento egli usi!) si rende conto che il puro momento ‘estetico’ può esplodere i suoi segni sul pubblico, spesso inerte per male compresa quietudine estatica, solo passando per l’esercizio acrobatico­ginnico dell’interpretazione ostentata, è preso da nausea, malessere e disperazione.
91
*
La Monaco di cui parlo è quella della tarda reggenza, a soli quattro anni di distanza dalla guerra, le cui conseguenze dovevano trasformare la sua libertà di spirito e farvi apparire un torbido grottesco l’uno dopo l’altro; è la capitale delle belle prospettive i cui problemi politici si limitano alla capricciosa antitesi tra un cattolicesimo popolare e semi separatistico e un fresco e vivace liberalismo di osservanza monarchica; la Monaco delle solenni bande militari nella Feldervrenhalle, dei negozi d’arte, dei palazzi di mostre decorative e di esposizione, dei veglioni agresti in carnevale, delle grosse sbornie di birra, delle grandiose sagre protratte per più settimane nel Prato d’Ottobre, dove una popolazione allegra e chiassosa, ma già da gran tempo corrotta dal moderno movimento di massa, festeggiava i suoi saturnali.
Questi umanisti non finiscono mai di sorprendere; esilarante il richiamo alla corruzione delle masse, quasi si trattasse di fenomeno estraneo alla Monaco della Reggenza monarchica, scherzo beffardo del fato! Adrian vi osservava tutte queste cose, vi si aggirava facendo assaggi in quei nove mesi, che visse allora nella Baviera Superiore, durante un autunno, un inverno e una primavera.
A Zeitblom sfugge che molto del demonismo di Adrian scaturì proprio da quel ribollimento, che egli definisce ‘grottesco’.
Molte volte Adrian si avventurava in bicicletta a casaccio nelle campagne verdeggianti e pernottava come capitava in alberghi importanti o insignificanti.
Ne parlo, poiché in questo modo già allora Adrian fece la conoscenza di quei luoghi, che doveva scegliere a cornice della sua vita personale. Conobbe infatti Pfeiffering, presso Waldshat e il podere degli Schweigestill. La visita di Adrian e Rüdigher a quella borgata fu una vera improvvisazione e per quella prima volta, assai fuggevole.
Nella vita delle persone, ancor più se presegnate all’arte, la casualità è quasi sempre apparente.
Con notevole proprietà Zeitblom la definisce ‘improvvisazione’, quasi richiamo intimo delle facoltà segrete. 92
Ci permettiamo di anticipare che a Pfeiffering Adrian ritroverà l’ambiente dell’infanzia.
Attraversando il villaggio con la bicicletta a mano, si fecero indicare da un ragazzo il nome del vicino laghetto, lo Stagno della Forza, diedero un’occhiata all’altura di Rembühel, incoronata da alberi e accolti dai latrati del cane alla catena, che una fantesca scalza chiamava Kaspeil, chiesero un bicchiere di limonata sulla soglia della casa padronale.
Si noti la fantesca scalza, reincarnazione della musicale Hanne, la stalliera di casa Leverkühn.
Zeitblom osserva: Non so fino a che punto Adrian allora abbia notato qualche cosa; per parte mia propendo a credere che la scoperta gli sia rimasta da principio inconsapevole, e gli si sia affacciata di sorpresa più tardi, forse in sogno.
Il sogno in questi casi è sempre premonitore. Sulla soglia venne loro incontro la signora Schweigestill, la quale li ascoltò cortesemente e provvide a mescere una limonata in alti calici con cucchiai dai gambi lunghi. Glieli offrì in un tinello a volta, che si apriva quasi come un salone nella stanza d’ingresso.
La signora spiegherà ai due ospiti che quella parte della casa non era utilizzata dalla famiglia; vi si notava un pianoforte.
Il caseggiato, un ex­convento, era abitato dagli Schweigestill da ormai tre generazioni; parlò pure di un pittore, che l’estate avanti aveva preso in affitto i locali, un tempo abitati da monaci laici e vi aveva dipinto dei quadri.
Il più ‘tetro’ era stato acquistato dal Direttore della Banca di Cambio bavarese; curiosa in proposito l’osservazione della signora Elde: “Benché uomo di finanza, anche lui doveva avere una punta di malinconia.”
Eretta, i capelli castani solo leggermente brizzolati, lisci e ben tirati, tanto che si vedeva la pelle bianca del capo, con il grembiule a scacchi di massaia, un fermaglio ovale alla scollatura rotonda, la signora sedeva accanto a loro, posando sulla tavola le mani piccole, ben formate e vigorose, col liscio anello matrimoniale alla destra.
Colpisce la sicurezza di questa donna, che non prova turbamento o 93
incertezze davanti a quelle sconosciute persone; ella è in possesso di una indipendenza spontanea, non inconsueta tra le donne di campagna, anche in presenza del compagno; questo emergere della personalità in figure semplici di contadine e massaie è la dimostrazione che nessun movimento di riscatto è impossibile ai paria.
Disse (in quel suo linguaggio tinto di intercalari dialettali ma assai nobile e puro) che voleva bene agli artisti, poiché sono pieni di comprensione e nella vita la comprensione è la cosa migliore e più importante. Naturalmente gli artisti devono vivere in città, poiché lì risiede la civiltà, che è il loro mondo. Ma a rigore sarebbe più giusto accostarli ai contadini, che vivono nella natura e perciò più vicini alla comprensione anziché gli abitanti della società cittadina, la cui comprensione è atrofizzata e repressa per amore dell’ordine civile, che poi viene a essere una atrofia.
La signora parla degli artisti sì, con rispetto, ma pienamente consapevole della sua dignità; essa non fa confusione tra la vera nobiltà dell’esistenza in campagna e le abitudini cittadine, che solo in apparenza aiutano la comprensione; troppo costretti dalle convenienze ‘civili’, si finisce per esserne atrofizzati.
Se i due artisti avessero chiesto alla signora Elde di svelare il perché della corruzione (atrofia!) cittadina, possiamo stare sicuri che non avrebbe mai parlato di ‘masse’, bensì di uomini, obbligati a vivere da cittadini ‘straccioni’, soverchiati dalla ‘strumentalità’, che rende la città ‘civile’.
*
I visitatori ebbero elogi sinceri per la stanza dell’Abate e anzi Schildknapp, scotendo il capo pesantemente, osservò che là si sarebbe dovuto vivere, ma la signora Schweigestill temeva che quel posto sarebbe stato troppo solitario per uno scrittore, troppo lontano dalla vita e dalla civiltà.
Il tono, con cui Schildknapp sospira alla solitudine della campagna, è solo parzialmente sincero, perciò non riesce a cangiare la convinzione della signora Schweigestill, per la quale insiste un distacco incolmabile (sciagura dei tempi?!) tra la ‘rozzezza’ (pur cordiale!) dei contadini e la civiltà industriale, che ha ingigantito la città.
Una volta, disse, in tempi ancora lontani, una delle camere era stata occupata da una signorina della 94
migliore società, la quale vi aveva messo al mondo una creatura.
Il padre della signorina era un alto magistrato, lassù a Beyreuth e si era procurato un’automobile elettrica, la quale era stata l’inizio di tutti i malanni. Insieme alla macchina aveva preso anche un conducente, che lo portava in ufficio e questo giovane, che non era nulla di straordinario, ma soltanto elegante nella livrea di alamari, aveva stregato la signorina sino a farle dimenticare se stessa. Galeotto l’autista, (alamari!), così scalpitante cavallo!
La signorina aveva strisciato in ginocchio davanti ai genitori implorando e singhiozzando sotto i loro pugni maledicenti, finché era caduta in deliquio al pari della madre. La signora Schweigestill sembra non stigmatizzare la differenza fra i due deliri, quello della figlia, segnato dalla disperazione e quello della madre, provocato dalla vergogna ‘sociale’; ma lei stessa aveva stigmatizzato la distinzione, descrivendo l’ostentazione assai vacua del lusso, di cui la macchina è il distintivo sfacciato ed anche un po’ stolido.
Venuto il momento si era dimostrata molto coraggiosa e aveva messo al mondo una bambina, con l’aiuto dell’ottimo dottor Kürbis, il medico condotto.
La bambina venne affidata alle Dame Grige di Bamberga, ma sua madre continuò ad essere per lei una dama grigia. Insieme con un canarino e una tartaruga, che i suoi genitori le avevano donato per misericordia, aveva tirato avanti nella sua stanza, in una consunzione della quale probabilmente c’era sempre stato in lei il germe.
Destino grigio o vicenda da strangolo per la bambina, affidata alle cure delle Dame grige?!
Straordinaria anticipazione ‘tattile’ del nome!
Le conclusioni della signora Schweigestill sono particolarmente illuminanti, se non ci si limita a considerare esteriormente quanto essa dice riguardo alla misera fanciulla, tradita da tutti; che altro può attendersi una classe, che esprime magistrati così ignobili?!
Nell’infelice ragazza il destarsi improvviso (la fiamma!) dell’interesse per gli ‘alamari’ non poteva che spegnersi nella nera tragedia, tanto in lei 95
prevaleva l’assurda educazione (davvero un bel privilegio!) di una coppia di genitori insignificanti ed infami.
Del giovane autista non ci si dice nulla, cancellato dalla sua sacrilega audacia!
Non è certo un rimprovero alla saggia contadina, ma a chi non sa leggere nella semplicità delle sue parole!
L’anima di Adrian conservò l’immagine della località, ma per molto tempo ancora non determinò le sue decisioni.
Egli desiderava allontanarsi, ma più lontano di un’ora di ferrovia, verso la montagna.
Il lavoro artistico può esigere alternativamente la fuga e il rifugio; il ‘può’ sottende sempre una catastrofe, catastrofe, che in Adrian è ancora sospesa, minaccia, che incombe e potrebbe, così come nuvola nera, prorompere sotto la spinta del vento.
Scriverà sùbito dopo a Zeitblom:
Il mio cuore va interrogando il mondo e aspettando il suggerimento di qualche luogo, dove io possa seppellirmi e discorrere indisturbato con la mia vita, con il mio destino. In attesa, verso la fine di Giugno, sceglie di fare un viaggio in Italia con Rüdigher Schildknapp, parentesi goethiana!
Nelle vacanze estive del 1912, quando, partendo da Kaisersarschern, mi recai con la giovane moglie a trovare Adrian e Schildknapp nella piccola città di Sabina, che si erano scelto, gli amici vi passavano già la seconda estate.
Durante l’inverno erano stati a Roma e già in Maggio, al sopraggiungere del caldo, erano tornati in montagna nella stessa dimora ospitale dove anni prima, durante un soggiorno di tre mesi, avevano imparato a sentirsi a casa propria.
Il luogo è Palestrina, roccaforte dei principi Colonna, ‘appoggiata ai monti’. Zeitblom la definisce ‘città pittoresca’, caratteristica fors’anche determinata dalla presenza ‘di una specie di maialini neri’, che vi scorazzavano liberi, inconfondibile tratto italico.
In realtà non tanto di pittoresco si tratta, ma della solita incuria, in cui erano abbandonati il contado ed i colli sotto le trombe della grandezza 96
papale, incuria, che era continuata, nonostante l’avvento dei piemontesi.
La casa Manardi che ospitava Adrian e Rüdigher era certo la più sontuosa del luogo e benché la famiglia fosse composta da sei persone, poté offrire facilmente alloggio anche a noi, ospiti di passaggio.
Situata nella strada a gradinata, l’edificio era massiccio e severo, simile a un palazzo o a un castello che, secondo i miei calcoli, doveva risalire alla metà del Settecento.
In una situazione così naturale dobbiamo riconoscere che diventa ‘pittoresco’ per uno straniero, di passaggio, anche lo vagabondare libero dei porcellini neri.
Ai nostri amici era stato assegnato un appartamento addirittura vasto al pian terreno, composto da una stanza di soggiorno con due finestre, grande come una sala, ombrosa e fresca, un po’ buia e ammobiliata molto semplicemente, con seggiole impagliate e divani di crine, ma talmente ampia che due persone vi potevano lavorare senza disturbarsi a vicenda.
Da lì si passava nelle spaziose camere da letto, anche queste arredate con molta semplicità.
La cucina era il regno della signora Manardi, che i suoi chiamavano Nella, un pezzo di matrona di tipo romano, dal labbro arcuato, non molto scura di pelle, dai buoni occhi castani, dai capelli lisci, con qualche filo d’argento, di semplicità paesana e di forme piene e armoniose.
Particolare curioso, la signora portava alla mano sinistra due anelli di vedova, orba al quadrato del coniuge!
Nelle più diverse contrade d’Italia fioriscono di questi tipi, che danno al forestiere l’impressione di incarnare, oggettivare una ‘condizione’ intramontabile.
Nella famiglia Manardi le originalità non si fermano alla signora Nella; l’unica figlia, Amalia, ‘sui tredici o quattordici anni’, manifesta, soprattutto a tavola, comportamenti ‘erratici’; mentre agita il cucchiaio, ripete continuamente parole a lei stessa sconosciute. Zeitblom annota:
La signora Peronella (Nella!) e i suoi fratelli non vi facevano caso, ormai si erano abituati e si limitavano a sorridere all’ospite, quando lo vedevano stupefatto, più con commozione e tenerezza che come aria di scusa, 97
anzi quasi felici, quasi si trattasse di cosa graziosa. C’è qui descritto in pochissimi tratti l’italiano del Sud nei suoi rapporti ‘cordiali’ con la fatalità, che sopporta con estrema leggerezza, anche quando sono coinvolte situazioni (familiari!) le più atroci e dolorose.
*
I fratelli della padrona di casa, cui già accennai, erano: l’avvocato Ercolano Manardi, detto per lo più brevemente e con soddisfazione l’avvocato, orgoglio della famiglia paesana e ignorante, un uomo sulla sessantina, coi baffi grigi, e dalla vociaccia rauca, che gli usciva a fatica come un raglio d’asino; e il sor Alfonso, il minore, sui quarantacinque anni, detto in confidenza Alfo, che faceva l’agricoltore e che noi, venendo a casa dalla passeggiata pomeridiana, vedevamo ritornare dai campi sul somarello, coi piedi che quasi toccavano terra, sotto un parasole e con gli occhiali azzurri sul naso.
Dopo esserci rallegrati per il fatto che il signor Alfo ritornava dai campi nella foggia di sorvegliante e non di bifolco, (segnali inconfondibili, il parasole e gli occhiali azzurri!), ci commuove che l’asino tranquillo e devoto (a cavalcioni su di lui il coltivatore ritorna alla greppia, quasi lambendo il suolo!) col suo silenzio sembra farci dimenticare la vociaccia dell’avvocato Ercolano.
Zeitblom, inoltre,ci comunica che il signor Mainardi non esercitava più la professione di avvocato, se mai l’aveva esercitata. Al centro­sud italico la cosa era normalissima nelle famiglie, che possedevano terreni e lavoranti.
L’avvocato leggeva soltanto il giornale e lo leggeva senza smettere mai e nelle giornate di calura si permetteva di leggerlo stando nella sua stanza in mutande, a porta aperta.
Sor Alfo lo disapprovava, poiché gli sembrava che il giurisperito ­ quest’uomo diceva in queste occasioni – si prendesse un po’ troppa libertà.
Il sor Aldo, padrone e sorvegliante, che, pur minima, è sempre un’attività, si lamenta per l'insopportabile oziosità del fratello. Da tutto questo intrigo segreto, che al più si rivela nel borbottio, esce ingigantito il somaro, non quello della vociaccia, ma quello vero, che risparmia al sor Alfo pur anco la fatica del ritorno dalla campagna.
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Zeitblom avverte nel ‘contadino’ una certa animosità per il fratello, che ‘aveva studiato‘ (tempo remotissimo!); vi sente la stizza dell’ignorante forzato per la cultura, considerata (ritorsione!) un ingombro da oziosi; se si tiene presente la condizione del Sud italico in quei tempi, l’irritazione di Alfo è legittima.
Ma anche le opinioni politiche dei due fratelli erano molto divergenti: l’avvocato di sentimento piuttosto conservatore e dignitosamente devoto, mentre Alfonso era un libero pensatore, un critico di sentimenti ribelli contro la Chiesa, contro il Re e tutto il governo, tutti, a suo parere, profondamente inquinati da scandalosa corruzione. Non è difficile concludere che a provocare il ‘libero pensatore’ e ad aggravarne la fiera opposizione, sia stata la tracotante prosopopea dell’avvocato, conservatore per l’opportunismo dello scansa fatiche, che esternava la sua superiorità in forza del titolo giuridico inutile, poiché non gli serviva per nessuna attività sia pubblica sia privata.
Stantibus rebus italicis, la corruzione per Alfo distingue e cementa i titoli accademici, inutile pompa!
Uno strato di oro spesso, oleoso ruotava, ornato di carminio, all’orizzonte occidentale: un vero fenomeno di tanta bellezza che la vista poteva empire l’anima di una certa baldanza.
I tramonti nell’Italia centrale comunicano un tale senso di sicurezza e completezza da rendere realistica la chiusa (superficialmente bizzarra!) del sonetto del Belli ‘Il Cavaliere enciclopedico’; la si potrebbe infatti considerare una proiezione del nostro avvocato, vociaccia d’asino: “Non faccio per vantarmi, ma oggi è una bellissima giornata!”
Se Mann l’aveva letto, è testimonianza della sua straordinaria affinità artistica col poeta romano nell’esprimere sentimenti di questa natura. Al pianoforte abbastanza stonato nella stanza di soggiorno degli amici, egli ci suonò una volta alcuni pezzi caratteristici e una serie di scene delle parti già compiute, e per lo più strumentate per un’orchestra scelta, della commedia piacevole e capricciosa intitolata ‘Pene d’amor perdute’.
La leggerezza della commedia shakesperiana nella stravaganza del titolo contiene un momento altamente drammatico della passione amorosa; infatti se sono perdute le pene, che resta ora più dell’amore?!
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Lo svolgimento della vicenda, che acutamente Zeitblom definisce capricciosa, permette alla scontrosità di Adrian motivi di tragedia, temperati dall’ironia; situazione, ch’è in piena armonia con la natura della commedia.
Tutto era tenuto in rigoroso stile di musica da camera, come un lavoro filigranato, un’opera­saggio grottesca di suoni, piena di combinazioni umoristiche, di sottili trovate sbarazzine, in modo che un appassionato di musica, il quale, stanco della democrazia romantica e delle morali arringhe al popolo, avesse avuto il desiderio di un’arte per amore dell’arte, avrebbe dovuto trovare la massima soddisfazione in quest’atmosfera concentrica e profondamente fredda, che lì, però, in quanto esoterismo si faceva in tutti i modi beffe di se stesso, secondo lo spirito della commedia e diventava una parodia esagerata, mescolando in tanta delizia una goccia di tristezza, un grammo di disperazione.
Zeitblom interpreta la situazione dolorosa di Adrian, cristallizzata in parodia, come divertimento, quasi esercizio dell’arte per l’arte; in realtà si tratta di uno stratagemma formale del compositore per seminare, ferrea disciplina, il suo grammo di disperazione in piena (quasi sbarazzina!) libertà. L’intenzione si sbriciola e ricompone ogni volta mediante le baruffe armoniche, richiami esoterici, che fanno trionfare il grottesco dell’incredulità, (per ogni tipo di religione!), tipico dell’anima di Shakespeare; è straordinario come in un momento così drammatico della sua vita ‘teologica’ Leverkühn ricorra a un poeta, in cui i personaggi, che esprimono la ‘credenza’ (credulità!), sono sempre trattati con dileggio ed hanno una psicologia rudimentale, da clown.
Non ci si chieda da dove noi si prenda queste informazioni; nell’interpretazione delle immagini artistiche ognuno è segnato da proprie tracce ed esperienze inconfondibili.
Nella formazione della sensibilità non sono indifferenti le scelte operate nella sfera matrica delle scelte politiche. L’ammirazione infatti era tributata ad un’opera d’arte spiritosamente malinconica, a un lavoro intellettuale che meritava l’appellativo di eroico, a un bisogno assillante, che si atteggiava a travestimento sbarazzino, che io non saprei definire se non chiamandolo un gioco dell’arte molto allentato, ma sempre teso sull’onda 100
dell’impossibile.
E proprio questo generava tristezza.
Zeitblom tenta con molta approssimazione di far dipendere il senso di tristezza che riceveva ascoltando quell’originale forma di musica, dalla tensione espressiva verso l’impossibile; impossibile, che sarebbe stato meglio definito come illimite, illimite comunque di un limite, curva, il cui termine resta invisibile all’occhio, ma non all’interna accensione.
Sullo sfondo fa capolino il pregiudizio, che tende a considerare di natura demoniaca (altamente colpevole!) la volontà di dare forma semantica nuova al ‘mistero’ dell’animo umano, coinvolto in passioni complesse, che sono non più l’espressione immediata di propri bisogni o deliri, ma il pungolo atroce di picche (punzoni acuminati!), che nella coscienza ficcò e continuamente ripete il cattivo concerto dei pubblici affari.
L’arte epica nel periodo che anticipa il trionfo del paria, non può rassegnarsi alla pura armonia o solenne imitazione.
E che noi si interpreti in modo più vicino all’intento segreto di Mann gli sforzi artistici del suo personaggio, ci è rivelato dallo stesso umanista, quando ammette che Schildknapp commentava quei pezzi con parole ‘più indovinate ed intelligenti’; si trattava semplicemente del giudizio di persona, che non considerava nessuna espressione ‘criptica’, quando era in grado di trasmettere (aldilà della stravaganza!) impressioni precise, fossero comiche o tristi.
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Pochi giorni più tardi, dopo un soggiorno di tre settimane, ce ne dovemmo staccare per ritornare in Germania, mentre quelli se ne rimanevano là, ancora per tre mesi, fra il giardino del convento, la tavola familiare, la campagna orlata da una striscia oleosa e dorata, e la sala dal pavimento di pietra, dove passavano la sera, leggendo alla luce della lampada.
Come si concilia l’audacia dell’impossibile, l’esoterismo demonico con l’equilibrio idillico, in cui pascola in clima d’Arcadia la vita quotidiana di Adrian e Rüdigher?!
Nel passo è sensibile quel pizzico di invidia di Zeitblom per Schildknapp, cui tocca l’onore di allungare ancora di tre mesi le vacanze con l‘amico.
Neppure la dolce e silenziosa Helene riesce ad addolcire l’amarezza del distacco: ‘ce ne dovemmo andare’!
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Nell’abitazione di Madame de Comar sul corso, a Roma, incontrarono una folla internazionale di artisti; gente di teatro, pittori, musicisti, polacchi, ungheresi, francesi ed anche italiani, che poi perdettero assai presto di vista.
Talvolta Schildknapp si staccava da Adrian per andare nelle fiaschetterie con giovani inglesi che la simpatia spingeva tra le sue braccia.
Le scappatelle di Schildknapp nelle fiaschetterie romane, comitantibus foeminis anglis, sembrano far affiorare l’antipatia di Mann per le conventicole da Bohème, narcisismo da parata e senza motivi.
Zeitblom, nel prendere congedo dai due amici e dall’Italia, confessa di averlo fatto, nonostante il rammarico, con un certo sollievo, che così motiva:
Rappresentavo tra gli inquilini della casa un’eccezione un po’ buffa; non entravo, per così dire, nella cornice, data la mia qualità di uomo ammogliato, che paga il tributo a quella che, in tono fra di scusa e di esaltazione, chiamo natura.
Confessione in un certo senso grottesca, che rende meschino il matrimonio borghese­cristiano; il ‘tributo’ alla natura (alla rosa, mio dio!) sembra debba essere pagato con la regolarità, con cui ci si alza al mattino e, posti i denti in condizione accettabile, ci si dedica a rafforzare le membra con lauta colazione.
Quanto sono eloquenti i silenzi di Helene!
Il tributo di Serenus alla ‘sua’ natura, sembra quasi una purga! Ritengo di non essere riuscito a nascondere al lettore una certa mia gelosia per la relazione dello slesiano con Adrian: perciò lo prego anche di comprendere che quella qualità comune, il legame cioè della castità, era in fin dei conti l’oggetto della mia gelosia.
Che personaggio ha creato Mann, mettendo in primo piano questo suo angusto­simpatico­grottesco­tutto­fare alter ego!
Qui l’umanista è troppo sbrigativo; eccitato dalla stranissima e sorprendente confessione, (ti sei pentito del matrimonio?! Ti pesa la purga quotidiana con la coniugalmente casta Helene?!), confonde motivi di rancore molto diversi; infatti, se nel tributo alla natura interviene l’esaltazione, significa che la castità, invidiata nei due amici, (stranissima castità, riferita allo slesiano!), non era giudicata da lui troppo importante; 102
la gelosia, in realtà, nasconde l’incapacità di essere chiaro con se stesso; la reticenza affettiva ha creato tra i coniugi un groviglio di sensazioni non più districabile.
Zeitblom, quasi a consolarsi del ‘grommero’, che non può non sentire nel suo nodo, che strangola, fissa una diversità tra lo stato ‘verginale’ di Adrian e quello di Schildknapp; per questi la castità è la conseguenza di una sfrenata intemperanza, che si traduce in impotenza fisica; per Adrian è una scelta di vita, che l’avventura del bordello ha reso ancor più severa; una scelta di vita, per altro, che sembra evidenziare più una oggettiva curiosità per l’impuro (sia pure per non sporcarsene!) che una vera castità.
Zeitblom, senza dirselo, continua a giudicare l’attrazione di Adrian per Esmeralda, una variante delle sue suggestioni teologiche, (in esse insisteva una sorta di orgoglio di origine demoniaca!) ed esclude che ci possa essere una componente di desiderio carnale.
Che cosa nasconde il disgusto di Adrian per il semplice contatto delle mani con il corpo di estranei, non conta se maschi o femmine?!
Ma il contatto tra le mani è davvero così semplice, così schietto come lo scorrere dell’acqua su pietra nel letto di fiume?!
Zeitblom, giustamente, esclude che tanta schifiltosità dipenda dall’unico rapporto (sciagurato rapporto!) con l’infelice Esmeralda, la quale, proprio per la stranezza dell’insolito amatore, (straordinaria sensibilità femminile!), prima di concedersi con tutta la sua tenerezza, lo esortò a desistervi.
Dovendosi spiegare questo impenetrabile comportamento, Zeitblom ricorre all’esoterismo, allo strano rapporto di Adrian con il diavolo; la cosa non convince; Adrian era così pudico col corpo (suo ed altrui!) ancor prima del ‘fatale’ colloquio, del quale ci si sta per rivelare il ‘tragico e disperato’ contenuto.
Il documento, del quale si è fatto ripetutamente cenno in questi fogli, lo scritto segreto di Adrian, che dopo la sua dipartita è venuto nelle mie mani ed è custodito come un tesoro caro e terribile, eccolo qui. E’ venuto il momento biografico di inserirlo.
Il documento sconvolgente fu scritto da Adrian durante le vacanze italiane.
La circostanza convalida i legami profondi (dialetticamente in contrasto 103
con l’essere frammento infiammato del suo tempo in rivolta! Rivolta a suo modo titanica!) col romanticismo tedesco, che ha sempre visto nell’idillica Italia il terreno più favorevole per le insidie del diavolo.
Il demonio meridiano (solare!) è dagli asceti giudicato il più temibile.
Uomo, sazio di sole e di dapi, sei troppo disposto al maligno!
C’è una scienza, che si risolve matematicamente nelle definizioni e un’altra, che sprofonda negli abissi insondabili dell’io.
E’ un dialogo? E’ veramente un dialogo? Dovrei essere pazzo per crederlo. Ma se egli, il visitatore, non c’era, io sarei atterrito dalla confessione che vi è contenuta, nell’ammettere sia pure al condizionale, come possibilità, quella stessa realtà! E’ raccapricciante pensare che anche quei cinismi, quegli insulti, quelle ciurmerie possano essere scaturite dall’anima della ‘vittima’.
Il fatto che Zeitblom ritenga Adrian ‘vittima’, sottende due convinzioni: diavolo o no, quanto nel documento scritto è opera di una situazione esclusivamente umana; il trascrivente (sotto dettatura o no!) non è responsabile ‘singolarmente’ del piano lì contenuto.
L’orrore di Zeitblom (si tenga presente che sta stendendo la biografia di Adrian, mentre la follia nazista è sul punto di trascinare la Germania e i suoi eroi in un baratro innominabile di nefandezze!) è così esagerato da sfiorare l’ipocrisia.
*
Creatura di dolore avevo passato tutta la giornata al buio, col mio mal di capo e più volte avevo dovuto recere come accade nei gravi attacchi, ma verso sera venne il miglioramento inaspettato e quasi improvviso. Potei tenere la minestra che la madre mi passò (‘poveretto!’), tracannai un bicchiere di vino rosso, (‘beva, beva!’), e fui ad un tratto di così buon umore e sicuro di me che mi concessi persino una sigaretta.
Il preludio è esilarante; beva, beva, poveretto!, gli suggerisce la matrona come incoraggiamento! D’altra parte le ‘ventate di follia’ impendono non controllabili. non certo per colpa del Fato; prescindono dalla nostra condizione del momento; l’inquietudine senza motivo apparente può anticiparne la prava presenza e conta assai poco restare ‘parati’, poiché si tratta di rapporti contorti, dal 104
clan conclamati e voluti.
Me ne stetti, qui, nella sala, accanto alle finestre chiuse, presso la mia lampada e mi misi a leggere Kierkegaard, dove dice del don Giovanni di Mozart. Però nella teologia del danese non c’è spazio per la figura del demonio; il rapporto è diretto, Abramo­Dio.
La lettura di Kierkegaard non può quindi essere considerata come preludio o provocazione demonica; il protestante Adrian, iniziato al conflitto teologico della colpa da sempre, conosce il carattere personale del cristianesimo di Kierkegaard, per il quale solo l’uomo fa da confine e distinzione tra il bene e il male.
Ed ecco subito colpire mi sento da un gelo tagliente, come quando uno se ne sta d’inverno nella stanza e all’improvviso una finestra spalancata accoglie il freddo esterno. Ma il gelo non veniva da dietro me, dove sono le finestre; no, mi colpiva in faccia.
Alzo gli occhi dal libro, guardo la sala; (qualcuno) è seduto all’angolo del divano, con le gambe accavallate, ma non è Sch.
E’ un altro, più piccolo di lui, e non si può dire che sia un vero signore. Il freddo però mi avvolge di continuo.
Alla sensibilità di Adrian lo sconosciuto suggerisce immediatamente antipatia; (non un vero signore! Così deve essere apparso alla madre il suo tutore musicale!); il gelo ne è il mezzo tagliente e insopportabile, ma la sensazione di repulsa è suggerita da una punta di familiarità, di intima affabulazione, che subito lo irrita, (non è Schildknapp!).
D’altra parte, a ben considerare, un altro da­sé per riuscire a carpire la sua attenzione non poteva agire diversamente.
La reazione di Leverkühn si estrinseca in un secco italiano: Chi è costà?
L’effetto voluto (dall’altro!) è stato raggiunto pienamente.
­Parla pure in tedesco, tedesco antico, senza mascheramenti e ipocrisie. Io lo capisco, anzi è la mia lingua preferita.­
Salta immediatamente all’occhio che Leverkühn ha iniziato a narrare questo episodio con lo stesso stile, con cui aveva comunicato a Serenus la 105
sua avventura di Lipsia.
Il richiamo ha il tocco feroce della carne ed è in perfetto clima con l’invito, che lo sconosciuto fa all’interlocutore di mettersi il pastrano.
Il suggerimento a non prendere freddo è stratagemma intrigante, in quanto accelera la familiarità.
­Chi mi dà del tu?­ ­Io, con permissione! Ah, tu credi che siccome non tueggi nessuno, nemmeno il tuo buffone, fuorché il tuo compagno d’infanzia, il fedelissimo che ti chiama per nome, mentre tu non fai altrettanto. Via! Lascia andare, tra noi ci sono rapporti tali che possiamo darci del tu.­
A questo punto lo sconosciuto ci diventa antipatico.
Il richiamo a Serenus e a Rüdiger (‘buffone’, appioppato a costui tende a ‘umanizzare’ l’incontro; la malignità o vendetta di Serenus, di fatto, scopre il duplice gioco e dà una svolta decisiva all’episodio!) lascia sul momento perplessi.
L’equivoco tra l’io e l’altro (rifrazione scaltra del sé!) squarcia abissi di follia imperscrutabile; l’alterità in funzione dell’ego, in riferimento obbligato dell’ego, si estrinseca come diverso, finzione, che è caparbiamente inflitta al sé come vera; ed è quanto ci rende allibiti.
Un lenone, uno sfruttatore con una voce articolata da attore di teatro.
Se desideri, quasi sogno, inventare ex­nihilo un personaggio repellente, ricorri d’acchito agli scampoli della bruttezza morale a te più congeniali, ‘lenone e sfruttatore’.
Sullo sfondo occhieggia il bordello, dove faceva da ninfa Esmeralda!
Adrian prende sul serio l’invito dell’antipatico seccatore e va nella camera per prendere il cappotto invernale, che era solito portare a Roma, quando soffiava il vento di tramontana.
­E’ molto improbabile che uno venga da me di sera parlando in tedesco e sprigionando gelo, per trattare di affari dei quali non so e non voglio saper nulla. Molto più verosimile che si stia manifestando in me una malattia e che nel mio stordimento il tremito di febbre io lo proietti all’esterno, nella vostra persona.­ Ma ormai lo sdoppiamento è avvenuto ed ha ragione ‘lui’, lo sconosciuto, nel giudicare le parole di Adrian artificiose ed assurde.
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Se non ci sono, (tu non avessi la coda di paglia, non dovrei esserci!), come puoi chiamarmi persona?!
La malattia fisica non c’è, come non scaturì alcuna tabe dall’unione con Esmeralda!
La ferita sta nelle tua teologia e io ne sono il compimento!
Adrian si difende sempre più debolmente. “Dite continuamente cose, che sono in me e provengono da me, non da voi!”
Il riconoscimento di sé, portato all’esterno quasi con voluttuoso e tenebroso compiacimento, rende lo sdoppiamento verosimile. Adrian denuncia di non essere più un grado di garantirsi l’unità psichica.
­Anziché dedurre dalle mie nozioni che non sono qui in concreto, dovresti piuttosto concludere che non solo sono concreto, ma sono anche colui che tu mi reputi in tutto questo tempo.­
Strepitoso, proprio mentre afferma la sua concretezza, il ‘Lui’, gloriandosi di essere quello che Adrian immagina da sempre, si nega come visitatore ‘fisico’; si impicca, di fatto, al suo abito teologico!
Una persona esiste per se stessa, non per l’immaginazione altrui!
Sarebbe un gioco da bambini per Adrian strapparsi via dal torpore di quasi incoscienza, (dovuta anche all’improvviso sollievo per la scomparsa del mal di testa!), se troppe volte non avesse affogato la sensibilità nella nebbia pestilenziale delle suggestioni religiose. *
­Non dovresti fare a rimpiattino come se non mi avessi aspettato da un pezzo! Se io sono, non posso che essere uno. Dicendo ‘chi sei?’ intendi ‘come ti chiami?’ Ricordi certamente tutti i bassi nomignoli fin dai tuoi tempi goliardici, quando non avevi ancora buttato alle ortiche la Sacra Scrittura.­
Il demonismo di Adrian è di natura mentale; lo sdoppiamento neppure nel delirio riesce a superare questo limite strutturale; il ‘chi sei’ non si trasformerà mai nell’ansia da sagrestia del ‘come ti chiami’. Lo scopo del delirio (recondito sino a un certo punto!) è di mettere in luce con autoanalisi spietata (al limite della follia!) fin dove gli è concesso di 107
inoltrarsi nel male e se davvero nella condotta umana insista la malvagità allo stato ‘puro’, quella, che avrebbe scatenato le vendette del dio e le conseguenti paure (per le conseguenze viltà!) della madre.
­Io faccio quel che dico, mantengo le mie promesse e posso dire che questo è un mio capriccio commerciale, all’incirca come gli ebrei sono i mercanti più fidati; e quando c’è un imbroglio è proverbiale che l’imbrogliato sono io, credulo alla fedeltà e all’onestà altrui.­
L’umorismo caustico di Leverkühn trova espressioni impagabili!
Che l’imbrogliato sia il demonio (incarnato nel giudeo mercante!) è geniale intuizione; infatti è il mercato l’origine di tutti gli imbrogli, ma in senso puramente mondano; chi genera imbroglio, sarà gettato nel baratro dell’ignominia.
­Proprio qui in Italia pretendete di venirmi a visitare? Dove siete estraneo alla zona e niente affatto popolare? Che assurda mancanza di stile!­
Pregiudizio classico, però negato dai romantici suoi connazionali; Hoffmann in particolare colloca il suo demonio nei labirinti (gli specchi!) del sole!
Per la verità ovunque trionfi il dio israelita­cristiano il demonio è sempre di casa!
­Sì, sono tedesco, profondamente tedesco, se vuoi, non alla maniera antica, migliore: sono cosmopolita in fondo al cuore.­
Il cosmopolitismo tedesco, aggiornato dagli Junker, è diventato invadente ancor più del duale inventato dai mistici.
­Tedesco dovrei essere, ma tu non vuoi concedermi di sentire nel gelo la nostalgia del sole; ho qui bellissimi affari a proposito di una gentile creatura.­
L’immaginazione, coinvolta nel torbido, incappa nella crapula crassa di una libido d’accatto, meschinità, che il desiderio carnale neppure sospetta.
Ne scaturisce, visione nefasta, l’inferno, la ‘carcere’, dove il delirio è ferito nel pungolo, pel quale gli amanti concupono con 'degnità' naturale le cellule ardenti.
È facile per l’intelletto (fantasma, astrazione!) far sempre la predica al corpo!
­Il tempo è la cosa migliore che possiamo dare e il nostro 108
dono è la clessidra. Volevo soltanto intendermi con te, mio caro e dirti che la clessidra è collocata e che la sabbia ha cominciato a scorrere.­
Quando a Signore del Tempio, (natura, ove tutto dipende da ‘noi’!), collochiamo per fare da arbitro il Vuoto Assoluto, ne siamo d’acchito puniti; tremiamo per ogni granello di sabbia, che scorre inarrestabile come l’invito del dio, che passa. Ah, insopportabile il gelo (terrore!) del gesto! Esso nasce dal panico della clessidra, che macina il tempo in un soffio. Per questo il fantasma di Satana scivola brivido dentro l’agrore di Adrian.
­Do del tu, in fondo, anche a me stesso; è questa probabilmente la spiegazione del vostro modo di parlare.­
‘Vostro’, riferito a se stesso, (alla pari del tu!), è ambivalenza insidiosa, ancor più del duale, che spezza, divelle dal corpo caduco lo spirito eccelso. Nascono da qui le assurdità e le contraddizioni.
­Sapete quale aspetto avete? Non basta dire volgare! Siete come una schiuma di malavita, una carogna, un lenone insanguinato. Questo è l’aspetto nel quale vi è piaciuto di venirmi a trovare e non già come un angelo.­ Come può essere angelo ancora Lucifero?! A questa assurda pretesa il ‘demonio’ finalmente esulta; gli è rivelato un aspetto, che non aveva sospettato.
Lo sdoppiamento si fa sempre più scoperto; ma Adrian non intende interrompere l’esperimento; vuole tendere sino al limite di sopportabilità il suo orgoglio blasfemo.
Se poni al di sopra di te un Padrone, lo devi servire e sarai costretto a considerare intemperanza colpevole ogni minimo desiderio di libertà.
Il demonio stigmatizza l’ambivalenza della sua persona in questo modo:
­Il mio aspetto dipende puramente dal caso; si presenta a seconda delle circostanze, senza che io vi contribuisca. (Folgorante ammissione della sua inanità, inesistenza!).
Adattamento, mimetismo, mascherate e beffe di madre natura, che sempre si diverte. Ma tu, mio caro, non vorrai riferire a te questo 109
adattamento del quale so tanto poco quanto la farfalla­
foglia e darne la colpa a me.­
Con sottigliezza Adrian cancella il demonio, ritenendolo una non­entità; chiama, infatti, a testimone delle sue stravaganti metamorfosi la natura.
Il demonio (l’altro suo io, nel dialogo designato col ‘lui’!) è costretto a confessare di non essere in grado di darsi una figura; ogni suo travestimento è forgiato da altri, che seguono la loro ispirazione (a volte carnascialesca!) nel prestargli una forma tangibile, operazione, che avviene del tutto a sua insaputa.
­Tu, mio caro, sapevi benissimo che cosa ti mancava ed hai seguito quel modo di essere, quando facesti il tuo viaggio e andasti a prenderti i cari francesi.­
La sifilide è una mera ossessione di Adrian, (se non un suo sciagurato ardimento!); si tratta del pretesto teologico (colpa imperdonabile! Il peccato dello spirito, perpetrato con il gelo della carne!) per penetrare nei meandri del Male e subirne, soffrirne alla follia, le maledizioni.
Il ritegno pudico (regalo materno!) diventa il principio e lo scopo dell’unico contatto con la femmina, (sedizione e serpente!), situazione che Leverkühn utilizza con un cinismo sforzato e, per questo, insidioso.
L’artista non vuole pagare lo scotto alla vera sorgente del Male, ch’è crimine contro fratelli, crimine, che nulla ha a che fare con il satiro demonio alemanno o di qualunque altra provenienza.
*
­Sicché voi volete vendermi tempo?­
­Tempo? Soltanto tempo? Quale specie di tempo, questo conta! Tempo grande, tempo folle, tempo indiavolato, pieno di baldoria e di tripudio, e anche un pochino miserabile, anzi molto miserabile! Perché questa è la natura e la maniera degli artisti, la quale, com’è noto, tende sempre agli eccessi in ambedue le direzioni ed è normalmente un po’ esorbitante!­
L’artista tende agli estremi per spinta genuina, non per smania di sensazioni.
Adrian centra il suo limite, (‘i suoi cari francesi’!), ma non ne trae conclusioni convincenti, (la cruna liberatrice!), poiché ne fa profeta e cantore il demonio teologico; in una parola, rinuncia a capire la natura del compito dell’artista, pur restando tale in profondo, quando crea ritmi musicali.
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In questo stato di confusione e di arrendevolezza è fatale che affidi lo spasimo liberatorio alla libido, sia pure nella forma romantica e spiritualizzata di una sirenetta, che sembra uscita dalla fantasia di Anderson.
La malattia, tanto più se è seria, scandalosa, discreta e segreta, stabilisce una certa critica al mondo, alla vita dozzinale; ispira sentimenti di ribellione e d’ironia contro l’ordine borghese e spinge il suo uomo a cercar protezione nello spirito libero, nei libri, nel pensiero.
Il presunto diavolo espone una teoria antiumanistica in piena sintonia col medioevo germanico, di cui si è dichiarato epigono.
Nel ‘lui’ è sostanziato, messo in piena luce, il teologismo aristocratico e un po’ miscredente di Adrian, per il quale la malattia dei sensi (provocata!) deve mutarsi in squilibrio mentale, metastasi violentemente propagatasi dalla zona venerea per assurgere a meta salvifica nel pandemonio canoro.
L’infezione, che sbriciola le barriere dell’orgoglio, che sfida i lividi della grazia gratuita respinta, desidera attingere il genio assoluto mediante la violazione sistematica del senso comune borghese, per cui anche la più semplice ricerca formale diventa operazione infernale.
Lo sdoppiamento deriva da una viltà non­colpevole, in quanto bevuta alla nascita; essa rende incapace di compiere per medias res il salto verso la libertà, che rifiuta frontiere.
Un momento fa ti sei informato dell’amico Spengler di Monaco e se io non ti avessi troncato la parola non faresti che chiedermi notizie sulla spelonca infernale.
Leverkühn, abusando dell’immagine del demonio, si confessa un genere di vanità (curiosità?!), che lo umilia, sebbene sia consapevole di farlo in modo parodistico; l’umorismo nasce dalla forzata voluttà del particolare scabroso, situazione, che solitamente infesta gli spiriti, resi acidi dalla teologia ascetica.
Dice il ‘lui: ‘Anch’io ho un certo orgoglio e so di non essere un ospite indesiderato!’ Come a dire: smettila di fare il raffinato: tu sarai sempre quel che sei!
Siamo in pieno clima Goethiano! Ma io l’amico e il lenone di Esmeralda, come tu mi vedi, come potrei non avere un particolare interessamento per il campo relativo e ovvio della medicina e non intendermene da specialista? Alcuni dottori sostengono 111
e giurano che tra i piccolini ci debbono essere degli specialisti in fatto di cervello, amatori della zona cerebrale, vi debba essere, insomma un virus nerveux. Vero è il contrario: il cervello è desideroso della loro visita e li aspetta con ansia, come tu aspetti la visita mia; è il cervello che li invita, che li attrae e non vede l’ora che arrivino.
La ‘caduta’ delle cellule pel mercimonio della lussuria cristiana è iattura pestilenziale.
L’attesa frenetica del cervello pei piccolini ermafroditici ha la stessa effimera insolenza (torbidume!) della visita del demonio teologico, voluta dallo specialista musicale Leverkühn.
Mann è un fantasioso trapezista, quando analizza le passioni con canone intellettualistico e ne accetta coscientemente i rischi; si tratta dell’abilità di quanti, pur geniali e profondi, rifiutano di limitare l’arte alla matrice della più nuda umanità soffocata.
Il cliente dei miei piccolini che ha fatto un lungo viaggio, non era forse stato invitato a stare in guardia? E anche i tuoi medici te li sei scelti con sicuro intuito.
Adrian si attacca disperatamente alla dea sifilide, a lui necessaria per sfidare l’invisibile e il non­violabile!
La sciagurata avventura coi medici, ai quali si era affidato soltanto per farsi confermare che i suoi dolori di testa sono verace malattia venerea, ha aumentato la certezza di essere segnato cerebralmente a causa dei piccolini, di cui blatera saccente il visitatore.
­Li ho cercati nella guida degli indirizzi. Che cosa avete fatto dei miei due medici?­
­Eliminati, eliminati! Oh, quei pasticcioni li abbiamo eliminati, naturalmente nel tuo interesse e proprio nel momento giusto, quando con le loro cialtronerie avevano messo la faccenda sulla giusta via. E se li avessimo lasciati fare, non avrebbero potuto altro che sciupare il caso interessante.­
Per quanto lucida, la farneticazione, alle corde, diventa incoerente.
Non ci si può difendere da una sciagura, giurandone la casualità (‘la guida degli indirizzi!”) e poi esaltarne l’opportunità!
Lo sforzo dello sdoppiamento rivela le crepe ed è acuto Mann nel non 112
nasconderlo, anzi nel rendere sempre più persistente il demonico contro il satanico.
In nessun modo però potevamo lasciare che la cialtroneria continuasse la provocazione. Stretto, piccolo e circoscritto è, oggi, dopo quattro anni, dacché te la sei buscata, il porticino lassù, ma c’è il focolare, lo stanzino da lavoro dei piccolini, i quali vi sono arrivati, diciamo così, per via liquida: il posto dell’incipiente illuminazione. Adrian strepita e grida che ‘Lui’ è solo un fantasma del suo cervello; ma al ‘fantasma’ (dal musicista scatenato contro la colonna insopportabile della grazia gratuita!) riesce troppo facile rispondere che proprio questa sua facoltà ‘ricreatrice’ (invenzione artistica!) rivela che i piccolini hanno ’lassù’ (nella nicchia del puro pensiero e dei nervi! Contrasto da strangolo, ma produttivo al poeta!) lavorato, seguendo i suoi ordini, sì, i suoi, di Satana­Lucifero!
*
­Ti proibisco di parlare di mio padre!­
­Oh, tuo padre sulle mie labbra non è fuori luogo. Era un volpone, tuo padre, e indagava volentieri gli elementi. Il mal di capo, il punto di partenza per le trafitture inferte dalla sirenetta, l’hai preso da lui.­
Il punto d’avvio è sempre quello, lo strano e insidioso dialogo ad unum. Chi vuole troppo addentrarsi nel mistero della vita per indagare troppo insistentemente se stesso, è teologicamente una potenziale vittima (schiavo!) dei ‘piccolini’ satanici, due varianti esplosive: libidine e orgoglio.
Per Adrian il padre, nonostante la benevola possa, proprio perché ricercatore per gioco, incarna segreta l’insidia; ma quale?! Essa è lasciata nel vago, benché assurga ad emblema del dolo; ci si si limita a lamentarsene in maniera troppo superficiale.
Adrian con questo sotterfugio riesce a tenere fuori la madre; egli tenta di addebitare la visita ad Esmeralda (desiderio invincibile di avere contatto con la carne concupiscente di femmina!) non ad una prurigine, scatenata dall’insostenibile pudore materno, ma alle curiosità innocenti (naturali!) del padre.
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Quando uno nel rapimento scrive ai margini: Sono beato! Sono fuori di me! Questo è nuovo e grande! Volontà cocente dell’ispirazione! Le mie guance ardono come ferro fuso! Sono furente e tutti voi sarete furenti quando ciò vi raggiungerà! E’ questo ancora salute folle, pazzia normale, o si tratta di meningi colpite? Il borghese è l’ultimo che possa rispondere; in ogni caso, per molto tempo non ci si accorge di nulla, poiché sa che gli artisti sono un po’ matti.
Questa è la chiave per scoprire il demonismo di Adrian; nipote del Faust originario, non quello di Goethe; l’artista è per dote un incendiario; gli deriva immediatamente dall’osservare la putredine ‘cristallizzata’ del costume, la generale abulia del pensare e dell’agire.
Il suo lavoro (fuoco!) è profondamente disturbato dall’indifferenza (incapacità a capire!) dell’unico, che si arroga il diritto di essergli benefattore e che pretende di suggerirgli il canone del successo, ossia il borghese, come classe! Da questa trista stupefazione (unicità desolante!) scaturisce il dubbio (disgusto!) di far parte, di essere intimo della meschinità trionfante.
L’educazione luterana è miscela esplosiva per lo spirito, che ardisce rompere le forme chiuse con la fulmineità dell’invenzione e rifiuta con forza e determinazione (ebbrezza naturale, ‘sono furente’!) la violenta inumanità dell’umiltà, che il dogma della grazia gratuita martella come contributo minimo per la salvezza.
L’inferno di Adrian è questo, non il terrore della desolazione post mortem!
Queste riflessioni (Mann ci squarcia se stesso con sincerità generosa! L’artista di genio è talmente oggettivo davanti ai suoi lampi da ergersi a primo assertore del proprio valore!) ci portano ad affermare che il duale ‘io­lui’ non è una trovata estetica, ancor meno una reminiscenza letteraria, ma sostanza di una condizione poetica concreta.
Vedi, tu non pensi alla ricorrenza, tu non pensi da storico, quando ti lamenti che questo o quell’altro hanno potuto dire, interamente, gioie o dolori infiniti senza che gli fosse imposta la clessidra, senza che alla fine gli fosse presentato il conto. Ciò che egli nei suoi tempi classici ha potuto avere, oggi soltanto noi possiamo offrirli.
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Per quanto alto si tenga il discorso teologico, applicato alla quotidianità, (dove si mischiano superbia e disprezzo di sé!), non può impedire che la pacchianeria cialtronesca prima o poi venga a galla.
La storicità di Cristo è problema talmente inutile e irrisolvibile, (il confine tra ante e post genera solo guazzabuglio di assurdità!) che Adrian per districarsene cerca disperatamente una soluzione ed inventa il demonio in vacanza nel paese del sole, alter ego semifolle per contrastare la lucidità ‘mistica’ dell’Unico Sommo, essere privo di carne.
Per un artista genuino (‘la genuina ed antica esaltazione’, dice Lui!) la differenza tra il prima di Cristo ed il dopo diventa ‘inessenziale’, rivelandosi per quella che è, ossia convinzione astratta (catechizzata!) di un momento storico, protratto caparbiamente nei secoli.
Se qualcosa gli è odiosa, se vi è al mondo qualcosa di contrario a lui, è precisamente la critica dissolvente. Ciò che egli vuole o largisce è appunto la trionfante superiorità, la brillante mancanza di scrupoli. La scala temperata del ‘corale’ (Bach e Gradum ad Parnassum, con ascendenze del graduale gregoriano!) è dal diavolo infranta per aderire alle teorie di Adrian, (quindi, a se stesso!), esaltando il grado di stupefazione, che è il portato del genio.
Non c’è indifferente, il quale non senta in questo passo il nudo travaglio dell’artista, che vorrebbe gridare la sua eccezionalità e nel frattempo ne è frenato dalla vergogna di sentirsi stoltamente superbo.
Sarò all’altezza del compito?! Ma la mucillagine, che intriga non è il dovere e neppure il dubbio sulle qualità proprie, bensì il falso paradigma del successo, unica garanzia della genialità, risolta in atto creativo. Il vero ristagno, fondale del putrido, è Dio; quello di Calvino ancor più, se si esclude la sfera degli affari; Satana è ‘forza vindice’, come suggerisce il sanguigno Carducci.
La seduzione del demonio, critico positivo, per nulla dissolvitore, è chiarita, illuminata dalla sua trasformazione fisica, benché restino identici la voce nasale e il tono distaccato, ostentatamente sonoro.
Ma guardali per tuo conforto, i tuoi colleghi inauguratori della nuova musica, intendo quelli onesti, quelli seri, che traggono le conseguenze dalla situazione. 115
Non parlo degli asilisti, (piccoli cenacoli narcissici!), folcloristici e non classici, la cui modernità consiste nel rinunciare allo sfogo musicale e nel portare con maggiore o minor dignità l’abito stilistico di epoche preindividualistiche. Costoro fanno credere a sé e agli altri che le cose noiose sono diventate interessanti, perché le interessanti sono diventate noiose.
Adrian scrive nel resoconto segreto, scoperto da Serenus, che a quel punto cominciò a sentirsi meglio. Finalmente è riuscito a trovare il capo della matassa; ora sa distinguere la vera avanguardia dai falsi intimisti, che fingono di essere singolari per nascondere il gelo interiore e la mancanza di vere idee e di validi stimoli. Il ‘lui’, per maggior derisione, aggiunge ‘E sono anche importanti!’ Espressione equivoca, messa sulla bocca del diavolo. Io non lo sono ­ sembra protestare Leverkühn­ io ero sinceramente casto, teste Esmerlada, al di qua dell’intervento subdolo dei ‘tuoi’ piccolini.
Credo che tu ed io preferiamo la rispettabile impotenza di coloro che non si sentono di nascondere il morbo generale sotto una maschera dignitosa.
La contraddizione è decisamente stigmatizzata; con un ghigno d’ammicco ai posteri il duo Mann­Adrian sembra dire: Ma che scempiaggini! L’artista vero non sta tra gli asilisti; egli anzi sta creando in segreto quell’opera, che farà sghignazzare il pubblico musicale, che riconoscherà nelle maschere gli artisti contemporanei! Tutto è contemporaneo, signori, basta sapercisi orientare!
*
Ad ogni battuta, che osi pensare, il livello della tecnica si presenta come un problema. Ad ogni istante la tecnica nel suo complesso gli chiede di tener conto di essa e di dare la sola risposta giusta che essa ammette in ogni istante. Si arriva al punto che le sue composizioni non sono altro che risposte di questo genere, soluzioni di immagini burlesche della tecnica. L’arte diventa critica, diventa un caso molto onorevole, nessuno lo nega! Ci vuole molta disobbedienza nell’obbedire rigorosamente, molta indipendenza, molto coraggio. Ma il pericolo di non creare è ancora pericolo o è già un fatto bell’e compiuto?
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Mann deride qui i solonici mugugni della critica liberale; egli è consapevole, aldilà dei fastidi tecnici, dei dubbi circa i moduli compositivi, (avanguardia, realismo ottocentesco, visione oggettiva dei fatti, neutralità dell’artista, sua volontaria e forzata assenza!), che il sospetto feroce di essere davvero riusciti a creare opere essenziali ha sempre tormentato tutti gli artisti in grado di essere anche poeti.
Se la tecnica è diventata una ‘cultura’, egli non se ne fa sedurre, (ancora meno se ne sgomenta!), poiché si rifiuta all’analisi critica, se questo maciulla l’immagine; al più egli utilizzerà ‘alcune novità formali’ per rendere la sua scrittura più pregna e più libera dai condizionamenti delle mode passate.
La situazione ‘critica’ della musica ‘contemporanea’ lascia Mann fortemente perplesso; sente istintivamente (nonostante le lezioni di Adorno!) che l’atonale, perseguito con pervicace esclusione delle tonalità per repulsione del passato, quand’anche suggerisca moduli più in coerenza col presente, non potrà mai totalmente raggiunger lo scopo, finché si terrà nel suo rigore iconoclasta.
Il musicista Adrian non sarà mai il poeta Thomas! Non perché il musicista sia meno poeta del poeta per parole, ma per la falsa presunzione che basti la tecnica per diventarlo!
Da qui scaturisce il demonio, Mefisto irridente e serioso da fare pietà, tanto é solo l’alter ego di Adrian!
Opera, tempo e apparenza sono una cosa sola e tutte insieme ardono in balia della critica. Questa non tollera più apparenza e gioco, non tollera la finzione, la sovranità della forma che censura le passioni e il dolore umano e li suddivide in parti, li trasforma in immagini. Ormai si può ammettere soltanto l’espressione non fittizia, l’espressione non esaurita, non simulata e non trasfigurata dal dolore nel suo momento reale. La sua impotenza e la sua miseria sono talmente accresciute che non è più lecito farsene un gioco di apparenze.
Il ‘Lui’ ha uno scatto d’iracondia degno del borghese­liberale; non ti permettere di scaricare la critica sulle condizioni sociali!
La critica (estetica!) è forsennatamente maligna, quando non tiene conto che tutto il suo ‘poco’ di sale è plebeo e che proprio il plebeo non pretende affatto che l’arte rinunci a ridurre in immagini­forma il dolore; il plebeo al più suggerisce che il dolore sia visto e descritto per quello che è, offesa 117
alla carne, rimediabile solo con il rispetto per il corpo (materia!).
Il ‘realismo’ è l’arte dei ruvidi, in quanto prevede il riscatto; sarà questo ‘canone’ valido al pari dell’epica omerica, quando saranno libere ed accessibili le vere sorgenti.
Il grottesco, cui Adrian affida gelosamente la sua intima disperazione, (impotenza a centrare la serietà delle Madri!), è la denuncia di una grave difficoltà a spezzare la spirale di fuoco, che si trasforma in gelo, essendosi privata volontariamente (sola stoltezza!) della linfa plebea, dimenticata e non certo per colpa individuale; da ciò scaturisce il demonio!
La pretesa di pensare che l’universale sia contenuto armonicamente nel particolare smentisce se stessa. E’ finita per le convenzioni di valore anticipato e obbligatorio, le quali garantivano la libertà del gioco.
Il ‘Lui’ non è poi così acuto, se non comprende di aver tolto ogni valore all’universale ‘astratto’, l’unica convenzione à la page, che tenga incolmabile la distanza tra dio e l’uomo con la contraffazione ideologica delle classi. In fondo se il particolare non può riflettere, contenere in sé l’universale ‘astratto’ è perché questo ‘assoluto’ non esiste, è l’ontologizzare separato del ‘nulla’.
L’esaurirsi dell’arte (non solo la musica!) è in questo disperato non­
rispecchiarsi che dopo l’affacciarsi nella storia del Ruvido costringe il particolare (l’evento in tutta la sua vera complessità e ricchezza!) a cercare altri riferimenti per non annaspare nel vuoto dell’alienazione, da cui scaturisce la ‘necessità’ estetica di verificarsi (sentirsi vivo ed indispensabile!) per mezzo della forma e della critica di sé.
La finzione resiste, finché le presenze reali (uomini!) non ne denunciano la vanità concettuale e l’ingiustificata alterigia. Solo l’ingenuità (innocenza!) dell’artista dà un senso all’artificio; quando la critica, trascurando come volgare quest’unico legame con la realtà, recide il cordone ombelicale della comprensione tra i simili e la verità, si trova nuda.
Non ci si può attendere rimedi e salvezza dal sotterfugio, sia pur praticato alla grande!
Adrian ne è consapevole e, nel tentativo disperato di strapparsene via, sgomento si trova isolato, quindi, per disperazione inventa il ‘Lui’.
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Il demonio dovrà ben intendersi di musica. Se non erro, poco fa leggevi il libro del cristiano innamorato dell’estetica, non è vero? Quello se ne intendeva e sapeva i miei particolari rapporti con questa bell’arte.
Si noti come il ‘Lui’ scivoli dall’estetica astratta (nobile pretesto il cristiano originale Kiekegaard!) alla musica con insidiosa sufficienza, quasi noncuranza.
Se ci fosse ancora bisogno di sottolineare l’univoca fonte ispiratrice del ‘Lui’ e dell’ Io’, basterebbe rilevare che qui del danese sono taciute le sorti ultraterrene, motivo, che avrebbe dovuto interessare il demonio, se non altro per aumentare il suo prestigio di fronte alla nuova ‘vittima’.
Faccenda molto teologica, la musica, come lo è il peccato, come lo sono io! Si potrebbe sospettare che Adrian consideri la teologia come il negativo dello stato pre­edenico (riflessione materialistica!) e che proprio a questa condizione, vanificata dalla cacciata di Adamo, chieda (o affidi, essendo lui l’unico protagonista!) la chiave per penetrare nel gelido sacrario della sua impotenza e vincerla.
Ecco, ora ti ho recitato la parte del povero Giuda, per via delle difficoltà, nelle quali, come tutto il resto, è incappata la musica. Eppure l’ho fatto solo per annunciarti che tu le devi infrangere, queste difficoltà, che devi sollevarti sino alla vertiginosa ammirazione di te stesso e comporre cose tali da suscitare in te sacro orrore.
L’annunciazione del ‘sacro orrore’, sebbene balugini come ardore nervoso, è solo incantesimo fantastico. La rottura dei canoni, se resta fine a se stessa, narciso, esaltato dalla propria scissione, si snatura e trasforma la volontà di rinnovare in contorcimento sofistico, da qui il ‘sacro orrore’.
E voglio dire che la malattia creatrice, la malattia che largisce genialità, che scavalca gli ostacoli e nell’ebbrezza temeraria balza di roccia in roccia è mille volte benvenuta nella vita di quanto non sia la salute che trascina sciabattando.
Di fronte al fatto dell’efficacia vitale, mio caro amico, crolla ogni distinzione tra malattia e salute.
Fa tenerezza e dolore che un uomo abbia bisogno del demonio per 119
intenerirsi; mio caro amico, rivolto a se stesso!
Che dalla malattia possa uscire alcunché di geniale è un’illusione, che di fatto gratifica la vita, poiché, al pari del male, la malattia è una temporanea condizione patologica, una parziale mancanza di salute. Resta sostanziale (e Adrian lo sa benissimo!) la vitalità, la quale, finché l’uomo pensa ed agisce, non fu mai, né sarà, schifiltosa.
La genialità, come manifestazione della malattia, è un equivoco, è il riflesso ingannevole di un clima sociale (falsa universalità!), che oscura le cause del dolore per lasciare nell’ombra la corruzione della corte.
*
A chi riconoscerei un’esistenza teologica se non a me? La religione è di mia competenza, com’è sicuro non è di competenza della società borghese. Da quando la cultura si è staccata dal culto, e si è fatta culto di se stessa, non è altro che un’apostasia e dopo solo cinquecento anni tutto il mondo se ne è stancato e ne è sazio cose se l’avesse divorata a marmitte. Se la religione è competenza del diavolo, finirà per diventare una sorta di curiosità archeologica.
Se la cultura laica non fosse stata segnata dalla superficialità estensiva, (ultima breccia tenuta aperta dai patriarchi del vuoto, ultimi sbrendoli del parassitismo mistico!), il processo di dissoluzione sarebbe già quasi completo.
Mi avete parlato molto del tempo segnato dalla clessidra, tempo da voi amministrato, mi avete tenuto una lezione sugli acconti di dolore che bisogna versare per la vita elevata, ma nulla avete detto della fine, di ciò che viene dopo, della perpetua estinzione.
Il terrore teologico per la dannazione (estinzione ne è il velo, la foglia di fico!) è lo scott, pagato da Adrian allo sciagurato capriccio dello sdoppiamento; il riflesso simbolico diventa traumatico.
Ci sarà almeno la fama?!
E’ un soprassalto d’angoscia, che nasce dalla ideologia dell’essere unico, scienza assurda, che popola di spettri mostruosi la serenità delle immagini.
Si possono certo dire ed usare molte parole, ma tutte sono soltanto sostituzione, stanno per nomi che non 120
esistono.
Straordinario e improvviso recupero di lucidità; anche l’inferno, come Dio, come l’albero del bene e del male, è un nome.
Questa affermazione è pronunciata dal ‘Lui’, che però ne riduce immediatamente la boccata di libertà, aggiungendo minaccioso che ‘sotterraneo, cantina, mura spesse, silenzio, oblio, mancanza di salvezza sono soltanto dei simboli’; il demonio­Adrian non se la sente di frantumare nel nulla significati ultrasensibili, che ne hanno impregnato i primi anni di vita.
Sono ‘vocaboli’, che nel realismo del Primo Faust concludono la lunga stagione infernale del Lucifero dantesco.
Il dato così lapidario per il dottore­alchimista si trascina qui in un terreno paludoso, degno della sciatteria borghese.
Per Mann il demonismo senza l’umano non è sostenibile neppure dal teologo Adrian, appollaiato su un corno del duale, quello del ‘Lui’.
E’ ben vero che nella chiusura ermetica a tutti i suoni il rumore sarà grande, smisurato e tale da stordire da lontano a furia di urla e gemiti, grida e brontolii, strida e insulti, implorazioni e lamenti, rimbrotti e schianti, di modo che nessuno udrà il proprio strepito; perché esso sarà soffocato dal fragore generale dal fitto giubilo infernale e negli urli dei dannati, causati dalla perpetua ingiunzione dell’incredibile, dell’irresponsabile.
Quanto più un’affermazione è incredibile tanto più è destinata in breve tempo ad annullarsi.
E’ la voluttà del dissolversi, che si affida all’irresponsabile per cogliere una breccia di fuga mediante la tragedia del dolore cocente, accecato.
L’immortalità artistica, di cui Adrian è alla ricerca, non diminuisce di un’oncia la disperazione di essere membro riottoso di una società in dissoluzione; si tratta di un sentimento d’angoscia, dal quale si tenta di uscire, inventando situazioni incredibili, stordimento assai breve, che aggrava lo stato anteriore.
La dottrina dell’attrizione è scientificamente superata. Necessaria è invece la contrizione, la vera e propria contrizione protestante per il peccato, che non significa soltanto penitenza, secondo l’ordine ecclesiastico, ma conversione interiore, conversione religiosa.
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Il ‘Lui’ introduce argomenti insidiosi; la radicalità (scientifica!) della contrizione luterana è la vera espressione di religiosità, in contrasto con il troppo facile perdono delle autorità ecclesiastiche cattoliche, impegnate ­sembra suggerire il diavolo­ a salvare la propria presenza terrena, piuttosto che a testimoniare il sacrificio dell’Unigenito.
Nel giovane musicista il contrasto tra contrizione e idolatria di Esmeralda (la femmina, apologia della lussuria!) è al limite della rottura. La non­verità (nominalismo!) dei princìpi teologici incombe minacciosa; Adrian non vi si arrende solo per la ragione che la contrizione, condannando la stravaganza (orgoglio dell’intellettuale!) di colui che cerca l’immortalità con l’opera artistica o di pensiero, diventa imperiosamente un affare serio.
Risponde il ‘Lui’:
Per tua tranquillità ti dirò quindi che per te l’inferno non sarà nulla di eccezionalmente nuovo, ma una cosa conosciuta, anzi orgogliosamente conosciuta.
In fondo esso è soltanto la continuazione della vita stravagante.
Le ferite, inferte ad un cuore puro dalla contrizione per il peccato, (situazione moralmente vana, anzi, nefasta, perché interiorizza sino all’egotismo del terrore eventi e parabole, ove l’esterno ha parte essenziale!), sono rese irreparabili dalla serietà teologica.
Voi vi fidate del fatto che l’orgoglio mi impedirà quella convinzione che è necessaria per la salvezza e non considerate che esiste anche una contrizione orgogliosa, la contrizione di Caino, ferocemente persuaso che il suo peccato fosse troppo grande perché lo si potesse perdonare.
Il peccato, quando è talmente enorme da far sì che il peccatore profondamente disperi della salvezza, è la vera via teologica della salute.
Adrian, sulla via del solipsismo etico, dimentica (o, forse, non ha mai accettato!) che l’imperdonabilità del peccato non dipende dall’orgoglio, ma dalla violenza esercitata contro l’uomo (l’io o l’altro! La maledizione della colpa investe tutti indistintamente!) in maniera continua e sistematica.
Non dobbiamo d’altra parte dimenticare che qui siamo in clima prettamente intellettuale. 122
Il contatto con la meretrice solo di sfondo ha qualche contingenza con questa situazione estrema; il rapporto sessuale, reciprocamente voluto, è gaudio naturale, per sé innocente; osiamo tranquillamente affermare che mai unione fu più cordialmente e pacificamente vissuta di quella tra Adrian ed Esmeralda.
Risponde il ‘Lui’:
“Furbacchione, ove andranno le persone come te a prendere l’ingenuità, la semplice franchezza della disperazione che sarebbe il presupposto di questa via della salvezza?” Infatti lanciare la sfida irresistibile alla Bontà divina è speculazione sulla speculazione.
La dialettica, come si è detto, è qui di natura intellettuale; può quindi inventare e descrivere solo delle situazioni grottesche.
Speculare sullo speculare non è diverso dallo scindire il capello in minutissime parti, sino a farsele portare via dal più innocente dei venticelli.
*
Il grottesco uccide la solennità, che, d’altra parte, si fonda sulla vanità della rana, che vuole ingigantirsi, credendosi della sessa razza degli animali giganteschi, come il bue, il rinoceronte, l’ippopotamo o l’elefante.
Ora non è più seduto sul bracciolo del divano che ho davanti a me nella sala, si è rannicchiato di nuovo nell’angolo come quel gaglioffo di prima. Quella carogna dagli occhi di fiamma e col berretto e parla con la voce lenta e nasale dell’attore.
Questa mia visita ha solo un valore di cresima.
Un contratto firmato col sangue non serve; la cresima è confermazione di un patto già implicito, che deve ancora trovare l’occasione cruenta (guerresca!) per dare prova di sé. L’infezione contratta da Esmeralda dovrebbe rappresentare il legame tra l’atto ’indecente’ ed il fuoco di ghiaccio (infernale!); si tratta di comunione assai misera, per essere convincente, benché i ‘piccolini’ siano scientificamente definibili; siamo comunque nel clima della totale inconsistenza dell’intelletto, fondato sul nulla.
Tempo hai preso da noi, tempo geniale, tempo esaltante, ben ventiquattro anni ab dato recessi, che ti fissiamo 123
anche come ultimo termine.
Il patto col diavolo si riduce al tentativo di costringere il tempo dentro la sfera della genialità artistica, finché si può congetturare che duri.
La differenza col Faust Goethiano è marcatissima; là, il patto era una conseguenza, qui è l’origine, nonostante i ‘piccolini’.
La condizione che ponevo era onesta e chiara, determinata dal legittimo zelo dell’inferno.
L’amore ti è vietato in quanto riscalda. La tua vita deve essere fredda, poiché non devi amare nessuna creatura umana.
Le conclusioni del ‘Lui’ sono la concreta realizzazione (regalo ad Adrian!) del pudore, in ragione del quale la madre gli ha sempre celato la dolcezza della voce, del canto.
Adrian darà alla luce genialissimi brani musicali per qualità naturale. Indirizzo singolarissimo e fertile, se debitamente utilizzato a beneficio generale. Sarà una musicalità raziocinante, ironico­grottesca, dolorosissima, senza sollievo, unica espressione estetica a lui possibile, dopo le automutilazioni teologiche e inevitabili tragiche conseguenze per il suo rapporto coi sensi e con il sesso.
­Un raffreddamento totale della tua vita e dei tuoi rapporti con gli altri è nella natura delle cose, anzi è già nella natura tua e noi non ti imponiamo alcunché di nuovo. I piccolini non fanno di te nulla di nuovo e di estraneo, ma solo rafforzano ed esagerano intelligentemente ciò che tu sei. Non è forse preordinato in te il gelo, allo stesso modo della paterna emicrania, dalla quale devono scaturire i dolori della sirenetta?
Freddo ti vogliamo, tanto freddo che le fiamme della produzione basteranno appena a scaldarti.­ ­Evidentemente voi mi preparate l’inferno già su questa terra!­
La risposta dell’Io al ‘Lui’ dovrebbe annullare l’orrendo effetto dello sdoppiamento; ma ciò non avviene (avverrà all’improvviso per esaurimento, non per ravvedimento!) per due motivi: il primo si lega al 124
concetto, che Adrian si è fatto dell’arte, cioè di strumento a solo compiacimento dell’artista, princìpio, questo, che impedisce di correggere i primi impulsi, educandoli a diventare rispecchiamento per tutti; il secondo si riferisce specificamente al talento, (dote delle Madri, non di un Altro Ente Superiore!), che teme le seduzioni della sensibilità per non venir meno al rispetto per la madre.
Se veramente volesse uscire da questo freddo di natura teologica, gli basterebbe una goccia di cordialità per il dolore fisico dei simili, status, resogli difficilissimo, quasi impossibile dai residui dottrinari del peccato e della salvezza individuale per Grazia.
Poi udii la voce di Schildknapp che, seduto nell’angolo del divano, mi diceva pianamente: ­Lei non ci ha perduto niente. I soliti giornali, i soliti biliardi, un bicchierino di marsala e quella brava gente non ha fatto che strigliare il governo a dure corna!­
Adrian si ritrovò con il testo di Kierkegaard, ‘scrittore cristiano’, sulle ginocchia.
Schildknapp, seduto dove era stato nelle sue trasformazioni succinte il demonio, ci tenterebbe di riconsiderare, ad edificazione salutare dei paria, tutte le osservazioni, da noi premesse allo sdoppiamento, fors’anche per concludere che l’incontro non era mai avvenuto.
Da quando ho cominciato queste note è passato quasi un anno, e con la composizione degli ultimi capitoli siamo giunti all’aprile 1944. Beninteso è il tempo in cui si svolge la mia attività. Non l’epoca nella quale è arrivato il mio racconto, poiché con questo siamo all’autunno del 1912, quando Adrian ritornò con Rüdiger Schidknapp da Palestrina a Monaco e prese alloggio nel quartiere di Schwarburg e precisamente nella pensione Gisella.
Le precisazioni temporali servono a incoraggiare il lettore contemporaneo, uno scotto pagato al ‘realismo’ onnisciente, direbbero i più stretti modernisti.
Filosofeggia Zeitblom:
Da una parte abbiamo il tempo personale, dall’altra quello oggettivo, il tempo in cui si muove il narratore e il tempo in cui si svolgono le vicende narrate. E’ questa una concatenazione di tempi destinata a 125
collegarsi con un terzo tempo, cioè con quello che un giorno l’amico lettore impiegherà per accogliere i fatti narrati.
Se ne ricava che il tempo è concetto­strumento dell’uomo, poiché per se stesso è solo transito, contenitore inesauribile, conca del futuro e stagno del passato.
Il recupero del tempo (non, ritorno!) rivela la potenzialità tipicamente umanide dell’approfondimento intensivo, momento della sensibilità universale, sostanza soggettiva o conoscenza generale, che incendia ogni impresa.
Non voglio concentrarmi in queste speculazioni che anche per me recano l’impronta di una certa agitata inutilità, ma aggiungerò soltanto che la parola ‘storico’ si adatta con veemenza più truce al tempo nel quale scrivo che al tempo ‘del’ quale scrivo.
‘Agitata inutilità’ è espressione efficace riferita alle speculazioni, (riflessione in senso sartriano!), poiché la densità dell’evento dipende da quanto accade, non dalle astruseria del pensiero astratto.
Se poi la densità storica sembra addensarsi nei periodi di violenza e di guerra, dobbiamo solo concludere che la storia ‘narrata’ è una porcheria.
‘Esercire la storia’ è certamente frase poco ortodossa, ma utile per mettere a fuoco la superficialità tragica dei chierici, funzionari della Hìstoria, profeti e compilatori delle volontà di coloro, che per presunzione e violenza schiacciano, oscurano gli avvenimenti reali.
Finora la storia ufficiale ha sacrificato agli interessi (idealizzati!) del Prìncipe l’intensità degli uomini concreti, rendendo canagliescoil processo di crescita col tentativo ignobile e insensato di negare ad alcuni avvenimenti la naturale transitorietà dei fatti umani e cosmici.
*
Per parte mia, temo che sarà la nostra rovina questa politica fatalmente ispirata, la quale ci ha messo in conflitto sia con la potenza più popolosa e, per giunta, agitata da spirito rivoluzionario, sia con quella che ha la massima capacità di produzione.
Che le democrazie estenuate sappiano persino valersi di questi terribili mezzi è un’esperienza sbalorditiva e istruttiva per cui ci allontaniamo ogni giorno di più dall’errore che la guerra sia una prerogativa tedesca e che nell’arte della violenza gli altri debbano mostrarsi 126
soltanto arruffoni e dilettanti.
E’ proprio nella fase di estenuazione (Zeitblom non è in grado di cogliere che la ‘fatale’ esaltazione nazista ne è solo una variante!) che il Prìncipe (sotto qualunque forma istituzionale si presenti!) scatena il massimo di violenza e di perfidia.
Niente più del fanatismo guerriero rivela (‘bagno di sangue’!) lo stato di estenuazione.
Quando la barbarie oppressiva si riveste di ferocia rigenerativa, (‘slancio vitale!”), mala tempora currunt!
Che Adrian non abbia veduto questi giorni mi fa piacere e in cambio di questa esperienza accetto volentieri gli orrori del tempo nel quale continuiamo a vivere. Mi par quasi di vivere per lui, di vivere al suo posto, di portare il peso che fu risparmiato alle sue spalle, di fargli, insomma, una cosa gradita di vivere invece di lui.
Adrian incarna l’artista, che fa da tramite tra l’immaginazione e la possibilità di comunicare intensamente con gli uomini.
Mann coltiva appassionatamente questa sorta di missione, deciso a resistere (anche fisicamente!) affinché le condizioni storiche, fatte degenerare dalle dittature, non travolgano lo spirito umanistico.
L’insostituibilità è, per altro, un valore, che non dipende soltanto dalla continuità formale! In Mann insisteva un pregiudizio borghese, perché riuscisse a riconoscere che i confini dell’arte potevano essere spostati in avanti solo da quelle masse, che erano sempre state respinte ai margini dal gusto o voglia di potere (insostituibilità inventata!) degli eupatridi.
Fin dall’Italia Schildknapp aveva scritto ai suoi precedenti padroni di casa nell’Amelianstrasse e si era assicurato il solito alloggio.
Adrian non pensò nemmeno di passare dalla signora Rodde, né, in genere, di rimanere a Monaco. Dalla pensione Gisella chiamò gli Schweigestill. Gli rispose mamma Else in persona; egli si presentò come uno dei due clienti che a suo tempo avevano potuto prender visione della casa e di tutta la fattoria e domandò se, e a che prezzo, gli si poteva dare una camera da letto al piano di sopra e, per il soggiorno, lo studio dell’Abate al pianterreno.
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Il doppio corno ‘io­lui’ ha chiuso la fase preparatoria.
Il musicista ha deciso in che modo vivere e quali fini artistici proporsi; il vento di Satana­Mefistofele giace in lui per le antiche seduzioni, ma non riuscirà a distoglierlo da quanto unicamente gli preme.
Lo sdoppiamento non è stato solo un abile stratagemma per nascondersi (fingendo di confessarle sino a decidere da solo il suo castigo eterno ultramondano!) le tare profonde della spiritualità, gravemente alterata dall’educazione teologica; è stato per lui un esame severo ed anche crudele. La stessa persistenza della variante cristiana (grave residuo e non certo perché di formazione luterana!) si è svuotata di ogni senso estetico; gli resta inflitta come maledizione, i cui artigli gli si affondano nei meandri del cervello, esprimendosi mediante le terribili emicranie; eredità paterna, aggiungerebbe il ‘Lui’.
Si tratta di una condizione insopportabile, che solo un’amicizia alla pari avrebbe potuto placare.
Povero e simpatico e, a suo modo, generoso Zeitblom!
Loro, gli Schweigestill, disse, non erano affittacamere per lucro, ma accoglievano, solo occasionalmente, per così dire caso per caso, inquilini e pensionanti. Certo, da loro avrebbe condotto una vita tranquilla e monotona, se anche primitiva in quanto a comodità. Non c’era una stanza da bagno, non c’era W.C., ma soltanto un impianto alla campagnola, fuori di casa.
La schiettezza di mamma Else ha una punta di pedanteria ironica.
La puntualizzazione della natura ‘neutrale’ (non lucrativa!) del loro rapporto con gli eventuali inquilini rivela un alto senso morale, sia pure nella ristretta accezione dei contadini e non certo per loro cattiva volontà; la signora Else sembra preoccupata di allontanare da sé e dal marito ogni giudizio non oggettivamente misurato; sembra chiedere un po' di comprensione per lo stato di segregazione, in cui la civiltà cittadina ha costretto gli incolae della campagna. Noi offriamo ricovero (monotonia apparente!) a chi ne sente sinceramente il bisogno; per questo il prezzo si consuma in una semplice (necessaria!) formalità.
Lo stato di parsimonia permea tutte le cose e circostanze della vita degli agricoltori e avvolge in un velo pudico ambizioni e consuetudini.
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Adrian rispose che intendeva prendere dimora stabile e che aveva ponderato la cosa da molto tempo, aveva esaminato il modo di vita che lo aspettava, lo aveva approvato e accettato.
Col prezzo di centoventi marchi al mese era perfettamente d’accordo.
Adrian è attratto dalla fattoria degli Schweigestill per motivi troppo intimi, perché lo possano dissuadere le scomodità di natura igienica. Con il suo bagaglio che non era mai pesante e comprendeva una borsa contenente le partiture nonché la vaschetta di gomma, che già in Italia, aveva sostituito il bagno, partì dalla stazione di Starnberg. Era la fine di Ottobre e il tempo, ancora asciutto, era già rigido e tetro; cadevano le foglie.
Il paesaggio è quello di Buchel; per il musicista è il recupero dell’atmosfera materna, terreno sottratto alla diaspora interiore, alleggerito dall’assenza fisica di Elsbeth.
Aldilà delle stesse somiglianze (l’olmo, la stalliera dai piedi intrisi di letame!), il ricordo dell’infanzia è tale ch’egli chiamerà il cane Kaspel(sul punto di spezzare la catena vedendolo!) con l’appellativo di ‘Suso’ e a quel nome, d’incanto, la bestia si calmerà, facendo stupire la stessa padrona di casa..
*
Poi entrarono nella casa, nell’atmosfera di tabacco da pipa, salirono sul piano di sopra dove la signora lo introdusse nella camera a lui assegnata, col canterano dipinto e col letto altissimo; avevano anche aggiunto una poltrona verde con un tappeto di scampoli davanti, sul pavimento di abete.
Si presero gli accordi per il servizio per l’ospite e la distribuzione del tempo, accordi che furono poi continuati e conclusi nella stanza dell’Abate, ambiente caratteristico e antiquato, del quale Adrian nel fondo del cuore aveva già preso possesso.
Gli accordi comprendevano la grande brocca d’acqua calda al mattino, il caffè forte portato in camera l’ora dei pasti, (al tocco e mezzo e alle sette di sera), che Adrian non avrebbe preso con la famiglia.
La signora Schweigestill gli promise un cibo leggero, di latte, uova, pane abbrustolito, minestra di legumi, una 129
buona bistecca rossa con spinaci a mezzogiorno e poi una cospicua frittata dolce, con ripieno di marmellata. La meticolosità delle annotazioni crea un’atmosfera di calore, che consola; il segno dell’abbondanza, che protegge, ci giunge come condizione di agiatezza, quasi dovuta, tanto ci si è affezionati e comprendiamo in tutte le esigenze il personaggio; si è, in un parola, contenti che all’artista non manchino quelle cure ed attenzioni così importanti per la piena rivelazione del suo dèmone artistico.
­Ah, lei ha certe volte l’emicrania e grave anche! Me l’ero immaginata, me n’ero accorta fin da quando nella camera lei ha osservato così attentamente le imposte e i mezzi per far buio.­
La signora Schweigestill non ignorava l’emicrania. Cioè lei non l’aveva mai provata, ma il suo Max ne aveva sofferto periodicamente negli anni passati. Col tempo poi quel malanno era svanito. Non volle sentire scuse da parte dell’ospite per quella infermità
­Oh, via, qualcosa di simile bisogna pur immaginare subito, perché quando uno come lei si ritira dai centri civili e viene a stare a Pfeiffering dovrà pur avere le sue buone ragioni ed è chiaro che si tratta di una cosa che merita comprensione. E questo è certamente luogo di comprensione, se non di civiltà.­
Vi si sente una punta legittima di compiacimento; se la civiltà è incapace di vera ed umana comprensione, (senza per altro tirare conclusioni troppo affrettate! Noi siamo dei semplici contadini!), è bene che resistano luoghi di pace, unguento e nepente, per quanto siano offerti in condizioni ed ambiente, dove ancor vigono costumi ed esigenze antiche, se pur sorpassate.
Nel contadino agiato questa consapevolezza è profonda, è parte del suo bagaglio di convinzioni e dà linfa alla sua dignità; essa gli deriva dal contatto continuo con la natura e dalla serenità, che il possesso delle cose essenziali gli gratifica.
Girando per la casa, si venne tra lei ed Adrian ad alcune intese che, senza che essi lo sospettassero, dovevano regolare la sua vita per diciannove anni.
Si stabilì subito di elettrificare il lampadario che reggeva i moccoli della candela. Altre modifiche subì col tempo la stanza, che doveva 130
assistere alla nascita di tanti capolavori, sottratti ancora alla pubblica conoscenza ed ammirazione.
Le anticipazioni di Mann, perfetto realista, sono una provocazione; l’interesse per la vicenda è affidato soprattutto ai particolari, che a volte sembrano dettati dalla pedanteria; invece è per virtù loro che il lettore assapora la grande unità dell’opera, retta e nobilitata dalla genuina e inarrestabile immaginazione, che l’autore sembra divertirsi a tenere celata.
Con minuta precisione ci sono date notizie importanti per comprendere il rapporto abbastanza stretto tra Pfeiffering e l’ambiente cittadino; la nostra fantasia è sollecitata in modo acuto a conoscere lo stato interiore di Adrian, rassicurati dal calore naturale, che lo circonda.
D’altronde (viene spontaneo ricordarlo!) i veri scrittori si contano sulle dita delle mani.
Per curiosità, ma anche per l’attrazione che la persona schiva, chiusa e persino superba del mio amico esercitava su parecchia gente, ogni tanto qualcuno veniva a trovarlo dalla città nel suo rifugio. Darò a Schildknapp quella precedenza che aveva in realtà. Era logico che fosse il primo a venire per vedere come Adrian vivesse in quel luogo, che essi avevano scoperto insieme e, più tardi, specialmente d’estate, andava spesso a passare il fine settimana.
Per mezzo di Rüdigher i frequentatori del salotto Rodde, comprese le signore, riallacceranno i rapporti con Adrian.
Con in testa l’ampio cappello, dal cui orlo una sottile veletta era tesa sino alla punta del naso, Jeanette Scheure suonava Mozart al pianoforte della stanza in casa Schweigestill e Rudi Schwertfeger la accompagnava fischiando con una maestria piacevole sino al ridicolo. Si trattava di una abilità labiale, che il violinista aveva coltivato sin da bambino.
Osserva Zeitblom:
La fusione dello scherzo da monelli, che accompagna questa tecnica, con la serietà artistica, provocava una particolare ilarità.
E’ gradevole immergersi in questa atmosfera di gioviale familiarità, che 131
circonda Adrian anche nel suo isolamento.
A Pasqua del 1913 avevo ottenuto il posto al Ginnasio di Freising e in ciò mi era stato di aiuto la fede cattolica della mia famiglia.
Mi trasferii con moglie e figli sulla riva dell’Isar, in quella cittadina veneranda, sede episcopale da molti secoli, dove in frequente contatto con la capitale e quindi anche con il mio amico –salvo alcuni mesi di guerra­ trascorsi la mia vita e potei assistere con amorevole cura e commozione alla tragedia della sua.
Fede cattolica e sede episcopale sono una bella miscela per l’ottimismo borghese.
La tragedia mondiale della vicina guerra, (quasi a vendicarsi del proprio giovanile patriottismo ‘prussiano’, Mann cancella dal labbro del suo umanista e biografo la prossimità dell’orrido evento che fu per l’umanità intera la prima guerra mondiale!), è oscurata dalla tragedia personale di Adrian.
La scelta è un rifugio dal male, quel male, che il geniale amico aveva tormentato sino allo sdoppiamento; per quanti sforzi l’umanista faccia per stemperarlo, esso prende il sopravvento e costringe l’artista a sofferenze inaudite.
D’altra parte Zeitblom è troppo borghese per rischiare la propria amicizia in quell’insidioso pantano, che è la psiche del male teologico. *
­Quando sento parlare di audizione! ­ Esclamò Adrian. ­Secondo me basta perfettamente che una cosa sia stata udita un’unica volta, cioè quando il compositore la inventò.­ E dopo una pausa aggiunse: ­Come se la gente sapesse riudire quello che è stato udito! Comporre significa incaricare l’orchestra di eseguire un coro di angeli. D’altra parte, credo che i cori angelici siano estremamente speculativi!­
A parte i cori angelici (da prendere come figura dell’incapacità dello spirito puro di esistere solo!) insiste nella certezza di Adrian circa l’esclusiva unicità dell’artista come auditore delle proprie composizioni una profonda verità, che non deve impedire il rapporto col pubblico. Il poeta avverte e realizza, in condizione di completa trasparenza 132
intuitiva; (sensibilità del sinolo che, liberato dal peso della costruzione per singoli elementi, recupera il senso sincretico proprio degli esseri umani!); l’abilità dell’auditore ed interprete (nella voce ‘gente’ c’è una punta di alterigia aristocratica, che è sempre bene evitare!) è quella di trasformare quella manifestazione (prima ed assoluta!) in parti o momenti comprensibili e godibili; se questo si concretizza, si viene a creare una specie di catarsi, che, pur scaturendo dall’unità, si propaga sino a raccogliere, modificare, esaltare la sensibilità di quanti si lasciano capire.
Ad ogni modo, noi, ruvidi, riteniamo sarà in maniera spontanea che, usciti dalla buia caverna delle attività parcellizzate, la poesia e l’arte ritroveranno altre misure ed altri modelli per comunicare.
Adrian teneva che la partitura di Love’s Labours Lost fosse letta da Wendell Kretzchmar; gliela mandò a Lubecca, dove il balbuziente era ancora in carica e questi riuscì effettivamente un anno dopo, quando era già scoppiata la guerra, a far rappresentare l’opera nella versione tedesca.
Precisamente con questo successo, che durante l’audizione due terzi del pubblico abbandonarono il teatro, esattamente come, a quanto si dice, era avvenuto sei anni prima a Monaco alla prima del Pelléas et Mélisande di Debussy.
La critica locale aderì quasi unanime al giudizio dell’uditorio profano, e lanciò le sue ironie contro quella ‘musica decimante’ che il signor Kretzchmar si era preso a cuore.
Solo nel Lueboscher Boersen Kurier un vecchio professore di musica di nome Jimmerthal, che deve essere morto da un pezzo, parlò di un errore giudiziario, che il tempo avrebbe modificato e dichiarò con bizzarra terminologia arcaica che l’opera aveva un grande avvenire, che era piena di musica profonda, che l’autore era sì, beffardo, ma anche ‘toccato da Dio’. Questa definizione commovente, che non avevo mai udito né letto prima, mi fece un’impressione singolare e immagino che anche i posteri la ricorderanno a suo onore, quei posteri ai quali egli si appellava contro i suoi colleghi, contro i critici fiacchi ed ottusi.
Quando un intellettuale o professore ‘fuori del coro’ si appella al giudizio di Dio (toccato da…) contro pareri ingiusti, espressi nei confronti di un artista o benefattore degli uomini, (persone che, di solito, sono preparate 133
agli sberleffi di quanti esercitano il mestiere del critico sine fundamento in re!), si trova in stato di disperazione, ormai rassegnato e convinto che i suoi argomenti non scalfiranno la coltre di putredine degli ascoltatori, malati cronici di alterigia indebita, (a volte frutto di una totale ignoranza e mancanza di gusto!), vera e inguaribile lue.
In concreto egli si appella a testimoni futuri, gli stessi che l’artista (contestato o meno!) prefigura nel fervore della composizione, testimoni, che il messaggio trasformeranno in materia di fuoco.
‘Ma un mio godimento annulla se stesso per una candida prostituta!’
A questo verso di Blake, misteriosamente scandaloso, il compositore aveva conferito armonie molto semplici, che, in confronto al linguaggio musicale dell’insieme, facevano un effetto più falso, più pauroso delle più ardite tensioni ed effettivamente facevano sentire l’enormità dell’accordo di tre note.
La ferocia o candore angelico (tanto ambiguo da essere molto simile alla prima!) dei versi sta nella semplicità degli elementi, resi inquietanti dallo stato sciagurato, in cui si pone il poeta; siamo in presenza del motivo per cui ogni candido godimento in offerta simpatica sembra sfiorato dall’ala della perversione.
Mediante lo ‘scandalo’ dell’accordo a tre note Adrian supera, passa oltre l’enormità della disperazione di cui ha fatto penosa esperienza, in quanto la sua vita affettiva ha subito lo sconvolgimento umiliante della carne, dallo spirito ridotto alla lue dell’apostasia.
Questa sterile lotta (l’artista, nei momenti più acuti della sua meditazione n’è freddamente consapevole!) contro un fantasma condurrà l’artista nel baratro della demenza; lo si sente in ogni fremito del suo controllo e della sua gelida armonia.
Molte volte ho sentito dire che una poesia perché diventi una buona musica, non deve essere troppo buona. Per la musica è meglio dorare le cose mediocri. Se non ché il rapporto di Adrian con l’arte era troppo orgoglioso e critico perché egli avesse voglia di far brillare la sua luce nelle tenebre.
Egli doveva avere un grande rispetto spirituale per sentirsi chiamato compositore.
I versi di Blake ci aiutano a capire il rapporto tra poesia e musica; non 134
convince per niente che una lirica debba essere mediocre per sollecitare le capacità del musicista; per costui è importante che la poesia sia ‘aperta’ e che le sue significazioni lascino viva la curiosità dell’indagine; se la poesia si esaurisce in se stessa, per l’artefice di armonie non c’è appiglio e, per quanti sforzi faccia, si sente inaridire le fonti.
Leverkühn aveva musicato per baritono, organo e orchestra d’archi, con piccoli tagli nel testo, l’ode di Klopstok ‘La festa di primavera’, il celebre canto della ‘goccia aderente al secchio’, opera impressionante che durante la prima guerra mondiale e alcuni anni dopo fu eseguita in parecchi centri musicali tedeschi e anche in Svizzera.
Solo più tardi imparai a vedere nella composizione il sacrificio implorante, l’offerta a Dio; un’opera dell’attritio cordis, come suppongo, con raccapriccio, sotto la minaccia di quel visitatore, che pretendeva l’obbligazione.
Zeitblom dà al visitatore tutte le stramberie dell’esoterico; gli sfugge l’elemento semplice, la pretesa ‘obbligazione’ satanica è soltanto l’insieme asmatico delle storture e delle abiezioni, che l’artista intende far deflagrare e sperdere nell’immensità dello spazio mediante l’invito sincero alla libera e chiarificatrice visione.
In Adrian l’eccessiva coloritura (perché necessariamente demoniaca?!) nasconde sempre l’improvviso incrudirsi dei canoni teologici.
*
Del resto non dimentico che il punto di partenza furono gli studi su questa goccia e i suoi oscuri enigmi, poiché le meraviglie degli abissi marini, le follie della vita laggiù dove non penetra raggio di sole, furono la prima cosa di cui Adrian mi parlò e me ne parlò in modo particolare e strano, che mi divertiva e nel medesimo tempo mi confondeva, cioè nello stile di chi ha visto coi propri occhi ed è stato presente con la propria persona.
La potenza incommensurabile del vero scrittore è quella di riuscire a rendere verosimile anche la fantasia più strampalata; questa fantasia nello stesso artista è fuoco, che prende sul serio l’impossibile per delimitarne l'interesse al di qua delle sue possibili propaggini verso mistero; ma perché questo diventi uno stimolo pratico e fruttifero, deve essere data all’umanità la possibilità di valersene come strumento, fibrilla di pane.
Necessariamente, stritolato da questa propensione, che è sopportabile solo 135
al genio collettivo, Zeitblom risulta grottesco. Mann ha qui un moto di derisione di se stesso, poiché, essendosi affidato al suo medium, non può gridare fino a tutta gola che ci vuole ben altra propensione interiore per sostenere la nobile follia del tentativo!
La condizione di Serenus, convinto umanista, intriso di terrori religiosi indefiniti, in quanto digiuno di scienza teologica, (la sua etica è quella teorizzata da Sainte­Beuve per l'aurea mediocrità sociale!), costringe Adrian a fingere una conoscenza diretta delle profondità marine, offertagli dall’americano Capercailzie durante una visita alle Bermude.
Chi eccita la psicologia lacerata di Adrian verso le più sciagurate visioni?! ‘Quelle follie di laggiù’ è espressione insolente e superficiale! Chi ve lo inclina con adorazione tremante e scriteriata?!
Che c’è di così misterioso nel voler conoscere a fondo la complessità (dalle apparenze coperta!) della goccia?! Non è questo forse l’unico modo, che ancora resta ad Adrian per ritentare la purificazione, (non più attritio cordis!), che può essere data soltanto dal riconoscimento della sostanza materiale?! Perché concedergliela, quasi rimprovero, come influsso demoniaco­panico di uno spirito raro?! Questa posizione rivela una tracotanza miserabile, che si attribuisce per giunta il diritto di dare giudizi totalmente gratuiti!
Adrian pretendeva di essere sceso con la sua guida fino a quattordici volte questa profondità, cioè fino a cinquecento metri e di essersi trattenuto laggiù per una mezz’ora, senza dimenticare neppure un istante il fatto che la loro dimora sopportava una pressione di cinquecento tonnellate.
Zeitblom si lascia confondere dai numeri; il peso della cabina, calata nelle profondità degli abissi, gli obnubila lo spirito e gli soffoca lo stomaco. Si dimentica di aver poco prima affermato che “la scienza astrofisica tenta di misurare solo per giungere a misure, i numeri, o ordini di grandezze, coi quali lo spirito umano non ha più alcun rapporto, poiché si perdono nella teoria e nell’astratto, nell’insensibile, per non dire nell’ insensatezza; non si accorge che Adrian è in grado di reggere a tutte le insidie dello spirito (materia viva, goccia esaltatrice!) e di respingere la presunzione borghese ed umanistica di un equilibrio, condizionato dai minimi delle comodità più meschine.
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Poi, molto tempo prima che il batimetro indicasse i settecentocinquanta metri, regnò tutt’attorno il nero perfetto, la tenebra dello spazio interstellare, dove non giunse mai il più pallido raggio di sole, la notte perennemente silenziosa e vergine, la quale aveva dovuto permettere che una luce artificiale, portata per forza dal mondo superiore e non già di origine cosmica, la rischiarasse e la frugasse.
Si notino le farneticanti stramberie, a cui l’idea di creazione (onninamente ritenuta così esauriente e consolante!) costringe l’essere pensante.
Ma tu chi sei, maestro di ginnasio, educatore da trivio, (dove, per altro, il candore della meretrice saprebbe guarirti dalla lue dell’alterigia, poiché coglierebbe a volo d’uccello il senso dello sprofondamento assoluto, senza chiedere protezione dal dio!), se non oggetto, creatura cosmica?! Cos’è per te questo presunto ‘mondo superiore’, che, penetrando e scoprendo una realtà non ancora conosciuta, rende livida per spirituale superbia l’ignoto ‘inferiore’, annullando così il valore e la simpatia della straordinaria visitazione?!
Quale delusione per Adrian comunicare ad un simile ‘pavido’ il piacere stimolante, che gli era venuto dal ficcare fisicamente il faro elettrico in quel segreto subacqueo assoluto, inesplorabile coi mezzi normali della vista e del tatto!
Il cattivo odore di colpa originale (atavismo adamitico e e asmodeico!), che emana dal brano, non dipende dal musicista, ma dal suo ascoltatore.
Era fin troppo chiaro che le forze eccentriche, incredibili e orride o ridicole che la natura e la vita si erano permesse laggiù, le forme e le fisionomie, si può dire, non avevano alcuni affinità con quelle terrestri. E pareva appartenessero ad un altro pianeta, erano il prodotto della segregazione e delle certezza di essere avvolte in tenebre solenni.
Le tenebre marine che sono, caro professore, se non espressioni della terra?!
Contraddizione paradossale tanto è stupida! Segregazione da quale mirabolante simpatia, che alle profondità del cosmo sarebbero negate?!
Naturalmente attribuiamo la grottesca contraddizione alla parte ‘superiore’ dell’umanista, non alle straordinarie pagine del testo.
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Bastava che i visitatori, raccontava Adrian, spegnessero la luce elettrica per scoprire uno spettacolo di tutt’altra specie. In tal caso in fatti la tenebra oceanica appariva illuminata da luci fatue guizzanti e giranti, dalla luce propria di alcuni pesci, i quali o erano fosforescenti da tutto il corpo o almeno erano forniti di un organo luminoso, d’una lanterna elettrica, con la quale non solo probabilmente illuminavano il loro passaggio nella tenebra eterna, ma attiravano anche la preda o mandavano inviti d’amore.
Disturbatori, quindi, gli spiriti superiori!
La luce artificiale (non cosmica! Straordinaria incapacità di riflessione!) è tenebra per gli abitanti degli abissi!
La relatività generale, conclusione scientifica della dialettica materialistica, è manna immeritata per questi stolidi beniamini della cultura!
Adrian resiste divertito e sorride malizioso alle bordate di scetticismo cosmico dell’amico, così radicato (pachiderma!) sul terreno della linguistica e dei semi d’accesso! Dunque all’interno di questa palla cava, follemente spaziosa, appartenente al disco di un condensato turbinio dei mondi, sta del tutto secondaria, difficile da trovare e appena degna di menzione, quella stella fissa attorno alla quale, insieme a compagini più grandi o più piccole, gira la terra con la sua piccola luna.
A questo punto ci viene svelato che per Adrian la piccola ‘goccia’ della lirica di Klopstok rappresenta la pulce (nell’immensità del cosmo!) del nostro pianeta; per tanto l’accento demoniaco e grottesco della melodia è perfettamente coerente con la visione degli abissi dell’artista.
Ci sembra (da ruvidi!) importante riflettere sul fatto che il senso di pulce, cui è circoscritto il sistema solare, non è affatto dispregiativo, come non è inferiore la tenebra degli abissi o superiore lo spirito, fascio di luce artificiale, che vi penetra.
Il bersaglio del sarcasmo di Adrian è l’uomo borghese, che si ritiene il centro dell’universo, mentre non è che una canaglia, accomodata sull’inconsistenza del commercio dei grani.
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L’ammirazione per la grandezza, gli entusiasmi per essa, il rimanerne sopraffatti, che è certamente un godimento spirituale, sono possibili solo in misura terrenamente comprensibile e umana.
Il godimento spirituale per le bellezze ‘cosmiche’ (Zeitblom le definisce “bombardamento assordante di numeri lanciati contro la nostra intelligenza”; egli confonde le misure convenzionali con la realtà matricamente sensibile!) è definizione stolta, come è da chierici inguaribili definire la grandezza “attributo della sublimità del cuore e del pensiero”.
Significativo è anche questo: che il solenne poeta Klopstok si sia limitato alla goccia del secchio per esprimere e suscitare una venerazione entusiastica e abbia lasciato da parte i quintilioni.
Il compositore del suo inno, il mio amico Adrian, si aggrappò invece a questi; ma gli farei torto, se dovessi destare l’impressione che l’abbia fatto con qualche forma di commozione o di enfasi.
Alle volte si deve compiere uno sforzo per non scordare chi è il vero autore del romanzo.
E’ lecito, per altro, chiedersi che cosa abbia veramente capito delle opere musicale di Adrian (e del suo mentore Thomas!) il buon Serenus.
La musica di Adrian, proprio per le sue ascendenze astrofisiche, è il tentativo ‘simpatico’ di ironizzare la retorica (manierata!) solennità di Klopstok e cavarne una goccia di essenzialità maturale.
Potremmo sospettare che Mann utilizzi la non­comprensione di Zeitblom per farci misurare la distanza incolmabile tra la musica contemporanea (quella che punge, senza ricorrere alle provocazioni gratuite!) e le reali capacità artistiche degli epigoni del romanticismo.
Non dimentichiamoci che alcuni di questi artisti ‘eroici’ divennero poi ‘epigoni’ del loro momento reale!
Adrian fingeva di avere imparato da Capercailzie, più o meno di presenza, che l’universo fisico – intendo questa parola nel suo significato più ampio e comprendendovi le cose più lontane – non può dirsi né finito né infinito, poiché queste due parole esprimono qualche cosa di statico, mentre la realtà è di natura prettamente dinamica e il cosmo si trova da moltissimo tempo o, per essere precisi, da millenovecento milioni di anni in una fase di follemente rapida espansione o come dire esplosione. 139
Il terrore per l’atmosfera irrespirabile dei numeri può diventare facilmente il pretesto per rifiutarsi di capire il reale nella sua esaltante nudità (indifferenza!) di cifre.
Un universo in espansione da millenovecento milioni di anni non rappresenta alcuna minaccia reale per la nostra vita ‘minima’, ancor meno per le cellule, che stanno nel nido della più assoluta tranquillità naturale, per loro ambiente in perfetto equilibrio.
Non ci sarebbe mai stata altrimenti preistoria!
Negli interstizi (milioni di anni!) in cui l’esplosione­espansione si snoda, quale ne sia stato e continui ad essere il modo, la vita, nelle sue parabole, si chiude costantemente, restando valida coi suoi germi, sia pure sospesa, per ogni prima e per ogni dopo.
Chi teme la fine del mondo è fuorviato dal ‘titanismo’ del massimo, senza cognizione di ciò che esso è; in una parola egli si lascia ingannare dalla stolida facilitazione del creare ex nihilo, vera fonte della corruzione sensibile e della confusione mentale.
La devozione, il rispetto, la decenza spirituale, la religiosità sono possibili soltanto riguardo all’uomo e mediante l’uomo, se ci si limita alle misure terrene e umane.
Il solo frutto sarà un umanesimo a tinta religiosa, determinato dal senso del mistero trascendente dell’uomo, dall’orgogliosa consapevolezza che egli non è soltanto un essere biologico, ma appartiene a una parte decisiva di sé, a un mondo spirituale.
In questo pathos, in questo rispetto dell’uomo per sé vi è Dio, ma non riesco a trovarlo in cento miliardi di vie lattee.
L’apparente incommensurabile fisico (espressione per altro di una concezione quantitativa dell’universo, che travalica le capacità immaginative dei sensi, diventando pericolosa per lo sfrenarsi del pensiero astratto, lasciato alle sue spericolate girandole! Riflettessimo parsimoniosi, cum granu salis, che in un atomo è contenuta la stessa sostanza, che sta nei milioni di mondi, recupereremmo immediatamente il valore concreto della dignità dell’uomo e di tutte le dimensioni!) è da Zeitblom utilizzato come motivo di annullamento della fisicità, intesa come elemento saturo ed esauriente.
Alleggerendo lo spirito dalla fisicità si giunge a questo ‘insuperabile’ 140
risultato: si riduce a superficie­nulla (sì, la sfera metafisica!) la stessa intensità dei sensi, che si vorrebbe con l’assolutezza del Pensiero salvare e risolvere.
Sicché tu sei contro le opere e contro la natura fisica dalla quale l’uomo deriva insieme con la sua parte spirituale, che si trova magari in altri luoghi del cosmo.
Il tuo homo dei è prima di tutto un pezzo di orrenda natura, con una quantità non proprio generosa di spiritualizzazione potenziale.
Del resto è divertente vedere come il tuo umanesimo tenda al medioevo geocentrico.
La Chiesa, nella quale esso sopravvive, ha propugnato l’ignoranza per spirito di umanità.
La lucidità di Adrian si appanna, quando le si affianca il ricordo ‘tangibile’ (carnale!) della Teologia penitenziale; la spiritualità, riconosciuta come semplice elemento cosmico, natura della natura, (in un qualche posto dell’universo si deve pur trovare, se c’è davvero nell’uomo e nelle vite sensitive!), si trasforma in momento di orribile e insopportabile ignoranza, quando pretende di liberarsi dalla ‘cieca materia’, che tale diventa per le nefande predicazioni in cui viene esaltato un ‘ultramondano’, che è solo l’assolutizzazione di un desiderio abnorme dell’umanoide, chiuso ancora nella preistoria del potere e della violenza tribale, natura della natura che annulla se stesso, invece di irrobustirsi e diventare strumento di ‘altra’ natura.
Per terminare l’argomento, riferiamo che dagli studi astro­fisici Adrian caverà i motivi per comporre una fantasia per orchestra in un solo tempo, elaborata tra il 1913 e il 1914, dal titolo che Zeitblom ritenne ‘frivolo’: Le Meraviglie dell’Universo.
Serenus aveva suggerito ‘Symphonia cosmologica’, proprio in riferimento alle catastrofiche serie di numeri da cui la composizione era stata ispirata.
*
Ho già detto che il pensionante degli Schweigestill non si seppellì monasticamente nella solitudine custodita da Kasperl­Suso, ma aveva anche contatti cittadini, sia pure sporadici e poco profondi.
Questo atteggiamento è una costante per Adrian; la profondità, anche quella intesa come meditazione intima, gli è insopportabile; il rifugio dell’arte, duale speciale, è una rifrazione di questo atteggiamento, la cui 141
intensità è di natura complessa, molto più oggettiva di quanto di solito ci aspetteremmo da un artista.
L’io­lui che il suo biografo condensa e liquida nel capitolo italico, è di fatto nel compositore una necessità fisiologica, quasi penitenziale.
D’altra parte, per essere schietti alla nausea, riteniamo che sia cocciutaggine da infanti serotini risolvere la profondità (intensità!) nell’interiorizzazione soggettiva; chi abbia conoscenza simpatica dell’altro, chi partecipi quindi della vita dell’altro e del mondo, sa quanto essa sia falsa, capricciosa e dispotica.
Ci incontravamo in casa Rodde nella Rambergstrasse e io potei fare amicizia con i frequentatori di quel circolo: Knöterich, il dottor Kranich, Zinke, Spengle, nonché Schwertfoger, l’artista del violino e del fischio. Ci incontravamo anche dagli Schleginhaufen e talvolta da Rudbrach, l’editore di Schildknapp, nella Furtenstrasse e nell’elegante piano nobile di Bullingher, il fabbricante di carta, che era di origine renana e presso il quale ci aveva introdotti Rüdigher.
Il buon Zeitblom, dilettante con buon gusto, vi è a volte sollecitato a suonare la viola d’amore, strumento barocco che, certamente non per colpa sua, diventa il simbolo dei momenti di rilassata conservazione, che è parte spiccata, se non esclusiva, del gruppo.
Nel descriverci un generale cortigiano, il barone Riedesel talmente ‘reazionario’ da diligere gli strumenti antichi come emanazione simbolica delle sue tendenze, Serenus fa un’osservazione molto acuta:
Come infatti non si può capire il mondo nuovo e recente senza conoscere la tradizione, così l’amore del vecchio rimane falso e sterile, quando si evita il nuovo, che ne è derivato per necessità storica.
Sarebbe da approfondire questo concetto di ‘necessità storica’; ma, per il momento, accontentiamoci del quanto di valido espresso dal nostro Serenus.
Talvolta sua eccellenza Riedesel accompagnava personalmente i cantori al pianoforte i quali ne erano lusingati, benché la sua capacità pianistica fosse impari allo spartito e mettesse più volte in pericolo gli effetti del canto.
Pur di averne la protezione si concedono al Principe, in qualsiasi veste si presenti, tutte le facilitazioni.
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Il borghese ha sempre sentito la precarietà del suo stato di privilegio, essendone stato per lunghissimo tempo privo; per questo egli invoca lo sbirro; per questo diventa tollerante anche verso il tiranno, qualunque tiranno, che giuri di proteggerlo dalla canea.
Ma che terrore può trasmettere il barone Riedesel?!
La risposta l’avremo presto!
Per Adrian, lo sapevo benissimo, la persona di quel cavaliere era, in fondo, aldilà di ogni valutazione, aldilà dell’odio e del disprezzo, anzi aldilà del riso; per lui non valeva una scrollata di spalle e perciò il suo sentimento era, in fondo, eguale al mio.
Ma nei momenti nei quali egli mi esortava ad essere generoso della mia attività, affinché la società si riavesse dall’insulto dell’arrivismo rivoluzionario, non potevo fare a meno di volergli bene.
Serenus, l’umanista moderato, nasconde dietro l’arrivismo rivoluzionario la sua vigliaccheria.
Se i rivoluzionari sono degli ‘arrivati’, (da dove e per quale ingordigia?!), che dire dei busti ingessati della reazione, che non battono ciglio davanti alla morte degli uomini, ma si commuovono (sino alla lacrime!) al suono della viola d’amore?!
Adrian non dà giudizi (ancor meno dispiega motivi di valore!) su simili individui; ispirandosi alla verità artistica, minima ma sincera, esclude che questo barone sia un fenomeno della vita; per lui è un sopravvissuto, un fossile preistorico.
A me il dottor Chaim Breisacher non era punto simpatico, poiché vedevo in lui un intellettuale intrigante ed ero convinto che fosse antipatico anche ad Adrian, quantunque, per ragioni che non mi sono del tutto evidenti, fra noi non si sia mai parlato molto di Breisacher.
Zeitblom lo definisce filosofo eclettico, che conosceva tutti i fenomeni spirituali del tempo soltanto per poterli disprezzare come fenomeni di decadenza.
Il vocabolo più spregiativo sulla sua bocca era ‘progresso’. I motivi di tanto disprezzo? Si sentiva che quello scherno conservatore lanciato contro il progresso, doveva intendersi come lasciapassare legittimo per la sua 143
permanenza in quella società e come indice del suo diritto a frequentarne i salotti.
Mann ha inteso in questo intellettuale prefigurare il personaggio Spengler?!
Comprendiamo, però, molto bene perché Adrian non parlasse volentieri di tanto cialtrone; in un certo senso i salotti Rodde e Riedesel, (escluso il generale!), erano nettamente superiori all’eclettico filosofo, poiché là, non dando eccessiva importanza ad una certa fluorescenza decadente, vi trovava stimoli in grado di eccitare la sua creazione artistica.
Le origini della musica a più voci, cioè il canto a intervalli di quinta e di sesta, sono ben lontane da Roma, centro della civiltà musicale e patria della bella voce e del culto di essa, le origini sono nel settentrione, che ospita le gole rudi e pare siano state una specie di compenso per la mancanza di grazia. Si tratta di un saggio della cultura di Breisacher (Spengler?!) che, facendo a pezzi l’armonia giudicata musica deteriore, giunge ad affermare che già Bach era un decadente.
Per Breisacher il massimo della civiltà è di non esserci!
Non si poteva essere l’inventore di clavicembalo ben temperato, cioè della possibilità di intendere variamente ogni segno e di fare scambi enarmonici, non si poteva inventare il nuovo organismo armonico della modulazione senza meritarsi il duro epiteto (musicista armonico!) che il competente di Weimar gli aveva affibbiato.
Mentre tutti si meravigliavano e si battevano le ginocchia in un accesso di allegria, io cercai gli occhi di Adrian a quei discorsi sgradevoli; ma egli non mi concesse il suo sguardo.
Con tutta probabilità non lo aveva neppure ascoltato.
L’ambiguità dell’ambiente può ancora attirarci, poiché perfeziona la nostra reazione beffarda; ma quando vi predomina la saccenteria astrusa e cialtronesca l’artista se ne va o sbarca la sua attenzione in altro lido.
Dopo di averci ammannito alcune teorie (anche queste eclettiche!) sulla religione del dottor Breisacher, Serenus scrive:
Ma l’uomo più delicato di sentire, non è incline a recare disturbo; non si sente di irrompere con obiezioni logiche o storiche a dei pensieri elaborati a fatica, e persino nella 144
anti spiritualità egli rispetta ed onora lo spirito; oggi si capisce, è vero, che fu un errore della nostra civiltà di esercitare con troppa magnanimità questo rispetto, mentre non trovava nella parte avversaria altro che insolenza e risolutissima intolleranza.
Breisacher nei fatti è un precursore della reazione fascista; la tolleranza dei salotti Rodde e Schlaginhaufen sembra il preludio della pazienza ebraica all’alzarsi dei primi venti della persecuzione.
E’ per il ruvido inaccettabile che l’uomo di delicato ‘sentire’ accetti di farsi soffocare dal tronfio della stupidità; per il vero ad un certo punto si ha il sospetto che si tratta non di delicatezza, ma di vigliaccheria o di coscienza sporca.
L’indifferenza e il disprezzo di Adrian sono ben altra cosa!
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Del carnevale 1914 a Monaco ho conservato un ricordo vivace o, dirò meglio, grave di presentimenti fatali.
La sciagura incombente può acuire la vitalità del momento; Zeitblom ne attenua la feroce intensità, sorpreso della sua stessa audacia.
Si ricorda finalmente che si era alla vigilia di una guerra lunga e terribile, tragico preludio di quella, ancor più violenta e devastante, che nel momento in cui stende le memorie di Adrian sta insanguinando il mondo intero.
Era il tempo in cui alcuni destini individuali si svilupparono tra i nostri conoscenti davanti ai miei sguardi, sviluppi che, inosservati per il resto del mondo, dovevano portare a catastrofi delle quali debbo parlare in questi fogli, perché toccano da vicino la vita e la sorte di Adrian Leverkühn.
I ‘guai’ della vita sarebbero meglio sopportabili, se non esistessero i salotti ‘Rodde e Schlagenhaufen’; anzi, nella loro assenza, radicale estirpazione ruvida, (non cruenta, non ci si capisca male!), i guai diventerebbero occasioni creative. Adrian, soggetto sociale solo per quanto riguarda la sua formazione e produzione artistica, sarà compromesso da questi avvenimenti ‘non­
necessari’.
La fonte di tutti i disastri è la libertà, che rifiuta i suoi provvidi limiti.
Zeitblom nella sua ricostruzione decide, con un certo quid di bizzarria, di 145
escludere la tragedia di Clarissa Rodde dalle catastrofi individuali e motiva questa scelta con il fatto di essersi la giovane dedicata alla carriera teatrale senza averne le doti e nonostante ve la dissuadesse il suo stesso ‘mentore’.
Sembra quasi che per essere accettati nel numero delle vittime degne di tragedia, bisogna rientrare nelle regole della rispettabilità borghese.
Non occorre dire che Adrian era ben lontano agli inizi dalle complicazioni alle quali alludo, che non vi prestò alcuna attenzione e che in un certo modo le notò solo con il mio aiuto, poiché io ero molto più di lui curioso della società o, dirò meglio, più legato al prossimo.
Precisazioni degne delle catastrofi imminenti!
E’, in vero, singolare che l’interesse per il prossimo si manifesti con la curiosità!
Ines Rodde si incamminò per la via del matrimonio; beninteso con il consenso affettuoso e sentimentale della madre e fece fallimento, come sua sorella per altra via.
La tragica conclusione fu che, a rigore, questo ideale non le spettava, né i tempi, che tutto mutano e minano, ne permettevano l’attuazione.
Zeitblom non poteva trovare una spiegazione più banale.
L’eccellente scelta di Mann è stata quella di evitarsi giudizi secchi e diretti, facendosi sostituire da un narratore ‘umanista’, simpaticamente mediocre e sicuro di sé; ha finito per creare un personaggio a tutto tondo, protagonista alla pari degli altri delle tragiche ed avvincenti vicende narrate.
In quei giorni le (si tratta di Ines Rodde) si avvicinò un certo dottor Helmut Institoris, libero docente di estetica e di storia dell’arte al Politecnico, dove, facendo circolare riproduzione fotografiche, teneva lezioni sulla teoria del bello e sull’architettura del Rinascimento, con buone speranze di essere chiamato un giorno all’Università.
Al libero docente Helmut Institoris, pioniere dell’uso della fotografia a carattere didattico, (‘liturgia’, per la quale Zeitblom non nasconde una certa antipatia, se non proprio ricusazione!), manca uno strumento essenziale per la sua carriera di futuro docente universitario, una moglie!
Si decide a cercarla; egli è pronto anche a trascurare come non incidenti 146
le condizioni economiche della prescelta, purché si stacchi, figura eccellente e presentabile, dalla mediocrità generale!
Era un dolicocefalo biondo, piuttosto piccolo di statura e molto elegante, con capelli lisci, divisi nel mezzo e leggermente impomatati, aveva baffi spioventi sulla bocca e, dietro gli occhiali d’oro, occhi azzurri che guardavano con espressione tenera e nobile, dalla quale non si capiva facilmente che adorava la brutalità, naturalmente bella. Institoris non gridava, parlava sottovoce e persino bisbigliando, quando dichiarava che il Rinascimento italiano era stato anche un poco fumigante di sangue e di bellezza.
La degenerazione dell’uomo germanico non poteva essere descritta in modo più preciso e inquietante; nel momento dello splendore guglielmino queste sono le figure, che si preparano alla crociata patriottica e che in seguito apriranno le porte alla canea Hitleriana, esaltando gli slanci della nuova gioventù alemanna.
I fallimenti personali di gente simile finiscono per favorire, se non sollecitare la ferocia, aldilà della apparente loro tenerezza.
Per completare la descrizione del dottor Helmut Institoris prendiamo atto della sua delicatezza nervosa; apprendiamo che aveva disturbi al ‘simpatico, al plesso solare’, (situazione, correlativo linguistico, poco rassicurante!), disturbi che gli procuravano angosce.
Come tocco finale, era ospite fisso di un sanatorio per gente ricca a Merano. Povera Ines Rodde, ci lascia presagire il buon Serenus Zeitblom!
Ines non era priva di caratteri femminili; si poteva capire che un uomo alla ricerca di una compagna si fosse innamorato dei suoi capelli abbondanti, delle sue mani piccoline con le fossette, della sua gioventù nobilmente compresa di sé.
Lo attraevano le condizioni patrizie di lei, alle quali ella teneva; che però a causa delle condizioni presenti, del suo trapianto, erano scese a un livello inferiore, di modo che non mettevano in pericolo il sopravvento di lui, anzi, egli aveva forse la sensazione di elevarla e di stabilirla facendola sua.
E’ una relazione, (matrimonio non lo potrà mai essere, nonostante che 147
Ines non fosse del tutto priva di caratteri, predisposizioni, femminili!), che nasce sotto gli auspici nerissimi del più insolente ed infame dei malintesi; ci sono, qui, tutti gli ingredienti per dare origine ad un rapporto dolciastro, dalle grevi appendici; lo sradicamento reciproco è elevato ad autoaffermazione futura, la donna, desiderata come teatro di misteriose e stuzzicanti scorribande, il maschio, sicuro della forza culturale e della sua capacità di tramortire per doti straordinarie la femmina. Fa da pronubo a tanto decoro un corredo di biancheria e di argenteria à la page, in virtù del quale Ines Rodde sarebbe divenuta una ‘padrona di casa squisitamente rappresentativa’.
A quell’uomo assolutamente meschino e preoccupato di sé, fine sì e di cultura egregia, ma fisicamente privo di vigore, non potevo attribuire, neanche ricorrendo a tutta la mia fantasia, alcun appeal per l’altro sesso, mentre pur sentivo che Ines, nonostante il contenuto rigore della sua condizione di nubile, in fondo aveva bisogno di un siffatto appeal.
Dall’acrimonia, con cui Zeitblom dipinge le abitudini e le attese di questo sbracato cultore d’estetica e d’arte, dovremmo dedurre che egli, umanista possente, sapeva sedurre e accontentare la sposa in maniera virilmente egregia.
Il maschio d’altronde è convinto d’avere ad altissimo grado l’appeal, che richiama la femmina; il giudizio degli altri può sol segnalare una qualche flessione, poiché le ciambelle del sesso non sempre riescono bene e bisogna sapersi riprendere senza tradire eccessiva inquietudine; nella sostanza un po’ tutti noi siamo forniti del piccolo corno, che sfida!
Il rigore (morale!), che incombe allo stato di nubile, (quasi una nuvola, che minacciosa impedisce di esplodere nuda la fregola!), è manna eccitante per chi si coltiva il suo orto psicotico!
Il contrasto insanabile tra Ines e Helmut in fondo è abbastanza meschino; nasce infatti da una presunta insufficienza del maschio (genetica?!) a dar compimento a quel nucleo di querulo sfriggere lubrico tanto importante alla femmina ‘libera’.
Dopo tutto questo bailamme di attese quasi morbose, il tentativo di nobilitare il contrasto, dandogli un piglio ideologico, (Helmut, adoratore della bella­brutale violenza e Ines, ‘moralmente pessimista’!), riesce assai fragile, un fregio, un pretesto intellettuale, una incipiente incompatibilità ben altrimenti motivabile e in un certo senso motivata!
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Dal punto di vista della bellezza Institoris diceva che non bisogna lodare la volontà, ma la dote e considerare meritoria soltanto questa.
Diceva che lo sforzo era cosa plebea, mentre nobile e perciò meritevole è soltanto l’atto compiuto per istinto, involontariamente e con facilità.
Schwedtfeger, benché avesse un’oscura sensazione che dovesse trattarsi di una cosa in qualche modo più elevata e a lui non accessibile, non volle lasciarsi battere.
Che cosa spinge Schwedtfeger, violinista con l’arco e di zufolo, a mettersi in contrasto con quel pallone gonfiato?! I meccanismi del destino (umano!) si mettono in movimento, approfittando dello smarrimento, talvolta reazione violenta, dei singoli.
Se si accetta l’idea del merito, bisogna saperne accettare sino in fondo le conseguenze, altrimenti lo si cancelli dall’elenco degli atti sensibili e finalmente spariranno le gerarchie, per prima quella dell’istinto o dote naturale, che genera la potenza, la supremazia etnico­tribale.
I cialtroni alla Institoris intimidiscono i semplici, ma, soprattutto spaventano quelli, sempre più numerosi, che si sentono addosso soltanto doti artificiali, situazione da addebitarsi alla parcellizzazione del lavoro.
Possiamo tranquillamente vedere nella ‘dote’ involontaria del dottore in estetica rinascimentale l’anticipazione dell’istinto di potenza nazista.
Tutte e due le sorelle avevano fiducia in me; pareva cioè che mi attribuissero quel valore che dà facoltà e autorizza a valutare gli altri, sempre che per completare la fiducia ci sia una certa distanza dalla competizione, una serena neutralità.
La parte del confidente è sempre gradevole e dolorosa a un tempo, poiché la si sostiene sempre col presupposto di essere personalmente fuori causa.
Pensiamo che sia giunto il momento di denunciare, senza equivoci e con durezza, (la volontà è implicita in Mann, che butta allo sbaraglio il suo medium per evidenziare una situazione insopportabilmente meschina!), che la divisione ‘statica’ delle funzioni psicologiche (ci si fida ‘nobilmente’, notate la stoltezza, di chi è estraneo alle nostre passioni, ma godiamo ‘fisicamente’ gli approcci dello stupratore!) è la conseguenza dei rapporti sociali cristallizzati e rigidamente formali.
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Per lo più si stancava molto presto di udire le mie opinioni su Helmut Institoris e ampliava la sua fiducia in me, la generalizzava per così dire, esprimendo il desiderio di ascoltare il mio giudizio anche su altre persone della nostra cerchia, ad esempio su Schwerdtfeger.
Il rapporto amoroso di Ines Rodde è uno e trino; utilizza il futuro marito come punto fermo, il confidente Serenus Zeitblom come olla alle sue doglianze e Schwedtfeger, possibile amante, unico interesse carnale profondo; come si vede, si tratta di una situazione del tutto omogenea alla sua natura di ‘sofferente’.
Diceva che era un uomo senza vizi, che era un uomo puro, così spiegava la sua confidenza, poiché la purità è fiducia.
Non beveva, salvo tè leggermente zuccherato e senza pausa, tre volte al giorno; non fumava, se non in rare occasioni, senza sentire la costrizione della consuetudine.
Ines Rodde è ancora nubile; il flirt con il violinista e fischiatore le sembra un’uscita di sicurezza innocente, priva di conseguenze incontrollabili; ma come si svilupperà quella specie di intrigo innocente, se nel coniugio non avrà trovato qualcosa di sicuro e di passionalmente involgente?! Ma Rudolf rendeva difficile agli altri di osservare il suo valore e di rendersene conto, poiché aveva un suo garbo, una sua civetteria con quelle arie da damerino e, in genere, con quel suo piacere di frequentare la società che in fondo, diceva, è una cosa spaventevole.
E non mi pareva, domandava Ines, che tutta quella vita di artista gaio ed elegante, contrastasse penosamente con la tristezza e la problematicità della vita?!
Helmut Institoris, il futuro marito, è già posto fuori campo; è entrato a far parte, in una parola, di quelle circostanze fatali e inevitabili, che rendono la vita triste e dolorosa!
Le attenzioni di Ines Rodde sembrano rivolte a redimere con totale trasparenza dalla leggerezza il purissimo amico violinista; ella smania di fargli presente con tenerezza che ‘solo una notte di pianto’ dopo la vita scioperata di società può elevare lo spirito, liberandolo dall’insolente gaiezza, che è in totale contrasto con l’infelicità di fondo degli umani.
Per farla breve, essa professava una dolorosa sfiducia nella serietà di lui, nelle sue dimostrazioni di simpatiche attenzioni.
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Per esempio, quando essa era malata ed egli veniva a trovarla, tutto ciò accadeva soltanto in maniera cortese e garbata, perché egli la considerava una opportunità sociale, non per bisogno profondo e non era il caso di attribuirgli alcuna importanza.
La persona, che coltiva per abitudine il flirt, non è in grado di radicarsi in nessun affetto sincero e duraturo; ciò rende ancor più insidioso e struggente il bisogno, il desiderio di appropriamento di chi, lusingata, vi si lega prepotentemente ed è quanto sta succedendo ad Ines Rodde, quando il violinista (‘per opportunità sociale’!) le sta vicino.
Se non ci si accorge delle nostre contraddizioni, il futuro diventa un budello, ove le fitte tenebre rendono ciechi.
Ines Rodde amava il giovane Schwedtfeger; a questo punto c’erano solo due domande da formulare: in primo luogo, lo sapeva? In secondo luogo, in quale momento la sua relazione originariamente fraterna e cameratesca col violinista aveva assunto quel carattere di ardore e di sofferenza?
Alla prima domanda, Zeitblom risponde affermativamente:
Essa fingeva in certo qual modo di considerarmi abbastanza semplicione da non accorgermi di nulla, ma in realtà desiderava e sapeva che non mi sfuggiva la verità, poiché, a mio onore, le pareva che il suo segreto fosse ben custodito nelle mie mani. Alla seconda dimostra maggior perspicacia:
Io ero convinto ­e lo sono ancora­ che Ines non si sarebbe mai innamorata di Schwedtfeger, se Institoris, l’aspirante alla sua mano, non fosse entrato nella sua vita.
Abbiamo costretto la donna in se stessa, isolandola nel suo mondo affettivo a tal punto che spesso la sua femminilità prorompente ci sgomenta; in fondo gli Institoris sono molto più numerosi di quanto non sospetti il buon Serenus.
Il maschio ha costruito la sua alterigia di ‘genere’, inventando una irrimediabile incompatibilità tra la sua tensione sessuale lineare e semplice (di forza!) e quella subdola, insidiosa e mestiziosa della femmina (di frodo!).
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In fondo Ines aveva in disprezzo il traffico di bellezza 151
della città sensuale, dove la madre, desiderosa di maggiore libertà di costumi, l’aveva trasportata, ma per amore del suo assestamento borghese partecipava alle feste di una società, che era tutta una grande associazione di artisti e proprio per questo metteva in pericolo la pace ch’ella andava cercando.
La grave dissonanza di temperamento e di aspettative tra la madre e la figlia finisce per produrre in Ines una seconda natura, che per reggere (non esplodere in rissa irreparabile!) si appoggia sull’ipocrisia, necessaria per non affondare del tutto in una società corrotta, corruttrice e sostanzialmente superficiale, nonostante tutte le sue arie di modernità superiore.
Ogni tentativo di recupero si trasforma in occasione di più tragiche violazioni; quanto più un gruppo, una città, una nazione sono impudicamente moderate e più la donna è costretta a difendere il garbo e la ‘purità’ (contrasto doloroso!) con un comportamento subdolo, che finisce per sradicare il rispetto e la capacità di scegliere relazioni veramente sincere, le uniche eticamente accettabili. Come si trovava Adrian in questo ‘grommero’ di nodi indissolubili?! E' il suo disagio, che Mann, per mezzo del buon Serenus, intende comunicare al lettore.
Ma il sostituto ci riesce pedante, quando si giustifica per essersi perduto nelle ‘briciole delle osservazioni’; sono infatti queste che ci trasmettono con più di efficacia lo stadio di profondo fastidio di Leverkühn. Ne parlai una volta solo con Adrian a Pfeiffering, quando eravamo ancora agli inizi.
Gli raccontai in confidenza che Ines Rodde, benché fosse in procinto di fidanzarsi con Institoris, era, secondo le mie osservazioni, innamorata di Rudi Schwerdtfeger fino ai capelli. Eravamo nella sala dell’Abate e giocavamo a scacchi.
­Queste sì che sono novità! Tu vorresti che sbagliassi la mossa e perdessi la torre, vero? Povera creatura!­
Poi studiando a lungo le mosse, disse ancora, facendo una pausa tra le due frasi: ­Del resto non è uno scherzo per lui. Stia attento a cavarsela senza danno!­
Adrian con largo anticipo ha già misurato, sia pure vagamente, l’esito nero; per giunta liquida la situazione come inevitabile.
Mentre Serenus partecipa con trepidazione ed affanno e spera in un 152
qualche rimedio, per il compositore si tratta di una relazione impossibile, condannata al fallimento.
La graffiante ironia e la raffinatezza tragica delle sue figure musicali sono proprio la denuncia della povertà morale di quegli avvenimenti, solo ad un osservatore superficiale minimi; il suo modo di superare il padule di fango e motriglia è un invito (soprattutto a se stesso ed eventualmente a chi lo sa cogliere tra la folla anonima!) a passare oltre in fretta, facendosi consapevoli della tenebrosità del transito.
Non dobbiamo inoltre dimenticare che sempre l’appassionata visione di Adrian, a causa della disperata pudicizia teologica, immancabilmente si trasforma in beffa, benché sotto la maschera operi e consumi un dolore inconsolabile.
Era scoppiata la guerra. La sciagura, che aveva covato per tanto tempo sull’Europa si era scatenata e, in forma di preciso ingranaggio di tutte le previsioni e esercitazioni, infuriava sulle nostre città e scatenava la mente e i cuori degli uomini con il terrore, a sussulti e la vista patetica della miseria, con la commozione, il senso della forza e con l’abnegazione.
Commozione, miseria, terrore ed esaltazione della forza sono il ‘grommero’ della nazione! La patria chiama! In marcia!
Nella nostra Germania essa faceva soprattutto esaltante impressione d’orgoglio storico, accompagnato dalla gioia di mettersi in marcia, di abbandonare la vita quotidiana, di liberarsi di un ristagno nel quale non si sarebbe potuto convivere, in un entusiasmo rivolto all’avvenire, in un appello al dovere virile, in una festa eroica.
Ogni chierico teutonico si sentiva un Bonifazio de La Mole!
Si è afferrati dal fastidio morale, una voluttà di gridare all’orrore sino a scoppiarne!
Il ristagno della vita quotidiana (per chi, di grazia, per quale gruppo ristretto di esteti e di giovani pazzi?!), divelto e gettato per purificarsi nel bugno del sangue, quasi rugiada!
Dopo varie considerazioni legate all’eroismo germanico, finalmente il buon Zeitblom si lascia andare ad una confidenza, a lui più consona e che ci libera un poco dalla disperazione:
La smania giovanile di sacrificarsi e di cercare avventura si univa ai vantaggi della licenza rapida e senza esami. 153
E’ lo stato d’animo solito dei giovani, educati nelle accademie militari.
Nelle attuali missioni di pace, la vantata solidarietà con le popolazioni ‘inferiori’ è corroborata ‘nobilmente’ da retribuzioni in moneta, che al miserabile lavoratore delle officine e dei campi (assai pochi, ma molto conciati, ancor più se qui giunti da estranee contrade!) sono come il paradiso per gli asceti dopo una lunga astinenza di presenza divina.
Zeitblom, chiuso dal morso della sincerità, confessa che la mobilitazione entusiasta aveva un po’ il senso e la goliardia di chi può finalmente marinare la scuola, senza pagarne lo scotto.
Né dimenticherò che allora partivamo per la guerra con il cuore relativamente puro e non pensavamo di esserci comportati prima in modo che un conflitto mondiale potesse essere considerato conseguenza logica e inevitabile del nostro atteggiamento spirituale.
Così fu, Dio ci perdoni, cinque, ma non trenta anni fa. Il diritto e la legge, l’habeas corpus, la libertà e la dignità umana erano stati abbastanza rispettati nel nostro paese. La cultura era stata libera, aveva raggiunto un cospicuo livello e se da un pezzo era avvezza a non avere alcun rapporto col potere statale, i suoi giovani rappresentanti potevano scorgere proprio in una grande guerra di popoli i mezzi per arrivare a una forma di vita, nella quale lo Stato e la cultura fossero una cosa sola.
Nella sostanza il brano risponde quasi alla lettere alle convinzioni giovanili di Mann, che nella guerra difese la civiltà avanzata del popolo tedesco.
Gli si perdona la sciagurata ed assurda convinzione di una guerra, vista ed esaltata come strumento per ristabilire un rapporto più stretto ed armonioso tra lo Stato e l’albero delle libertà personali, poiché egli stesso fa una puntualizzazione, che di molto rende nullo quello stolto e crudele teorema.
Il mezzo a disposizione di un popolo, che intende raggiungere una forma superiore della sua vita sociale, non dovrebbe essere all’esterno, ma la guerra civile. Questa invece ci ripugna, mentre non ci importava affatto, anzi ci sembrava una cosa magnifica che la nostra unificazione nazionale ci fosse costata tre guerre.
Rimane un dato incomprensibile per un ruvido che una persona intelligente (nel caso di Mann, addirittura geniale!) non si accorga alla radice che lo Stato e la Cultura sono nel senso imperiale­borghese­
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ecclesiastico delle astrazioni, poiché non le cementa il rispetto del lavoro, che unico crea la vera ricchezza e possiede la chiave per rendere vita il deserto, simpatia il dolore, esultanza anche il rischio, canora baldanza il coraggio di osare.
E’ proprio la difesa strenua della civiltà borghese come unica possibile, (baluardo insuperabile contro la barbarie!), che non può fare a meno della ferocia!
No, amico, la guerra civile si trasformi in rivoluzione radicale!
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La città era tutto in un serio fermento, non senza strascico di panico e di collera, quando, per esempio, si diffuse la diceria che l’acquedotto fosse avvelenato o quando si credette di aver scoperto tra la folla una spia serba.
Per non essere considerato tale ed essere ucciso per sbaglio, il dottor Breisacher, che incontrai per caso nella Ludwigstrasse, si era coperto il petto di bandiere e coccarde nero­bianco­rosse.
Lo stato di guerra, il passaggio del potere supremo dai borghesi ai militari, a un generale, che emanava proclami, venne accolto con un brivido di confidenza: era tranquillante sapere che i membri della Casa Regnante, i quali partivano per assumere comandi, diretti al quartier generale, avrebbero avuto a fianco un ottimo stato maggiore e non potevano arrecare augusti danni.
Che un comando militare, incaricato di governare tutte le funzioni dello Stato, rimedi ad ‘augusti’ danni, è convinzione da canaglie, poiché ormai il guaio peggiore è già stato combinato, con il beneplacito entusiasta dei grandi Comandi o gerarchie di guerra!
Questa riflessione la fissiamo sulla carta con puntiglio, che qualcuno giudicherà indignazione accademica; comprendiamo assai bene che, data la situazione dei mercati finanziari e degli antagonismi colonialistici, che si erano creati nelle nazioni ‘civili’, non restava alla sorti munifiche del Capitale altra strada che la guerra, per poter continuare (esaurito il conflitto!) a tessere la solita tela con gli stessi strumenti.
In fondo, almeno per il momento, ero l’unico dei nostri conoscenti che andasse alla guerra: eravamo forti e abbastanza numerosi da poterci permettere il lusso di 155
scegliere, di avere riguardo ad interessi culturali, di riconoscere molti indispensabili e di mandare al fronte soltanto giovani perfettamente idonei.
Pei buontemponi della cultura alemanna la guerra si riduceva (agli albori!) a un balletto di scambio tra le sfere militari e le esigenze della sana continuità accademica.
Il gioco al massacro poteva avvalersi di queste stramberie, a cui si era aggiunto l’improvviso patriottismo delle sfere sindacali e socialiste!
Zeitblom con scrupolosa solerzia ci fa sapere (dovendo enumerare i diversi difetti fisici, a causa dei quali furono tenuti lontani dal fronte i nostri conoscenti dei circoli Rodde e Schlegenhausen!) che Rudolf Schwerdfegen fu esonerato, poiché era stato un tempo operato a un rene; ben presto però le donne, sugli inizi altamente meravigliate, non pensarono più a quell’incidente.
Per salutare Adrian, la cui personale indifferenza verso l’avvenimento mi sembrava la cosa più naturale di questo mondo, mi recai a Pfeiffering; là ritrovai Rüdigher Schildknapp, il quale ancor libero per il momento, passava il fine settimana con il nostro amico.
Dico subito che rimasi al campo solo un annetto, fino ai combattimenti delle Argonne del 1915 e fui rimandato a casa con la croce di ferro, che mi ero meritata solo sopportando disagi e buscandomi un’infezione di tifo.
Non ci viene svelato il motivo, per cui Adrian sfugge ad ogni tipo di reclutamento. Ci si affaccia il sospetto che l’esonero rientrasse in una maniera o nell’altra nel patto col diavolo, i ventiquattro anni di assoluta dedizione alla musica e di dominio sulle sue forme.
Non pensiamo che Mann non si sia reso conto della stranezza; siamo al contrario convinti che volesse sottolineare il particolare e già pesante per sé del destino dell’artista. Sgozzatevi pure, ma non togliere al poeta il diritto di vivere estraneo, aldilà di sì tragica e sterile mischia!
Confessiamo che il senso che Beyle dà all’arte ci è più ruvidamente comprensibile!
Per quanto grandi e importanti siano missione o funzione, quando il lor senso sfuma nel vago o, ancor peggio, nell’assoluto del particolare 156
prestigio, siamo in pericolo, poiché gli abissi della mistificazione ci si squarciano da ogni dove. Di una cosa ci consoliamo, il demonismo di Adrian non è una conseguenza del ‘tragico’ germanesimo del giovane Mann; è parte intima della crisi artistica della cultura europea di fine ed inizio secolo, crisi, di cui la prima guerra mondiale fu lo squarciarsi rivelatore.
Durante la cena e dopo si parlò molto di politica e di morale, del mitico affiorare dei caratteri nazionali, che si verifica in siffatti momenti storici, del quale io parlai con una certa commozione per equilibrare un poco il concetto empirico della guerra che, secondo Schildknapp, era l‘unico ammissibile.
Il carattere ‘empirico’ della guerra consegue comunque dai caratteri nazionali; entrambi i due intellettuali giocano a rimpiattino, in modo troppo scanzonato e leggero Schildknapp, per cui ha quasi ragione Zeitblom di prender cappello; ma questi (a noi sembra!) ha il torto per difendere lo spirito alemanno di inventare il carattere ‘mitico’ della guerra; è questa una furbizia per non doversi confessare l’origine ‘banditesca’ del conflitto.
Ci risulta più schietta l’affermazione del cancelliere tedesco che, davanti alla esecrazione universale per l’invasione del Belgio neutrale da parte delle sue truppe, fingendo una cortese contrizione, ebbe (da cialtrone!) a sentenziare: Necessità non ha legge!
E’ la solita ipocrisia dei potenti; prima si provoca la ‘necessità’, quindi a lei ci si appella come ultima ratio della rapina e del malaffare!
Abbiamo avuto soltanto l’astuzia di precedere la perfidia degli avversari!
Del resto questo è il solo tipo di schiettezza in uso alla corte del Prìncipe, si tratti di lanzichenecco teutonico o di Lord albionico!
Sul leggio era invece il lavoro in corso: fogli sciolti, schizzi, abbozzi, inizi, appunti più o meno svolti.
Con la sigaretta tra le labbra Adrian si era messo davanti per darvi un’occhiata, esattamente come il giocatore di scacchi esamina la situazione della partita sul campo quadrettato, che ricorda, del resto, molto da vicino la composizione musicale.
I nostri rapporti erano così cordiali e senza etichetta che, come fosse solo, egli prendeva la matita per segnare a piacimento qualche passaggio dei clarinetti o dei corni.
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I contrappunti, coi quali Serenus Zeitblom articola e scandisce la sua narrazione, imitano (correlativo oggettivo!) i movimenti bellici alla stessa maniera che un canto di fanciulla può essere comparato a un coro di ubriachi.
Adrian, pur sapendo che l’amico sta per partire per il fronte, ostenta la più grande indifferenza; d’altra parte è comprensibile, vista la plateale abbondanza di defezioni, che il governo militare concedeva alla cultura alemanna. La guerra non era ancora una cosa seria!
Era stolido porsi nello stato d’animo degli israeliti in cattività a Babilonia: Non potevamo noi cantare ecc. ecc.”
Avvezzo come sono a parlare e a insegnare, posso dire di essere un buon oratore, quando il mio cuore si scalda; non mi dispiace nemmeno ascoltarmi e provo una certa gioia vedendo la facilità con cui mi affluiscono le parole.
Non senza gesti vivaci lasciai libero Rüdigher di assegnare la mia facondia a quel giornalismo guerriero che tanto lo indispettiva; dissi però che, secondo me, doveva pur essere lecita un po’ di partecipazione psicologica a quella forma niente affatto priva di commozione per i tratti del carattere tedesco, alla quale l’ora storica aveva fatto assurgere la natura multiforme del nostro popolo; e, in ultima analisi, si trattava della psicologia di chi sente la necessità di imporsi.
Dopo essersi esaltato per la fecondità e scorrevolezza della propria capacità oratoria, Zeitblom ci sciorina degli accostamenti strampalati come quello di congiungere la discorsività pedagogica con il giornalismo d’assalto e con la psicologia della sopraffazione, che è (eufemismo ipocrita!) chiamata ‘necessità dell’imporsi’.
L’eloquenza pedagogica, utilizzata come strumento per accrescere e cementare lo spirito agonistico dei militari, scaturisce dallo spontaneo sarcasmo dell’artista verso gli stolti conati patriottici.
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In un popolo come il nostro ­spiegavo­ l’anima è sempre l’elemento primario, quello che costituisce la motivazione; l’azione politica, invece, viene al secondo posto, è un riflesso, un’espressione, uno strumento.
Ed è amaro constatare che il fenomeno empirico della campagna di guerra accoglie ciò che in realtà è nostalgia 158
e sete di unione.
A queste riflessioni Adrian reagisce con un’espressione nella sua semplicità sarcastica, in apparenza inattaccabile: Dio benedica i vostri studi!
Lasciamo da parte dio, con il quale finiamo per sprofondare nelle sconfinate voragini dell’assoluta energia (la tana del tedio!) ogni sorta di analisi o benedizione; il musicista con una laconicità degna degli antichi (scatto di impazienza non più contenibile!) rimprovera all’amico umanista quanto di violenza e barbarie si nasconda tra gli intrighi, in superficie armoniosi, delle accademie.
Ma di quale civiltà può vantarsi un popolo, che solo con lo strumento empirico (quale degradazione per la ferace esperienza!) della guerra tenta di sortire da una presunta solitudine d’anima per esprimere, rivelare agli altri il suo spasimo per l’unità universale?!
Zeitblom si difende e gli ricorda il gruppo degli amici teologi; a questo punto Adrian lo accusa di storditaggine goliardica, condizione essenziale, perché si scateni lo spirito guerriero.
Serenus esclama:
Tanto meglio se la vita accademica ci conserva giovani! Ciò conserva la fedeltà allo spirito, al libero pensiero, alla interpretazione superiore degli avvenimenti crudi!
Di fronte a tanta alterigia apodittica (non una dimostrazione, non un approfondimento sul disastro del conflitto!) che resta ad un artista, se non la desolazione del silenzio?!
­La guerra sarà breve!­ Dissi con voce strozzata, poiché le sue parole mi avevano addolorato.
­Non può durare a lungo! Noi paghiamo la rapida avanzata e ascesa con una colpa confessata che dichiariamo di voler scontare!­
­E la saprete portare con dignità!­ Interruppe lui. ­La Germania ha spalle larghe e chi nega mai che una vera avanzata ed ascesa non valga ciò che il mondo addomesticato chiama delitto?­
A quel punto Adrian aprì il libro di Kleist, che aveva sulla tavola e fece la sintesi di un racconto, dove alle marionette era affidato l’ultimo capitolo della storia del mondo, la redenzione dal peccato per mezzo di una seconda sfida all’albero della scienza del bene e del male.
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La riduzione a oggettività del disastro (c’è sempre un rimedio futuro alla buaggine dell’orrore! Fino a quando, non è domanda possibile, tanto le sorti umane sembrano allungarsi in un avvenire, coperto da nebbie!) soddisfa pienamente Zeitblom; egli lamenta solo che Adrian riduca la redenzione all’estetica (delle marionette!).
Egli mi guardò e mi parve che le sue guance rosse avessero perduto il colore. Lo sguardo che mi rivolse era quel tale sguardo che mi rendeva infelice, colpisse me o un altro, uno sguardo muto, velato, freddo e distante fino ad essere offensivo, seguito dal sorriso a denti stretti e pinne nasali vibranti d’ironia.
Con me portai alla guerra lo sguardo di Adrian e forse fu quello sguardo e solo apparentemente il tifo petecchiale, che mi riportò presto a casa e al suo fianco. Nonostante tutta la liturgia accademica e la presunzione pedagogica, Zeitblom consuma nella convinzione interiore (gelosamente privata!) una sopraggiunta (in corso d’esperimento del macello di corpi!) ostilità alla guerra, alle sue premesse e, ancor più, alle sue insopportabili conseguenze, ostilità che per Adrian era sempre stato il pane quotidiano, cibo molto più intimo della stessa musica, affermazione che penso accettabile in quanto, altrimenti, di cose si sarebbe nutrito il suo animo artistico?!
Qui Mann rinuncia a concludere e lascia in sospeso contraddizioni così lucidamente sollevate; purtroppo l’arte, per buona parte dei suoi cultori, non deve ‘depravarsi’ nell’intervento (denuncia!) diretto, ma sollevarsi nei cieli puliti ed ideali di una superiore visione!
Davanti al tradimento mascherato dell’arte ufficiale, il demonismo di Adrian assume sempre di più il carattere di una ribellione solitaria e proprio per questo disperata. Con notevole facilità e chiarezza evoco ancor oggi l’immagine di una magra donna gallica sopra un’altura, intorno alla quale passava la nostra batteria e ai piedi fremevano i resti di un villaggio bombardato.
Con un tragico gesto, come una tedesca non avrebbe saputo fare, ci gridò: ­Je suis la dernière!­ E, alzando i pugni, scagliava la maledizione sopra le nostre teste, ripetendo più volte: ­Méchants, méchants, méchants!­
Noi distogliemmo lo sguardo: noi dovevamo vincere e questo era il duro mestiere della vittoria!
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Questo brusco cambiamento di umore ci porta a chiedere per quale profonda motivazione Zeitblom non avesse avuto la stessa reazione davanti alla parole profetiche di Adrian.
Fu mancanza di immaginazione, torpore interiore, provocato dalle nebbie di un patriottismo stoltamente lusinghiero e paralizzante?!
Mann con queste pagine sembra lasciar sospettare che, qualora ogni patriota tedesco avesse posto un più di attenzione non alle opinioni dei nemici, ma alle perplessità di conoscenti ed amici, (moltitudine sensata e silenziosa, ma intimamente inorridita dal fardello di sofferenze e di morte, che il conflitto stava preparando a tutti), ben differenti sarebbero state le decisioni delle stesse autorità politiche.
Zeitblom e i suoi commilitoni sono, in fondo, dei patrioti particolari; è vero che davanti alle maledizioni della donna gallica, unica superstite, si rifugiano nella necessità della vittoria alemanna, però vi giungono dopo essersi vergognati di aver provocato tanto dolore.
Infatti per gli altri, gli arditi, i legionari, i fanatici della razza (i futuri nazisti!) non sarebbero bastati battaglioni di donne galliche esecranti per distrarli dal desiderio di sangue e di distruzione.
Non capimmo la gioia frenetica del mondo per la battaglia della Marna: non capimmo che in questo modo la guerra breve, dalla quale dipendeva la nostra salvezza, era diventata una guerra lunga, che non potevamo sopportare.
Ma non lo sapevamo; adagio, adagio, tormentosamente imparammo la verità: quella guerra, della quale anch’io avevo detto che avrebbe dovuto essere breve, durò quattro anni.
C’è un altro elemento, che Mann non prende in considerazione, forse per non dover dar ragione al fratello Heinrich; la Germania non era per niente la sola responsabile di quel conflitto insensato­infame; forse poteva essere stata la più accanita e in un certo senso stolida e ingenua provocatrice; così comportandosi offrì alibi e giustificazioni alle altre nazioni belligeranti, che sul bagno di sangue vedevano affidato le loro fortune politiche di rapina.
Dall’altra parte delle barricate non c’erano gli eroici e disinteressati difensori della civiltà e della democrazia; c’erano altrettanti cialtroni e ladri, che ingannavano e facevano massacrare in nome delle Patrie schiere di giovani e di lavoratori.
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E’ necessario che ricordi qui nei particolari i fallimenti, la consunzione delle nostre energie e della nostra roba, il logorio e le lacune della vita, le deficienze del vitto, la decadenza morale per effetto della miseria, la tendenza al furto e nel medesimo tempo la volgare gozzoviglia di una plebe arricchita?!
L’espressione ‘gozzoviglie di una plebe arricchita’ è storditamente imprecisa, poiché non si concilia affatto con la mancanza di cibo e con la miseria.
Se poi qualcuno tra i plebei o operai navigava davvero nell’abbondanza, era frutto di un lavoro coatto per la guerra, preteso dal governo e meglio retribuito, affinché si producesse quanto era necessario per la distruzione delle casematte altrui.
Da chi erano state ingannate quelle plebi, se non dai loro rappresentanti, schieratisi a favore della patria in pericolo?! Ma cos’era la patria per lo straccione, se non la tavola meglio imbandita?!
Lascialo mangiare in pace per quel momento, che gli si dimostra così in modo patriottico umano!
Si spera solo che, una volta sollevata dal pasto la faccia, sappia divorare a fiere fauci la tua civiltà, mettendo le basi per un’altra, che a te certamente non piacerà, ma che preparerà la felicità per le vite future.
Per abbreviare questa parte del romanzo, ricordiamo che Serenus, dopo la battaglia di Arras, ritornò all’insegnamento, restando a contatto costante con Adrian, chiuso nel suo rifugio di Pfeiffering.
Casa Schweigestill aveva sempre soddisfatto le sue semplicissime consuetudini dietetiche.
Oltre a ciò, fin dal mio ritorno dal campo, lo trovai affidato alle cure di due donne che gli si erano avvicinate e indipendentemente l’una dall’altra, si erano imposte come amiche e tutrici.
Erano le signore Meta Nackedey e Kuorigunde Rosentiel, maestra di pianoforte la prima, attiva proprietaria di un negozio di budella, cioè di una fabbrica di involucri per salsicce, la seconda.
Il nostro Serenus dà della presenza di queste nuove interlocutrici di Adrian motivazioni, che sono storditamente inficiate dalla sua altezzosità di pedagogo e Maestro.
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Per Zeitblom esse si sarebbero avvicinate a Leverkühn per un bisogno di riempire uno stato di insopportabile solitudine, mascherato da aspirazioni superiori.
Lasciando da parte quanto di arduo e di insidioso si nasconde nell’accezione di ‘superiore’, se le due signore si allontanavano a volte dalle loro occupazioni quotidiane per visitare ed aiutare in qualche modo Adrian, con evidenza lo facevano per soddisfare esigenze ed aspirazioni, che giudicavano diverse e importanti, aldilà di quanto ne pensassero gli altri, a cominciare da quell’umanista così intrigante e assai poco rispettoso.
Ma io, uomo che posso ben parlare di una precoce dedizione del cervello e del cuore all’esistenza fredda ed enigmaticamente chiusa di Adrian, ho io il diritto di deridere quel fascino che la sua solitudine, la non conformità del suo modo di vivere, aveva esercitato su quelle due donne?
Il ravvedimento di Serenus, tardivo e troppo articolato, tradisce il più insopportabile paternalismo mascolino, miscela di alterigia e stupidità senza pari.
La Nackedey, che arrossiva ogni momento e si struggeva di vergogna, una donna sulla trentina che, parlando e anche ascoltando, ammiccava con gentilezza convulsa dietro le lenti e nello stesso tempo arricciava il naso approvando col capo, si era trovata un giorno, quando Adrian era in città, sulla piattaforma anteriore di un tram al suo fianco e appena se n’era accorta, si era precipitata di corsa attraverso la carrozza fino alla piattaforma posteriore, donde però dopo qualche istante di raccoglimento era tornata, per rivolgergli la parola.
Come abbiamo già saputo, da esperta ed amatrice della musica aveva imparato a conoscere Adrian e lo venerava. Da quanto ci è di lei detto, non riusciamo a vedervi quella specie di abilità a mascherarsi, che Zeitblom sospetta; se poi sono innegabili in lei comportamenti a volte convulsi, essi, più che uno sforzo per farsi notare, sono da ritenersi la conseguenza della propria incapacità di esprimere in modo appropriato l’entusiasmo, che le comunica la musica di Adrian.
La Rosentiel, un’ebrea ossuta, circa dell’età della Nackedey, dai capelli linosi e ribelli, dagli occhi bruni, nei quali si leggeva l’antichissima tristezza perché la città di Sion era stata rasa al suolo, e il suo gregge ridotto ad 163
un popolo sperduto, aveva iniziato la conoscenza con Adrian con una lettera di eccellente fattura, lunga, ben composta, una lettera che il destinatario aveva letto con una certa sorpresa e che per la sua dignità letteraria non poteva assolutamente passare sotto silenzio.
Al ruvido è inaccettabile il tono, col quale il culto alemanno considera e parla dell’ebreo; in genere la civiltà europea ha una concezione capricciosa ed altamente ignobile di questi figli di Sion; la loro nostalgia per le ascendenze patriarcali (Abramo, Isacco, Giacobbe e via sino al Messia, mai giunto a sollevarli dal pantano del giudizio infame dei cristiani!) e per la terra di Canaan potrebbe con estrema semplicità essere attenuata ed anche annullata da un rapporto cordiale e alla pari.
La mania di leggere in ogni semita le persecuzioni e l’esodo, subiti dalla sua stirpe in tempi remoti, è ormai priva di significato scientifico e psicologico; in fondo è il frutto abbastanza sterile di elucubrazioni accademiche, sempre pericolose, poiché possono creare quella psicosi del diverso, i cui esiti abbiamo sperimentato anche troppe volte nella storia cristiana passata e recente.
Ogni persona, se la si lascia vivere ovunque nasca, cercherà avanti tutto occasioni, che le permettano di esprimersi; soltanto se avrà incontrato ogni volta avversione e contrasti inspiegabili, comincerà a chiedersi il perché, addebitandoli, se non troverà delle ragioni più solide, al fatto di appartenere ad un gruppo, dalla fortuna pervicacemente avversato.
Posso dire a mio onore che cercai di averle care, mentre esse, da quelle creature primitive che erano, non potevano soffrirsi a vicenda, quando si incontravano si misuravano con lo sguardo bieco.
L’ostilità reciproca è un fatto abbastanza naturale in quelle circostanze, entrambe volevano essere importanti ed essenziali nella vita del maestro; per giunta non concepivano e immaginavano allo stesso modo il doversi a lui dedicare.
Aldilà di questa antipatia reciproca (per Adrian aspetto secondario!) furono a lui provvidenziali; gli portavano zucchero, caffè, biscotti, cioccolato, marmellata e tabacco.
Ci permettiamo a questo punto di ritornare su una nostra convinzione profonda; quale sia la sua funzione nell’opera, un personaggio non dovrebbe mai essere definito né considerato secondario; queste due donne, se le giudichiamo in termini ‘shakesperiani’, secondarie non lo 164
sono a nessun titolo!
All’orizzonte c’era già allora e probabilmente fin dallo scoppio della guerra, che per una mente presaga come la sua rappresentava una profonda cesura, l’inizio cioè di un periodo storico nuovo, all’orizzonte, dico, della sua vita produttiva stava già l’Apocalipsis cum figuris, l’opera che doveva dare a quella vita una spinta vertiginosa e fino alla quale egli ingannava l’attesa con la geniale e grottesca opera per marionette.
Il testo per quest’opera d’attesa (definizione da accettarsi con molta cautela! Quand’anche sia l’artista a considerare tale un suo lavoro, gli si deve prestar fede cum granu salis!) era un’antica raccolta cristiana di fiabe e leggende (tradotta dal latino!) che ad Adrian aveva fatto conoscere Schildknapp.
Ne ridevano insieme sino alle lacrime con grande apprensione di Serenus, che vi vedeva un’esagerazione indegna e pericolosa per Adrian.
*
Passammo molte ore allegre e interessanti, quando nella sala della Nike dalle finestre basse Adrian ci suonava le nuove composizioni in base alle strane partiture, dove le massime meraviglie armoniche e i più complicati labirinti ritmici erano usati nel modo più ingenuo e una specie di stile da trombetta accompagnava i soggetti più eccezionali.
Non possiamo non immaginare con dolore che anche altri uomini, massacrati sui campi o nelle trincee, (trascuriamo le loro particolari abiezioni o sventure; alcuni di loro non erano stati capaci di smontare le lusinghe della Patria bastarda!), erano in concreto della tragiche marionette, manovrate da grottesche strategie di generali crudeli e insipienti.
Adrian sembra vendicarsi dell’alterigia guerriera, facendo su oggetti, per sé serissimi, una operazione, che faccia luce e denunci le stoltezze criminali dei signori della guerra.
Non è sempre opportuno che l’artista, disperato per le devastazioni e la follia del Prìncipe, sospenda il suo canto o lasci oscillare nel vento arido le rauche, poiché inattive, cetre.
Meglio stravolgere le situazione nell’acqua purificatrice della satira o del grottesco ed alzare con astuzia le picche del sarcasmo.
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Chi giudicasse questo discorso un’esagerazione o, peggio, una falsificazione delle condizioni spirituali e fisiche di Adrian Leverkühn, sarà subito smentito dalla sue stesse parole:
L’avventura vedrà nell’arte l’ancella di una comunità che abbraccerà molto più della cultura e non avrà una civiltà, ma sarà essa stessa una civiltà. Certo noi duriamo fatica ad immaginarlo, eppure ci sarà e sarà una cosa naturale.
Si tratta di una previsione degna di Ernst Bloch; essa necessariamente avrà corrispondenze in un futuro neppure molto lontano, se si tengono in considerazione gli sviluppi attuali delle deformazioni grottesche del capitalismo altero, ma sempre più boccheggiante.
La civiltà non è il proclama di un’élite, è la sostanza dei rapporti umani in armonia con il processo della natura e del cosmo!
Si parlò della fusione degli elementi di avanguardia con gli elementi popolari e dell’annullamento tra l’arte e la possibilità di accedervi, fra l’alto e il basso, come si era avverato una volta nella letteratura e nella musica ai tempi del romanticismo, mentre poi si erano avuti nell’arte un distacco e un allontanamento più profondi che mai fra il buono e il leggero, il disgustoso e il divertente, il progresso e la diffusione universale.
Il pubblico, a cui si riferisce Adrian, (una parte di esso più che suggerire soluzioni, stava subendo involuzioni da strangolo!), non è certo la plebe nell’accezione più stretta di popolo; si tratta di un insieme di individui abbastanza confuso, nel quale unitamente agli elementi borghesi si infiltrano nuovi soggetti, sotto forma di avanguardie o aristocrazie dello spirito.
Oggi il superamento di classico e di popolare, di profondo e di leggero è reso difficile dalla diffusione di una cultura del godimento e dell’evasione, che non rispetta alcun limite di sobrietà e trascura la serietà e profondità del contenuto come qualcosa di indebito e petulante; questo atteggiamento ha reso la frattura incolmabile e nell’immediato la profezia di Adrian sembra essersi frantumata negli abissi di una degenerazione senza rimedio.
Dico sembra, poiché l’impulso artistico autentico (quello di Adrian­Mann in primo piano; lo affermiamo senza alcuna presunzione profetica, per impulso di civiltà radicale, implicita negli uomini nuovi!) troverà la breccia per ribellarsi e dissolvere la greve atmosfera, recuperando quella 166
sensibilità, capace di aprire a sé e agli altri orizzonti al momento inimmaginabili.
­Sono disposto a darle ragione, se per romantico ella intende un calore di sentimento che la musica al servizio della spiritualità oggi rinnega ed è rinnegare se stessa.
Ma quello che abbiamo detto purificazione delle cose complicate e riduzione a semplicità è in fondo lo stesso che riconquista della vitalità e del sentimento. Redenzione è parola romantica ed è anche una parola armonica, la parola che indica la cadenza beata della musica armonica. Non è forse buffo pensare che la musica abbia considerato per qualche tempo se stessa come un mezzo di redenzione, mentre al pari di qualunque arte è lei che ha bisogno di redenzione, di redimersi cioè da un isolamento solenne che era frutto di un’emancipazione culturale e dell’innalzamento della cultura a surrogato della religione, dall’esclusiva compagnia di un’élite di persone colte detto ‘pubblico’, che presto non esisterà più, che già non esiste più, di modo che presto l’arte sarà assolutamente sola, sola da morirne, a meno che non trovi la via del ‘popolo’ e, per dire una parola meno romantica, la via degli uomini.
Il ‘lei’, a cui si rivolge Adrian, è Schildknapp, presente l’amico Serenus.
Il musicista si mantiene sempre in una certa aureola di preveggenza ‘razionale’; egli opera già in quella direzione, benché sia vago il suo ‘pubblico’ o ‘via degli uomini’; le sue emicranie da spasimo sono la conseguenza della solitudine atroce dentro cui compone la sua ‘novissima’ musica, solitudine resa più greve ed insopportabile dal clima di guerra, che tutto tende ad annientare come inutile (peggio!) superfluo.
Però, da persona consapevole ancor prima che artista, intravede, seppure dolorosamente tanto se la sente lontana, che la civiltà futura (immancabile!) avrà un rapporto con l’arte luminoso, avendo dapprima riconquistato le fonti originali della vita, lo spirito (la materia!) rivisitato per la sua straordinaria immanenza.
Nonostante la commozione in fondo al cuore, ero insoddisfatto delle sue parole, anzi addirittura insoddisfatto di lui. Ciò che aveva detto non si adattava a lui, al suo orgoglio. L’arte è spirito, e lo spirito non deve affatto sentirsi obbligato verso la società, verso la comunità. Non deve farlo, secondo me, per amore della sua libertà, 167
della sua nobiltà. L’arte che va verso il popolo si immiserisce.
In questo passo l’umanista ha accatastato tante sciocchezze da dare un senso di nausea e disgusto.
Si ha la sensazione che Mann abbia volutamente pestato nel pariolo della stupidità delle avanguardie più sterili, per vomitare tutto quanto gli era possibile e non aver più nulla a che fare con simile palude di sterco, fatto brillare per oro nuovissimo.
Ma al paria (al ruvido!) non è permesso accasciarsi in questa poltredine del disamore; lo trova un atteggiamento gratuito, narcisistico.
Nei fatti Adrian aveva all’amico dimostrato che per un profondo senso umano rifiutava la guerra e difendeva la libertà dell’arte ed il diritto di cantare con le cetre anche in mezzo alla distruzione generale; certamente l’operazione gli recava dolore, ma ciò dipendeva dal trovarsi solo, separato dal popolo, il quale non solo non era la morte dello spirito, ché anzi ne rappresentava la parte più intima, la linfa.
L’umanista borghese non riconosce altro popolo che la sua classe e giudica meschino tutto quanto non cape il chiuso drappello dei chierici; non sa che l’unico comportamento ignobile è quello di serrare nel lazzaretto della segregazione e della vergogna il 'popolo'.
Con protervia da forca si permette di concludere:
Non vi è dubbio che questo fosse il sentimento naturale di Adrian!
Il ‘questo’ sarebbe la concezione dell’arte come spirito puro! L’ idiota!
*
Le nozze di Ines Rodde con il professor Helmut Institoris ebbero luogo nei primi tempi della guerra, quando il paese era ancora in buone condizioni e nutriva buone speranze e io ero al fronte, nella primavera del 1915; vi furono tutti i preliminari borghesi, le cerimonie civile ed ecclesiastiche e un pranzo all’albergo ‘Quattro Stagioni’, con successivo viaggio di nozze della giovane coppia a Dresda e nella Svizzera sassone.
Ciò che condusse i due ad unirsi esisteva né più né meno all’inizio e all’atto del fidanzamento e del matrimonio; ma si era seguito formalmente il suggerimento dello Schiller: “Stia attento chi si lega per sempre” e la lunghezza dell’esame parve richiedere infine una 168
soluzione positiva. In ogni tragedia c’è sempre alcunché di grottesco e nel matrimonio tra Ines e Helmut (non pretendiamo di anticiparne l’epilogo, ma l’essersi ella decisa a quel passo, come il disperato si lancia nel baratro per farla finita, non è buon preludio!) è incarnato dal professore.
Serenus Zeitblom, consapevole dell’intrigante instabilità erotica di un accademico, (ancor più spiccata in uno di formazione umanistica!) si era scelto una donna con relativo entusiasmo, però non segnata da alcuna nevrosi, pronta in ogni situazione a dipendere da lui.
Per uno strano e inimmaginabile contrappunto dialettico la madre di Ines, che era venuta in quella città mondana per favorire la carriera, a suo dire, delle figlie, quasi a volersi affermare in un ultimo guizzo da sirena, sposatasi Ines, sparita per motivi artistici Clarissa, abbandonò Monaco per rifugiarsi nella campagna, ove viveva Adrian, senza per altro mai disturbarlo.
Saremmo tentati di accusare Serenus di malevolo pettegolezzo, ma ce lo impedisce quanto disse a proposito della signora Rodde Else Sweigestill al giovane musicista, quasi a stigmatizzarne la stranezza: E’ ancora una donna in gamba, ma, creda a me, i capelli le cadono sulla fronte, poiché l’attaccatura è guasta e anche col ferro non riesce a combinar niente ed allora si dispera poiché, creda pure, è un gran dolore. Commovente questa descrizione brutale ed insieme comprensiva da parte di una contadina, che riesce immediatamente a prevedere la potenziale (inarrestabile decadenza!) disperazione di una dama di città, che non per capriccio era venuta a nascondersi nella sua casa.
Ines Rodde, ormai ricca, assestata e corazzata contro la vita, aveva accolto nella società sua e del marito gli ospiti dell’antico salotto della madre.
Con Natalia, la consorte di Knoterich, dall’aspetto esotico spagnolo, Ines era persino in rapporti amichevoli, anzi confidenziali, benché sul conto della graziosa signora corresse la voce abbastanza sicura che fosse una morfinomane.
L’ipocrisia dell’alta (presunzione lucupletica!) e media (sogghigno di labbra, serrate a celare il livore per stare al di sotto!) società borghese è talmente asfissiante da costringere le vittime del proprio torbido fascino a cercare forme di segreta evasione.
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Ines conteneva ancora la sua infelicità nell’urna dell’amore (adulterino!), incrinata sottilmente dal costume di una perenne malinconia.
La incosciente decisione di fingere un conveniente trasporto per il marito la costrinse, suo malgrado, a rifarsi nei modi più strani.
Per tenere in ordine il bello e costoso appartamento coi tappeti persiani sui parchetti lucidi, aveva l’aiuto di due ben educate domestiche, vestite comme il faut con tanto di crestina e coi nastri del grembiule bene inamidati, una delle quali faceva anche da governante.
Le scampanellate per chiamare questa Sofia erano la sua passione.
L’afrodisiaca insidia della droga era entrata nel suo costume più intimo; bacata per sempre! Quell’appartamento era un modello ed esempio di casa tedesca del ceto borghese, modello che doveva durare ancora alcuni anni fino all’epoca della dissoluzione; lo erano anche in grazia dei buoni libri, collocati da per tutto nel salotto, nella stanza di soggiorno e in quella dei fumatori.
Nell’acquisto di questi libri si era evitato ogni argomento, eccitante e sovversivo, sia per motivi di rappresentanza, sia per ragioni di tutela spirituale.
Il formalismo culturale nell’epoca contemporanea esalta l’ipocrisia della finezza sino al disgusto.
Osserva bene negli angoli più raffinati e ti accorgerai che la tutela spirituale (componente aleatoria come il diritto, di cui si aureola!) si avvoltola nel tappeto lurido della libidine e della violenza. Però i libri, ovunque esposti, di alto livello per la brossura e per l’eleganza della stampa, sono rassicuranti.
Il dottor Institoris era amico di alcuni artisti monacensi, amico specialmente di un certo Nottebhom di Amburgo, ammogliato, dalle guance cave, dal pizzo a punta, che aveva il dono di imitare allegramente attori, animali, strumenti musicale, professori e costituiva una colonna dei carnevali, anche se questi andavano estinguendosi. Possedeva l’abilità del ritrattista di società, ma come artista era il rappresentante di una pittura piatta e deteriore.
Come con i libri, il teorico e nunzio della ‘bellezza brutale’, quasi per 170
contrappasso, tende a circondarsi di tranquillanti ospiti, garbatezza e strumenti à la page.
Nottebhom per denaro sonante eseguirà il ritratto di tutta la famiglia Institoris; infatti questa lievitante famiglia avrà anche la sciagurata fortuna di generare dei figli, a perpetua elevazione e durata della società, da cui ebbe origine. Per completare la situazione non è inutile far presente che “il quadro era collocato nel salotto di ricevimento entro una ricca cornice, provvisto di un’apposita illuminazione elettrica dall’alto al basso.”
Già alla fine del 1915 Ines regalò al marito una figlioletta di nome Lucrezia, concepita nel letto giallo e lucidato, sotto un accenno di baldacchino davanti agli oggetti d’argento simmetricamente allineati sul vetro della toilette.
Ines dichiarò già allora che intendeva farne una ragazza perfettamente educata, une jeune fille accomplie, come si espresse nel suo francese di Karlshure.
Quando una donna sente di aver regalato al marito qualcosa, si osservino bene gli sviluppi, poiché sta già tradendolo. La perfezione tutta speciale (unica per diritto!), con cui si coltiva un oggetto, nasconde sempre qualche bruttura inconfessabile.
Nasceranno poi (allitterazione angosciante!) due gemelle, Aenneken e Rietcher, “battezzate con una coppa d’argento inghirlandata di fiori”.
Tutte cresceranno come tre esili pianticelle, che vanno avvizzendo tra troppe squisite delicatezze.
La precisione, con cui Zeitblom descrive il letto della coppia Institoris, tradisce la gelosia del guardone, che si perde (accanimento sottile!) nel disprezzo dei particolari per non dover riconoscere la struggente delusione dello sconfitto.
Non si creda che nello sviluppo di un romanzo non entri mai in gioco l’imprevedibile; esso si alimenta delle libagioni più o meno abbondanti della società, da cui è derivato; lo diciamo a questo punto, poiché nessuno (conoscendo anticipatamente gli sviluppi del racconto!) escluda con troppa leggerezza che, le circostanze dovessero suggerirlo, queste ‘tre figliette’ potrebbero con tragica tranquillità sgozzare la carissima madre.
Dio mio, non era certo un piacere inebriante andare a letto con Helmut Institoris!
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Fin lì capisco anch’io i sogni e le aspirazioni femminili e mi trovai sempre costretto a pensare che Ines avesse concepito le sue creature con doverosa sopportazione e, per così dire, torcendo il viso.
Di lui erano infatti, non si poteva dubitare: lo dimostrava la somiglianza, che era di gran lunga superiore a quella della madre, forse perché la partecipazione spirituale di lei era stata così esigua.
Le spiegazioni del fin troppo morigerato (a parole!) umanista non convincono; riesce difficile a un ruvido (pur costretto ad esperienze erotiche limitate e all’interno della sua casta di paria!) accettare che nel concepimento di una creatura conti a tal punto il fuoco o la partecipazione amorosa dei parenti; se si pensa alla stessa insicurezza della fiaccola paterna, (di cui le barzellette sono una testimonianza non­
sopportabile!), come non augurarsi che le Madri abbiano proprie vie per difendere il nascituro, quali siano state le sue origini?!
La casualità stessa dell’incrociarsi di cellule in continua trasformazione toglie attendibilità a questo empito o slancio passionale nella generazione di pura natura fantastica, benché Zeitblom abbia sempre negato di essere scrittore di romanzi.
La signora Ines Rodde, moglie del professore Institoris, per quanta indifferenza o disgusto nutrisse per il marito, nel lungo periodo di formazione fisica e sentimentale delle sue tre ‘figliette’ avrebbe avuto tutto il tempo e l’opportunità di trasmettere loro la sua ‘spiritualità’, dato per scontato che ne fosse in possesso.
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Ho già detto infatti che Institoris, quando cominciò ad aspirare alla verginità di Ines, lo aveva fatto per un altro, così anche da marito non fece che suscitare desideri divaganti e un’esperienza di mezza felicità piuttosto umiliante, che desiderava di essere completata e verificata e di tirare soddisfazione, facendo divampare a passione il dolore che ella provava per Rudi Schwerdtfeger.
Se teniamo presente che la classica brutalità di Helmut Institoris è di pretta natura accademica e risponde piuttosto al suo carattere formalistico che a vera crudeltà interiore, non possiamo accettare la malignità di Serenus, che lo abbassa al livello del più lascivo animale, descrivendocelo cupido non della donna Ines, ma della vergine rosa di Ines, come se nel 172
professore d’arte non ci fosse alcuna traccia di capacità razionale o etica.
Inoltre, se la relazione resta affidata al solo desiderio sessuale, le mezze felicità non esistono; o ci si solleva sulle zampe soddisfatti o è la delusione più nera.
In altre parole: sotto la irreprensibilità borghese, la cui protezione aveva cercato con tanta nostalgia, Ines Institoris viveva in adulterio con un donnaiolo ancora puerile sia per costituzione spirituale sia per comportamento, il quale le instillava dubbi e pene pari a quelli che di solito la donna leggera instilla all’uomo seriamente innamorato e tra le cui braccia i suoi sensi, svogliati da un connubio sgradevole, trovano appagamento.
Un fatto o risultato sgradevole non potrà mai diventare una mezza felicità.
Non concordiamo con le analisi di Serenus per la stessa ragione, per cui non abbiamo accettare che riducesse le figlie di Ines a bambole; vi insiste una leggerezza di fondo, meglio, una superficialità di giudizio, che impedirà sempre all’umanista di verificare le vere ragioni dei fallimenti delle persone, con cui ha o avrà rapporti; il primo dovere di un biografo è di non lasciarsi sopraffare dai propri pregiudizi.
Quando si devono affrontare situazioni così delicate, in cui è in gioco il diritto alla vita completa degli esseri, quali siano le loro origini o doti, non ci si dovrebbe affidare esclusivamente alla piatta psicologia di un intermediario, per quanto acutamente guidato; anche se riconosciamo che lo stratagemma provoca una tale ricchezza di situazioni che il quadro ne esce rafforzato e dinamicamente vibrante.
Per venire ad una conclusione, avvertiamo il lettore che questa duplice attività sessuale di Ines durò quasi un decennio ed ebbe il suo alt! fragoroso, soltanto quando Rudi Schwertdfeger non volle più saperne.
E’ nell’autunno del 1916, che Serenus Zeitblom riceve le confidenze di Ines, in occasione di una delle sempre più frequenti assenze del coniuge, impegnato al suo Club al gioco con denaro delle carte.
Si trattava di domare l’amabilità e trasformarla in amore, ma nel medesimo tempo era qualcosa di più astratto, in cui il pensiero e i sensi erano paurosamente fusi insieme: si trattava dell’idea che la frivolezza della festa sociale e la triste diffidenza della vita era annullata nel suo amplesso e la conseguente sofferenza dolcissimamente vendicata.
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E’ la frattura dell’essere,causata dall’adulterio, che inconsciamente comunica ad Ines Rodde il terrore per l’amplesso, in cui pensiero e sensi si annullano invece di armonizzarsi in quella superiore unità degli spiriti, che sola potrebbe giustificare il tradimento del patto matrimoniale.
Per andare più addentro in questo apparente mistero di Ines Rodde, aggiungiamo che qui non si tratta tanto di tormento per un delitto privato, (l’infedeltà è pula per Ines Rodde, in quanto ella sa che il marito è talmente vile da sopportarla fedifraga!), ma dell’angoscia, a lei proditoriamente inferta da una società divoratrice, che però si è trasformata nel suo unico appoggio.
A questa disperata passione per il violinista e zufolaro, Zeitblom sa opporre una sola obiezione: perché ha scelto come destinatario della sua amabile vendetta una persona non perfettamente sana, al punto che fu giudicato inidoneo a combattere per la patria tedesca?!
E’ un gioco per la donna ribattergli che proprio la precarietà, il possibile esaurirsi dello slancio nel culmine della passione accentuavano il gusto (anche il rischio!) della penetrazione.
Colpito in pieno volto, per nascondere in profondo l’offesa alla sua maschilità ridondante, (la tenera Helene sì sobria!), rimuove (cancella prontamente, come se non avesse mai nutrito desideri carnali per la donna!) l’inconscia ed adultera brama, che prova per quella femmina spiritualmente superiore e fisicamente affascinante e con il beneplacito silente di lei sente la propria vanità soddisfatta.
Ma questo è possibile, perché nell’intimo il nostro Zeitblom continua a sentirsi quel toro completo e capace di saziare altre femmine, che il marito impotente e l’amante non­sano, non possono fare.
­Serenus, diceva, è inevitabile, lo so, egli mi abbandonerà!­
A quelle parole vidi accentuarsi le rughe tra le sue sopracciglia con un’espressione ostinata.
­Ma allora, guai a lui, guai a me!­ soggiunse con voce sommessa, e io non potei fare a meno di ricordare le parole che Adrian aveva detto, quando gli avevo rivelato quella relazione: stia attento a cavarsela senza danno!
Non a caso Adrian è sempre illuminante; la sua neutralità (di superficie, per i gonzi!) gli permette di essere veggente nella cecità generale, che, in concreto, è solo rimozione, tipica e caparbia nei vigliacchi; ne viene così esaltata la sua arte, come ultimo approdo dell’umana ragione.
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Il contrasto tra la pacatezza incisiva delle parole di Adrian, (dove è finito il demonismo satanico insieme ai suoi pargoli là, nel cervello, filtrati in virtù d’Esmeralda?!) e l’angoscia isterica di Ines Rodde non poteva essere meglio rappresentato.
Restammo là, finché Institoris ritornò dal Circolo Allotrio dove aveva giocato a tarocchi con altri soci. Vedendoci ancora insieme ebbe un’impressione fugace di imbarazzo, come chi indovina.
Mi ringraziò di averlo gentilmente sostituito ed io non mi sedetti più dopo aver ricambiato il suo saluto.
Baciai la mano della signora e, piuttosto snervato, tra indispettito e commosso, me ne andai a casa per le strade ormai deserte.
Gentilmente sostituito è espressione così sapida e consapevole da dare pienamente giustizia alla tutt’altro che insipida funzione di Helmut dentro il tabernacolo della perfidia amorosa di Ines; qui cordialità, gentilezza formale e gelosia si confondono; una cosa è certa, Institoris non è così stolido da non sapere che non­formalmente la sua integrità di sposo è stata per quella sera risparmiata!
Questa consapevolezza del professore (con te mia moglie, al più, si lascia andare a confidenze insidiose!) è il motivo, per cui Serenus si costringe a rientrare (bofonchiante e insoddisfatto!) dalla fedele consorte.
L’aggettivo ‘commosso’ è una concessione al sollievo della rimozione.
Il tempo del quale scrivo fu per noi tedeschi l’epoca del crollo dello stato, della capitolazione, della rivolta per esaurimento, dell’impotente consegna nelle mani dello straniero. Il tempo, nel quale scrivo, per affidare ai fogli queste memorie nel mio tranquillo ritiro, porta nel grembo orribilmente gonfio, una catastrofe della patria, al cui confronto la sconfitta di allora sembra una sciagura moderata, la ragionevole liquidazione di un’impresa sbagliata.
Senza confessarselo per un pudore più forte della tracotanza ideale, se ci si lamenta per il crollo di una simile patria, significa che nel profondo se ne vorrebbero conservare le forme, quelle stesse forme, che alla catastrofe condussero per ben due volte, denuncia di una pervicacia collettiva, che avrebbe dovuto essere usata per ben altre imprese. 175
Serenus Zeitblom e tutti gli intellettuali della sua formazione non vogliono capire (e non vorranno mai!) che il borghese capitalista (impegnato in prima persona a succhiare profitto per tutti i suoi pari!) condanna il fascismo, se lo vede perdente, ma lo sollecita a riprendere fiato ed imperio, quando si trova sull’orlo delle acque mortifere del comunismo plebeo, in qualunque maniera si affacci.
Che questa ruvida riflessione sia tutt’altro che fuorviante o abusiva, è avvalorato, testimoniato, direi, a tutte trombe da alcune espressioni di Zeitblom, (ma dove ti celi, mio demone?!); ad esempio quell’invasione della Francia, che non si riferisce a quella hitleriana del 1940, ma a quella degli alleati del 1944; oppure ‘la sfacciata alzata di cresta’, che non è quella nazista, ma quella dei parigini liberati, la cui città era destinata, nel nuovo Wallalla teutonico, a diventare un enorme Luna Park e Bordello europeo.
*
Cedere! Anima mia, non soffermarti su questo pensiero! Non calcolare ancora che cosa significherebbe se, nel nostro caso estremo e terribile, si spezzassero gli argini, come sono appunto in procinto di rompersi, e non si potesse più frenare quell’odio immenso che abbiamo saputo suscitare contro di noi fra tutti i popoli che ci circondano.
Era probabilmente questo lo stato d’animo dei benpensanti tedeschi, risparmiati dalla guerra, costretti a valutare la possibilità di una invasione della loro patria da parte degli eserciti nemici, quelli russi maggiormente; era una condizione di paura e di angoscia, la coscienza turbata dagli infami giudizi e comportamenti conseguenti dei loro capi, da loro condivisi, insuperbiti di sentirsi superiori per razza agli ebrei e agli slavi.
Persone come Zeitblom (Mann ne è consapevole sino al disprezzo!) sono disposte ad ogni compromesso pur di non riconoscere altre verità, altri sistemi di vita, altri ordinamenti ed è su questo che confida il Prìncipe per riproporre ogni volta i suoi tristi equilibri.
Essendo moderato e uomo di cultura provo un naturale orrore per la rivoluzione radicale e per la dittatura della classe inferiore, che per mia natura non saprei immaginare se non sotto l’aspetto dell’anarchia, insomma della distruzione della civiltà.
Ma se ripenso al grottesco aneddoto dei due salvatori della moralità europea, pagati dai grandi capitalisti – 176
quello tedesco e quello italiano – i quali, visitando la Galleria degli Uffizi di Firenze, posto in verità non fatto per loro, si assicuravano a vicenda che tutti quei tesori d’arte sarebbero stati distrutti dal bolscevismo, se il cielo non lo avesse evitato portando al potere loro due, quando penso a questo il mio concetto di oclocrazia subisce una revisione e il dominio delle classi inferiori sembra a me, cittadino e borghese tedesco, uno stato ideale al confronto col dominio della feccia.
Per quanto io sappia il bolscevismo non ha distrutto opere d’arte; questo fu piuttosto il compito di coloro che affermavano di volerci proteggere dal bolscevismo. E non mancò forse poco che della loro smania di calpestare lo spirito fosse vittima anche l’opera di Adrian, il protagonista di questi fogli?
La loro vittoria e il loro potere storico di dare assetto a questo mondo secondo il loro sconcio arbitrio non avrebbero forse fatto perdere alla sua opera la vita e l’immortalità?
Quando si ha l’alterigia stolida di affermare che per disposizione naturale le plebi sono inferiori e la loro potenziale democrazia una deformazione dello spirito, una sciagura per i culti, (concetto antico, che a noi sembra risalire a Polibio!), tutte le successive ammissioni o mezzi riconoscimenti nascono da una rassegnazione insincera, dettata dalle condizioni e dal terrore per il dominio di una nera e feroce feccia.
Ma il ruvido sa bene dove il dente di questa masnada batte e non si lascia abbindolare; egli conosce che per intima convinzione e per coriaceo stato d’animo, una volta ristabilito il loro Ordine e riconosciuto il Diritto dello Stato di classe, questa gente è pronta a sottoscrivere tutte le più feroci leggi, purché tengano a freno le plebi.
Se avessero approfondito lucidamente (da rivoluzionari!) questo carattere imprescindibile della élite e del ceto medio, che sempre la concupe e scimmiotta, i rappresentanti operai non avrebbero mai preso sul serio le lamentele e le lagnose indicazioni dei loro intellettuali, mediocri e servili, che sempre guarderanno con disprezzo il governo oclocratico, sì, quello balordo e rozzo delle classi inferiori.
Vorremmo anche prendere spunto dall’aneddoto, richiamato da Zeitblom, riguardante la visita agli Uffizi di Firenze dei due dittatori fascisti, per ricordare che le opere d’arte non servono conservate nei Musei; sarebbe esaltante, se circolassero, quando il fatto non comporti il loro 177
deperimento, con la loro purezza, eleganza e profondità tra le masse!
La rivoluzione russa mi aveva commosso e la superiorità storica dei suoi principi sopra quelli delle potenze che ci mettevano i piedi sul collo era, secondo me, fuori di ogni dubbio.
Tuttavia la democrazia occidentale ha trovato dei capi che, al pari di me, figlio dell’umanesimo, scorsero nel dominio nazista e fascista l’estrema soluzione possibile per l’umanità e sollevarono i loro popoli alla lotta contro questo dominio.
Non saremo mai abbastanza grati a questi uomini e ciò dimostra che la democrazia occidentale, anche se le sue istituzioni sono superate dai tempi, e il loro concetto di libertà recalcitra tenacemente contro tutto ciò che è nuovo e necessario, procede essenzialmente sulla linea del progresso e della buona volontà di perfezionare la società e d’altro canto ha per sua natura la capacità di rinnovarsi, di migliorarsi, di ringiovanire e di far da passaggio a condizioni di vita più giuste.
Gli statisti importanti dell’Occidente, che si ribellarono al fascismo e al nazismo furono, in verità, uno; gli altri, pochissimi, dovettero accettare il suo indirizzo, spesso obtorto collo, data la potenza delle sue forze armate ed il prestigio, che gli veniva da una lunga e gloriosa storia politica; che sia stato così, lo si vide alla sua morte.
Con la Francia a pezzi e l’Inghilterra, salvata e tenuta a galla dai soldati delle colonie, il grande senso ‘umanistico’ della democrazia occidentale era stinto assai più dell’azzurro tra fetide nebbie.
Le reticenze continue rendono inattendibili tutte le mezze ammissioni di Zeitblom; tra l’altro la sua commozione per la rivoluzione d’Ottobre se la poteva tenere nel gozzo, tanto è imprecisa e legata a principi di equità da ‘cadetti’!
Morto troppo presto Franklin Delano Roosevelt, i rappresentanti politici dell’Occidente hanno combattuto con la stessa spietatezza di Hitler quei princìpi sociali ed economici, che Serenus, in preda alla disperazione della guerra e timore per i rischi che correva l’opera dell’amico Adrian, da umanista, riconosce superiori, poiché volti al benessere completo di tutti gli uomini, condizione possibile soltanto con l’abolizione delle classe e dei privilegi, quelli dello spirito compresi.
Però abbiamo vinto, sta gridando il cialtrone di turno, pieno di boria 178
democratica.
Che rispondergli?! Gli ignavi non stanno soltanto al di qua d’Acheronte!
*
A questo punto della biografia volevo soltanto ricordare la perdita di autorità da parte dello stato militare­
monarchico, già progredita all’avvicinarsi della sconfitta e compiuta con questa; rammentare che quello stato aveva rappresentato per tanto tempo la nostra forma e le nostre consuetudini di vita; rievocare il suo crollo, la sua abdicazione e quelle condizioni di allenamento progressivo e di libertà speculatrice, che risultavano dalla miseria persistente e dalla continua discesa della moneta.
Nonché una certa meschina immeritata indipendenza civile e lo smembrarsi di una compagine statale, dovuta per tanto tempo alla disciplina, in gruppi scontenti di sudditi senza padrone.
Non si può dire che questa sia una visione piacevole e non si può detrarne nulla dalla parola ‘penoso’ con la quale vorrei definire l’impressione che ebbi, come semplice osservatore passivo, alle adunanze di certi ‘consigli dei lavoratori della Mente’, tenute nelle sale di alberghi monacensi.
La condizione di passività di fronte a trasformazioni sociali di tale portata, per quanto Serenus Zeitblom la faccia dipendere dallo spirito critico, è indice di un atteggiamento di rinuncia, il che nasconde la scontentezza per quanto va mutando e la nostalgia per un passato più rassicurante.
Qui non nutriamo più dubbi circa il perché Mann si sia inventato un intermediario di questa natura; per suo tramite ci fa conoscere l’opinione del tedesco medio (borghese!) di fronte alla tragedia della guerra, opinione che per anni fu anche la sua, però mai condivisa con le motivazioni e i propositi del suo intermediario umanista.
Quando si parte da presupposti di rinuncia nostalgica, diventa difficile aiutare concretamente e sinceramente chi, miserabile per condizione di classe, desidera liberarsi dal ‘padrone’ con uno sforzo costante, pur difficoltoso, di emancipazione.
Si tengono le masse proletarie nell’assoluta ignoranza, poi, allorché la situazione ci piomba addosso come una valanga, ci si lamenta della loro impreparazione e, in preda ai capricci degli umori più vari, le si ostacola, 179
opponendo loro gli interessi più gretti e consunti.
E’ davvero ‘penoso’ (lo affermiamo a tutte trombe!) che i consigli degli operai e dei contadini diventassero preda dei lavoratori della Mente, gente che aveva collaborato con lo stato prussiano sino agli sgoccioli di tanto sciagurata avventura.
Leverkühn al quale riferii le mie impressioni, era allora molto sofferente di un male che era come una tortura umiliante, un lancinante tormento di tenaglie roventi, senza che si dovesse temere per la sua vita. Non che la sofferenza avesse cause psicologiche, come le tormentose esperienze dei tempi, la sconfitta del paese e le orribili circostanze concomitanti. Nel suo eremo claustrale ed agreste, lontano dalla città, questi fatti quasi non lo toccavano, anche se ne era sempre al corrente, non attraverso i giornali, che non li leggeva, ma attraverso la signora Else Schweigestill, la sua attenta e tranquilla infermiera.
Gli avvenimenti che per le persone accorte si succedevano non come urti improvvisi ma come attuazione di sintomi aspettati da tempo, lo inducevano tutt’al più ad una alzata di spalle ed i miei tentativi di trovare nella sventura quel poco di bene che poteva esservi nascosto, erano accolti nello stesso modo dei miei sfoghi all’inizio della guerra.
Senza giungere a dire che le opinioni e il disprezzo di Adrian per le vicende della guerra sono quelle’ postume’ di Mann, (uno scrittore di talento non confonde mai se stesso coi i suoi personaggi; al più li tinge di sé per cavarsela nel mare magnum delle infinite sfaccettature!), questo mirabile passo conferma la giustezza degli appunti, con cui rimarchiamo sovente le distanze tra Serenus e il suo creatore.
Ciò che Serenus e il tedesco medio non possono capire è che Adrian a questo punto della vicenda tedesca, dopo la sconfitta e armistizio improrogabile, rappresenta l’unico punto di partenza per uno sviluppo, che cangi definitivamente le premesse politiche e sociali della convivenza nazionale; ciò è tanto più vero, se si tiene presente che i suoi rapporti col tempo non erano legati alla propaganda, anima nera, (l’eserciti lo stato o qualsivoglia movimento a lui avverso!), ma si basavano su indicazioni e sentimenti popolari: segnali, che a lui giungevano per mezzo della signora Else Schweigestill, araldo e ispiratrice.
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Quanto Adrian sia estraneo all’isteria saccente e rabbiosa dei consigli dei lavoratori della Mente, ognuno, che non sia bolso per schiuma e veleno di classe, può capire con la massima certezza e trasparenza.
Da un punto di vista prettamente artistico Mann non può non essere d’accordo con la sua creatura; eppure, realismo eccezionale ed illuminante, (Sartre vi avrebbe potuto attingere, qua e là, attenuando eccessive sue critiche!), permette al suo ‘aio umanista’ di continuare a balbettare ragioni ’prussiane’ di ordine e disciplina (schiacciato contro il muro dalla funzione pedagogica!) con una certa ragionevolezza. Curata la dilatazione di stomaco, senza che cessassero i dolori di testa e il vomito, il medico attribuì sempre più le manifestazioni dolorose al cervello, confortato in questa sua diagnosi dal desiderio insistente del paziente di essere lontano dalla luce.
Anche quando era alzato passava delle mezze giornate nella camera oscura, poiché una mattinata di sole era bastata a stroncare talmente i suoi nervi da fargli desiderare il buio e da goderne come di un enorme beneficio.
Quando la luce del sole diviene insopportabile (oppressione da magia di chiarezza!), l’artista vive un momento difficile (la fuga di Faust nell’orrido tra botri ed alture rupestri!) e le sue riflessioni ritmiche sono in totale disarmonia con le condizioni sciagurate dei simili; egli riuscirà a superare lo scoglio, (rappresentato dalla luce!), non certo aspettando che di colpo le condizioni generali si facciano favorevoli, beniamine della vita, ma lanciando nel futuro la sua fionda, in attesa trepidante del ritorno del sole.
Non sono estranee ai dolori di Adrian le tragedie della borghesia tedesca ed europea; saremmo degli idioti, se sostenessimo il contrario; sono però vissute con assoluto distacco; ormai è consapevole (e se ne tortura!) che il Potere (che pur sa sedurre le Menti!) isterilisce gli uomini di lettere e finisce per staccarli dal popolo, l’unico, che abbia le forze e il coraggio di modificare le sterili istituzioni, i costumi e le coscienze.
Egli sta mentalmente inventando delle composizioni, che rinnoveranno profondamente la musica; (mirabile ed originale Mann nelle vesti di musicista letterario, sia pure sulle tracce di Schönberg, dietro indicazioni di Adorno!); egli si trova nel mezzo di un terribile guado e ne trema, poiché il naufragio è sempre possibile e le ragioni imperscrutabili, (disastro individuale inutile!), se le condizioni sociali continueranno ad 181
essere segnate ed irrigidite da chierici e militari.
Potremmo considerare il tentativo artistico di Adrian quasi una anticipazione ruvida, costantemente insidiata dallo stolido concetto di benessere, quale quello che si lega all’isolamento ascetico nel pieno travaglio dei rìncoti­paria. Che fosse consapevole della propria non­scientifica infermità lo dimostra il fatto che Adrian non ritenne opportuno consultare autorità mediche superiori al Dottor Kübri, che primo aveva intuito la natura ‘cerebrale’ delle crisi emicraniche.
Zeitblom suggerisce al paziente un cambio di clima, che costui rifiuta.
Era troppo legato a quella casa, a quel campanile, a quel laghetto e ai colli, troppo era attaccato al suo antiquato studiolo e alla poltrona in velluto per ammettere la possibilità di scambiare tutto ciò con degli orrori di una stazione balneare.
Adrian non vuole commettere l’errore della Sirenetta, che rinuncia alle sue splendide pinne marine, per calcare i lividi piedi borghesi.
Noi ci permettiamo di sottolineare che il rifiuto di una cura climatica si lega anche all’orrore che suscita in lui l’idea di raggiungere una stazione balneare nel momento stesso, in cui le genti soffrono per gli stenti della guerra e delle distruzioni.
Chi sono io, se neppure mia madre si preoccupa e parla di me nelle sue stanze segrete?!
*
Io ero lieto di sapere che Schildknapp era presso l’amico. La sua presenza lo tranquillizzava, così gli fosse stata concessa più di frequente!
Ma la malattia di Adrian era uno di quei casi seri, che paralizzavano la compiacenza di Rüdigher. Sappiamo che la coscienza di essere desiderato lo rendeva testardo e lo induceva a farsi pregare. Non gli mancavano le scuse, vale a dire la possibilità di rendere razionale quella sua mentalità pericolosa e particolare, aggiogato com’era al suo lavoro letterario per guadagnarsi il pane, a quel suo tormento di traduttore, era realmente poco disponibile e oltre a ciò anche la sua salute soffriva per il vitto cattivo.
Questa è l’opinione di Zeitblom; ma Adrian non sembra giudicare allo 182
stesso modo, se accoglie Schildknapp con tanta gratitudine.
Gli era, per giunta, simpatico, ironizzando sul suo malessere fisico costante.
Quando si tratta del traduttore­letterato, scontento del suo lavoro, Serenus non è buon psicologo, in quanto non giudica da neutrale.
Adrian e Rüdigher sono rispettano i loro modi diversi di affrontare la vita quotidiana e ritrovandosi sono, per la schietta disponibilità, quasi felici; questo inconsciamente disturba Serenus, che mai è riuscito a creare tale atmosfera attorno all’amico.
Clarissa sperava di farsi strada, però dalle lettere, almeno quelle indirizzate alla sorella, appariva che i suoi successi erano più di natura personale, cioè erotici, che artistici. Era esposta a numerose insidie che respingeva con ironica freddezza, ma sacrificando una parte delle sue energie.
A Ines, non direttamente alla madre, aveva riferito che un ricco commerciante, uomo ben conservato, benché avesse la barba bianca, l’avrebbe voluta per amante e le aveva promesso di farle fare una vita da signora con appartamento, carrozza e vestiti, ma era troppo orgogliosa pe costruirsi la vita su tale fondamento.
Donne come Clarissa (difficile dire se educatesi a ciò o per inclinazione dalla madre assistita, fors’anche assecondata!) curano di farsi desiderare e si lasciano desiderare; nessun talento potenziale resiste genuino, quando è accompagnato da questo atteggiamento.
La recitazione è un’arte, che necessita di intelligenza, sensibilità e passione controllata; non sopporta l’altezzosità di chi pretende di essere coccolato, in quanto il pubblico lo avverte e non lo gradisce.
Non possiamo rendere responsabile di questo atteggiamento soltanto la madre con le sue manie salottiere; ci sono interventi e decisione sbagliate della persona stessa, errori, che, superati con acume, pazienza e propositi validi, avrebbero potuto fare di lei un’autentica artista.
Chi rimane all’esterno di sé, in attesa di chi sa quale promozione spontanea, non troverà mai il ritmo giusto della recitazione.
Schwerdtfeger si prendeva molto a cuore la malattia di Adrian. Telefonava spesso alla signora Schweigestill per avere informazioni ed offriva la sua visita nel caso fosse 183
bene accetta e potesse recare qualche distrazione. Una volta infatti, in un periodo di miglioramento, ottenne il permesso di venire.
Entrambi sono animati da spirito caldamente cortese; ma l’incontro ha dei momenti difficili, poiché Rudolf si dimostra troppo appiccicaticcio per la severità del musicista.
Schwerdtfeger è consapevole di essere un violinista di successo; sta inoltre per diventare direttore artistico del teatro di Monaco; interpreta, quindi, la ritrosia di Adrian come il tentativo di fare di lui un postulante. Il travisamento così ingeneroso scatena in Leverkühn dei sentimenti tempestosi, che cancellano di colpo ogni simpatia.
Per completare il quadro ricordiamo che la condizione interiore del violinista era resa torbida dalla relazione con Ines Institoris.
Era una giornata del gennaio 1919, giornata straordinariamente limpida, tutta azzurro di sole e scintillante di neve.
Adrian è tormentato dal mal di testa; terribile, di conseguenza, lo scintillio del sole innevato; egli invita l’ospite nella sala della nike e da qui nella stanza dell’abate, dove chiude le imposte e le tende.
Osserva Serenus che “le forme cortesi imparate da Schwerdtfeger a Dresda non ammettevano alcuna pausa”, situazione di cortesia costante inaccettabile e insostenibile per Adrian; egli amava spezzare gli artifici formali e, pure nella neutra trasparenza di persone collocatesi su parallele quasi incomunicabili, dare vita ad un colloquio sincero ed animato di calda ironia.
Per trarsi d’impaccio (finalmente!) Rudolf fischiettò dei passi di De Falla, di Debussy e la bourrée del Love’s labour’ Lost dello stesso Adrian.
Infine sospirò e disse che aveva tutt’altro che voglia di fischiare, che anzi si sentiva il cuore oppresso o, se non oppresso, almeno indispettito, annoiato, impaziente ed anche preoccupato, dunque realmente oppresso. Per quale ragione? La risposta non era certamente facile e nemmeno lecita, se non tra amici i quali non badano molto all’obbligo della discrezione, all’obbligo cavalleresco di tenere per sé le questioni di donne, perché non era un chiacchierone. Si trattava insomma di Ines Rodde o meglio Institoris e 184
della sua relazione con lei, di cui non aveva alcuna colpa.
Si rivela a un tratto che la visita non era poi così disinteressata e che le pretese di riconoscenza del violinista e fischiettatore non erano per niente giustificate.
Si può anche immaginare che questa improvvisa necessità di confidarsi sia stata provocata da quell’atmosfera di silenzio e dal buio profondo; non ci si scordi che fuori il sole aveva la fulmineità del lampo pur nella bianca distesa nevosa.
Adrian è creatore molto sensibile al dolore, anche quando gli è rivelato in termini troppo infantili e lamentosi o, ancor peggio, venati dall’apologia dell’innocenza.
­Io non ne ho colpa, Adrian, credimi …mi creda! Io non l’ho sedotta, è stata lei a sedur me e le corna del piccolo Institoris sono esclusivamente opera sua, non mia.
Che vuole fare, quando una donna le si aggrappa come una che affoga e la vuole a tutti i costi per amante? Vuol lasciarle tra le mani la giacca e scappare?­
Non si riesce a capire (ed Adrian ne avrà certamente dentro di sé amaramente sorriso!) se al violinista seccasse di più perdere la giacca o venir meno a sì ghiotta un’occasione!
D’altra parte ci suggerisce pietà la povera Ines, che ama ed è costretta ad inseguire l’altro, persona instabile, lamentosa e soprattutto velleitaria, che sciala così sfacciatamente il suo disamore.
Se ci immaginiamo concretamente quella giacca, rimasta come unico pegno tra le vuote braccia dell’amante, non possiamo non provare un senso di profondo disagio davanti a tanta maschile mechinità; ci diventa ancor più illegittimo il disprezzo, con cui il marito è rimpicciolito dal violinista pel corno delle corna.
*
Aggiunse che doveva anche dire in confidenza come la passione sia un inconveniente, una cosa umiliante, specie quando è passione disperata da parte della donna e l’uomo non fa che adempiere ai suoi doveri di cavaliere.
Il rapporto del possesso, in certo qual modo capovolto, è portato a una sgradevole preponderanza della donna in amore, sicché Ines trattava la persona di lui come, a 185
rigore, l’uomo tratta quella della donna.
Se ti poni sullo stretto passaggio, delicato passaggio, attraverso il quale una persona intravvede la felicità, non puoi vigliaccamente sottrarti con la scusa che non ne conoscevi le intenzioni o l’eccesso di attesa, poiché ben diverso era il tuo stato d’animo.
Non dovevi da subito permettere al suo sentimento di procedere per proprio conto, dandole l’illusione tu fossi con lei totalmente d’accordo.
La leggerezza del violinista zufolaro è imperdonabile; gli è mancata l’audacia della sincerità; ne paghi il fio con dignità; cerchi di limitare i danni a sé e alla donna, che, se fosse stata immediatamente avvertita di non poter contare su di lui, avrebbe forse rinunciato ad un matrimonio infelice.
­Ho bisogno di lei, Adrian, per elevarmi, perfezionarmi, diventare migliore, anche purificarmi in un certo modo dalle altre faccende. E’ così, parola d’onore e non ho mai preso realmente sul serio altre cose e altri bisogni.
Il concerto che io desidero da lei è l’espressione più concisa, vorrei dire l’espressione simbolica di questa esigenza. Lei farebbe una cosa meravigliosa, molto meglio di Delius e Prokofiev, con un tema cantabile di inaudita semplicità, ripreso poi dopo la cadenza che è sempre il momento migliore nei concerti classici per violino, la ripresa perciò del primo tempo dopo gli acrobatismi del solista.­
Si pensi allo stato d’animo di un artista, sentendosi accusato, neppure tanto velatamente, di avere favorito un appannamento delle facoltà psichiche e della volontà di un amico e ammiratore, essendosi rifiutato di comporre per lui un concerto, che avrebbe illuminato la loro vicenda artistica e spirituale, come la nascita di un figlio cementa l’amore di una coppia.
Il compositore, per quanto macigno di pazienza e di sopportazione, non può non essere afferrato da un impeto di collera, che, non sfogata sul provocatore, si trasformerà, alla sua partenza in atroci mal di testa e di stomaco.
Schwerdtfeger, avendo sottovalutato l’amore di Ines, (anche in proposito rivela la solita dose d’insolenza!), quindi richiedendo un concerto solo per lui alle modalità da lui poste, tradisce una inimmaginabile sordidezza di 186
carattere.
Per quale perversione sentimentale il violinista si permette di trattare un artista come se fosse la sposa?!
Per l’arte, per l’arte, amico mio, per l’arte, mia unica piscina probatica!
Quante sconcezze e perfidie si sono compiute sotto il suo ombrello!
­Come mi sento?­ mi disse allora. ­Ecco, all’incirca come Giovanni martire sulla caldaia dell’olio: così su per giù mi devi immaginare. Me ne sto da buon penitente dentro la marmitta, sotto la quale scoppietta un allegro fuoco di legna, attizzato coscienziosamente da un bravo mantice a mano, davanti agli occhi di sua Maestà Imperiale, che sta a guardare la scena molto da vicino!­
Adrian nasconde sotto uno strato di bizzarra ironia un profondo scontento ed una insidiosa incertezza; Serenus interpreta lo sfogo dell’amico come un rincrudirsi della presenza demoniaca; finisce per scrivere delle inaudite sciocchezze.
Non avevo forse ragione di dire che le fasi di depressione e quelle di eccitazione dell’artista, cioè la malattia e la sanità, non sono nettamente distinte tra loro? Che, anzi, nella malattia e, per così dire, sotto la sua protezione operano elementi di salute, provocando la genialità?
E’ proprio così e io devo questa intuizione ad un’amicizia, che pur provocandomi dolori e spaventi, mi ha anche colmato di orgoglio: il genio è una forma di energia vitale profondamente esperta della malattia, una forza che dalla malattia attinge e per essa diventa creatrice.
Si approfondisca questa specie di apologo sotto forma di esperienza oggettiva e si cerchino gli elementi di malattia, che secondo Adrian provocherebbero la genialità, di cui si è per natura e costante esercizio in possesso. Scopriremo, ad indagine conclusa, che il martirio del compositore sta nel sentirsi prigioniero (non c’entrano i patti con Satana, a meno di considerarlo come il sintomo della sudditanza umana all’imponderabile mistico!) di una forza oscura, resa tale dal distacco del popolo, che unico può liberare dalla scimmiesca schiavitù della corte imperiale, dove è sempre acceso sotto la graticola il fuoco, con cui il ribelle viene lentamente carbonizzato.
Mann (situazione insidiosa quanto altre mai!) lascia procedere Zeitblom a ruota libera, facendogli descrivere stati d’animo, che sono del tutto 187
inesistenti nell’artista; l’atto creativo esclude dalle radici un contrasto insanabile tra sanità e malattia, tra bene e male, poiché in esso agisce e dà indicazioni una visione sintetica, nella quale tutti gli aspetti si conciliano o si escludono, poiché sono ristabilite le giuste proporzioni tra l’intenzione e la sua realizzazione. Quello che meno convince della prolusione di Serenus, è l’idea che l’artista operi per sole virtù personali; è il limite, per cui legge l’episodio del martirio di Giovanni sulla graticola in termini mistici o satanici La concezione dell’Oratorio Apocalittico e il segreto lavoro attorno ad esso risalgono dunque molto indietro, a un’epoca di apparente totale esaurimento delle forze vitali di Adrian.
Egli studiava abbastanza, raccoglieva e combinava: tutte cose, che non mi potevano rimanere nascoste e che io notavo con intima soddisfazione.
­Certo, sacri bollori stanno bollendo in pentola; a quanto pare non è facile levarsi dal sangue il veleno teologico: quando meno te l’aspetti, ci ricadi a precipizio.­
Quando Adrian interviene direttamente, il demoniaco rivela chiaramente le sue origini e si sgonfia; precipita nel nulla l’affanno ed il mondo riemerge con le sue creature in piena luce.
Il ‘veleno teologico’ (influenza nascosta del nero, l’imperio, la guerra, la fame, i disordini, i lutti, che filtrano e arrivano a includere anche le zone più esterne!) è la direttrice negativa (il diavolo!), che Adrian intende combattere da uomo libero, costretto sull’olio bollente di una reazione feroce.
L’attuale interesse teologico di Leverkühn si lega ad una ‘visione’ di Paolo in versi, testo risalente al IV° secolo, fattogli avere dalla Rosentiel; non ha quindi alcun significato dottrinale; è semplicemente il tentativo di liberarsi da una costante ricaduta, sottoponendo i mistici intenti alla parodia di una musica derisoria e corrosiva; Adrian vuole scrostare il suo spirito dalle ruggini, che ancora inceppano la sensibilità, la carnalità spirituale.
Una musicalità carnale liberatoria, sostenuta da un rapporto stretto con la nuda materia, è per la mente di Serenus un esplosivo!
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Nel periodo, in cui egli non poteva servirsi dei propri occhi, quando la pressione dolorosa su questi e dentro questi gli aveva reso impossibile la lettura, era stata Clementina Schweigestill a dover leggergli molte cose.
Nella pudica foggia campagnola, nel suo abito color oliva, dal corpetto accollato e chiuso da fitti bottoncini di metallo, la fanciulla dagli occhi bruni stava seduta accanto al sofferente e con tono melodiante di scolaretta gli leggeva opere contro le quali il parroco non avrebbe avuto certamente da ridire, opere della letteratura visionaria paleocristiana e della speculazione dell’aldilà.
L’innocente (accezione di semplicità da prendersi con delicata prudenza, ché, gradualmente lo stato edenico deve pur perdersi ed esser sostituito con altra lucentezza suasiva e pudica!) Clementina ammira Adrian per trasporto di simpatia naturale; non dimentichiamo la presenza tutelare (nume benefico e accorto!) di mamma Else.
Al suono da nenia (un calore neutrale, che permette l’attenzione e la riflessione!) della giovinetta i testi esoterici prendono un vago risvolto favolistico, in tal modo aiutando il compositore a svestirli di ogni impaccio o pesantezza teologica, la devozione, prosciolta da suffumigi demoniaci, gli abissi infernali, trasformati dalle cadenze melodiose, per cui la stessa angosciante assenza del femminino, che tanto costringe al singulto la gola assetata, (ah, quei raschi alla cute del cranio e nel cavo degli occhi!), si attenua, si libera come canoro pennuto nel roseo tramonto.
Tutta questa letteratura di autori estatici, annunciatori del Giudizio Finale, intesi ad attizzare pedagogicamente la paura dei castighi eterni, costituisce una densa atmosfera di tradizioni piena di motivi frequentemente ripetuti, nella quale Adrian si chiudeva per ispirarsi ad un’opera che raccoglie tutti i suoi elementi in un centro, li unisce minacciosamente in una sintesi artistica e secondo un compito inesorabile, pone davanti agli occhi dell’umanità lo specchio della rivelazione, affinché l’umanità vi scorga quel che incombe.
Se ci atteniamo alle parole di Adrian, (‘veleno teologico!’), essendo l’escatologia la summa (non nel senso aritmetico, ma come culmine!) della teologia, l’Apocalisse incarna quanto incombe di orribile sull’umanità, la sua dipendenza totale dalla collera e vendetta divina; il demoniaco in un certo senso è l’unica qualità divina possibile all’uomo!
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Osserva Zeitblom:
Leverkühn nella sua incommensurabile opera corale, non si attenne unicamente all’Apocalisse di Giovanni ma, per così dire, a tutta la tradizione visionaria della quale ho parlato, di modo che l’opera costituisce la creazione di una nuova e propria Apocalisse e in un certo qual modo il riassunto di tutte le annunciazioni della fine.
Poiché nella sostanza a­teologica di fondo Adrian nega la condanna finale e assoluta dell’uomo, il suo giudizio universale diventa l’affermazione estrema del diritto alla vita, che prende vigore, esultanza e indipendenza dai dèmoni (dio!), proprio dal livore, con cui i testi sacri la mettono misticamente in forse e la negano come essenza in sé (attributo strutturale e libero!) dell’uomo.
Sembra quasi che inconsciamente Adrian voglia divellere da sé e da quanti avranno la bontà di ascoltare la sua composizione l’inganno, il veleno della doppia natura, i cui effetti deleteri egli porta nella carne (una madre che inganna, ingannata) e nello spirito come rifiuto dell’amore.
Questo particolarissimo ed arduo trionfo della vita (l’apocalisse è la tromba, che annuncia dal fondo degli abissi il carro di fuoco del mattino!) sa guardare aldilà del presente, corrotto dalla ‘fede teologica’.
Mann non annuncia questa verità in modo diretto, (non lo lasciava totalmente libero da condizionamenti la sua critica fedeltà alle istituzioni borghesi!), ma ce la lascia sospettare come evento possibile; rimane a metà (difficilissimo equilibrio!) tra l’eloquente silenzio di Adrian e le pietose spiegazioni del suo biografo o intermediario, vittima e faro delle trasfigurazioni accademiche.
Kridwiss, grafico, miniatore di libri e collezionista di Xilografie e ceramiche dell’estremo oriente, era un omino senza età, senza precisabili legami di partito, che per mera curiosità porgeva orecchio ai movimenti contemporanei e dichiarava enormemente importanti le varie cose che veniva a sapere.
Costui faceva sì che la sua casa, il cui salotto era ornato di deliziosi disegni cinesi in nero e a colori dell’epoca Sung, diventasse il ritrovo di personalità e momenti della vita spirituale, come ce n’era tanta entro le mura della buona città di Monaco e organizzava riunioni di uomini, intime sedute alla tavola rotonda, di non più che sette o dieci partecipanti.
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I veri dèmoni della perfidia (altro che la buona città di Monaco!) non sono quelli radicalmente negativi della summa apocalittica di Adrian, bensì i rappresentanti della cultura, che frequentavano il salotto del miniaturista di libri. E’ interessante segnalare tutti quelli che ivi Zeitblom incontra; ne diamo qualche esemplare: (alcuni di loro li abbiamo già conosciuti, come ospiti fissi della signora Rodde!): il paradossale dottor Breisacher, eroico transfuga dalla guerra; due ‘bei principi’ della casa granducale Assia­
Nassau; un certo dottore Egon Unruhe, paleozoologo e filosofo, tetragono sostenitore di tutto ciò, a cui l‘umanità aveva cessato da tempo di credere;
(non poteva mancare!) il ‘piccolo’ Helmut Institoris; il professore Georgy Vogler, storico della letteratura tedesca, il quale considerava gli scrittori il prodotto del sangue e del paesaggio; il professor Giegen Holzschuher, studioso dell’arte e soprattutto di Dürer; il poeta Daniel Zur Tohe, un uomo allampanato sulla trentina, che portava una specie di talare nera molto accollata, che gli dava il profilo di uccello da rapina, la cui unica opera era un poema, scritto prima della guerra e firmato Cristus Imperator Maximus, testo, che si concludeva con queste parole: “Soldati, vi affido il saccheggio del mondo intero!”
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A Helmut Institoris, beninteso, piaceva molto e in genere l’autore e l’opera godevano una grande autorità e la mia antipatia per l’uno e per l’altra non era proprio sicura di sé, poiché sapeva di essere determinata anche dalla mia irritazione contro il circolo Kridwiss e contro le sue pretenziose diagnosi della cultura che un senso di dovere intellettuale mi obbligava a conoscere.
Non è molto chiaro il motivo, per cui Zeitblom debba necessariamente conoscere una configurazione della cultura, che gli procura nausea, noia e scontento.
La iattura sta nel fatto che egli non riesce a staccarsi dalla corrente di cattive idee e principi, che sgorga da salotti e accademie; egli è, in una parola, incapace di abbeverarsi alla sorgente dei nuovi movimenti proletari.
Per la verità si rivela inconsistente in proposito lo stesso Mann.
Cercherò di tracciare, possibilmente in breve, la parte essenziale delle risultanze che il nostro ospite dichiarava 191
a ragione ’enormemente importanti’.
Nessuno si meravigliava che nelle conversazioni di quell’avanguardia critica, avesse posto cospicuo un libro pubblicato otto anni prima della guerra, ‘Réflexions sur la violence ‘ di Sorel.
L’aver predetto inesorabilmente la guerra e l’anarchia, l’aver designato l’Europa come teatro di cataclismi bellici, l’aver insegnato che i popoli di questo continente sanno unirsi soltanto in un’idea, quella di fare la guerra, tutto ciò autorizzava a indicarlo come il libro dell’epoca.
Più ancora lo giustificavano l’intuizione e l’annuncio che nel secolo delle masse la discussione parlamentare doveva risultare assolutamente inadatta a formare la volontà politica e che in avvenire bisognava sostituirvi un vangelo di funzioni mitiche destinate a scatenare e a mettere in azione energie politiche come primitivi gridi di battaglia. Si vede che non per nulla il libro aveva quel titolo minaccioso: trattava infatti della violenza come vittoriosa antitesi della verità, faceva capire che la sorte della verità era molto affine a quella dell’individuo, anzi identica: la svalutazione.
La svalutazione sistematica della ‘ragione’, perseguita dai furori ideologici di élite volontaristiche, deluse dalle lente trattative parlamentari, (asfittiche per l’assoluta mancanza della presenza popolare! Le masse, strumento di manovra, sottovalutate in modo infamante!), non è stata affatto un decisione inconsapevole o frutto di umori bizzarri.
Sorel ha cavalcato dell’ideologia borghese l’aspetto più bieco, decadente, mistificatorio; è giunto a forgiarne una bandiera per il proletariato, che egli considerò alla stregua di una mandria di belve voraci, incapace di svegliarsi e di prendere fuoco (indignazione meschina!) se non per il pasto.
Se la borghesia illuminata e l’avanguardia (composta da culti esterni o da isolati ribelli!) dei proletari non avessero avuto la coda di paglia, avrebbero risposto a Sorel che le masse erano talmente vogliose di guerra, che, quando questa scoppiò per esaltare il bagno di sangue, agognato per noia dalle anime belle, gli ufficiali, rampolli della borghesia, si trovarono nelle trincee a combattere dei paria, che minacciarono di uccidere, colpendoli alle spalle, se non avessero affrontato il nemico.
Non si saprà mai quanti giovani e maturi contadini persero la vita non per 192
colpa del nemico, ma perché fucilati dai patriottici ufficiali, rampolli della ricca e media borghesia.
Ora si immagini come quei signori, scienziati a loro volta, eruditi, professori universitari: Voglier, Unruhe, Holzshurer, Institoris e anche Breishacher, se la godessero di una situazione che per me era spaventosa e che essi consideravano o già compiuta o necessariamente in arrivo.
Si permettevano lo scherno di rappresentare un processo nel quale era in discussione uno di quei limiti per le masse destinati alla spinta patriottica e a minare l’ordine sociale borghese, mentre i protagonisti si dovevano difendere dall’accusa di mendacio e di falso, dopo che le due parti, accusatrice e imputato, non solo si accapigliavano, ma fingevano nel modo più buffo di sbagliare bersaglio e chiacchieravano a vuoto.
Per quanti siano i limiti di Zeitblom, la sua onestà di intellettuale è rimasta intatta; non ci si complichi la situazione, chiedendoci il grado di intelligenza, con cui si manifestava la sua disapprovazione; Adrian in quel cenacolo di scervellati a buon mercato avrebbe alzato sprezzantemente le spalle. L’onestà di fondo impedisce a Zeitblom di accorgersi che la simpatia di quei culti per la ‘dissoluzione’ nasce ed è rafforzata dall’intima certezza che alla fine quel gioco al massacro avrebbe risparmiato (se non promosso ad maiora!) la loro combriccola.
L’umanesimo moderato di Serenus è sconvolto dal falso rivoluzionarismo di chi è pronto a tradire la verità e la cultura, pescando nel torbido di vicende, che si augurano svilupparsi a loro vantaggio.
Che sono, signori, le anticaglie umanistiche a confronto del nuovo vitalismo, che non teme di sporcarsi le mani col sangue?!
Il pedagogo, ad esempio, sapeva che già oggi nell’istruzione elementare c’è la tendenza a staccarsi dal primario apprendimento delle lettere e ad accogliere il metodo globale dell’imparare parole, legando lo scritto al valore concreto delle parole. Tra me pensavo: C’è bisogno di parole? Perché scrivere, a che serve la lingua? Un’oggettività radicale dovrebbe attenersi alle cose e basta! E ricordavo una satira di Swift, dove certi scienziati appassionati di riforme decidono di risparmiare i 193
polmoni e di evitare le frasi vuote, abolendo le parole e la loquela, discorrendo tra loro col mostrarsi le cose stesse che, però, a scopo d’intesa, bisogna portare al completo sulla schiena. Il passo è molto comico, specialmente perché sono proprio le donne, la plebe e gli analfabeti a ribellarsi contro questa innovazione e a insistere sul discorso mediante parole.
Come ruvidi ci permettiamo di considerare l’apologo di Swift tragico e soprattutto irridente; egli, grande pessimista con le tasche piene, pretende di farci ridere alla spalle dei nuovi uomini di scienza, presi alla sprovvista e sconfessati dalla proverbiale stupidità della plebe, che considera le novità, promosse per il suo riscatto fisico e intellettuale, delle insanità mentali dei culti. Alla plebe la giusta valutazione delle parole, come di una qualunque tecnica formale, fu sempre impedita dalla spietata durata giornaliera della fatica fisica, esaurimento, che finisce per disseccare le fonti della finezza. Lasciati crescere nella loro naturale spontaneità e saggezza i Paria (l’umanità schiacciata sempre ed ovunque, miliardi di vite compresse ancor più delle olive nel torchio a cavarne dell’olio!) sarebbero giunti a inventare le macchine e a sfruttarne l’ausilio assai prima e con più di sagacia.
Per tornare al racconto di Swift, che tanto appare comico a Serenus, (in tale condizione di spirito alleggerisce il peso interiore, causato dall’imbarbarimento dei professori del circolo Kridwiss!), dobbiamo far presente che il rifiuto della plebe (donne, giovani e analfabeti!) di accettare le riforme in astratto illuminate dei saggi scaturisce dalla istintiva consapevolezza che quei buontemponi si erano ringalluzziti per la bella scoperta, poiché il compito di portare sulle spalle le cose e mostrarle nella loro corpulenza sarebbe ricaduto sui servitori, constatazione elementare per gli ignoranti plebei, ma del tutto insignificante al sommo scrittore, che nella vita era abituato ad avere lo stesso rapporto coi suoi dipendenti.
Sono gli esperti (pedagoghi compresi!) che giudicano il popolo capace soltanto di comprendere ed apprezzare le cose volgari e la farsesca bestialità; dopo avergli propinato ad arte idiozie e meschinità d’ogni tipo, ci si convince della sua piatta idiozia, condizione per naturale!
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Le mie doverose visite al circolo Kridwiss e gli affanni ai quali mi esponevo di mia volontà non avrebbero provocato da soli il mio dimagrimento. Non mi sarei preso a cuore quei discorsi alla tavola rotonda, se non avessero costituito un commento freddamente intellettuale a una cocente esperienza d’arte e d’amicizia, che, formandosi con rapidità febbrile laggiù, in quell’angolo campestre e fin troppo familiare, aveva un rapporto spirituale e una peculiare corrispondenza con le cose udite in casa Kridwiss.
Mi è difficile essere d’accordo con Zeitblom in questo punto della sua analisi; le sue frequentazioni del circolo Kridwiss possono avere una rapporto con l’arte di Adrian, solo nel senso che trattano gli stessi problemi, la cui sostanza spirituale, però, si differenzia organicamente come l’acqua dal fuoco.
In che cosa praticamente coincidono le posizioni di quegli intellettuali, malati di vitalismo, con la visione e gli intendimenti artistici di Leverkühn?!
Se “il dramma musicale si trasformava in oratorio, l’opera drammatica in cantata operistica, l’armonia di Bach e Händel in autentica polifonia”, significava soltanto che Adrian era uscito completamente dalla tutela della musica classica e romantica, che, in una parola, l’armonia dell’accordo si stava smagliando in voci molteplici ed i ritmi riprendevano la vivacità meno accademica, ma più naturale del discorso polifonico.
Se nelle teorie del circolo Kridwiss balenava il demonismo della guerra e della violenza, nell’arte di Adrian prendeva il sopravvento una pulizia e linearità armonico­ritmica, che metteva al bando tutta la zavorra dell’accademismo retorico, responsabile del rigonfiamento patriottico e di tutte le esasperazioni eroiche, così evidenti (lo portiamo come esempio di deformazione, senza entrare nel merito del suo valore artistico!) nel poema sinfonico di Richard Strauss ‘Vita di eroe’.
Conservo una lettera che Adrian mi scrisse a quel tempo da Pfeiffering a Freising, mentre stavo lavorando alla laude della grande schiera, che nessuno poteva cantare, di tutti i pagani e popoli e linguaggi, davanti al seggio e davanti all’Agnello; una lettera con la quale mi invitava a fargli visita, firmandosi con nome ‘Perotinus Magnus’, che era stato nel XII secolo direttore della musica sacra a Notre­Dame, un maestro di canto, i cui dettami in merito alla composizione contribuirono a sviluppare la giovane 195
arte polifonica.
Zeitblom è colto dalle solite convulsione di panico e giudica quello pseudonimo insidioso, se non illegittimo.
Vedendo la firma di Adrian cercai tra me e me quale fosse il suo diritto a quell’atmosfera nella quale si immergeva, mentre cercava di ricostruirla con mezzi estremi e massicciamenti evoluti.
Zeitblom considera l’operazione regressiva, quindi, destinata alla sterilità.
Sotto un certo aspetto era un timore fondato, poiché il processo della creazione(non conta se mediante immagini o suoni!) sta sì, nel recupero della tradizione, ma ispessita da nuove varianti, non cristallizzata nella sua antica fornace formale.
(Quando l’uomo insiste con stolida pertinacia nel narcisismo della forma, ciò che in origine era fornace, diventa gelido stagno!)
Però non è il caso di Adrian; per lui si trattava di recuperare un sentiero troppo frettolosamente abbandonato, recupero che gli rendeva più fluida la trasformazione dell’estetica romantica in estetica tout court, capace di folgorare le insanie e le brutture del suo tempo.
Se riflettiamo al fatto che il graduale­unisono del Gregoriano fu una forma di composizione musicale, rivelatasi adatta a sostenere e alimentare fantasticamente l’attenzione della moltitudine verso le bizzarrie mistiche del Padre minaccioso, il firmarsi di Leverkühn con il nome di un Maestro di Cappella, (che, mentre arricchiva polifonicamente il corale unisono, liberava la grande schiera dall’obbligo di servitù al Totem anche durante il godimento della melodia ed esaltava la varietà di voci e variazioni sul tema!), aveva un senso, se non rivoluzionario, certamente di liberazione.
Quest’opera minacciosa, con la sua smania di svelare musicalmente le cose più recondite, la bestia che c’è nell’uomo e, d’altra parte, i suoi moti più sublimi, quante volte fu colpita dal rimprovero di sanguinoso barbarismo, e d’altra parte di esangue intellettualismo.
Ho detto ‘fu colpita’; infatti la sua idea, che è in un certo qual modo la biografia della musica, dello studio musicale preliminare e ritmico­magico sino alla più complicata perfezione, espone l’opera, non solo nelle parti, ma come insieme, a quel rimprovero.
Mann con questa pagina tenta di delineare l’aspetto nuovo e, in un certo senso, rivoluzionario dell’arte autentica (pittura, musica, architettura e 196
poesia!) del novecento, la fusione di critica (analisi o studio dell’incidenza formale del passato!) e di immaginazione.
Per tornare al sistema musicale di Adrian, in che consistono il disagio, il disaccordo ed anche l’avversione della critica del tempo per questa ‘nuova e sanguinosa’ musicalità, capace di estendersi dai suoni elementari, quasi balbettio, al gioco più complesso degli intrecci polifonici?!
Ce lo dice lo stesso Zeitblom:
Tutta l’opera è dominata dal paradosso (se è un paradosso!) che la dissonanza vi esprima tutto ciò che è serio, elevato, denso, spirituale, mentre l’armonia e la tonalità sono riservate al mondo infernale: in questo caso al mondo della volgarità e del luogo comune.
Ma cosa sono in concreto la spiritualità, la serietà, l’elevazione e che cosa, per contro, è volgare e luogo comune?!
Proprio la guerra, evento funereamente magico, umanamente insostenibile, giudicata dalle classi dirigenti e dagli intellettuali come la massima serietà patriottica, suggerì ad Adrian che era forse il caso di demistificarne l’idiozia e la crudeltà, stravolgendo la ritmica da sonoramente retorica allo strombazzamento delle percussioni e degli strumenti più sfacciatamente rumorosi per definire l’alterigia della severa, inattingibile spiritualità degli esteti delle patrie, compresa quella teologica.
Alla corte del Prìncipe (per Adrian il rigore morale, il vero tabù, con cui si era scontrato dopo il rifiuto della madre alla dolcezza!) la melodia e l’armonia accordata si era edulcorata, corrotta, gonfiata; diventava necessario rompere il sistema aulico e cercare con la sorpresa di ritmi inusitati ed un poco selvaggi il recupero del giudizio sensibile, la sobrietà naturale.
La reazione (in essenza sempre fascista!) porti con sé nell’inferno della sparizione dai solchi terreni i suoi gioielli insanguinati di retorica sentimentale! sSa il popolo nuovo a dettare il linguaggio dell’arte!
Si consideri il narratore dei fatti tremendi, il Giovanni, dunque, che descrive gli animali dell’abisso con le loro teste di leone, di vitello, di uomo e di aquila; la parte che di solito è affidata a un tenore, questa volta però a un tenore, che sappia quasi raggiungere le note alte degli evirati, i cui stridi gelidi di cronista formano un raccapricciante contrasto col contenuto delle sue catastrofiche comunicazioni.
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La voce grottesca (castrato volontario!) del tenore simbolizza lo stato di una umanità, costretta a sfigurare i suoi fasti, (l’aldilà, non conta se inferno o paradiso, è il luogo dei desideri smodati, delle avidità predatrici!), poiché dilaniata nei suoi impulsi più genuini da forze oscure, le stesse, che hanno inventato il terrore.
Il senso liberatorio della nuova musicalità riesce selvaggio e barbaro solo alle anime, che si sono cristallizzate (abbrutite!) per esaltare un’elevazione, una spiritualità e una distinzione, che hanno trovato la loro ultima espressione nella crudeltà della guerra e della strage.
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La risata diabolica alla fine della prima parte (una scarica di sataniche risate di scherno e di trionfo, composta orrendamente da urli, latrati, stridii, muggiti, belati, ululati,) ha il suo contrapposto nel meraviglioso coro dei fanciulli che, accompagnati da un’orchestra ridotta, inizia subito la seconda parte, cioè un brano di musica delle sfere cosmiche, gelida, limpida, diafana, aspramente dissonante, ma di una dolcezza di suoni che direi ultraterrena, inaccessibile e tale da riempire il cuore di nostalgia senza speranza.
Questo brano, che ha commosso, conquiso, esaltato anche i renitenti, è per colui che ha orecchi per udire e occhi per vedere, in quanto a sostanza musicale, il medesimo riso diabolico! In quella struggente musica delle sfere angeliche, non vi è nemmeno una nota che non si trovi in precisa corrispondenza anche nella risata infernale.
Uscendo dalle suggestioni di Zeitblom, cui Mann presta in modo genialmente equivoco la sua straordinaria gamma espressiva, (in un certo senso più immaginifico musico di quanto lo siano i maestri del mostruoso del novecento!), ci permettiamo di dire (quanto fedeli a Mann non ci interessa punto!) che Adrian per intuizione intensiva supera le terrificanti strutture della teologia del peccato (ben altro sviluppo avrebbe dato alla sua Apocalisse, se avesse conosciuto la teologia della salvezza, contenuto dei popoli cristiani non europei, espressione cristologica favorita dal non essere inseguiti in ogni movimento dalle iniziazioni dal clero ufficiale!) con lo stratagemma liberatorio (in perenne condizione di ironia drammatica, quella, che Zeitblom legge ed interpreta come “nostalgia senza speranza”!) di utilizzare la medesima materia musicale, la stessa sostanza sonora sia per esaltare l’aspetto angelico, sia per cristallizzare il 198
satanico, variandone con sapienza i timbri e le voci, quella umana storpiata in tutti i modi, come in tutti i modi la teologia ha distrutto l’unità materiale delle vitalità cosmiche.
Confessiamo di essere giunti come ruvidi­paria a radicalizzare una condizione esistenziale, che in Mann rimane dentro il limite impreciso del mero esperimento; si tratta del tentativo per uscire dalle strette dell’avanguardia artistica.
Ci permettiamo anche di dire che lo strumento linguistico della prosa, per quanto magistralmente usato, difficilmente riesce a incarnare e a trasmettere l’unità degli opposti; la dialettica implicita nello sviluppo cosmico emerge, zampilla ferace soltanto dal verso epico.
La parola è chiarezza­falsità­deformazione­esaltazione, sintesi dialettica appunto dei contrari e illuminazione della feracità materiale, in quanto le incombono oggetti, aventi forme e contenuti ben definiti, che cozzano contro la bastarda volontà di chi intende violarli; questo imbarbarimento, che sembra stravolgere la struttura stessa della natura, ma in realtà ce la restituisce in tutta la sua originaria bellezza e potenza, riesce assai meglio alla musica, impregnata di materialità inafferrabile, indistinguibile.
Contraddizione ferace, mediante parole Mann cerca di trasmetterci questa progressione sonora dei significati più intimi della musicalità (significativa in assoluto!) di Adrian Leverkühn.
Sono passati ormai ventidue anni da quando, quasi davanti ai miei occhi, Clarissa Rodde, l’attrice sorella di Ines, essa pure creatura in pericolo, trovò la morte.
Passata la stagione invernale del 1921­1922, nel mese di Maggio, a Pfeiffering, nella casa di sua madre, e senza alcun riguardo per questa, ella, dopo rapida risoluzione, si tolse la vita col veleno che aveva tenuto pronto da gran tempo per il momento in cui il suo orgoglio non avrebbe più saputo sopportarla.
La mancanza di rispetto per il dolore (sia pure legato a motivi futili; ma chi può farsi censore degli altri, di una donna con questa feroce tracotanza?!) della madre era la conseguenza dello sradicamento, a cui Clarissa era stata costretta; si tratta dell’identica condizione insostenibile, che sta alla base del suo insuccesso artistico.
Quando ci si priva dell’humus originario, non siamo più in grado di interpretare la nostra parte nel mondo; a quel punto necessita una profonda e sincera consapevolezza della nostra deformazione per 199
affrontare il passato e toglierne quel tanto, che serve, scartandone le carenze e le mutilazioni.
Lo snervante ed innaturale salotto materno ha segnato maleficamente Clarissa; è fatale che essa cristallizzi il suo fallimento, uccidendosi nella nuova solitaria magione, ove si è rinchiusa a riccio la madre.
Dice Zeitblom:
Le mancava la primitività che, volere o no, è decisiva in tutte le arti, ma specialmente in quella del commediante.
Tutte le creature hanno chiara l’impronta d’origine, purché non le si umili con l’educazione, facendole operare al di fuori della loro materia esistenziale.
Clarissa era la creatura più fredda, più ritrosa, più casta e nobile, anche se questa corazza di superbia ironica la proteggeva dalle brume della sua femminilità, le quali d’altra parte facevano di lei la vera sorella di Ines Institoris.
In ogni caso, dopo quel bel conservato sessantenne, che l’avrebbe voluta per maîtresse, parecchi giovani con intenzioni meno serie erano stati respinti ingloriosamente. Infine però il destino la raggiunse e fece fallire miseramente il suo atteggiamento schizzinoso: dico miseramente, poiché il conquistatore della sua verginità non era affatto degno di quella vittoria, né Clarissa lo considerava tale.
Se si mettono insieme tutte le conseguenze negative determinate dallo sradicamento, ci rendiamo conto della scarsa incidenza della volontà sul destino, cui Zeitblom addebita il crollo di Clarissa.
Espressioni come “il destino la raggiunse” fanno parte del patrimonio retorico, quasi riflesso condizionato al quale Mann cede le redini, proprio perché coperto dalla maschera del biografo.
Lo sconosciuto indegno di conquistare la turrita castità (verginità!) di Clarissa, era un avvocato penalista, assiduo frequentatore dei camerini delle attrici, che portava biancheria finissima, ma aveva nerissimi peli alle mani.
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Una sera dopo la recita, probabilmente nell’ebbrezza del vino, la ritrosa inavvicinabile, ma in fondo inesperta e inerte, soggiacque all’abilità di lui con una grande 200
collera e con disprezzo furioso di se stessa.
Dopo di allora ella gli si negò e con scherno per giunta, temendo sempre ch’egli potesse diffondere la voce di averla avuta, come già aveva minacciato per ricattarla.
In Clarissa coabita un tale groviglio di contraddizioni, esaltazione e scoramento, alto senso di sé e disperazione per la pochezza (giudizio degli altri interessati a corromperla e a farne una schiava lubrica!) della sua capacità di ostentazione drammatica, voluttà imprecisata e verginità, raggrumate nel cespo contorto della funzione del sesso(cedimento alla cupidigia altrui!), che il suo unico punto di forza e di onorabilità si è ormai ristretto alla maniacale difesa della sempre più sterile ‘rosa’.
Quando anche quella corolla è si affloscia sui petali, come ultima Thule scatterà il vortice dell’annientamento, estrema e unica voluttà!
Poco tempo dopo la caduta in un amplesso infecondo e bastardo, Clarissa incontrerà un giovane industriale alsaziano, che le offrirà di sposarla, portandola via dal mondo teatrale divenuto per lei insopportabile.
Il giovane di nome Henry incontrava difficoltà presso i ricchi congiunti a far accettare quella sua decisione; essi temevano quel matrimonio, che ritenevano pericoloso per la sua posizione sociale; Clarissa era d'altra parte convinta che avrebbe superato le ostilità, facendosi conoscere di persona.
A quel punto ritornò a galla il seduttore; egli le garantiva il silenzio, solo se avesse accettato di diventare la sua amante.
All’idea di farsi ‘adultera’ Clarissa entrò in una crisi psichica senza sbocco.
Secondo me, l’infame non voleva solo estorcerle il piacere, ma addirittura farla morire.
La sua nefanda vanità esigeva un cadavere di donna sulla sua strada; egli bramava che una creatura umana morisse, se non proprio per lui per causa sua.
Quale tristezza che Clarissa abbia dovuto fargli quel piacere!
Zeitblom insiste sulla perversità dell’ avvocatuccio, nemico, a parole, della borghesia.
Per la verità la tragica fine è scritta nella disperazione (macchia incancellabile!) della sconsacrazione del sesso.
Violata una volta per sempre, che orrore e vergogna!
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Dopo una così sciagurata intemperanza il mondo non è più fatto per lei!
La crudeltà del seduttore sarebbe caduta nel vuoto, se Clarissa per un solo istante gli avesse fatto capire che una onorabilità di quel tipo le era del tutto indifferente e che intendeva soltanto recuperare il coraggio di vivere per se stessa, quali fossero le condizioni in cui si sarebbe da quel momento trovata.
Per la cronaca lo sciagurato inviò una lettera ai genitori di Henry; il giovane rimise lo scritto a Clarissa, che si trovava a Pfeiffering presso la madre; fu la goccia che fece scattare le decisione finale.
Clarissa giaceva ad occhi aperti sul divano, un mobile degli ultimi decenni del secolo, con spalliera e braccioli, che io conoscevo fin dalla Ramberstrasse e sul quale ella era andata a buttarsi, quando la morte fu sopra di lei durante i gargarismi.
Si vorrebbe rimproverare a Zeitblom la precisione nel descrivere il divano, su cui si stese per morire la Rodde, se non riconoscessimo che tutto è in coerenza con il personaggio.
Clarissa morente si butta sul divano che sta all’origine dei suoi guai, sciagurato teste di una decadenza, che la madre aveva tentato di scongiurare, tuffandosi nel putrido stagno della rispettabilità borghese.
I lividi azzurri delle belle mani di Clarissa e il suo viso rivelavano una morte rapida per soffocazione e per l’improvvisa paralisi degli organi respiratori in seguito a una dose di cianuro, con la quale si sarebbe potuto uccidere un’intera compagnia di soldati.
Sopra la tavola c’era vuoto e col fondo svitato quel recipiente di bronzo che rappresentava un libro col nome di Ippocrate a lettere greche con un teschio sopra; accanto a questo un biglietto scritto frettolosamente a matita e indirizzato al fidanzato: je t’aime; une fois je t’ai trompé, mais je t’aime!
Il teschio, posto sopra gli scritti del fondatore della medicina scientifica, propugnatore della salute, mette a nudo la contorta personalità della giovane suicida.
Le parole in francese concludono quasi epigramma una vita ‘sbagliata’. (Con quale scontento ci arrendiamo all’uso di simile attributo!)
Il ruvido non può non sentirsi addolorato allo strangolo per l’epilogo tragico di questa creatura che, avendo conosciuto il dolore e la vergogna, 202
si era tanto avvicinata alla infelicità.
Il giovane intervenne ai funerali, che toccò a me organizzare. Egli era inconsolabile o meglio, désolé, parola che, certamente erroneamente, sembra meno seria e piuttosto un modo di dire.
Ora io non vorrei dubitare della sincerità del suo dolore con cui esclamò: ‘Ah, monsieur, l’amavo abbastanza per perdonarla! Tutto avrebbe dovuto andar bene! Et maintenement comme ça!’
Sicuro, comme ça; tutto avrebbe potuto andare veramente bene, se egli non fosse stato quel giovane flaccido e viziato che era e Clarissa avesse trovato in lui un appoggio più fidente.
Lo sfogo risentito di Zeitblom è la prova del suo sincero attaccamento alla cerchia dei conoscenti di Adrian.
Gli si potrebbe far osservare che proprio perché ‘flaccido’ Clarissa, conosciutolo, si era illusa di poter superare la vergogna; in quell’alsaziano viziato gli parve di trovare il coraggio per uscire dal guado.
D’altra parte come pretendere dal giovane Henry, privo di una prolungata educazione all’amore, una prova di forza, che gli permettesse di disinteressarsi della contrarietà dei parenti, da cui dipendeva fisicamente ed economicamente?!
Ci mettemmo d’accordo per una formula che dicesse come la defunta fosse deceduta in seguito a una grave e inguaribile malattia di cuore.
Penosa menzogna per ottenere la sepoltura cristiana, estremo tentativo di salvare le forme da parte della madre!
Il sacerdote, pastore luterano, cui Zeitblom si era rivolto, dicendogli con schiettezza la verità, ebbe una reazione violenta, ma infine cedette alle pressioni umanitarie di Serenus.
Come si sarebbe comportato un prete cattolico?!
*
Girai la cosa immediatamente in modo quasi ridicolo: dissi che la situazione non era chiara, ammisi la possibilità di un disgraziato incidente, di uno scambio di boccette ed ottenni finalmente che quel cocciuto, lusingato per la sua santa ditta, vedendo l’importanza che si attribuiva al suo intervento, si dichiarasse disposto 203
a fare le esequie.
Metti sul piedistallo un uomo meschino ed avrai della gloria e del potere la giusta misura!
D’altra parte Serenus non dovrebbe dimenticare che lo aveva portato a rappresentare quella parte antipatica il desiderio di salvare la rispettabilità borghese della famiglia Rodde!
In fondo il sacerdote faceva semplicemente la sua parte! Che avrebbero detto i suoi amici se, fedele alla lettera del Sacramento, avesse negato la funzione religiosa per Clarissa?!
Ines Institoris, in lutto profondo, accoglieva col sottile collo proteso obliquamente e con delicatezza dignitosa le condoglianze al posto della madre, che non si fece vedere.
La dignità del comportamento luttuoso di Ines marca ancor più il suo stato d’angoscia; siamo portati a chiederci cosa sarà di lei.
Ad aggravare la situazione familiare di Ines si aggiunse a quel punto l’inflazione, che vanificò duramente il patrimonio del marito; fu a rischio il suo benessere di ricca signora borghese; menomazione sociale per lei ferocissima, insopportabile in considerazione del sacrificio, che aveva a lui fatto della sua verginità.
Rudi Schwerdtfeger poi aveva bensì tributato a Clarissa, la sua buona compagna, gli ultimi onori, ma aveva lasciato il cimitero al più presto possibile, dopo aver espresso alla parente più prossima le sue condoglianze, sulla cui brevità formale fermai l’attenzione di Adrian.
Era probabilmente la prima volta che Ines rivedeva l’amante dopo che egli aveva rotto la relazione, con una certa brutalità, temo, poiché non credo sia stato possibile farlo con grazia, considerando la tenacia disperata con cui ella gli si era aggrappata.
Adrian, aldilà dei cenni di Zeitblom, aveva già tutto anticipato nella sua solitudine divinatoria.
Il sentirsi abbandonata da Rudi, getta Ines Institoris in pasto ad un clan di femmine, confraternita tenuta insieme dall’uso delle droghe, stolido surrogato dell’ebbrezza e della falsa passione.
Ines avvertì la miseria morale di quel comportamento e suggerì alle cinque o sei amiche che diventava necessario (opportunità da non 204
perdere!) dare una patina di dignità filosofica a una comunione di donne così irriverenti da rendere ridicolo il decoro borghese.
Il contenuto ideologico della sua iniziativa può essere riassunto in queste parole: il dolore è indegno dell’uomo, soffrire è una vergogna; reagirvi con ogni mezzo non solo non è illegittimo, ma diventa per gli animi elevati una manifestazione di indipendenza.
Rimproveravo ad Ines la poco riguardosa indifferenza verso le figliole che essa dimostrava abbandonandosi a quel disordine e facendo capire che il suo cieco amore per quelle pallide creaturine di lusso era una menzogna.
Insomma quella donna mi disgustava profondamente da quando sapevo e vedevo che cosa si permetteva; e anche lei si era accorta che il mio cuore l’aveva abbandonata e confermava l’osservazione con un sorriso.
C’è nel sorriso di Ines, mentre deve prendere dolorosamente atto dell’abbandono per disprezzo da parte dell’amico professore di umanità, la disperazione accondiscendente di chi non esiste più; la stessa indifferenza per le bambine, da lei generate con amplessi gelidi, è una sorte di marcia funebre anticipata.
Sullo sfondo si allunga la tragica solitudine di Adrian, osservatore impotente della degradazione generale, stato, che rende pula nel vortice del vento il dolore delle singole persone.
Che resta da fare ad un artista, posto davanti a tanta desolazione, se non tentare la salvazione di quel mondo perduto mediante una trasfigurazione musicale che almeno ne conservi la ‘macchia’?!
Allora (1922) l’opera era già stata pubblicata a stampa e non, come i precedenti lavori di Leverkühn da Scott di Monaco, bensì nell’Universal Edition di Vienna, il cui direttore, ancor giovane, appena trentenne, ma già influente nella vita musicale dell’Europa Centrale, il dottor Edermann, era comparso improvvisamente a Pfeiffering per offrire i suoi servigi di editore all’ospite degli Schweigestill.
Dopo essere stato quasi mandato via, riuscendo però a farsi ricevere, aveva pregato Leverkühn di metterlo al corrente della sua produzione. Aveva sentito parlare dell’Oratorio e ottenuto che Adrian, benché sofferente e fiacco, gli suonasse alcuni lunghi brani del manoscritto; dopodiché, sui due piedi, Edermann acquistò l’opera per l’Edition.
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Prima di andarsene aveva chiesto ad Adrian, servendosi di frasi dialettali viennesi: ‘Dica, Maestro, lei conosce la signorina Von Tolna?’
La visita del giovane editore viennese si conclude (esplosione!) nell’evocazione dell’eterno femminino, sub specie imaginis misticae!
Certamente è stato il personaggio misterioso di Adrian a risvegliare in Edermann il ricordo di questa figura eccentrica di donna; il demoniaco di Leverkühn si trasforma per l’editore in una sorta di ispirazione angelica.
Adrian, interpellato in maniera così diretta e inaspettata, risponde di non conoscere quella donna, senza per altro chiedere chi fosse e perché gli venisse ricordata.
Ho già parlato di anime femminili anelanti che con la loro disinteressata devozione si sono conquistate un posto modesto nella vita seriamente immortale di quest’uomo.
La cosa inaccettabile per un ruvido è che qualcuno, modesto, consacri la propria devozione ad un qualunque immortale; non è questa la funzione dell’arte e ancor meno del poeta!
Qui ne presento una terza ben diversa dalle altre due, non da meno di loro quanto a disinteresse, anzi più disinteressata ancora in seguito all’ascetica rinuncia ad ogni avvicinamento diretto, alla rigorosa osservanza del mistero, del ritegno, della lontananza che non poteva derivare da timidezza o goffaggine, trattandosi di una donna di mondo, la quale effettivamente rappresentava il mondo per l’eremita di Pfeiffering, un mondo come lo amava lui, e come gli era necessario per sopportarlo, un mondo a distanza, che per intelligente riguardo si tenesse lontano.
Questa donna, emissario femminile, sorto improvvisamente (illusione!) per la gratificazione esistenziale di Adrian, fondava la sua importanza di persona provvidenziale su un equivoco; questo provocherà conseguenze disastrose nella vita dell’artista, poiché aggraverà in lui la desolazione ed il senso di abbandono.
Il ‘mondo’ con la sua ferocia non può essere giustificato o liberato da una presenza estemporanea e bizzarra; per quanto gentile o disinteressata si proclami, la donna che accetta di far parte del mondo, respingendolo, ne finirà stritolata, trasmettendo al beneficiario dell’offerta la sua tragica insufficienza.
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Che ne sarà di Adrian a quel punto, segnato com’è dalla madre e dal primo ed unico approccio con Esmeralda?!
Questa osservazione non tiene conto degli eventuali benefici economici e pratici ad Adrian procurati dall’incontro con Madame Von Tolna.
*
Di questa rara creatura dico quel che so.
Madame de Tolna era una ricca vedova senza figli, rimasta dopo la morte del marito, cavalleresco ma dissoluto, proprietaria di un Palazzo a Pest, di un enorme podere tra il lago Balaton e il Danubio, e oltre a ciò di una villa grande come un castello sulla riva del suddetto lago.
La proprietaria non si tratteneva molto in nessuno di questi luoghi, ai quali non era attaccata e dai quali la scacciavano l’inquietudine e i cattivi ricordi.
Viveva a Parigi, a Napoli, in Egitto, in Engadina, accompagnata da una governante, da un segretario e da un medico personale.
Ci sarebbe da augurarsi (evento, che avrebbe scandalizzato Zeitblom! Su Mann non ne sapremmo indovinare l’effetto!) che sparissero per sempre maggiordomi, amministratori privati, segretarie e medici personali.
Che una simile creatura femminile (per quanto misteriosa e indecifrabile, resta esemplare come summa di tutte le possibili nefandezze della proprietà e della distinzione in grazia dell’ozio!) si faccia ambasciatrice dell’opera musicale di Adrian Leverkühn, raggela lo spirito e intristisce la sensibilità.
Pei rivudi non esistono creature di conforto, vaganti tra le plaghe dell’essere come vestali della protezione. Oportet nos esse patientes!
Si venne a sapere che era stata presente, senza farsi notare, ovunque si era osato eseguire qualche musica di Adrian. Ma conosceva anche Pfeiffering, come si seppe per caso; in silenzio aveva preso nota del paesaggio, dell’ambiente di Adrian; era stata, se non erro, addirittura sotto le finestre della stanza dell’abate, e si era allontanata senza farsi vedere.
Serenus è traboccante di commossa (religiosa!) devozione; ne è talmente 207
rapito che forse si inventa di sana pianta la visita a Pfeiffering, il suo transitare sotto le finestre del musicista; se veramente avesse voluto accertarsi, bastava chiudere notizie alla signora Else.
L’appassionato biografo ci comunica che questo Nume dell’assenza (unico modo per farsi accettare da Adrian! Fiuto femminile inconfondibile, che in situazioni come questa possono anche definirsi furbizia!) conosceva i posti, dove il compositore aveva trascorso l’infanzia e la prima giovinezza, non che dove era stato per quasi un anno in Italia, cosa non molto difficile, data la consuetudine di madame con la città di Napoli.
Madame de Tolna non si era limitata a questo, desiderava infatti raggiungere una sorta di congiunzione siderea con l’immortale amico; per questo gli spedì, legame cosmico, un anello prezioso.
Ci risparmiamo la descrizione del gingillo favoloso, che era appartenuto ad un Prìncipe della Chiesa, ci preme soltanto avvertire che sopra vi erano incisi dei versi di Callimaco.
Zeitblom ci riferisce che Adrian si entusiasmò nel ricevere l’anello.
Pensava forse (si chiede l’umanista e biografo) che l’anello è simbolo di legame, di catena, persino di vassallaggio?! No, non ci pensava affatto!
Constatazione, che un poco ci rasserena, in quanto ci lascia capire che la gioia di Adrian si fondava su motivi non meschini.
Con esso non si mostrò mai a nessuno, ma seguiva la consuetudine, direi quasi il rito, di tenerlo al dito durante le ore di lavoro. So infatti che durante tutta la composizione dell’Apocalisse portò quel gioiello alla mano sinistra.
Potremmo scorgere in questa bizzarria la volontà sinistra di fare a pezzi il passato suo e dell’oggetto prezioso, che non era mai stato portato da un uomo (costretto o abituato per propria dignità!)a guadagnarsi il pane con la fatica.
Il contatto fisico con quell’oggetto, teste dell’alterigia dei Prìncipi, faceva deflagrare la sua prorompente vitalità, incidendo in lui un segno di forza e di sobrietà, che ne mutavano radicalmente l’uso.
Certamente una simile interpretazione sa troppo di plebeo e di volgare per sfiorare lo spirito educato e gentile del consorte di Helene.
Che ne pensasse seriamente Mann, dopo tanta invenzione, (senz’altro 208
mettendosi sulle tracce del musicista russo Tchaikoski, cantato dal figlio!), è difficile dirlo; sovente ama rintanarsi alle spalle possenti e larghe del precursore.
Adrian non poteva dubitare che fosse a sua disposizione tutto ciò che la mondana ammiratrice dalla sua solitudine poteva dare, quella ricchezza che era un peso per la sua coscienza critica, per quanto ignorasse una vita senza quella ricchezza, né probabilmente avrebbe saputo viverla.
Parlare di solitudine della ‘mondana’ ammiratrice è paradossale; non ci risulta che portasse sotto le seriche vesti il cilicio per mortificarsi delle sue apparizione improvvise nei salotti di gala.
La conclusione di Zeitblom è troppo sbrigativa; se la sua coscienza critica sopportava il dispendio di tanta ricchezza e le cose stavano nei termini descritti (e niente ci autorizza a credere il contrario!), nel concreto del suo comportamento non c’era poi molta differenza tra lei e il consorte, cavalleresco e dissoluto, che aveva avuto il buon gusto di tirarsi assai presto da parte.
Se Adrian avesse voluto, tutto il suo tenore di vita avrebbe potuto mutare da un giorno all’altro, sul tipo di quel gioiello, col quale lo videro soltanto le quattro mura della stanza dell’Abate. Egli lo sapeva, come lo sapevano tutti, ma devo dire che non pensò seppure per un istante a quella possibilità.
Per me è sempre stata un’idea inebriante quella di trovarmi ai piedi un patrimonio ingente, da poter utilizzare per crearmi una vita principesca. Egli invece non si lasciò mai affascinare da questo pensiero.
Se pensiamo che Adrian è teologicamente una preda già certa del Satana, (ai precordi della creazione Lucifero!), o questi è di una morigeratezza monacale o Leverkühn è angelo più innocente dei cantori all’alba del Paraclito, secondo lo straordinario preludio in cielo del Faust di Goethe.
La verità molto più semplice sta nel fatto che l’ebbrezza (quella, che Serenus chiama ubriacatura di una vita da principesca!) è talmente meschina che un artista per rispetto di se stesso e del suo lavoro deve respingere con forza.
In Adrian, lo ripetiamo con altre parole, il rifiuto della ricchezza non è di natura penitenziale; semplicemente non può accettare una superficiale (pur luccicante gratificazione!) che renderebbe impossibile (il marchio del 209
crimine!) il clima sobrio e severo della creazione artistica.
In occasione di una esecuzione musicale a Vienna, nella quale Rudolf Schwerdtfeger aveva suonato il concerto per violino e orchestra composto da Adrian per lui, (in quei giorni avevano avuto una felice collaborazione artistica!), insieme decisero di fare visita alla sontuosa abitazione di Madame Tolna sul lago Balaton. La signora, evidentemente, era assente.
Egli mi disse che il villaggio appartenente alla tenuta era in condizioni pietose, a un livello di vita del tutto arcaico e prerivoluzionario. L’amministratore in persona gli aveva spiegato che gli abitanti mangiavano carne una volta all’anno, a Natale e non avevano nemmeno candele di sego, ma andavano letteralmente a letto coi polli. Voler introdurre cambiamenti in tali vergognose condizioni, alle quali, per consuetudine ed ignoranza, gli uomini erano insensibili, sarebbe stato un atto rivoluzionario, di cui nessuno, ancor meno una dama, poteva assumersi la responsabilità.
Pensiamo che con l’attributo prerivoluzionario Adrian si riferisse alla rivoluzione francese e non a quella comunista del 1919, in Ungheria schiacciata nel sangue con l’indifferenza totale della civile Europa, avvenimento, che non poteva essere sfuggito alla sua sensibilità storica, benché Zeitblom non vi faccia alcun cenno
Per non prendere decisioni rivoluzionarie si preferiva continuare nel delitto principesco di lasciare la popolazione del villaggio, annesso alla proprietà, nell’ignoranza e nella ruggine inumana di una continua sopraffazione, perseguita, a seconda delle circostanze, con raffinata crudeltà o indifferenza.
Conclude Zeitblom:
Possiamo supporre che la vista del villaggio sia stata una di quelle cose, che rendevano penoso quel soggiorno alla misteriosa amica di Adrian.
Egli ci tace obliquamente che, se mai Adrian fosse stato sfiorato un momento dalla decisione di accettare la ricchezza di Madame, di fronte a quello squallore e a quella sciagurata incuria, se ne sarebbe pentito immediatamente.
I dodici giorni passati nella residenza sontuosa non devono essere stati molto felici per il musicista.
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Questo Sane Fitelberg, un tipo ingenuamente indiscreto, era un agente internazionale di musica, un impresario di concerti che, un bel pomeriggio d’estate, (era l’anno 1923), mentre era presente per caso e, precisamente un sabato, si presentò a Pfeiffering e intrattenne Adrian e me un’ora intera con gaie piacevolezze, andandosene senza aver concluso nulla, in quanto si trattava di affari e offerte, ma senza alcun ‘risentimento’.
La mancanza di risentimento è una piacevolezza, che nasconde l’insidia del ricatto, ricatto, che è la massima bontà o beneficenza di questa categoria di mercanti particolari, che sono i dominatori assoluti del produzione artistica, peste bubbonica per i creatori veramente dotati.
Sulla soglia di casa ci venne incontro la signora Schweigestill con in mano un biglietto da visita, parlando con voce spaurita e smorzata. Disse che era venuto un uomo di mondo. Queste parole, dette in un sussurro, come rapida definizione di una persona, che aveva appena fatto entrare, ebbero per me qualcosa di stranamente fantastico e sibillino.
A commentare la pretenziosa definizione doveva forse servire la frase che la signora Else pronunciò dopo un istante: un gufo bislacco. Disse che l’aveva chiamata ‘Scer Madame’ e poi anche petit maman e aveva stretto il ganascino a Caterina; perciò, in attesa che se ne andasse, ella aveva chiuso la ragazza nella sua stanza.
Niente più dei timori della signora Schweigestill (la figlia chiusa a chiave è manifestazione di terrore e raccapriccio!) ci fanno presentire la maschera del manutengolo e del lenone in questo figuro, che a Serenus apparirà addirittura attraente.
E’ evidente che la necessità che fossero presenti come deus ex machina nel mondo dell’arte simili personaggi aveva ormai conquistato, se non convinto, anche il sobrio umanista.
Aggiungiamo che la signora Else era tipo tutt’altro che sprovveduto, in grado, anzi, di reggere con sicurezza ed ironia alla cialtroneria di simili individui; ma quella maschera non rientrava per nessun particolare nel quadro delle sue molte e diverse esperienze. Ne aveva ricevuto insomma una sorta di repulsione; se non lo cacciò, fu solo per rispetto del suo amatissimo ospite, forse anche curiosa di vedere se le reazioni di Adrian avessero confermato la sua.
211
*
Era un uomo grassoccio sulla quarantina, senza pancia, ma dalle membra morbide, con le mani bianche a fossette, accuratamente raso, la faccia tonda con la pappagorgia, le sopracciglia arcuate e ben pronunciate, occhi a mandorla allegri, e pieni di luce mediterranea dentro gli occhiali di corno. Aveva i capelli radi, ma i denti sani e bianchi, sempre in vista, poiché non faceva che sorridere.
Portava un elegante abito estivo fatto su misura, di flanella grigio­azzurra a righe e scarpe di tela e cuoio giallo.
Questo personaggio eccentrico si presenta (egli ha fiutato la qualità straordinaria per il mercato artistico del musicista senza alcuna incertezza!), parlando garbatamente in francese, benché sappia di trovarsi su suolo tedesco.
E’ caratteristica di questi individui di apparire leggeri, un ondeggiare di bianche farfalle, quasi innocuo divagare per meglio folgorare e convincere.
La saligna volontà borghese di complicare e frazionare le funzioni elementari, allontanando dalla centralità degli scopi chi le esercita come mestiere sine qua non, in queste persone traspare con grazia (raffinatezza esteriore!) insidiosa.
Se per farsi conoscere l’artista deve passare per questa vischiosità vanitosa e venale, pensiamo sia utile sospendere il piscio alle immagini, ché tali finiscono per essere in chi (nauseato senza rimedio!) non considera il proprio talento che fonte per spremere laudi e prebende.
­Maître –disse – capisco perfettamente come lei debba essere affezionato a questo grazioso ritiro che ha scelto per suo soggiorno. Oh, io ho già visto tutto: il colle, il laghetto, il paesino et puis cette maison pleine de dignité avec une hôtesse maternelle e vigoureuse!..
Eppure, figurez­vous, io sono venuto per rapirla, per indurla ad un atto passeggero di infedeltà, per portarla attraverso i cieli col mio mantello e farle vedere i regni di questo mondo e i loro splendori. Perdoni il modo pomposo con cui mi esprimo! E’ davvero radicalmente exagéré, specie per quanto riguarda gli splendori.­ 212
Su questo tono da furfante simpatico, da maschera allusiva dell’imbroglio, contegno maligno a fin di bene, egli annuncia svolazzante la sua origine ebraica, i suoi umili trascorsi di bimbo povero ed intona un inno alla sua funzione di amatore artistico delle opere d’avanguardia.
Il mantello e gli splendori di questo mondo sono un rivestimento satanico a scopo dimostrativo: se tu sei Cristo, io sono……
Non ci è descritto il volto di Adrian, ma ce lo possiamo con tutta certezza immaginare.
Fin da ragazzo ho aspirato a qualche cosa di più elevato, di spirituale, di divertente, di nuovo soprattutto, di scandaloso, ma scandaloso con onore e con buone speranze, di quello scandalo che domani sarà il meglio pagato, diventerà di gran moda, sarà l’arte.
Ecco l’annuncio folgorante, la spiegazione esauriente del nuovo mercimonio o bordello, il cui punto di partenza e di approdo sarà la valorizzazione dell’arte ‘scandalosa’, fuori dalle mode di regime.
E non si ferma qui la sua sciolta (sbrigliata!) facondia, oh, no! Cose più feconde e straordinarie nasconde quel suo corpo­sorriso, lepidezza di forme e generosità verbale. Sta là, sullo sfondo, la nobile frode del vendere­acquisire beni artistici.
Da ormai più di vent’anni sto a Parigi. Che crede? Ho frequentato persino un anno intero le lezioni di filosofia alla Sorbona. Ma à la longue mi sono annoiato.
Il ciarlatano si può permettere questa facezia, perché à la longue non riguarda, non ingiuria la musica. Guai, insozzare o anche minimamente invilire questo strepitoso mezzo di fascino e gloria! Solo si tratta, Maestro, di quei noiosissimi personaggi, che sono i filosofi.
Digiuno, però, come vede, non sono di forte e di sana cultura!
E’ la patina­miele, che schiude le porte ed ammalia l’artista, che vuole la gloria, la gran distinzione!
C’è da sentirsi sciogliere (dove, in quale parte dello spirito?! Ahi, la grascia della distinzione!) il lievito dell’esercizio fecondo; ti coglie una sorta di svenimento per nausea e vorresti che simile nunzio del morbo pestifero (esso tutto, l’ingegno pur anche, riduce a merce!) sparisse dai 213
labari della tua vita. Se anche per solo un istante tu avessi davvero pensato di farti portare alla gloria da simili Casanova, (sappiamo di offendere con il paragone il Cagliostro veneziano!), la voglia ti viene insecchita da un morso allo stomaco più doloroso di quello di aspide.
Ma quello è talmente convinto del gioco che insiste.
Ma come ha fatto costui, com’è riuscito, questo piccolo ebreo polacco, venuto dalla provincia, a frequentare quei circoli eletti in mezzo à la crême de la crême? Oh, cari signori, niente di più facile! S’impara presto ad annodarsi una cravatta da smoking, si fa presto ad entrare con nonchalance in un salotto, anche se bisogna scendere di qualche gradino e tener lontano il pensiero che le braccia ti possono dare qualche fastidio. Poi basta dire continuamente: ‘Madame, oh, madame! Que pensez­vous, Madame?
On me dit, madame que vous êtes fanatique de musique’.
Per giungere a quest’ultima fase del corteggiamento, (fase convulsa e piena di trabocchetti, pungente e rivoltante come la trivialità!), il mercante ha bisogno di appoggi, di complicità ed ecco che con genialità diabolica riesce a trascinare nella sua vaporosa scia anche Zeitblom con quel ‘cari signori’, che segna il passaggio, con vigoria affrontato, al meglio del repertorio.
E qui sboccia il fiore rarissimo, il giglio o la rosa inconfondibile della missione.
E quel che più conta, avevo trovato me stesso, perché, come vede, io sono un impresario, lo sono per costituzione, lo sono per necessità; j’y trouve une satisfation et mes délices, col mettere in mostra il genio, nel fargli la propaganda, nell’entusiasmare la società!’
Ora è tutto chiarito; se esiste e si impone un genio artistico è solo perché al suo fianco ne insorge un altro egualmente essenziale, che trasforma in oggetto vendibile, gustabile il gioiello, il quale, per quanto prezioso, senza il ‘mio’ augusto ausilio, resterebbe ignoto à la crême de la crême.
Il profeta delle merce d’avanguardia catechizza l’artista ad essere ‘ragionevole’ nelle sue giuste e divine voluttà di solitudine. Sì, è vero, l’arte ha bisogno di un’aura speciale, ma ha anche bisogno di 214
me, di queste mie doti in natura!
*
Questa è oggi la sana speculazione, sulla quale si basa la mia proposta e il mio invito.
Un tedesco, un Hoche qui par son ingénie appartient au monde et qui ha marché à la tête du progrès musical! Questa sarebbe oggi una sfida estremamente piccante alla curiosità, allo snobismo, alla spregiudicatezza, alla buona educazione del pubblico, tanto più piccante quanto meno questo artista rinnega il suo carattere nazionale, il suo germanesimo, quanto più offre l’occasione di esclamare: C’est bon allemand, par exemple!­
Il fatto straordinario è che questi ciarlatani, quando prendono il volo, perdono il senso della misura e non si chiedono più (d’altra parte, come potrebbero, tanto naufragano nelle bianche atmosfere dell’ottimo affare?!) che cosa ne pensi di tanta esibizione il diretto interpellato.
Noi conosciamo Adrian abbastanza bene per sentirne passo a passo, momento per momento, le reazioni interne.
E’ anche innegabile che questi affamati di opere geniali e paradossali da gettare in pasto alle belve, in una sorta di gara alla carneficina, hanno un fiuto infallibile per avvertire, dove pende la fellonia della feccia.
Fitelberg, nonostante la sconfitta militare, sente con l’istinto, con i nervi che ancora qualcosa di più fetido ed ignobile sta germogliando nei meandri dello spirito alemanno; quello, a cui non riflette a fondo o, almeno, con più di cautela (sarà questa falla a farlo fallire!), è cosa in concreto dei tedeschi, del pangermanesimo e della guerra pensi il suo interlocutore.
I suoi temi constano quasi esclusivamente di valori pari, di mezzi, quarti e ottavi, sono magari sincopati e legati da una battuta all’altra, ma persistono talvolta in una goffaggine talvolta meccanica, martellante insistente e priva di eleganza.
C’est hoche dans un degné fascinant! Non creda che io voglia fargliene un appunto! E’ semplicemente, énormément, caractéristique e in quella serie di concerti di musica internazionale che sto preparando questa nota mi sembra assolutamente indispensabile.­
Fitelberg ha imparato assai bene a incollare i tanti giudizi critici, che legge 215
sulle riviste specializzate e ha fiutato ancor meglio i gusti e le reazioni del pubblico, che rileva direttamente o desumendoli dalle tante gazzette, più o meno serie, più o meno popolari, più o meno scandalistiche.
Ne esce un miscuglio, dal quale come eureka entusiastico sorte quello hoche, riferito alla musica di Adrian, sviolinata cortese, deferente e liberamente franca, quasi a insinuare:
Certo, sei grande, fai bene a star sulle tue, ma non sei molto ben visto dalle conventicole e dai critici à la page! Hai bisogno di me, grand Maître!
Solo io conosco il pubblico, ne coltivo i gusti e le manie e so far scoppiare tra le sue mani i fuochi d’artificio della musica contemporanea! Il pubblico è un goloso, un voluttuoso e io solo conosco gli ingredienti giusti per saziarlo!
Ma anche a questo proposito commette un errore irreparabile, non fiuta che Lerverkühn è artista del tutto indifferente alla critica, decisamente convinto delle sue composizioni e del suo stile, in totale armonia con se stesso, nonostante la persistenza intrigante del demonismo teologico.
Lei rifiuta di accompagnare i suoi Lieder? Capisco! Cher Maître, je vous comprends à demi mot! Non è nel suo carattere fermarsi alle cose compiute. Per lei la stesura di un’opera è già la sua esecuzione; quando l’ha scritta, ha bell’e finito! Come la capisco! Ma c’est dommage, pourtant! In questo modo i concerti ci scapitano! Perché perdono l’attrattiva personale! Cercheremo un chef d’orchestra di fama mondiale e non c’è bisogno di cercare a lungo! Se lei, Maître, vorrà essere almeno presente, intervenire e mostrarsi al pubblico, nulla sarà perduto! Tutto sarà guadagnato! Questa almeno è la condizione: ah, no? Lei non mi deve affidare l’esecuzione della sua opera in absentia! La sua presenza personale è indispensabile, particulièrement a Paris, dove si creano le fame mondiali in tre o quattro salotti. Che cosa le costa dire almeno alcune volte: Tout le monde sait, madame, que votre juge musical est infaillible?­
‘Ah, no, lei non mi deve affidare..’ un tocco magico; qui, carissimo, non ti puoi più tirare indietro! Non è tanto il direttore che conta, hai ragione, maestro, sono io, il mio fiuto infallibile! Il direttore è una necessaria presenza, (necessità, che agevola il successo!), scivolerà fuori assai presto e nel pubblico resterà il profumo sia pure un po’ hoche (mi soccorrono i baffi di sego degli alemanni coristi del Giusti là, in Sant’Ambrogio!) del 216
nuovo concerto, strepitante e strepitoso.
Ma ritorna in cauda venenum il refrain delle laudi a madonna, anfitrione parigina, mezzana di gloria a chi sa nel salotto compungerla, chiuderla dentro la chiostra dei denti, servile! Questo ambiente, questa Pfeiffering e l’incontro con lei, Maître, contribuiscono non poco a farmi comprendere l’indifferenza, lo sprezzo che ho per quel mondo pieno di frivolezze e di superficialità. Dites­moi donc, lei non è di Kaisersarschern sulla Saar? Che nobile e degna origine!
Il ruffiano non ha potuto non vedere sulle labbra di Adrian trascorrere pungente e insolente un aperto riso di scherno e guizzare tra le sottili rughe della fronte l’ira dell’artista offeso, gravemente ferito.
Corre immediatamente ai ripari e si finge con lui d’accordo, dolorosamente d’accordo, sulla frivolezza dei salotti e delle dame parigine e se ne mostra disgustato al punto di correre là nella nobile Saar, in quella cittadina medioevale ricca di opere e di silenzio, che ha avuto la gloria di dare i natali a simile genio musicale!
Oh, ci fosse concesso ogni volta di esprimerci con la semplicità delle nostre vere origini!
*
Gli uomini eminenti dell’esperienza europea e dell’esperimento artistico sono tutti miei amici e sono pronti a diventare anche i suoi.
Possibile che mi lasci scorgere sul suo volto una certa resistenza anche contro ciò? Ma le garantisco, cher Maître, ogni timore, ogni embarras è assolutamente fuori posto, qualunque sia l’origine dei suoi sentimenti di eremita…
Questa Pfeiffering, ce refuge étrange ed érémitique avrà la sua interessante importanza spirituale…Può essere questa una ragione d’embarras di fronte a un mondo di illimitata spregiudicatezza?
Lo sguardo gelido di Adrian trafigge senza più mezzi termini la pelle mercantile del cialtrone, che sente la sua sicurezza franare; egli tenta di strozzare sul nascere ogni senso di vergogna; il suo unico intento è di fare l’affare, piegare l’artista alla bontà dell’affare!
Non saremmo onesti, se addebitassimo tutta al mercante la miseria di certa avanguardia del novecento, come sembra ‘brillare’ da queste pagine; 217
certo, Fitelberg è un ‘avventuriero spregiudicato’, ma qualcosa deve pur avere bevuto, capito, intuito, anche esagerando, accettiamo, ai vari Cocteau, Manuel de Falia e ai Six, se partecipavano alle sue imprese ed accettavano i suoi servigi!
Quando Mann scrive queste pagine i momenti più intensi delle conventicole dell’avanguardia erano trascorsi; ne parla, quindi, a freddo, in un momento in cui impazza la più feroce guerra di tutti i tempi; non è illegittimo leggervi una sorta di irritazione e di disprezzo.
Si sarebbero dovuti affrontare, insieme alle diatribe formali dell’oggettività o della sovversione dei sensi o dell’annullamento della grammatica, dei nomi, dei verbi, degli aggettivi per portare al settimo cielo le interiezioni, i suoni ferocemente inudibili degli strumenti di guerra e della velocità, problematiche ben più importanti ed urgenti per essere pronti a respingere quello, che ormai era furia diabolica, distruzione inumana, condanna della civiltà borghese.
Il comportamento sprezzante di Adrian verso il mercante è il contegno severo, che Mann oppone all’avanguardia; in fondo c’è in queste pagine la convinzione che come lui avrebbero dovuti comportarsi tutti i veri artisti, per condannare ogni compromesso coi nemici dell’uomo.
Avendo intenzione di incoraggiare lei, finisco col disgustare il suo orgoglio, e lavoro ad occhi aperti contro me stesso. Capisco che lei consideri eccezionali la sua esistenza e il suo destino e li ritenga troppo sacri per confonderli con quello degli altri. Lei detesta l’umiliazione delle generalizzazioni e dell’inquadramento.
Il mercante sta per perdere la bussola; si lascia quindi guidare da un astio insorgente che modula, ostentando il massimo rispetto per le bizzarrie esistenziali dell’artista; questi alle insinuazione risponde, rendendo sempre più gelido lo sguardo indagatore.
Sotto, sotto Fitelberg si sta chiedendo: che cosa ti credi?! Anche gli altri agli albori mi trattarono come stai facendo tu! Mi hanno giudicato un impiccione, un pidocchio a petto alla loro maestria, alla loro genialità!
Ma poi, davanti alla possibilità della fama, della circolare della gloria, del concerto mondiale, del salotto buono, della dama compiacente, hanno calato le brache e zaff, io ho colto la bestia al balzo e da pidocchio mi sono trasformato in anfitrione! Adrian a certe suspicioni o batter di ciglio, ad alcune insinuazioni resta 218
semplicemente stupefatto; egli vive nel più profondo silenzio, come uomo e come artista; non ha mai saputo che cosa fossero le beghe tra i compositori, quali li sta descrivendo il mercante; a lui non interessa sapere che cosa pensasse Brahms di Bruchner e viceversa o Wolf di Dostojeski; egli è impegnato a risolvere in termini musicali il dramma storico, quel dramma in cui gli uomini sono trattati da animali feroci e costretti alla brutalità.
Come non vedere che qui Mann attraverso il suo personaggio intende delineare il modo di comportarsi di un artista per non lasciare spazio a simili cialtroni, evitando assolutamente che l’arte si trasformi in ‘merce’ e agendo affinché il rapporto tra creatori d’immagini e suoni non sia costretto nell’afa maleodorante dei salotti e delle femmine à la page!
La serietà dell’artista non ha sbocco nelle ‘illusioni perdute’, straordinaria opera anticipatrice di Balzac, quando si era solo agli inizi del bombardamento mercantile borghese!
Lei forse non sa, Maître, quanto sia tedesca la sua ripugnanza che, se lei mi concede di parlare en psycologue, si compone di superbia e di sentimento di infermità, di disprezzo e di paura, e direi quasi di risentimento della serietà contro il salotto del mondo.
Noi ebrei abbiamo tutto da temere dal carattere tedesco, qui est essentiellement anti­sémitique.­
Il cialtrone ha ormai perduto ogni speranza per l’affare; l’artista si è mostrato inavvicinabile e non penetrabile neppure sollecitandone la vanità; a questo punto semina a piene mani il suo veleno, la maldicenza, l’animo vendicativo, che, non dando importanza all’antisemitismo connaturato a certo spirito allemand, si ritorcerà contro la sua razza, rischio, che egli certamente anticipa, ma da un punto di vista culturale, accademico.
Forse ha intuito che Adrian è tutt’altro che teutonico o wagneriano ed allora insiste per farlo scoppiare, reagire, sentirlo almeno parlare!
I tedeschi dovrebbero permettere all’ebreo di farsi mediatore tra loro e la società, di fare il manager, l’impresario del germanesimo. Egli è veramente l’uomo per farlo; non bisognerebbe cacciarlo fuori dalla porta, poiché è internazionale ed è filotedesco.
Mais c’est en vain! Et c’est très dommage! Ma che sto a parlare? Sono via da un pezzo…Cher Maître, je suis enchanté. J’ai manqué ma mission. Ma 219
sono entusiasta.
La confusione tra la mediazione artistica e quella universalmente tedesca della razza è un colpo geniale in questo capitolo, già per se stesso straordinario e diventa tanto più tragica, pur anticipata da un grottesco profeta, in quanto ciò che i nazisti faranno sarà la piena realizzazione di questa preveggenza. C’est dommage!
Gli ebrei usciranno dalla porta e dagli sfiatatoi dei forni crematori ed i tedeschi vedranno interrompersi per sempre i loro sogni di predominio mondiale!
Che sia un ciarlatano polacco­ebreo a tenere a battesimo il progetto ‘ambizioso’ rende ancora più trasparente lo stato di decadenza della borghesia tedesca e sullo sfondo quella europea.
Mann in questo capitolo è spietato nel mettere a nudo le meschine quérelles tra gli artisti, i cui aneddoti di vanità, di reciproco disprezzo ed insulti fanno felice soltanto la maligna compiacenza di mercanti e salotti.
Mann a questa scioperataggine indegna e sciagurata oppone la serietà del ‘suo’ artista che a questo punto si eleva a ‘manifesto’ di ciò che l’arte dovrebbe essere per non trasformarsi in merce alla mercé dei furfanti, scadendo a una delle tante ‘illusioni perdute’.
*
Non posso pensare a quell’ibrido prodotto (il concerto per violino e orchestra, composto da Leverkühn) senza ricordare un colloquio che si svolse in casa del fabbricante Bullingher nella Widenmayestrasse di Monaco.
Zeitblom passa in rassegna gli invitati al pranzo di Bullingher, sottolineando che, pur avendo accettato a malincuore di presenziarvi, Adrian finì per trovarsi a suo agio per tutta la serata.
Mentre erano eseguiti alcuni brani musicali, tratti dal Faust di Gounod, una signora fece notare che forse al caro musicista quella melodicità non era affatto gradita.
A questo punto Adrian interviene.
­Voi avete troppo poca opinione della mia preparazione musicale. Nella mia prima giovinezza ebbi un maestro, un uomo che era pieno di tutte le musiche del mondo e di entusiasmo traboccante per esse, troppo innamorato 220
di qualunque rumore organizzato perché si potesse imparare da lui qualche specie di alterigia o di superbia in fatto di musica.­
Sembrerebbe che la frase ‘rumore organizzato’ sia una forma di disprezzo per chi non sa distinguere all’interno della musica il grano dalla pula; di fatto è un’espressione amara, di una feroce ironia contro tutto l’apparato tecnico, che sta portando la musica nella più greve disarmonia del caos.
La signora è stata troppo stolida, ma non senza una qualche ragione, ragione che non è del tutto assente in Adrian, sebbene educato alla totalità musicale da un maestro entusiasta, di cui abbiamo apprezzato la vivacità e la profondità.
La eccessiva melodia ha sempre un poco fatto storcere le labbra ai buoni palati dell’armonia ‘organizzata’!
­Ma per lui la musica era musica, purché fosse tale; obiettava che anche il facile è difficile, quand’è buono, e che può essere buono altrettanto quanto il difficile. Un poco di questo principio mi è rimasto appiccicato; certo, l’ho sempre inteso nel senso che bisogna essere buono conoscitore del difficile e del buono per misurarsi col facile.­
L’ammissione della bontà del facile ci sembra così arzigogolata da diventare equivoca.
La signora, che ha posto l’accento sulla sua fama di musicista difficile, a questo punto ha ragione di affermare di aver colto nel segno: “se c’è in lei dell’ammirazione per le melodiche pagine di Gounod, è solo per il fatto che ella riconosce a Gounod una certa profondità!”
E questo deve aver fatto bene a lei, così deliziata dalle arie del francese.
­Per caso – continuò Adrian – non avrebbe nella sua collezione l’aria di Dalila in re bemolle maggiore del Sansone di Saint­Saëns!­
­Io? Io dovrei non avere quell’aria? Caro mio, che cosa pensa di me! Eccola qui e non per caso, glielo posso assicurare!­
­Ah, benissimo! Il mio Maestro, deve sapere, organista, appassionato di fughe, aveva veramente un debole per questo pezzo!­
L’ago attaccò. Bullingher si girò sopra il grande coperchio. Dall’imbuto proruppe un superbo 221
mezzosoprano che non badava molto alla buona pronuncia.
Adrian chiede di sentire quest’aria per rispetto del Maestro o perché è gradevole al suo orecchio?!
Ma Saint­Saëns non è Gounod. Se, per Leverkühn un autore, che conosce le cose difficili, ma può permettersi, proprio per questa consapevolezza, di comporre arie facili, è Saint­Saëns, il sospetto che Gounod sia un gaudente superficiale rifa capolino nello spirito della signora, che arrossisce. L’aria di Dalila commuove tutto l’uditorio; una signora si asciuga apertamente una lacrima, estraendo un fazzolettino ricamato.
­Insensatamente bello!­ Esclamò Bullingher. L’esclamazione bizzarra scatena l’allegria di Adrian che, in situazioni simili, reperisce sempre in sé uno spunto dissacratorio, quasi effervescenza goliardica sulla soglia immaginifica del bordello.
­Questa, dice, non è certo bellezza spirituale, ma bellezza semplicemente sensuale!­
Questo giudizio sembra dare un senso concreto, inconfondibile all’avverbio 'insensatamente' di Bullingher.
Non è difficile immaginare il disagio dell’uditorio alto­borghese alla voce ‘sensuale’ sulle labbra del più raffinato e spirituale musicista a loro noto; per quel consesso l’espressione di Adrian ha quasi il sapore di una bestemmia sulla bocca di un porporato.
­Del sensuale non bisogna avere né paura, né vergogna!­
Stupore generale! Un’affermazione di tale natura era fino a quel momento inconcepibile, pronunciata dal solitario Leverkühn.
L’occhio di Adrian trafigge la combriccola e corre a pungere lo sguardo confuso della sua interlocutrice. Non condannare l’ebbrezza, che ti viene spontanea dal baccanale dell’arte! Ne godi, Esmeralda!
­Nell’arte forse sì!­ intervenne il dottor Kranich, il direttore del gabinetto numismatico. ­In questo campo si può o si deve aver paura o vergogna di ciò che è esclusivamente sensuale, perché esso è volgare, secondo la definizione del poeta: volgare è tutto ciò che non 222
parla allo spirito e non suscita altro interesse, se non quello dei sensi.­
­Parole nobili ­ soggiunge Adrian ­ E’ bene ascoltarne l’eco per un po’ prima di fare la minima obiezione.­
Dovessi parlarti a grugno duro, cialtrone, ti inviterei a riudire nel cerume dell’orecchio fesso il fantastico torbido della voce femminile e in tanta gaudente lezione affogare ti farei nel brago del tuo nobile spirito!
Fu un guizzo però subitaneo; la bianca visione sarcastica subito si spense e vide ai suoi piedi la buona società, che aspettava dalle sua voce la parola suprema della verità musicale.
*
­L’idealismo non tiene conto del fatto che lo spirito non accoglie soltanto le cose spirituali, ma può essere profondamente commosso dalla malinconia animale della bellezza sensibile.
In fin dei conti Filina non è che una sgualdrinella, ma Wilhelm Meister, che non è molto lontano dal suo autore, ha per lei un rispetto che nega apertamente la volgarità dell’innocenza sensuale.­
Adrian, dopo aver definito Filina una sorta di sgualdrinella, le riconosce una innocenza sensuale, che certamente scandalizza il raduno di benpensanti, soprattutto la parte maschile, quand’anche di bordello sia praticante o vi inclini.
Del resto Adrian, quanto più si isola nella sua cosciente ricerca di soluzioni musicali al dramma dell’arte contemporanea, alla tragedia soprattutto dell’uomo borghese, cui è costretto comunque a rivolgersi in mancanza della presenza del popolo, se non per voci troppo sottili e troppo isolate, tanto più affronta con serietà l’esistenza in tutti i suoi gradi e soggetti; in queste condizioni non tradisce più alcun sgomento demoniaco, non sente più la sensualità come depravazione o caduta e sa affrontare con profondità illuministica ed autorità morale tutte le situazioni. Si sente, in una parola, libero (leggerezza sublime!) dalle superstizioni teologiche.
L’intimità con la sua parte satanica viene dalla maturità artistica ed umana del tutto cancellata. ­La condiscendenza e la tolleranza verso l’ambiguità ­ replicò il numismatico ­ non furono mai considerate 223
tratti esemplari nel carattere dei nostri poeti olimpici. Del resto vi si può scorgere un pericolo per la civiltà, quando davanti alla volgarità sensuale lo spirito chiude un occhio.­ ­Evidentemente abbiamo idee diverse sul pericolo!­
Che pensa Zeitblom, sentendo con tanta fermezza l’amico affermare pubblicamente che il pericolo per lo spirito non è Filina, la sgualdrinella, (quindi, neppure Esmeralda, benché pregna di germi, i piccolini insidiosi!), ma ben altre porcherie ideali rispettate, se non idolatrate, dalla civiltà?!
La guerra, ad esempio; la miseria delle masse, ad esempio; la messa in silenzio della corruzione e degli errori tragici dei comandi militari e politici, ad esempio; la disperante cecità di una cultura, che dopo la barbarie di un conflitto mondiale senza precedenti, reso ancor più terribile dai prodigi della tecnica, (applicazione degenerante del genio scientifico!), continua a scodinzolare melliflua, goliardica ed aristocratica, senza il minimo ripensamento e il più piccolo rimorso, più tragico esempio.
­Dica addirittura che sono un pavido!­
­Dio guardi! Un cavaliere della paura e della macchia non è affatto un vigliacco; è appunto un cavaliere. Quanto a me, vorrei spezzare una lancia in favore di una certa larghezza nella moralità artistica. Che cosa rimane di tanti suoni, se vi si applica la più rigorosa misura morale e spirituale? Un paio di puri spettri di Bach e forse non rimane niente che valga la pena di ascoltare.­
Si salverebbe da questo incendio iconoclastico di tutta la musica universale soltanto il cavaliere, sì, il folle Parsifal, alla caccia del Sacro Graal, tazza aurata, dal cui fondo gli apostoli bevvero il sangue di Cristo; cavaliere, purificato dall’immersione purificatrice nel grembo della Venere della polifonia wagneriana!
Non ci si scordi che poco prima questi cultori purissimi della cultura assoluta ed olimpica, nemici giurati di ogni volgarità plebea, di ogni sensualità da bordello operaio, si sono commossi nell’ascoltare un’aria di Saint­Saëns, che è un incendio di musica sensualmente melodica, di grandissima seduzione.
A loro Adrian volge il suo signorile sarcasmo; è stata data loro dimostrazione diretta di quanto lo spirito non si scandalizzi per così poco.
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Lo spirito, sembra suggerire, è molto intimo della carne, se non viene stuzzicato da ignave paure; la musica stessa, se non vuole sconfessarsi e finire nell’empireo del graduale gregoriano, incarna la quintessenza delle passioni e quando tenta schifiltosa di uscirne, mette in moto soltanto degli spettri, dei rumori, che gli stessi uccelli dell’aria disprezzano.
Qui, però, ho inserito questa scena di società non solo perché ne sentivo profondamente i rapporti col concerto al quale Adrian lavorava in quel tempo, ma anche perché già allora intuivo i rapporti col giovane per le cui insistenze il pezzo era stato scritto e per il quale doveva significare in vari sensi un successo.
Ecco come il civilissimo umanista Zeitblom riduce l’intervento di Adrian, nel salotto di Bullingher, a una sorta di battibecco per difendere il concerto per violino e per orchestra, ‘sensualmente’ composto per le insistenze mondane (il successo e la liberazione dai vincoli insopportabili di Ines Rodde!) del giovane (quanto giovane?!) Rudi Schwerdtfeger!
Esiste una lettera che Adrian scrisse a Schwerdtfeger al tempo circa di quella conversazione serale in casa Bullingher e che Schwerdtfeger avrebbe dovuto naturalmente distruggere, che conservò invece, sia per affetto, sia per avere un ricordo e un trofeo. Mi guarderò dal trarne qualche citazione e dirò soltanto che si tratta di un documento umano, simile all’atto di chi mette a nudo una ferita e nella cui dolorosa franchezza lo scrivente vedeva forse un grande ardimento che, invece, non c’era.
Ma bello era il modo con cui si scoprì che non c’era. Immediatamente, senza alcun tormentoso indugio, il destinatario andò a fare una visita a Pfeiffering, dando l’assicurazione della più accesa gratitudine, manifestando un contegno semplice, ardito e fedelmente delicato, inteso soltanto ad evitare ogni senso di disagio. Suppongo che in quel giorno fu decisa l’elaborazione e la dedica del concerto per violino.
Che cosa vuol farci credere Zeitblom?!
Che il concerto per violino e orchestra con dedica a Rudi Schwerdtfeger fu la liberazione per Adrian di una passione amorosa, dall’altro furbescamente evitata, ottenendone come compenso una gratificazione artistica, che tanto a lungo aveva sollecitato senza risultato?!
Che, per tanto, l’allargamento della sensibilità, sostenuto con tanto ironico 225
calore durante la riunione da Bullingher, non fu che la difesa personale di un sentimento amoroso, a cui inopinatamente, considerato il suo severo spirito teologico, aveva ceduto?!
Il sospetto resta irrisolto da un punto di vista puramente esteriore; Adrian in quel periodo stava rivalutando alcune situazioni particolari dell’animo e della sensibilità umana; la lettera a Rudi era uno degli effetti benefici della sua liberazione dal complesso materno e forse fu anche il tentativo di allungare all’amico violinista una mano, che lo salvasse dal gorgo pericoloso, in cui si era avventurato, accettando la relazione con Ines Rodde (benché da qualche tempo interrotta!) che incombeva su di lui come una minaccia da non prendersi troppo leggermente.
226
*
Negli ultimi giorni del 1924 ebbero luogo, a Berna e a Zurigo, repliche del trionfante concerto per violino in occasione di due manifestazioni dell’orchestra da camera svizzera, il cui direttore, Paul Sacher, aveva invitato Schwerdtfeger a condizioni molto allettanti, non senza esprimere il desiderio che il compositore conferisse a quelle esecuzioni un lustro particolare con la sua presenza.
Adrian si peritava, ma Rudolf seppe piegarlo e il giovane ‘tu’ ebbe allora efficacia sufficiente per spianare la strada a ciò che doveva accadere.
Il giovane ‘tu’ ha offeso e continua ad offendere l’umanista Zeitblom, il quale, per giunta, non è invitato a quei concerti.
Serenus vi fiuta la tragedia e si prepara, pur corrucciato ed un poco scontento, a narrarne le fasi salienti e l’epilogo.
‘Ora racconto, ora racconto!’ Sembra sussurrare, ringalluzzendo la nostra curiosità.
Ci chiediamo se non stia attrezzandosi a coprirsi le spalle con la lussuosa zimarra, così necessaria a Wagner nel pieno dello sforzo creativo.
Io ne ero escluso. A Zurigo fu invece presente Jeanette Scheurl, la quale si trovava per caso in quella città e incontrò Adrian anche nella casa privata che ospitava lui e Schwerdtfeger. Si trattava di una casa nella Mykhenstrasse, vicino al lago, appartenente ai signori Reiff. Questa coppia aveva invitato Schwerdtfeger ancor prima che il suo nome comparisse sui giornali, perché il vecchio industriale, a riposo, era sempre il primo informato sugli avvenimenti musicali. L’invito era stato subito esteso ad Adrian, non appena si era saputo della sua venuta.
Durante un pranzo Adrian siede a fianco di Mademoiselle Marie Godeau che, ci informa Zeitblom, straordinario guardone, aveva i più bei capelli neri del mondo, neri come giada, come catrame, ma animati da uno sguardo aperto e limpido pur nella sua oscurità, sotto due sopracciglia dal disegno sottile e regolare indipendente da ogni trucco, come il rosso moderatamente vivo delle sue labbra.
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C’è qui un’ammirazione, non di Adrian, ma di Serenus, che sfiora lo stupro.
Che cosa vuole l’umanista, sottrarre l’amico alle spire pericolose della seduzione?!
Ma non sei contento, amico, che il tuo adorabile compagno si liberi dalla prigionia, a te sufficientemente equivoca, del violinista e zufolaro?!
Si capirà che io cerchi di evocare con amore e diligenza l’aspetto della donna con il quale Adrian pensò per breve tempo di ammogliarsi.
Ammogliarsi con l’aspetto (non abbiamo motivo di pensare che la traduzione sia infelice!) è una perla di rara efficacia per capire in quale stato psicologico si trovasse Serenus Zeitblom, l’escluso!
Marie Godeau era disegnatrice e faceva bozzetti per i teatri d’opera secondari di Parigi, ‘inventando ed elaborando figurini, costumi e scenari, che servivano più da modelli ai sarti e ai decoratori.’
Che cos’ha, secondo le testimonianze di Serenus, questa creatura per affascinare Adrian al punto da suggerirgli un’eterna unione, scordando definitivamente i suoi fasti tenebrosi di teologo, più intimo di Satana che di Jhavè?!
Aveva una voce da cantante che, per essere precisi, aveva il tono e il colore della voce di Elsbeth Leverkühn, a tal segno che in certi momenti pareva davvero di sentire la madre di Adrian.
Eccoci arrivati al punto di non­ritorno; ecco il perché dell’aspetto e non della donna.
Non ci si può non chiedere se siamo all’interno di una realtà o non piuttosto trascinati nel cerchio magico­infernale di una ricostruzione del tradito Zeitblom quasi vendetta!
Tutte le ipotesi sono possibili e legittime; il vero protagonista non sale mai alla ribalta, sta dietro le quinte e lascia che le sue ‘figure’ si incrocino e accapiglino a pieno capriccio.
Quando Schwerdtfeger, che doveva ritornare il giorno dopo con Adrian a Monaco, accomiatandosi espresse la viva speranza di potervi incontrare le signore, Marie aspettò un istante, finché Adrian ripetè quel desiderio e confermò poi amichevolmente.
Il giovane (quanto?!) Rudi o Rudolf, sibillino accalappiatore del ‘tu’ 228
confidenziale (il solo secondo ‘tu’ concesso dal musicista ad di fuori della cerchia femminile!) è davvero (sospetto di Serenus) lo sciagurato apripista di Adrian verso i declivi insidiosi della lussuria e del matrimonio?!
Come può il musicista rifiutarsi a quegli occhi di giada?!
Ma ci è anticipato (ora racconto, ora racconto!) che la vicenda avrà un epilogo ben altrimenti idillico, rendendo ancor più inquieto il nostro stato, dopo avere assaporato la gioia di un Adrian, finalmente aperto al gioco fantastico dell’amore per donna bellissima e (ci è lasciato credere!) pura.
Ci sfiora l’allegria della buona novella e siamo propensi a pensare che il ‘tu’, permesso a Rudi, quasi amoroso impeto, sia stato semplicemente una sorte di ‘precursore’.
Le prime settimane del 1925 erano passate, allorché lessi sul giornale che la bella compagna di tavola del mio amico a Zurigo era giunta nella nostra capitale.
Non saprei descrivere l’eccitazione con la quale aspettavo quell’incontro. Attesa, curiosità, gioia, angoscia si mescolavano nell’animo mio con la più profonda commozione. Perché? Non, o non soltanto, perché Adrian, dopo il ritorno da quel suo viaggio in Svizzera mi aveva parlato tra l’altro del suo incontro con Marie e mi aveva descritto la sua persona includendovi la pacata osservazione che la sua voce assomigliava a quella di sua madre, ma anche perché altre cose mi avevano fatto stare in orecchi.
Zeitblom, quasi a sostituire Elsbeth, circuisce l’amico, impedendogli, per quanto in suo potere, di uscire dal cerchio, in cui si è imprigionato per fedeltà al patto terribile.
Sembra che per l’umanista le vicende si assiepino attorno alla sensibilità di Adrian quasi vani fantasmi; il suo destino non ha sbocchi aldilà dell’infernale condanna all’aridità degli affetti.
E’ attraverso questo travestimento che Mann fa del suo eroe il simbolo della Germania di Weimar, in procinto di cadere nell’orrida gola del mostro nazista?!
Per noi, ruvidi, Adrian è persona viva e indipendente; ha propri diritti di scelta e di sganciamento totale dalla rete, tesagli dal suo biografo.
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Il fatto che compiva i quarant’anni, disse, era un monito abbastanza grave e un invito a trovarsi una compagna. Io decisi di non chiedere altro e di stare a vedere.
A me stesso non celai la gioia al pensiero che quell’intenzione avrebbe sciolto il suo legame con Schwerdtfeger ed ero propenso a considerarlo un mezzo scelto da lui consapevolmente.
Quel virtuoso del violino e del fischio?! Era una questione secondaria e poco importante, dato che quegli era già arrivato alla meta della sua puerile ambizione e aveva ormai il suo concerto in tasca.
Zeitblom dimentica con brutale gelosia che il viaggio di Adrian e di conseguenza l’incontro con Marie Godeau si dovevano proprio alle iniziative del tanto insidioso Rudi Schwerdtfeger.
Ci sono nel sospetto di Serenus un’incongruenza e una malignità; perché Adrian, per sciogliersi dal legame di collaborazione musicale con Rudi, avrebbe dovuto consacrare la sua vita ad un legame molto più impegnativo?!
Che vuole dire Zeitblom?! Che Adrian era fortemente adirato con se stesso per aver dato tanta intimità al violinista?!
Gli abissi dell’animo umano sfuggono spesso alla stessa perizia del cultore di immagini.
Mi frullava in capo la strana maniera che Adrian aveva di parlare del proprio proposito, come se l’attuazione di esso dipendesse solo dalla sua volontà e come se non fosse nemmeno il caso di preoccuparsi del consenso della fanciulla. Per parte mia ero propenso ad approvare una coscienza di sé che credeva di non aver che scegliere! Di poter far valere soltanto la sua scelta! Tuttavia avevo in cuore un vago sgomento.
Le conseguenze dell’ autosuggestione sono pesanti anche per chi ci sta vicino.
Partendo dall’idea che Adrian si era deciso a legarsi con giovane donna francese per liberarsi dalla corte puerile di Schwerdtfeger, Zeitblom trasforma l’amico in uno zerbinotto tanto sicuro di sé, del suo fascino da non preoccuparsi del consenso di colei, che dovrebbe accettarlo come marito ad occhi chiusi.
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Si tratta di sospetto decisamente fuori luogo e poco rispettoso della consapevolezza dell’amico, che si era deciso a quel passo per la chiara predisposizione di mademoiselle Marie per la sua persona.
Quanto mi piacesse si può desumere dalla descrizione che ho fatto di lei più sopra. Ero felice di immaginarla compagna di Adrian ed ero certo di comprendere il sentimento che gli ispirava.
Non l’amava egli forse nell’atmosfera dei suoi oratori, creata dalla teologia musicale e dalla magia matematica dei numeri? Liete speranze sorgevano nel mio cuore, vedendo le due creature entro lo stesso ambiente, benché le vedessi insieme solo per fugaci momenti.
Mademoiselle Godeau porta il nome di Maria, di colei, che schiaccerà definitivamente il capo al serpente, seduttore della femmina umana, nella parusia del giudizio universale. Per la verità un poco tardi nell’economia della salvezza e della grazia, benché questa risultasse la volontà del Supremo Teologo!
Ella, inoltre, avrebbe per sempre purificato le tracce insane d’Esmeralda e dei suoi insidiosi piccolini, così rapidamente scivolati nelle tenebre del cervello di Adrian.
Marie sembra a Serenus l’angelo, nato come folgore dalla mente divina (in verità, dalle conoscenze teologiche di Adrian!) per dissolvere definitivamente le tracce del ‘Lui’, ciarlatano venditore di ricchezze armoniche gelide e inumane.
Non ci si faccia osservare che in questo momento della vita di Leverkühn Serenus non conosceva lo scritto, in cui era narrato il suo incontro con il demonio; tutta la biografia è pregna di quella comparsa e delle sue ‘immaginate’ conseguenze!
Zeitblom è succube in ogni momento di quel sortilegio e non è certo propizio alle naturali delicatezze di un cuore femminile, le uniche, che potrebbero cancellare per sempre dal musicista le elucubrazioni teologiche del peccato.
La serata in casa Schlaginhaufen non era una cena, ma un ricevimento alle nove con rinfreschi nella sala da pranzo, attigua al salotto delle colonne.
Un osservatore avrebbe visto insieme con Marie Godeau e con la buona zia più me che Adrian, il quale era certamente venuto per loro, altrimenti non sarebbe 231
venuto affatto, e fin da principio lo aveva salutato con gioia palese, ma poi si era messo a discorrere di preferenza con la cara Jeannette e col deputato socialdemocratico, il quale era un buono ed entusiastico conoscitore di Bach.
Era un sabato sera. Pochi giorni dopo, il giovedì, mi sentii chiamare da lui al telefono.
Che cosa avrebbe dovuto dire a Marie in un salotto signorile Adrian Leverkühn?! Come può sfuggire ad un biografo attento che non un colloquio in una frivola serata mondana avrebbe potuto spianare la via nel cuore di Marie Godeau ad un uomo raccolto e sensibile?!
Per certo entrambi si sorvegliavano da lontano, si compromettevano con gli sguardi aperti, nei brividi d’ombra dei momenti degli impercettibili silenzi, allorché la società nell’ebbrezza del suo distendersi come futile fiato lasciava grandi spazi alla squillante sirena del richiamo d’amore.
*
Quel giorno vidi Marie in camice bianco da lavoro, sopra il corpetto scozzese scollato, che le stava così bene. Restammo insieme almeno venti minuti nel salottino che le due donne avevano preso in affitto. Entrambe si mostrarono molto sensibili all’attenzione che si usava loro e accolsero con gioia il progetto della gita, del quale dissi soltanto che non ero stato io a inventarlo – dopo aver accennato che stavo per recarmi dal mio amico Leverkühn.
Esse osservarono che, senza una guida così cavalleresca, non avrebbero forse mai avuto l’occasione di conoscere i celebri dintorni di Monaco, la zona alpina bavarese. Si stabilirono il giorno e l’ora dell’incontro e della partenza.
Se dobbiamo credere a Zeitblom, l’idea della gita con Marie e con la sua accompagnatrice fu un suggerimento di Rudi Schwerdtfeger, con entusiasmo da Adrian accettato.
Perché questi invia Serenus ad annunciare l’iniziativa?! Non poteva farlo direttamente o insieme al violinista, ideatore del progetto?!
Si tratta di estrema timidezza o di imitazione della solennità evangelica?!
L’evento è davvero tanto serio e impegnativo da necessitare dell’intervento 232
di un precursore?!
Senza la compagnia dell’amico passammo la prima ora di viaggio attraversando il paese ancora piano e gelato. L’ora fu abbreviata da una colazione di panini imbottiti e vino rosso del Tirolo, che la mia Helene aveva preparato e durante la quale Schildknapp fece il buffone, ostentando la paura di rimanere con le porzioni più piccole. La sua avidità naturale, schietta e scherzosamente accentuata, era irresistibilmente comica.
Apprendiamo da quest’ultimo particolare che insieme ad Adrian, il violinista e le due donne era della compagnia anche Schildknapp, la cui avidità di cibo era più che naturale, considerate le sue precarie condizioni economiche e, soprattutto, il periodo nero e di inflazione gigantesca, che stava imperversando sulla Germania in quei primi terribili anni venti.
Intanto io osservavo Adrian che conversava con lei. Si era seduto al fianco di lei, che stava tra Schildknapp e Schwerdtfeger, mentre la zia chiacchierava bonariamente con me e con Helene. Potevo vedere chiaramente quanto egli dovesse guardarsi dall’indiscrezione nel fissare il volto e gli occhi di lei. Coi suoi occhi azzurri Rudolf seguiva l’intensità di quello sguardo, quasi attenzione guardinga, quel modo di volgersi altrove. Non era forse una certa consolazione e un certo modo di renderlo indenne quando Adrian elogiava con tanta enfasi il violinista di fronte alla fanciulla?
Ebbe parole calde di elogio per lo sviluppo artistico di Rudi e in genere per il suo indubbiamente grande avvenire.
Che sta accadendo ad Adrian?! E’ davvero così turbato dalla presenza dell’amico da non osare guardare direttamente negli occhi la fanciulla?!
Oppure nel momento stesso in cui intende affermare il suo interesse per la giovane Marie, vorrebbe anche assicurare l’amico, facendogli chiaramente capire che la nuova situazione non avrebbe mai messo in pericolo la loro collaborazione ed intimità artistica?!
Se lasciamo da parte per un momento le inquietudini e le dolorose 233
oscillazioni psichiche di Serenus Zeitblom, potremmo pensare che Adrian sia impegnato ad avvertire con delicatezza Rudi che Marie Godeau non è Ines Rodde e che il suo legame con lei sarà leggero come le cime nevose delle alpi bavaresi, verso cui stanno salendo.
Leverkühn è consapevole che quella è la sua ultima occasione per mettere alle spalle i terrori teologici del Nemico (la sua stessa educazione religiosa, che il male considera ontologico alla carne!) e per liberare la sua arte dal fardello della madre e del peccato.
Schwerdtfeger, dopo la piccola parentesi del bordello, ha rappresentato il primo gradino verso la letizia del sentimento; si tratta di convincerlo a trarsi da parte, a non rappresentare la zavorra in quel suo volo verso l’amore e l’eterno femminino.
Quanto accadrà, benché sembri paradossale, ha ben poco importanza per Adrian; quello, che conta è quella decisione radicale, la solennità, con la quale il compositore capisce, per quanto dipende da lui, di essere finalmente in grado di dare un calcio a tutto il pesante bagaglio dottrinario. La Godeau aveva letto e sentito parlare dell’esecuzione di frammenti dell’Apocalisse a Praga e chiese informazioni sull’opera. Adrian si schermì: ­Non parliamo adesso di quei pii peccati!­
Rudi ne fu entusiasta. ­Pii peccati!­ ripeté con giubilo. ­Avete sentito? Come parla! Come sa usare le parole! E’ straordinario il nostro maestro!­
E così dicendo stringeva, alla sua maniera, il ginocchio di Adrian. Era di quegli uomini che doveva sempre afferrare e toccare, o il braccio o il gomito o la spalla. Lo faceva persino con me e con le donne, che per lo più lo lasciavano fare volentieri.
Rudi Schwerdtfeger non afferra affatto il senso di quei ‘pii peccati’; Adrian non vuole che si parli davanti a Marie di quella sua opera pregna di livore e di terrore teologico; nelle sue intenzioni la vita con la giovane segnerà l’interruzione con quel passato musicale dai toni grotteschi, suggeriti dall’orrore penitenziale.
Per lui non devette essere stato piacevole sentirsi stringere il ginocchio con tanta familiarità davanti a Marie!
La presenza di Rudi Schwedtfeger in quel quadro di purificazione, sullo 234
sfondo delle Alpi Bavaresi, sta diventando troppo pesante anche per il lettore, non solo per Serenus Zeitblom.
Si tratta di mosse abilissime del Mann più sottile e disincantato, mosse che ci fanno misurare il suo più intimo candore e le più nude ambizioni sentimentali.
*
La pazzia, spiegai, è un concetto molto incerto, che l’uomo meschino maneggia troppo ad arbitrio secondo criteri ambigui. L’uomo così fatto stabilisce il limite del comportamento ragionevole molto vicino a se stesso e alla propria volgarità e ritiene che tutto quanto passa questo limite debba essere follia.
Ora, la vita regale, sovrana e circondata dalla devozione, largamente superiore alla critica e alla responsabilità e, nello sviluppo della sua dignità, consacrata a uno stile che è inaccessibile anche al più ricco uomo privato, offre alle inclinazioni fantastiche, ai bisogni e alle ripugnanze nervose, alle strane passioni e alle aspirazioni di un re, uno spazio così largo che, orgogliosamente sfruttato, può presentare l’aspetto della follia.
A qual mortale, inferiore a questo livello, sarebbe mai concesso di crearsi solitudini dorate di regioni elette e stupende come fece Luigi? Questi castelli sono monumenti di regale misantropia, è vero; ma se nella media delle qualità umane, se non è lecito considerare la misantropia come un sintomo di pazzia, perché dovrebbe esser lecito, quando quel sentimento può esprimersi in forme regali?
Il contrasto di opinioni, circa il diritto di considerare pazzo o meno Luigi II° di Baviera, era sorto tra Zeitblom e Rudi Schwerdtfeger.
Nel difendere l’integrità mentale oggettiva del regnante, adoratore della musica di Wagner, Zeitblom, il nostro umanista, non che professore, (la presenza di Marie Godeau sollecita le interpretazioni più acrobatiche!), non tiene conto che l’essere re non è fine in se stesso, non può quindi sostanziarsi delle proprie chimere, (per quanto ideali o a guglie adamantine!); il suo compito più importante resta guidare tra con costanza e buon senso il popolo.
Ma insorge qui un contrasto di fondo, poiché tra il popolo e l’assolutezza del potere si scava l’abisso; per il ruvido il potere altera la stessa funzione del Re, poiché lo sradica dalla sobrietà del limite, senza della quale non 235
c’è uomo, che riconosca in sé e negli altri la veridicità (la sostanza!) dei bisogni e delle aspirazioni.
Siamo anche noi d’accordo con Serenus che le stranezze non possono considerarsi pazzia ed egli fa bene ad inalberarsi alla convinzione di Rudi che il limite della ragionevolezza sia determinato dalla mediocrità di burocrati ed ufficiali.
Egli supera, però, ogni confine di accettabilità, quando, suggestionato da leggende ed esagerazioni, considera sempre augusta e geniale la misantropia di un re.
Carissimo Serenus, non è compito del monarca avere una tale conoscenza dei sudditi da correggerne le intemperanze, armonizzandoli con una strategia di governo, che procuri la felicità generale?!
Ahi, errore, non ci siamo accorti di descrivere la società comunista!
Questi contadini, vedendolo passare di notte solo solo, avvolto nella pelliccia, alla luce delle fiaccole, sulla slitta dorata preceduta da guardie a cavallo, non scorgevano in lui un pazzo, ma un re secondo il loro cuore rude, ma sognatore; e se fosse riuscito ad attraversare a nuoto il lago, come si era evidentemente proposto, lo avrebbero difeso all’altra sponda con le forche e coi correggiati contro la medicina e la politica.
I contadini dal cuore rude avrebbero certamente difeso Luigi di Baviera non perché re, ma per sottrarlo alle persecuzioni di quella politica di rapina, ch’egli sul trono rappresentava e della quale così solo, in fuga, diventava una vittima.
Il far passare i contadini bavaresi come dei sognatori romantici, può essere una bella favola per commuovere Marie e la zia, ma corrisponde alla realtà come il bordello è la massima espressione dell’amore.
Adrian, chiuso tra i due amici, dei quali uno, stranamente, il più moderato e accademico difende il re dall’accusa di follia e l’altro, artista ed esecutore, approva la condotta di medici e politici, ad un tratto col suo sorriso enigmatico si libera di entrambi, facendo rilevare quanto fosse futile una discussione su di una persona, sia pure re, superata, come prospettiva simbolica dell’autorità illuminata, dalle circostanze politiche militari, che avevano stravolto l’Europa e il mondo.
Ciò, che ha lasciato di amaro e di tragico la guerra, pensa Adrian, dovrebbe aver per sempre consumato ogni tipo di regalità e limitato di molto il fascino del potere e delle élites, che lo manovrano.
236
Oh, affogare nell’occhio ardente e scuro di Marie Godeau!
Contrariamente all’aspettativa di tutti, e con mia tacita e quasi serena commozione, egli non ci lasciò a Valdshut, ma volle accompagnare le nostre ospiti parigine sino a Monaco e a casa loro. Alla stazione centrale si accomiatarono tutti da loro e da lui e andammo per i fatti nostri, mentre egli accompagnava zia e nipote con un taxì sino alla pensione, compiendo un atto di cavalleria che per me si concentrò in questo pensiero: ecco, egli passò le ultime ore di quella giornata nella sola compagnia degli occhi neri.
Per alcune ore Adrian sfugge al controllo (alla seduzione?!) dell’esecutore­
amante, (sino a che punto amasio non ci è detto dal pusillanime Zeitblom!) e soprattutto al fascino torbido della teologia dei demoni; finalmente sta davanti a Leverkühn la nuova stagione creatrice, aldilà dell’Eden e della Geenna, viaggiatore generoso e coraggioso, che esce dalle tenebre per raggiungere laggiù, in fondo, la luce.
Quale potrà essere l’epilogo dell’incontro, Marie Godeau ha aperto nel suo spirito una breccia, da cui sgorga l’acqua benefica del superamento del muro d’ombra, straordinaria espressione del poeta, nato ad Alessandria d’Egitto.
Chi ha la ventura, anche per un solo istante, di attingere quel vertice di scuro azzurro, coronato di bianche nuvole, diventa necessariamente un beniamino dell’essere.
Ma questo non sta nella psicologia di Zeitblom; è fornace segreta dell’artista Mann, che ci permettiamo di cavare dal ‘muro d’ombra’.
237
*
Sulla Germania si abbatte la rovina; tra le macerie delle nostre città vivono i topi, ingrassati di cadaveri; il rombo dei cannoni russi avanza verso Berlino; il passaggio degli anglosassoni oltre il Reno è stato un giochetto di bambini, e pare che tale lo abbia reso la nostra stessa volontà, alleata con quella del nemico.
Un’alleanza spontanea di civiltà, nata dallo stesso ceppo cristiano, fermerà là, a Berlino, le truppe dei barbari sovietici; questo è il sottinteso stolido di Zeitblom e di tutti gli uomini come lui, imbevuti e docili alla ferocia della libertà.
Contemporaneamente al periodo cruciale della Germania nazista, l’umanista si appresta a narrarci un momento nevralgico della vita di Adrian Leverkühn che, per comunicare le sue intenzioni matrimoniali a Mademoiselle Marie Godeau, sceglie come ambasciatore il fratello e quasi amante Rudi Schwerdtfeger.
­Dì in po’, che cosa ne pensi di Marie Godeau?­
­La Godeau? A chi non piacerebbe! Immagino che piacerà anche a te!­
­Ecco, piacere non è la parola giusta!­
Il contrasto tra i due amici si presenta subito insanabile ed è stupefacente che il musicista non s’accorga della balordaggine di scegliere come suo messo il violinista, se pure si professi suo fraterno sodale.
Per Adrian Marie Godeau è la creatura ideale, cui si guarda con l’occhio casto della totalità, della partecipazione assoluta; per Rudi è ‘la’ Godeau, una donna fra tante, forse anche la più interessante, ma pur sempre femmina da coinvolgere nell’atmosfera della sensualità.
Immaginiamoci come sarà suonata nel suo cervello di libertino impotente l’affermazione (colpo di pistola!) di Adrian:
Ti confesso che fin da Zurigo penso a lei seriamente, che mi riesce difficile concepire quell’incontro come un episodio, che il pensiero di doverla lasciar partire e di non rivederla forse mai più mi riesce insopportabile. Sono parole, che schiacciano la sterile leggerezza di Rudi, che tutto si poteva aspettare dal suo Anfitrione artistico, dal suo intimo, ma non questa caduta, imprevedibile caduta nel desiderio carnale per femmina.
­Tu come amico puoi forse augurarmi di passare il resto dei miei giorni in questa solitudine claustrale? Prendimi, 238
ti dico, come uomo in cui, con una certa paura di arrivare troppo tardi, può nascere il desiderio di una casa più calda, di una compagna adatta nel pieno significato della parola, di un’atmosfera, insomma, più dolce ed umana, non solo per averne un certo agio e una certa comodità, ma anche e soprattutto perché la sua voglia di lavorare, la sua energia, il contenuto umano della sua opera futura se ne ripromettono cose buone e grandi.­
Questa confessione così chiara, questo progetto di vita così illuminato sgomentano Schwerdtfeger; esso tutto può accettare, ma non di essere sopravanzato da una femmina, come ispiratrice d’arte!
Reagisce con violenza, accusandolo perfidamente (sordità totale e indegna di un cuore, che non sa amare che se stesso e le sue vanità! E diciamo questo con la più alta considerazione del violinista!) di misconoscere la sua arte passata e presente.
­Finora la tua musica è forse stata disumana? In questo caso dovrebbe la sua grandezza a mancanza di umanità!­
Per Rudi è un’idea insopportabile, perché metterebbe a soqquadro la ragione più profonda del suo equilibrio psichico: la certezza che il concerto scritto per lui, nato dalla loro intimità, sia la più grande opera di Adrian! Opera, che li lega per la vita e per la morte!
­E io non avrei niente a che vedere con l’umanità? E me lo viene a dire uno che con incredibile pazienza mi portò sul piano umano e mi convertì al ‘tu’, uno nel quale, per la prima volta nella mia vita, trovai un calore umano!­
C’è in questo passo una dolorosità nata dalla stizza; la sensibilità di Adrian è ferita crudelmente, più atrocemente di quando il dolore di denti coinvolge tutto il viso dalla bocca alle orecchie, alle tempie con vibrazioni, che sembrano divellere il cranio.
E’ una ribellione a se stesso, alla sua capacità di sopportare la sofferenza e il silenzio degli affetti, una volta scatenati.
La risposta di Rudi vibra in Adrian come una sferzata inaspettata in pieno volto e si tramuta immediatamente nella delusione, quasi disprezzo di sé, poiché gli si sgretola tra le mani la certezza di avere trovato in Rudi l’amico e di essere divenuto per lui il più intimo confidente.
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Nell’aria aleggia lo strano, insipiente ed oltraggioso interrogativo di Schwerdtfeger: Che cosa devi aver tu a che fare con donna?! Lasciale perdere, sono una peste! Permetti che sia io a difenderti dalla fetida lue dell’eterno diabolico femminino! ­Pare che sia stato un ripiego provvisorio!­
Schwerdtfeger con questa frase si rivela di una lucidità insospettata!
­E se fosse così? Se si fosse trattato di un avviamento all’umanità, di una preparazione che non per questo perdesse del suo valore? Nella mia vita c’è stato un tale che con coraggiosa perseveranza quasi superò la morte; uno che liberò il mio fondo umano e m’insegnò la fedeltà. Forse nessuno lo saprà mai e non lo si scriverà in nessuna biografia. Ma sarebbe per questo diminuito il merito? Scemato l’onore che segretamente gli spetta?!­
­Tu sai volgere le cose in modo molto lusinghiero per me!­
­Non volgo niente, le dico come sono!­
La necessità di difendersi da un assalto ben preparato, quasi invincibile, costringe Adrian ad una sopravvalutazione della fama artistica, che profondamente non condivide, ma che fa parte della sua formazione accademica.
Non c’è uomo o donna, che si rassegni a sacrificare un’oncia di felicità presente, pensando alla fama, che gliene verrà in futuro per merito d’altri! Non bisogna giudicare Rudi un individuo meschino, troppo legato al suo particulare; se qui c’è un errore, lo compie Adrian, che non avrebbe dovuto esagerare la sua carica creatrice, punta di superiorità quale fabbro dell’arte sull’esecutore fedele. Nel rapporto diretto la dignità non può essere sfiorata da nessun sospetto e le lodi non devono mai imporre a chi le gratifica, per giunta amico, nessuna menomazione o sospetto d’inferiorità.
*
­Perché non la vai a trovare?­
­Perché mi ripugna aggredirla con confessioni e proposte che, dato il mio impaccio, ella probabilmente non si aspetta per niente. Per lei sono ancora il solitario interessante, nient’altro.­
240
­Perché non le scrivi?­
­Perché la metterei forse in un imbarazzo ancora maggiore. Ella dovrebbe rispondere e non so se sia donna amante della penna. Quale fatica durerebbe a rispondermi, qualora dovesse dirmi di no! Quanto male mi farebbe quello sforzo per risparmiarmi! Tu vedi che vorrei evitare la via diretta e quelle postali!­
­Quali vie ti si affacciano dunque?­
­Vorrei mandarti da lei!­
­Mandare me?­
­Sì, Rudi. Ti sembra così assurdo completare le benemerenze che hai verso di me, verso la mia salvezza spirituale, delle quali forse i posteri non sapranno nulla, ma di cui forse potranno essere informati? Completarle, dico, facendo l’intermediario tra me e la vita, l’intercessione verso la felicità? E’ una mia idea, una trovata come quelle che vengono, quando si compone!­
Quanto sei rimasto ingenuo, Adrian!
Altro è essere il destinatario di un’opera d’arte e altra cosa è comprendere hic et nunc l’artista nelle sue esigenze umane, le più comuni e rispettarlo per giunta in questa sua supplica, che finisce per renderlo meschino ed oscurarne l’ammirazione e la stima.
Raramente si trova tra i simili una tale consapevolezza del genio altrui da rinunciare, quando è ancora in vita, a qualcosa, che ci è troppo prezioso.
Diremmo addirittura esser giusto che sia così; l’artista non pretenda mai nulla di diverso ed accetti che la sua eccezionalità si trasformi sempre in un dono di sé agli altri!
Siamo certi che Mann, al momento della scrittura del Doctor Faustus, molto più scaltrito e contrito del suo particolarissimo e per certi aspetti ancor giovane eroe, la pensasse proprio in questo modo ed abbia voluto evidenziare con questo episodio la penosa frattura, in cui l’artista finirà per consumarsi, ponendosi nella condizione di aspettarsi dagli altri quello che a parole promettono e che nei fatti non saranno mai disposti a concedere, poiché troppo strettamente legati ad esigenze personali ineliminabili.
Dopo un primo istante di approvazione e di credito, il tentativo di Zeitblom di mettere in cattiva luce Rudi Schwerdtfeger, descrivendocelo egoista, (egli cerca maldestro di esaltare in tal modo il proprio ruolo 241
neutrale e disinteressato di verace interprete!), è decisamente vanificato; non si può chiedere ad un uomo una cosa simile, anche se a chiederla è il più grande artista vivente.
­Se ho capito bene, dovrei andare da Marie per te e chiedere la sua mano per te.­
­Sì, hai capito bene e non potevi fraintendermi.­
­E perché non ci mandi il tuo Serenus?­
­Penso che tu voglia farti beffe del mio Serenus…Non stupirti se immagino che accetterà più facilmente le tue parole che quelle di un pretendente dai lineamenti così rigidi…Secondo me egli non ha niente a che vedere con faccende d’amore. Con te e con lui mi sono confidato e tu sai tutto ormai, poiché a te, come ti dicevo una volta, ho aperto le pagine più segrete del libro del mio cuore. Ora, se vai da lei, fagliele leggere, parlale di me, dille bene di me…Recami quel tanto, che il pensiero di vivere con me non le riesca del tutto ostico, non le sembri mostruoso e allora verrà la mia ora e io stesso parlerò con lei e con sua zia.­
Poiché conserviamo nel profondo della memoria il presunto patto con Satana (Lui!), sulla bocca di Leverkühn sentiamo la proposizione secca verrà la mia ora risuonare dentro quasi atto di liberazione; ma ne siamo immediatamente smentiti, poiché afferriamo che egli intende soltanto affermare che, una volta che Rudi gli avrà squarciato nell’animo di Marie una visibile breccia di simpatia, diventerà egli stesso il protagonista e sarà lui stesso a dettare le sue straordinarie condizioni.
La misteriosa (e irrispettosa!) negazione della capacità di Zeitblom di elevarsi a messaggero d’amore ha un senso diverso; Adrian non può rivelare a Rudi (annullare la seduzione diabolica!) che l'altro è stato teologicamente depositario durante la parentesi del bordello.
L’artista sente che, posto davanti alla donna in modo trasparente, è capace di cancellare da sé la paura (ossessione!) del peccato, ombra che annebbia la luce.
Queste pagine sono importanti e definitive; Mann, passando sopra il suo intermediario e biografo, ci rivela senza alcuna ambiguità che il senso demoniaco, con cui ha infestato la ‘carne’ del suo eroe principale, non ha alcuna ascendenza a­mondana; è strettamente la conseguenza delle sciagure e dei venti di distruzione della Historia borghese.
242
Le sollecitazioni della vita, della quotidianità sono sempre in grado di scardinare le categorie metafisiche della superstizione, (stadio disperante e vergognoso della autoflagellazione!) e di spalancare all’umano tutta la straordinaria vegetazione dell’essere e del desiderio che è, prima di tutto, atteggiamento di ardore e di stima per le infinite presenze, che germogliano sotto i nostri piedi come ciclamini nell’intima linfa della foresta.
*
­Quando mi hai chiesto che cosa pensassi di Marie Godeau, ho risposto subito che doveva piacere a chiunque. Ti confesso che quella risposta contiene più di quanto possa sembrare lì per lì. Non te lo avrei mai detto, se tu non mi avessi fatto leggere, come ti sei espresso con immagine poetica, nel libro del tuo cuore.­
­Sono molto curioso di sentire la tua confessione.­
­A dire il vero, l’hai già udita. La ragazza, anche se a te questa parola non piace, Marie, dunque, non mi è indifferente; e, se dico indifferente, non dico ancora la parola giusta. Quella ragazza è, in fatto di femminilità, la creatura più cara e più graziosa che mi sia capitato di vedere.­
Ecco di fronte due maschi (compositore ed esecutore di grido!), che si contendono (l’interessata ignara!) la stessa ‘femmina’.
Il non tener conto assolutamente dell’altra (la caccia, che dicono remota come la bestia! Se perdurano tali ossessioni, in vero pretese istintive, come si può osare di parlare di grazia civile?!) è semplicemente brutalità. Lo stesso Adrian, che pure si batte eroicamente perché Marie resti, sia vista e rispettata come persona, intangibile nella sua mirabile veste di donna, è costretto ad entrare nell’arena e gareggiare da toro.
Situazione dolorosamente allucinante per chi aveva sognato il proprio futuro sotto la protezione angelica della bellissima e delicatissima creatura.
No, non si può (non è giusto!), come pretenderebbe Zeitblom, accusare Rudi Schwerdtfeger di tradimento; egli ha il diritto come chiunque di amare Marie Godeau; il sodalizio artistico (nel faretra segreta qualcosa di più della mera amicizia! Un accanirsi reciproco non torbido, ma oscuro, impreciso, tenuto sospeso in maniera insidiosa, proprio per la sua 243
vaghezza!) non esclude la più feroce competizione, quando entrano in gioco il desiderio per donna.
Leverkühn si fermò un momento, poi disse con una voce che tremava in modo singolare ed ambiguo:
­No, non lo sapevo. A quanto pare ho dimenticato in modo ridicolo che anche tu sei di carne e d’ossa e non corazzato d’amianto contro il fascino della bellezza e della grazia. Anche tu pensi di chiederla in moglie?­
La serietà (sembra svegliarsi l’uomo d’origine!) non è dote astratta, tanto meno talismano d’astuzia; la serietà è rispetto degli altri (dell’altra!), ancor più se l’altra dal costume è ridotta a bestia selvatica da cacciare.
Hai intenzione di sposarla o il tuo è il capriccio (scatola magica, di cui troppo abusasti) di mero erotismo?!
Adrian è consapevole che non fu capriccio neppure la fugace apparizione e conquista di Esmeralda; il rapporto con la meretrice, reso esaltante dalla possibile lue e dai suoi astutissimi piccolini, fu teologicamente tanto impegnativo ed essenziale che, egli avesse conservato la Fede nel diavolo e nella Grazia, si sarebbe rivelato come il diaspro e lo specchio della serietà e dell’impegno.
­No, non ci ho ancora pensato!­
­Pensavi forse di sedurla?­
­Dio, come parli, Adrian! No, nemmeno a questo ho pensato!­
Ma di che cosa sei fatto, Rudi?! Come può essere entrato dentro di te il soffio dell’arte, se tanto leggero ti comporti con la più pura e graziosa delle creature?! Ed osi frapporti tra me e lei?!
­Ebbene, lasciami dire che la tua confessione mi induce a insistere nella mia preghiera più di quanto possa incoraggiarmi a desistere.­
­Come sarebbe a dire?!­
­Io ho assegnato a te questo servigio d’amore, perché sei molto di più nel tuo elemento di quanto possa essere, ad esempio, Serenus Zeitblom.
Non potrei immaginare un ambasciatore più adatto e più desiderabile.­
­Se la vedi sotto questa luce…..­
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Da questo momento (non c’entra più la malevolenza del narratore biografo!) Rudi diventa meschino in modo ingiustificabile e non già per carenza di doti naturali, ma perché si affida mani, piedi e cervello alla sua indisciplinata inettitudine e malsana tendenza a compiangersi.
Se sei un uomo, se davvero sei stato degno di entrare nei segreti della mia carne, rifiutati! Ordina che vada io stesso a rompermi le corna!
Dimmi in faccia che solo un egoista ed esaltato può pretendere tanto da un amico, da un intimo!
­Sì, andrò e perorerò la tua causa secondo le mie forze migliori!­
­In compenso ­disse Adrian­ ti stringerò la mano, quando ci lasceremo.­
Considerata la delicatezza della situazione, (in fondo si tratta di decidere se il genio possa pretendere da un amico qualcosa di più, in quanto dovuto alla sua particolare fonte irroratrice!), Mann ha preferito che fosse il suo interprete o precursore a decidere in proposito, abbandonando Rudi alla morsa moralizzatrice di Zeitblom, l’umanista.
Non riteniamo neppure legittimo indagare sulle profonde intenzioni di Mann; non ci ha lasciato tracce inconfondibili.
L’episodio nella sua stranezza è molto significativo; sottopone l’artista a condizioni, dalle quali può ricevere le più amare smentite; lo costringe a rendersi conto che la grazia o bellezza, generata con l’arte ed offerta a quanti ricavano godimento e purificazione dalle sue manifestazioni, non può mai essere un titolo di merito per nessuno, se non nel campo dell’analisi postuma, quando la zavorra esistenziale del genio sarà annullata dalla radicale assenza sensibile.
*
Sono sicuro che Schwerdtfeger era andato da Marie Godeau coi migliori propositi, disposto alla massima correttezza. Ma altrettanto sicuro è che questi propositi non erano molto saldi, anzi piuttosto in pericolo e pronti ad allentarsi, a dissolversi, a modificarsi. Zeitblom scrive questi capoversi dopo averci annunciato che la missione di Schwerdtfeger, ambasciatore matrimoniale per Adrian, aveva generato una sua lettera sconvolgente, alla quale Adrian aveva deciso di non rispondere.
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Lo stato interiore del musicista dopo il fallimento dell’assurdo tentativo, (per vero assurdo solo in ispecie e per la convenzione più becera! Un ambasciatore d’amore vale dunque meno di una lettera?! Per dio, spiace che Marie Godeau si sia rivelata, di fatto, schiava delle più misere abluzioni del caso!), è di vergogna e di risentimento verso se stesso e non valgono le rassicurazione di Serenus, che mirano a convincerlo che chi doveva all’occasione provare rimorso non era lui, Adrian, ma l’altro, il messo di Eros, Rudi.
Zeitblom, tormentato e sconvolto dall’esito infausto dell’inusitata iniziativa di Adrian, si lancia in supposizione ‘esoteriche’, esaltando o annichilendo l’amico, secondo l’altalena dei suoi pensieri.
Talvolta mi veniva il dubbio che, dopo aver affermato il sacrificio dell’altro, avesse scelto per sé il sacrificio più grande, avesse voluto unire intenzionalmente due persone che la gentilezza aveva predisposto ad essere unite, per poi rinunciare a ritirarsi nella sua solitudine. Ma questo pensiero era più conforme alla mia mentalità che alla sua. Per me e per la venerazione che provavo per lui sarebbe stato bello che fosse così, che cioè l’errore apparente, la così detta sciocchezza che egli pretendeva di avere commesso, fosse basata su di un motivo così tenero, così dolorosamente amichevole.
Intuisce bene Serenus che il comportamento di Adrian era stato determinato dalla sua ‘aurea mediocritas’, troppo poco corrispondente al garbo segreto e intraducibile (con i termini usuali del costume!) di Adrian.
Nella sua semplicità di uomo umano d’antico stampo (definizione abbastanza oleografica pel vero, ma sopportiamola come male minore!) non si accorge che attribuire ad Adrian una simile intenzione era tutt’altro che un modo per esaltarlo; quale peggiore egoismo infatti di quello di chi, dopo avere sentito che due persone sono una lo specchio dell’altra, rinuncia al proposito, spaventato dalla sua imminente e non più riparabile solitudine?!
Ma Zeitblom è questo ed è stolido pretendere di più.
Che ne pensasse il ‘tragico’ Mann lo potremmo sospettare mediante un’indagine estetica ardua, tanto è di piombo il suo silenzio; nel lungo ed anche tormentato tragitto per adeguarsi al suo precursore, gli è venuto sempre più interessante e riposante affidarvisi quasi a corrente che scorre tranquilla, evitandosi salti acrobatici sopra le pietre.
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Per me è chiaro d’altronde che incamminarsi sulla via d’amore per un altro significa mettersi su un cammino seducente, tanto più quando si tratti di un fanatico dei flirt, per la cui morale la sola idea di avviarsi a un flirt o a un’impresa affine doveva essere un invito a sciogliere le briglie.
Quando si trova davanti a dei maschi (parola forse un po’ forte, riferita a Rudi, il gentilissimo, quasi femmineo Rudi! Ma la conclusione finale è il rapporto sessuale, quale sia stata la parte da lui recitata!) capaci di sedurre per fascino naturale la femmina, Serenus perde il senso della misura, quasi intenda vendicarsi di una menomazione, che gli brucia ancor più dello scacco politico e culturale subito a causa dell’avvento del nazismo, traditore del vero spirito del popolo tedesco.
Ma se tu non conosci per costituzione il flirt, in quanto mai femmina (rossa e insidiosa parentesi graffa, il dialogo dentro la notte con Ines, in tenera attesa che il piccolo coniuge fine mettesse alle tombole arcane del circolo!) te ne concesse il gomitolo arcano, perché ce ne parli con tanta acrimonia, facendoci credere d’essere conscio dei veri motivi di Rudi nel far l’ambasciata a Marie?!
Mann si diverte a lasciar sconfinare in terreno insidioso l’interprete e da astuto stratega della dialettica artistica gli fa pronunciare: (egli intanto sogghigna, immaginando le future reazioni del lettore avvertito o il feroce aggrottare dei cigli del critico!):
Qualcuno dubita forse che io possa ripetere ciò che avvenne tra Rudolf e Marie Godeau esattamente, alla lettera, come la conversazione di Pfeiffering? Dubita forse qualcuno ‘ci sia stato?’ Spero di no!
Eh, no! Se dovessimo dubitare della onnipotente consapevolezza di Zeitblom, avremmo già smesso di leggere da moltissimo tempo!
Egli sedette accanto a lei su una sedia accostata alla tavola di disegno. Nessuno può dire che egli non abbia mantenuto la parola. La osservò ed agì onestamente. Incominciò a parlare di Adrian, della sua importanza, della sua grandezza, che il pubblico andava notando solo lentamente, della propria ammirazione e devozione per quell’uomo straordinario….
Ma come si fa? Come si confessa a una donna l’amore di un altro? Ci si china verso di lei? La si guarda negli occhi?! Le si prende, implorando, la mano che si dichiara di voler porre fra quelle di un terzo? Io non lo so. Ho 247
avuto solo il compito di trasmettere l’invito a una gita, non di fare una proposta di matrimonio.
Se nutrivamo ancora dei dubbi sul fatto che Zeitblom fosse rimasto ferocemente offeso e umiliato per non essere stato prescelto quale questore d’amore presso la bellissima Marie Godeau, questo passo ce li toglie decisamente.
Se l’incontro tra Rudi e Marie si fosse svolto come tenta di ricostruirlo Serenus, (forse lo avrà desunto da alcuni particolari della lettera di Schwerdtfeger ad Adrian, lettera, di cui non ci si riporta nulla, se non la non­risposta decisa dal musicista! Sapremo quanto sarebbe stata, comunque, inutile!), è verissimo ch’egli, Serenus Zeitblom, professore umanista, sarebbe stato ben altro interprete e certamente ambasciatore accalorato, tenendosi in punta di voce e di piedi.
L’impaccio di Rudi, come ci è descritto, è di una meschinità senza pari, quasi da mascalzone incallito e questo proprio perché finge a se stesso un comportamento secondo una prassi neutrale, anzi per certi aspetti fingendo di esaltare le qualità dell’amico. Se dovessimo credere alla ricostruzione immaginaria di Zeitblom, Rudi lodò l’amico e la sua grandezza artistica proprio per metterne in evidenza la pochezza di coraggio e l’assoluta mancanza di discrezione (ed ancora maggiore carenza di fascino maschio!); se il grande compositore si costringeva a ricorrere ad un altro, sia pure intimo ed unico amico, per perorare la causa presso una tanto sublime creatura, che razza di uomo poteva essere?!
*
Non capiva, non era veramente sicura di capire. Domandò se aveva inteso bene, se Rudolf chiedeva la sua mano per il signor Leverkühn.
­Sì, rispose lui: lo faceva per senso di dovere, per amicizia. Adrian gli aveva chiesto servigio per delicatezza ed egli aveva creduto di non doverlo negare. La risposta di lei, palesemente fredda e beffarda, che era molto bello da parte sua, non fu certo tale da diminuire il suo imbarazzo.
Il contegno di lei, dovuto a perplessità, lo spaventò e nello stesso tempo gli causò un profondo piacere.
Non possiamo negare che il modo, con cui si svolge il colloquio tra Marie Godeau e Rudolf, (sotto la penna ricostruttrice di Serenus!), sia in perfetta 248
coerenza con la personalità, per certi versi, equivoca e ondivaga di Schwerdtfeger.
Quando Marie diventa beffarda per il contenuto e per gli scopi della ‘mallevadoria’, (al recedere pavido e meschino di Rudi, tale la sua ‘missione’ diventa!), il violinista, invece di chiedere scusa e togliere il disturbo, esulta, poiché si vede spianato il sentiero, pur rendendosi conto che ogni intenzione di flirt è vanificata dalla bizzarra richiesta.
Gli rispose che non si disturbasse oltre: poco importava che lei comprendesse la parte ch’egli si era assunto. Le dispiaceva di dover frustrare le sue amichevoli speranze, ma, benché fosse rimasta impressionata dalla personalità di Leverkühn, il rispetto che aveva per lui non aveva niente a che vedere con sentimenti che potessero formare la base a lei proposta con parole così eloquenti.
L’aver fatto la conoscenza con il signor Leverkühn era stato per lei un onore e una gioia, ma la risposta che era costretta a mandargli escludeva purtroppo la possibilità di altri incontri.
Così è liquidata la proposta di Adrian, nonostante l‘eloquenza’ di Rudolf.
La risposta, rispettosa nella forma, di Marie, che liquida ogni possibilità di futuri incontri con il musicista, di fatto spalanca tutte le porte d’accesso (al suo corpo!) per Rudi. Se parliamo apertamente di corpo, non è certo per disprezzo dei protagonisti, bensì per evidenziare la sua nuda (inevitabile!) incidenza, si tratti di flirt o di maneggi sponsali!
Di certo la giovane donna, mallevadore ‘eloquente’ il violinista, ha giudicato ‘vigliacco’ il compositore, rivelatosi così ignominiosamente inetto ad affrontare di petto la prova dell’approccio erotico. Tu mi vuoi, è palese; dillo apertamente ed io chiederò a me stessa il grado di disponibilità ad accettarti per intimo! Nella sostanza questo avviene nello ‘spirito’ femminile, che è solito agire secondo costume e pensiamo proprio che Marie Godeau non facesse affatto eccezione, aldilà della bellezza e della grazia, a noi dipinte in modo così misterioso.
Adrian con troppa ingenuità, forse ingannato dalla straordinaria semplicità della meretrice, (Esmeralda assurge a regina e ne facciamo 249
onore a Mann!), non ha valutato bene la suscettibilità (borghese, più che francese!) della giovane; proprio per non offenderla con la sua presenza fisica si era fatto precedere da un ambasciatore elegante, persuadente, gradevole, ma questo, quand’anche vi fosse stata una speranza, ha compromesso ogni possibilità.
Come hai potuto pensare che un libertino impudente (che, tra l’altro, desiderava quella femmina con più forza di quanto non avesse desiderato una donna in altre avventure! Ahi, la mannaia di Ines!), sarebbe stato in grado di spiegare nella loro vertiginosa altezza le tue intenzioni e descrivere nella sua profondità la tua delicatezza e stima per lei, Marie Godeau, divenuta ad un tratto dentro di te l’ispiratrice, l’angelo tutelare di una nuova (più umana, totalmente umana!) stagione musicale?!
Il dato più catastrofico (e per donna anche vergognoso, ci sentiamo di affermare con un certo ‘amertume’!) è che la Godeau non solo esclude Adrian come amante e come sposo, ma lo fa con risentimento.
Questa condizione interiore (dettata da un raccapriccio fisico!) non le permetterà neppure per un istante di sospettarsi coniugalmente disponibile al compositore, per quanto geniale e dall’avvenire luminoso.
Questo è lo scotto che il ‘teologo’ deve pagare per la fiducia, concessa ancora una volta al ‘libertino’. Rudi è il ’lui’ della nuova stagione?!
Si limitò a scrivere alla Godeau. Non aveva dunque compreso come un uomo per rispetto di un altro possa sacrificare i propri sentimenti e rendersi disinteressato interprete dei desideri altrui? E non comprendeva che i sentimenti repressi e fedelmente dominati dovevano pur prorompere liberi e gioiosi, quando risultasse che l’altro non aveva alcuna speranza di essere esaudito?
Ora le chiedeva perdono di un tradimento che aveva commesso soltanto contro se stesso. Non se ne poteva pentire, ma era felicissimo al pensiero che non commetteva alcun tradimento dicendole che l’amava.
Non ci interessa al momento conoscere (se mai lo sapremo!) che cosa risponderà Marie; ci è però semplice arguire che la situazione intrigante ha necessariamente creato in lei una particolare predisposizione ad andare sino in fondo; dissoltasi l’aria di misteriosa intimità, che 250
circondava la sua esistenza à demi artistica, è fatale che i venti della passione imperversino dentro le sottili pareti dell’anima.
Marie è presa in trappola dalla sua inusitata decisione, (‘perché l’hai fatto?!’); le resistenze si allentano ed il fervore del maschio gentile sta aprendo accesissime brecce; l’eroismo sacrificale sollecita vaghe lezioni ed impulsi a non esser da meno. Dopo due giorni egli ricomparve. Madame Ferbantlier – questo era il nome della zia che era vedova – entrò dalla nipote e vi rimase a lungo, ma infine ricomparve e lo fece entrare con un sorriso incoraggiante. Naturalmente egli recava un mazzo di fiori.
Marie osò amare ‘in tono minore’ il rubacuori, del cui valore di artista e delle cui sicura carriera aveva avuto da persone serie tanto calorose garanzie. Ella credette di aver la forza di tenerlo, di legarlo, di addomesticare quello scapestrato. Gli abbandonò le mani, accettò il suo bacio e dopo meno di ventiquattro ore tutti i nostri conoscenti ricevettero la lieta notizia che Rudi era prigioniero, che il concertista Schwerdtfeger e Marie Godeau si erano fidanzati.
Benché sia naturale sospettare in Zeitblom una certa animosità, (sei stato tu ad avvertire la vezzosa fanciulla che i trascorsi del violinista non erano così castigati?! O la giovane francese aveva il dono della premonizione?!), possiamo accettare che i rapporti tra Marie e Rudi nella sostanza si siano sviluppati e conclusi nella maniera descritta.
Questa volta Don Giovanni è stato costretto a passare aldilà della soglia del flirt e a interrompere la lista delle conquiste; impegnato per la vita!
Il comportamento di Marie resta a mezza strada tra quello dell’eroina, che riconduce l’uomo sulla retta via e della approfittatrice, che si arrende ad amare ‘in minore’, rassicurata dalla certa e non burrascosa carriera dell’artista­esecutore!
Forse la verità è da cercarsi altrove; non possiamo, però, nascondere la delusione per la mediocrità di una persona, che al suo apparire aveva suscitato il nostro interesse e la nostra curiosità con ben altre prospettive.
*
A complemento di questa notizia si sparse la voce ch’egli intendeva rescindere il contratto con l’orchestra 251
Zapfeutösser, sposarsi a Parigi ed offrire i suoi servigi a un nuovo ente musicale, che si stava appunto formando, la ‘Orchestre Symphonique’.
In ogni caso la sua collaborazione al prossimo concerto Zapfeutösser fu intesa come una specie di commiato.
C’erano nelle file molti visi conosciuti e, quando mi alzavo in piedi, dovevo salutare parecchia gente.
Feci il mio inchino a Ines Institoris, la quale era sola, cioè in compagnia dei Knöterich, senza il marito che, non avendo attitudini musicali, passava pubblicamente la serata al circolo ‘Allotria’. Quando rispose al mio saluto non potei reprimere la stizzosa impressione che sorridesse ancora con aria di maligno trionfo poiché in quella lunga conversazione a casa sua aveva saputo sfruttare egregiamente la mia pazienza e la mia simpatia.w<
Per Zeitblom Ines Rodde, sposa del piccolo Institoris, sessualmente meschino, è diventata una sorta di peste da evitare con ogni mezzo, sia pure correndo il rischio di divenire spietato.
Quale sarebbe stato il suo giudizio, se invece di essere l’amante di Rudi Schwerdteger fosse stata quella di Adrian o sua?!
Perché Serenus non si chiede il motivo, per cui è venuta al concerto d’addio di un uomo, che dopo averla a lungo frequentata, l’ha villanamente piantata in asso e si appresta a sparire per sempre dalla sua vista per sposare un’altra?!
All’umanista e forse anche ai suoi intimi la coincidenza non suscita alcun interesse, benché se la sentano sempre incombere come una minaccia, un incubo.
Alle volte sono proprio gli amici con la loro impudente indifferenza, che ci spingono al comportamento estremo, senza ritorno.
Misere creature noi siamo, allorquando (ancor più, se per nostra colpa!) qualcuna delle persone, che erano solite scambiare con noi simpatia, si ritrae, ci elimina, lasciandoci in preda alla vergogna e al disprezzo. Quanto allora il senso di disgusto ci rende a noi stessi insopportabili!
La fine del concerto era costituita dal preludio dei Maestri Cantori suonato con larghezza e con brio e gli applausi, già fragorosi, aumentarono ancora quando Ferdinand Edschmidt fece alzare in piedi l’orchestra e 252
prese la mano, ringraziando, al suo concertista.
Mentre ciò avveniva io ero già di sopra, nel corridoio centrale, preoccupato del mio soprabito, che mi feci consegnare mentre l’affluenza al guardaroba era ancora esigua.
Ci si chiede perché Zeitblom abbia voluto assistere alla serata di addio di Rudi, visto che è per lui più importante recuperare il cappotto che non assistere agli applausi del pubblico per il violinista!
Egli si trova lì come teste corrucciato di Adrian Leverkühn, ne incarna l’ira e l’animo profondamente offeso?!
E Marie Godeau dove sta?!
Domande sospese che inquietano e danno una tinta lugubre a questa ultima esibizione del violinista in terra alemanna!
Davanti al palazzo dei concerti m’imbattei in un frequentatore del circolo Kridwiss, il professor Gilgen Holzschuher; egli disse che l’aver messo insieme Berlino e Wagner era una mancanza di buon gusto, che del resto mal celava una tenebrosa politica. Sapeva troppo d’intesa franco­tedesca e di pacifismo, come, del resto, quell’Edschmith era ben noto per essere repubblicano e malfido dal punto di vista nazionale.
Interessante siparietto, da cui emerge per quale politica batteva la lingua dei professori tedeschi!
Di solito è ad Hitler, che ci si appella come ispiratore di un germanesimo revanchista e razzista; i fatti invece ci dicono qualcosa di più; testimoniano che il desiderio di una certa cultura tedesca era di farsi guidare ad una rapida riscossa, costasse quel che era necessario in termini di morte e di distruzione.
Che risponde Zeitblom?! Io non obiettai che era proprio lui a portare tutto sul piano politico e che la qualifica di tedesco non era affatto ormai equivalente a spiritualmente puro, ma una parola d’ordine di partito.
C’è già nella condotta di Zeitblom quell’attendismo dei buoni e moderati tedeschi, che favorirà l’ascesa dei nazisti.
Quando mai la qualifica di tedesco come di spiritualmente puro aveva avuto un senso al di fuori del più stolido nazionalismo?!
253
Evidentemente l’apologia del germanico puro era quasi un’ideologia per la borghesia illuminata!
La vettura si fermò ed io vi salii dalla piattaforma anteriore. Il tram era tutto occupato. Presso la porta posteriore c’erano persone in piedi, aggrappati alle cinghie. La maggior parte dei passeggeri dovevano essere persone che ritornavano dal concerto. Tra esse, di fronte a me, nel mezzo del sedile, era Schwerdtfeger con l’astuccio del violino ritto tra le ginocchia.
Era bello e giovane, con quei capelli biondi dai riccioli ariosi, col volto acceso dall’eccitazione del lavoro, con gli occhi azzurri persino un po’ gonfi in seguito a quell’onorevole fervore.
Che sta succedendo al buon Zeitblom?!
Da quale nuova e inusitata fonte di simpatia e ammirazione gli deriva quest’ode celebrativa, questa insolita commozione per un semplice esecutore, colpevole, per giunta, di essere entrato nell’intime corde del suo unico amico, in seguito così vergognosamente abiurato?!
E’ forse il sentimento, che nasce dall’addio, momento, in cui si mettono da parte motivi di incomprensione, di rancore e riemergono alla superficie dell’anima i pensieri più fini e gli affetti più spontanei?!
Nella vettura rintronò una sparatoria, una serie di detonazioni secche e fragorose, l’una dopo l’altra, tre, quattro, cinque, con una rapidità vertiginosa e sbalorditiva, mentre Schwedtfeger, con l’astuccio del violino tra le mani, s’abbatteva prima contro la spalla e poi sul grembo della signora che sedeva alla sua destra.
I due signori in piedi, come me, si erano buttati addosso a Ines, beninteso troppo tardi. Non fu necessario strapparle di mano la rivoltella, poiché l’aveva lasciata cadere o meglio l’aveva buttata in direzione della vittima.
In questo tragico modo si conclude (per il maschio raffinato già da tempo finita!) la storia di Ines e Rudi, colpevole costui di tradimento e di fuga!
Cessa ancor prima di aver inizio l’unione tra Schwerdtfeger e la giovane parigina Marie Godeau.
Quasi prendendo atto del disgusto e dell’odio del professore alemanno Holzschuher, il biondo Rudigher non portò a termine il sacrilegio di unirsi 254
alla femmina franca, giustamente e preliminarmente pagando il fio della sua possibile defezione sotto i colpi di rivoltella di una integra pulzella ‘prussiana’.
E Adrian Leverkühn?!
Dopo essersi premurato di portare la notizia al piccolo ed esterrefatto (neanche troppo, pel vero! Sembrava che se lo aspettasse! Almeno se dobbiamo credere al nostro umanista!) Dottor Institoris, Zeitblom solleva il telefono per avvertire il solitario di Pfeiffering, ma subito ci rinuncia, considerando il suo gesto superfluo!
*
Il mio racconto si avvia alla fine. Tutto precipita verso la fine; il mondo è sotto il segno della fine, lo è almeno per noi tedeschi, la cui storia millenaria, confutata, portata all’assurdo, sciaguratamente sbagliata, dimostrata erronea da questi risultati, sfocia nel nulla, nella disperazione, in un fallimento senza pari, in una rotta infernale attorniata da fiamme tonanti e danzanti.
Che cosa si nasconde sotto questa lamentazione della presunta mostruosità (demoniaca mostruosità!) tedesca?! Zeitblom sta tentando una fuga in avanti per non confessarsi che la classe capitalistica in pericolo (e con lei il ceto medio!), piuttosto che riconoscere il proprio fallimento storico, lo esaspera, lo acuisce, distruggendo selvaggiamente tutto quanto ostacola la propria ossessione di dominio e di soffocamento.
La verità di queste osservazioni sono oggi dimostrate dalle iniziative forsennate e brutali degli eredi di quel periodo tedesco sì, gli Yankee, pronti ad aggredire e a distruggere tra le fiamme quei popoli, che non riconoscono la loro autorità, la loro libertà, la loro funzione di poliziotti universali per le fortune del Mercato!
Sotto qualsiasi forma giuridica, fascista o democratica, il volto da ladro del Padrone non si modifica mai.
Io, tedesco modesto ed erudito, ho amato molte qualità tedesche, anzi la mia vita insignificante ma capace di affetto e di dedizione fu consacrata all’amore spesso combattuto, sempre ansioso, ma eternamente fedele per un insigne uomo e artista tedesco, il cui fallo misterioso e il cui tremendo commiato non possono intaccare quest’amore che forse, chi sa, non è che un riverbero della grazia. 255
Se Adrian Leverkühn con il suo folle patto con le potenze infernali è simbolo della Germania millenaria, lo deve restare sino in fondo, cioè non può essere amato, altrimenti è stolido attendersi dai tedeschi l’abiura della propria storia.
E qui sta il tragico equivoco dell’assunto di Zeitblom; Adrian non ha niente a che vedere con le aberrazioni militaristiche della Germania prima monarchica e poi Hitleriana; egli è un artista, costretto a tentare la sorte della ‘grazia’ in tempi difficili, sotto sollecitazioni, che sono infernali per la loro intrinseca ed inumana ferocia, che nessuna purificazione teologica riesce ad attenuare e, ancor meno, a cancellare.
Non c’è alcuna incarnazione epica, che debba addossarsi la colpa di un traviamento, che ha le sue radici nell’economia di rapina e di potenza.
Mann non può nascondersi dietro la presunta modestia e insignificanza del suo erudito umanista, poiché, prima di tutto, nessuno è insignificante, se non per propria codarda mediocrità nelle scelte politiche e sociali; (se sei tiepido, mi ripugni e non meriti neppure l’inferno!); inoltre, la venerazione per una forte e geniale personalità non può essere confusa con l’esaltazione di una patria, votatasi ad uccidere ed umiliare altri popoli.
Il mio cuore si strugge per la pietà, che mi infondono le menti stolte dei miei figlioli, i quali hanno creduto, come hanno creduto, esaltato, sacrificato e combattuto le masse del popolo, e ora, al pari di altri milioni della loro specie assaporano con gli occhi sbarrati la resipiscenza, destinata a diventare un’estrema necessità, un’infinita disperazione.
Chiunque possieda un minimo di onestà dovrà riconoscere che queste parole di Zeitblom non avrebbero senso, se si accettasse che il ‘demonismo’ di Adrian sia della stessa qualità di quello nazista e di quanti ne sostennero la causa.
La non­resipiscenza di Serenus nei confronti di Leverkühn testimonia soltanto l’innocenza profonda del musicista, che tenta in modo isolato e titanico di trasportare l’arte dei suoni aldilà del fetido paltume post romantico degli epigoni, con punte, certo, di estrema durezza; inevitabili, per altro, considerata la caparbia resistenza degli aberranti e invadenti cultori dell’arte per l’arte.
La profezia della fine, detta ‘Apocalypsis cum figuris’, risuonò, grande e tagliente, nel Febbraio 1926 a Francoforte sul Meno, circa un anno dopo i fatti orribili 256
che ho dovuto narrare e può darsi che dipendesse in parte dall’abbattimento provocato da quegli eventi, se Adrian non trovò la forza di infrangere il suo solito ritegno e di assistere all’avvenimento straordinario, sia pure accompagnato da molte grida maligne e da ignoranti risate.
Testimoni dell’avvenimento furono Zeitblom e Jeannette Scheurl, unica donna, esclusa la madre e la meretrice, ad avere ottenuto di tenere per mano Adrian Leverkühn.
Che Adrian non abbia partecipato e neppure assistito alla prima della sua opera apocalittica non meraviglia più di tanto, se si tiene presente l’esito tragico (ed insieme grottesco!) della sua ultima iniziativa, tesa ad uscire dall’isolamento.
Crollato questo disperato ed estremo tentativo, non restava ad Adrian, che rinserrarsi ancor più nelle gelide acque della sua mediazione artistica ed esaltare da lì, in quelle condizioni aspre e brucianti, la risolutezza generosa della sua capacità creatrice.
Sarebbe bene, però, che il lettore, al di là dell’inclinazione data da Mann all’ultima stagione del suo eroe, non confondesse più il titanismo di Adrian con una sorta di satanismo; dovrebbe, inoltre, rifiutare con determinazione la presunta ‘alemannità’ (i vincoli con la patria, furono da lui spezzati già al tempo della scuola secondaria e teologica!) di Adrian Leverkühn, tanto il suo spirito (schivo certamente e, talvolta, scostante!) è ricco di germi di umanità assoluta.
Mai come in questo romanzo Mann ha dimostrato che la ricchezza dell’eroe può avanzare di mille cubiti la stessa consapevolezza storica e politica del suo creatore: condizione straordinaria, che rende l’opera artistica ‘eternamente’ fertile.
*
In tutto quell’anno infatti la vita di Adrian fu vuota e senza lavoro: la mancanza di idee e l’inerzia dello spirito che lo avevano colto, come risultava dalle lettere che mi scriveva, estremamente tormentose, umilianti e angosciose, erano, almeno secondo le sue dichiarazioni, una delle principali ragioni del suo rifiuto di recarsi a Francoforte.
Si tratta di una delle principali ragioni rivelabili all’esterno; il crollo del sogno matrimoniale e la fine di ogni cordialità nel regno dei sensi (il contatto diretto e consentito con la carne altrui!) non sono delusioni da 257
comunicare o mettere in pasto alla pubblica curiosità.
Noi pensiamo che la caduta di slancio creativo era anche provocata (e mitigata!) dallo studio e dall’analisi di opere altrui.
La quotidianità dell’artista è densa di questi contatti, dalla continuità dei quali dipende pure la resurrezione propria, che di solito avviene nei momenti, in cui meno la si aspetta.
Zeitblom è troppo fedele trascrittore; non possedendo ispirazione artistica, neppure può sospettare quante parentesi di luce estetica attraversino e rallegrino il deserto dell’aridità.
Diceva di non aver più la minima idea di come si potesse comporre musica e nemmeno il più debole ricordo, e pensava che non sarebbe stato mai più in grado di scrivere una nota.
Possa l’inferno aver pietà di me! Prega per la mia povera anima! Erano frasi che si ripetevano in quei documenti che, per quanto mi addolorassero, mi davano anche soddisfazione, poiché andavo dicendomi che ormai ero solo io, il suo compagno d’infanzia, e nessun altro al mondo a ricevere siffatte confessioni.
Serenus non si chiede se proprio negli istanti,in cui egli sta godendo per la sua esclusiva partecipazione alla vita e alle confidenze dell’artista che, per giunta, lo supplicava di pregare per lui, questi non stesse per formulare la possibilità di tirarsi da parte, di uccidersi. E’ tragico come il credito di sagacia nell’uomo singolo non superi mai la chiave segreta del proprio forziere!
E’ un’inconscia aspirazione o necessità difensiva, che può essere anche accettata; ma non ci si trinceri nella libagione del particulare per non voler riconoscere e riflettere sulla specificità di ogni creatura, di ogni evento e di qualunque accidente, che passi com’ ombra sul limine della nostra sensibilità.
Se fossimo succubi anche per la briciola di un sospetto del patto di Adrian con il ‘Lui’, dovremmo inveire contro la malafede dell’angelo nero; nel contratto (senza sangue!) le parentesi di aridità creativa non erano comprese!
Gravi attacchi di emicrania lo costringevano al buio, catarri gastrici, bronchiali e tracheali lo tormentarono durante l’inverno del 1926 e sarebbero bastati ad 258
impedirgli il viaggio a Francoforte, come gliene impedirono materialmente in modo assoluto e per ordine categorico del medico, uno più urgente dal punto di vista umano.
Il telegramma della madre, che annunciava la morte tranquilla dello ‘speculatore’, lo raggiunse presso la bara dell’altrettanto silenzioso e pensoso fumatore dal dialetto diverso, il quale già da un pezzo aveva via via ceduto il peso dell’amministrazione al figlio Gereon, come l’altro lo aveva affidato, e ora passato definitivamente, al suo Georg.
Date le condizioni di Adrian non c’era da pensare a un viaggio nella Turingia sassone, per prender parte ai funerali.
Tuttavia, benché quella domenica avesse la febbre e si sentisse molto debole, egli insistette, contro il parere del medico, per partecipare alle esequie del padrone di casa, che ebbero luogo, con grande affluenza dai dintorni, nella chiesa parrocchiale di Pfeiffering.
La solitudine più che le malattie e l’emicrania rende ad Adrian particolarmente angosciante la morte contemporanea dei due anziani signori, padri e mariti.
Nella vita del compositore ha inciso (e continua) in maniera particolarmente dolorosa la mancanza di amore della donna, non come madre, ma come generatrice del lievito delle giunture e aromatica educatrice dei sensi.
Ogni particolare del passato che si spegne, non essendo mai stato sostituito da cellule nuove ed ardenti, rompe dall’interno via via i legami, che ci costringono allegri nel bianco paniere dell’essere, tutto si oscura e l’agonia si fa asfissiante.
Che il telegramma materno, annunciante la morte del padre, (il legato della speculazione è interrotto nell’ultimo slancio per tutto conoscere, col quale egli ha sempre sfidato il mediocre buon senso del gregge, che accetta dal Clero le chiose del Verbo!), arrivi ad Adrian in un momento, nel quale fisicamente non può raggiungere la terra natale, è rivelatore di questa sua assoluta impotenza a risorgere in nome del solo seme familiare.
La stessa aridità (momentanea! Com’è sempre di ogni ristagno o degrado o recupero della allegria creatrice!) marca in maniera tragica e, per certi 259
versi, insopportabile il venir meno di persone insostituibili, proprio per i motivi che sopra abbiamo cercato di richiamare.
*
Il suo animo si risollevò e forse durava fatica a conservare la calma nell’affluire impetuoso di idee nuove, sicché quell’anno 1927 divenne l’anno della sua più alta e meravigliosa produzione musicale da camera.
Quell’anno diede innanzitutto la musica per il ‘Complesso strumentale’ di tre archi, tre legni e pianoforte, un pezzo che chiamerei prolisso, con temi lunghissimi, molto di fantasia, i quali vengono sviluppati e risolti in vari modi senza ritornare integralmente. ­Non ho voluto – mi disse Adrian – scrivere una sonata, ma un romanzo.­
Ciò comporta una dilatazione del tessuto musicale non sempre sopportabile; (sono troppo le composizioni tardo romantiche, che vengono in mente per elencarle!); vi necessita una grande sagacia ritmica per non annoiare o, almeno, per giustificare i momenti di inquietudine (di fatto, stanchezza!) fisica che provocano. Adrian vi si sperimenta, spintovi dalla folgorante e inattesa ripresa creativa, scroscio d’acqua rigeneratrice sulle fonti, che la solitudine e le sofferenze fisiche rischiavano di inaridire.
Il romanzo si fonda generalmente sull’estensione, mentre il genere sonata regge sulla variazione succinta e severa di tre­quattro temi severi e sintetici; è, quindi, visibile la volontà del musicista di mettere a prova le sue capacità unitarie nel dispiegamento fantastico e multiplo, i motivi accennati, inquietati, ma non totalmente risolti.
Questa tendenza alla ‘prosa’ musicale raggiunge il suo culmine nel ‘quartetto d’archi’, l’opera forse più esoterica di Leverkühn, la quale seguì immediatamente il compimento per il complesso strumentale.
Se di solito la musica da camera mira a svolgere un tessuto di temi e motivi, qui tale impresa è scansata in modo addirittura provocante. Delle forme tradizionali non c’è traccia. E’ come se il Maestro, in questo pezzo apparentemente anarchico, volesse prender fiato per la cantata di Faust, la più legata delle sue opere.
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Spesso a determinare l’estensione apparentemente anarchica di una composizione può essere la stessa vaghezza del titolo qui, ad esempio, ‘quartetto d’archi’, che denuncia sì una forma con un precisa e nobile tradizione, ma lascia al compositore d’avanguardia, che non si sente più contenuto in una capsula precisa, socialmente determinata, ampi spazi di sperimentazione.
Adrian era, tra l’altro, profondamente convinto “che non si possono più osservare gli antichi limiti fra la musica da camera e lo stile orchestrale e che, dopo l’emancipazione del colore, l’uno sfuma nell’altra”.
La tendenza all’avvicinamento, alla fusione e allo scambio, come già si annuncia nella parte vocale e nella parte orchestrale dell’Apocalisse, diventava in lui sempre più forte.
­Ho imparato –diceva­ alle lezioni di filosofia che porre un limite significa già superarlo. A questo principio mi sono sempre attenuto.­
Alludeva alla critica che Hegel fa a Kant e le sue parole dimostrano quanto profondamente la sua creazione fosse dominata dagli elementi spirituali e da precedenti impressioni.
Di solito anche i riferimenti culturali (perché solamente spirituali?! Perché determinati da conoscenze filosofiche?!) sono essi stessi una conseguenza delle importanti modificazioni intervenute nella società e il più delle volte provocano nell’artista quello stato d’inquietudine che lo spinge a superare le forme d’espressione tradizionali, non più sufficienti ad esprimere totalmente le condizioni della società in cui si vive. La dilatazione mostruosa delle prerogative capitalistiche, ingigantite e abbrutite dalla guerra e dalle sue non ulteriori rapine, influisce necessariamente sulla capacità sintetica e di contenimento delle stesse forme artistiche; la tranquillità dei canoni tradizionali va a pezzi e l’artista si sente pervaso da angoscia insostenibile, che si manifesta in modulazioni (litanie!) assolutamente tragiche o grottesche.
Non vi è alcun dubbio che l’anno della musica da camera (ricordiamo tra le composizioni del periodo anche il trio per violino, viola e violoncello), il 1927, sia stato anche l’anno della concezione della ‘Lamentatio doctoris Fausti’.
Sembra inverosimile: nella lotta con compiti così delicati che il dominio di essi si può immaginare soltanto in una 261
suprema ed esclusiva concentrazione, il suo spirito, prevedendo, tentando e prendendo contatto, era già alle prese con il secondo oratorio, con quella stritolante lamentazione, alla quale non poté accingersi per il momento, perché distolto da un incidente altrettanto gentile quanto straziante.
E’ sorprendente che Zeitblom associ allo strazio e alla lamentazione la gentilezza. Noi non sappiamo ancora quale sarà l’incidente che impedirà ad Adrian di immergersi subito nell’opera conclusiva della sua esistenza, (preludio di una paralisi creativa, non più determinata dall’emicrania o da angosce viscerali, ma dalla morte!), però esso ci è anticipato come un insieme di gentilezza e di strazio, quasi preludio esistenziale della futura Lamentatio.
Che cosa si nasconde sotto questa misteriosa anticipazione?! Un risultato musicale di valore universale o l’eco dolorosa di una analogia tra il grande mago­dottore della sfida con Satana ed Adrian Leverkühn, uomo da sempre tormentato dal rischio di un’aridità del sentire nel pieno della sua esplosione creatrice?!
*
Ursula Schneidewein, la sorella di Adrian a Langelsolza, dopo la nascita dei primi tre figli, negli anni 1911, 1912 e 1913, era stata un po’ malata di polmoni e aveva dovuto passare alcuni mesi in un sanatorio a Harz. Il catarro all’apice parve poi guarito e durante il decennio fino alla comparsa del piccolo Nepomuk, il figlio minore, Ursula fu per i suoi una sposa e una madre assidua e attiva.
Per anni la brava donna si tenne in gamba – fino al 1928, quando il piccolo Nepomuk ebbe un violento attacco di morbillo e le cure preoccupanti di giorno e di notte per la creatura amatissima divennero un grave peso per la salute di lei.
Ursula aveva spiegato ad Adrian la situazione, gli aveva scritto che, secondo il medico, si sarebbe potuto risolvere felicemente ogni difficoltà, qualora il piccolo convalescente potesse passare qualche tempo all’aria aperta della campagna bavarese, e lo aveva pregato di convincere la sua padrona a fare per un po’ di tempo da mamma e da nonna al piccino.
Io non ero presente alla fattoria quando i fratelli arrivarono, ma Adrian mi descrisse la scena: tutta la 262
gente di casa, la madre, la figlia, il figlio primogenito, le fantesche e i servi circondarono il piccino, estatici e ridendo di gioia, senza potere saziarsi di tanta gentilezza La sorella maggiore sorrideva con indulgenza, ma si capiva che non si aspettava meno di così ed era avvezza a vedere tutti innamorati dell’ultimo rampollo di casa sua. Segue poi la minuziosa descrizione del fanciullo, di come era vestito e della consapevole civetteria, con cui sapeva usare lo spontaneo e irresistibile fascino.
Ci è anche ricordato che Nepo si è dato come nomignolo ‘Echo’, modo con cui tutti lo chiamavano a casa e così presero a fare anche nella nuova famiglia.
Che un bambino susciti tanto entusiasmo e trasmetta così tanta gioia è fatto non solo verosimile, ma anche abbastanza frequente.
Che lascia alquanto stupefatti (con più precisione dolorosamente meravigliati!) è che Serenus non si renda conto della bellezza ‘matrica’ (direi, quasi una necessità genetica, universale!), per la quale ogni fanciullo, al di qua delle sue geniali o gentili o particolari manifestazioni, ha il diritto di essere accolto con lo stesso trasporto ed entusiasmo del piccolo ‘Echo’.
Alla prima apparizione di Nepomuk Adrian non c’è; egli non si è riunito con gli altri nel vasto cortile, quindi non fu partecipe dello ‘inusitato’ incontro, che egli racconterà a Zeitblom di seconda mano.
Poco dopo pronunciò queste parole: ­A Echo non pare stia bene rimanere ancora all’aperto. Sarà meglio entrare in casa per salutare lo zio.­
Così dicendo tese la manina alla sorella, perché lo conducesse in casa. In quel momento però Adrian uscì nel cortile per dare il benvenuto ai nipoti.
­E questo darebbe – disse dopo di aver salutato la ragazza e fatto notare la sua rassomiglianza con la mamma – questo sarebbe il nostro nuovo inquilino.­
Prese la manina di Nepomuk e guardò assorto la luce dolce di quegli occhi stellanti, alzati verso di lui in un sorriso azzurro.
­Sicché sei contento che io sia venuto! ­ Tutti risero, anche Adrian.
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­Eccome!­ replicò questi. ­E spero che anche tu sia contento di conoscere tutti noi.­
­Sì, è divertente! ­disse lo strano bambino. Di nuovo i presenti stavano per scoppiare a ridere, quando Adrian, scuotendo il capo verso di loro, si passò un dito sulle labbra.
­Non si deve confondere il bambino con le risate ­ osservò sottovoce. ­Del resto non c’è motivo di ridere, vero, mamma?­ fece voltandosi verso la signora Schweigestill.
­Nessun motivo!­ rispose lei, con voce esageratamente ferma, portandosi la cocca del grembiule agli occhi. ­Allora possiamo entrare ­ decise Adrian, riprendendo Nepomuk per la manina. ­Avete preparato certo un piccolo rinfresco per i nostri ospiti.­
Pagina altamente significativa, che interviene a correggere immediatamente una condotta psicologicamente sciagurata.
Nepomuk avverte immediatamente la superiore benevolenza dello zio e ne subisce il fascino, senza alcun rammarico dimenticando il proprio; anzi sembra allietarsi che l’attenzione verso di lui diventi più controllata e positiva.
La signora Schweigestill si asciuga gli occhi con la cocca del grembiule, commossa nel sentirsi chiamare mamma da Adrian; ella ha da poco perso il marito e quell’ospite così corretto, garbato e amoroso la scuote nel profondo, quasi da lui esortata a non chiudersi nella melanconica funzione di nonna.
La stessa premurosa attenzione per il nipote ha qualcosa di questa garbatezza, che non confonde i ruoli, anzi ne sollecita la massima espressione, poiché solo così è possibile accogliere nel modo giusto un fanciullo, quale sia la sua capacità di rubare ai nuovi conoscenti l’affetto e la tenerezza. Si noti anche come Adrian prima di dedicarsi al bambino, che pure profondamente lo avvinghia, osserva, ammira e sorride alla giovane nipote, sottolineandone la somiglianza con la mamma, quasi ad invitarla a non nascondersi dietro la bellezza e simpatia del fratellino.
Queste sfumature sono il sale dell’arte e rivelano la sagacia del poeta.
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Fu portato a letto e, mentre dormiva, Adrian si intrattenne con la sorella Rosa nel suo studio.
Essa rimase fino al terzo giorno, poi i suoi doveri la richiamarono a Langensalsa: quando partì Nepomuk pianse un pochino, ma poi promise di star buono finché fosse venuta a riprenderlo. Chi potrà mai dire che non mantenne la parola?
Nota anticipatrice, che stende un velo d’angoscia sul piccolo.
Tutta la sua permanenza a Pfeiffering sarà segnata da questo sentimento dolce­dolente.
L’esistenza non è certo avara di lutti precoci; l’arte deve necessariamente assoggettarvisi?!
Domanda da incubo!
Il parroco di Pfeiffering, davanti al quale il piccolo a mani giunte recitò una preghiera, una strana preghiera antica, che incominciava con le parole ‘contro la morte corporale non c’è rimedio’, non poté che dire commosso: ­Oh, bambino del cielo, che tu sia benedetto!­
E, accarezzandogli i capelli con la mano di sacerdote, gli regalò subito un santino colorato dell’Agnello divino.
Nepomuk è sfiorato dal suffragio della morte; gli adulti invece di distogliervelo ve lo spingono ancor più dentro, circuendolo con uno sciagurato sentimento di pietà angelica!
Come si possono insegnare preghiere così lugubri e funeste a un bambino, il cui occhio innocente dovrebbe essere un ruscello di vivacità e di ardore?!
Per le lagnanze penitenziali l’uomo è un viandante acciaccato, indifeso e soggetto a tutti i pericoli della seduzione e della carne; per tanto è meglio che se ne voli via al più presto! Apoftegma cattolico, cui Zeitblom si abbandona abbagliato e confuso, del tutto senza scriterio.
No, qui non si tratta di te, consumato umanista, bensì di un fanciullo!
Adrian me lo indicò dall’angolo della casa, che se ne stava seduto per terra nell’orto, solo, fra le aiuole di fragole e di verdura, in osservazione di un libro illustrato che lo zio gli aveva regalato e ch’egli guardava con compiacimento da grande. Lo teneva per il margine sulle ginocchia con la mano 265
destra. Il braccio e la manina sinistra, invece, con cui aveva voltato le pagine, erano rimasti, conservando il gesto dello sfogliare, quasi sospesi in aria in atteggiamento indicibilmente leggiadro, la manina aperta di fianco al libro, sicché mi parve di non aver mai veduto un bambino seduto così graziosamente.
Certo ai miei non era dato neppure in sogno di offrire un aspetto simile, e tra me pensai che quel modo doveva essere adottato dagli angioletti lassù nel voltare le pagine dei loro libri sacri.
Una simile sottovalutazione (innaturale e ingiuriosa!) degli altri figli di donna (compresi i tuoi, che dovresti venerare come la pupilla degli occhi di Helene!) è possibile, poiché l’autore scarica l’inammissibile sul narratore, il balordo umanista, Serenus Zeitblom, che si permette questo sciagurato paragone, avendo in mente la fine precoce di Nepomuk e l’adesione al regime di Hitler dei figli di Helene.
Nessun atteggiamento potrebbe essere più illegittimo; ogni bambino deve essere rispettato per se stesso, per la sua mirabile infanzia, idolatrato, talvolta al di qua di quanto farà, gettandosi nella mischia per la maggior parte dei casi preparata dai padri.
Ad un ruvido l’esasperazione della leggiadria angelica di ‘Echo’ riesce insopportabile per questa gratuita (irreale!) rarità; ogni fanciullo è toccato dalla grazia ineffabile e trasparente; se poi non gli riesce di illuminarla nel suo volto, nel suo atteggiamento, nella sua spontanea adesione all’amore di chi lo circonda, non dipende da lui, ma dalla masnada di delinquenti o di cinici guitti, con cui quotidianamente si misura. Quanto ci sarebbe ora, in questo passo, in ogni suo movimento più amabile Nepomuk, se la descrizione dei suoi leggiadri atteggiamenti ci fosse stata proposta dal demoniaco zio!
­Ebbene, figliolo, facciamo sempre il bravo bambino? Che cosa stiamo facendo adesso?­
Ma, mentre agivo così, mi sembrava di essere infinitamente ridicolo e, quel che è peggio, egli se ne accorse e condivise chiaramente il sentimento che provavo sul mio conto e, quasi vergognandosi di me, chinò la testolina.
Non aveva ancora l’età in cui i giovani devono alzarsi davanti agli adulti ed ossequiarli, e se c’era una creatura al mondo cui stessero bene i delicati privilegi e le scuse senza pretesa che si concedono a chi è ancora nuovo su 266
questa terra e inesperto, era lui.
Ci piace pensare che la vergogna di Nepomuk per le parole di Serenus sia la medesima di Mann; che neppure la presenza di Adrian riesca a rendere equilibrato il precursore, lascia perplessi.
Il voler ad ogni batter di ciglia esaltare il piccolo Echo, evidenziandone l‘eccezionalità, riesce inaccettabile.
Coi bambini non si tratta di usare dei privilegi, ma di esprimere la bontà naturale, che a volta si adatta meglio al silenzio di un sorriso o alla sagacia di una carezza.
Quale sia il nostro stato interiore, quale sia la nostra tensione emotiva, non ci si deve mai vergognare davanti a un fanciullo e questo non per difendere la nostra dignità, ma per evitare al bambino la ferocia di coglierci tanto brutti e incontrollati.
Quando si ha a che fare in modo diretto con queste piccole vite, sventoli sempre alta la bandiera della nostra sicurezza, anche a rischio di divorarci all’interno per quanto di infame ci informa.
No, non si tratta di un atteggiamento ipocrita! Anzi, se pur sei dagli altri creduto spergiuro, terrai sul fanciullo il tuo limpido sguardo spiegato e se proprio dovrai sprofondar nella fossa il tuo grugno, resisti, finché non lo vedi lontano!
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Tra poco quell’azzurro ridente degli occhi avrebbe perduto la bellezza primordiale di altri mondi; quel visino angelico singolarmente e decisamente infantile con la fossetta nel mento, sarebbe diventato il viso d’un ragazzetto più o meno comune, che si sarebbe dovuto trattar prosaicamente e non avrebbe più avuto alcuna ragione di rispondere a siffatto trattamento con quell’ironia con cui Nepo aveva osservato il mio attacco pedagogico.
Eppure c’era qualcosa che impediva di cedere al tempo e alla sua opera volgare, al suo potere su quella soave creatura: era ls sua strana unità, la sua validità come apparizione del bambino in terra, la sensazione delle discesa dall’alto, di quell’amabile aspetto da messaggero che essa instillava e che la ragione cullava in sogni extra­
logici tinti di cristianesimo.
Zeitblom non ammette di essere stato grottesco nella sua burbanza 267
pedagogica e si inventa una particolare stato angelico (tipica di quel solo bambino! Concetto da canaglia!) ‘inflitta’ al piccolo Nepomuk per scusarsi dell’infelice approccio, quasi a dire: ho sbagliato con lui, ma era il modo giusto per trattare un fanciullo comune, destinato a diventare presto un ragazzo ancor più comune, se non volgare, degno delle più feroci attenzioni pedagogiche.
E’ qui stigmatizzata la stoltezza di quegli educatori, che, affetti da elitarismo cronico, si lasciano volutamente sorprendere da alcune qualità di tipo ‘angelicante’ (influsso della devozione cristiana, fondata sulla rinuncia ai beni terreni! E’ il tuo unico punto vitale, imbecille!) per distinguere a volto nudo nei piccoli i destinati a grandi cose per volontà divina da quelli, che saranno obbligati a percorrere sulle quattro zampe le miserie materiali.
Avrei dovuto seguire l’esempio di Adrian, che non era uomo di scuola, ma artista, e prendeva le cose come venivano, evidentemente senza pensare alla loro mutevolezza.
Credeva nell’immagine, una fede di sicura pacatezza e tranquillità di spirito, che non si lasciava sconcertare neanche dalla meno terrena delle immagini.
Il suo comportamento verso il piccino era di una delicatezza trasognata, sorridente e anche serio, senza abbellimenti e persino senza tenerezza.
Non l’ho mai visto accarezzare in qualche modo il bambino, tutt’al più gli passava una mano sui capelli.
Vero è che lo portava volentieri a spasso in campagna, tenendolo per la manina.
Ancora una volta l’abitudine a generalizzate costringe Zeitblom all’errore; Adrian non prende le cose come vengono, ma come sono!
Era anche capace di nobilitarle in modo terreno, ma senza alcuna forzatura.
Il fatto poi che le persone e le cose cambino, non impedisce che le si prenda a cuore con estrema serietà e delicata cura.
Come ha potuto Zeitblom presumere che in Adrian non vi fosse tenerezza?! Che cos’è la tenerezza?! E come poteva conoscere il comportamento di Adrian verso il fanciullo, quando egli era assente?!
Zeitblom ha dimenticato che l’amico è uscito da poco da una tragedia e dalla delusione più forte della sua vita; Marie Godeau è scomparsa, quasi 268
trascinata, dilaniata da una nuvola rossa d’orrore.
L’arrivo impensabile del piccolo Echo si trasforma necessariamente per lui in una sorta di compensazione del feroce destino.
Nepomuk è quasi un suo figlio; egli si sente quindi autorizzato a crescerlo con la devozione e la serietà del padre, carne della sua carne in un rapporto di tenerezza delicata e profonda.
Non è l’artista, che guida Adrian nell’atteggiamento verso il fanciullo, è la sua umanità ferita e rinata.
Sorprende che Serenus non rifletta sul fatto che tale dovrebbe essere sempre il comportamento o stato interiore dell’educatore!
Dicendo ‘notte’ porgeva la manina prima di addormentarsi nell’erba o sulla seggiola; e una volta trovai Adrian nell’orto, mentre, seduto su una panchina sottile formata soltanto da tre assi inchiodati, custodiva il sonno di Echo, seduto ai suoi piedi.
­Prima mi ha porto la manina!­ disse, alzando gli occhi e riconoscendomi. Non mi aveva neanche notato mentre mi avvicinavo.
Dovessimo cedere all’impressione emotiva, certamente cadremmo in una sorta di annuvolamento doloroso da trance davanti all’immagine di questo fanciullo così immediato e così radicale nell’esprimere i suoi moti e sentimenti.
L’arte di Mann non sbaglia un colpo; le persone nascono dall’interno stesso della vicenda e si espandono sulle cose e sui vicini con una pienezza senza pari.
Ci permettiamo di dire che, se questa vicenda fosse stata rivelata attraverso il diario di Adrian, l’avremmo vissuta con maggior equilibrio affettivo.
Caro umanista, se vuoi che noi ci si appassioni all’apparizione del bambino o che vi penetriamo con tutta la scioltezza del cuore, non farci continuamente capire che quel fanciullo è destinato alla morte, vittima innocente, sacrificata alla sete di forme umane da parte degli angeli di dio!
Lasciaci godere in pace la sua notte riposata e la sua manina abbandonata! Lasciaci pensare con fiducia che gli esseri, nati, spontaneamente e 269
sicuramente crescono e certo diventeranno altro, ma senza mai perdere l’impronta magica e pura delle Madri!
Se non ci comportiamo con sottile passione verso tutte le creature dell’universo, se scaviamo tra loro acerbamente dei solchi incolmabili, siamo noi che offuschiamo di lividi e di risentimenti la loro bellezza.
Si vedeva chiaramente che era molto attaccato ad Adrian, che cercava la sua compagnia, certo anche perché era eccezionale e interessante, mentre la compagnia delle due donne era comune.
Del resto, come poteva sfuggirgli che quell’uomo, il fratello di sua madre, occupava tra i paesani di Pfeiffering una posizione singolare, rispettata, considerata persino con timore? La soggezione degli altri doveva essere uno sprone per il suo orgoglio infantile a fargli desiderare la compagnia dello zio.
Non c’è storditezza peggiore per un educatore di quella con cui nel considerare e correggere un fanciullo o un adolescente lo ‘gratifica’ della ‘sua’ psicologia, non quella che lo sorprendeva allora, del tutto scordata, ma quella che lo impregna da adulto.
Quando davanti a un fenomeno umano si imbocca la strada contorta, tutte le considerazioni ne sono inficiate.
Avremmo anche perdonato a Zeitblom il pessimo approccio, se in seguito si fosse reso conto che nella presunta ‘angelicità’ di Echo egli ha fatto scivolare il germe dell’ambizione elitaria, del tutto assente nel piccolo, la cui attrazione verso lo zio è alimentata dalla sua particolare umanità, senza peso tanto aderisce al fanciullo spontaneamente, incontro per incontro.
Nepomuk preferisce Adrian per l’istinto della vita, non già per premonizione angelica verso la morte!
*
Non si può dire che Adrian venisse incontro senza limiti ai desideri del bambino. Per giornate intere non lo vedeva, ma lo lasciava entrare, sembrava lo scansasse e rifiutasse a se stesso quella vista indubbiamente a lui cara.
Poi invece passava molte ore insieme a lui, lo prendeva, come ho detto, per la manina e lo portava a fare 270
passeggiate adeguate alle sue forze; camminava con lui in concorde silenzio o tra brevi conversari, attraverso l’opulenza della stagione, nella quale Echo era arrivato, nei profumi delle fragole e dei gelsomini lungo le strade, oppure lo faceva camminare davanti a sé per stretti sentieri, tra muraglie di grano ormai prossime al taglio, i cui gambi con le spighe oscillanti, alti quanto Nepomuk, sorgevano dai solchi.
Descritto così, il comportamento di Adrian sembra dettato dal caso o dalle condizioni d’umore della sua natura artistica.
Noi, invece, vi intravvediamo la spontaneità di una saggezza, dettata dal rapporto stesso col fanciullo e con quanto da lui suggerito al pensiero e al sentimento adulto; la visione angelica di Echo è del tutto allontanata, cancellata.
Il fanciullo si sente circondato dal coro delle voci della natura e con la manina nella mano dello zio si lascia accompagnare in quei mirabili paesaggi, ove trionfano il grano o le fragole o lo splendore degli alberi.
Si tratta di quell’immedesimarsi con l’essere che giustifica anche il più piccolo istante di vita, che allontana, quindi, dal sé la riflessione della caducità, in quanto miserabile cura interiore proprio nel momento in cui la feracità della natura è nella sua massima espansione.
Osservava volentieri i manoscritti dello zio, con le palline nere o vuote legate da archi e sbarre, ornate di banderuole o pennacchietti disseminati sul sistema dei righi e si faceva spiegare di chi si parlasse dentro quei segni: ‘di lui’, detto fra noi, e mi piacerebbe sapere se lo deducesse per intuizione o se dai suoi occhi si potesse capire che lo deducesse dalle spiegazioni del maestro.
No, Zeitblom non sa che cosa sia l’intimità di un artista, la sua profonda modestia e ritrosia davanti ad un qualsiasi accenno alla sua opera da parte di un bambino.
No, Adrian non poteva essere così stordito da rispondere al piccolo, chiedente di chi si parlasse in quei rigidi e misteriosi segni, che il soggetto di riferimento era ‘lui’, riducendo ad Echo l’immensità in quel momento insopportabile della sua opera musicale.
Per se stesso il fanciulo istintivamente non avrebbe accettato per seria la riduzione ad un soggetto limitato (fosse pure lo zio o la mamma di così straordinarie figure originali e misteriose!
Mann con questo passo ha voluto soltanto segnalare quanto sia sbagliato e 271
sciagurato ricostruire a posteriori situazioni ed impressioni, delle quali non si ebbe la possibilità (non entriamo nel merito di quanto accortezza sia necessaria per rendersene conto!) di assistere alle reazioni de visu!
Talvolta Adrian non vedeva il bambino per intere giornate, sia che fosse molto occupato, sia che l’emicrania lo costringesse a stare in silenzio e al buio, sia per un qualche altro motivo.
Ma proprio dopo un giorno in cui non aveva visto Echo entrava volentieri in punta di piedi per assistere alla preghiera della sera che egli recitava con una delle sue custodi o anche tutte e due. Erano strane benedizioni quelle che, spalancando gli occhi verso il soffitto, veniva recitando con molto fervore. Diceva per esempio: Se anche grande è il tuo peccato / Dio lo ha visto e perdonato; cosa lieve è il fallo mio / e dal ciel sorride Iddio e così sia!
Benché tu sia peccatore / puoi far bene a tutte l’ore! Nessun merito è obliato / tranne che tu sia dannato. Oh, potessi con chi amo / ascoltare il gran richiamo! Così sia!
Chi pel prossimo intercede / a se stesso anche provvede. Echo prega Dio per tutti / che l’eterno amor gli frutti!
­Che ne dici di questa speculazione teologica? Egli prega addirittura per tutta la creazione, intendendo espressamente di esservi compreso anche lui. Ora, l’uomo pio ha da sapere che fa l’utile suo proprio pregando per altri? Il disinteresse se ne va, non appena si sa che reca qualche vantaggio.­
­Gli hai domandato da chi le ha apprese, se da suo padre o da chi altro?­
­No, preferisco rinunciare a questa domanda e supporre che non saprebbe rispondere.­
A quanto pareva le Schweigestill si comportavano allo stesso modo. Nemmeno loro, per quanto io sappia, hanno mai chiesto al bambino dove avesse appreso quei versetti serali.
La sconcerto di Mann è trasferito direttamente alle due donne che curano il piccolo Echo; se il senso di disagio teologico fosse sottolineato solo da 272
Adrian, non capiremmo le disgustate reazioni dell’autore e anche la storditezza di queste preghiere ci sfuggirebbe, come ci riescono ormai senza senso tante abitudini contratte da secoli di supina accettazione.
Zeitblom, non tentando di darsi una risposta (acquiescenza meschina!), sembra volerci far credere che il comportamento degli adulti sia dipeso dal desiderio (o dalla convinzione!) che ad Echo i versetti fossero ispirati direttamente dal suo angelo custode, quell’angelo, che con molta crudeltà per chi adorava il fanciullo se lo sarebbe ripreso assai presto.
Se avesse avvertito attorno questo atteggiamento, con certezza Adrian se ne sarebbe profondamente irritato; avendo sospeso ogni giudizio sia sulla divinità sia sulle maligne influenze di Satana, per lui era insopportabile che la straordinaria innocenza del bambino suggerisse pensieri di morte precoce. Per l’artista, chiunque avesse avvicinato il piccolo e inconsapevole Echo a quella sciagurata e meschina sapienza teologica, era degno della macina al collo; a danno compiuto, diventava inutile rincorrere il colpevole; si trattava ora di controbilanciare quel veleno penitenziale con un’educazione naturale, che lentamente e silenziosamente liberasse Echo dalla flagellazione devozionale per fargli recuperare la spontaneità del sentimento in modo che lentamente rientrasse nella serenità della natura.
Ad un certo punto della sua evoluzione sensibile e conoscitiva Adrian avrebbe stracciato quella patina di preghiere stiracchiate e inficiate di servilismo codardo ed avrebbe abituato il fanciullo ad immedesimarsi con la frugalità e lo splendore delle spighe di grano.
*
Era la metà di Agosto e con l’aiuto di forze avventizie si stava facendo il raccolto.
Per due mesi Nepomuk era stato la gioia della casa. Un raffreddore turbò la dolce chiarità dei suoi occhi e certamente questa molestia gli tolse l’appetito, lo mise di malumore e aumentò quella sonnolenza alla quale, da quando lo conoscevamo andava soggetto.
Diceva ‘tanza’ a qualunque cosa gli si offrisse, fosse cibo o gioco o gli si mostrassero libri illustrati o gli si raccontassero fiabe. ‘Tanza’, diceva, torcendo dolorosamente la faccina, e volgendosi dall’altra parte. Ben presto si manifestò un’intolleranza alla luce e ai rumori, più preoccupante del malumore precedente.
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Era doloroso vedere come il piccino andasse da uno all’altro cercando riparo, e buttasse le braccia al collo delle persone che gli volevano bene, per ritirarsi di nuovo sconsolato.
Con la stessa smania arrivava spesso dallo zio. Gli si appoggiava al petto e, ascoltando le sue dolci parole, lo guardava negli occhi, sorrideva debolmente, ma lasciava poi cadere la testina a mano a mano sempre più e mormorava ‘notte’, rimettendosi in piedi e uscendo dalla stanza con passi un po’ vacillanti.
Il bambino, che tanta felicità aveva seminato tra le persone adulte, che lo adoravano, nell’ora del dolore rimane solo, inconsolabile, poiché nessuno è preparato a sostenerlo al di fuori del lato angelico.
Echo sta pagando uno scotto troppo alto alla sua precocità esistenziale, alla sua capacità di prendere corpo negli interstizi degli adulti, quasi personalità incommensurabile e piena.
Nessuno a questa inaspettata caduta su se stesso, sulla corporeità del suo dolore, sa come prenderlo, come riscuoterlo dalla stanchezza, dall’incapacità disperata di sopportare la luce e i rumori.
Il sottinteso di questo intermezzo, dedicato all’innocenza di Echo, si sintetizza in questo: tutto è destino! Ah, la stolida rassegnazione degli adulti, che vigliaccamente si rifugiano nella sorte per non incolpare la loro accidia e malafede!
Fu il destino che toccò ad Echo, come toccò e continua a colpire tantissimi fanciulli, prematuramente rapiti ai loro genitori, che se ne straziarono nell’immediato per poi lentamente accettare, rassegnati.
Si prende atto e si procede!
Il cammino della vita è certamente accidentato, (non ne penetriamo le cause; sarebbe troppo lungo e non è il caso in questo momento!), ma non vi è nulla di più intelligente e di più probo che affidare la sorte degli Echo alla bontà del padre celeste e degli angeli, suoi corifei bianchissimi e sempre lietissimi?!
Per noi invece scatta la ‘rivolta’ e stiamo coriacei in attesa di quanti avranno il coraggio di esprimersi senza alcun velo di rassegnazione, anzi decisamente irritati contro quel qualcuno che avrebbe dovuto impedire a tanto strazio di contorcersi in un corpicino innocente, oscurando (stoltezza della superstizione fideica!) la sobrietà dell’attiva speranza.
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Nepomuk aveva avuto vomito improvviso e quasi eruttivo: nello stesso tempo febbre non molto alta, con dolori di testa, che in poche ore aumentarono fino a diventare intollerabili. Quando arrivò il dottore, il bimbo era già a letto e si teneva la testina fra le mani ed emetteva gridi, che talvolta si prolungavano sino all’ultimo fiato. E intanto stendeva le manine verso coloro che gli stavano vicino, gridando: ‘Aiuto! Aiuto! Mal di testa! Mal di testa!’
Kurbis esaminò il bambino, le cui pupille si erano rimpicciolite e rattratte e guardavano losco. Il polso era precipitoso. Si notavano contrazioni muscolari e l’inizio di un irrigidimento del collo. Si trattava di meningite cerebro­spinale.
­La presenza della mamma, disse, avrebbe avuto probabilmente un effetto tranquillante sul piccolo malato.­
Non è possibile descrivere la disperazione che ci prende davanti all’incapacità di sottrarre un bambino allo strazio fisico, che ne altera e stravolge la sottile e graziosa figura.
Ma come potevano guardare ‘losco’ due occhi di fanciullo disperato di dolore?! Se ci scorgi del losco, lurco sei e meriti la macina al collo!
Dove si può rifugiare lo spirito dell’innocente, (il divino custode è sparito?!), quando la sofferenza scatena i suoi raffi sul piccolo corpo, spaventato dalla sua stessa capacità di ingoiare il dolore, come una cattiva medicina?!
Lì, a contatto di fiato, ci sono persone disposte (vanità sconsolante dell’offerta!) a scialare la vita, perché l’innocente ritorni a sorridere!
Adrian, il ‘volontario’ messaggero di Satana, come assiste a quello scempio, (scempio della natura?! Di chi, miserabile forza dell’anima?!), scempio di un piccolo corpo, che solo ieri era così dolce, soave, con simpatia consapevole della propria garbata presenza?!
Zeitblom non ce lo dice, poiché sta preparando il suo colpo di clava; ma noi ne sentiamo il fiato d’assenzio e lo strepito gelosamente inghiottito.
Dopo il sonno dell’esaurimento nel quale era caduto appena fatta la puntura, disturbato da nuovi vomiti, da 275
convulsioni e da dolori insopportabili, Nepomuk riprese i suoi lamenti strazianti e gridi acuti: era il tipico ‘grido idrocefalico’, contro il quale solo la sensibilità del medico è discretamente corazzata, appunto perché lo considera tipico. Ciò che è tipico ci lascia freddi, soltanto l’individuale ci fa rabbrividire.
In ciò consiste la tranquillità della scienza.
Tipica è la malattia, ma le conseguenze sono totalmente individuali e non sono meno dolorose per il fatto di corrispondere in modo perfetto alle indicazioni della scienza.
Questo non è il modo che hanno i ruvidi di concepire e utilizzare la scienza, neppure lo fu di quanti nel passato proiettarono il loro sensibile acume per prevedere, non conta in che modo, (magia, utopia, invenzione concreta!), una serie di eventi in cui l’uomo (ogni singolo uomo!) più non soffrisse che per i limiti della natura, nessuno mai più (per nessun motivo!) dovendo sacrificare come ‘tipico’ o come ‘universale ‘ o come votato alla mensa degli angeli!
*
Aggiungo ancora che, per chi osservava Nepomuk, un sintomo secondario era forse la cosa più spaventosa: lo strabisno e il progressivo sbiadire dei suoi occhi di cielo, che poteva spiegarsi con una vera paralisi dei muscoli ottici, parallela con la rigidità cervicale.
Ciò faceva stralunare il bel visetto in modo orrendo e provocava, specialmente insieme al digrignare dei denti, l’idea dell’ossessione.
Si tratta di una descrizione del piccolo Echo, che fa da contro altare alla sua figurazione paradisiaca di pochi mesi prima, allorché alle persone, che lo circondavano ed assistevano, suggeriva l’idea di una creaturina, scesa in terra per breve stagione e per miracol mostrare.
Zeitblom, sconvolto dalla inaspettata ed improvvisa metamorfosi, ci immette ex­abrupto in una sorta di inusitato demonismo, come se le forze del male, (sullo sfondo il patto di Adrian occhieggia più pauroso e laido che tragico!), gelose della predilezione angelica per il fanciullo dagli occhi di cielo, si scatenino nella loro truculenza, impadronendosi dell’espressione e della spina dorsale del piccolo uomo, già dall’origine conteso e per questo dall’origine non destinato a crescere. 276
Il pomeriggio seguente arrivò il professor Rotenbuch, autorità di Monaco che si voleva consultare. Era un uomo d’alta statura, di modi sciolti, che al tempo del re aveva ricevuto personalmente un titolo nobiliare. Era molto ricercato e costoso. Teneva sempre un occhio semichiuso, era assorto in costante esame. Trovò da ridire contro la morfina, perché poteva creare l’illusione di un coma che non era ancora subentrato e concesse soltanto la codeina.
Disse che tra non molto si sarebbe avuto un turbamento della coscienza e che questo turbamento sarebbe rapidamente aumentato. Il bambino allora avrebbe sofferto meno e alla fine non avrebbe sofferto più.
Dopo aver avuto la bontà di eseguire personalmente la seconda puntura, si accomiatò decorosamente e non ritornò più.
Non sappiamo se questa antipatia quasi rancorosa per i luminari della medicina abbia origine e fondamento in una qualche infelice esperienza dell’autore; in concreto rimane una pura espressione umorale e non incide, non graffia i motivi, che permettono ad un uomo celebre di stare aldilà della sofferenza; la maggior antipatia, che il luminare suscita nel lettore, dipende semplicemente dal fatto che non sta trafficando con provette o anomalie di laboratorio, ma con delle creature umane.
Ma che si pretende dalla letteratura?! Si pretende (essendo diretta scaturigine della sincerità ominide!) che non solo non si limiti a descrivere, ma ne centri assolutamente e genuinamente le cause!
Sfugge al narratore che la forte antipatia per l’esperto si manifesta in maniera così prorompente, perché contrasta con la delicata e dolorosa partecipazione dei parenti e dei conoscenti alla sofferenza dei propri cari; questa estraneità, che tutto giudica dall’alto di una sicumera sempre e comunque fuori luogo, scatena la rivolta interiore, come se ci trovassimo davanti allo scempio, provocato da un’orda di bufale, penetrate in un santuario di ricordi e cimeli. La signora Schweigestill, con gli occhi stanchi per le notti perdute e con le palpebre tumefatte dal pianto, mi accolse sulla soglia di casa e mi pregò con insistenza di andar subito da Adrian. Tanto avrei presto visto il piccino, presso il quale, del 277
resto, fin dalla notte precedente stavano i genitori.
Adrian invece aveva bisogno del mio conforto e, a dire in confidenza, egli stesso stava male e pareva talvolta che vaneggiasse.
Il suggerimento della signora Else (è doveroso confessarlo! La verità della narrazione non deve mai essere messa in dubbio, per quanto male faccia!) riabilita in assoluto la personalità sensibile di Serenus Zeitblom.
Questa donna, che ha capito immediatamente il suo compito di madre per l’artista, non si lascia confondere dalla tragedia imminente del piccolo e innocente ospite; le sue preoccupazioni più vive (una sorta di dovere, che non si discute, severo e illuminante come la tenerezza materna!) sono volte ad Adrian, così dotato e così fragile davanti alle forze imperscrutabili del destino.
Con Nepomuk ora ci sono i genitori carnali, gli unici che possono ancora ristabilire un rapporto col piccolo infelice, i soli in grado di accettare o maledire i colpi della divina Provvidenza; a lei e all’amico Serenus (è estremamente significativo che ad Else Schweigestill non facciano ombra le civetterie dottorali, attenta alle profonde e schiette predisposizioni alla pietà delle persone!) compete di sostenere la giornata terrena dell’artista, straordinaria apparizione, spiovuta sulla terra per recare gioia e coraggio ai sentimenti dei simili, dovendo per se stesso rinunciarvi in forza di una maledizione inspiegabile.
Else Schweigestill non teme le forze aliene, (si tratti di Dio o del suo fanatico rivale!); essa è naturalmente consapevole che l’uomo può essere dio o torturatore di se stesso e dei simili.
Straordinaria donna, che onora e ingrandisce l’immaginazione umana del suo ideatore!
*
­Ebbene, brav’uomo – disse, quando mi fui avvicinato e gli ebbi posato una mano sulla spalla – che cosa vuoi da queste parti? Non è luogo per te. Fatti almeno il segno della croce, come hai imparato fin da bambino per tua tutela!­
Adrian diventa sarcastico, quando fiuta nella devozione religiosa il desiderio sfrenato di salvezza personale.
Il protestantesimo, nella sostanza, è la rivolta contro la preghiera, che supplica attenzioni particolari da parte del Dio; in essenza l’affermazione 278
perentoria che la Grazia è gratuito dono ha proprio questo significato: non sono i tuoi voti o le tue promesse, che rendono compassionevole Cristo verso i tuoi peccati, ma la sua decisione, la sua bontà, la sua volontà.
­Prendilo, mostro! – gridò con voce che mi scosse le più intime fibre – Prendilo, cane fottuto! Ma spicciati, se non hai voluto concedere neppure questo, manigoldo che sei! Avevo pensato che mi volesse concedere almeno questo! Invece no! Donde dovrebbe prendere la grazia, lui che ne è lontano e proprio questo ha dovuto calpestare con la sua rabbia bestiale! Prendilo, maledetto! Prendi il suo corpo, che è in tuo potere, ma dovrai lasciare in pace la sua anima dolce; e questa è la tua impotenza, la tua ridicolaggine, per cui ti voglio insultare pei secoli.­ Alle mie parole di consolazione rispose soltanto: ­Risparmiale, risparmiale e fai il segno della croce! E non farlo soltanto per te, fallo anche per me e per la mia colpa. Quale colpa, quale delitto che lo abbiano lasciato venire, ch’io l’ho lasciato venire vicino a me, che mi sono goduto la sua vista! Devi sapere che i bambini sono fatti di sostanza delicata e sono facilmente accessibili a influssi velenosi!­
Adrian qui sfoga il suo titanismo di conoscitore delle più intime sfere cosmiche e caparbiamente fedele alla sua educazione teologica, si giudica invasato da Satana in quanto orgoglioso.
Ma la sua particolare sensibilità non si ferma a questo aspetto della questione; sta per morire in modo insopportabile un bambino di rara bellezza e di ancor più rara acutezza. Per non lasciarsi andare ad insultare il datore della vita, se la prende con se stesso e con il presunto mostro demoniaco, che si sarebbe impossessato di lui, facendogli insudiciare e avvelenare tutto quanto tocca; l’orrore (‘la mia colpa’) sta nel fatto che il fanciullo è stato vicino a lui, si è affezionato a lui, ed è stato da lui prediletto e se ne è intenerito al punto da illuminare le sue giornate e le sue notti!
Ma, nonostante tutte queste maledizioni a sé e al suo mostro spirituale, miserabile compare di bisboccia nel male, (quale male, Adrian?! Il tuo fervore creativo, la tua pietà per il dolore, la tua innocenza assoluta, che sprigiona da te l’armonia delle sfere?!), nonostante questa sciagurata consapevolezza, il suo titanismo non si piega, non allenta la presa: l’invito 279
a segnarsi, a umiliarsi davanti alla croce, è rivolto all'altro (quasi egli ne fosse indegno!) al brav’uomo, all’umanissimo Zeitblom; a lui, Adrian, non resta che la caparbietà della sfida, che la continuità della sfida!
­Zeitblom! Ho trovato che non dev’essere!­
­Che cosa, Adrian, non dev’essere?­
­Ciò che è buono e nobile, ciò che si dice umano, benché sia buono e nobile. Ciò per cui gli uomini hanno combattuto, per cui hanno dato l’assalto alle rocche, ciò che i vincitori hanno annunciato trionfanti, ecco, non dev’essere. Viene ritirato. Io lo voglio ritirare.­
­Scusa, caro! Non ti comprendo del tutto. Che cosa vuoi ritirare?­
­La Nona Sinfonia – rispose. E non disse altro per quanto io stessi aspettando.
Il momento di debolezza (accettazione del male teologico, dottrina, che contrae la perfidia, il dolore e la malafede in un unico essere, chiamato Satana o demonio o belzebù!) è già stato riassorbito da una personalità, che non cede un palmo al terrore; il titanismo del rifiuto di ogni fatalità, che costringa l’uomo nella città murata dell’orrore e del terrore, ne esce ancor più cristallino.
Noi abbiamo, però, capito che questa forma estrema di affermazione non è rivolta agli altri uomini, quasi pulci davanti a cavallo o a leone o a bue trionfante, no, è una sollecitazione del proprio diritto alla libera visione contro un esterno macabro e paradossale, che, facendo leva sull’immane infinito, il quale sta oltre il tempo e lo spazio terreno, titano di fumo soffocante, tenta di schiacciare la dignità del ‘piccolo’ essere, che noi siamo!
Che cosa ritira Adrian perché impossibile per lui?! Egli rifiuta tutto ciò che rappresenta la Nona Sinfonia per l’umanità, il più alto dono dell’uomo a se stesso, la sua trionfale vittoria contro la notte. Perché?! Egli ha preso definitivamente atto (nella sua spietata solitudine non poteva certo andare oltre!) che la volontà di bene e di nobiltà della stagione dei lumi è degenerata nella cattiveria e nella crudeltà, per cui bisogna riprendere il cammino dall’abisso, dove si è sprofondati e soffrire fino all’esaurimento delle cattive influenze e poi accada quello che deve accadere.
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Dopo gli orrori della guerra mondiale e l’accanirsi feroce dell’uomo sull’uomo in nome delle patrie, non era più possibile esprimere la libertà della creazione artistica sulle ali dell’entusiasmo classico­romantico; era necessaria una scossa d’altra natura per ricominciare e attraverso l’orrore degli abissi (il rifiuto della falsa luce nazionale!) recuperare i toni trionfali dell’ultima sinfonia del più titanico compositore, parzialmente alemanno.
Se neppure la purezza delicata del piccolo Nepomuk ha potuto reggere alle influenze dell’odio, (satanico, come simbolo della perfidia massima!), l’antico sentiero non è più percorribile ed altri sono i tracciati, che il genio deve tentare.
C’è in questa tragica consapevolezza di un nuovo ‘dovere’ (capace di bere ed asciugare tutto il male, che impregna le patrie!) la spiegazione sintetica del perché Adrian, pur inveendo contro il nemico della Grazia, (il demonio, archetipo del male o infecondità della violenza!), non cede al segno della croce.
L’arte ha in sé la forza trasparente per rendere questo ‘grommero’ apparentemente non scioglibile un momento di lucidità e, ancor più, di libertà.
L’angoscia per l’agonia del ‘celeste’ fanciullo è scacciata, come motivo di resa, (non certo come lamento per la sua scomparsa precoce!), dalla negazione recisa di ogni altro mondo, sede della celestiale essenza degli angeli. Bisogna sì, passare attraverso l’inferno per recuperare il bene e il nobile, ma è ancor più importante negare che la qualità sia un dono degli dei; no, essa è intima perla dell’uomo!
A convalida di queste spiegazioni, citiamo il modo, con cui Adrian saluta Zeitblom, che si sta accomiatando, dopo l’incontro con Ursula.
La mamma singhiozzava. Io le avevo stretto la mano e gliela strinsi di nuovo. Sì, era proprio lei, Ursula, quella della fattoria di Buchel, la sorella di Adrian, dagli occhi castani.
Mi accomiatai da Adrian esprimendo timidi auguri, e il modo con cui mi salutò fu per me più simpatico del ricevimento avuto il giorno prima. Abbozzando un sorriso, mi disse in inglese: ­Then the elements, Be free, and fare thon well!­ (Per gli elementi! Sii libero e addio!)
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Poi si staccò rapidamente da me.
Nepomuk Schneidewien, Echo, l’ultimo amore di Adrian, spirò dodici ore dopo. I genitori portarono la piccola bara con sé al loro paese.
Che l’umanità nella sua completezza (sua sola onnipotenza! Ricchezza potenziale da conquistare la gloria dell’universo, secondo le architetture mirabili della Nona Sinfonia di Beethoven, del tutto aldilà delle patrie!) non sappia trattenere sulla terra sino a completa maturazione i fanciulli, (moltissimi Nepomuk uccisi dalla cinica e crudele infingardaggine della proprietà!), è il solo satanismo; altro Satana non è!
Lo strappo di pianto che ci afferra alla vista della piccola bara, che i genitori trasportano nella loro lontana terra, (terra infantile, in cui crebbero tutti i mirabili volti!), diventi uno stimolo per vincere lo strato di nuvole nere, che impediscono all’ominide di instaurare il suo regno di luce!
Si agisca affinché nessuna Ursula pianga precocemente la morte del piccolo Echo!
*
Sono quasi quattro settimane che non continuo questo note, trattenuto in primo luogo da un certo esaurimento psichico dovuto ai fatti che ho ricordato, ma anche dalle novità del giorno ormai incalzanti.
Già alla fine di Marzo (oggi è il 25 aprile del fatale 1945) la nostra resistenza in Occidente stava evidentemente dissolvendosi.
Non c’è più modo di resistere; tutti si arrendono e si disperdono; le nostre città, estenuate e schiantate, cadono come pere mature.
Tra i grandi del regime, che avevano sguazzato nel potere, nella ricchezza e nell’ingiustizia, infuria, giudice supremo, il suicidio.
L’uomo raccapricciante, che or è un anno sfuggì all’attentato di patrioti disperati miranti alla salvezza dell’ultima sostanza, l’avvenire, e salvò una vita ormai folle e sfiaccolata, ha ordinato ai suoi soldati di affogare in un mare di sangue l’attacco contro Berlino, di fucilare ogni ufficiale che osi parlare di resa.
Nessuna circostanza lascia più tristezza di quella, in cui la tragedia privata si assomma a quella pubblica; l’orizzonte si oscura e non si scorgono 282
alternative o squarci di luce. Il crollo della Germania Hitleriana fu un colpo durissimo per i tedeschi, soprattutto perché le forze vittoriose svelarono il grumo di orrori e di delitti, commesso in nome della purezza razziale dal regime nazista.
L’angoscia di Zeitblom rispecchia fedelmente quella di tutti gli intellettuali, che erano cresciuti in quell’atmosfera di superiorità, pur con qualche riserva, appellandosi al ‘classicismo’ di Weimar, quasi ad epoca d’oro, in cui tutte le grandezze alemanne erano state poste, decennio (1795­1805) in sé straordinario, ma non certo per quanto pretesero di fargli dire gli epigoni del decennio hitleriano!
Per chi, come i ruvidi, hanno avuto e continuano ad avere grande ammirazione per la letteratura, la musica, la cultura e l’arte tedesca, il crollo così vergognoso, preceduto da turpitudini e crudeltà inaudite, fa ancora male, anche se non sono mai stati sfiorati dal senso di fine della civiltà, come altri tentarono di far credere, persone in malafede, che cercavano solo di sotterrare tra le macerie della Germania hitleriana la loro coda di paglia. La nostra vergogna è esposta agli occhi del mondo dalle commissioni straniere alle quali si presentano dappertutto queste visioni inverosimili, sicché possono riferire a casa loro come ciò che hanno visto superi in orrore tutto quanto l’umana fantasia può immaginare. Io dico: la nostra vergogna. Infatti, è mera ipocondria sostenere che tutto il germanesimo, anche lo spirito tedesco, il pensiero tedesco, la parola tedesco sono colpiti dal disonore di queste scoperte e messi decisamente in dubbio?
E’ forse contrizione ‘morbosa’ proporsi il quesito come mai in avvenire la ‘Germania’ in qualsivoglia dei suoi aspetti potrà avere l’ardimento di aprire bocca sui problemi dell’umanità?
Zeitblom si prolunga su questo tono e inanella esecrazione ad esecrazione, tenebrosamente negando che i tedeschi avranno la possibilità di riscattarsi da tanto orrore.
Nei fatti le cose andarono in modo ben diverso; solo dopo un decennio da quel fatale Aprile del 1945 la Germania Occidentale era già entrata economicamente nel novero delle grandi nazioni e solo la furbizia (non modestia!) del suo gruppo dirigente le impedì, proprio per non agitare 283
ritorsioni e cattivi ricordi, di avere subito il peso politico e militare corrispondente.
Coloro che avrebbero dovuto far pagare al popolo tedesco gli orrori del nazismo, ne commisero di peggiori, pur di avere dalla loro parte una nazione, che nel campo dell’anticomunismo aveva dato prove egregie e non confutabili.
Successe anche qualcosa di peggio, tutta la struttura spionistica e poliziesca degli Stati Uniti fu impostata sull’esempio della Gestapo. Gli uomini peggiori del regime nazista furono aiutati a fuggire nel ‘nuovo’ continente ed alimentarono tutte le sommosse militari di tipo peronista del Sud America per impedire l’avvento delle masse sulla scena politica di quei paesi.
La stessa divisione di Berlino, caparbiamente voluta dalle forze occupanti occidentali, (stoltamente accettata dalla dirigenza sovietica post­
staliniana!), contribuì a tenere altissima la tensione di guerra tra i due campi contrapposti.
Ciò che l’umanità si apprestava a vivere (e tuttora vive!) era di molto peggiore di quante efferatezze non avessero compiuto i tedeschi, guidati dal nume della follia nazista.
Oggi le parole di Mann:
come sarà possibile appartenere ad un popolo la cui storia reca in sé quest’orrendo fallimento, ad un popolo spiritualmente consunto e incerto di se stesso
non hanno alcun valore, mentre ne avrebbero esaltato uno essenziale, quello del rifiuto della guerra e delle persecuzioni razziali, se responsabili di quelle brutture fossero stati davvero e soltanto i tedeschi.
*
Come si abbinano stranamente i tempi, quello in cui scrivo con quello che costituisce l’ambito di questa biografia!
Gli ultimi anni di vita spirituale del mio protagonista, i due anni 1929 e 1930, dopo il fallimento dei suoi progetti matrimoniali, dopo la perdita dell’amico, dopo il rapimento del meraviglioso fanciullo ch’era arrivato da lui, appartenevano già al montare e al dilagare di quelle forze, che si impadronirono poi del paese e ora tramontano nel sangue e nel fuoco.
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Che Adrian Leverkühn muoia ‘ nello spirito’ prima che trionfi definitivamente l’orda nazista, è significativo, poiché stigmatizza la sua totale estraneità agli aspetti più biechi e truculenti del nazionalismo tedesco.
Anche accettando che nella sua arte sia presente una componente ‘demoniaca’, essa è legata alla denuncia della civiltà cristiana negli anni, che preludono alla sua esplosione più barbara.
Si tratta di una crisi terminata nell’orrore, che il comunismo non è riuscito a dominare e a vincere, costretto a sua volta per resistere a una serie di forzature e deviazioni, di cui ha pagato e continua a pagare il fio.
Zeitblom non è un grado di comprendere sino in fondo il fallimento germanico; egli è frenato da pregiudizi e dal ritegno interiore a riconoscere tout­court la barbarie del cristianesimo borghese, le cui polveri per altro ancor oggi, a tanti anni di distanza, brillano per la rapacità criminale.
Per quanto riguarda il richiamo alla misteriosa apparizione e sparizione ‘dell’angelo’ Nepomuk, bisogna rimarcare con forza che, giungendo alla corte di Adrian, era già stato colpito dal morbillo e che da quegli strascichi si venne a sviluppare la meningite, che lo porterà alla morte. La sua dolorosissima e precoce dipartita non ebbe nulla a che vedere con il presunto satanismo dello zio.
Per Adrian Leverkühn furono anni di un’enorme e agitatissima, quasi si sarebbe tentati di dire mostruosa attività creatrice, che trascinò persino il vicino simpatizzante in una specie di ebbrezza.
Non era possibile vincere l’impressione che quell’attività significasse un compenso o un indennizzo per la sottrazione di felicità e di amore da lui subita. Del tutto non possiamo essere d’accordo con la spiegazione che Zeitblom dà della straordinaria fecondità di Adrian nel periodo più doloroso, angosciante e solitario della sua esistenza.
Resta inoltre incalcolabile o indefinibile la sottrazione reale di felicità e di amore, che il compositore dovette soffrire in quegli anni, poiché il fervore della produzione artistica ha una tale incidenza nella carica della singolarità più intima e invisibile che resta difficilissimo fare il calcolo di quanto si perde di normalità quotidiana e di quanto si acquista di consapevolezza.
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E’ proprio questa compensazione non comune, che ci rende insopportabile il lamento dell’artista in rapporto alle sue quotidiane delusioni. Egli non ha eticamente il diritto di misconoscere (meschino ed ingiusto con le prerogative a lui concesse da contributi collettivi, non certo definibili col metodo contabile!) ciò che ad altri la vita (esistenza in comune!) nega di possibilità di gioia (gratificazione) intensiva.
A conferma di questo nostro assunto, Adrian non si lamenta mai con il destino e non accusa nessuno della sua certo dolorosa, ma feconda solitudine. Non potevo fare a meno di amare quell’espressione, (di spirituale e sofferente simile a Cristo) e ritenevo di dover simpatizzare con essa, tanto più che non era indizio di debolezza, ma si accompagnava a una enorme energia e a un benessere, la cui saldezza l’amico non si saziava di elogiare.
Lo faceva con quel modo di parlare un po’ rallentato, talvolta esitante e talvolta monotono, che recentemente avevo notato in lui e che interpretavo volentieri come segno di riflessione produttiva, di auto dominio in mezzo a un turbine travolgente di ispirazioni.
C’è sempre in Zeitblom, quando si raccoglie a parlare dello spirito di Adrian, delle sue reazioni e creazioni, qualcosa di cauto, di reticente, di misterioso, per cui anche le affezioni più naturali finiscono per assumere un che di inspiegabile e di tortuoso.
Benché non lo dica apertamente, si tratta dell’infausta e perenne influenza del documento autobiografico lasciato da Adrian, testo, che per Serenus conferma fisicamente il suo rapporto con il ‘Lui’ avuto nella solitudine di una infausta sera a Palestrina.
Quasi ad insorgere contro quella insopportabile diabolica realtà, egli insiste nel dipingere l’aspetto sofferente di Adrian, paragonandolo a quello del Cristo, sofferente per l‘abbandono da parte del Padre nel Getzemani e sulla Croce.
Fa parte dell'atmosfera psichica di queste riflessioni in un certo senso ambigue ed ammiccanti, (non molto amichevoli!), anche questa nota:
“Un altro fenomeno era la consuetudine, contratta di recente, di muovere qua e là rapidamente il bulbo degli occhi in modo, come si suol dire, da ‘torcere’ gli occhi, sicché qualcuno si sarebbe spaventato”.
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Vedeva Jeanette Scheurl e insieme ripassavano alcune musiche del Seicento da lei procurate; vedeva di quando in quando Rüdigher Schildknapp….vedeva infine me, quando andavo a trovarlo a fine settimana.
Oltre a ciò poteva aver bisogno di compagnia per brevi ore, poiché senza neanche saltare la domenica, (che egli non aveva mai ‘santificato’), lavorava otto ore al giorno e siccome in queste era inserito anche un riposo pomeridiano al buio, ero molto abbandonato a me stesso.
Non che me ne rammaricassi: gli ero vicino, ero vicino alla nascita dell’opera amata nel dolore e nel brivido, opera che è rimasta morta, vietata e nascosta per quindici anni e ora, in seguito alla rovinosa liberazione che stiamo subendo, potrà assurgere alla vita.
Il cerchio attorno ad Adrian si sta chiudendo in modo angosciante. Una profonda pietà germoglia in noi per tanto solitudine, che è soprattutto la conseguenza di condizioni storiche insostenibili e che lasciano indifferente soltanto chi per quella innaturale condizione trionfa sacrilego e spietato, quand’anche ‘santifichi’ la domenica e le altre feste comandate.
Un’opera artistica che nasce in simile condizione di solitudine e mancanza di affetti, potrà suscitare gioia?!
Lo potrebbe, se attorno a tanto abbandono fiorisse l’umanità del lavoro simpatico e creativo; quando ciò non esiste, sopravviene la desolazione e lo spirito della materia ritrova un minimo di efficacia espressiva nella lamentazione. E’quindi nella logica dei fatti che l’ultima fatica musicale di Adrian sia ‘Lamentatio Doctoris Fausti’.
Il lamento è l’espressione stessa e si può affermare arditamente che ogni espressione è, a rigore, un lamento; la musica, del resto, appena sa di essere espressione, nei primordi della sua storia moderna, diventa lamento, lamento il ‘lasciatemi morire’, il lamento di Arianna, il pianto delle Ninfe dall’eco sommessa.
Non per nulla la Cantata di Faustus si riallaccia stilisticamente in modo evidente a Monteverdi e al XVII° secolo, la cui musica – anche questo non per niente­ prediligeva gli effetti dell’eco fino a diventare manierata.
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L’eco, la ripercussione del suono umano come suono naturale, la sua rivelazione in note sonore naturali è essenzialmente lamento, è il malinconico ‘ahimè’ della natura a proposito dell’uomo e la tentata manifestazione della sua solitudine.
Nell’ultima e più alta creazione di Leverkühn questo disegno prediletto del barocco, cioè l’eco, è usato molte volte con effetti indicibilmente malinconici.
Il barocco fu una rivolta ‘necessaria’ al fallimento ‘storico’ (ormai è al ruvido chiaro che la categoria ‘storia’ definisce soltanto l’esteriorità, la scorza dei passaggi dell’umanità dentro la natura, dentro la sua stessa sostanza!) della visione classica del Rinascimento italiano (iniziato in termini a­teologici e a­scolastici per ‘merito’ di Petrarca!), visione, che avrebbe ‘certamente’ (altro aspetto della necessità!) superato il suo tragico limite artistico e culturale, diventando interpretazione fedele della natura, se non avesse dovuto coesistere (fino a farsi travolgere dall’irrazionalità delle sette religiose!) con la visione cristiana del mondo, visione stoltamente ascetica, in quanto avversa al corpo e alla terra.
Il lamento (fino al manierismo! Fatale conclusione di ogni movimento, che si limita alla sfera della contemplazione artistica o dell' arte per l’arte!) del barocco (eco della solitudine dell’uomo o mancanza di patria!) è la conseguenza di una situazione di rottura e l’ahimè della natura è la semplice constatazione che l’uomo stesso è l’artefice del suo irrazionale e antipatico isolamento.
Se il barocco è la denuncia di ciò, la presa d’atto che non esiste espressione di gioia, finché la corporeità (inclusa la sua inseparabile spiritualità!) sarà sottoposta ai rigori anchilosanti dell’ascetismo teologico, (senza scopo, dunque!), è fatale che in condizioni storiche analoghe il lamento diventi o resti espressivamente e consapevolmente l’unica possibilità di comunicazione musicale.
Una lamentazione prodigiosa come questa è, dico, necessariamente opera espressiva e quindi opera di liberazione, allo stesso modo che la musica precedente, alla quale si riallaccia attraverso i secoli, voleva essere liberazione verso l’espressione ­che il processo dialettico col quale, sul piano evolutivo occupato da quest’opera, si compie il passaggio dal legame più rigoroso al libero linguaggio dell’effetto­ la nascita, cioè, della libertà dai ceppi, è infinitamente più complicato, infinitamente più perturbante, più meraviglioso nella sua logica che al tempo dei madrigalisti.
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C’è nel passo uno scatto di sicumera senza alcuna attinenza coi fatti; perché dovrebbe il processo dialettico essere infinitamente più complicato ai tempi di Adrian che non nella stagione dei madrigalisti?!
Sono le condizioni diverse (questo è indubbio!) non l’intensità del sentire, che è comune a tutte le ere e a tutti i gruppi.
L’ infinitamente poi si lega alla storia, che ha incidenze formali solo per l’élite; il suo limite, quindi, è più che realistico, poiché non tocca che marginalmente (stupefazione per gli orrori provocati!) la maggioranze degli individui.
Inoltre l’espressione artistica per essere veracemente liberatoria non può risolversi nel lamento, che è la mera e rassegnata denuncia di uno status insostenibile. La ‘poesia’ per essere completa in senso universale deve saper assurgere a categoria del rinnovamento e suggerire possibilità esistenziali, che cancellino le ragioni ‘storiche’ della ‘lamentatio’.
*
Qui vorrei rimandare il lettore al colloquio che ebbi con Adrian in un giorno lontano, il giorno del matrimonio di sua sorella a Buchel, durante una passeggiata lungo la conca delle mucche, dove Adrian, oppresso dal mal di testa, mi esponeva la sua idea della ‘composizione rigorosa’ derivata dal modo in cui nella canzone ‘cara fanciulla, come sei cattiva’ la melodia e l’armonia sono determinate dal variare di un motivo fondamentale di cinque note, dalla frase simbolica si­mi­la­do­la/bemolle.
Egli mi fece vedere il ‘quadrato magico’ d’uno stile o di una tecnica, che svolge massima varietà da motivi identici e fissi, dove non vi è più nulla di extra tematico, nulla che non possa considerarsi variazione di un motivo sempre uguale.
Questo stile, questa tecnica, si diceva, non ammettono alcun suono, nemmeno uno, che non adempia alla sua funzione di motivo nell’edificio totale, di modo che non vi è più nessuna nota libera.
Se la melodia è invenzione spontanea e l’armonia costruzione, (anche, in un certo senso, momento critico della composizione!), lo stile o la tecnica, che ne derivano, sono una proiezione della prima, che magistralmente sorreggono; solo da questo dipende la non­libertà dei singoli suoni, in quanto ogni nota si rafforza e si manifesta omogenea al disegno 289
complessivo.
Si tratta di libertà originaria insita nel tessuto melodico, che per essere goduta e valutata nella sua piena ed intensa espressione ha bisogno del dispiegarsi di tutte le varianti tematiche, purché non disturbino o appesantiscano la piccola frase, il breve giro di note, su sui si fonda l’invenzione.
E’ questo il rigore dell’arte, che impone all’ispirato cultore (flussi che s’agitano nel fuoco della memoria e dell’esperienza collettiva!) la fedeltà assoluta all’ ìmpeto della piccola frase.
Chi adopera lo studio per farsi cacciatore dell’idea ‘ispirante’, riuscirà ad essere al più un buon retore, ma non scalderà mai il sentimento di chi ascolta.
Si ricorderà che nell’antico libro popolare sulla vita e sulla morte del gran mago – i cui capitoli Leverkühn mise insieme con alcuni tocchi risoluti, facendone il fondamento dei suoi tempi – il dottor Faustus al vuotarsi della sua clessidra invita i confidenti ed amici nel villaggio di Risulich presso Wittemberg, li ospita generosamente durante il giorno, beve con loro la sera un buon bicchiere e annunzia poi, in un discorso contrito, ma disgustoso, la sua sorte e l’imminente compiersi di essa. In questa Oratio Fausti ad studiosos egli li prega di seppellire il suo corpo, quando lo trovassero morto e strangolato: muore infatti, dice, da cattivo e buon cristiano: buono per il pentimento e perché spera sempre in fondo al cuore, che la sua anima trovi grazia: cattivo in quanto sa che deve finire orrendamente e che il diavolo vuole e deve avere il suo corpo.
Che Adrian componga il suo lungo lamento, avendo presente la leggenda popolare del doctor Faustus, è significativo proprio per la conclusione che, da un punto di vista strettamente teologico, è assolutamente stravagante; un simile scioglimento del ‘dramma’ ci segnala anche il rapporto ‘equivoco’, volutamente sarcastico pur nell’orrore, (ci siamo sforzati come ruvidi di spiegare in ogni modo il vero perché di questo orrore!), del rapporto di Adrian Leverkühn con il diavolo e, di rimbalzo, con Dio.
Si rifletta attentamente sul fatto che nella leggenda la salvezza dell’anima si esprime come ‘speranza’ e la perdizione del ‘corpo’, straziato stupidamente alla fine della sua parabola dal diavolo, resta la sola ‘certezza’.
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Ora se solo il corpo ‘esiste’ ed è su questo corpo morente per esaurimento delle sue potenze operatrici, che Satana scatena tutta la sua rabbia virulenta, quasi idrofobo cane, il ‘lamento’ di Adrian si risolve nel cantare con tristezza melodiosa la fine della carne, unico centro e senso della vita, mentre l’anima resta là, sospesa, inutile, orfana e bolla di viscida nebbia.
Il patto diabolico si trasforma in una macabra beffa, fondata sul vuoto di una speranza, che il popolo ‘cristiano’ conosce e giudica per conto proprio come favola o simbolo di una spiritualità naturale, che ‘naturalmente’ finisce con il venir meno del fiato e della linfa corporea.
Vorremo concludere paradossalmente dicendo che Adrian con questa sua ultima opera si prende gioco del presunto drammatico dissidio teologico e lancia il suo messaggio, seppure formalmente terribile, di gioia, sì, melodioso­armonica gioia, ottenuta col più grande rigore estetico.
Nutro la quasi certezza che Mann abbia tributato (così concludendo la parabola artistica di Adrian!) il suo massimo inno di grazia (continuazione alla pari!) alla Nona Sinfonia!
Le parole ‘poiché muoio da cattivo e buon cristiano’ costituiscono il tema generale delle variazioni.
Le sillabe, a contarle, sono dodici e ad esse sono assegnati i dodici suoni della scala cromatica, insieme con tutti gli intervalli immaginabili.
Il tema esiste ed agisce musicalmente assai prima che il suo testo sia presentato da un gruppo corale, che sostituisce l’ a solo, ascendendo fino alla metà, poi discendendo secondo lo spirito e la cadenza del lamento monteverdiano.
Questo spirito sta alla base di tutta la composizione o, meglio, direi quasi come totalità sta dietro a tutto e crea l’identità della molteplicità.
Nel materiale preorganizzato, il creatore del Faustus può abbandonarsi, liberamente e senza preoccupazioni per la costruzione già predisposta, alla soggettività, di modo che questa è la sua opera più rigorosa ed ad un tempo puramente espressiva.
La straordinaria potenzialità della musica sinfonica (e quest’ultima opera di Leverkühn è tale sia per i suoi intermezzi sia per la specificità strumentale della stessa coralità!) sta nell’esprimere (consapevolezza del tema, autonomamente divelto dalla sostanza melodica ispiratrice!) una molteplice varietà di introspezioni, avendo presente come ‘iniziazione’ una 291
semplice frase letteraria, nella composizione in esame rappresentata dalle parole ‘poiché muoio da cattivo e buono cristiano’, frase per se stessa di una strepitosa complessità esistenziale.
Occorre qui rimarcare un altro elemento significativo, ad ogni sillaba del distico è assegnata una nota delle dodici della serie armonica, per cui l’artificio formale della dodecafonia è emanazione diretta ed implicita dell’ispirazione originaria; non è la tecnica o lo stile, che suggerisce la ‘melodia’, ma è questa che fonda e guida la struttura stilistica.
La pretesa, quindi, di Schömberg che Mann in un qualche modo confessasse da chi aveva preso spunto per le teorie musicali che starebbero alla base dell’opera artistica di Adrian Leverkühn, dimostra la scarsa profondità di lettore del musicista, il quale avrebbe dovuto essere contento ed onorato che qualcuno considerasse la sua tecnica compositiva non un’invenzione cerebrale, ma componente essenziale, intima della più schietta musicalità. *
La Cantata di Faust si distingue dall’Apocalisse per i grandi intermezzi orchestrali che talvolta, accennando solo sulle generali, esprimono la posizione dell’opera rispetto al suo soggetto, come un ‘Così è’; talvolta, invece, come nell’orrida musica da ballo della discese all’inferno, confermano parti dell’azione.
Puramente orchestrale è la fine, un ‘adagio’ sinfonico nel quale si trasforma il coro del lamento, che attacca con forza dopo il galoppo infernale, ed è per così dire la via inversa dell’inno alla gioia, il congeniale negativo di quel passaggio della sinfonia al giubilo vocale: è il ritiro.
Mio povero grande amico! Quante volte, leggendo le opere postume, le opere della sua fine, che anticipano con spirito veggente tante rovine, ho pensato alle parole dolorose che egli mi disse quando morì il bambino: ‘Non deve essere!’ Il bene, la gioia, la speranza non devono essere, vengono ritirati, si devono ritirare! Questo ‘ahimè, non deve essere’ è quasi un’indicazione, una didascalia musicale sopra i temi corali e strumentali della Lamentatio Doctoris Fausti ed è concluso in ogni battuta e in ogni cadenza da questo ‘Inno alla tristezza’.
Solo paradossalmente un’opera d’arte può essere realizzata capovolgendo il senso di un’altra e, quando accade, deve essere supportata e sostenuta 292
senza batter ciglio dalla finzione letteraria.
Il capovolgimento (fino a che punto consapevole è difficile dirlo, poiché bisognerebbe comprendere meglio il senso del ‘Non deve essere’!) operato da Leverkühn, è la conseguenza del clima spirituale dell’epoca. Che la ‘Lamentatio Doctoris Fausti’ finisca con un inno alla tristezza potrebbe anche essere una suggestione ‘letteraria’ di Zeitblom, sentimento del quale Mann approfitta per semplificare uno status emotivo del compositore complesso e difficilmente riducibile alla mera contrapposizione ai contenuti musicali del tempo anteriore. Questo modo di interpretare e concludere una vicenda artistica è convalidata proprio dal fatto che il musicista per esprimere compiutamente quello che prova, sceglie un metodo compositivo assolutamente nuovo.
Per tornare al senso del ‘Non deve essere’ suggerito dalla dolorosissima morte di ‘Echo’, il ‘ritiro del bene, della gioia e della speranza’ potrebbe intendersi non in senso assoluto, ma come necessità ‘temporale’ (i nostri terribili anni!), in quanto sono (sostengono con la ferocia!) la mistificazione di ciò che dovrebbero essere il bene, la gioia, la speranza.
Sotto questa luce l’Inno alla tristezza potrebbe essere un ossimoro dell’Inno alla gioia. La gioia beethoviana è impedita, negata dalla selvaggia violenza del potere!
Faust respinge l’idea della salvezza come una tentazione, non solo per formale fedeltà al patto e perché ‘è troppo tardi’, ma perché disprezza con tutto il cuore la positività del mondo, per la quale lo si vorrebbe salvare e la menzogna della sua beatitudine in Dio.
La non­positività del mondo che provoca in Adrian il rifiuto della salvezza, non va intesa in senso teologico; il musicista denuncia la non­positività storica, quella determinata dalle condizioni sociali e politiche del tempo, giudicate e respinte, senza dare a loro il significato di uno stato di colpevolezza (peccato!) individuale e collettiva insuperabile; se in lui persiste ancora una traccia del trauma teologico, essa si esprime come stimolo per superarla.
In simili condizioni la salvezza sta soltanto nel rifiuto di accettarla, così come il recupero del bene, della gioia e della speranza è possibile, respingendo con tutte le forze fisiche e psichiche quel bene, quella gioia, 293
quella speranza.
No, fino all’ultimo questo cupo poema musicale non ammette alcun conforto o conciliazione o trasfigurazione. E se al paradosso artistico che dall’edificio totale nasce, l’espressione in quanto lamento corrispondesse il paradosso religioso che dalla più profonda dannazione, sia pure come lieve interrogatorio, germina la speranza? Sarebbe la speranza aldilà della disperazione, la trascendenza della disperazione – non il tradimento ai suoi danni, bensì il miracolo che va oltre la fede.
E’ molto più facile liquidare con la genialità intraducibile la radicalità di certi assunti scomodi; è operazione questa costante nei chierici di regime, la maggioranza, purtroppo!
L’abolizione della fede teologica per Adrian Leverkühn è il preambolo inevitabile per fondare una reale speranza, quella che sorge dalle ceneri di un bene, di una gioia e di una speranza, quali sono intesi dalla società della violenza e della mistificazione; quando si sarà usciti da questo ‘inferno’, la nuova speranza sarà strumento efficace di storia.
Mann ha creato con Adrian Leverkühn un personaggio che nell’individuazione del male e nel suggerire uscite radicali dalla società quale si è venuta strutturando, supera di mille gran cubiti l’orizzonte borghese.
L’essersi nascosto sotto la bonomia di un buon educatore umanista e, in un certo senso, ecumenico, gli permette di prendere posizione in modo molto cauto e senza eccessivamente scandalizzare i benpensanti, alle volte lasciando credere di essere con loro d’accordo.
*
Trascorsa quasi la metà dell’anno 1930, nel mese di Maggio, Leverkühn invitò a Pfeiffering per diverse vie un gruppo di gente, cioè tutti i suoi amici e conoscenti e fino persone che conosceva poco o niente affatto, una trentina in tutto; furono invitati sia con biglietti scritti, sia per il tramite mio e alcuni furono pregati di trasmettere l’invito ad altri, mentre altri ancora si invitarono da sé per curiosità, cioè chiesero di essere ammessi attraverso me o altri membri della cerchia più ristretta.
Il biglietto di Adrian comunicava infatti che desiderava 294
di dare a un’adunata di amici benevoli, un’idea della nuova sua opera sinfonico­corale appena conclusa, eseguendone al pianoforte alcune parti caratteristiche.
L’anno 1930 è fondamentale soprattutto per l’avvento al potere di Hitler. Il mendacio (demonio cristiano!) della razza ha già penetrato la nazione tedesca. L’invito di Adrian suona come l’ultima diana della ‘luce’ in un cielo, che si sta coprendo di tenebre.
Ma la diana di luce per avere un risultato duraturo necessita di un uditorio particolare, quello che ne condivide i principi e gli scopi.
Possiamo ritenere tale l’insieme di persone che si raccoglie attorno al musicista per sentirne l’ultima creazione artistica?!
C’è da dubitarne fortemente; infatti si radunano a Pfeiffering, nella splendida e radiosa campagna del mese di maggio, persone da sempre corrotte dal vortice della violenza, persone che Zeitblom ci elenca con certosina puntualità e che noi non nominiamo perché zavorra, convinti (aggravante!) della cattiva influenza che necessariamente eserciteranno sull’animo del solitario.
Al momento non indaghiamo sulla ragioni che hanno spinto Adrian Leverkühn ad inviti così eccentrici ed in contrasto con le sue convinzioni interiori, all’esterno accolte (lasciamo perdere con quale giudizio!) come semplici (eccentriche! Ma al genio si deve pur perdonare alcunché!) abitudini.
Quel raccogliere nel luogo del suo ritiro un certo numero di persone, in gran parte lontane, sia nell’intimo che esteriormente, con lo scopo di iniziarle alla sua opera più solitaria, non si addiceva, in fondo, al carattere di Adrian.
La cosa mi dispiaceva non tanto in se stessa quanto perché era un modo di agire a lui estraneo. Ma anche in sé mi ripugnava. Qualunque ne fosse la ragione, in fondo al cuore preferivo saperlo solo nel suo rifugio, visto solo dalle persone di casa, umane e a lui rispettosamente affezionate e dal nostro gruppo formato da Schildknapp, dalla cara Jeannette e dalle signore Rosentiel, Mackedey e da me.
Si sente nella ripugnanza di Zeitblom il presentimento della catastrofe.
Catastrofe inevitabile?!
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Questo è il punto importante da scoprire, non tanto per sincerarci della condizione interiore di Adrian, quanto per renderci consapevoli della concreta capacità degli amici più intimi di proteggerlo nella sua solitudine, di impedire soprattutto che il capriccio del caso ne alteri, peggio, finisca per far esplodere gli aspetti più paradossali della sua personalità, aspetti che la solitudine e il dolore per le condizioni generali della civiltà hanno senza dubbio aggravato.
Non possiamo nasconderci che personalità come quella di Leverkühn sono difficili da avvicinare e ancor più da prevenire nelle loro reazioni insospettabili (per loro, comunque, fatali!), se sottoposti (sia pure volontariamente!) ad incontri indiscreti Amici intimi come Serenus, Schildknapp, le due signore e Jeanette saranno in grado di costringere nella semplicità della comunicazione il musicista, approfondirne le intenzioni improvvise per contenerle ed indirizzarle ad approdi a lui consoni e per lui pubblicamente onorevoli?!
La signora Schweigestill, che Helene ed io andammo a trovare in cucina, dove con l’aiuto di Clementina stava preparando in tutta fretta una merenda per tanta gente, con caffè, panini imburrati e sidro fresco, ci spiegò, non poco costernata, che Adrian non aveva detto una parola per prepararla a quella invasione.
Il termine ‘invasione’ è invenzione efficace di Serenus per definire lo stato di costernato sgomento della signora Else.
Che Adrian tenga fuori dalla sua ‘esibizione’ la seconda madre, che addirittura non la prepari per nulla, (formalmente si tratta di una scorrettezza gravissima alla pari, se non peggiore dell’invasione, poiché la signora Schweigestill è la padrona di casa e potrebbe non gradire, per quanta stima nutra per il suo ospite, la presenza di tante persone!), è il dato più preoccupante.
Il senso di pericolo è ancor più sottolineato dai minacciosi latrati di Suso, che non smette di abbaiare, finché non è entrato nel suo dominio anche l’ultimo ospite.
Quando si trova in presenza degli invitati, improvvisamente la signora Else supera l’iniziale costernazione; il suo comportamento diventa di una calma tale, che sarebbe in grado di affrontare, nostromo esperto e incallito dalle bizze della natura, la furia della tempesta più violenta.
Finché le persone semplici (le sole che lavorino e si tengano pronte a difendere l’essenziale!) saranno costrette a proteggerci dalle ‘rare volizioni 296
dello spirito’, intervenendo disperatamente per rendercene meno spietate e miserabili le conseguenze, (che i chierici appellano ‘atmosfere pregiate’!), saremo sempre alla mercé della perfidia e della superstizione.
*
Tutti costoro, una trentina come ho detto, stavano in attesa nella sala, si presentavano a vicenda, si scambiavano espressioni di curiosità. Fin da principio notai che molti non si erano neppure accorti che Adrian era già da un pezzo nella stanza e parlavano come se stessero ancora aspettandolo, semplicemente perché non lo avevano riconosciuto.
Con le spalle volte verso la finestra era seduto, vestito come sempre, in mezzo alla sala, alla pesante tavola ovale dove ci eravamo seduti un giorno con quel tale Saul Fitelberg.
E’ sufficiente l’invecchiamento precoce di Adrian per giustificare il comportamento degli invitati che se la spassano tra loro, non accorgendosi che chi li ha invitati è già presente?!
Leverkühn, è vero, non ha rispettato il cerimoniale il quale vorrebbe che egli entrasse solennemente davanti al pubblico riunito per pretendere il silenzio al solo suo apparire; pur ammettendo questo neo formale, qui notiamo una mancanza di rispetto che rivela lo stato di tracotanza generale, di autoesaltazione, in cui erano entrati i teutoni, alemanni­
lanzichenecchi, quasi stessero in attesa, accogliendolo con le giuste ovazioni, il selvaggio padrone degli eserciti.
Adrian da subito si mette in una situazione difficile, schiacciato dalla sua disperata solitudine, disperata perché ormai incomprensibile (offensiva!) per la maggioranza di ‘quel’ pubblico.
Il momento assume un aspetto intrigante e pericoloso ed è ormai cosa diversa da quello che Adrian si aspettava.
Siccome anche durante la conversazione con l’uno o l’altro degli ospiti tenevo d’occhio l’amico, non mi sfuggì il cenno che mi fece con la testa e con gli occhi per dirmi di invitare i presenti ad occupare i loro posti. Io lo feci immediatamente, pregando i più vicini e facendo poi cenno a quelli che erano in piedi e trovando persino il coraggio di battere le mani per ottenere silenzio e poter dire che il dottor Leverkühn desiderava di iniziare il suo discorso.
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Che per attirare l’attenzione del pubblico (selezionato! Sì, è vero, c’erano alcuni, che si erano intrufolati alla chetichella, semplicemente per curiosità, ma la maggioranza si conoscevano!) sia necessario che Adrian si trasformi nel ‘dottor’ Leverkühn, è pessimo segnale.
Ormai il rapporto tra invitante e invitati è fuori da ogni sfera di simpatia; soggiace all’imprevedibile.
Quanto l’inusitata situazione incida sulla psiche del compositore, lo dobbiamo prontamente (in anticipo sulla stessa lettura!) arguire, perché ci risulti poi comprensibile la sua condotta.
Sentiamo che cresce attorno a lui la morbosità di essere testimoni di stuzzicanti rivelazioni; è palpabile anche al più distratto, che attorno al musicista si fa formando un’atmosfera particolare, da scandalo.
Adrian non accennò affatto ad appagare l’attesa di tutti, anche la mia, e ad avvicinarsi al pianoforte per suonare. Stava seduto con le mani giunte, la testa reclinata sulla spalla, gli occhi fissi davanti a sé, un po’ verso l’alto e così nel perfetto silenzio, con quel suo modo di parlare piuttosto monotono, con frequenti intoppi rivolse la parola ai presenti. Pareva che tenesse un’allocuzione per dare il benvenuto. Così mi parve da principio ed era anche effettivamente così.
Nel parlare – come aveva sempre fatto scrivendo – si serviva di una specie di tedesco antiquato, dove i difetti e gli anacoluti sono sempre discutibili e tollerabili: infatti non è molto che la nostra lingua è uscita dalla barbarie e ha trovato un discreto ordinamento, sia nella grammatica sia nell’ortografia.
Nel periodo stesso in cui finalmente la sua lingua esce dalla barbarie e trova il suo equilibrio tra la sintassi e la sonorità armoniosa della frase compiuta, il popolo tedesco entra a vele spiegate nel clima criminale e razzistico della tirannia nazista.
Come non vedere nella caparbietà, con cui Adrian si serve della loquela antica, il rifiuto della civiltà presente e il suo disperato tentativo di radicarsi nel pieno rispetto dell’essere proprio ed altrui?!
Adrian rifiuta di accettare che l’affermazione soggettiva avvenga in virtù della sopraffazione; lo spinge ad usare la lingua secondo canoni e processi espressivi da poco superati la volontà di restare del tutto estraneo alla deflagrazione della violenza, che sta soffocando ogni espressione dell’esistenza individuale non solo in Germania, ma nella stessa Europa 298
’libera’.
Come possono Zeitblom e gli amici più intimi pretendere che Adrian rinunci a spiegare la sua posizione e si conceda da artista rassegnato ad un pubblico eterogeneo, incapace in quelle condizioni di spirito di capire la sua musica?!
Egli ha presentito tutto questo al primo impatto con quella ‘masnada’, di cui ha sentito immediatamente il lezzo e la miseria. Devo salvare dal ‘sacrilegio’ la mia musica!
No, senza la parola chiarificatrice, sembra dire Adrian, non esiste possibilità di colloquio. Io voglio soprattutto farmi capire, uscire dall’isolamento demonico in cui l’angoscia dei tempi ‘politici’ mi ha costretto!
Quando avrò dato il responso definitivo al senso della mia angoscia e della mia arte e voi avrete dimostrato di avere lo spirito e la carne in grado di sentirla e di farvene partecipi, mi sarà finalmente naturale indicare musicalmente la strada per essere all’altezza di una radiosa ed esperibile speranza.
*
­In primis m’è d’uopo render a voi mercé e del favore e dell’amistà da me non meritata, perocché venuti siete a questo intertenimento a piedi o con veicoli, poscia che dalla solitudine di quest’angolo remoto vi scrissi e vi appellai o appellar vi feci od invitare dal mio cordialmente fedele famulo e particolare amico che ancora sovvenir mi fa della scuola frequentata insieme in gioventù, quando studiavamo a Halle. Ma di ciò e del modo onde la superbia e l’errore ebbero inizio in quegli studi dirò più avanti nel mio sermone.­ Che prendendo il pretesto dal linguaggio arcaicizzante, qualcuno si metta a ridacchiare, è rivelatore del suo stato di pusillanime.
Solo il meschino non riconosce la stagnazione, in cui si è costretti a vivere e può tirarsi da parte con estrema indifferenza, quando si tratta di prendere decisioni che vanno oltre la norma.
Nel tentativo di confondere questa genia di imbecilli Zeitblom si mostra commosso alle lacrime, sperando in tal modo di riportare i convitati (statue, che neppure lo inferno concupe!) almeno nei ranghi del rispetto.
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Adrian, chiuso nella morsa della confessione, sembra non accorgersi di nulla.
Possiamo con una certa sicurezza ipotizzare che consapevole del poco di forze da cui è ancora ancora sostenuto nella lotta ingaggiata contro le tenebre, non le voglia sprecare osservando quanto accade attorno.
­Anzitutto pregovi di avermi per iscusato e di non serbar rancore al nostro cane Prestigiaio, (lo chiamano Suso, ma invero nomasi Prestigiaio), che mal si condusse a straziarvi con latrati e guaiti così infernali, dopodiché vi siete incaricati di tanta fatica e di tanto incomodo per amor mio.
A ciascheduno di voi avremmo dovuto mettere in mano un sufolino superacuto non udibile ad altri fuori che al cane acciò che comprendesse già da lungi che stavano arrivando solo amici buoni e invitati bramosi di ascoltare che cosa io abbia fatto sotto la sua vigilanza e come sia vissuto in tutti questi anni.­
Se il cane Suso è l’incarnazione ‘prestigiatrice’ del demonio, pretendere che bastino dei sottili sufolini, soffiati nei piccoli fori da insoliti visitatori, è chiaramente una provocazione.
Ma la coscienza di Adrian è in uno stato di convulsione crescente e quanto più tenta di riequilibrarsi tanto più diventa smaniosa.
Zeitblom e le ‘pie’ donne sono sempre più spaventati e sgomenti per la piega che sta prendendo quel forsennato sermone; ma non sanno se intervenire, né come farlo per deviare quella strana e straziante autoflagellazione.
­Sappiate, dunque, o buoni e pii, che coi vostri peccati veniali riposate nella grazia e nell’indulgenza di Dio: dacché per molto tempo ho tenuto per me queste cose, ora non voglio più nascondervi che fin dai miei vent’anni sono legato a Satana e, pur conoscendo il periglio, per ponderato coraggio e orgoglio temerario, volendo acquistar fama in questo mondo, stipulato avea con lui una promessa e un patto, di maniera che tutto quanto feci nello spazio di ventiquattro anni, e ciò che gli altri giustamente con diffidenza osservarono poté avvenire meramente con il suo aiuto ed è opera diabolica, istillata dall’angelo del veleno.
Chi vuol giocare di puntar gli è d’uopo e oggi, meditai, e oggi all’ausilio del diavolo devesi far ricorso, poiché per grandi impedimenti e opere non puoi ricorrere ad alcuno 300
che a lui.­
C’è qui un cumulo di contraddizioni da far venir le vertigini.
Se solo il diavolo è oggi in grado di superare i grandi impedimenti e di suggerire all’uomo opere notevoli, che ci stanno a fare sulla terra tutti quei buoni e pii cristiani, che hanno la ‘sincera’ coscienza di essere in colpa (così sottile lordume!) soltanto per piccole violazioni del decalogo?!
Il disprezzo per la mediocrità teologica del cristianesimo tedesco che ha messo al mondo, proprio per essa mediocrità, il più grande mostro contemporaneo, nel compositore si altera, si confonde, tende a trasformasi in dileggio contro se stesso.
La sua personalità non sopporta più il veleno della solitudine; troppi volti mancano all’appello; la sua opera artistica è giunta ai limiti della follia, in quanto alimentata da un’ispirazione, che contrasta duramente con gli intendimenti da cloaca dei nuovi signori della forza.
Se Adrian in questo momento fosse nel pieno possesso delle forze fisiche e intellettuali, le sue parole prenderebbero un altro indirizzo e sapremmo con tutta chiarezza che da sempre per lui la divinità (con il demonio suo alter ego!) non possiede alcun diritto sull’uomo, ingannato da subito da un patto iniquo, avente a fondamento una premessa, negazione della vita e della libertà.
Nel suo appello al demonio insiste sempre una punta di ribellione consapevole, lucida, anche se non repubblicana o carducciana, ma forse proprio per questo più convincente.
Vi si sente la rivolta dell’uomo al suo super­ego teologico, meschino e ingannatore. Ma in quelle condizioni di seminfermità, di abbattimento fisico e morale, (egli sa di avere per sempre concluso il suo ‘calvario’ artistico con una ‘cantata’ di estrema fierezza e assoluto candore!), le immagini si accavallano e il bene ed il male, il pieno ed il vuoto, l’essere e il nulla si intrecciano in una ridda di fantasmi aggrovigliantisi; Adrian è come straziato dalle continue grida e strilli che feriscono la sua sensibilità, frastuono e guaiti, di cui l’abbaiare sfrenato del cane Suso rappresenta il tragico e insopportabile correlativo oggettivo, funzione retorica inventata da futile ingegno inebriato di Dio e, ancor più, di se stesso.
A questo punto non ci possiamo aspettare che delle feroci accuse; in quello stato di depressione, apatico sino alla pazzia, Adrian vorrà disperatamente trovare una logica e la troverà, ingiuriando la sua condizione di ‘dannato’ per delitto di superbia, unico peccato per cui Dio 301
punisce la creatura e la abbandona al suo cane da guardia infernale.
*
Ora nella sala regnava un silenzio penoso e teso. Pochi ascoltavano ancora pacatamente, mentre molti aggrottavano le ciglia e pareva si chiedessero: ‘Che cos’è questo e dove si va a parare?’
Se egli avesse sorriso una volta o strizzato l’occhio per far capire che le sue parole erano state una mistificazione artistica, tutto sarebbe andato abbastanza bene. Ma non lo fece: stava lì, invece, pallido e serio.
Non c’erano che motivi indegni e vili e io sentivo di dover lasciare che le cose andassero per la loro china, con la speranza che egli presto cominciasse a suonare brani della sua opera e a darci musica invece di parole. Non avevo mai sentito così profondamente il vantaggio della musica, che dice tutto e niente, di fronte alla precisione della parola; anzi di fronte alla protezione non impegnativa dell’arte in genere in confronto con la crudezza rivelatrice della confessione diretta.
La prima impressione generale è che l’artista non sia molto in sé; ma il realismo allucinato dell’esposizione non lascia spazio alla critica e sgomenta o infastidisce, a secondo dello stato d’animo dell’ascoltatore.
Zeitblom non si accorge che l’amico è fisicamente ‘alienato’ e continua a sperare che il delirante discorso sia al più presto sostituito dall’interpretazione musicale, che certamente saprà neutralizzare la passionalità demoniaca e insopportabile dei segni verbali e delle loro terrificanti allusioni.
Zeitblom sente oscuramente che l’amico è entrato in uno stato di convulsione psichica, ma si illude ancora ch’egli sia in grado di superarla, trasformando l’espressione verbale sì equivoca e paradossale in chiara linea melodica, oggettivazione della tensione interiore, dove tutte le esasperazioni si armonizzano per il generale godimento (quiete riconquistata!) dell’arte musicale.
­Non crediate, diletti fratelli e sorelle, che per la promessa e la stipulazione del patto abbia avuto d’uopo d’un quadrivio nella foresta o di molti circoli in terra o di volgari scongiuri, imperciocché San Tommaso insegna che per l’apostasia in sé non vi è necessità di parole con le quali far l’evocazione, ma basta un atto, senza 302
espresso omaggio.
Fu infatti soltanto una farfalla, una Hetaera Esmeralda, che mi colpì col suo contatto, una strega che seguii nell’ombra crepuscolare delle fronde, che la sua nudità traslucida va cercando e ove l’acchiappai, che quando vola somiglia a un petalo portato dal vento; la presi e la carezzai nonostante l’invito a stare in guardia e così il fatto fu compiuto.­
Io provai una scossa, poiché a quel punto ci fu una voce nell’uditorio, la voce del poeta Daniel Zur Höhe in quel suo abito talare, che, battendo il piede, proclamò con un grido martellante: ­E’ bello. C’è della bellezza. Molto bene, molto bene, lo si può dire!­
Quanto danno arrechino agli spiriti giovani i santi con il loro esaltato rigore è qui dimostrato con una evidenza da strangolo; sì, ci riferiamo proprio al sommo Tommaso d’Aquino!
Per togliere alla magia ogni importanza (per altro sfruttandone il demonismo o dinamismo cosmico!), si riduce il patto solenne e gridato con Satana ad un semplice atto interiore, un atto qualsiasi di appena accennata apostasia, così che tutti, per un minimo gesto di debolezza, si sentano segnati dall’attenzione vivace e singolare del demonio. In tal modo il campo degli eletti si restringe e la pace spirituale diventa il regno degli azzeccagarbugli da confessionale!
Adrian, dopo aver affermato in forza di tanto teste la ‘facilità’, con cui il peccatore apostata precipita tra le grinfie del tentatore, abbandona immediatamente il sentiero ‘augusto’ del peccato teologico, della superbia millantatrice e si affida al fascino della lussuria, s’incendia, incendiando, nell’immagine fulgido­livida della farfalla, prodigiosa effemeride femmina, dalla quale sedotto, egli stesso si assottiglia e volatizza come petalo arguto che il vento dal bosco trascina e asseconda col rosso contatto.
Ed è proprio questa straordinaria capacità dell’uomo sedotto di sedurre a sua volta che strappa ‘all’epico’ Daniel Zur Höhe, il grido di approvazione trionfale.
Se Adrian fosse ancora, anche solo pel filo del fiuto, padrone di sé, basterebbe questa farneticante esaltazione della bellezza a farlo ritornare lucido, a ricondurre la Hetaera Esmeralda nel suo regno di bianca farfalla innocente, sottraendola ai cattivi pensieri della nuova barbarie.
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Si trattava di pallida e tacita severità, era confessione e verità che un uomo nell’estrema angoscia aveva convocato gli altri a udire: era un atto di insensata fiducia; è vero; il prossimo infatti non sa accogliere una siffatta verità se non con un brivido di raccapriccio e con quel giudizio che là tutti ne diedero unanimemente appena non fu più possibile considerarla poesia.
Zeitblom trascura che quegli ospiti hanno il triste carisma di essere più o meno cristiani, per cui, sentendo che un personaggio così autorevole dichiara di essere colpevole di un patto con Satana (quindi non sei tu, a cui si deve la lode per la tua arte, ma il principe delle tenebre!), perde immediatamente ogni senso di umanità e lo addita come capro destinato alla Geenna!
Quello che da ruvidi ci colpisce è l’immediatezza con cui siamo portati a chiederci come si sarebbe comportato Adrian, se fosse stato testimone di tanto smarrimento di un qualsiasi fratello, sia pure sconosciuto!
La risposta non è semplice; se come artista si sarebbe certamente piegato amorevole a distogliere il fratello dalla follia ‘suicida’, come figlio di ‘Elsbeth’ sarebbe stato in grado di portare a termine l’atto di sincera partecipazione?!
*
­Gran pezza infatti prima che folleggiassi con la venefica farfalla, la mia anima, in orgoglio e arroganza, erasi incamminata verso Satana.
Vero è che a lui tendevo da giovane, e a voi è noto essere l’uomo creato e predestinato alla beatitudine o all’inferno, e io ero nato per l’inferno. Laonde blandii la mia superbia andando a studiare teologia alla scuola di Halle, non già per amore di Dio, sibbene per amore di quell’altro, e il mio studio di Dio era già un segreto inizio dell’alleanza e il mascherato cammino non verso Dio, bensì verso quell’altro, il grande religioso.
Chi decide se lo studio di Dio è opera di umiltà o di demonico orgoglio è colui che ha superato ogni stadio dell’inevitabile scetticismo, generato dallo studio teologico. Non possiamo come ruvidi tacere che chi supera indenne (convinto!) questo stadio (stasi del cinismo, mascherato da tranquillità pretesca!) è un mistificatore, si chiami Agostino, Tommaso, Bonaventura o qual altro 304
mistico contemporaneo; essi sono consapevoli per diretta (e scetticamente superata sino a raggiungere l’incolumità agli assalti della coscienza!) aridità che non esiste la Rosa celeste; però vi si consacrano con tutte le forze, irretendo nelle loro lische di squali il giovane discepolo, reprobo comunque, quale sforzo faccia per redimersi dagli appetiti carnali, discepolo che non sa più a che santo votarsi, finché non scopre la cruna, che innalza su tutte le vette mondane in un torbido intruglio di vani teoremi.
Il mezzo più potente per assestarsi Maestro indiscusso nell’animo dell’adolescente, che incontra alle prime avvisaglie del dubbio il divino, è la dottrina della predestinazione; messo davanti a questa minaccia, nessuno (non conta se equo, buono, innocente o iniquo, superbo e perverso!) non saprà mai cosa abbia deciso di fare di lui ab aeterno il Sommo Padrone. Giocando d’astuzia e cinismo con questo principio ‘teologico’ è possibile in ogni momento conciare il discepolo a cencio inzuppato di fiele e terrore. L’adolescente, adescato da pescatori di eccezionale fiuto volpino, entra in una crisi, dalla quale può riprendersi solo in due modi o soggiacendovi, per diventare a martirio concluso Maestro torturatore oppure ribellandosi, con tutte le conseguenze dell’orrida, ‘satanica’ scelta.
A quarantacinque anni Adrian, dopo aver violato tutte le regole della religiosità, essendo vissuto solo in virtù della diagnosi (folgorazione, che lascia in angoscia perggiore, allorquando si spegne la sua fiaccola!) sull’anima dell’uomo, sulla Mistica Rosa e sull’Inferno, (la Rosa per lui scesa in terra farfalla a miracol mostrare!), travagliato dai torbidi dell’odissea cristologica, prostrato dalla sforzo titanico per concludere la sua ultima e gigantesca opera di rivolta, lamentazione­rifiuto, ripiomba nel clima teologico iniziale, quello respirato ad Halle e se ne sente schiacciato.
Non rendendosi conto di questo tristo ritorno, (contrasto tragico con la libertà interiore raggiunta!), anche Zeitblom assiste alle farneticazioni così ‘realistiche’, convinto che l’amico sia sempre in grado di respingere la disperazione delle parole e prendere slancio con l’interpretazione musicale.
­Questa è l’epoca in cui non è più possibile compiere un’opera per vie normali, nei limiti della pietà e del raziocinio, e l’arte è divenuta impossibile senza l’ausilio del demonio e il fuoco infernale sotto il paiolo…
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In verità, diletti compagni, se l’arte è incerta ed è divenuta impossibile ed è ludibrio a sé medesima, se tutto è diventato troppo difficile e il povero uomo di Dio non sa più a chi votarsi nelle sue strettezze, la colpa è di quest’epoca.
Ma se uno chiama il demonio a convito onde superare questi ostacoli e arrivare al trionfo, egli accagiona l’anima sua e prende sulle proprie spalle le colpe dei tempi, sicché è dannato.­
Chi sente su di sé le colpe del mondo, (novello Cristo, simbolo delle atroci sofferenze dei veggenti! Al di fuori di questo significato il Redentore è maschera per i bari!), necessariamente passa attraverso lo stadio dell’angoscia e per ricomprendersi e dominarsi deve appigliarsi al titanismo della volontà. Proprio perché in questa estrema operazione di riscatto si scopre impotente, in quanto afflitto dalla fede teologica e profondamente ferito (lo spavento della dignità percossa, lacerata, umiliata!) dalla dottrina della predestinazione, piomba nella feroce consapevolezza di essere un miserabile e canagliesco fruitore di frodo; a quel punto la dottrina è preparata (tutta la Bibbia a sostegno!) a segnalarne sarcastica e tronfia la causa: la superbia!
In condizioni psichiche normali si tratterebbe di nere folgorazioni, che la consapevolezza aurorale del limite ridurrebbe subito a esasperazioni grottesche e susciterebbe una fresca autoironia; ma quando lo spirito è funestato da visioni d’incubo, può succedere che i nervi vi soggiacciano e l’autoflagellazione (sussulto di pena e disgusto, provocato dal sospetto dell’orgoglio, tanto più insostenibile quanto più ci si sente a pezzi!) arroventi una ridda di farneticazioni e paradossi angoscianti.
A spirito tranquillo o almeno controllato Adrian si chiederebbe immediatamente per quale speciale prodigio Satana, che le forze del male incarna, dovrebbe essere in grado di risolvere il problema dell’arte in una stagione così miseranda. Per quanti patti tu faccia con il principe delle tenebre, per quella via non passi, anzi ancor più sarai stritolato dalle unghie feroci dell’aridità.
Tu hai tentato l’uscita dal baratro con ben altre intenzioni, (rivoluzionarie, tanto sei stato da subito avverso ai sistemi dell’ipocrisia, che ha solo generato orrore, violenze e stragi!) e i risultati sono scritti nella tua musica; potresti rendertene immediatamente conto, se solo riuscissi a 306
interpretare con sobria asciuttezza i tuoi canti, i tuoi cori e i tuoi lampi orchestrali; potresti mettere con le spalle al muro quell’insolita combriccola, che tu stesso hai sommariamente invitato. Non ne senti le forze poiché, schiavo di un presunto titanismo (che sempre tu hai combattuto e condannato e disarcionato!), la luce ti si annebbia e da quel consorzio equivoco sale, avvolgendoti, la nuvola della insensibilità, dell’antipatia invidiosa e della disapprovazione, avversi sentimenti, che rendono sempre meno possibile il recupero del controllo interiore.
Tu sei un artista ‘contro’, un artista che ha osato uccidere la ‘teologia’; lo hai fatto perché convinto che proprio quella ‘teologia’ della predestinazione ha trascinato la storia in un budello senza uscita; tu sei un artista che ha scoperto nella divinità la feccia satanica; eppure non c’è un cane lì, (il cane sta fuori ed ha abbaiato abbastanza, perché non si avvicinassero a te quegli spiriti fiacchi e immorali!), che sappia riconoscere la profonda ‘umiltà’ del tuo genio di artista in rivolta.
*
­Ben presto venni a colloquio con secolui, la carogna ignominiosa; nella italica sala conversai a lungo costringendolo a spiegarmi talune cose, la qualità dell’inferno, il suo fondamento e la sostanza. Concluse eziandio una vendita di tempo: ventiquattro lunghissimi anni e legossi a me con promissione di cose grandi e molto fuoco sotto il paiolo affinché fossi capace di compir l’opra, nonostante fosse divenuta difficile e la mia mente troppo savia ed ironica per crederci. Duolo tagliente il dover soffrire già durante questo tempo, pari a quelli che soffrì nelle gambe la sirenetta, la mia sorella e sposa, chiamata Ifialta.
Egli me la portò a letto come mia concubina, di maniera che cominciai a volerle bene e ad amarla ognor più, venisse con la coda di pesce e con le gambe. Certo, più sovente venia con la coda, poiché i dolori che soffriva alle gambe come tagli di coltello sorpassavano il piacer suo, e io ben comprendevo qualmente il suo corpo delicato terminasse dolcemente con la squamosa coda. Eppure ben maggiore era la delizia che mi venia dalla figura umana, e così provavo anch’io maggior piacere quando dotata di gambe meco si giacea.
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E’ da rilevare che il nome Ifialta è invenzione di Adrian e ciò dimostra con estrema chiarezza che sta farneticando, poiché mai simile favola varcò la soglia della sua fantasia e dei suoi desideri.
Il classicismo mischiato a mitologie ‘barbariche’ è il pensare magico della cultura alemanna e del Nord europeo.
A questo punto due anziani coniugi si alzano e senza guardare né salutare nessuno si allontanano, facendo rombare in cortile la loro automobile.
Non ottiene successo e, ancor meno, placa l’atmosfera di sgomento e disgusto il grido ‘Bello, bello oh, certamente!’ ripetuto del poeta Zur Höhe.
Mentre Serenus sta per suggerire all’amico di interrompere la penosa introduzione e far sentire finalmente brani significativi della sua ultima opera, (intendimenti che testimoniano come Zeitblom non si renda conto dello stato di ‘perdizione’ di Adrian!), il compositore, quasi estraneo a ciò, che succedeva attorno a lui, riprende:
­Dopo di ciò Ifialta si trovò incinta e mi regalò un figlioletto al quale ero attaccato con tutta l’anima, un bambinello santo, grazioso oltre ogni dire e quasi di stirpe antica e lontana. Siccome però il bambino era di carne e ossa e si era stipulato che non dovessi amare alcun essere umano, egli lo uccise senza pietà e per farlo si servì dei miei propri occhi. Dovete sapere che quando un’anima è mossa violentemente alla malvagità il suo sguardo è rospigno e venefico, specialmente per i piccoli. Così questo figlioletto pieno di versetti soavi mi scomparve nel mese di agosto, avvegnacché creduto avessi che siffatta tenerezza mi fosse lecita. Certo avea pensato anche prima che, monaco del diavolo, potessi amare in carne ed ossa uno che non era femmina, che però aspirava con illimitata confidenza a farsi dare del tu, finché glielo concessi. Perciò dovetti ucciderlo e mandarlo a morte secondo l’ordine ricevuto. Il magisterulus infatti aveva notato che intendevo ammogliarmi ed era furibondo perocché nella vita coniugale scorgeva l’abbandono di lui stesso e un accorgimento per giungere alla conciliazione. Forzommi pertanto a usare proprio di questo accorgimento e finì che ammazzai freddamente quel fiducioso e oggi e qui davanti a tutti voi confesso che oltre tutto sono omicida.­
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Ormai le facce di Marie, Rudolf, Echo e le situazioni a loro legate si confondono e accavallano in una allucinata fantasmagoria di affetti e delitti, che Adrian addebita al proprio tradimento del patto con il demonio, patto, che si rivela in concreto la severissima autodecisione di un uomo in rivolta aperta con il proprio tempo, rivolta che implica non solo un radicale mutamento dei rapporti con l’arte, ma impedisce anche la manifestazione degli affetti più intimi. Dobbiamo ripetere il discorso sull’influenza negativa, che la teologia ‘sinceramente’ affrontata finisce per avere sugli animi candidi, i quali la verità perseguono nei più fondi recessi, soprattutto quando avvertono che l’impalcatura dottrinaria è fondata sul nulla.
Si noti che il bambino grazioso oltre ogni dire Nepomuk è allontanato al di qua delle generazioni dell’evo cristiano, in una remota stagione di luce e di purezza, invelenita dallo sguardo ‘teologico’ del cristiano, vendutosi ad demonio, quasi ad affermare che non esistono più margini di salvezza nel territorio storico, segnato, smaterializzato dal cristianesimo.
La disumanizzazione della terra, operata dalla legge del taglione e dalla dottrina della Predestinazione, ha infranto la resistenza di Adrian che ad opera compiuta non trova più motivi per continuare a vivere, avendo perso del tutto la simpatia per i simili.
Sul piano del puro sviluppo narrativo, segnaliamo che dopo l’autoaccusa di pluriomicidio il piccolo Institoris con altri amici lascia la stanza, rumoreggiando all’esterno a tal punto da preoccupare la signora Else Schweigestill, che allarmata si spingerà sulla porta e da lì ascolterà le ultime parole di Leverkühn.
*
Ma per quanto fossi peccatore, o amici, per quanto fossi assassino, avverso agli umani, dedito agli amori del demonio, tuttavia sempre lavorai assiduamente senza mai riposare e dormire, sudai e faticai e sopportai grandi disagi, giusta le parole dell’apostolo: chi cerca il difficile ha la vita difficile.
Come infatti Dio non fa le cose grandi a opera nostra senza le nostre offerte e cerimonie, così non le fa qiell’altro; egli allontanò da me soltanto la vergogna, l’ironia dello spirito e ciò che nell’epoca era avverso all’opera, ma il resto io dovei fare da me, sia pure seguendo strane ispirazioni.
Spesso sentia risonare accanto a me un soave strumento, 309
fusse organo positivo o armonio, fusse arpa, liuto, violino, trombone, piffero, cromorno o ottavino, ciascuno con quattro voci, al punto di farmi credere di essere in Paradiso, se d’altra verità non avessi avuto contezza. Molte di queste cose ho scritto. Spesso erano meco nella stanza certi bambini, maschietti e femminucce, che mi cantavano mottetti, sorridevano con strana arguzia e si scambiavano occhiate. Erano creature graziose. Talvolta i lor capelli sollevavansi come ad un’ondata di aria calda ed essi si lisciavano con le belle manine che avevano le fossette ed erano ornate di piccoli rubini. Dalle loro narici uscivano talvolta attorcigliandosi gialli vermiciattoli che scendevano loro sul petto e scomparivano…….­ Sempre attraverso il rinnovamento dell’infanzia (nascita nuova di vite! Tremendissimo sperpero, se limitato a succhiarne il sorriso per non sopportare il lezzo o la grascia dei gesti!) l’umanità tenta di gustare nuovamente l’innocenza e di ricreare le candide atmosfere, che la sottraggano almeno per qualche istante alla perfidia di una miseranda ed abbietta struttura; l’effetto perciò non può certo durare e alla fine prevalgono ancora i pestiferi vermi dell’approfittare e del conciliare per sette.
I più esperti della stupefazione dell’orrido sono pur sempre gli artisti isolati, coloro che coltivano sino al delirio la dolcezza strumentale, quelli che dalla sfere del cosmo succhiano il nettare delle più arcane armonie.
Adrian, pur nel delirio della massima disunione psichica, rispetta ancora drammaticamente questa capacità di concentrazione intensa; pur nell’angoscia di uno sradicamento inarrestabile dalla ragione, consapevole rivela un’efficacia di visioni ed intenti, che prevalgono nel momento stesso del suo totale naufragio nell’afasia.
Altre invitati frattanto prendono congedo. Alcune donne si stringono attorno all’artista quasi a proteggerlo. Non ancora la signora Schweigestill; il suo assistere da lontano imprime alla scena un senso allarmante. Della madre non si ha ancora bisogno.
Il mio peccato è troppo grande perché mi possa essere perdonato e lo portai al culmine arrivando a speculare che la contrita diffalta di fede nella possibil grazia e nel 310
perdono potesse essere di massimo stimolo alla bontà divina, mentre pur intendo che questo calcolo sfacciato rende in tutto impossibile la misericordia……..­
La signora Else Schweigestill si sta (nella massima lucidità della tempesta!) chiedendo (‘senza alcuna pretesa di capire, Signore!’) a che serva la misericordia, se non è in grado di liberare dal terrore della dannazione un’anima gentile e temperata, che ancora vive!
‘E perché (si domanda esterrefatta) tutte quelle persone intelligenti non reagiscono all’assurdità di un divino, che lascia nella confusione e nella follia il più puro e buono degli uomini da me conosciuto e assistito?!’
Ella ormai sa che la gratitudine e il rispetto sono uno scambio, non una decisione unilaterale. ‘Io ti ho assistito, tu mi hai rispettata, per questo ti capisco e non sopporto quello che altri, pur convinti di essere cristiani, accettano sino al punto di crederti colpevole, solo perché lo gridi così disperato e solo!’
­Ma basandomi su ciò andai avanti con le mie speculazioni e calcolai quest’estrema abiezione esser dovesse lo sprone esteriore per la bontà a dimostrare ch’è infinita…..
Vi prego pertanto di serbare buona memoria di me, di salutare eziandio gli altri che posso aver dimenticato di invitare e di non tenermi rancore……..­ A quelle parole la signora Else Schweigestill non può non risovvenirsi che tra i non invitati c’è anche la madre!
No, non può essere questa una semplice dimenticanza!
In lei comincia ad agitarsi un tumulto di affetti; si sente ora così tragicamente unita a quell’uomo delirante, che più non vede presenze tra lei e quel corpo disperato, cui sanguinano il cuore e lo spirito.
‘Tu puoi non nutrire misericordia per lui, ma io sono una madre e non comprendo nulla aldilà della protezione, del condono!’
E si alzò pallido come la morte.
Leverkühn era andato a sedersi al pianoforte e lisciava con la destra i fogli della partitura.
Vedemmo lacrime scorrere dalle sue guance e cadere sui tasti, che, bagnati com’erano, egli percosse, traendone accordi vivamente dissonanti……..
Le dissonanze non sono più né una scelta per dissacrare il frastuono 311
reboante della musica post­romantica, né la volontà di recuperare la semplicità delle sfere infantili, dei mottetti di fanciulli e fanciulle; no, ora, qui, sono soltanto la caduta della mano su dei tasti vuoti, neutri ancor più del pallore dei vermi che invadono la purezza originale, lordata dal peccato teologico.
Adrian è incapace di governare i suoni, egli è così sordo all’impulso dei sensi (l’udito prima di tutti!) che la partitura è diventata per lui una fitta tenebra.
Adrian è ora un perfetto idiota!
Aprì la bocca come per cantare, ma dalle sue labbra proruppe soltanto un lamento, che mi è rimasto per sempre nelle orecchie. Chino sullo strumento allargò le braccia quasi volesse stringerlo e improvvisamente, come spinto di fianco, cadde dalla seggiola.
La signora Schweigestill, che era la più lontana, lo raggiunse più velocemente di noi vicini, che non so per quale motivo esitammo un secondo ad occuparci di lui
­Via di qui tutti! Non avete alcuna comprensione, voi cittadini, e qui occorre compassione! Molto ha parlato della grazia perpetua, questo pover’uomo e non so se basterà. Ma una giusta comprensione umana, credete a me, basta a tutto!­
Confusi dalla loro stessa cultura o civiltà, quei ‘cittadini’ non sanno più che significhi ‘misericordia’ per un uomo che non è più assistito dalla ragione.
La signora Else giunge per prima ad assisterlo e caccia via gli altri con ‘pacifica’ autorità; essa trova espressioni essenziali e necessarie come la vergogna e l’impotenza in cui quelle persone ‘autorevoli’ si sono consumate per aver voluto capire aldilà della comprensione, quindi (vergogna settanta volte sette!) per non essersi accorti che quella povera creatura era malata e il suo discorso un delirio.
*
Quando mi accinsi a scrivere queste memorie, a delineare la biografia di Adrian Leverkühn, non c’era né da parte dell’autore, né per l’arte del protagonista, la minima speranza di poterle comunicare al pubblico. 312
Ora che lo Stato mostruoso, che allora teneva stretto tra i suoi tentacoli il continente e più del continente, ha finito le sue orge, ora che i matadores si fanno avvelenare dai loro medici, cospargere di gasolio e bruciare affinché di loro non rimanga assolutamente nulla, ora, dico, si potrebbe pensare alla pubblicazione di questa mia opera devota.
Zeitblom precisa che l’opera potrebbe essere pubblicata in America (Stati Uniti si intende!), poiché la Germania è talmente distrutta da riuscire quasi impossibile una ripresa immediata dell’impresa editoriale.
C’è qui il senso apocalittico del tempo di crisi, che è tipico del chierico, dell’insegnante, dell’educatore, i quali non sanno per quali arrembanti iniziative ci si possa muovere per convincere il Mercante a riprendere il corso dello scambio di beni così ‘inessenziali’ come i libri o i testi musicali.
Bisogna anche premettere (eventi, che Zeitblom non poteva prevedere!) che se alcuni nazisti si faranno gassare o avvelenare per non pagare il fio delle loro nefandezze, centinaia di migliaia sciameranno per le ‘Meriche’, là insegnando ai liberali governi democratici e agli spiriti indipendenti come organizzare eserciti, corpi speciali e servizi segreti all’altezza dei tempi e capaci di mettere fuori portata il novello nemico, il Male assoluto, che sta germinando lassù, nelle Russie!
Il grottesco­tragico di quel presente di disfatta teutonica è che saranno gli ‘indemoniati’ reali a perseguire sotto altre spoglie e maschere la loro opera di distruzione e di avvelenamento delle anime ‘semplici’.
Mi mancherà il lavoro, per quanto sconvolgente e faticoso, che, tenendomi occupato come un dovere continuativo, mi aiutò a vivere gli anni che in ozio sarebbero stati ancora più gravi da tollerare; e invano, almeno per il momento, cerco un’attività che possa sostituire quella mia fatica.
E’ ben vero che le ragioni per le quali undici anni or sono abbandonai l’insegnamento, crollano sotto i tuoni della storia. Ahimè, temo che in questo sciagurato decennio sia venuta su una generazione che non comprende il mio linguaggio, come io non comprendo il suo; temo che la gioventù del mio paese si sia troppo estraniata, perché io possa essere ancora il suo Maestro.
Tieni troppo poche frecce nella faretra, amico!
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Se proprio non ti fidi delle tue, sfodera quelle dell’amico e vedrai che il decennio infernale ha lasciato men danni di quanti tu tema, tanto sull’istante del fosco crepuscolo nazista si stanno agitando altri demoni, forse ancor più tenebrosi ed amanti di abissi!
Il ‘compare’, il ‘Lui’, il maligno ispiratore della ‘Sirenetta’ non è affatto uscito, come credeva Adrian, dal fantomatico regno teologico del male, (dove il Padre che destina all’inferno per scelta in scrutabile, è ancor più feroce! Non ha misericordia, direbbe la signora Else Schweigestill!), ma è intimo delle Elites lucuplete, che hanno scatenato il nazismo e la guerra; il Lui distruttore sta dentro la produttività (sacrificata al profitto!) che l’uomo consuma per farne un alieno alla terra, tant’è dominato dai troppi robot della tecnica.
Affetto di amico mi vieta di decrivere ampiamente in quali condizioni Adrian si sia riavuto dopo le dodici ore di incoscienza, nella quale la scossa della paralisi lo aveva sprofondato davanti al pianoforte. Egli non si riebbe, ma si ritrovò diverso da quello che era stato, ridotto a un consunto involucro della sua persona, che non aveva più nulla a che vedere con colui che si era chiamato Adrian Leverkühn.
Quando cessa di operare l’artista, finisce anche la consapevolezza in colui, che lo incarnava?!
La paralisi ha reso demente a tal punto Adrian Leverkühn da togliergli ogni lume di autocoscienza?!
Di questo è sicuro il suo biografo e noi non abbiamo nessuna intenzione di fargli cambiare opinione, sebbene del tutto non ci convinca ed avremo occasione di dare le prove del perché della nostra prudenza.
Non sempre la morte dell’artista coincide con quella della persona, che lo ha fino a quel momento incarnato. Rimbaud, ad esempio, sopravvisse lunga stagione all’artista in una lenta consumazione, di cui ben poco abbiamo saputo e forse sarà mai concesso alle generazioni future (che imporranno ai distruttori il ripristino della poesia in tutte le sue manifestazioni più feraci!) di conoscere.
*
La permanenza a Pfeiffering non fu più possibile. Rüdiger Schildknapp e io ci addossammo il grande dovere di trasportare il malato, preparato per il viaggio 314
dal dottor Kürbis con droghe calmanti, fino a Monaco, nella clinica neurologica del dottor Hösslin a Nymphemburg, dove Adrian passò tre mesi. Nella sua prognosi l’esperto specialista aveva dichiarato immediatamente senza riserve che si trattava di una malattia mentale, che poteva soltanto progredire.
Disse che però nel progredire i sintomi più violenti si sarebbero attenuati e, con cure opportune, ridotti a fasi più tranquille, se non più promettenti. Proprio questa informazione indusse Schildknapp e me, dopo vari consigli, a non avvertire per il momento la madre di Adrian, Elsbeth Leverkühn, nella fattoria di Buchel.
E la signora Else Schweigestill?!
I due amici prendono decisioni senza interpellarla, come se ella per Adrian fosse stata soltanto persona di servizio! Non si tace che il dottor Kürbis approva e convalida con la sua autorità la decisione dei due amici ed, anzi, ne cura la realizzazione; però neppure passiamo sotto silenzio che ancora una volta la civiltà cittadina trascura la donna del contado.
Né il medico, né Schildknapp, né Serenus sono minimamente sfiorati dal sospetto che in lei (la donna del contado!) insista la vera e profonda umanità.
La conclusione sta nel fatto che Adrian è strappato dalle braccia della signora Else Schweigestill per essere affidato per tre mesi alle cure di un esperto neurologo, che lo rispedirà al consorzio perfettamente e tranquillamente ‘demente’.
La sua creatura!
Questo e nient’altro era diventato Adrian Leverkühn, quando la vecchia signora arrivò un giorno (l’anno volgeva all’autunno) a Pfeiffering per riportarlo nella nativa Turingia, nei luoghi della sua infanzia, ai quali l’ambiente dove viveva aveva già corrisposto da tanto tempo in modo così strano. Egli era una creatura debole, un pargolo che non conservava più alcun ricordo o, se mai, un ricordo molto vago dei voli gloriosi della sua virilità e, al pari di una volta, si attaccava alle sottane di lei, costretta, come in altri tempi, a curarlo, guidarlo, invitarlo a non commettere ‘sgarberie’.
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Questa è Elsbeth Leverkühn, colei che scende come un’aquila a Pfeiffering per riprendersi il figlio e riportarlo nella nativa Turingia, affinché non commetta ‘altre sgarberie’.
No, non può aver guardato subito con simpatia ed amore una simile madre Adrian, dopo aver sperimentato per tanto numero d’anni le cure e le attenzioni amorevoli dell’altra sua madre sì, Else Schweigestill, che mai lo aveva incolpato di nulla, ancor meno delle sue sofferenze e della tragica caduta finale. “In fondo per una madre ­osserva Zeitblom­ il volo di Icaro del figlio eroe è un’aberrazione tanto colpevole quanto incomprensibile, donde ella sente risuonare con segreta mortificazione le parole lontane e severe: ­Donna, io non ti conosco!­
Ma il rifiuto di Adrian, consapevole e profondo rifiuto, è dipeso da lei, dalla sua incapacità di assecondare e sostenere il figlio nella sua maturazione umana ed artistica.
Chi pensa che Adrian abbia tenuto lo stesso comportamento di rifiuto o di indifferenza con la signora Else Schweigestill per il solo fatto che non era ‘sua’ madre, non ha capito niente di questo libro e del senso delle sue indicazioni umane, indicazioni che vanno molto aldilà della stretta famiglia tribale. No, egli trattò sempre alla pari e con assoluta trasparenza la seconda madre, poiché la trovò generosa con lui, proprio rispettandolo ed amandolo nella sua funzione di artista ed artista solo in apparenza (per gli ipocriti!) funesto coi tragici suoni, che annunciavano talvolta bruschi, talvolta grotteschi, talvolta dolorosamente appassionati il rifiuto di ogni bassezza!
Dopo tre mesi di cura alla clinica Hösslin, dove potevo vedere l’amico solo di rado e per pochi minuti, si era raggiunto un livello di tranquillità che permise al medico di consentire alla cura privata nella quiete di Pfeiffering.
Adrian, in questa condizione di relativa calma, è escluso come soggetto; per Zeitblom e per la società ‘medicale’ il musicista è finito e con lui, ancor più, l’uomo.
Seguiamo, per contro, attentamente i fatti.
Nei primi tempi di Pfeiffering il ‘demente’ è affidato alle cure di un infermiere; poi, lo dice il suo biografo, 316
il suo contegno giustificò anche l’allontanamento di questo sorvegliante, sicché la cura fu di nuovo affidata alla gente della fattoria, soprattutto alla signore Schweigestill. Egli (Adrian!) aveva fiducia in lei come in nessun altro. Si vedeva che la sua massima soddisfazione era starsene seduto con lei, tenendola per mano.’
Questi particolari ci avvertono chiaramente che il grado di consapevolezza di Adrian, pur non avendo più l’intensità di quello dell’artista, è così acuto da fargli comprendere e prediligere la semplice umanità di quella donna del ‘contado’. Egli trova in lei una volontà di vita non meno intensa di quella da lui contrattata con il ‘Lui’, sarcasticamente fingendo di prendere sul serio le pretese teologiche.
Così lo trovai (accanto alla signora Else, nell’orto dietro la casa) quando andai a visitarlo per la prima volta a Pfeiffering. Lo sguardo che mi lanciò vedendo che mi avvicinavo aveva un che di rovente e di sfarfallante e, con mio grande dolore, si rannuvolò rapidamente in tetro dispetto.
Quando, a un cauto invito della vecchia signora, perché mi rivolgesse una buona parola, il suo volto si oscurò ancora di più e divenne persino minaccioso, non mi rimase altro che ritirarmi con il mio dolore.
Potremmo anche spiegare la cupezza minacciosa di Adrian con l’aura di mesta compassione di cui è gonfio Serenus; lo avesse avvicinato con la semplicità della signora Else, accettandolo per quello che era, non più portando negli occhi il rammarico per la perduta lucidità artistica, ben altra sarebbe stata l’accoglienza.
Ma Zeitblom non conosce che cosa sia modificarsi e rapportarsi agli altri al di fuori dei canoni tradizionali; egli è rimasto schiavo della presunta continuità spirituale del genio, cosa non vera, ‘innaturale’ anche per l’artista, al quale non sia venuta a mancare la ‘solidità’ mentale.
Intanto però era venuto il momento di compilare la lettera che, con tutti i riguardi, doveva informare sua madre circa la situazione. Rimandandola ancora sarebbe stato come rinnegare i diritti di lei. Infatti, il telegramma che annunciava la sua venuta non 317
si fece attendere nemmeno una giornata. Adrian fu informato dell’imminente arrivo, ma non si ebbe la certezza che avesse ben compreso la notizia.
Senonché un’ora dopo, mentre lo si credeva addormentato, uscì di casa non visto e fu raggiunto da Gereon e da una domestica solo quando, in riva al lago, si era tolto gli abiti ed era entrato fino al collo nell’acqua più profonda presso la riva. Stava per scomparire, allorché il domestico si tuffò nel lago e lo trasse fuori.
Non ci si dice chi abbia annunciato ad Adrian l’arrivo imminente della madre; e, cosa ancor più grave, non ci si rivela se qualcuno lo abbia avvertito che la madre giungeva per portarlo via da Pfeiffering.
Se sentì il bisogno di sottrarvisi tentando l’annegamento, per certo egli intese in questo senso la notizia.
Zeitblom ci spiega il tentato suicidio con la credenza protestante, la quale vuole che quanti hanno commercio con il demonio possono salvare la loro anima, ‘rinunciando al corpo’.
Si tratta di interpretazione gratuita, soprattutto perché insufficiente a spiegare quanto avverrà in seguito.
Venne, dunque, la vedova di Jonathan Leverkühn, con quegli occhi bruni e coi capelli bianchi stirati, decisa a riportare all’infanzia il figlio perduto.
Quando si incontrarono, Adrian stette a lungo tremando contro il seno della donna, che chiamava mamma, dandole del tu, mentre a quell’altra, che ora si teneva lontana, aveva dato del lei pur chiamandola mamma, ed essa gli parlò con voce ancora melodiosa, alla quale per tutta la vita aveva negato il canto.
Dopo la violenta prima resistenza, sembra che l’equilibrio degli affetti si ristabilisca e che la madre ‘carnale’ riprenda finalmente i suoi diritti con la acquiescenza, se non piena consapevolezza, del figlio.
Ancora una volta la signora del ‘contado’ si tira da parte, anzi, decisamente si allontana, affinché cessi immediatamente la pericolosa possibilità di una qualsiasi sovrapposizione.
Addio, Adrian, sii una volta (per sempre!) tranquillo!
Ma durante il viaggio nella Germania Centrale, nel quale i due furono fortunatamente accompagnati 318
dall’infermiere di Monaco che Adrian conosceva, ci fu, senza motivo apparente, uno scoppio di collera da parte del figlio contro la madre, un attacco di furore che nessuno si sarebbe aspettato e che costrinse la signora Leverkühn a fare il resto del viaggio in un altro scompartimento e a lasciare il malato solo con l’infermiere.
Fu un incidente isolato che non si ripeté più.
Su questo ‘terribile’ episodio la coscienza di Adrian Leverkühn si spegne per sempre.
Sin dalla lontana infanzia la madre aveva rappresentato per lui una specie di ‘tomba’, che egli istintivamente rifiutava. L’educazione nella donna è spesso una violazione, che la riporta per salvarsi alla condizione pre­razionale della gestazione! In simile regressione non è anormale che ella si senta irrigidire lo spirito, riflettendo alla vanità (pericolosità per il destino eterno!) di un’esistenza, dedicata all’arte, soprattutto se si tratta della sua creatura.
Sentendosi separato per sempre dall’umanità aperta e generosa della signora Else Schweigestill, incapace per giunta di far valere le sue predilezioni e le sue scelte, fu il gelo per sempre.
Lo rividi il diletto amico nel 1935, quando, ormai in pensione, andai a portare a Buchel i miei tristi auguri per il suo cinquantesimo compleanno. Il tiglio era in fiore ed egli stava seduto ai piedi dell’albero. Confesso che quando mi avvicinai a lui e a sua madre con un mazzo di fiori in mano le ginocchia mi tremarono. Egli mi parve diventato più piccolo, forse perché stava curvo guardandomi, col viso smagrito, un viso da Ecce Homo, nonostante il colore agreste e sano della pelle, con la bocca aperta e gli occhi senza sguardo.
Ancora una volta lo rividi nel 1939, dopo la sconfitta della Polonia, un anno prima della sua morte alla quale la madre poté ancora assistere a ottant’anni.
Allora ella mi accompagnò su per le scale, nella camera di lui, dove entrò con queste parole incoraggianti: ­Venga, venga pure avanti; egli non la vede!­ Gli occhi di Adrian erano sprofondati nelle occhiaie, le sopracciglia erano diventate più fitte e, di sotto a queste, 319
i fantasmi di uno sguardo severo indagatore sino alla minaccia, era rivolto verso di me e mi faceva tremare. Ma dopo un solo attimo crollava, perché il bulbo degli occhi si voltava all’insù, scompariva a metà sotto le palpebre e oscillava senza sostegno.
Il 25 Agosto 1940 mi raggiunse a Freising la notizia che si era spento il resto di una vita, la quale era stata il contenuto essenziale della mia per affetto, intensità, terrore e orgoglio.
Adrian Leverkühn era nato, come Mann, nel 1885; aveva cinquantacinque anni.
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