pratiche di mediazione e controllo del matrimonio in età pre

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pratiche di mediazione e controllo del matrimonio in età pre
ACTA HISTRIAE • 22 • 2014 • 2
Received: 2011-10-21
Original scientific article
UDC 347.623(450.34)”653”
PRATICHE DI MEDIAZIONE E CONTROLLO DEL MATRIMONIO
IN ETÀ PRE-TRIDENTINA
Ermanno ORLANDO
Università di Verona, Dipartimento Tempo, Spazio, Immagine, Società, Via San Francesco 22,
37129 Verona, Italia
e-mail: [email protected]
SINTESI
Attraverso in particolare lo spoglio delle fonti processuali matrimoniali conservate
negli archivi ecclesiastici di area veneta si intende approfondire una tematica, quella
delle forme di mediazione e controllo del matrimonio pre-tridentino, a cui è stata riservata dalla letteratura specialistica una attenzione occasionale e generica, più interessata a delineare il fenomeno nelle sue generalità che a delinearne analiticamente figure,
meccanismi e funzioni. Si intende così dimostrare come la mediazione rappresenti, al
contrario, il necessario supporto ad un regolare svolgimento dei processi di formazione
(e conservazione) della coppia, fungendo essa da elemento di raccordo e legittimazione
delle transazioni in corso, operando come spazio di contenimento delle tensioni e attivando forme di controllo dell’istituto del tutto funzionali al buon esito degli accordi stabiliti.
Parole chiave: mediazione, controllo, matrimonio, basso medioevo, famiglia, vicinato,
Tribunale Ecclesiastico
PRACTICES OF MARRIAGE MEDIATION AND CONTROL
IN THE PRE-TRIDENTINE AGE
ABSTRACT
Through the examination of matrimonial procedural sources conserved in the ecclesiastical archives of the Venetian area, the subject regarding the marriage mediation and control in the Pre-Tridentine age is going to be investigated. To this topic, the specialized literature has given an occasional and generic attention, being more concerned with delineating
the phenomenon in its generality, rather than outlining in detail the roles, mechanisms and
functions. Our intention is to demonstrate how the mediation represents, on the contrary,
the necessary support to a steady development of training processes (and conservation) of
the couple, serving as an element of connection and legitimacy of the transactions in progress, operating as a restraining space of the tensions and initiating control mechanisms
of the institution fully functional for the successful outcome of the established agreements.
Key words: mediation, control, marriage, Late Middle Ages, family, neighbourhood,
Ecclesiastical Court
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FIGURE E PRATICHE, TRA MEDIAZIONE E CONTROLLO
Si è molto ragionato, negli ultimi tempi, sulla natura dinamica, aperta e modulare del
matrimonio pre-tridentino. In quanto istituto primario di funzionamento sociale, capace,
come nessun altro, di dare stabilità alle famiglie, rafforzare le reti parentali e favorire la pacificazione civica, il matrimonio aveva necessariamente mantenuto una struttura
dialettica e partecipata, configurandosi come un processo a tappe, esposto a molteplici
sollecitazioni, che cominciava con la promessa, passava per lo scambio dei consensi e si
concludeva – anche a distanza di mesi o anni – con il trasferimento della sposa nella casa
del marito. Altrettanto si è scritto, in anni recenti, sulle interazioni, formalizzate o meno,
tra istituto, famiglia, comunità e poteri costituiti e sulle strategie adottate da questi ultimi
per esercitare una direzione di fatto sul matrimonio e disciplinarne i comportamenti1. Di
contro, lo stesso interesse non sembra aver investito la complessità dei rapporti di mediazione (e controllo) intessuti, a vari livelli e sotto diverse forme, attorno all’istituto; a tali
tematiche, semmai, è stata riservata una attenzione occasionale e generica, più interessata
a delineare il fenomeno della mediazione matrimoniale nelle sue generalità e a tracciarne
sinteticamente pratiche e figure che a sviscerarne analiticamente meccanismi, funzioni e
svolgimenti2. La mediazione rappresentava, invece, il necessario propellente al regolare
svolgimento dei processi di formazione della coppia; funzionava da elemento di raccordo
tra le sue diverse fasi; rendeva riconoscibili e legittimi attori e comprimari del negozio;
fungeva da momento di garanzia e validità delle transazioni in corso; operava come spazio di contenimento delle inevitabili tensioni sottese ad ogni tipo di contrattazione; attivava, infine, forme condivise di responsabilizzazione e controllo nelle delicate (e talora
lunghe e complicate) operazioni di trasferimento di donne, beni, alleanze e solidarietà da
un gruppo parentale ad un altro.
Quello legato al matrimonio, infatti, era un sistema di mediazioni complesso, diffuso
e penetrante; un sistema che interveniva ad ogni stadio di avanzamento (o squilibrio) del
processo di formazione della coppia, connettendo tra loro, in rapporti di relazione dinamica, gli sposi e i rispettivi network familiari e parentali e fornendo le garanzie necessarie
al buon esito dell’accordo. A livello base, il mediatore metteva in relazione le parti interessate alla transazione; alla stregua di un qualsiasi altro operatore commerciale, il suo
ruolo primario era quello di far incontrare domanda e offerta, ossia, nel caso specifico, di
connettere due disponibilità – espresse da singoli individui o da gruppi parentali – a stringere un’alleanza matrimoniale. Come ogni altro rapporto intersoggettivo, tuttavia, anche
l’accordo matrimoniale rappresentava, in potenza, un momento di collisione e tensione
tra le parti; l’incontro, stante le sue implicazioni sociali ed economiche, assumeva spesso
i tratti del confronto serrato e talora dello scontro, tanto più acceso quanto più erano alti
1
2
In una bibliografia cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni qui si rinvia solo a Klapisch-Zuber, 1988,
114–115; Klapisch-Zuber, 1996, IX–X; Witthoft, 1996, 129–133; Muir, 1997, 31–44; Grubb, 1999, 22–23,
32, 42–48; Seidel Menchi, 2001, 18–22, 36; Donahue, 2007, 8–51; Lombardi, 2008, 21–22, 26–27, 30–31,
45–51; Orlando, 2010, 11–12, 65–66; Cristellon, 2010, 188–194. L’articolo è stato parzialmente ripreso in
Orlando, 2014, 203–217.
Specifico sull’argomento e sul periodo in questione solo Seidel Menchi, 2004, 3–17.
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gli interessi in gioco e le pressioni interne e/o esterne al negozio. In tal senso, la presenza di un operatore matrimoniale, oltre a favorire dal punto di vista tecnico-operativo le
trattative e a mettere in circolazione le necessarie informazioni, serviva a contenere le
tensioni e a stemperare i contrasti impliciti nella contrattazione. La sua era una intercessione indispensabile, in qualsiasi fase del processo matrimoniale fosse intervenuta: in
primo luogo perché inseriva le parti in un contesto di interazioni e dipendenze – sociali,
economiche e politiche – che le rendeva immediatamente riconoscibili, legittimandone
l’azione agli occhi della collettività; in secondo luogo perché, assumendosi la responsabilità delle trattative, attivava procedure di avvicinamento tra le parti e di composizione
delle (inevitabili) tensioni; infine e di conseguenza, perché riduceva gli spazi di contrasto,
a vantaggio di un confronto disciplinato e composto tra i contraenti (Klapisch-Zuber,
1988, 114–115; Witthoft, 1996, 125–126).
I PRELIMINARI MATRIMONIALI
Tutta la fase ascendente del matrimonio pre-tridentino, culminante nei riti di formazione del coniugio – la promessa e lo scambio dei consensi –, era segnata da una stretta
contrattazione tra le parti e animata da molteplici figure di mediazione. Si trattava per lo
più di personaggi privi di una fisionomia specifica: parenti, vicini di casa, amici comuni,
qualche volenteroso più o meno interessato, per la gran parte accomunati nelle fonti dalla
medesima denominazione di mezzani. Niente li distingueva, quanto a profilo sociale,
ambiente di appartenenza e preparazione tecnica, dalle parti che patrocinavano e a favore
delle quali esercitavano la mediazione: agivano in buona fede, secondo prassi e abitudini
consolidate dal tempo – seppur duttili e mutevoli e variabili da luogo a luogo –, facendo
affidamento su conoscenze elementari del diritto in materia di negozi inter vivos, fidando piuttosto sulle proprie intuizioni, sull’esperienza e sulle convenzioni consolidate. Gli
strumenti del loro agire erano codificati su modelli condivisi e plasmati dagli usi locali; la
loro dimensione era quella del quotidiano, della contingenza delle reti sociali, dell’effettività delle situazioni (Klapisch-Zuber, 1988, 114–115; Seidel Menchi, 2004, 1–7; Cavallar, Kirshner, 2004, 395–397; Niccoli, 2007, 54, 57).
Anche in era veneta, infatti, era prassi arrivare al matrimonio (fatte salve le molti
unioni informali e atipiche, assai documentate per tutto il basso medioevo) dopo una
serrata negoziazione tra le famiglie coinvolte nella trattativa e una stretta contrattazione
finanziaria. Tali preliminari erano condotti più spesso dai parenti maschi delle due case –
padre, zio, fratello maggiore – o da mezzani (qualche volta da professionisti, come presto
diremo), vale a dire pratici delle fasi di preparazione e patteggiamento introduttive al
matrimonio, cui era affidato il compito, talora non semplice, di stringere un’alleanza tra
le famiglie e raggiungere un accordo di massima sugli aspetti economici della transazione (Rasi, 1943, 240–241; Molho, 1994, 182–185; Witthoft, 1996, 124–128; Muir, 1997,
33–34; Lombardi, 2008, 21–22; Orlando, 2010, 11–12, 65–66).
Le trattative che avevano portato agli sponsali tra Elisabetta, figlia di Daniele merzario, e Marino Zabarella (Padova, 1448), erano state condotte direttamente dal padre di
Elisabetta, che solo dopo una serrata negoziazione aveva concesso la figlia a Marino «in
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suam legitimam sponssam et uxorem»3. Sempre sotto la direzione della famiglia della
sposa si erano svolti i preliminari del matrimonio tra Giovanni da Fiume «zeponarius» e
Bartolomea del fu Lorenzo da Firenze (Venezia, 1482). In quel caso era stato il fratello di
Bartolomea, Domenico, frate dell’ordine dei minori, a tessere i primi intrecci della trama
matrimoniale: nei patteggiamenti che avevano preceduto il coniugio Domenico aveva stabilito con lo sposo l’ammontare della dote – beni e sostanze per un valore di 200 ducati;
inoltre, essendo la sorella vedova e madre di due figli, avuti dal primo matrimonio, aveva
ottenuto da Giovanni l’impegno a «tenere in domo sua» i due minori, un bambino di tre
anni e una bimba di poco più di un anno, sino al compimento del loro quindicesimo anno,
«et ipsos alere, nutrire et educare usque ad dictam etatem omnibus suis laboribus, sumptibus et expensis», in cambio di un indennizzo di 200 ducati d’oro, «quos tenere debet ad
galdimentum et illis posset uti, frui et gaudere ad libitum suum pro toto dicto tempore in
recompensationem predictorum alimentorum» (ASPV, CM, vol. 5, fasc. i).
Quando non erano i parenti a gestire le fasi, talora convulse, dei negoziati iniziali e
degli accordi preliminari al matrimonio, il compito era delegato a comuni amici o a dei
vicini, magari più influenti o stimati di altri, o solo più volenterosi, o forse più interessati a proporre un buon partito. Nel matrimonio tra Antonio di Stefano e Maria di Lotto
(Monselice, 1376), le trattative che avevano preparato gli sponsali erano state affidate
dalle rispettive famiglie a «comunes amicos … providos et discretos», dai quali «fuit
tractatum de copulando matrimonialiter predictos Anthonium et Mariam … habito consensu predictorum de perficiendo dictum matrimonium»; gli stessi avevano poi reso noto
il progetto matrimoniale alla comunità facendo le pubblicazioni nella chiesa di San Paolo
«in presencia plurimorum» (ASPD, NC, b. 1, vol. 1). I preliminari delle nozze tra Maria
Sanador e Francesco Talenti (Venezia, 1465), invece, erano stati inizialmente condotti da
un vicino di Francesco, Antonio del fu Anastasio dalla Torre; questi, venuto a sapere che
Maria, vedova e facoltosa (era proprietaria di case sfitte nella parrocchia di San Barnaba
e titolare di investimenti consistenti sia presso i Procuratori di San Marco che i Signori al
cattaver), intendeva riprendere marito, aveva avvisato Francesco, prospettandogli l’ottimo partito e avviando i colloqui tra le parti. Il patrimonio della donna e la sua condizione
di vedovanza, tuttavia, avevano presto complicato la vicenda, tanto da provocare una
duplicazione degli spazi e delle figure di mediazione. Al primo mediatore se ne era così
sovrapposto un secondo, una amica stretta di Maria, certa Peregrina; nella sua casa e sotto
la sua egida le parti si erano incontrate, così soddisfacendo il desiderio di Francesco di
vedere di persona la vedova e sincerarsi che fosse ancora, malgrado l’età, una donna piacevole e di buona presenza. Non le era affatto dispiaciuta, essendo peraltro «minus senex
quam ipso»; anche Maria aveva manifestato un certo gradimento, incalzata da Peregrina
che l’aveva rassicurata sulle condizioni economiche di Francesco. Per vincere le ultime
resistenze delle parti era stata però necessaria l’intercessione delle nobili casate dei Loredan e dei Querini, che erano intervenute ad arrangiare il negozio con tutto il peso del
loro prestigio e del loro status; da ultimo, si era fatto ricorso anche alla mediazione di un
3
ASCP, A, b. 16, fasc. «1449. Processus cause matrimonialis Isabethe filie magistris Danielis merçarii cum
ser Marino Zabarella».
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parente stretto di Maria, che aveva espresso il pieno gradimento alle nozze e appianato le
ultime divergenze (e resistenze) economiche (ASPV, CM, vol. 2, fasc. 16).
All’occorrenza, dunque, la rete delle mediazioni poteva farsi più fitta e articolata,
affollandosi di figure diverse, tra loro complementari e sovrapponibili, in una moltiplicazione spontanea e funzionale dei punti di riferimento e dei ruoli, seppur contigui e interscambiabili. Per esempio, le fasi introduttive del matrimonio tra Enrico Bruno, tedesco
e Angela di Martino (Venezia, 1470), si erano svolte in maniera del tutto informale. In
casa di vicini, una certa Margherita aveva interceduto presso Antonio Vignati, cui non dispiaceva combinare matrimoni, chiedendogli se avesse un buon partito anche per Enrico,
che desiderava pigliare moglie: «si tu podesse trovar moier qui a misser Rigo». Antonio
aveva accettato di buon grado l’incarico e aveva voluto sapere «di che condition» la
volesse; Enrico non aveva posto condizioni particolari, se non la garanzia che fosse una
donna dabbene e di buona reputazione: «e toria de ogni condition, purché la fosse bona,
honesta et vertuosa». Antonio le aveva allora proposto la figlia di Martino, Angela, descrivendone la «condicionem optimam dicte iuvenis et eius facultatem». Si trattava a quel
punto di verificare la disponibilità di Martino a dare la figlia in sposa ad Enrico e nel caso
combinare le nozze. Proprio allora la vicenda si era inaspettatamente complicata e aveva
rischiato uno stallo prolungato; Martino, infatti, si era dimostrato riluttante alla proposta,
non reputando i tempi ancora maturi per maritare la figlia: «e non la voio maridar anchora
infina a 3 anni, perché l’è garzona et sola fia». Riferita la risposta ad Enrico, questi aveva incitato Antonio a non desistere e a continuare nelle trattative; per garantirsi il buon
esito del negozio, aveva però mobilitato alcuni suoi protettori nobili, dai quali aveva
sperato di ottenere la spinta decisiva. Antonio aveva così cominciato un intenso lavorio
di persuasione e convincimento della madre di Angela, mentre del padre si era occupato
direttamente il nobile Andrea Contarini, che, avvalendosi del suo nome e prestigio sociale, aveva facilmente guadagnato un abboccamento con Martino nella sua bottega. Qui
Andrea, presente la figlia, dopo aver pontificato a lungo sulle virtù e le sostanze di Enrico,
aveva finalmente ottenuto il consenso di Martino e Angela alle nozze con il suo protetto.
Il matrimonio era stato celebrato di lì a breve nella casa di Martino; Bernardo, un socio di
Enrico, aveva fatto da sensale, chiedendo e ricevendo il consenso da entrambi gli sposi.
Martino aveva infine benedetto quel coniugio; non senza tuttavia ricordare quanto difficili
e faticosi fossero stati i negozi preliminari e come solo «per amor de … misser Andrea
Contarini e de misser Daniel de Leze e anchor per Antonio qua che si ha afatigado a questa cossa» avesse accondisceso alle nozze (ASPV, CM, vol. 3, fasc. 5). In questo, come
in diversi altri episodi simili, per non mancare al suo carattere strumentale di promozione
e tutela del matrimonio, l’intercessione aveva dovuto fare affidamento su una girandola
di figure e situazioni, sovente in stretta sinergia tra di loro; e in tale turbinio, una parte
di primo piano l’avevano avuta i nobili, a cui da sempre era stata riservata la funzione
di combinare i matrimoni dei subalterni, talora – come è stato rilevato –, con slittamenti
evidenti dalla mediazione alla coercizione o altre forme di pressione e condizionamento
più o meno pesanti4.
4
Così in particolare Seidel Menchi, 2004, 1–7.
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Man mano che si saliva nella scala sociale, la mediazione, pur fondando sempre sulla
prassi e alimentandosi della quotidianità e della contingenza dei rapporti interpersonali e
di gruppo, acquisiva tratti di maggiore riconoscibilità, sino a configurare una professione
(seppur esercitata in modo discontinuo e occasionale), quella del sensale o golo, munita
di una sua disciplina e autonomia. Ovviamente, anche il mediatore di professione era
custode di un sapere giuridico modesto, talora rudimentale. La sua era una specializzazione fondata tutta sulla pratica, non certo sulla preparazione tecnico-giuridica: tuttavia,
in quanto profondo conoscitore del mercato matrimoniale e delle sue regole e figura autorevole e qualificata di collegamento tra le parti, era del tutto strumentale al buon esito
del negozio, specie in presenza di trattative lunghe e complesse, quali quelle tra rampolli delle casate nobiliari o delle famiglie cittadine più facoltose (Klapisch-Zuber, 1988,
114–115; Witthoft, 1996, 125–126; Seidel Menchi, 2004, 7–10; Niccoli, 2007, 61–63;
Lombardi, 2008, 26–27; Orlando, 2010, 65–66).
Chiunque se lo potesse permettere, non esitava ad ingaggiare un mediatore di professione per avviare e seguire una pratica matrimoniale. Nel connubio tra Ursula di
Bartolomeo marangone da Capodistria e Francesco di Giacomo, detto Tedesco (Padova, 1443), a condurre i colloqui preliminari era stato, appunto, un sensale, tale Alvise da
Curtarolo, daziere ai mulini di Torreselle, reclutato dalla famiglia di Francesco. Questi
aveva convocato il padre di Ursula per fargli una proposta: al suo occhio consumato
non era sfuggito che Bartolomeo teneva una figlia «idoneam ad accipiendum maritum»;
per quella ragazza aveva pronto un buon partito, un giovane piacente, virtuoso e già ben
istruito sulle cose del mondo, che non aspettava altro che un suo assenso per convolare
a nozze con Ursula. A Bartolomeo, quella proposta non era affatto dispiaciuta; solo per
la resistenza della figlia (spalleggiata dalla madre) aveva manifestato delle perplessità,
che il sensale aveva immediatamente fugato, chiudendo in breve tempo il negozio con
il consenso di entrambe le parti5. Pure nel doppio matrimonio celebrato tra Caterina e
Antonia, figlie di Rizzo, precone comunale, e Bartolomeo e Bonaventura, figli di maestro Pasio strazzarolo (Padova, 1451) le trattative pre-matrimoniali erano state condotte
da un operatore appositamente ingaggiato «ad faciendum contrahere parentellam inter
filios magistri Pasii et filias ser Ricii preconis». Prima di avviare il negozio, il sensale si
era sincerato dalla viva voce delle due ragazze che quel matrimonio fosse di loro pieno
gradimento, ottenendo in risposta «quod erant contente facere totum id quod volebat
pater eorum». Quindi, in rapida successione, aveva favorito l’accordo sui punti fondamentali del contratto, in particolare l’entità e le modalità di corresponsione della dote;
infine, aveva presenziato alla cerimonia degli sponsali, celebrata davanti alla chiesa di
Sant’Agnese, dove i genitori avevano confermato i propositi nuziali dei loro figli e si
erano scambiati la reciproca promessa, sancita da una stretta di mano e dalla stipulazione del contratto dotale6.
5
6
ASCP, A, b. 12, fasc. «Actus cause matrimonialis Turisellarum domini Antonii Pelegrini pro Ursula filia
magistri Bartholomei marangoni».
ASCP, A, b. 19, fasc. Causa matrimoniale tra Ursula, figlia di Bartolomeo calegario, e Bartolomeo, figlio di
maestro Pasio strazarolo.
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Francesco del fu Antonio de Nigris, che da tempo tramava per congiungersi in matrimonio con Elisabetta di Giovanni Gurgura, vedova facoltosa (Mogliano e Venezia,
1515), per ottenere la prestazione di Cogno del fu Ugone Barbarosi di Mogliano, sensale,
gli aveva promesso una provvigione di 10 ducati. Ricevuta la «commission de far questo
mariazo», Cogno aveva messo in campo tutta la sua forza di persuasione e il suo mestiere. Elisabetta, inizialmente perplessa e reticente – era vedova da molti anni –, lusingata
dall’insistenza del mediatore e rassicurata sulle facoltà del pretendente, aveva alla fine
accettato la proposta. Passati alcuni giorni lo stesso Cogno aveva celebrato il matrimonio
nella casa della sposa, a Mogliano, chiedendo ad entrambi i nubendi di esprimere il consenso e il gradimento alle nozze. Dopo lo scambio dei consensi, i due avevano congiunto
le mani in segno di approvazione; poi si erano ritirati in camera a consumare il matrimonio (ASPV, CM, vol. 15, fasc. 4). La cifra corrisposta al mediatore, 10 ducati, era peraltro
abbastanza comune in area veneziana nei primi decenni del Cinquecento come compenso
per tali servizi; era stata la stessa somma offerta a Ginevra Bindi, vedova di Giovanni, della contrada di San Severo, per combinare il matrimonio tra Giorgio de Ungaris e
Marietta del fu Angelo Teutonico (Venezia, 1530), parcella che Ginevra aveva tuttavia
rifiutato, non credendo opportuno farsi pagare per quella che riteneva una cortesia dovuta
piuttosto che una prestazione soggetta ad onorario: «fia mia, non vago drio a questo, si
porò far quelo tu desideri el farò volentiera» (ASPV, CM, vol. 29, fasc. o).
Come nel caso appena illustrato, la mediazione matrimoniale, anche quella retribuita,
non era una esclusiva unicamente maschile. Sebbene le fonti facciano riferimento prevalentemente a sensali maschi, non mancano tuttavia attestazioni di operatrici professioniste
donne. Donna era stata anche la mediatrice che aveva condotto le trattative matrimoniali
tra Giovanni del fu Arsenio da Corfù e Mattea del fu Antonio Zambono (Venezia, 1505).
Mattea aveva allora quindici anni; una «nuntia seu mediatrix nuptiarum», di nome Elena
schiavona, aveva chiesto a sua madre se volesse maritarla, «eo quia sibi offerebat virum
idoneum et convenientem iuxta ipsius conditionem et statum». Il buon partito proposto da
Elena era un certo Giovanni, fattore dei Barbarigo, di ottime condizione e qualità. La madre di Mattea, Benedetta, intenzionata a raccogliere maggiori informazioni su Giovanni
prima di dare il suo consenso alle nozze, aveva incaricato una sua comare, di nome Elisabetta, pizzocchera, di verificare presso i vicini la relazione presentatale da Elena. Tutti gli
interpellati avevano confermato trattarsi di un giovane di buoni costumi e ottima situazione finanziaria, uno di quelli che tutte le madri avrebbero voluto come marito per le loro
figlie: «fecerunt tam bonam et convenientem [informationem], ut asserunt, quod si ipse
haberent filiam vel filias ipsam darent in uxorem ipsi ser Iohanni propter eius qualitatem
et conditiones optimas». Rinfrancata dalle relazioni raccolte, Benedetta aveva così dato
mandato ad Elena di combinare all’istante quel matrimonio (all’apparenza) così vantaggioso. Sennonché, a matrimonio formato, Mattea e la madre avevano scoperto di essere
state vittime di un inganno riprovevole: Elena, la mediatrice, aveva spacciato «dolose et
fraudulenter» Giovanni da Corfù, famulo dei Barbarigo, che Mattea aveva sposato, con
un suo omonimo, sempre a servizio dei Barbarigo, ma in qualità di fattore; il Giovanni
di buona condizione e fortuna che Elena durante tutte le trattative le aveva prospettato
non era lo stesso Giovanni che poi Mattea aveva sposato, di posizione sociale inferiore e
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peraltro in debito con la giustizia. Era stata l’operatrice, abusando della sua veste e della
fiducia risposta nella sua funzione, ad escogitare l’imbroglio «malitiose et per dolum …
inducta … a dicto Ioanne famulo», sapendo che se avesse proposto alla madre di Mattea
il Giovanni più disgraziato, lei non avrebbe mai acconsentito al matrimonio (ASPV, CM,
vol. 11, fasc. 15).
Quella del mediatore rimaneva dunque una figura centrale nella formazione del matrimonio pre-tridentino. Risultava anche, tuttavia, una figura ambigua: tutta sostanziale e
assai poco formalizzata, poco normata sul piano della responsabilità giuridica e sociale,
sdoppiabile e sovrapponibile e sin troppo condizionata dalla buona fede di quanti ne esercitavano la funzione. Per questo, come nell’episodio appena illustrato, poteva rivelarsi
talora infida, invadente e traditrice: per la sua forza indiscussa di alterare gli equilibri e
disciplinare i negozi, senza tuttavia essere bilanciata da adeguate difese socio-giuridiche,
in mancanza delle quali era sin troppo facile provocare frizioni e conflitti, laddove l’istituto avrebbe voluto ordine e concordia.
LE FASI FORMATIVE DEL MATRIMONIO
La mediazione, come già detto, intersecava il matrimonio non solo nella sua fase preparatoria, con una funzione in qualche modo regolatrice del mercato e di collegamento
tra le parti, ma anche nella fase formativa e di pubblicizzazione del connubio. Anche in
questo caso si trattava per lo più di figure prive di una connotazione tecnico-giuridica
specifica, legittimate più dalla funzione e dal contesto che dalla professione o da una particolare preparazione tecnica. I volti incontrati in occasione della promessa o dello scambio dei consensi erano gli stessi già incrociati negli stadi precedenti: padri, zii, parenti
stretti, tutori, amici, vicini. Solo che, nel frattempo, tali operatori avevano aggiunto una
ulteriore mansione a quelle originarie di intercessione e controllo dell’istituto coniugale,
ovvero quella dell’officiante, in una commistione di ruoli difficile da districare; la veste
del mediatore si era combinata con quella del celebrante, senza che tale concentrazione di
funzioni risultasse incongrua o sconveniente. La responsabilità di officiare gli sponsali o
il matrimonio non era una complicazione, semmai una variabile ulteriore della funzione
originaria, vale a dire quella di far incontrare le parti e favorirne l’intesa. Nel momento
di raccogliere le promesse o i consensi, il celebrante non faceva altro che portare a compimento l’opera di mediazione che lui stesso, o altri prima di lui, avevano iniziato, in una
sovrapposizione e intercambiabilità di compiti e ruoli che potrebbe sembrare ambigua,
ma era del tutto funzionale alla formazione della coppia e al perfezionamento della transazione matrimoniale.
Anche quando ad ufficiare il rito erano dei tecnici – un prete, come avrebbe voluto la
chiesa, da tempo impegnata a sottrarre l’istituto al controllo della famiglia e dei gruppi
parentali e ad imporre una sua competenza esclusiva sul matrimonio; o un notaio, secondo le indicazioni del potere politico, intervenuto anch’esso per tempo sull’istituto
per imporre norme giuridiche proprie e propri modelli di comportamento7 – la linea di
7
Rinvio qui solo a Orlando, 2010, 17–22 e alla bibliografia ivi riportata.
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separazione tra mediazione e celebrazione rimaneva del tutto sfumata e indistinta. Il surplus di preparazione tecnica messa in campo da tali figure interferiva in termini di pubblicizzazione dell’evento e di tutela giuridica del coniugio, non certo in quelli del rito né
tantomeno delle funzioni esercitate. D’altronde, nel matrimonio pre-tridentino, gli unici
ministri del rito-sacramento erano gli stessi sposi; tutto il resto serviva a dare spessore,
consistenza e protezioni giuridiche al matrimonio, di fatto inserendosi nella dimensione
della mediazione e del controllo dell’istituto, quella per cui chi celebrava il coniugio
esercitava certo una funzione cerimoniale, ma prima ancora di sostegno sociale e tutela
pubblica dell’accordo stipulato e di garanzia dei suoi contenuti formali (Klapisch-Zuber,
1988, 116–118; Seidel Menchi, 2004, 11–15).
Ebbene, anche in area veneta a raccogliere i consensi e a presenziare al coniugio
nella doppia veste di mediatore e cerimoniere era un sensale: qualche volta un prete;
altre volte un notaio; con maggior frequenza un parente (di norma il padre della sposa) o
un amico (magari il tutore della ragazza, se orfana dei genitori). Anche se raro, non era
improbabile il caso che ad interrogare gli sposi fosse una donna, generalmente la madre
della promessa. Addirittura, poteva capitare che a celebrare il rito fosse chiamata una
persona di religione o confessione estranea al cattolicesimo latino: un greco ortodosso,
come nel matrimonio celebrato a Venezia nel novembre del 1362 tra Zilio del fu Bartolomeo Rosso da Padova e Cateruzza del fu Ronconello da Chioggia8; o un ebreo, come
nella cerimonia nuziale svoltasi sempre a Venezia nel maggio del 1522 tra Alvise del
fu Domenico Caravello e Diana Minio, figlia di Lorenzo (ASPV, CM, vol. 25, fasc. 7).
Peraltro, la figura del cerimoniere non era né indispensabile né sempre presente; sovente,
infatti, come nei molti matrimoni clandestini, erano gli sposi a pronunciare da se stessi il
consenso mutuale, senza la mediazione di terzi o l’intercessione di parenti o amici (Rasi,
1943, 261–264; Seidel Menchi, 2001, 21–22; Lombardi, 2008, 40–41; Cristellon, 2010,
192–194; Orlando, 2010, 74–76).
Nella maggior parte dei casi, dunque, a fare da sensale alla stipula del matrimonio era
un parente stretto della sposa: il padre, lo zio paterno, il fratello maggiore, il congiunto
che ne aveva la tutela. Quando non era un parente, erano più spesso un notaio (specie in
terraferma) e in subordine un prete (sulla cui figura di mediazione torneremo più oltre nel
testo), a svolgere tale ruolo di intercessione e garanzia nella stipula dell’accordo: erano
allora loro a porre le domande formative del vincolo e riceverne l’assenso; a congiungere
le mani degli sposi e a guidare le successive fasi dell’inanellamento e del bacio; infine,
limitatamente al notaio, a formalizzare la sequenza matrimoniale con la redazione di un
documento scritto. La funzione svolta dal notaio (ma in parte pure dal prete) non differiva
in alcun modo da quella esercitata da un qualsiasi altro sensale, seppure il primo fosse
provvisto di un bagaglio tecnico e di una preparazione specialistica del tutto sconosciuti
ai mediatori comuni; solo si inseriva in un contesto (anche formulare) ben più rigido
e formalizzato e disponeva di un’enfasi maggiore, derivante dal ruolo pubblico di cui
era investito tale professionista. Per esempio, nello scambio dei consensi officiato nel
Trevigiano tra Francesca di ser Vilio da Guarda e Albrigetto di Nicolò da Bavaria (Guar8
ASVE, N, b. 73, Atti Eugubio (de) Angelo fu Luca, nr. 19.
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da di Montebelluna, 1346), ad interrogare gli sposi era stato appunto un notaio; questi
aveva verificato l’impegno dei nubendi con un formulario tecnico e solenne. Dapprima
la sposa: «in Christi nomine et beate Marie virginis a quibus descendunt omnia bona,
dona Francisca filia ser Vilii de Guarda Montisbellune, verbo et voluntate ser Vilii vestri
patris, presentis et volentis et vobis parabolam dantis, laudatis et vultis ser Albrigetum
filium ser Nicolay de Bavaria in vestrum legitimum maritum?». Poi lo sposo: «Et vos ser
Albrigetus laudatis et vultis dictam donam Franciscam in vestram legitimam uxorem?».
Entrambi avevano risposto convinti «quod sic». A quel punto, il notaio aveva presenziato
al rito dell’inanellamento e subito dopo aveva assicurato veste formale e valore legale
al contratto consensuale, mediante la redazione di un atto notarile (Cagnin, 2004, 441).
Subito dopo venivano, quanto a frequenza, i matrimoni celebrati da amici o vicini. Poteva trattarsi semplicemente di un conoscente di fiducia, un buon uomo (seppur di diversa
confessione), come nel caso delle nozze tra i già incontrati Cateruzza da Chioggia e Zilio
da Padova. In quel caso, Dimitri, greco, sensale «ad hoc electum», si era dapprima rivolto
alla sposa chiedendole «dona Catharucia, vultis ser Zilium sartorem de Padua hic presentem in vestrum legitimum sponsum et maritum?»; questa aveva risposto «sic». Verificato
il consenso di Cateruzza, il cerimoniere aveva diretto la stessa domanda allo sposo, che
similmente aveva suggellato l’impegno con un «sic». Più spesso a celebrare le nozze era
un vicino stretto della coppia. Nel matrimonio tra Caterina e Felice de Grassis (Padova,
1505), a sostenere la parte del «piedo», o sensale, era stato maestro Piero, barbiere, della
stessa contrada; questi aveva interrogato gli sposi «se i se volevano uno et l’altro per marido et moier et tuti doi disse de sì et se tochono insieme la man dextra et dicto Felixe con
una vereta spoxò la dita Chaterina» (ASPV, CM, vol. 10, fasc. 5).
Altrettanto spesso, il cerimoniere era scelto nella cerchia dei colleghi di lavoro dello
sposo o dei suoi clienti. Così era stato nel connubio tra Margherita da Spalato e Giovanni
«batioro» da Norimberga (Venezia, 1476), dove ad ufficiare le nozze era stato Domenico
Saraco, pittore, solito servirsi nella bottega di Giovanni. In quell’occasione, era stato Domenico a porgere agli sposi le domande di rito: prima a Pasqua, se volesse Giovanni quale
suo marito secondo il rito di santa madre chiesa, quindi a Giovanni; entrambi avevano
espresso il loro gradimento. Scambiati i consensi, Giovanni aveva infilato una vera d’oro
al dito di Pasqua, «eam desponsando» (ASPV, CM, vol. 4, fasc. 1).
Infine, in caso di matrimoni interetnici o tra stranieri, non era affatto raro che a celebrare l’unione fosse un loro conterraneo. Era quanto avvenuto nel matrimonio tra Margherita da Traù e Alessandro del fu Alvise Orio (Venezia, 1505), dove a fare da sensale
era stato Andrea Pastrovich, conterraneo di Margherita. Andrea, dopo aver chiesto e ottenuto il consenso da entrambi i nubendi, aveva loro congiunto le mani e poi ricevuto da
Alessandro «una vera d’oro … per sposar la dicta dona Margarita». Andrea aveva preso
la vera e l’aveva affidata a Franceschina Prachina, incaricata di portare l’anello in chiesa
e farlo benedire. Tornata Franceschina con la vera benedetta, Andrea l’aveva infilata al
dito di Margherita, augurando agli sposi «in bona hora e in bona gratia pregio Dio ch’el
possiati galdir largo tempo in paxe et sanità», in tal modo ribadendo che la sua funzione
non era solo cerimoniale, ma altresì intercessoria e di garante degli impegni presi dalla
coppia (e dai loro parenti) (ASPV, CM, vol. 14, fasc. 4).
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Seppur insoliti, non erano nemmeno eccezionali i matrimoni celebrati da donne (in
particolare la madre della sposa). Per esempio, nel matrimonio tra Bartolomeo di Vinciguerra della Vallagarina e Gada di Giovanni Lupo di Trento (Trento, 1444), ad ufficiare
l’unione era stata una vicina e conoscente di Gada, Brunetta, moglie di Bonincontro lanaiolo di Trento; era stata la vicina a fare le domande di rito agli sposi, alle quali entrambi
avevano risposto affermativamente «illari vultu»; era stata ancora lei a guidare la mano
di Bartolomeo mentre questi infilava una vera d’argento all’anulare della sposa; era stata
sempre lei, infine, a suggellare gli impegni assunti con un breve sermone e ad avviare i
successivi festeggiamenti9.
LA DIMENSIONE SOCIO-POLITICA DELLA MEDIAZIONE
La mediazione, dunque, con la sua plasticità, il suo coinvolgimento nella quotidianità
e nella contingenza, la sua capacità di intercettare e far emergere le dinamiche sociali e
di gruppo, era del tutto funzionale al matrimonio pre-tridentino. Come qualsiasi altro
rapporto di interscambio, anche il matrimonio aveva un bisogno fisiologico di operatori
capaci di mediare e agevolare la relazione, potendo intervenire in qualsiasi fase di formazione (o squilibrio) della coppia, in funzione di raccordo tra le parti, di contenimento
delle tensioni e di risoluzione dei conflitti. A ben vedere, tuttavia, la mediazione non si
risolveva mai a livello individuale, bensì in una dimensione necessariamente corale e
partecipata. Anche quando la funzione intercessoria era esercitata da un singolo operatore, questi si inseriva naturalmente in un contesto sociale ben più ampio. Come nei casi
sopra illustrati, la narrazione slittava continuamente da una dimensione soggettiva ad una
corale; il baricentro dell’azione si configurava sempre in uno spazio condiviso, affollato
da figure diverse e complementari, dietro alle quali si stagliava preminente la comunità
sociale, con le sue interazioni e i suoi propositi di controllo, garanzia e ordine. Laddove
interveniva una mediazione, era tutta la comunità ad esserne, in qualche modo, coinvolta;
essa, infatti, attivava un sistema di relazioni complesse, che rimandava in primo luogo
alle organizzazioni famigliari e parentali, ai legami di vicinato, alla parrocchia e ai gruppi
professionali, alle reti di patronato, etniche o confessionali, ossia ai network entro i quali
si consumavano le dinamiche relazionali (compreso il matrimonio) e si regolavano i conflitti (Seidel Menchi, 2004, 15–16; Cavallar, Kirshner, 2004, 395–397; Lombardi, 2006,
587–595; Niccoli, 2007, 58, 64, 67).
Nella maggior parte dei casi, dunque, la mediazione matrimoniale era una azione
collettiva, dispiegata pressoché tutta nel segno del gruppo. Il mezzano, il sensale o il conciliatore di turno non facevano altro che dare voce e consistenza ai veri protagonisti della
intercessione: la famiglia, il parentado, i vicini, i conterranei, i correligionari, i colleghi
di lavoro. In tal senso la mediazione attivava logiche di controllo e disciplinamento orizzontali della coppia, operanti sin dalle formazioni sociali più elementari. Era proprio a tali
livelli che il gruppo assumeva, in maniera indistinta, il ruolo di protagonista occulto delle
pratiche di composizione e conciliazione della coppia, in una stretta contiguità dei piani
9
ASCP, A, b. 12, fasc. «Bartholomeus filius Vinciguere de Muzio».
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di azione con i poteri costituiti e in una combinazione funzionale dei ruoli e delle figure
in azione, tra loro compatibili e interscambiabili. Ogni volta che una coppia si formava,
o quando entrava in crisi e rischiava di sfasciarsi, o anche quando sembrava sbagliata e
male assortita, il gruppo, con la sua approvazione o insofferenza, interveniva in maniera
sensibile nelle dinamiche in atto, condizionandone gli esiti finali. La comunità intera fungeva in quei casi da gruppo di pressione, ricorrendo talora a pratiche intercessorie dirette,
talaltra a quelle indirette o meno formali, quali la mormorazione, la diceria, il gossip (Ferraro, 2001, 6–13; Cowan, 2007, 22–24, 41–42, 88, 141, 148–149; Cowan, 2008, 1–21):
una sorta di coscienza collettiva, informata dagli stessi valori culturali degli sposi, capace
di ingerirsi nelle dinamiche relazionali, sino a disciplinarne azioni e reazioni10.
Per esempio, nella vicenda che aveva avuto per protagonista Giovanni Domenico da
Rovere (Venezia, 1512), responsabile di un matrimonio plurimo, le reti di vicinato11 avevano avuto un ruolo fondamentale nella composizione del conflitto e nel disciplinamento
del caso. Da tempo era sulla bocca di tutti, nella parrocchia di San Cassiano, che Giovanni
Domenico teneva contemporaneamente tre mogli in città; questo aveva creato sconcerto ed
imbarazzo tra i vicini, che avevano dato sfogo alla loro insofferenza attraverso un intenso
chiacchierio. Un amico e vicino di Giovanni Domenico, Simone da Treviso, si era così fatto
portavoce di quel disagio, chiedendone ragione all’interessato. Questi aveva ammesso la
sua colpa e confidato all’amico tutto il suo smarrimento: «e son intrigà cum tre femene,
cum una griega [Camilla] sta a San Raphael, una da Sancto Apostolo [Angelica], la qual
è una bella dona, e cum Bona [da Zara], e non so come debio far, qual che debio tuor».
Aveva anche cercato di giustificare quel suo comportamento, agli occhi di tutti scorretto,
facendo intendere che non era del tutto voluto; semplicemente la situazione gli era sfuggita
di mano. In sostanza era capitato che mentre praticava con Camilla greca di San Raffaele,
era giunto in casa un fornaio, il quale aveva chiesto il motivo della sua presenza colà; la
greca aveva prontamente risposto che era suo marito; lui, con un attimo di disorientamento
in più, aveva confermato quella versione, «tamen non era vero». I due avevano poi dato
la stessa spiegazione ad altri vicini «che me trovavano là in caxa, che la era mia moglier,
et questo per coverzer el fatto mio». Di chiarimento in chiarimento, la loro unione aveva
ottenuto l’accreditamento della vicinia, che ne aveva riconosciuta la validità. Sennonché,
mentre praticava con Camilla, Giovanni Domenico aveva già da qualche tempo «dà la man,
presenti certi homeni et done», ad Angelica, ma soprattutto aveva in piedi una relazione
pluriennale con Bona, alla quale «l’è quatro anni che li ho promesso e quella me par che la
sia mia moglier et che habia più raxon cha le altre». A quel punto Simone aveva esortato
Giovanni Domenico a regolarizzare al più presto la situazione: «fradello, metite la man sul
pecto et paga la tua consciencia, el par che la prima debia esser tua moglier». Non andata
a buon fine la mediazione di Simone, era intervenuta di rincalzo l’intercessione di Antonio
del fu Andrea, sostituto diacono nella chiesa di San Cassiano. Antonio, assistito dallo stesso
10 Per un confronto: Capp, 2003.
11 Sulla vicinia quale elemento aggregativo e di mediazione della società si rinvia in breve a Crouzet-Pavan,
1992, 382, 580; Romano, 1993, 199–200, 203–205; Ferraro, 2001, 5–6; Hacke, 2004, 23–24, 79–81;
Franceschi, Taddei, 2012, 209–212.
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Simone, aveva ammonito Giovanni Domenico a risolvere la questione, invisa a Dio e di
grave turbamento per gli uomini, «digando tu stai in pecado mortal, Dio anchora te punirà».
Davanti allo smarrimento dello sposo, i due mediatori gli avevano chiesto, quale circostanza dirimente, a chi per prima avesse «dà la man»; avuto il nome di Bona, entrambi avevano
convenuto che «se tu a la prima hai dà la man a Bona» era quello il vincolo che ora avrebbe
dovuto formalizzare. Solo a quel punto la complessa opera di mediazione e composizione
messa in atto dalla vicinia, attraverso il ricorso al gossip e l’allertamento di operatori scelti
tra le proprie fila, aveva ottenuto il suo scopo: con la decisione di Giovanni Domenico di
solennizzare in chiesa il connubio con Bona da Zara, celebrato di lì a qualche giorno da pre’
Luca Donà nella chiesa di San Cassiano – alla presenza di molte persone, probabilmente le
stesse che avevano esercitato la persuasione e fatto pressione sullo sposo –, solennizzato dal
rito dell’anello e subito appresso consumato12.
Anche in termini di codici culturali, linguaggi e strumenti impiegati, la mediazione
si inseriva in un quadro dominato dalle interazioni orizzontali e partecipate: un sistema
di scambi, mutualità e sinergie circolare e paritetico, in cui il mediatore non assumeva
(quasi) mai una posizione gerarchicamente distinta dalle parti contraenti, condividendone
generalmente status, profilo sociale e dimensione culturale. Come nell’episodio appena
illustrato, gli intermediari e i pacieri erano essi stessi parte ed espressione di quella formazione sociale – in quel caso la vicinia – che li aveva investiti della regolazione del negozio
o della composizione del conflitto; figure dunque sostanzialmente simili in termini di
posizione, ceto, competenza e cultura di riferimento, le stesse che abbiamo visto, nei casi
di sopra riportati, confondersi quasi indistintamente nelle comunità di cui erano state portavoce. Nemmeno quando la funzione mediatoria era esercitata da persone superiori per
status, ricchezza e preparazione tecnica, come nel caso di membri dell’aristocrazia o della
chiesa, si realizzava una preminenza gerarchica effettiva di questi su quelli, in quanto gli
uni e gli altri condividevano codici culturali, linguaggi, bisogni e aspettative comuni,
specie in fatto di matrimonio e famiglia. Anche allora le distanze erano attenuate dalla vicinanza fisica e dalla condivisione di valori comuni, pur in un contesto in cui l’ascendenza
sociale, libera di esercitare il proprio carisma, si traduceva in potere e autorevolezza, con
slittamenti frequenti dalla mediazione alla coercizione o altre forme di pressione e condizionamento dei subalterni più o meno pesanti (Seidel Menchi, 2004, 4–7)13.
Nei casi già incontrati delle nozze tra Maria Sanador e Francesco Talenti (Venezia,
1465), ed Enrico Bruno e Angela di Martino (Venezia, 1470), ad arrangiare il matrimonio, con funzioni di supporto o supplenza dei mediatori assoldati dalle parti, erano stati
appunto dei nobili. Nel primo episodio l’intercessione nobiliare era servita a vincere le
ultime resistenze delle parti, ancora indecise sulla convenienza dell’unione e non ancora
pienamente d’accordo sui termini economici della transazione (ASPV, CM, vol. 2, fasc.
16). Nel secondo, l’intervento di membri del patriziato lagunare, nella fattispecie i Conta12 ASPV, CM, vol. 12, fasc. Bona da Zara, di Santi Apostoli e Camilla greca, di San Raffaele vs. Giovanni
Domenico da Rovere.
13 Per alcuni episodi, relativi alla Verona pieno cinquecentesca, si rinvia a Eisenach, 2004a, 269–303;
Eisenach, 2004b, 134–177.
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rini e i Da Legge, aveva avuto un ruolo di primo piano nella formazione del matrimonio,
in stallo dopo i primi abboccamenti tra le parti per la reticenza del padre di Angela ad
acconsentire al coniugio, stante la tenera età della figlia (ASPV, CM, vol. 3, fasc. 5). Nella
vicenda matrimoniale che aveva visto come protagonisti Giovanni Battista Rizzo e Anastasia da Zara (Venezia, 1510), invece, la mediazione di un nobile, in quel caso Leonardo
da Molin, presso il quale Anastasia prestava servizio come domestica, si era esercitata con
tale prepotenza e malanimo da provocare infine la reazione insoddisfatta della parte danneggiata, che aveva preteso l’annullamento del vincolo da parte del tribunale patriarcale.
A dire di Giovanni Battista, infatti, il mezzano gli avrebbe fatto credere che Anastasia
fosse «solutam» al momento delle nozze, mentre lei aveva già un matrimonio formato
alle spalle, celebrato quand’era ancora in patria. Giovanni Battista si era molto lamentato
con l’intermediario per quella sua (deliberata) omissione, accusandolo di averlo voluto
consapevolmente ingannare; sino a cercare poi (e quasi sicuramente ottenere) giustizia
nel foro ecclesiastico di competenza (ASPV, CM, vol. 18, fasc. o).
Assieme ai nobili, pure i parroci e il clero in cura d’anime ricoprivano un ruolo sostanziale nelle pratiche di mediazione matrimoniale e di composizione dei conflitti. Tale
funzione era strettamente legata all’ufficio della cura d’anime e in particolare all’obbligo
della confessione annuale, introdotto dal IV concilio Lateranense (1215), che aveva fornito ai parroci degli strumenti imprescindibili di controllo e direzione delle coscienze e
un peso crescente nel disciplinamento degli istituti del vivere associato, ivi compreso il
matrimonio. Specialmente il sacramento della confessione aveva da allora messo sovente il parroco nella condizione di esercitare, con crescente zelo, una azione mediatrice e
conciliatrice del matrimonio: intervenendo nelle situazioni ambigue o di conflitto; ammonendo le parti al rispetto degli obblighi assunti; regolarizzando i rapporti illegittimi o
informali; facendo pressione sulle coppie in crisi per scongiurare o comporre eventuali
conflitti; istruendo, infine, la coppia sulla natura e le finalità del sacramento matrimoniale (Romano, 1993, 141, 154; Cristellon, 2003, 858–863, 880–884; Lombardi, 2006,
584–586; Cristellon, 2010, 153–165, 183–184).
Giorgio da Zara, residente nella parrocchia di San Moisè (Venezia, 1516), si era trasferito da qualche anno in laguna, lasciandosi alle spalle, nella sua città natale, un matrimonio sbagliato (la prima moglie era fuggita di casa, facendo perdere le tracce). Una volta a Venezia aveva instaurato una convivenza more uxorio con una sua conterranea, Elena
da Spalato, con la promessa, in caso di morte certa della prima moglie, di regolarizzare
immediatamente il loro rapporto. Per anni aveva continuato «in tali illicito et damnato
comertio», astenendosi nel frattempo dall’accostarsi alla confessione e alla comunione,
consapevole di vivere nel peccato. Alla fine si era risolto di confidare la sua angoscia al
proprio padre spirituale, pre’ Pietro, officiante nella chiesa di San Fantino, al quale aveva
esposto il caso, impegnandosi «quod si posset cum bona conscientia contrahere matrimonium cum prefata Helena Spalatense libenter hoc faceret ad finem liberandi se a peccato
in quo tamdiu perseveraverat». Il confessore l’aveva rassicurato che si sarebbe informato
sugli aspetti giuridici della vicenda; quindi, del tutto a sproposito, gli aveva detto che
non era tenuto ad aspettare la prima moglie (fuggitiva) se non per sette anni, passati i
quali era in sua libertà «cum bona conscientia contrahere matrionium cum prefata Helena
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Spalatense», persuadendolo anzi a regolarizzare al più presto la loro unione, per liberarsi
dal peccato. Giorgio, rassicurato dalle parole del confessore e credendogli «prout credere
poterat et debebat», aveva infine contratto nuovo matrimonio con Elena da Spalato nella
contrada di San Moisè (ASPV, CM, vol. 18, fasc. e).
In questo, come in altri casi simili, l’azione mediatrice e conciliatrice dell’uomo di chiesa era stata favorita dalla vicinanza del clero secolare alla vita dei laici, in un contesto in
cui gli uni e gli altri condividevano gli stessi codici (e gli stessi stereotipi) culturali: anche
in termini di ignoranza delle leggi della chiesa e delle norme del diritto canonico in materia
matrimoniale, per cui un prete, interpretando gli umori e le consuetudini della sua gente e
facendosene carico, poteva ammettere, contro ogni legge, che un’assenza prolungata del coniuge potesse bastare a sciogliere un matrimonio e a formarne uno successivo. È l’ennesima
conferma di come in tali figure, sebbene superiori per status, grado e preparazione tecnica,
la diversità di posizione gerarchica non implicasse una difformità di riferimenti culturali,
specie in fatto di matrimonio e famiglia. Al contrario, il clero sembrava condividere appieno, in molti casi, la cultura laica del matrimonio, che riconosceva a fatica l’indissolubilità
del vincolo così come inteso dal diritto classico della chiesa, continuando invece a considerare il coniugio come un contratto da formare e sciogliere secondo necessità e la rottura
dell’obbligazione come «un fatto privato, oppure come un processo che d[oveva] essere
gestito dai reticolati parentali e vicinali» (Cristellon, 2003, 861–862, 880–884; Cristellon,
2008, 400–404; Cristellon, 2010, 16, 28–33, 104–106, 143–146, 176–183).
Nell’episodio che aveva avuto come protagonisti Pietro di Bartolomeo da Brescia e
Caterina schiavona, vedova di Andrea da Cattaro (Venezia, 1515), invece, l’azione del confessore, con una coscienza ben maggiore di quella espressa nella vicenda precedente, aveva
rivendicato la piena competenza dell’autorità ecclesiastica sui casi di matrimoni controversi
e ribadito il principio, non sempre riconosciuto, che solo la chiesa poteva pronunciarsi sulla
legittimità del vincolo e sciogliere l’obbligazione mutuale; essa, inoltre, aveva costretto le
parti, coinvolte in una relazione adulterina, poi sfociata in matrimonio, ad un profondo lavoro di introspezione, che aveva dato frutti efficaci in termini di responsabilizzazione della
coppia (anche se non ancora in quelli del disciplinamento del loro rapporto). Un giorno
del 1515, pre’ Filippo di Fiandra, canonico regolare della Congregazione di San Salvador,
aveva ascoltato la confessione di Caterina. Ella gli aveva confidato, «per modum consilii»,
che da tempo viveva nel peccato e non si comunicava; infatti, pur desiderando vivere da
buona cristiana, era stata ammonita «che la non se poteva comonicar», in quanto «l’haveva
habudo da far più volte cum el predicto Piero samiter», ancora vivo suo marito Andrea, «et
cum dicto Piero haveva pratica et consuetudine et era da lui cognosciuda carnalmente». Il
confessore le aveva confermato che, finché persisteva nella sua relazione adulterina, non si
poteva comunicare, «et che li era forzza lassar tal pratica et al tutto non si pensar più di lui».
Caterina gli aveva promesso di metter fine alla relazione; sulla base di tale impegno era stata
assolta e si era comunicata. Qualche mese dopo, essendo venuto a morte il marito legittimo,
Caterina e Pietro si erano sposati con un matrimonio clandestino. Nutrendo ancora dubbi
sulla liceità della loro unione, Caterina si era di nuovo rivolta a pre’ Filippo. La questione –
le aveva spiegato il frate – era se la promessa di matrimonio, che i due si erano scambiati,
era intervenuta vivente il marito o dopo la sua morte: nel primo caso il matrimonio sarebbe
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stato illegittimo, nel secondo pienamente valido. Dopo qualche giorno, pre’ Filippo aveva
ricevuto la visita dello stesso Pietro. A Pietro il sacerdote aveva ribadito che se lui e Caterina
si erano scambiati i consensi, il matrimonio era legittimo. Pietro aveva tuttavia obiettato che
la promessa, contrariamente a quanto sostenuto da Caterina, era stata pronunciata «in tempo
che viveva suo marido Andrea». A quel punto il confessore non aveva potuto che rinviare la
questione al tribunale patriarcale, il solo competente a dirimere un matrimonio tanto controverso: «questo è un altro par de manege; se l’è così va dal patriarcha et fa desfar le nozze»
(ASPV, CM, vol. 18, fasc. i).
IL TRIBUNALE MATRIMONIALE COME FORO DI MEDIAZIONE
L’ultimo stadio di mediazione-conciliazione del matrimonio, quando dubbio, traballante o in crisi, era rappresentato, dunque, dal tribunale. Il ricorso alle istituzioni giudiziarie di competenza, infatti, permetteva, tra le pieghe del processo e prima di arrivare ad una
soluzione giuridica, di riformulare i termini del contenzioso ed avviare forme alternative
di intercessione e pacificazione. A partire dal procedimento giudiziario vi erano diverse
altre possibilità, suppletive o integrative del tribunale, di mediazione e composizione delle contese: lo stesso giudice ecclesiastico se ne faceva spesso promotore, eludendo o adattando i meccanismi risolutivi del giudizio con strumenti alternativi di conciliazione. In tal
modo, la giustizia di apparato diveniva essa stessa strumento di pressione per indurre le
parti a raggiungere un accordo, in una stretta sinergia tra diverse figure di mediazione –
giudice, parroco, confessore, parenti, amici, vicini – e una forte interazione tra le diverse
forme di composizione (Seidel Menchi, 2004, 17; Cristellon, 2003, 871–877; Lombardi,
2006, 577–578, 581–583, 587)14.
Poco importava se la mediazione del giudice provocava una interruzione delle procedure ordinarie e la risoluzione del conflitto senza l’emanazione di una sentenza (e questo
nonostante il divieto, sancito dal diritto canonico, di risolvere le cause matrimoniali con
un compromesso tra le parti): contava piuttosto giungere ad una conciliazione, dentro o
fuori del processo che fosse; importava ribadire l’indissolubilità del vincolo e vigilare che
la norma venisse rispettata; interessava mettere fine a dissidi che minacciavano la pace
sociale e la stabilità dell’istituto matrimoniale, nel contempo ribadendo il valore sacramentale del mutuo consenso, quando scambiato liberamente e in maniera consapevole
dagli sposi. Giusto per tale motivo, il giudice, dismessa la veste ufficiale e indossata quella di pastore e mediatore o, come recitano le fonti, di arbiter et amicabilis compositor,
non esitava, prima del processo o durante lo stesso, a incoraggiare trattative e accordi,
«fino a giungere talvolta a ratificarli formalmente con una sentenza che non faceva che
confermare le decisioni prese dai litiganti»15.
14 Più in generale sull’infragiustizia si rinvia brevemente a: Zorzi, 2001, 16; Sbriccoli, 2001, 349; Zorzi, 2003,
203–205; Povolo, 2004, II, 49; Vallerani, 2005, 16, 33, 114, 140–141, 167–199, 231–233; Meccarelli, 2007,
585–592.
15 Lombardi, 2006, 590–595 (da cui la citazione, 591) e in particolare, per Venezia, l’utilissimo lavoro di
Cristellon, 2003, 851–858.
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Pietro e Caterina, protagonisti confusi del presunto matrimonio veneziano di cui si
è appena detto, dopo aver sottoposto il loro caso ad un confessore, su sollecitazione di
quest’ultimo si erano rivolti direttamente al vicario spirituale e giudice del tribunale
patriarcale, Ludovico Braino, dottore di decreti. Il colloquio si era svolto in maniera
del tutto informale: a procedimento giudiziario non ancora avviato; fuori dalle aule del
tribunale; nella dimensione confidenziale e riservata di un consulto ottenuto nell’abitazione stessa del giudice. Tra quelle mura, il vicario aveva spiegato alle parti che
se la promessa, seguita da consumazione, era stata proferita dopo la morte del primo
marito di Caterina (Andrea), il matrimonio era del tutto legittimo. Nemmeno il rapporto
adulterino consumato tra i due ancora vivente Andrea o l’obiezione di Pietro di avere
solo simulato la promessa, per scongiurare l’interruzione della relazione sessuale minacciata da Caterina in caso di mancata regolarizzazione del loro legame, avevano la
forza di inficiare, per il diritto canonico, il loro coniugio. Pietro aveva accolto lo sforzo
di mediazione esercitato dal giudice con una certa avversione e un conato di sconforto,
in quanto nel frattempo aveva stretto un nuovo vincolo con un’altra donna: «che farò
io che ho tolto una altra zovene per moglie publicamente». A fatica il vicario gli aveva
spiegato che quel secondo matrimonio era del tutto illegittimo agli occhi della chiesa,
stante l’impedimento del vincolo precedente; solo in caso di assenza di prove certe del
connubio con Caterina, quel matrimonio avrebbe acquisito validità. Pietro ne era stato
rinfrancato, in quanto alla promessa fatta a Caterina non erano stati presenti testimoni
(ASPV, CM, vol. 18, fasc. i).
Rimane difficile stabilire la frequenza di tali interazioni tra attività giurisdizionale ordinaria del giudice ecclesiastico e pratiche di mediazione esterne al processo, che paiono
comunque abituali e del tutto funzionali alla composizione dei conflitti matrimoniali. Il
giudice assumeva in tal caso una funzione prevalentemente pacificatrice e di controllo,
intesa a favorire e nel caso convalidare gli accordi privati intervenuti tra le parti, così
estendendo, con una certa elasticità, i propri margini di azione oltre gli spazi, ben più
rigidi e formalizzati, concessi dal procedimento giudiziario. Troviamo così giudici disponibili, come nel caso appena illustrato, a ricomporre matrimoni dubbi o in crisi operando
tra le pieghe del processo; o solleciti a raccomandare forme di pubblicizzazione e solennizzazione del vincolo in caso di matrimoni clandestini o segreti; o pronti a celebrare
essi stessi matrimoni controversi per smorzare la carica di violenza che li aveva imposti
(Cristellon, 2003, 877–880).
Si verificava in tal modo uno slittamento dei piani di azione: dal processo, alle sue fasi
preliminari e introduttive; dalle procedure ordinarie ai sistemi di sospensione o interruzione dei procedimenti giudiziari; dal tribunale ai suoi spazi esterni. Era in particolare tra
i preamboli (o le pause) del processo che più spesso si esercitava la funzione mediatrice
del giudice, favorita dalle sue responsabilità pastorali e improntata al precetto canonico
del favor matrimonio, con l’effetto, talora, di evitare il contenzioso o di bloccarne la prosecuzione. Ad una donna che, in via del tutto confidenziale, aveva confessato al vicario di
non volere il marito; o ad un’altra che, dopo poche settimane di convivenza, aveva manifestato un disagio tale da chiedere allo stesso se vi fossero i margini per una separazione:
il giudice, nella veste di paciere, aveva semplicemente preteso da entrambe il ripristino
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della coabitazione, così scongiurando sul nascere l’avvio di un procedimento giudiziario
ordinario (Cristellon, 2003, 858–863).
Giusto confidando nella funzione del giudice quale mediatore e regolatore degli istituti della convivenza sociale, Arsenio greco (ortodosso), sposo confuso di Giacomina (Venezia, 1508), aveva richiesto un confronto informale, negli ambienti di curia, con il vicario del patriarca di Venezia. Al vicario egli aveva affidato tutte le sue perplessità di marito:
«lui haveva dado la man a una dona, et perché la tegniva vita inhonesta el domandava a
misser lo vicario se per tal causa lui la podeva lassar et maridarsse». La richiesta, dal suo
punto di vista, era del tutto legittima, rimandando ad un sistema di diritto, quello cristiano
orientale, che da sempre aveva ammesso la possibilità del divorzio in un matrimonio formato e consumato: l’adulterio, cui Arsenio alludeva, era tra le cause che giustificavano il
divorzio in favore del coniuge innocente. Al contrario, la chiesa latina concedeva, per lo
stesso motivo, la semplice separazione di letto e di mensa tra i due coniugi. Naturalmente,
a quella domanda, solo apparentemente ingenua o inopportuna, il vicario aveva risposto
ribadendo le posizioni del diritto canonico occidentale: «se lui li haveva dado la man,
etiam che la non menasse bona vita, i non se podeva separar né partisse uno de l’altro,
et che altri cha solo Dio non porave partir questo matrimonio» (ASPV, FC, vol. 9)16. Nel
caso specifico, oltre a tentare una composizione del conflitto per le vie brevi e ufficiose,
il giudice si era avvalso dell’episodio per svolgere una funzione divulgativa del diritto
canonico romano in fatto di matrimonio: di fronte ad un marito ignaro della normativa, la
prima preoccupazione del giudice-pastore era stata quella di spiegare la regola canonica,
confidando che tanto potesse bastare a mettere fine al contenzioso e a ridare certezza e
stabilità ad un rapporto incerto.
Peraltro, e per finire, la mediazione rientrava in qualche modo tra gli stessi esiti possibili del processo ordinario: così, per esempio, quando un giudice emetteva una sentenza
di validità di matrimoni segreti o clandestini, non faceva altro che svolgere «una funzione, istituzionalmente riconosciuta di mediazione sociale», in quanto «promotore e garante
della solennizzazione dell’unione, funzionale all’ordine pubblico»; o quando decideva
per una soluzione pragmatica del contenzioso, in qualche modo suggerita dai contendenti,
allo stesso modo recitava un ruolo di intercessione, dando rilievo processuale a forme di
composizione frutto sostanzialmente di una stretta contrattazione tra le parti. Poteva così
accadere che ad un magistrato fosse delegata, in sede di giudizio, la scelta di una moglie
ad un uomo conteso da due spose (Venezia, 1463); con le parti, incapaci di trovare da se
stesse una composizione amichevole, disposte a rimettersi nelle mani del magistrato e a
ricevere da lui la soluzione di un caso altrimenti difficile da sbrogliare (Cristellon, 2003,
864–866).
16 L’episodio e la sua contestualizzazione in Orlando, 2010, 205–206 (cui si rinvia anche per la bibliografia);
ma cfr. pure Cristellon, 2003, 859–863; Cristellon, 2010, 142–144.
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PRIMERI POSREDOVANJA IN NADZORA POROK V PREDTRIDENTINSKEM
OBDOBJU
Ermanno ORLANDO
Università di Verona, Dipartimento Tempo, Spazio, Immagine, Società, Via San Francesco 22,
37129 Verona, Italija
e-mail: [email protected]
POVZETEK
Članek analizira različne oblike posredništva in nadzora porok v predtridentinskem
obdobju, s posebnim poudarkom na območju Benetk in Veneta. Zakonsko zvezo, institut
družbene ureditve, ki zajema medsebojno menjavo (posebej še preselitev žensk, prenos
blaga, zavezništev in solidarnosti iz ene sorodstvene skupnosti v drugo), je v odprti in
spreminjajoči se strukturi določal zgoščen in strukturiran sistem zaščit in posredništev.
Njihov namen je bila umestitev zakonske pogodbe v mrežo odnosov, ki bi zmanjševali nasprotja in jo legitimirali v očeh skupnosti. Posredništvo je bilo prisotno na vseh ravneh,
od predporočnega pogajanja do poročne obljube, od obredov v čast dogovora do poravnave nesoglasij, in je bilo temeljnega pomena za uspešno delovanje sistema. Zmanjševalo
je napetosti med stranmi, dajalo je prednost urejenemu in formalnemu soočanju, ki je
bilo temeljnega pomena za dosego cilja (trdnost družin, utrjevanje sorodstvenih mrež,
za občo spravo). V prispevku so raziskani posamezni, v sistem vključeni posredniški liki,
njihove značilnosti in zveze, katerih del so bili, v kontekstu, v katerem je bila v mediacijo
vključena celotna skupnost in v katerem so bili liki posameznih akterjev, glede na hierarhične odnose in referenčne kulturne kodekse, v horizontalni dimenziji skupine, družine,
rodbinskih zvez in sosedskih mrež, nejasni.
Ključne besede: mediacija, nadzor, poroka, pozni srednji vek, družina, sosedstvo, cerkveno sodišče
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