Alla ricerca di una disciplina fiscale per la previdenza complementare

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Alla ricerca di una disciplina fiscale per la previdenza complementare
Alla ricerca
complementare*
di
una
disciplina
fiscale
per
la
previdenza
Silvia Giannini - Università di Bologna e CAPP
Maria Cecilia Guerra – Università di Modena e Reggio Emilia e CAPP
Il trattamento fiscale dei fondi pensione è un aspetto di policy importante se si
intende agevolare la nascita e lo sviluppo di un sistema previdenziale privato a
capitalizzazione, ad adesione volontaria. In Italia questo obiettivo si intreccia
strettamente con quello di accelerare il superamento dell’istituto del Trattamento di fine
rapporto (Tfr) utilizzando le risorse ad esso destinate come principale fonte per il
finanziamento della previdenza complementare.
In quanto segue si discuteranno, in primo luogo, i principi generali a cui
dovrebbe ispirarsi una tassazione organica del risparmio previdenziale, richiamando
solo brevemente le motivazioni che vengono più comunemente portate a favore di un
trattamento agevolato. Si compie poi un breve excursus critico sull’evoluzione della
tassazione del risparmio previdenziale nel nostro ordinamento, dal 1993 sino ai giorni
nostri. In questa parte si espongono e commentano anche i risultati di alcune
simulazioni numeriche volte a quantificare l’agevolazione fiscale attualmente
riconosciuta alla previdenza complementare rispetto a forme non previdenziali del
risparmio. Si considerano poi le proposte di revisione del regime vigente, contenute,
rispettivamente, nella delega fiscale, decaduta, e in quella previdenziale, ponendo infine
particolare attenzione all’attuazione che di quest’ultima è stata data dal decreto
legislativo 5 dicembre 2005 n. 252, la cui entrata in vigore è rimandata al 1° gennaio
2008. In conclusione, alla luce dell’evoluzione normativa e delle più recenti ipotesi di
riforma, si tratteggia anche una possibile proposta alternativa.
1. La tassazione dei fondi pensione: modelli e realtà
La tassazione della previdenza integrativa è articolata in tre fasi, che vanno
tenute congiuntamente in considerazione per valutare la coerenza complessiva del
sistema impositivo e il suo grado di agevolazione rispetto ad altre forme di impiego del
risparmio:
a) la tassazione dei contributi dei datori di lavoro e dei lavoratori che confluiscono
al fondo;
b) la tassazione dei redditi di capitale accumulati in capo al fondo, sia durante il
periodo di contribuzione sia durante quello di erogazione delle prestazioni;
c) la tassazione delle prestazioni che, al momento del pensionamento, possono
assumere la forma di capitale o di rendita annuale.
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Questo lavoro è in corso di pubblicazione in un volume, promosso da Assogestioni e curato da
Marcello Messori. Il volume sarà edito da il Mulino, Bologna.
Le modalità di tassazione di ciascuna di queste fasi possono dipendere sia dal
regime generale adottato per la tassazione dei rendimenti finanziari, e più in generale
dei redditi di capitale rispetto a quelli di lavoro, sia dalla scelta di riservare o meno un
trattamento agevolato a questa forma di impiego del risparmio, rispetto ad altre, di
natura meramente finanziaria (ad esempio un fondo comune).
I sistemi neutrali
In un sistema di tassazione basato su un concetto di reddito entrata
(comprehensive income tax), la tassazione del risparmio previdenziale, per essere
neutrale rispetto a quella riservata agli altri impieghi del risparmio, dovrebbe seguire
uno schema cosiddetto di tassazione-tassazione-esenzione (TTE), cioè: i contributi
versati al fondo dovrebbero essere tassati (fatta salva la loro deducibilità dalle imposte
dovute dal datore di lavoro, in quanto componente della retribuzione e quindi del costo
del lavoro); i redditi di capitale accumulati in capo al fondo dovrebbero essere tassati in
base all’imposta personale progressiva di ciascun titolare del fondo, al momento della
maturazione (ma dovrebbe anche esservi un credito per evitare la doppia imposizione
dei redditi societari); le prestazioni dovrebbero invece essere totalmente esenti. Questo
sistema, se valgono alcune condizioni – e cioè se il tasso di rendimento del fondo è
uguale al tasso di sconto e l’aliquota dell’imposta sul reddito è unica e costante nel
tempo - sarebbe equivalente, in valore attuale, ad un sistema del tipo esenzionetassazione-tassazione (ETT), in cui la tassazione, con l’aliquota ordinaria del reddito, è
posticipata dal momento della contribuzione a quello della prestazione. Oltre alle
condizioni ricordate, l’equivalenza richiede che la tassazione delle prestazioni avvenga
sul loro intero importo, inclusi i redditi finanziari netti che concorrono a determinarlo.
Se il sistema adottato per la tassazione dei redditi di capitale fosse invece del
tipo imposta sul reddito-spesa (expenditure tax) il trattamento fiscale dei fondi, al fine
di perseguire la neutralità con altre forme di impiego del risparmio, dovrebbe seguire lo
schema esenzione-esenzione-tassazione (EET), cioè esenzione dell’ammontare versato
al fondo, esenzione dei redditi accumulati in capo al fondo e reinvestiti, tassazione
dell’intero importo delle prestazioni, secondo l’aliquota dell’imposta sul reddito-spesa,
indipendentemente dalla loro natura di rendita (pensione) o capitale.
Di nuovo, un sistema EET sarebbe equivalente, se valessero le condizioni prima
ricordate (costanza dell’aliquota ordinaria ed equivalenza fra tasso di sconto e
rendimento in capo al fondo), ad un sistema di tassazione-esenzione-esenzione (TEE).
Le condizioni che garantiscono l’equivalenza
fra sistemi sono tuttavia
difficilmente soddisfatte. Ciò che più rileva, ai nostri fini, è che l’aliquota ordinaria a
cui è assoggettato il contribuente durante il periodo di contribuzione è solitamente più
alta di quella del periodo in cui percepisce le prestazioni; pertanto, un sistema che
esenta da tassazione la prima fase invece della terza è tanto più vantaggioso per il
contribuente, quanto più alto è il divario fra le aliquote di imposta a cui è soggetto nel
tempo (tax averaging). La tendenza, che è andata affermandosi, a ridurre il numero
degli scaglioni e ad ampliarne, ad un tempo, la dimensione ha però contribuito a
ridimensionare questo fenomeno, se non a invertirne il segno. Ciò vale, in particolare,
quando ad una dinamica crescente della retribuzione nel tempo si accompagna un
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sistema fiscale che concentra la progressività dell’imposta nei primi scaglioni di reddito
(come accade in Italia, come effetto di una deduzione, costante o decrescente, dalla base
imponibile).
Le agevolazioni fiscali e le loro finalità
I sistemi di tassazione della previdenza integrativa concretamente osservati nella
realtà dei diversi paesi si scostano quasi sempre dai due benchmark di neutralità
richiamati. Da un lato, muovendo da sistemi che si ispirano a un concetto di reddito
entrata, i proventi del risparmio, anche non previdenziale, tendono ad essere tassati con
aliquote proporzionali più favorevoli rispetto all’imposta personale progressiva,
introducendo un sistema ibrido di tassazione, intermedio fra l’imposta sul reddito
entrata e l’imposta sulla spesa. Dall’altro, alla previdenza integrativa sono spesso
riconosciute agevolazioni addizionali, in aggiunta a quelle già concesse ai redditi di
capitale rispetto a quelli di lavoro. All’esenzione nella prima fase, che comporta i
benefici del tax averaging, si accompagnano infatti, nella varietà dei sistemi esistenti,
ulteriori agevolazioni, sia in fase di accumulazione dei redditi finanziari, sia nella fase
di erogazione delle prestazioni. E’ il caso, come vedremo, anche dell’Italia. Alcuni paesi
estendono il vantaggio dell’esenzione anche alla seconda fase, arrivando a un sistema
EET, tipico, come si è visto, di una forma di tassazione sulla spesa. In aggiunta, a volte
si riconosce una tassazione agevolata anche alle prestazioni, concedendo al
risparmiatore un beneficio fiscale che eccede persino quello dell’imposta sulla spesa.
La finalità ultima di queste forme di tassazione ibride non è tanto quella di
aumentare il volume complessivo di risparmio, quanto quella di indirizzare il risparmio
esistente verso l’impiego previdenziale, di tipo volontario, concedendo ad esso un
trattamento fiscale più favorevole rispetto a impieghi alternativi. La giustificazione
economica di questa scelta è generalmente ricondotta al valore meritorio del risparmio
previdenziale, che per miopia potrebbe essere sottovalutato. Inoltre, incentivare questo
impiego del risparmio potrebbe contenere il fenomeno dell’azzardo morale da parte di
coloro che scelgono di non risparmiare in modo adeguato per la propria vecchiaia,
contando di poter poi fare affidamento sui piani di assistenza pubblica. In alcuni paesi,
fra cui l’Italia, un trattamento di favore ai fondi pensione viene anche sollecitato da chi
vede con favore una maggiore presenza sui mercati finanziari di investitori istituzionali
che investono a lungo termine. Di volta in volta, poi, esso risponde ad altre esigenze:
favorire o, quanto meno, non ostacolare la mobilità del lavoratore; agevolare il
passaggio da una forma previdenziale ad un’altra, come doveva essere, in Italia, il
passaggio dal Tfr ai fondi pensione; prevenire fenomeni di elusio ne fiscale, quali
l’overfunding nel caso dei piani a beneficio definito; e così via.
La molteplicità di obiettivi, a volte conflittuali, a cui è finalizzata la disciplina
fiscale riservata al risparmio previdenziale contribuisce a spiegarne non solo la
complessità, ma anche la variabilità nel tempo. L’efficacia delle agevolazioni concesse,
però, è alquanto controversa. E’ vero che la letteratura empirica conferma l’esistenza di
un effetto dell’agevolazione fiscale sulla composizione del risparmio: il risparmio
previdenziale agevolato spiazza quello non previdenziale. Ciò non è però sufficiente a
dare supporto alla tesi della meritorietà di tale risparmio: nella maggior parte dei paesi
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in cui la previdenza integrativa è maggiormente sviluppata, generalmente anche in
ragione di un minor ruolo della previdenza pubblica, gli studi condotti rilevano, infatti,
un’incapacità della leva fiscale di sollecitare la partecipazione da parte degli individui
più giovani, a basso reddito, con rapporti di lavoro saltuari: in definitiva, proprio i
soggetti più bisognosi di copertura previdenziale. Inoltre, piuttosto che stimolare un
comportamento virtuoso da parte di soggetti miopi od opportunisti, le agevolazioni
fiscali rischiano di tradursi per lo più in un bonus, particolarmente costoso per la
collettività, a favore di soggetti più agiati, che risparmierebbero comunque.
Le modalità stesse con cui l’agevolazione è concessa tendono ad ampliare questi
effetti perversi, sia distributivi che allocativi, da tempo sottolineati anche negli studi
condotti dai principali organismi internazionali (Pestieu 1992, Antolin, de Serres e de la
Maisonneuve 2004, Burman et al. 2004). Ci si riferisce, in particolare, alla generosa
deducibilità usualmente consentita ai contributi versati - che beneficia maggiormente i
soggetti ad alta aliquota di imposta, e quindi ad alto reddito -, a cui non corrisponde
quasi mai una tassazione piena delle prestazioni ottenute. Questo effetto è in parte
attenuato attraverso l’imposizione di limiti superiori alla quota di reddito che può essere
indirizzata verso questa forma di risparmio, godendo delle agevolazioni fiscali.
2. Un confronto fra i sistemi impositivi delle diverse fasi
La molteplicità degli obiettivi a cui può essere finalizzata la disciplina fiscale
della previdenza complementare comporta che non sia possibile identificare una
formula impositiva superiore in assoluto: la scelta finale di quale regime adottare non
può che tener conto dei trade off esistenti fra obiettivi a volte in conflitto fra loro e di
come bilanciarli.
Per ragionare su i pro e i contro di possibili soluzioni alternative è opportuno
considerare separatamente due aspetti, concettualmente separabili, degli schemi di
tassazione più sopra richiamati.
1. Il fatto che questi schemi concedano l’esenzione dei contributi a fronte della
tassazione delle prestazioni, come avviene nel caso degli schemi EET e ETT,
o, viceversa, tassino i contributi ma esentino le prestazioni, come nei sistemi
TEE e TTE.
2. Il fatto che ammettano una tassazione dei rendimenti del capitale maturati
nella fase di accumulazione, come avviene negli schemi di tassazione sul
reddito entrata (ETT e TTE), o non la ammettano, come è proprio degli
schemi di tassazione sulla spesa (EET e TEE).
1. Per quanto riguarda il primo aspetto, va ricordato innanzi tutto che il sistema
che concede un’esenzione nella fase della contribuzione, e tassa le prestazioni, è quello
più diffuso in ambito internazionale.
Dal punto di vista del contribuente vi sono condizioni (sopra specificate) che
rendono equivalente tale sistema e quello che tassa i contributi ed esenta le prestazioni.
Ciononostante, posticipare la tassazione può allentare i vincoli di liquidità e sollecitare
al risparmio pensionistico anche i soggetti più giovani e con un reddito più basso.
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Questo effetto non va enfatizzato: l’esenzione nella fase della contribuzione non può
infatti eliminare il problema dei soggetti il cui reddito è così basso che oltre ad avere in
generale poche (o nessuna) possibilità per alimentare un fondo, potrebbero anche non
avere reddito sufficiente per usufruire dell’esenzione. Per rimuovere questi vincoli, che
andrebbero più opportunamente trattati con un sistema previdenziale pubblico in grado
di garantire una copertura previdenziale dignitosa a tutti gli individui, occorrerebbe,
semmai, muoversi nella direzione di interventi diretti, di spesa, che sostituiscano
all’agevolazione fiscale delle forme di sussidio (ad esempio del tipo matching grants† ).
L’esenzione dei contributi rende poi più visibile e quindi più apprezzabile il
beneficio fiscale e, per questa via, facilita il collocamento dei prodotti previdenziali
presso il pubblico. In particolare, essa non espone il contribuente al “rischio politico”
che l’agevolazione promessa oggi per i periodi futuri venga poi abbandonata quando
sarebbe venuto il momento di goderne.
Il difetto peggiore del sistema di esenzione dei contributi riguarda i suoi effetti
distributivi: esso consente infatti, come si è ricordato, un risparmio di imposta tanto più
elevato quanto più ricco è il soggetto che contribuisce al fondo. Questo risparmio di
imposta non è poi generalmente annullato da una maggiore imposta equivalente nella
fase della prestazione. La tassazione complessiva che ne deriva è dunque fortemente
regressiva.
Dal punto di vista del fondo pensione, l’esenzione dei contributi rende lo stato
partecipe del rischio dell’investimento finanziario, chiamandolo a dividere guadagni e
perdite future, e può quindi favorire un profilo di investimenti più rischiosi, cui
dovrebbero mediamente conseguire rendimenti più elevati, senza introdurre alcuna
discriminazione fiscale fra i fondi; mentre un sistema che tassi i contributi avvantaggia i
fondi che riescono ad ottenere rendimenti più elevati.
Dal punto di vista dello stato, l’anticipo della tassazione mette maggiormente al
riparo da fenomeni di elusione o evasione fiscale. D’altro lato, l’adozione di un sistema
che esenti i contributi, obbliga a sostenere subito il costo dell’agevolazione, invece che
rinviarlo al futuro, e dovrebbe quindi stimolare l’assunzione di scelte politiche più
attente e responsabili rispetto al costo effettivo dell’incentivo che si desidera concedere.
A livello sovranazionale, l’adozione di un modello EET (o ETT) da parte di alcuni
stati e TEE (o TTE), da parte di altri stati, può generare fenomeni di doppia tassazione o
di doppia esenzione in capo ai lavoratori che mutino la propria residenza nel corso della
vita, versando i contributi quando residenti in uno stato e fruendo delle prestazioni
quando residenti in un altro stato ‡ .
2. Considerazioni in parte analoghe a quelle che fanno propendere per
l’esenzione nella prima fase possono fornire giustificazioni valide anche all’esenzione
nella fase di accumulazione. Innanzi tutto, vi sono di nuovo fattori promozionali e
psicologici: il fatto di poter accumulare rendimenti in esenzione di imposta sembra
†
Si veda, ad esempio, Agulnik e Le Grand, 1998.
Anche per questo motivo la Commissione europea, con una comunicazione dell’aprile 2001
(COM(2001) 214), ha suggerito la convergenza verso un sistema EET da parte di tutti i paesi membri.
‡
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costituire, stando anche alle analisi empiriche (Bernheim 2001), un elemento capace di
rendere più appetibile questa forma di investimento e facilitare la promozione dei fondi.
Inoltre, l’esenzione in capo al fondo potrebbe essere un modo trasparente per riservare
un trattamento fiscale agevolato al risparmio previdenziale, rispetto ad altre forme di
risparmio, garantendo ad un tempo un trattamento simmetrico dei contributi (deducibili)
e delle prestazioni (tassate). Al contrario, in molte realtà, tra cui anche l’Italia, quando si
ammette la tassazione nella fase di accumulazione, ci si pone poi il problema di
compensarla con una parziale detassazione della fase della prestazione. I sistemi che ne
derivano sono spesso di difficile comprensione. Quando poi si affidano ad abbattimenti
forfetari della tassazione nella fase della prestazione, o accentuano il peso relativo (nelle
tre fasi) dell’imposizione sostitutiva generalmente riconosciuta ai redditi di capitale
rispetto a quella personale, possono avere effetti distributivi discutibili. Un altro
vantaggio connesso all’esenzione nella fase di accumulazione è che, anche in questo
caso, il costo dell’agevo lazione non verrebbe rimandato nel tempo.
Il principale problema posto da questo sistema deriva dalla sua coesistenza con
la tassazione dei risparmi accumulati presso altri intermediari. La differenza di
trattamento fiscale di una particolare tipologia di investitori istituzionali, i fondi
pensione, può avere controindicazioni in termini di distorsioni nel funzionamento dei
mercati finanziari, a cui potrebbero anche accompagnarsi operazioni di arbitraggio volte
ad eludere il pagamento delle imposte. Vi è una estesa letteratura (cfr. ad esempio,
Brookfield 1996, Shoven e Sialm 1999, Bell e Jenkinson 2002) che analizza i possibili
effetti di clientela e di segmentazione dei mercati che derivano dalla compresenza di
investitori esenti, che tenderanno a detenere titoli ad elevata tassazione, e investitori
tassati, che tenderanno a detenere titoli esenti. Questi problemi possono essere
esacerbati dalla complessa interazione fra l’esenzione concessa ai fondi pensione e le
misure adottate per evitare la doppia tassazione sugli utili distribuiti dalle società di
capitali. La concessione di un credito di imposta rimborsabile a fondi pensione esenti,
nella fase di accumulazione, ha avuto, ad esempio, un ruolo di rilievo nello spingere i
fondi pensione a sottoscrivere azioni, nel Regno Unito, ma ha avuto nello stesso tempo
la controindicazione di spingere tali fondi ad usare il loro peso di azionisti per
condizionare la politica di distribuzione degli utili da parte delle società, con possibili
effetti sull’accantonamento degli utili e sulle scelte di investimento delle medesime.
D’altro canto, è evidente che non concedere il credito di imposta sui dividendi societari,
che provengono da utili che hanno scontato l’imposta societaria, comporta di fatto che
non vi sia mai una completa esenzione da imposta dei redditi accumulati nel fondo.
Analogo problema si pone in tutti i paesi in cui i fondi pensione, formalmente esenti,
subiscono ritenute alla fonte sugli interessi e altri redditi percepiti sui propri
investimenti.
L’evidenza empirica non sempre riesce a catturare l’entità dei fenomeni qui
richiamati, ma suggerisce comunque di non sottovalutarli, per i condizionamenti che
possono esercitare nel funzionamento dei mercati finanziari.
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3. L’ondivaga tassazione dei fondi pens ione in Italia
Il dibattito su se e come incentivare i fondi pensione ha assunto in Italia
maggiore complessità che in altri paesi per due motivi principali: da un lato, il disegno
di una disciplina fiscale di favore è stato spesso indicato come uno dei fattori più
importanti dai quali potrebbe dipendere l’effettivo sviluppo della previdenza
complementare nel nostro paese; dall’altro, il problema si è da sempre strettamente
intrecciato con quello del progressivo superamento del Tfr, e della parallela
destinazione delle risorse attualmente accantonate a tale scopo a favore dei fondi
pensione.
Tra le specificità del caso italiano occorre ricordare anche che la tassazione dei
redditi delle attività finanziarie avviene tradizionalmente al di fuori della tassazione
progressiva. Sempre più, nel tempo, il sistema si è evoluto nella direzione di forme di
tassazione omogenee, ma di tipo sostitutivo e di importo molto basso. Da un lato, questo
semplifica la tassazione che può essere operata in forma anonima dagli intermediari o in
capo agli investitori istituzionali, e non con il prelievo ordinario secondo le aliquote del
singolo risparmiatore, come vorrebbe un’imposta “pura” sul reddito entrata; dall’altro,
come vedremo, rende più difficile fornire al risparmio previdenziale un trattamento più
favorevole rispetto ad altre forme di impiego del risparmio, nell’ambito di un sistema di
prelievo che mantenga comunque una sua razionalità.
L’agevolazione al risparmio previdenziale è stata, anche nel nostro paese,
ricavata agendo, di volta in volta, su ciascuna delle tre fasi considerate.
Per ripercorre brevemente la storia ed evidenziare le scelte politiche del passato,
è utile partire dalla tabella 1, che offre una sintetica comparazione dei sistemi via via
adottati, a partire dal d.lgs 124/93, a cui si deve il primo tentativo di disciplinare in
modo organico la previdenza privata collettiva, fino al più recente d.lgs 252/05, che dà
attuazione alla legge delega 243/04 in materia previdenziale. Importanti passaggi
intermedi sono la legge 335/95 (riforma Dini) e il d.lgs 47/2000, di attuazione di norme
collegate all’ampia riforma fiscale della passata legislatura.
Come vedremo, nessuno di questi sistemi è del tutto coerente con i modelli
teorici richiamati in precedenza in quanto, pur muovendosi tutti nell’ambito della
famiglia ETT, prevedono una tassazione, nella seconda e terza fase, inferiore a quella
ordinaria sui redditi. Al di là di questo tratto comune, è però diverso il grado di
razionalità sottostante a ciascuno di questi schemi. Essi testimoniano scelte politiche
diverse, nel corso del tempo, che hanno dato luogo ad un percorso incerto e altalenante,
dove fasi di razionalizzazione sono state seguite da fasi in cui è prevalsa la
preoccupazione di potenziare le agevolazioni anche a costo di perdere la razionalità del
sistema. Queste continue modifiche di percorso non possono che nuocere allo sviluppo
del settore e alla coerenza complessiva del sistema tributario.
La tassazione per fasi: contribuzione, accumulazione, prestazioni
Osservando la tabella per riga, e limitandoci a considerare i tre regimi fiscali che
sono stati sino ad ora operativi, si possono innanzitutto valutare le modificazioni
intervenute, nel corso del tempo, per ciascuna delle singole fasi di tassazione del
risparmio previdenziale.
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Tabella 1. I principali aspetti della tassazione dei fondi pensione in Italia
D. lgs.124/93
Legge 335/95
D. lgs. 47/2000
D. lgs 252/05
Fase 1: Contribuzione (lavoratori dipendenti)
Datore di lavoro
Lavoratori
Deducibili
Detraibili 27% (22% dal ’95)
Deducibili
Deducibili
Deducibili
Deducibili
Deducibili
Deducibili
Limitazioni
Entro 2,5 milioni di lire
(3milioni se 500 mila a fondi,
dal 1994)
Agevolazione datore di lavoro
subordinata all’impiego quote
Tfr
Agevolazione alternativa a
premi assicurativi
Fino a 2% del reddito con limite Fino a 12% del reddito con limite massimo di Entro 5.164,57 euro
massimo di 2,5 milioni di lire
5.164,57 euro
Agevolazione datori e lavoratori Agevolazione datori e lavoratori subordinata
subordinata all’impiego quote Tfr
all’impiego quote Tfr
Agevolazione
cumulabile
quella dei premi assicurativi
con Agevolazione alternativa tra i diversi strumenti Agevolazione alternativa tra i
previdenziali
diversi strumenti previdenziali
Tassa di ingresso
Atre agevolazioni
Riserva in sospensione di imposta Possibilità di aumento della riserva in Deducibilità del 4% del Tfr
del 3% delle quote Tfr destinate al sospensione per imprese con meno di 50 destinato ai fondi (6% per
fondo
addetti
imprese con meno di 50 addetti)
Fase 2: Accumulazione (tassazione in capo al fondo)
Redditi di capitale e Ritenute ala fonte e imposta Ritenute alla fonte e imposta fissa 11% sul risultato netto di gestione (fondi Invariato
plusvalenze maturate
patrimoniale
(come
fondi (più favorevole rispetto ai fondi comuni: 12,5%). Credito del 15% (6%) su
comuni)
comuni)
proventi di fondi comuni tassati al 12,5% (5%)
Fase 3: Prestazioni
a) capitale:
- limite massimo
33%
33%
33%
- parte capitale
tassazione separata
tassazione separata
tassazione separata ( media degli ultimi 5 anni) massimo 15%, minimo 9%
- parte finanziaria
b) rendita
- parte contributiva
tassazione separata
tassazione separata
esenzione
esenzione
tassazione ordinaria
tassazione ordinaria
tassazione ordinaria
massimo 15%, minimo 9%
- parte finanziaria (fase tassazione ordinaria
accumulazione)
-parte finanziaria (fase tassazione ordinaria
prestazione)
esenzione forfetaria (abbattimento del esenzione
50%
esenzione
12,5% della rendita complessiva)
tassazione ordinaria
12,5%
12,5%
Si nota allora, in primo luogo, una progressiva estensione dell’agevolazione in
fase di contribuzione. Inizialmente era prevista una detrazione dall’imposta, dapprima
pari al 27 e poi al 22% dei contributi versati dal lavo ratore, che aveva il vantaggio,
rispetto ad una piena deducibilità, di limitare l’agevolazione concessa, rispondendo sia
all’esigenza di contenere le perdite di gettito, sia a quella di non discriminare i cittadini
in ragione della loro aliquota marginale. Successivamente, con legge 335/95, si passa
invece alla deducibilità dei contributi dei lavoratori, introducendo effetti redistributivi di
segno negativo. I contributi del datore di lavoro sono invece sempre stati deducibili dal
reddito di impresa e dal reddito del lavoratore.
Nel corso del tempo, ad un primo restringimento dei vincoli posti per poter
usufruire dei benefici fiscali, segue un progressivo allentamento degli stessi. Al tetto
assoluto posto al valore dei contributi agevolabili si affianca, ne l 1995, un vincolo
espresso in percentuale del reddito, il cui obiettivo principale è evitare che soggetti che
dichiarano poco o nulla, non perché privi di redditi, ma perché evasori, possano
usufruire comunque delle agevolazioni. Entrambi i limiti vengono però
significativamente elevati con la riforma del 2000.
In tutte le formulazioni che ne sono state date dal 1993 in poi, il trattamento di
favore riconosciuto ai contributi è stato subordinato, in qualche forma e misura, alla
destinazione, anche solo parziale, ai fondi pensione di quote del Tfr maturando. Sempre
sul fronte della contribuzione, la disciplina fiscale è stata anche utilizzata per cercare di
attenuare la resistenza delle imprese a rinunciare al Tfr, per dirottarlo verso i fondi
pensione. Per le imprese, infatti, il Tfr costituisce una fonte di finanziamento a costi
contenuti (un rendimento prefissato per legge dell’1,5% più il 75% del tasso di
inflazione). Con la legge 335/95, si è prevista la possibilità di permettere alle imprese
accantonamenti in sospensione di imposta fino al 3% del Tfr versato ai fondi pensione.
Tale previsione è stata poi potenziata dal d.lgs 47/2000, che prevede la possibilità di
aumentare questi accantonamenti in esenzione di imposta. Il DM che avrebbe dovuto
fissare entro il 31 marzo di ogni anno, e nei limiti indicati dalla legge (50 miliardi di lire
per il 1999 e 100 mld annue a decorrere dal 2000), la nuova percentuale di esenzione,
non è tuttavia mai stato emanato.
Per quanto riguarda la fase di accumulazione, la tabella 1 permette di notare
come il regime fiscale nel nostro paese, pur muovendosi, come si è visto, nella direzione
di un sistema di esenzione nella fase iniziale, non abbia mai esteso tale regime anche
alla seconda fase. La tassazione dei redditi di capitale maturati nella fase di
accumulazione è stata soggetta a modifiche nel tempo, legate fondamentalmente a due
fattori: a) le riforme intervenute nella tassazione di altre forme alternative di impiego
del risparmio, tipicamente i fondi comuni (tassati prima con ritenute alla fonte e
un’imposta patrimoniale, poi con imposizione sostituiva sul risultato netto di gestione);
b) l’esigenza di riservare un trattamento più agevolato al risparmio previdenziale
rispetto ai fondi comuni. I redditi accumulati in capo al primo, nel periodo di
contribuzione, sono al momento assoggettati all’aliquota dell’11% rispetto a quella del
12,5% riservata ai fondi comuni.
Il trattamento delle prestazioni è forse quello che ha subito i maggiori interventi.
Si parte da un sistema abbastanza semplice e relativamente poco generoso, quello
introdotto con il d.lgs 124/93, in cui la quota in conto capitale (pari al massimo al 33%
del totale) è soggetta a tassazione separata, mentre la parte della prestazione costituita
da rendita è complessivamente assoggettata alla tassazione ordinaria. Progressivamente,
ci si sposta verso sistemi in cui quote crescenti delle prestazioni, sia sotto forma di
rendita che di capitale, sono tassate con aliquote inferiori a quelle ordinarie, per
approdare al regime vigente, che esenta l’intera componente della prestazione
rappresentata dagli interessi maturati e tassati nel periodo di accumulazione, e che tassa
con imposta sostitutiva, al 12,5%, quelli maturati nella fase della prestazione.
Le scelte di policy e la coerenza dei diversi sistemi
Osservando la tabella 1 per colonna, e tenendo dunque conto dell’interazione tra
i regimi di tassazione delle diverse fasi, si colgono più direttamente le scelte politiche
effettuate in ciascuna delle tappe che caratterizza questa evoluzione normativa.
Il d.lgs 124/1993: l’avvio di una storia senza fine
Il d.lgs 124/93, che costituisce il primo intervento normativo di riordino del
settore, non è particolarmente “generoso”. Quando fu introdotto, le finanze pubbliche
erano in gravi difficoltà e l’attenzione era concentrata, più che sugli incentivi fiscali,
sulla sostituzione progressiva, nell’ambito della contrattazione fra le parti sociali,
dell’istituto del Tfr con fondi pensione prevalentemente categoriali e aziendali. Da tale
sostituzione, che si riteneva particolarmente favorevole per i lavoratori per via del
maggior rendimento atteso dai fondi rispetto a quello garantito sul Tfr, ci si attendeva
un forte impulso alla previdenza complementare; specie in ragione della diffusione
capillare del Tfr stesso. L’operazione non avrebbe poi comportato particolari oneri per il
bilancio pubblico, per il fatto che il Tfr già godeva di una disciplina fiscale fortemente
agevolata (deducibilità dall’imponibile della società, esclusione da quello del lavoratore,
e tassazione separata della prestazione). Coerentemente con questa visione, le
agevolazioni aggiuntive concesse alla previdenza complementare furono limitate: la
tassazione risultava meno favorevole non solo di quella del Tfr, ma anche di quella in
vigore precedentemente. L’onere delle agevolazioni concesse nella fase di contribuzione
venne inoltre posticipato nel tempo, attraverso un meccanismo di anticipo della
tassazione sulle prestazioni (la cosiddetta “tassa di ingresso”) che, per quanto
fondamentalmente neutrale sotto il profilo intertemporale, venne percepita come un
aggravio di imposta. A questi fattori, che possono aver agito da disincentivo, si unirono
forti resistenze allo smobilizzo del Tfr: non solo quelle, previste, da parte delle imprese,
ma anche quelle, impreviste, da parte dei lavoratori. Il risultato fu di alimentare
richieste, sempre più pressanti, per un regime fiscale di maggior favore. Tali richieste,
che generarono aspettative sufficienti a bloccare ulteriormente il decollo della
previdenza complementare, vennero puntualmente soddisfatte pochi anni dopo, dalla
legge 335/95.
La legge 335/1995 (riforma Dini): verso maggiori agevolazioni
La riforma Dini interviene su tutte e tre le fasi del risparmio previdenziale,
fondamentalmente ampliando le agevolazioni concesse in ciascuna di esse: i contributi
10
dei lavoratori divengono deducibili, invece che detraibili; si riduce la tassazione in capo
al fondo, che diventa più vantaggiosa di quella riservata a un fondo comune; si
detassano parzialmente le prestazioni percepite sotto forma di rendita, per tenere conto,
forfetariamente, della componente delle stesse costituita dai proventi finanziari
accumulati sui contributi versati, già assoggettata a tassazione in capo al fondo (ma
anche per avvicinare la tassazione delle rendite previdenziali a quella prevista per le
rendite delle polizze assicurative). Ne risulta un regime fiscale ibrido, il cui grado di
agevolazione varia, ancor più che nel regime precedente, in funzione di fattori quali
l’attività di investimento del fondo (a causa della diversa tassazione riservata a
plusvalenze, interessi e dividendi) e del mix delle prestazioni (capitale e rendite). E’
importante sottolineare come sia il decreto legislativo 124/93 che la riforma Dini del
1995 non intervengano sulla disciplina tributaria del cosiddetto terzo pilastro della
previdenza, se non per quanto riguarda l’adesione individuale dei destinatari della
previdenza privata collettiva a fondi pensione aperti, per i quali valgono le stesse regole
fiscali previste per i fondi contrattuali, che è ammessa solo in casi particolari. Il regime
tributario della più importante forma di risparmio “previdenziale” individuale presente,
a quell’epoca, nel nostro ordinamento, la polizza vita, resta più favorevole rispetto a
quello riservato ai fondi pensione. Si tratta di un elemento molto importante, che può
avere giocato un ruolo di rilievo sia nell’ostacolare, riducendone l’appetibilità, la nascita
dei fondi pensione, sia ne l giustificare la reiterata richiesta di potenziare ulteriormente le
agevolazioni fiscali per gli stessi.
Il d.lgs 47/2000: verso una maggiore razionalità del sistema
Il d.lsg 47/2000, di attuazione della delega contenuta nella l. 133 del maggio
1999, e in vigore dal 2001, introduce un nuovo disegno per la tassazione del risparmio
previdenziale, coerente con il riordino generale della tassazione delle rendite finanziarie
e delle diverse forme di impiego del risparmio avviata nel 1998 con la “riforma Visco”.
Le finalità principali sono due: 1) garantire la neutralità della disciplina fiscale
nei confronti della scelta del risparmiatore su quale forma di previdenza prediligere; 2)
disegnare il nuovo regime riservato al risparmio previdenziale secondo criteri che ne
rendano trasparenti le caratteristiche di regime agevolato, rispetto a quello riservato al
risparmio non previdenziale.
Al fine di garantire la prima delle finalità indicate si introduce un unico regime
fiscale per tutte le forme che può assumere il risparmio previdenziale: fondi pensione
aperti e chiusi, Tfr, polizze vita a natura previdenziale e piani pensionistici individuali
(disciplinati, per la prima volta, dal decreto in questione, e aperti alla sottoscrizione
anche da parte di soggetti non titolari di reddito di lavoro o di impresa). Il regime
agevolato è subordinato al riconoscimento della natura previdenziale del piano di
risparmio a cui lo stesso si applica, che discende dal rispetto di una serie di vincoli §.
§
Un periodo minimo di contribuzione, indicativamente di 15 anni; la fruizione delle prestazioni
solo al raggiungimento dell’età pensionabile; la corresponsione di tali prestazioni sotto forma di capitale
entro un ammontare massimo pari a un terzo del montante complessivo. I soggetti abilitati a gestire le
diverse forme di risparmio previdenziale sono gli stessi abilitati a gestire i fondi pensione ex decreto
11
Poiché i diversi strumenti previdenziali a natura volontaria (fondi pensione, aperti e
chiusi, piani individuali e polizze a natura previdenziale) sono considerati equivalenti e
trattati allo stesso modo sotto il profilo fiscale, gli incentivi attribuiti a ciascuno di essi
sono considerati concorrenti con gli incentivi attribuiti agli altri. Ciò al fine di non
ampliare troppo le agevolazioni complessivamente concesse. Correlativamente, si
elimina la concorrenza, impropria, tra risparmio assicurativo in senso stretto e contributi
previdenziali volontari.
Il nuovo, e unico, regime di tassazione del risparmio previdenziale previsto mira
a coordinare il sistema con quello più generale riservato ad altri impieghi del risparmio,
pur mantenendo, come si è detto, una trasparente forma di agevolazione nei confronti
delle forme di risparmio previdenziale (seconda finalità della normativa in questione).
Alla deducibilità dei contributi, che diviene anche più generosa, si affianca la tassazione
dei redditi finanziari maturati nella fase di accumulazione, che sono tassati secondo le
modalità previste per tutti gli altri redditi finanziari (ossia sul risultato netto di gestione),
ma con una aliquota lievemente più agevolata (11% rispetto al 12,5%). Inoltre, solo le
prestazioni al netto dei rendimenti finanziari già tassati in capo al fondo sono sottoposte
a tassazione: a prelievo ordinario, con l’eccezione che diremo fra breve, se sono
percepite sotto forma di rendita, o a tassazione separata, se sono percepite sotto forma di
capitale (che non può eccedere un terzo delle prestazioni complessive). Si traduce
dunque, in modo compiuto, l’idea, solo parzialmente realizzata nel regime previgente,
di non duplicare la tassazione sui rendimenti, la prima volta al momento della loro
accumulazione e la seconda in quello della loro corresponsione sotto forma di
prestazione. Per tener conto del diverso regime riservato, in Italia, ai redditi finanziari
rispetto agli altri redditi, le prestazioni pensionistiche vengono poi assoggettate ad
imposta progressiva per un importo considerato al netto, non solo della parte
corrispondente ai redditi di capitale già assoggettati ad imposta nella fase di
accumulazione (che sono, come si è detto, successivamente esenti), ma anche di quella
che corrisponde ai rendimenti che maturano nella fase della prestazione. Analogamente
ad altre rendite finanziarie, la tassazione di questa componente delle prestazioni avviene
con l’aliquota del 12,5%.
Il regime che ne risulta è fortemente agevolato. Come nel regime di imposta
sulla spesa non si ha nessuna “doppia imposizione”. Ma invece di ottenere questo
risultato attraverso la tassazione in una sola fase (quella della contribuzione, nel regime
TEE; quella della prestazione, nel regime EET), nel “regime Visco” la prestazione viene
scomposta in tre componenti: i contributi da cui origina il risparmio previdenziale, che
sono tassati secondo il regime ordinario, nella fase della prestazione; i redditi finanziari
maturati nella fase di accumulazione, che sono tassati in quella fase con l’aliquota
dell’11%, e i redditi finanziari maturati nella fase della prestazione, che sono, di periodo
in periodo, tassati al 12,5%. Rispetto a un sistema EET, l’articolazione temporale della
tassazione è sfavorevole per il contribuente, a causa dell’anticipazione temporale della
tassazione sui redditi finanziari maturati nella fase di accumulazione. Ma la tassazione
legislativo 124/93, e sono assoggettati agli stessi organi di vigilanza (a garanzia di una gestione
trasparente).
12
di tali redditi con l’aliquota sostitutiva dell’11% (unitamente alla tassazione dei redditi
di capitale maturati nella fase della prestazione al 12,5%) si traduce, come si mostra in
quanto segue, in un significativo beneficio fiscale complessivo, più consistente di quello
che si avrebbe con un sistema “puro” di tipo EET.
4. I diversi sistemi a confronto
La quantificazione e valutazione dell’agevolazione riconosciuta ai fondi
pensione non è agevole. Innanzitutto è necessario individuare un indicatore che sia in
grado di sintetizzare gli effetti della disciplina fiscale riservata al risparmio
previdenziale nelle tre fasi, più volte richiamate, della contribuzione,
dell’accumulazione e della prestazione. In quanto segue, tale indicatore è costruito
confrontando il tasso di rendimento interno (Tir) di un piano pensionistico caratterizzato
da un particolare regime di tassazione con il Tir dello stesso piano pensionistico in
assenza di tassazione, ed esprimendo il cuneo di imposta come la distanza percentuale
del primo rispetto al secondo. E’ importante notare che, nel calcolo del Tir, i flussi di
cassa negativi sono rappresentati dai contributi versati al piano pensionistico nel corso
della vita lavorativa, valutati al lordo delle imposte personali dovute, di modo che
contributi lordi e netti coincidono solo nel caso in cui i contributi siano esenti
(pienamente deducibili dalle imposte sui redditi). Allo stesso modo, i flussi di cassa
positivi sono rappresentati dalle due componenti delle prestazioni, la componente lump
sum e le rendite ottenute nel periodo di pensione, al netto delle imposte pagate nel
periodo di accumulazione e al momento della prestazione. Il Tir di un piano di
risparmio potrà allora assumere anche valori negativi, pur a fronte di un tasso di
interesse di mercato positivo, in tutti i casi in cui il rendimento che si ottiene
dall’investimento non è sufficiente a recuperare la tassazione sopportata nelle tre fasi. In
questi casi, il cuneo fiscale di imposta, che esprime la differenza fra il rendimento lordo
che si ottiene su contributi lordi in assenza di imposta e il Tir, come percentuale del
rendimento lordo, eccede il 100%.
La valutazione dell’agevolazione specifica riconosciuta al risparmio
previdenziale può essere apprezzata in termini relativi, confrontandola cioè con quella
riservata a forme di risparmio alternative. La forma di risparmio alternativa ai fondi
pensione che viene qui proposta è quella relativa ad un investimento in un fondo
comune di investimento.
Gli esercizi che verranno discussi in quanto segue si basano sulle seguenti ipotesi di
partenza, che possono essere poi di volta in volta modificate. In ogni anno lavorativo,
l’investitore accantona, alternativamente in un fondo pensione o in un fondo comune,
una quota che, al lordo delle eventuali imposte, è pari al 4% della propria retribuzione.
Lavora per 32 anni. Il suo salario iniziale è pari a 18.000 euro e cresce ad un tasso
annuo del 2%. Al momento del pensionamento il soggetto riceve una prestazione in
forma di capitale (lump sum) nella misura massima consentita dalla legge per potere
godere delle agevolazioni fiscali riconosciute al fondo pensione. Tale misura è
attualmente pari a un terzo del monte contributivo. Nei calcoli riportati nella tabella 2 si
13
riporta fra parentesi il caso relativo ad una lump sum del 33% e si ipotizza invece una
lump sum del 50%: la percentuale massima prevista dal d.lgs 252/05, che entrerà in
vigore, come si è ricordato, dal gennaio 2008. Ciò permette di rendere più
comprensibile il confronto fra le caratteristiche propriamente fiscali dei diversi sistemi
considerati, isolando il ruolo di un fattore di disomogeneità (il peso della componente
lump sum sul totale della prestazione) che deriva da un vincolo normativo ma che non
riguarda specificamente la disciplina fiscale
Nel caso di investimento in un fondo pensione, la parte di prestazione corrisposta sotto
forma di pensione è calcolata sulla base di un’aspettativa di vita pensionistica di 26
anni. Analogamente, nel caso di investimento in un fondo comune, si ipotizza che il
lavoratore ritiri anno per anno parte del proprio risparmio in modo da garantirsi un
vitalizio costante nei 26 anni che gli restano da vivere. Il tasso di interesse lordo è
costante e pari al 2,5%. Si ipotizza, infine, che il reddito lordo del pensionato, cui va
sommata la rendita pensionistica, sia pari al 70% dell’ultimo reddito di lavoro.
In assenza di tassazione, i due investimenti alternativi (fondo pensione e fondo
comune) sarebbero entrambi caratterizzati da un tasso di rendimento interno (Tir) pari al
tasso di interesse lordo di mercato: 2,5%. In presenza di tassazione, il Tir delle due
forme di risparmio sarà invece inferiore al tasso lordo.
Prendendo a riferimento l’attuale regime di tassazione, un investimento
effettuato attraverso un fondo pensione è caratterizzato da un Tir pari a 1,511% (contro
un rendimento del 2,5% che sarebbe garantito in assenza di tassazione); il cuneo fiscale,
espresso come percentuale del rendimento lordo, è del 39,5%. Viceversa, un
investimento tramite fondo comune garantisce un Tir dello 0,829%, cui corrisponde un
cuneo fiscale del 66,9%. Il cuneo fiscale che grava sul fondo pensione è quindi inferiore
rispetto a quello che grava sul fondo comune di 27,3 punti percentuali (cfr. tabella 2).
Questo risultato è in larga parte imputabile alla deducibilità, dalla base imponibile
dell’Irpef, dei contributi ai fondi pensione, non riconosciuta invece agli accantonamenti
ai fondi comuni; tale deducibilità, come si è illustrato in precedenza, non è pienamente
compensata da un’equivalente tassazione delle prestazioni.
Il vantaggio relativo dell’investimento in un fondo pensione cresce al crescere
del reddito e quindi dell’aliquota marginale del contribuente (per un reddito lordo
iniziale di 70.000 euro è pari a 46,7 punti percentuali) mentre diminuisce al crescere del
periodo di contribuzione (è di circa 21 punti percentuali per un periodo di contribuzione
di 40 anni e di 18 di pensione) e al crescere del tasso di interesse.
Se valutato in termini assoluti, a prescindere cioè dal suo confronto con modalità
alternative di tassazione del risparmio, il beneficio fiscale riconosciuto ai fondi pensione
deriva, fondamentalmente, dal fatto che i rendimenti finanziari sono tassati con aliquota
sostitutiva e non con l’imposta ordinaria, con due conseguenze principali. In primo
luogo, il cuneo fiscale cala al crescere del rendimento del fondo pensione. In secondo
luogo, l’incentivo diviene significativamente regressivo, in quanto cresce al crescere
dalla distanza fra l’aliquota ordinaria del soggetto e l’aliquota scelta per il regime
sostitutivo.
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Tab. 2. Vantaggio fiscale del fondo pensione rispetto al fondo comune: regimi diversi
Caso base
Reddito lordo iniziale
Prestazione netta sotto forma di capitale
Pensione netta
Tasso di rendimento interno
Cuneo fiscale (% del rendimento lordo)
Differenza Tir
Differenza cuneo
Fondo comune Fondo pensione
EET
(regime
(regime
vigente)
vigente)
18000
18000
18000
16620
18856
18140
829
982
934
0,829%
1,511% (1,597) 1,307%
66,859
39,541
47,705
0,683%
0,479%
-27,318
-19,153
Tasso di interesse più basso (1%)
Reddito lordo iniziale
Prestazione netta sotto forma di capitale
Pensione netta
Tasso di rendimento interno
Cuneo fiscale (% del rendimento lordo)
Differenza Tir
Differenza cuneo
Fondo comune Fondo pensione
18000
18000
13434
14554
575
639
-0,536%
-0,1% ( 0,004)
153,622
109,950
0,437%
-43,672
D.lgs.
252/05
18000
20942
1062
1,928%
22,893
1,099%
-43,965
EET*
(delega
fiscale)
18000
19056
1003
1,585%
36,619
0,756%
-30,239
EET D.lgs.252/05
18000
18000
14267
16640
620
719
0,219%
0,486%
121,931
51,354
0,755%
1,023%
-31,692
-102,269
EET*.
18000
14580
642
-0,086%
108,604
0,450%
-45,019
Reddito lordo più elevato (70000 euro) Fondo comune Fondo pensione
EET D.lgs.252/05
Reddito lordo iniziale
70000
70000
70000
70000
Prestazione netta sotto forma di capitale
52139
65416
58833
81442
Pensione netta
2599
3437
2877
4130
Tasso di rendimento interno
-0,154%
1,014% (1,144) 0,349%
1,928%
Cuneo fiscale (% del rendimento lordo)
106,175
59,455
86,028
22,893
Differenza Tir
1,168%
0,504%
2,082%
Differenza cuneo
-46,720
-20,146
-83,281
EET*
70000
66193
3500
1,083%
56,673
1,238%
-49,502
Periodo di contribuzione più lungo
(40 +18)
Reddito lordo iniziale
Prestazione netta sotto forma di capitale
Pensione netta
Tasso di rendimento interno
Cuneo fiscale (% del rendimento lordo)
Differenza Tir
Differenza cuneo
Fondo comune Fondo pensione
EET D.lgs.252/05
18000
18000
18000
18000
24258
27584
25990
31319
1611
1811
1603
2101
0,887%
1,412% (1,446) 1,020%
1,991%
64,519
43,537
59,192
20,362
0,525%
0,133%
1,104%
-20,982
-5,327
-44,157
EET*
18000
28033
1848
1,489%
40,449
0,602%
-24,070
Periodo di contribuzione più lungo
(40+18) e reddito lordo più elevato
Reddito lordo iniziale
Prestazione netta sotto forma di capitale
Pensione netta
Tasso di rendimento interno
Cuneo fiscale (% del rendimento lordo)
Differenza Tir
Differenza cuneo
Fondo comune Fondo pensione
EET D.lgs.252/05
70000
70000
70000
70000
76519
121794
98253
86470
5082
8172
6575
5304
-0,030%
1,991%
1,079% (1,144) 0,325%
20,362
101,186
56,854
86,993
1,108%
0,355%
2,021%
-44,332
-14,192
-80,824
EET*
70000
99995
6692
1,154%
53,844
1,184%
-47,341
15
All’aumentare del periodo di contribuzione, il vantaggio fiscale diminuisce, nel
caso base, perché la dinamica retributiva ipotizzata determina una tassazione nel
periodo di pensionamento più elevata di quella media del periodo di lavoro. Quando
questo fenomeno di tax averaging con segno negativo non si verifica o, come nel caso
dell’individuo con reddito iniziale di 70.000 euro, è poco rilevante, il cuneo fiscale si
riduce, all’aumentare del periodo di contribuzione.
La tabella 2 ci permette inoltre di verificare che il regime fiscale attualmente
riservato ai fondi pensio ne nel nostro paese è sempre più vantaggioso rispetto ad un
regime EET. Il vantaggio non è particolarmente marcato nel caso base, ma aumenta
all’aumentare del reddito lordo iniziale. Inoltre, aumenta al crescere del periodo di
contribuzione, mentre si riduce al crescere del tasso di interesse.
5. Le deleghe contraddittorie di questa legislatura e il regime che entrerà in vigore
dal 2008
Lo sviluppo della previdenza complementare in Italia non sembra quindi essere
stato ostacolato da insufficienti agevo lazioni fiscali. Occorre una diagnosi, e con essa
una cura, alternativa. In particolare, è necessario trovare soluzione alle resistenze
manifestate sia dai lavoratori che dalle imprese all’abbandono del Tfr.
Per i lavoratori non costituisce incentivo sufficiente il maggior rendimento che i
fondi pensione sono potenzialmente in grado di offrire rispetto a quello, fissato per
legge, offerto dal Tfr. E questo non solo perché l’adesione al fondo pensione espone al
rischio di un andamento avverso dei mercati finanziari, ma anche perché il Tfr:
costituisce una forma di assicurazione nei confronti della perdita di lavoro,
particolarmente apprezzata in assenza di adeguati ammortizzatori sociali; permette di
ottenere, con più facilità rispetto ai fondi pensione, anticipi sugli accantonamenti
effettuati in caso di acquisto della prima casa o di impreviste spese sanitarie; mette a
disposizione una cifra rilevante, al momento del pensionamento sulla quale il lavoratore
ha la piena disponibilità (che non deve cioè essere necessariamente tradotta in un
vitalizio). Aumentare l’agevolazione fiscale per rendere ancora più attraente il
rendimento ottenibile da un fondo pensione può allora essere uno strumento
inappropriato rispetto ad altre politiche, quali, in primo luogo, l’introduzione di un più
credibile sistema di ammortizzatori sociali.
Le imprese richiedono forme di compensazione per la rinuncia ad una fonte di
finanziamento sicura e poco costosa. La compensazione sino ad ora offerta, attraverso
agevolazioni fiscali, è stata indubbiamente modesta. Compensazioni più elevate, da
commisurarsi alla differenza fra il costo del ricorso al mercato e il costo del Tfr,
sarebbero d’altro lato eccessivamente onerose e molto probabilmente ingestibili. Anche
le vie alternative sino ad ora seguite, quali la cartolarizzazione del Tfr, finalizzata a
facilitare l’accesso delle imprese a fonti di finanziamento alternative al Tfr che ne
rafforzino ad un tempo la struttura patrimoniale (d.lgs 299/99), non hanno avuto
successo.
Questi temi sono tornati alla ribalta con la discussione relativa alla riforma
previdenziale che ha portato, dopo un lungo periodo di gestazione, all’approvazione
16
della legge delega 243/2004, a cui ha fatto seguito l’emanazione del decreto legislativo
252/2005, le cui disposizioni entreranno però in vigore solo a partire dal 1° gennaio
2008. Un posto di rilievo è stato, ancora una volta, assegnato al trattamento fiscale della
previdenza complementare.
Nel frattempo, nell’aprile del 2003, il governo aveva chiesto e ottenuto dal
Parlamento un’altra delega, per la riforma del sistema di tassazione statale. Anch’essa
prevedeva la revisione del regime di tassazione riservato ai fondi pensione, ma,
curiosamente, era ispirata a principi significativamente diversi rispetto a quelli contenuti
nella riforma previdenziale.
La delega fiscale (legge 80/2003)
Nel prevedere il riordino della tassazione delle attività finanziarie, la legge
delega di riforma fiscale, i cui termini per l’esercizio sono peraltro ormai scaduti, si
limitava a prevedere un “regime differenziato di favore fiscale per il risparmio affidato a
fondi pensione ed a casse di previdenza privatizzate”. Qualche indicazione in più,
rispetto a questo principio “direttivo” estremamente generico, poteva però evincersi
dalla relazione al provvedimento, la quale suggeriva l’adozione di uno schema di
tassazione formalmente di tipo EET, per quanto significativamente diverso rispetto a
quello comunemente applicato nei paesi anglosassoni. Si prevedeva, infatti, di
scomporre le prestazioni in due componenti: la restituzione dei contributi e i rendimenti
finanziari maturati nella fase di accumulazione. La prima componente doveva essere
tassata in via ordinaria; la seconda, invece, doveva essere assoggettata ad un prelievo
sostitutivo presumibilmente anche più leggero rispetto a quello previsto per gli impieghi
non previdenziali del risparmio. Anche questo regime, sarebbe quindi risultato più
favorevole rispetto ad un sistema di imposta sulla spesa.
La distinzione delle prestazioni nelle due componenti indicate seguiva la stessa
logica del regime vigente. Tuttavia, con il sistema previsto dalla delega fiscale, la
tassazione della componente finanziaria veniva rimandata, rispetto alla situazione
vigente, dal momento dell’accumulazione al momento della prestazione, in coerenza
con la riforma prospettata per la tassazione di altri impieghi del risparmio, ad esempio,
tramite fondi comuni, che prevedeva il posticipo della tassazione al momento del
realizzo. In termini assoluti, il vantaggio riconosciuto ai fondi pensione sarebbe
cresciuto nell’ipotesi, accolta nei calcoli che portano ai risultati della tabella 2, ma non
adeguatamente specificata nella relazione di accompagnamento alla delega, che anche i
rendimenti maturati nella fase della prestazione venissero tassati ad aliquota ridotta (che
si ipotizza dell’11%). In caso contrario, il regime proposto sarebbe stato meno
favorevole rispetto a quello attuale. Inoltre, in termini relativi, il regime proposto
avrebbe comportato una minore agevolazione differenziale dei fondi pensione rispetto ai
fondi comuni, a causa sia dell’ulteriore favore fiscale concesso a questi ultimi, sia della
contestuale riduzione delle aliquote dell’imposta personale, che avrebbero ridotto, nel
confronto fra le due forme di risparmio, il beneficio della deducibiltà dei contributi,
riconosciuto ai soli fondi pensione (cfr Guerra 2002)
17
La delega previdenziale (legge 243/2004)
A favore di una revisione della tassazione della previdenza complementare si
esprimeva, come si è detto, contemporaneamente, la delega contenuta alla lettera i)
dell’art. 2 della legge di riforma previdenziale approvata, con un anno di ritardo, come
legge 243/2004, la quale prevede però interventi di altra natura: l’ampliamento della
deducibilità fiscale dei contributi, fissando limiti in valore assoluto e in valore
percentuale del reddito imponibile e applicando quello più favorevole all'interessato; la
possibilità di erogare prestazioni sotto forma di capitali, agevolate fiscalmente, per un
ammontare pari non più ad un terzo ma al 50% del loro valore complessivo; un
trattamento più favorevole per la tassazione dei rendimenti delle attività delle forme
pensionistiche.
La delega previdenziale, quindi, non indicava un nuovo disegno fiscale per la
previdenza complementare, ma sembrava puntare esclusivamente sull’ampliamento dei
benefici riconosciuti, soprattutto nelle prime due fasi. Nella fase di contribuzione,
eliminando il vincolo più stringente per il contribuente; nella fase di accumulazione,
abbassando ulteriormente il prelievo sui rendimenti maturati. Un ulteriore vantaggio
veniva poi previsto nella fase della prestazione, dall’innalzamento al 50% della quota
ottenibile sotto forma di capitale, senza perdere il diritto al trattamento fiscale
agevolato. La ratio di quest’ultima previsione è principalmente riconducibile al favore
che, come si è ricordato, i lavoratori attribuiscono al fatto di poter godere di una somma
lump sum non modesta al momento del pensionamento. Non va però sottaciuto che
questa scelta non è coerente con la natura previdenziale del piano pensionistico, che
dovrebbe avere come finalità prioritaria quella di assicurare mezzi di sostentamento
adeguati al pensionato per tutto il periodo di vita attesa.
Ancor meno giustificabile è la possibilità di scelta fra il vincolo in percentuale
del reddito e quello in valore assoluto. Da un lato, essa consente ad individui ricchi di
aumentare la propria quota di contribuzione al fondo in esenzione di imposta, superando
il vincolo in valo re assoluto; dall’altro, consente anche a soggetti che dichiarano poco o
nulla ma sono in grado di risparmiare, ad esempio perchè evadono le imposte, di godere
dell’agevolazione fino al limite massimo definito in termini assoluti, in quanto il
vincolo in percentuale del reddito non è più stringente. Una modifica normativa di
questo tipo ha presumibilmente l’effetto di aumentare l’entità delle contribuzioni dei
soggetti più abbienti che già aderiscono a un fondo pensione; mentre nulli o scarsi
sarebbero gli effetti sulle nuove adesioni, soprattutto per quanto riguarda la popolazione
maggiormente esposta al rischio di una insufficiente copertura previdenziale.
La delega cerca anche di affrontare il problema della resistenza delle imprese
allo smobilizzo del Tfr, sottoscrivendo impegni di rilievo, quali la “subordinazione del
conferimento del trattamento di fine rapporto all’assenza di oneri per le imprese,
attraverso l’individuazione delle necessarie compensazioni in termini di facilità di
accesso al credito, in particolare per le piccole e medie imprese, di equivalente
riduzione del costo del lavoro…” (art. 1 c.2 lett.e) numero 9).
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Il decreto legislativo 5 dicembre 2005 n. 252 di attuazione della delega previdenziale.
Il d.lgs 252/05, i cui tratti salienti sono riassunti nella tabella 1, si allontana per
molti aspetti dalle linee guida della delega previdenziale.
Per quanto riguarda la compensazione per le imprese, che dovrebbe incentivare
lo smobilizzo del Tfr, prevede l’innalzamento della deduzione dall’imponibile delle
imprese delle quote di Tfr destinate al finanziamento della previdenza integrativa, dal 3
al 4% (6% per le imprese con meno di 50 addetti, che, come si è detto, già in base alla
legislazione vigente avrebbero potuto godere di un’agevolazione più ampia rispetto al
3% riservato alle altre). Queste nuove soglie di esenzione, che non sorprendentemente
sono poco più generose rispetto al passato, non sono certo in grado di ottemperare ai
precetti della delega. I contrasti con le imprese proprio su questo aspetto sono state una
della cause di rilievo del rallentamento nell’iter di predisposizione del decreto da parte
del governo ** .
In accordo con la delega, il decreto allenta i vincoli di deducibilità, ma opta
unicamente per un tetto in valore assoluto (5.164,57 euro). Viene inoltre eliminata la
subordinazione del beneficio riconosciuto al dirottamento di quote di Tfr ai fondi
pensione e viene aumentata la quota di prestazione che può essere percepita come quota
capitale.
Tuttavia, invece di rendere più blanda la tassazione dei rendimenti finanziari,
come sembrava indicare la delega, il decreto attuativo sceglie di agire sulle prestazioni,
abbattendone drasticamente la tassazione. In particolare, al momento dell’erogazione di
capitale o della prestazione in rendita è prevista una tassazione con l’aliquota del 15%,
ulteriormente ridotta per ogni anno oltre il quindicesimo di contribuzione, di una
percentuale di 0,30 punti fino ad un minimo del 9%, che verrebbe quindi raggiunto con
35 anni di contribuzione. In questo modo si sceglie di incentivare fiscalmente il
dirottamento del Tfr ai fondi, prevedendo per la previdenza complementare un
trattamento complessivamente molto più vantaggioso rispetto al Tfr.
La neutralità fiscale nei confronti delle diverse forme di risparmio previdenziale,
ivi incluso il Tfr, sancita con il decreto legislativo 47/2000, viene quindi abbandonata.
Inoltre, si rendono totalmente asimmetriche e incoerenti l’esenzione iniziale dei
contributi, che è a fronte della aliquota persona le del soggetto, e la tassazione delle
prestazioni, che, essendo ad aliquota proporzionale e notevolmente più bassa anche
della prima aliquota dell’Irpef, accentua enormemente il vantaggio già concesso dal
precedente regime ai contribuenti a reddito più elevato. Questo risulta in modo
inequivocabile se si guarda ai conti riportati nella tabella 2. Come si può notare, il cuneo
fiscale non varia al variare del reddito lordo del contribuente. Ciò significa che il peso
dell’imposizione è costante, al crescere del reddito e che quindi il prelievo è regressivo.
**
Per superare queste difficoltà sono state previste anche misure non fiscali di possibile
compensazione per le imprese: un Fondo di garanzia per agevolare l'accesso al credito delle imprese che
conferiscono il Tfr a forme pensionistiche complementari, alimentato da un contributo dello Stato;
l'esonero parziale dal versamento di alcune tipologie di contributi sociali (per assegni familiari,
maternità e disoccupazione) da parte dei datori di lavoro in relazione al Tfr maturando conferito alle
forme pensionistiche complementari. Sono state invece accantonate le proposte che richiamavano, più o
meno da vicino, l’ancora vigente ipotesi di cartolarizzazione del Tfr.
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Il vantaggio fiscale cresce poi al crescere del periodo di contribuzione, data la
previsione dell’abbattimento dell’aliquota al crescere degli anni di contribuzione oltre il
quindicesimo.
Il regime di tassazione vigente e anche quello proposto dalla delega fiscale
rispondevano a logiche, più o meno condivisibili, ma chiare nei loro intenti di
razionalizzare e rendere coerente il trattamento della previdenza integrativa con quello
di altre forme di impiego del risparmio, mantenendo tuttavia un trattamento più
agevolato per la prima. La delega previdenziale e, ancor più, il decreto legislativo in
esame, rispondono invece al solo l’intento di aumentare l’agevolazione e disegnano un
sistema privo di ogni razionalità. Un sistema che risulta anche molto più vantaggioso di
quello della previdenza pubblica, che prevede, a fronte della deducibilità dei contributi,
la piena tassazione, con imposta personale e progressiva, delle prestazioni.
Perché si è imboccata questa strada invece del modello adombrato dalla delega
fiscale? Da un lato, perché un modello EET, non solo nella sua forma pura, ma anche in
quella proposta nella relazione al d.d.l. delega di riforma fiscale potrebbe essere meno
favorevole fiscalmente di quello attuale. Dall’altro lato, perché la via della detassazione
delle prestazioni, piuttosto che dell’accumulazione, permette di potenziare le
agevolazioni, riducendone l’impatto nel breve periodo sul bilancio dello stato (il nuovo
regime fiscale riguarda infatti soltanto i nuovi accantonamenti e le prestazioni che da
essi derivano). A mantenere le promesse dovranno pensare i governi futuri.
6. Una possibile strada alternativa e alcune conclusioni
L’espediente di posticipare l’agevolazione è stato storicamente adottato da più di
un paese e, in passato, ha anche indotto all’abbandono di una tassazione EET paesi quali
l’Australia, alla fine degli anni ’80 e la Nuova Zelanda, all’inizio degli anni ’90, che
hanno optato a favore di sistemi ibridi, che anticipano anche solo parzialmente la
tassazione alla prima e/o alla seconda fase (cfr. Franco 1996).
E’ però possibile pensare a sistemi che realizzino una distribuzione
intertemporale diversa dell’agevolazione, spalmandone il costo per lo stato su più
periodi, ma che conseguano dal punto di vista del contribuente gli stessi effetti che
possono essere ottenuti con l’applicazione dell’imposta sulla spesa. Ciò può essere fatto
tenendo allo stesso tempo conto della propensione, che raggiunge la sua più compiuta
espressione con il d.lgs 252/05, ma che è rintracciabile in qualche misura anche nei
regimi preesistenti, a riservare alle prestazioni una tassazione proporzionale.
Si potrebbe, ad esempio, optare per un sistema del tipo EET in cui però la
tassazione finale avvenga con un’unica aliquota proporzionale, t*. Per rendere il sistema
coerente, tuttavia, occorrerebbe che la stessa aliquota fosse utilizzata per determinare
l’esenzione nella fase iniziale. Occorrerebbe, in sostanza, sostituire alla attuale
deduzione una detrazione pari a t* per il contributo lordo. E’ chiaro che l’aliquota t*
dovrà essere tanto più elevata quanto più si ritiene importante concedere l’esenzione
nella fase iniziale, di versamento dei contributi. Se l’aliquota fosse più alta dell’aliquota
base dell’imposta sul reddito, per un soggetto a reddito basso l’agevolazione nella fase
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iniziale potrebbe di fatto corrispondere ad una deducibilità dei contributi superiore al
100%. L’opposto accadrebbe per i soggetti a più alta aliquota ††.
Si ridurrebbero dunque gli effetti redistributivi a favore dei soggetti a più alta
aliquota, che risultano invece largamente amplificati, rispetto al regime vigente,
nell’ipotesi adottata dal d.lgs 252/05. Si potrebbe inoltre accogliere il suggerimento di
semplificare la tassazione delle prestazioni, che sarebbe uniforme, sia sulla parte
percepita sotto forma di capitale, sia sulla parte percepita sotto forma di rendita e
indipendentemente dal fatto che il reddito percepito derivi da retribuzione accantonata
nel tempo o dai redditi finanziari accumulati.
Anche se l’aliquota t* fosse fissata in modo da mantenere in media le
agevolazioni esistenti nella fase di contribuzione, l’agevolazione complessivamente
riconosciuta sarebbe tuttavia inferiore rispetto a quella del regime vigente che, come si è
visto, è più agevolato di un sistema EET.
Non si tratterebbe però di una scelta sbagliata: la storia del nostro come di altri
paesi ci invita infatti a non sopravvalutare il ruolo che l’incentivo fiscale può giocare nel
determinare lo sviluppo della previdenza complementare. Altri fattori sono
fondamentali nel determinare tale sviluppo, primo fra tutti la dimensione del sistema
pensionistico pubblico. Ma sono di particolare importanza anche il livello del reddito, lo
sviluppo dei mercati, l’indice di dipendenza (rapporto fra pensionati e occupati), le
caratteristiche delle relazioni industriali e del mercato del lavoro e la politica di
regolamentazione. Tutti questi fattori devono essere accuratamente considerati, a fianco
del fattore fiscale, nell’impostare un’adeguata politica di sostegno della previdenza
complementare.
La riduzione e non l’aumento dell’agevolazione fiscale potrebbe essere
particolarmente giustificata a fronte della politica, adottata con la legge delega, che ha
trovato nel silenzio assenso, un meccanismo di trasferimento del Tfr ai fondi pensione
potenzialmente in grado di garantire un flusso significativo di finanziamento alla
previdenza integrativa ‡‡ . Trasferimento assistito anche dalla rimozione di alcuni dei
fattori che rendevano preferibili, per il lavoratore, il Tfr: la già ricordata possibilità di
godere di una somma significativa in conto capitale al momento del pensionamento,
senza perdere i benefici fiscali, e l’ampliamento della possibilità di ottenere
anticipazioni per l’acquisto o la ristrutturazione della prima casa e per spese sanitarie
per sé o i familiari.
Il costo dell’agevolazione a carico dello stato risulterebbe inferiore e anche
questo è un fattore importante da considerare: le agevolazioni al risparmio previdenziale
costituiscono la voce più rilevante nella contabilità delle tax expenditures, in paesi come
il Canada e il Regno Unito, e sono seconde solo a quelle relative alle assicurazioni
sanitarie, negli Stati Uniti. In tutti questi paesi il problema dell’insufficiente adesione ai
piani pensionistici da parte dei soggetti più poveri, con rapporti di lavoro meno stabili e
††
Il sistema ipotizzato coinciderebbe con un sistema EET nel caso in cui t* fosse uguale
all’aliquota marginale del contribuente, e con un sistema TEE nel caso in cui fosse t*=0
‡‡
La superiorità di forme di “arruolamento” automatico, del tipo silenzio-assenso, rispetto agli
incentivi fiscali, nel garantire l’adesione a piani previdenziali volontari da parte di chi ne ha più bisogno è
di grande attualità anche nel dibattito americano. Cfr., ad esempio, Gale et al. (2005).
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più giovani è considerato di grande rilievo e ancora privo di soluzione. E’ giusto allora
spendere tanti soldi per incentivi fiscali così poco adeguati rispetto al loro target?
Riferimenti bibliografici
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