Relazione introduttiva a cura della Presidenza nazionale

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Relazione introduttiva a cura della Presidenza nazionale
Scuola di Formazione FUCI – Milano 2008
Relazione introduttiva a cura della Presidenza nazionale
Abitare la città.
Sulle orme di G iuseppe Lazzati
L’anima della città è per l’uomo, perché superi il senso di sradicamento,
di solitudine e di abbandono, perché ritrovi la sua appartenenza alla società,
perché accetti con gioia e responsabilità di agire per l’altro e con l’altro,
perché non sia angosciato ed oppresso dalla dimensione della prossimità.
(Card. D. Tettamanzi)
1. Abitare la città, tra incertezze e conflitti
Abitare la città, abitare nella città. È questa oggi la nuova questione sociale. Da
sempre nella storia gli insediamenti urbani sono stati il segno dello stato di salute di un
popolo. È nella città infatti che l’incontro con la diversità si rende possibile: diversi ceti
sociali, diverse provenienze, razze, culture, religioni. Dalla capacità di valorizzare questi
incontri è dipesa la crescita, la sopravvivenza e la forza delle civiltà nella storia. La città è
ancora oggi paradigma della salute di una società e primo testimone dei suoi mutamenti.
Per questo la FUCI vuole oggi interrogarsi su questo tema, perché l’approccio a tante
delle questioni che investono l’università, la Chiesa e l’Italia, passano proprio dall’analisi
delle realtà urbane.
Nella storia la città ha sempre rappresentato sicurezza, un antidoto alla paura. Sin
dai tempi dei villaggi medievali costruiti attorno ai castelli, l’uomo ha sentito
l’irrinunciabile bisogno di fuggire da una situazione di isolamento e pericolo, stringendo
patti di solidarietà che hanno dato vita nei secoli alle città grandi e piccole che costellano
il nostro mondo. Oggi è invece paradossalmente la città, con le sue periferie, le sue
strade, i suoi palazzi, i suoi parchi a fare paura. Il bisogno di sicurezza evocato ad alta
voce, a volte millantato, parte proprio dalle città, senza quasi più distinguere fra centri e
periferie. È la città, l’incontro, il vivere vicino all’altro che fa paura. La città è
protagonista della cronaca nera - basti pensare al delitto di Perugia, alla strage di
Castelvolturno, all’uccisione, proprio qui a Milano, del giovane Abdul, alle aggressioni a
Roma nei confronti di tanti extracomunitari. Cronaca spesso montata ad arte, che fa
presa sul disagio nei confronti del diverso. È lo spazio quotidiano, dove ognuno di noi
cerca protezione, ad apparire minacciato. Chi si sente insicuro, si sa, è debole e viene
attratto facilmente da promesse e propagande che non hanno altro scopo che quello di
offrire un target preciso cui dirigere tutte le nostre ansie. La legge del capro espiatorio,
così radicata nell’uomo, è figlia della sua più primitiva, inconscia e potente emozione:
appunto, la paura.
Nella città odierna tende a verificarsi la rottura di ogni legame di solidarietà: l’altro
non rappresenta più una risorsa ma un pericolo, un problema. Citando il dossier della
Caritas curato dal sociologo Mauro Magatti, la città contemporanea tende a coincidere sempre più
strettamente con il suo sistema di funzioni, mentre si riduce fortemente il valore integrativo del luogo.1
Distinguendo gli spazi semplicemente in base alla loro funzionalità, si tende a formare
luoghi dove vengono concentrati tutti coloro che sono inadatti rispetto alla vita contemporanea. Ogni città
ha le sue «discariche» dove vengono collocate quelle «vite di scarto» che non si vogliono vedere e che non
CARITAS ITALIANA, La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane, a cura di M. MAGATTI,
Il Mulino, Bologna 2007, p. 26.
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si sa come integrare: i centri di permanenza temporanea, i carceri superaffollati, i ghetti urbani, i campi
rom, i palazzi abusivi.2 Che spazio resta allora all’idea stessa di città? Che spazio resta
all’uomo in questa città? Prima ancora di discutere di come si può contribuire a rendere
più vivibili e umane le città, dobbiamo chiederci che cosa sono per noi, che cosa
rappresentano.
Non possiamo, da studenti, non concentrare l’attenzione in particolare sulle nostre
città universitarie. Molti di noi, finito il liceo, lasciano casa per iniziare una nuova vita,
in un’altra città che li ospiterà per diversi anni. Spesso noi viviamo gli anni di studio
considerando la città che ci ospita con distacco, perché quasi certamente non sarà la città
che abiteremo una volta finiti gli studi, dove lavoreremo e costruiremo il nostro futuro.
Da un altro punto di vista, gli abitanti della città che interagiscono con noi studenti ci
considerano come esseri di passaggio, opportunità – magari da sfruttare per chiedere
affitti esagerati – o problema, ma comunque di passaggio. Poco abbiamo a che fare con
la loro città, con la loro società. Queste città universitarie: non sono città. I quartieri studenteschi
delle medie e grandi città. Non sono quartieri. Sono zone senza sovranità. Senza autorità. Senza
comunità. […] I nuovi residenti ne sono estranei. Peraltro si tratta di ambiti dove le persone
intrattengono relazioni fitte. Ma, perlopiù, temporanee, poco impegnative. Meglio allora parlare di
“luoghi apparenti”, popolati da una “gioventù apolide”. “Città artificiali” in cui cresce una generazione
di “non-cittadini”.3 Con queste parole Ilvo Diamanti descrive con efficacia la dimensione in
cui vivono – o almeno rischiano di vivere – quanti tra noi sono studenti fuori sede: siamo
parte di una società che non è comunità, una società temporanea, precaria, senza futuro.
La storia ha cambiato i volti delle nostre città, ne ha cambiato la struttura, ma
soprattutto gli abitanti. L’avvento dell’onnipresente globalizzazione ha fatto delle nostre
città una finestra aperta sul mondo: è il volto stesso dell’umanità globale quello che
incontriamo per le nostre strade. Il cambiamento è stato repentino. Si parlava e si parla
ancora dell’emigrazione dal sud al nord d’Italia, dell’incontro fra mentalità e mondi molto
diversi eppur riuniti sotto la stessa bandiera ed ecco, improvvisamente, in pochissimi
anni, una nuova sfida per le nostre città, per noi, una sfida che ci ha colti impreparati: il
mondo, non più l’altra parte dello stivale, ma il mondo è entrato nelle nostre città. Le
vecchie contrapposizioni (periferia/centro, ricchi/poveri, nord/sud) potevano essere
ricomprese dentro più ampie categorie: la città, la nazione. Ma adesso? Cosa può
ricondurre ad uno le diversità, spesso radicali, che colpiscono violentemente la nostra
ordinarietà?
2. Un cristiano per la città dell’uomo: Giuseppe Lazzati
Per tentare qualche risposta a queste domande, abbiamo pensato di riferirci a un
esempio concreto di impegno nella e per la città, perché essa sia sempre più una città dal
volto umano, una città dell’uomo a misura d’uomo: alla testimonianza, cioè, di Giuseppe
Lazzati. Lazzati è sempre stato – ma in particolare negli ultimi anni della sua vita – un vigilante,
una scolta, una sentinella: che anche nel buio della notte, quando sulla sua anima appassionata di
grande amore per la comunità credente poteva calare l’angoscia, ne scrutava con speranza indefettibile la
navigazione nel mare buio e livido della società italiana.4 Così lo ricordava un altro grande
testimone del secolo scorso, Giuseppe Dossetti, a otto anni dalla morte. Immergere la
nostra riflessione nell’esperienza vissuta di Lazzati può aiutarci a purificare il nostro
sguardo, e a ripensare il nostro modo di abitare la città. Molti sono i campi in cui questo
straordinario cristiano laico si è speso generosamente: l’impegno nell’Azione Cattolica,
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CARITAS I TALIANA, La città abbandonata, cit., pp. 26-27.
I. DIAMANTI, “Quando gli studenti si prendono le città”, in La Repubblica, 11 novembre 2007.
4 G. DOSSETTI, “Sentinella, quanto resta della notte?”, in ID., La parola e il silenzio. Discorsi e scritti 1986-1995,
a cura della Piccola Famiglia dell’Annunziata, Introduzione di Agnese Magistretti, Edizioni Paoline, Milano
2005, p. 369.
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l’insegnamento della Letteratura cristiana antica, il contributo all’Assemblea Costituente,
il rettorato dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, la formazione spirituale dei giovani,
la promozione del contributo culturale e civile dei cattolici – per citarne solo alcuni. Molti
dunque gli ambiti del suo impegno, ma uno e costante il suo stile: come ha detto il Card.
Martini nell’omelia per le esequie funebri, il nucleo centrale della sua multiforme e feconda attività
si può ricondurre all’intento di sviluppare una caratteristica via laicale alla santità.5 Come
essere integralmente laico e al tempo stesso integralmente consacrato alla vita di fede?
Questo l’alto interrogativo a cui egli ha tentato di dare una risposta con tutta la sua vita.
Come rispettare le realtà temporali nella loro autonomia, e al tempo stesso
impegnarsi in esse senza sconti e senza esitazioni per ordinarle secondo Dio?6 Questo – ha
affermato Lazzati – è estremamente importante ma anche difficile: si tratta di operare l’unità dei
distinti e cioè fare unità tra fedeltà a Cristo e fedeltà all’autonomia delle realtà temporali, evitando
riduttive confusioni o separazioni.7 Come saper “distinguere per unire”? Come vivere questa
doppia fedeltà senza ridurre un livello all’altro, e al tempo stesso senza vivere in maniera
schizofrenica? Come essere credenti fino in fondo, ma anche laici fino in fondo? Come
incarnare una laicità che è stata definita una laicità robusta, sorretta da un nucleo
profondamente spirituale?8 Come interpretare oggi, nelle nostre città, il ruolo che la lettera A
Diogneto – testo molto caro a Lazzati – attribuisce ai cristiani, ovvero di essere come
l’anima nel corpo? Forse non è inopportuno qui citare quanto scriveva in proposito
Dosetti, ricordando l’amico Lazzati: I battezzati consapevoli devono percorrere un cammino inverso
a quello degli ultimi vent’anni, cioè mirare non a una presenza dei cristiani nelle realtà temporali e alla
loro consistenza e al loro peso politico, ma a una ricostruzione delle coscienze e del loro peso
interiore, che potrà poi, per intima coerenza e adeguato sviluppo creativo, esprimersi con un peso culturale
e finalmente sociale e politico.9
Un altro grande tema che ha segnato tanto la vita quanto gli scritti di Lazzati è il
nesso tra verità e carità. La passione per la verità e il servizio nella carità – egli ha osservato –
sono la divisa del cristiano, e a questa divisa ho cercato di ispirarmi nella piccola vicenda della mia
povera vita.10 La sintesi di questi due elementi è compito impegnativo che si propone
anche a noi universitari della FUCI: come riuscire a vivere la verità nella carità?11 Come
integrare le varie conoscenze in una visione umanistica complessiva a servizio della
persona umana? Come superare l’autoreferenzialità del sapere, orientandolo invece al
servizio del bene della polis? Come declinare oggi l’equilibrio tra urgenza di nuove
istanze e la custodia di quanto di buono ci è consegnato dal nostro passato – come
adempiere, cioè, all’esortazione di Sant’Ambrogio spesso citata da Lazzati: nova semper
quaerere et parta custodire? Come supplire al bisogno, che anche le nostre città odierne
nutrono, di una “carità culturale”, cioè dell’attenzione amorevole ai fatti di cultura, ossia ai valori,
ai linguaggi, ai modi espressivi della nostra società e al loro collegamento con la trasmissione del messaggio
cristiano?12
C. M. MARTINI, “Limpido testimone e impareggiabile maestro”, in A. OBERTI (a cura di), Giuseppe
Lazzati. Limpido testimone e impareggiabile maestro, AVE, Roma 1999, p. 31.
6 Cfr. Lumen gentium, n° 31.
7 G. LAZZATI, “Le condizioni dell’impegno politico del fedele laico”, in I D., Chiesa, cittadinanza e laicità, a
cura dell’Azione Cattolica di Milano, In dialogo, Milano 2004, p. 36.
8 Cfr. G. DOSSETTI, “Io e Lazzati”, in Dossier Lazzati 12. Lazzati, Dossetti, il dossettismo, a cura di A. Oberti,
AVE, Roma 1997, p. 104.
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DOSSETTI, “Sentinella, quanto resta della notte?”, cit., p. 379.
10 Riportato in M ARTINI, “Limpido testimone e impareggiabile maestro”, cit., p. 30.
11 Cfr. G. LAZZATI, Per una nuova maturità del laicato, AVE, Roma 1986, p. 36.
12 C. M. MARTINI, Discorso di Sant’Ambrogio del 1996, riportato in ID., “Il Vangelo ha assunto in Lazzati
il volto dell’uomo contemporaneo”, in Dossier Lazzati 12, cit., p. 27.
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3. La nostra Scuola di formazione FUCI
L’illuminante figura di Lazzati ci aiuterà a spogliarci delle lenti deformanti
dell’individualismo, della paura, dell’egoismo, che ci impediscono di pensare politicamente,
sorretti dalla speranza che ci viene dalla fede cristiana. Ascolteremo le esperienze di chi
studia la città, penetrando nei suoi recessi più inaccessibili, di chi in questi recessi lavora
instancabilmente a servizio degli ultimi. Toccheremo poi con mano i frutti amari dei
nostri centri urbani, ma anche quelli buoni coltivati da tante donne e uomini che hanno
riscoperto la dimensione solidale della città. Faremo esperienza della speranza portata da
testimoni di vera carità, di una Chiesa, come ricorda il Santo Padre Benedetto XVI, dove
non c’è periferia, perché dove c’è Cristo, lì c’è tutto il centro.13 Vogliamo tornare nelle nostre città
con una nuova consapevolezza, per cercare nuove vie da percorrere da cittadini, e non
più da anonimi abitanti; per costruire nel piccolo ambiente dell’università, associazione,
quartiere, parrocchia la nostra città dell’uomo. I lavori di questi giorni siano un viaggio
che ci aiuti a guardare alle nostre città con occhi diversi, imparando la strada da chi
affronta i nostri centri urbani da straniero, da ultimo, da emarginato perché sono questi
volti che ci insegnano, citando don Virginio Colmegna, a non essere sazi consumatori di
buone azioni, ma persone che sanno dire “ho fame”, che conoscono la mancanza e la ricerca.14 Buon
lavoro e buona ricerca a tutti noi.
BENEDETTO XVI, Risposte del Santo Padre alle domande dei giovani partecipanti alla veglia, Loreto, 1° settembre
2007.
14 V. COLMEGNA, Ho avuto fame, Sperling & Kupfer, Milano 2008, p. 9.
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