Blue Lagoon - Vininfriuli.com

Transcript

Blue Lagoon - Vininfriuli.com
Le origini di una bevuta
Rob Dunn, New Scientist, Regno Unito
Gli esseri umani hanno scoperto l’alcol almeno diecimila
anni fa. La sua diffusione è stata favorita da precisi
vantaggi evolutivi più che dagli effetti inebrianti della
sostanza.
Anche se voi siete astemi non potete negare che agli esseri umani piace bere. Consumiamo vino, birra,
sidro, liquori: di fatto, grazie alla fermentazione, siamo in grado di trasformare in alcol qualsiasi cosa.
Il perché desideriamo questa sostanza tossica, causa di tanti guai, è per certi versi un mistero. Forse è
sufficiente dire che beviamo perché ci fa sentire bene. Ma credo che per capire l’amore per l’alcol serva
una spiegazione più ampia, di tipo evolutivo. Quella dell’alcol è la storia della relazione intima tra
l’essere umano e i lieviti, un’avventura sentimentale che è cominciata milioni di anni fa e dura ancora
oggi. Ci piace pensare di essere le star di questa vicenda, ma il vero protagonista è il lievito. La nostra è
una relazione simbiotica, una collaborazione dai benefici reciproci. L’equilibrio tra le forze, però,
cambia continuamente. Alla fine, il lievito sembra aver avuto la meglio, almeno da quando i nostri
antenati hanno cominciato a produrre bevande alcoliche. Coltiviamo i lieviti, facciamo in modo che
sopravvivano e prosperino, e in cambio, al massimo, passiamo una bella serata (salvo poi smaltire i
postumi della sbornia la mattina dopo). C’è stato un tempo, però, in cui il lievito e l’alcol sono stati di
grande aiuto agli esseri umani.
Oggi i costi del consumo di alcolici superano spesso i benefici. Ma, dal momento che parliamo di
evoluzione, la storia non finisce qui. Alcuni rappresentanti della nostra specie hanno già sviluppato
delle caratteristiche genetiche che li spingono a bere di meno. Se la tendenza continuerà, forse un
giorno questa lunga e tempestosa relazione arriverà a una specie di tregua.
Non siamo l’unica specie che ama alzare il gomito. I moscerini della frutta consumano regolarmente
frutta fermentata, apparentemente senza ripercussioni negative sulle loro facoltà. Altri animali non
reggono altrettanto bene l’alcol. Il beccofrusone dei cedri è stato visto afflosciarsi tra i rami o andare a
sbattere contro le case dopo aver consumato qualche bacca di agrifoglio di troppo tra quelle mature.
Esistono racconti terrificanti (anche se poco circostanziati) di elefanti ubriachi. Ci sono addirittura casi
di creature che vanno a inebriarsi di proposito. La tupaia, la parente più prossima dei primati, si mette
ogni notte alla ricerca di un “vino” schiumoso prodotto dal lievito dei germogli di alcune palme.
Questi comportamenti possono essere rintracciati fino alla comparsa dei frutti, 130 milioni di anni fa,
quando nell’era cretacea si formarono le angiosperme. Con la disponibilità di una nuova fonte di cibo si
è sviluppata una specie di funghi, o lieviti, conosciuti come saccaromiceti, che nutrendosi delle piante
fiorite hanno acquisito una nuova capacità isiologica. Invece di usare la loro energia per scindere
completamente gli zuccheri, i saccaromiceti hanno imparato a romperli solo in parte, producendo etanolo di scarto quando la quantità di zuccheri è abbondante e l’ossigeno è scarso. La rottura parziale
degli zuccheri pregiati significa che questi lieviti sono meno efficienti rispetto ai loro antenati, ma che
hanno un grande vantaggio. L’etanolo, infatti, uccide quasi tutti i batteri, che si nutrono di frutta, perciò
la produzione di alcol permette ai lieviti di eliminare la competizione.
Fin dall’inizio i saccaromiceti si sono nutriti di frutti maturi, perché quelli acerbi erano spesso tossici.
Probabilmente, quindi, l’odore dell’etanolo è diventato un segnale universale del fatto che la frutta era
pronta per essere mangiata. Secondo Robert Dudley, dell’università di Berkeley, in California , la
selezione naturale ha favorito i primati e altri mammiferi che si nutrono di frutta e seguono l’odore
dell’etanolo per individuare i frutti commestibili nelle grandi foreste. Da questo, sostiene Dudley, si è
sviluppata un’affezione per l’odore che porta a provare sensazioni positive prima ancora di consumare
alcol. Secondo questa teoria, ogni volta che un primate sente l’odore dell’alcol si attiva un centro del
piacere nel suo cervello. Per inciso, noi primati forse non siamo soli in questo. Nella bocca del
moscerino della frutta c’è un recettore sensoriale, una specie di papilla gustativa dell’alcol. È stata
scoperta da uno studente che, in un momento di frustrazione, gli ha offerto della birra.
Dudley sostiene che i nostri antenati hanno cominciato a produrre alcol per assecondare la loro
preferenza sensoriale, non diversamente da come oggi coltiviamo la canna e la barbabietola da
zucchero per assecondare la nostra preferenza evolutiva per lo zucchero. Se questo è vero, allora l’alcol
è come tutte quelle cose che inizialmente ci danno dei benefici ma delle quali poi abusiamo. Non tutti,
però, ne sono convinti. Secondo Doug Levey, della National science foundation di Arlington, in Virginia, i primati non hanno mai avuto la tendenza innata a seguire l’odore dell’etanolo: la frutta che odora
di etanolo è già troppo matura. I nostri antenati, sostiene Levey, hanno cominciato ad apprezzare l’alcol
solo dopo aver imparato a produrlo in proprio. Per una combinazione neurologica, il liquore scatenava
sensazioni piacevoli che i primati cercavano di replicare fino a eccederne. Se Levey ha ragione, allora il
desiderio di alcol è più simile a quello di caffeina o di cocaina che a quello dello zucchero.
Il rilassamento del corpo
L’alcol produce effettivamente sensazioni piacevoli – su questo nessuno discute – attraverso la capacità
di legarsi ai recettori Gaba nel cervello. Normalmente questi recettori riducono l’attività dei neuroni su
cui sono posizionati. Ma quando si legano all’alcol, l’attività che fino a quel momento è stata tenuta a
freno si sprigiona provocando un rilassamento del corpo e delle inibizioni. Grazie a questo processo
sono stati concepiti tanti bambini, sono nate innumerevoli amicizie e si sono consumate infinite
riconciliazioni. Ma l’etanolo ci rende anche scoordinati, barcollanti, incoscienti e aggressivi. È causa di
incidenti, risse e persino guerre.
In generale, quindi, il consumo di alcol non era poi così vantaggioso per i nostri antenati che si
nutrivano di frutta. Ma – particolare interessante – ha cominciato a esserlo una volta che l’uomo ha
imparato a coltivare la terra. Agli albori dell’agricoltura, circa diecimila anni fa, alcune piccole
comunità stanziali cominciarono a far fermentare cibi e bevande. In questo modo riuscivano a
conservare quantità di grano in eccesso, in sostanza favorendo la produzione dei lieviti invece di batteri
che rovinavano gli alimenti. Il processo rendeva il grano più nutriente, perché durante la fermentazione
i lieviti producono altre sostanze nutritive, tra cui la vitamina B. È possibile che il consumo di alcol
abbia anche contribuito a favorire le interazioni sociali, destinate a diventare via via più complesse con
l’allargamento delle comunità. Cosa forse ancora più importante, la fermentazione era un modo per
sterilizzare i liquidi, perché l’etanolo uccide non solo i batteri (compresi quelli che provocano il colera)
ma anche altri agenti patogeni. Pare addirittura che alcuni animali lo usino per curarsi. Per esempio,
quando sono attaccati dalle vespe parassite, i moscerini della frutta consumano più alcol, che uccide le
vespe senza essere (quasi mai) fatale per loro. Nelle condizioni malsane in cui vivevano le prime
comunità stanziali le bevande fermentate avevano il vantaggio di essere sia nutrienti sia potabili: non
del tutto salutari, ma erano sempre meglio di quelle non fermentate.
Come abbiamo imparato a produrre alcol? Secondo la maggioranza degli antropologi i primi agricoltori
ci sarebbero arrivati per caso, scoprendo che il grano e l’orzo conservati nei magazzini venivano contaminati dai saccaromiceti. Ma c’è un’altra possibilità, più affascinante. L’antropologo Solomon Katz,
dell’università della Pennsylvania a Filadelfia, ritiene che la fermentazione sia arrivata per prima,
dando ai nostri antenati un forte incentivo a coltivare il grano per preparare bevande alcoliche. Il caso
vuole che il più antico contenitore per la raccolta dell’alcol ritrovato finora, risalente a settemila anni
fa, sia contemporaneo o addirittura antecedente alle prime tracce di attività agricola in Cina, dove è
stato scoperto.
Comunque, una volta imparato a ottenere l’alcol, i produttori si resero conto che poteva essere replicato
all’infinito semplicemente prelevando un campione da un liquido in fermentazione e usandolo per
avviare il procedimento in un nuovo lotto. Agli antichi birrai, probabilmente, sarà sembrata una
trasformazione magica, ma oggi sappiamo che le prime tinozze realizzate dagli esseri umani furono
colonizzate dal Saccharomyces cerevisae. Conosciamo anche il suo esatto codice genetico: è uno dei
primi organismi di cui è stato mappato il genoma. Sappiamo però ancora molto poco su alcune
questioni fondamentali, come la sua provenienza.
Il lievito di birra si è modificato molte volte, di pari passo con la diffusione dell’agricoltura e la nascita
di nuove culture umane. Nuove varietà, differenti tra loro come specie vere e proprie, sono emerse con
la produzione della birra e del vino in diverse regioni. Alcune di queste si sono modificate
ulteriormente, dando vita a un’ampia varietà di lieviti per il pane. Il lievito resistente al freddo che si
usa per fare la birra lager, prodotta per la prima volta in una grotta di frati in Germania, sarebbe
un’evoluzione risultante da un ibrido del Saccharomyces cerevisae e di una specie proveniente dalla
Patagonia. Misteriosamente tutto questo sarebbe successo più di cento anni prima che gli europei
sbarcassero nel nuovo mondo. Con il passare degli anni, nel Regno Unito e non solo, i birrai hanno
cominciato a usare una tipologia completamente diversa di lieviti, i brettanomiceti, che hanno la
capacità di produrre alcol indipendentemente dai saccaromiceti, da cui si sono separati duecento
milioni di anni fa. I brettanomiceti sono usati nella produzione di varie birre speciali e danno alla
bevanda un insolito sapore amarognolo e pungente.
La formica tagliafoglie
Senza dubbio l’essere umano ha influenzato la diversificazione evolutiva dei lieviti, ma dire che
abbiamo indirizzato consapevolmente questo processo è comedire che le isole Galapagos hanno
controllato direttamente l’evoluzione dei fringuelli di Darwin. Spesso i lieviti, come altri funghi,
interagiscono in modo simbiotco con altre specie. La formica tagliafoglie, per esempio, dà dei
pezzettini di foglia in pasto ai funghi che crescono nella sua tana, i quali a loro volta producono degli
organismi fruttiferi mangiati dai piccoli delle for- miche. Il coleottero dell’ambrosia (Xyleborus
glabratus) trasporta dei funghi all’interno di piccole sacche e poi, una volta cresciuti, li depone sul
legno secco, dando nutrimento alle sue larve. In questo e in altri casi si dice che gli animali hanno
addomesticato i funghi, ma forse è vero il contrario. A ben vedere gli animali sono costretti ad andare
alla ricerca di cibo e a trasportarlo, mentre i funghi semplicemente si nutrono, crescono e si
riproducono. Allo stesso modo i distillatori devono lavorare duramente per far sì che i lieviti crescano
bene. Inoltre, le varietà di lieviti che sfruttano di più il lavoro degli esseri umani sono anche quelle che
hanno maggiori probabilità di sopravvivere. Tra queste ce ne sono alcune che si sono evolute in modo
da sopportare una più alta concentrazione di alcol, producendo distillati più potenti e spingendoci a
lavorare ancora di più per coltivarle.
I lieviti, per altro, hanno contribuito direttamente alla nostra evoluzione. Un cambiamento
fondamentale ha avuto luogo molto tempo fa, determinando una netta differenziazione tra gli esseri
umani e gli altri primati nei livelli dell’enzima che agisce sull’alcol e nei punti dell’organismo in cui
esso si raccoglie. Negli altri primati l’alcol deidrogenasi si trova in tutto il corpo. La cosa non
sorprende, visto che l’etanolo è un prodotto di vari processi corporei e che quindi quasi tutte le cellule
vi entrano in contatto. Anche nel nostro corpo è così, ma ce n’è una concentrazione sproporzionata nel
fegato, dove va a finire l’alcol che ingeriamo. Man mano che i nostri antenati hanno aumentato il
consumo di alcol sono aumentati anche i pericoli: un livello di alcol nel sangue dello 0,4 per cento è
considerato letale in un essere umano adulto. Quelli che sopravvivevano alle sbronze, di solito,
avevano più alcol deidrogenasi nel fegato perché riuscivano a smaltire l’alcol più rapidamente. Oggi il
10 per cento degli enzimi mediamente presenti nel fegato di un individuo è dedicato a metabolizzare
l’etanolo.
Data l’antica relazione tra gli esseri umani e il lievito di birra, non è un caso che gli uni abbiano
influenzato l’evoluzione dell’altro e viceversa. Il processo è tuttora in corso. Nessuna relazione
simbiotica è semplice, perché i costi e i benefici reciproci variano in base al tempo e al contesto. Forse
un tempo l’alcol era una spia della maturità dei frutti e probabilmente agli albori dell’agricoltura ci ha
aiutato a sopravvivere. Poi questo equilibrio si è modificato via via che è diminuita l’incidenza delle
malattie trasmesse attraverso l’acqua ed è diventato più facile coltivare i lieviti, che a loro volta hanno
reso i prodotti alcolici più inebrianti. Bere di tanto in tanto può ancora avere dei vantaggi:
periodicamente sono pubblicati studi da cui emerge che un bicchiere di vino o, più raramente, di birra,
fa bene alla salute. Ma a livello sociale oggi i costi dell’alcol superano i benefici, sia per quanto
riguarda l’aspettativa di vita sia per l’impatto economico: nel 2010 l’alcol è stato il terzo fattore di
rischio per la salute a livello globale, con 4,9 milioni di morti in tutto il mondo, e il consumo patologico
di alcolici provoca co- sti pari a centinaia di miliardi di dollari all’anno.
In alcune parti del mondo questi costi sono noti da diverse generazioni, tanto da aver determinato una
nuova evoluzione della specie. Questa volta la selezione naturale ha favorito un diverso tipo di
adattamento che spinge gli individui a consumare meno alcol. Per metabolizzare l’etanolo servono due
enzimi: l’alcol deidrogenasi, che trasforma l’etanolo in acetaldeide, e l’aldeide deidrogenasi, che
converte l’acetaldeide in acido carbossilico. Questa collaborazione tra enzimi esiste in quasi tutti gli
organismi, compresi molti batteri, ma in alcune popolazioni dell’Asia orientale, tra cui gran parte dei
cinesi e dei giapponesi, il gene dell’aldeide deidrogenasi è “rotto”. Quando i portatori di questo gene
rotto consumano alcol, l’ubriachezza arriva prima, il viso si arrossa, le palpitazioni aumentano e
subentra un senso di nausea.
A livello geografico e temporale questa mutazione genetica è andata di pari passo con la diffusione
della coltura del riso e del vino di riso, riconducibile a un’epoca compresa tra i settemila e i diecimila
anni fa. Secondo i ricercatori si sarebbe sviluppata per un motivo preciso, tanto che una volta emersa si
è poi diffusa in modo insolitamente rapido. Le popolazioni dell’Asia orientale, sostiene la teoria,
pativano a tal punto le conseguenze negative dell’alcol che gli individui fisiologicamente portati a non
eccedere nel consumo avevano maggiori probabilità di sopravvivere. Da questo punto di vista la
variazione “morigerata” del gene sarebbe stata favorita sia dalla selezione naturale sia da quella
sessuale, ammesso che un ubriaco rubizzo abbia meno probabilità di trovare un partner.
Dal momento che l’evoluzione non si ferma mai, è interessante ipotizzare che anche in questo
momento diverse mutazioni “morigerate” si stiano diffondendo tra le popolazioni della Terra. Se questo
è vero, allora un giorno la nostra storia d’amore con l’alcol potrebbe finire, anche se non bisogna
sottovalutare l’intelligenza evolutiva dei lieviti. Nel frattempo i lieviti per la produzione di alcol
continuano a evolversi, al pari della nostra consapevolezza dell’intima relazione che ci lega a loro.
Nonostante la storia che ho raccontato, in un bicchiere si nascondono più questioni irrisolte che risolte.
Pertanto, finché possiamo, alziamo il calice e brindiamo ai lieviti. Che dio li fulmini, e li benedica!
L’AUTORE
Rob Dunn è un biologo e insegna all’università del North Carolina di Raleigh.