Untitled - Rizzoli Libri

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Lo sviluppo del cervello può essere definito come il graduale dispiegarsi di una rete potente e autorganizzata di
processi con complesse interazioni tra i geni e l’ambiente.
KARNS E ALTRI, 11 LUGLIO 2012,
The Journal of Neuroscience,
“Elaborazione crossmodale alterata” [titolo tronco]
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4-5 GIORNI DI RECLUSIONE
Me ne stavo sdraiata il quarto giorno a macchinare la sua
morte. A raccogliere possibili risorse in un elenco mentale. Pianificare mi dava sollievo... Un’asse del pavimento staccata, una
coperta rossa fatta a maglia, una finestra alta, travi a vista, una
serratura, le mie condizioni...
Ricordo i pensieri di allora come se li rivivessi ora, come se
fossero i miei pensieri di adesso. Eccolo di nuovo fuori dalla
porta, penso, anche se sono passati diciassette anni. Forse quei
giorni saranno per sempre il mio presente, perché sono sopravvissuta davvero durante ogni frammento di ora e di secondo in
cui programmavo la mia accurata strategia. Durante il tempo
indelebile dello strazio, ero completamente sola. E devo ammetterlo, non senza orgoglio: il risultato che ottenni, la mia innegabile vittoria, fu un autentico capolavoro.
Il Giorno 4 ero già a buon punto con l’elenco delle mie
risorse e un abbozzo di vendetta, il tutto senza avere nemmeno
una matita, ma soltanto un bloc-notes mentale sul quale imbastire delle possibili soluzioni. Era un rompicapo, lo sapevo, ma
uno che ero decisa a risolvere... Un’asse del pavimento staccata,
una coperta rossa fatta a maglia, una finestra alta, travi a vista,
una serratura, le mie condizioni... Come faccio a metterli insieme?
Ricomposi quell’enigma più e più volte, cercando altre
risorse. Ah, sì, il secchio. E sì, sì, sì, la base del letto, è nuova, non
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gli ha tolto la plastica. Okay, da capo, riprendi tutto da capo, fatti
venire un’idea. Travi a vista, un secchio, il letto, la plastica, una
finestra alta, un’asse del pavimento staccata, una coperta rossa
fatta a maglia, il...
Le numerai per inquadrarle meglio. Un’asse del pavimento
staccata (Risorsa n. 4), una coperta rossa fatta a maglia (Risorsa
n. 5), plastica... All’inizio del Giorno 4 la raccolta pareva finita
così. Avevo bisogno di altro, pensai.
Lo scricchiolio del pavimento di pino fuori dalla mia cella,
una camera da letto, mi interruppe intorno a mezzogiorno. È
di sicuro lì fuori. Il pranzo. Il catenaccio si mosse da sinistra a
destra, la serratura girò, e lui piombò dentro senza avere nemmeno la decenza di fermarsi sulla soglia.
Come faceva a ogni pasto, mi lasciò sul letto il vassoio con il
cibo che ormai conoscevo, una tazza bianca con del latte e un
bicchiere di acqua taglia bambino. Niente posate. La fetta di
quiche con la pancetta urtò sul piatto il pane fatto in casa; il
piatto era un disco di porcellana dal motivo rosa toile de jouy,
c’erano sopra una donna con una brocca e un uomo dal cappello piumato che teneva un cane. Provavo un odio talmente
innaturale per quel piatto che al ricordo rabbrividisco. Dietro
c’era scritto «Wedgwood» e «Salvator». Questo sarà il quinto
pasto verso la salvezza. Odio questo piatto. Farò fuori anche lui.
Il piatto, la tazza e il bicchiere sembravano gli stessi che avevo
usato a colazione, pranzo e cena del Giorno 3 di reclusione. I
primi due giorni li avevo trascorsi in un furgone.
«Ancora acqua?» chiese lui con la sua voce brusca, sorda e
bassa. Monocorde.
«Sì, grazie.»
Cominciò a seguire quello schema il Giorno 3; fu questo,
credo, che diede davvero avvio alla mia macchinazione. La
domanda entrò a far parte della routine, con lui che mi portava
il pasto e chiedeva se volevo altra acqua. Decisi di accettare
quando me lo chiedeva e mi costringevo a dire «sì» ogni volta,
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anche se era un copione senza senso. Perché non porta un bicchiere più grande fin da subito? Perché questa inefficienza? Se ne
va, chiude a chiave la porta, le tubature rumoreggiano nelle pareti
del corridoio, uno spruzzo e poi un getto d’acqua nel lavandino,
non visibile a chi guarda dalla serratura. Torna con un bicchiere
di plastica pieno di acqua tiepida. Perché? Posso dirvi questo:
molte questioni nel nostro mondo rimangono oscure, proprio
come i percorsi logici che guidavano molte azioni del mio carceriere.
«Grazie» dissi quando tornò.
Avevo deciso dall’Ora 2 del Giorno 1 che avrei cercato di
simulare le buone maniere di una studentessa, mostrando riconoscenza, perché avevo presto scoperto di poter essere più
furba del mio rapitore, un uomo sulla quarantina. Deve averne
quaranta e rotti, più o meno come mio padre. Sapevo di avere le
facoltà mentali per sconfiggere quell’essere orrendo, disgustoso, e avevo appena compiuto sedici anni.
Il pranzo del Giorno 4 aveva lo stesso sapore di quello del
Giorno 3. Ma forse il cibo mi fornì quello di cui avevo bisogno,
perché mi resi conto che disponevo di molte risorse in più:
tempo, pazienza, un odio infinito, e mentre bevevo il latte dalla
solita, spessa tazza di un ristorante, notai che il secchio aveva
un manico di metallo dalle estremità appuntite. Devo solo staccare il manico. Può diventare una risorsa separata dal secchio. Per
di più mi trovavo a un piano alto dell’edificio, non sottoterra
come avevo ipotizzato nei Giorni 1 e 2. A giudicare dalla cima
dell’albero oltre la finestra e dalle tre rampe di scale che ci
erano volute per arrivare, dovevo essere al terzo piano. Consideravo l’altezza un’altra risorsa.
Strano, vero? Fino al Giorno 4 non mi ero ancora annoiata.
Qualcuno potrebbe pensare che starsene seduti da soli, chiusi
in una stanza, spinga la mente alla demenza o al delirio. Ma ero
stata fortunata. Avevo trascorso i primi due giorni in viaggio, e
a causa di uno sbaglio marchiano, o di un grave errore di valu13
tazione, il mio carceriere aveva usato un furgone per il reato e
quel furgone aveva i finestrini laterali oscurati. Certo, nessuno
poteva vedere all’interno; io però vedevo fuori. Studiai e affidai
il percorso al diario di bordo della mia mente, dettagli in realtà
che non usai mai, ma l’azione di trascrivere e imprimere i dati
a eterna memoria mi occupò i pensieri per giorni.
Se mi domandaste oggi, diciassette anni dopo, quali fiori
crescevano accanto alla rampa dell’Uscita 33, vi direi margheritine mescolate a una generosa dose di sparvieri aranciati. Vi
dipingerei il cielo, un nebbioso blugrigio che si scioglieva in
sbaffi color fango. Ricostruirei anche l’evento improvviso:
quel temporale che scoppiò 2,4 minuti dopo che avevamo
superato la chiazza fiorita, quando la massa nera sopra le nostre
teste si aprì e venne giù una pioggia di grandine primaverile.
Vedreste i chicchi di ghiaccio grandi come piselli che costrinsero il mio rapitore ad accostare sotto un cavalcavia, a dire
«cazzo» tre volte, fumare una sigaretta, gettare fuori il mozzicone e rimettersi in marcia 3,1 minuti dopo che il primo chicco
aveva urtato il tetto di quel furgone criminale. Trasformai quarantotto ore di dettagli sul tragitto in un film che rividi ogni
singolo giorno della mia reclusione, analizzandone ogni
minuto, ogni secondo, un’inquadratura dopo l’altra, a caccia
di indizi e risorse e analisi.
Il finestrino laterale del furgone e il fatto che mi avesse
lasciata lì seduta, in grado di studiare il percorso, mi portarono
a una rapida conclusione: il responsabile della mia prigionia
era uno scimmione senza cervello che agiva con il pilota automatico, un soldato robot. Ma io me ne stavo seduta comoda in
una poltrona che aveva fissato al pianale del furgone. Basti dire
che, nonostante le sue numerose lamentele per la mia benda
che cedeva, fu troppo pigro o troppo distratto per stringere la
tela cerata come si deve, perciò io mi resi conto di dove stavamo andando dai cartelli che sfilavano: eravamo diretti a
ovest.
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Dormì 4,3 ore la prima notte. Io ne dormii 2,1. Imboccammo
l’Uscita 74 dopo due giorni e una notte di viaggio. E non sognatevi di chiedermi quanto fossero imbarazzanti le soste per
andare in bagno nelle piazzole deserte.
Alla fine del viaggio il furgone scese lentamente la rampa
d’uscita, e io decisi di contare per gruppi di sessanta. Un Mississippi, Due Mississippi, Tre Mississippi... 10,2 gruppi di Mississippi più tardi parcheggiammo, e il motore borbottò fino a
spegnersi. 10,2 minuti dall’autostrada. Dall’angolo superiore
della benda lasca scorsi un campo avvolto in un grigio crepuscolare e glassato da una striscia bianca di luna piena. I rami
esili e ruvidi di un albero lambivano il furgone. Un salice. Come
dalla nonna. Ma questa non è la casa della nonna.
È di fianco al furgone. Sta venendo a prendermi. Dovrò uscire
dal furgone. Non voglio uscire dal furgone.
Sobbalzai sentendo il sonoro strisciare del metallo sul
metallo e il colpo secco della portiera che si apriva. Ci siamo.
Mi sa che ci siamo. Ci siamo. Il mio cuore frullava al ritmo delle
ali di un colibrì. Ci siamo. Il sudore si addensava all’attaccatura
dei capelli. Ci siamo. Le mie braccia si paralizzarono, e le spalle
si drizzarono, rigide, formando una T con la colonna vertebrale.
Ci siamo. E di nuovo il cuore: avrei potuto provocare un terremoto, avrei potuto provocare uno tsunami, con quel ritmo.
Una brezza di campagna soffiò nel furgone come superando
il mio rapitore, come per confortarmi. Per un rapido istante fui
immersa in una carezza dolce, ma la presenza di lui incombeva
e ruppe subito l’incantesimo. Non lo vedevo bene, ovviamente,
data la benda mezza su e mezza giù, eppure lo avvertivo tergiversare, e fissarmi. Chissà cosa ti sembro. Solo una ragazzina
legata alla poltrona con lo scotch telato nel retro del tuo furgone
di merda? Ti sembra normale? Stronzo di un imbecille.
«Tu non strilli, non piangi, non mi supplichi come hanno
fatto le altre» disse lui con il tono di chi ha avuto un’illuminazione che attendeva da giorni.
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Voltai la testa di scatto verso la sua voce come un’ossessa,
con l’intenzione di innervosirlo. Non so se ci riuscii, ma sussultò appena, almeno credo.
«Ti farebbe sentire meglio?» chiesi.
«Chiudi quella cazzo di bocca, stronzetta. Non me ne frega
un cazzo di cosa fate voi puttane di merda» disse forte e spedito,
come per ricordare a se stesso la sua posizione dominante.
Dall’intensità dei decibel con cui si agitava dedussi che eravamo soli, ovunque ci trovassimo. Non è un bene. Grida senza
farsi problemi. Siamo soli. Noi due e basta.
Dall’inclinazione del furgone capii che aveva afferrato il
telaio della portiera e si stava issando all’interno. Grugnì per lo
sforzo, e a me non sfuggì il suo affannoso respiro da fumatore.
Il classico porco, grasso e inutile. Mi si avvicinarono delle ombre,
i suoi movimenti, e un oggetto metallizzato aguzzo che aveva
in mano brillò sotto la luce che pioveva dall’alto. Non appena
entrò nel mio spazio, sentii il suo odore: un sudore stantio, il
fetore nauseabondo intrappolato in un corpo dopo tre giorni.
Il suo fiato puzzava di marcio. Feci una smorfia, mi voltai verso
il finestrino oscurato, e mi tappai il naso trattenendo il respiro.
Tagliò il nastro adesivo che mi legava alla poltrona e mi mise
in testa un sacchetto di carta. Ah, alito di merda, allora ti sei reso
conto che la benda non serve.
A mio agio in quella situazione disgraziata che, dalla mia
poltrona da viaggio, ero arrivata ad accettare, non avevo la benché minima idea di cosa mi aspettasse. Eppure non mi opposi
a spostarci in quella che doveva essere una fattoria. Visto l’odore lasciato dalle mucche che pascolavano di giorno e i fili
d’erba e gli steli che mi frustavano le gambe, immaginai che ci
stessimo inoltrando in un prato destinato alla produzione del
fieno o in un campo di grano.
L’aria notturna del Giorno 2 mi rinfrescava le braccia e il
petto, infilandosi sotto l’impermeabile nero foderato. Nonostante il sacchetto che avevo in testa, e quella specie di benda
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che mi aveva messo sugli occhi, scorgevo la luce della luna che
illuminava il cammino. Con la sua pistola puntata alla schiena,
e procedendo un po’ alla cieca perché avevo soltanto la luna
come guida, arrancammo tra gli steli di un qualche cereale
americano per un intervallo di sessanta. Alzavo le ginocchia,
per contare; lui si trascinava, dietro di me, il passo tipico di un
uomo con un’arma. Perciò la nostra marcia di coppia suonava
più o meno così: uno, schh, due, schh, tre, schh, quattro.
Feci un paragone tra il mio penoso incedere e la morte per
annegamento dei marinai costretti a camminare lungo la passerella protesa fuori bordo prima di finire in acqua, e accantonai in un angolo della mente la mia prima risorsa: terraferma.
Poi il terreno cambiò, e non avvertii più la presenza della luna.
Il suolo cedeva un po’ sotto i miei piedi, che spingevo a terra
senza necessità alcuna, e a giudicare dai sassolini che mi colpivano le caviglie immaginai di trovarmi su una specie di sentiero.
I rami degli alberi mi graffiavano le braccia a destra e a sinistra.
Niente luce + niente erba + sentiero + alberi = bosco. Non è
un bene.
Fu come se le pulsazioni del collo e il battito cardiaco prendessero ritmi diversi quando mi tornò in mente la storia vista
al telegiornale di un’adolescente che avevano ritrovato nei
boschi di un qualche Stato, lontano da casa mia. Quella tragedia allora mi era sembrata così distante, così distaccata dalla
realtà. Le avevano amputato le mani, l’avevano violentata, poi
avevano buttato il suo cadavere in una buca poco profonda. Il
peggio erano i segni lasciati dai coyote e dai puma, che si erano
presi la loro parte sotto lo sguardo malefico dei pipistrelli
dall’occhio diabolico e le occhiate lugubri degli uccelli notturni. Dacci un taglio... conta... ricordati di contare... tieni il
conto... concentrati...
Quegli spaventosi pensieri mi avevano distratta. Ho perso il
conto. Scacciando l’orrore mi feci forza, presi una boccata d’aria, e rallentai il colibrì che avevo nel petto, come mi aveva
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insegnato mio padre durante le nostre lezioni di jiujitsu e tai
chi, e come avevo imparato dai libri di medicina che tenevo nel
mio laboratorio, giù nel seminterrato.
Considerata la fitta di paura che mi aveva colta entrando nel
bosco, corressi il conto aumentandolo di tre cifre. Dopo una
serie di sessanta nel folto del bosco, ci spostammo nell’erba
corta e di nuovo sotto la luce scoperta della luna. Dev’essere una
radura. Non è una radura. Cos’è? Asfalto. Perché non abbiamo
parcheggiato qui? Terraferma, terraferma, terraferma.
Passammo di nuovo nell’erba corta e ci fermammo. Le chiavi
sferragliarono; una porta si aprì. Per non rischiare di scordarmi
i numeri, calcolai e annotai mentalmente il tempo complessivo
del percorso dal furgone alla porta: 1,1 minuti, a piedi.
Non ebbi la possibilità di esaminare l’esterno della costruzione in cui entrammo, ma immaginai una casa bianca di campagna. Il mio rapitore mi condusse subito su per le scale. Una
rampa, due rampe... Arrivati al terzo piano, svoltammo di quarantacinque gradi a sinistra e, fatti tre passi, ci fermammo di
nuovo. Le chiavi sbatacchiarono. Un chiavistello scivolò. Una
serratura scattò. Una porta cigolò. Mi tolse il sacchetto e la
benda dagli occhi e mi spinse nel perimetro della mia reclusione, un locale di 3,5 × 7 metri, senza via di scampo.
La stanza era illuminata dalla luna grazie a un’alta finestra
triangolare, a destra della porta. Di fronte c’era un letto matrimoniale costituito da un materasso e da una base imbottita
appoggiata direttamente a terra, e stranamente tutt’intorno c’erano i pezzi di legno che avrebbero dovuto sostenerla, le sponde
e le doghe e tutto il resto. Come se qualcuno si fosse stancato,
o avesse dimenticato di montarle. Perciò in un certo senso il
letto era come la tela di un quadro non fissata alla cornice, una
cosa un po’ storta all’interno di un’intelaiatura. Un copriletto
bianco, un unico cuscino e una coperta rossa fatta a maglia
completavano quel giaciglio di fortuna. In alto correvano tre
travi a vista, parallele alla porta: una in corrispondenza della
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